Streghe e Sciamane

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Streghe e sciamane.

La religione delle donne


dalla Lapponia alle Alpi
Michela Zucca

Bisogna ammettere che gli stregoni erano un tempo molto meno numerosi di quanto
non siano oggi. Stavano in disparte nelle montagne e nei deserti, oppure nei paesi del
Settentrione come la Norvegia, la Danimarca, la Svezia, la Gotia, l’Irlanda, la
Livonia: perciò le loro idolatrie e i loro malefizi erano largamente sconosciuti, e
spesso venivano ritenuti favole o racconti di vecchie (1).

E’ Pierre de Lancre, uno fra i più feroci persecutori di streghe di tutti i tempi, che, a
distanza di quasi quattrocento anni, ci rimanda l’immagine di un rapporto stretto che
lui, fine conoscitore dell’offensiva lanciata da Satana contro il genere umano, non
fatica a distinguere. E così, accosta le seguaci di Diana dei Pirenei francesi agli
sciamani lapponi descritti da Olaus Magnus e da Peucer. Individuando un tratto
comune, caratteristico di entrambe le culture, quella genericamente stregonesca e
quella nordica: la trance, l’estasi diabolica, che da qualcuno viene interpretata come la
capacità dell’anima di uscire dal corpo, per “mettersi in viaggio”.
Dopo quattro secoli, sulla scia delle ricerche pionieristiche di Carlo Ginzburg,
approfittando della permanenza a più riprese in Lapponia quale project manager di un
progetto europeo, dal 1999 al 2001, che mi ha consentito di svolgere lavoro di campo
come antropologa e ricercatrice culturale, cercherò di riannodare le fila di un’antica
trama, che dalla Siberia avvolge l’Europa fino all’Irlanda, percorrendo i sentieri
dell’immaginario e della ritualità. Ricordi archetipi, sfocati, che si sono conservati
principalmente sulle Alpi e sui Pirenei, le montagne che sono riuscite, più di altri
territori, a mantenere un substrato cultuale arcaico, di origine misteriosa, che si
traduce in riti e tradizioni che rimandano ad un passato animista e sciamanico.
Anni in cui era la donna che amministrava il potere supremo. Come sacerdotessa, ma
anche come divinità. E come madre.

L’Europa dei nomadi

Uomini che non hanno né città né mura fortificate, ma portano con sé le proprie case
e sono tutti arcieri a cavallo e vivono non di agricoltura, ma di allevamento, e hanno
le loro case sui carri, come potranno non essere invincibili e inattaccabili? (2)

Un tempo si pensava che l’evoluzione delle società umane fosse caratterizzato da vari
stadi successivi: prima i cacciatori-raccoglitori, poi i pastori (entrambi nomadi) e
infine gli agricoltori (3). In realtà, queste classificazioni un’invenzione dei sedentari:
le popolazioni che occupano territori ampi e difficili quasi sempre hanno appartenuto
alle tre categorie insieme. E, se necessario, sono passate dall’una all’altra con relativa
facilità.
A guardar bene, l’Europa preistorica sembra percorsa in lungo e in largo da genti che
si spostano e si rimescolano continuamente, tramite migrazioni epocali ad ondate che
si trascinano dietro miti e culture. Quando si pensa al Vecchio continente di millenni e
millenni fa, lo si immagina vuoto, attraversato da orde che, in mancanza di meglio, si
fanno genericamente provenire da un non meglio identificato ”bacino dell’Indo”, da
cui sarebbe stata originata la “civiltà indoeuropea”, come se l’umanità fosse nata là e,
a poco a poco, avesse popolato un mondo vuoto. In realtà, questa è solo una
supposizione: di sicuro, la realtà è molto più complessa. Perché, mentre la
navigazione per mare presuppone un punto di partenza e un punto di arrivo in cui chi
viaggia rimane uguale a se stesso, il tragitto degli uomini e delle forme nella steppa
avviene con movimenti browniani: scambi, fusioni, contaminazioni che confondono le
piste, fanno perdere le tracce. Ciò che parte non è mai esattamente ciò che arriva.
Esaminando i ritrovamenti fossili oltre che archeologici, si sa che, con il lento ritiro
dei ghiacci, le renne e parte delle tribù cacciatrici, che su questo animale totemico
basavano la propria alimentazione e identità, si spostano verso nord. Chi rimane si
fonde con chi viene da sud, cioè dal Mediterraneo. Alla renna, che non è bestia di
montagna, subentra, nelle valli alpine ora abitabili, il cervo, che diventa anche
simbolo di fertilità. Ciò può essere dimostrato analizzando le tecniche di caccia delle
popolazioni polari, basate sull’impiego di esche sessuali, per cervi, alci, bovini
selvatici, che, fino al Medio Evo erano diffuse molto più a sud, fino alla Germania (4).
Secoli e secoli più tardi, dall’VIII sec. a.C. popolazioni nomadi provenienti dalle
steppe dell’Asia centrale, dall’Altai e dalla Siberia, cominciarono a compiere
incursioni ai confini dell’altopiano iranico, a occidente, e nella fascia compresa fra la
Mongolia e la Cina, a oriente. . Fra loro, gli Sciti, di matrice sicuramente protoceltica,
si stabilirono, alla fine, nel Caucaso e sul Mar Nero. All’inizio del VI sec. a.C. nuclei
consistenti di Sciti lasciarono le rive del Mar Nero e si spostarono verso occidente.
Varcarono il Dniestr e il Danubio, per insediarsi in Dobrugia. Dove si trovavano già i
Traci, che riconobbero la supremazia degli Sciti. Qui confluirono, all’inizio del IV
sec., tribù celtiche che, dopo aver investito una parte della penisola balcanica,
fondarono colonie in Asia Minore. Tutto ciò è documentato dal IV libro di Erodoto,
dedicato, appunto, agli Sciti; e da un’incredibile somiglianza delle forme artistiche in
cui si esprimevano queste antiche genti: un figurativismo animalista e fantastico, dove
si distinguono esseri che ancora oggi appartengono al folklore delle popolazioni
alpine: draghi, sirene, leoni alati, grifoni…..
Il territorio dei nomadi copre una fascia erbosa nel cuore del continente euroasiatico,
tra il 40° e il 50° parallelo, che corre dal Fiume Giallo al Danubio per più di 5mila
chilometri. L’immagine fisica che ci restituisce, ad ovest della steppa, l’arte greco-
romana, con una precisione quasi etnografica, è quella di uomini dai lunghi capelli
lisci, spesso barbuti e baffuti, con il volto ovale e un naso diritto molto marcato. Tutti
i testi, greci o cinesi che siano, suggeriscono una predominanza di capelli biondi o
rossi e una carnagione chiara, per non dire lattea (5). Gli Sciti, come, d’altra parte, i
Celti, straordinariamente affini come tratti somatici e acconciature, indossano un
indumento caratteristico, sconosciuto ai Greci e ai Romani: i pantaloni. Oltre ad un
lungo copricapo a cono: quello attribuito dalla tradizione a Merlino, ai maghi, agli
gnomi, alle fate.
La steppa unisce e non divide, neppure d’inverno: anzi, le immense torbiere
acquitrinose che dalla Lapponia si estendono fino a Vladivostok erano sicuramente
più trafficate nei mesi freddi, sulle slitte trainate dalle renne prima che dai cani, che si
muovevano agevolmente sui ghiacci, piuttosto che d’estate, periodo in cui la melma e
le zanzare rendevano difficoltosi gli spostamenti. Ricordiamo Caterina di Russia, che
per raggiungere il promesso sposo (e diventare imperatrice) preferisce viaggiare a
temperature polari, sepolta sotto le pellicce, per non subire i disagi di probabili derive
nel fango.
La sequenza delle migrazioni, quindi, potrebbe essere stata questa: nomadi delle
steppe e dell’artico-Sciti-Traci-Celti, a sud; nomadi delle steppe-Sami a nord.
Le Alpi dei nomadi

L’erranza, l’abitudine al viaggio, la capacità di sopportare la solitudine per lungo


tempo, di misurarsi con lo “spazio vuoto” (la prateria d’alta quota, il ghiacciaio),
considerato parte del proprio universo territoriale, insostituibile e bello anche se
pericoloso, come la steppa gelata, o il deserto, l’abilità di parlare più lingue e di
riconoscere immediatamente il proprio simile, come anche la marginalità, talvolta
volontaria; e poi l’isolamento, la disponibilità a dare rifugio al perseguitato, non sono
solo condizioni imposte da un ambiente difficile, o reazioni di difesa ad una società
ostile che tenta la conquista e l’assimilazione. Sono coordinate culturali, che, nella
loro presenza o assenza, distinguono i popoli stanziali, le società gerarchizzate in cui
esiste solo la proprietà privata della terra, dalle tribù nomadi, che si spostano su
estensioni enormi di uso collettivo (ma non per questo non regolate). Un certo tipo di
determinismo ottocentesco vedeva nel nomadismo la manifestazione eclatante della
soggezione dell’uomo alla natura. Ed anche quando vi si riconosceva una cultura,
questa sembrava troppo esile, di scarso spessore, incapace di superare i
condizionamenti dell’ambiente, inconsistente. Oggi, questa affermazione va
capovolta. Proprio una civiltà originale e specifica, dotata di valori propri, autonomi,
identitari, ha consentito alle comunità migranti di vivere in territori sconfinati, in cui
le risorse erano disperse su estese distanze o a vari livelli altimetrici; di mediare fra
storia ed ecologia.
Per tutti questi motivi, al di là del pastore in senso stretto, mestiere specializzato che

in molte zone delle Alpi è di origine recente, possiamo trattare, antropologicamente, la


maggior parte delle genti alpine come assimilabili, culturalmente, alle zone in cui si
praticava o si pratica ancora la pastorizia transumante. Cioè possiamo considerarle
nomadi. Basti guardare alla storia dell’emigrazione ottocentesca in Italia: a parità di
condizioni di vita, chi ha scelto di imbarcarsi non sono stati i proletari e sottoproletari
urbani, o gli abitanti delle pianure e delle coste: sono stati i montanari, che venissero
dalle Alpi o dagli Appennini. Eredi di una cultura nomade, che considerava normale

Il grafico è tratto da Eugenio Turri, Gli uomini delle tende, Edizioni di Comunità, Milano, 1983
1. Nomadismo arabo sahariano o nomadismo beduino (o beduinizzante)
2. Nomadismo saheliano
3. Nomadismo degli altipiani montuosi irano-anatolici
4. Nomadismo delle steppe asiatiche boreale
5. Nomadismo boreale degli allevatori di renne
6. Nomadismo alpino, balcanico e mediterraneo
7. Grandi muraglie per difendersi dai nomadi

lo spostamento. La casa non era un particolare posto o edificio: il concetto di “casa”


comprendeva l’intero territorio che l’occhio poteva abbracciare (“le mie montagne”).
Proprio per questo, una delle caratteristiche fondamentali e tipiche dei popoli alpini
sarebbe, secondo Sebesta, la non sedentarietà, tanto che il nomadismo si è conservato
nelle pratiche dell’alpeggio e della transumanza, oltre che dell’emigrazione
stagionale, e del quasi monopolio di molti mestieri specializzati, sia maschili che
femminili, che causavano spostamenti continui e prolungati; così come nei
pellegrinaggi transavallivi, che portavano uomini e donne lungo interminabili sentieri
tracciati su piste preistoriche, ad adorare e a propiziarsi le divinità (quasi sempre
femminili) dei monti e delle cime trasformate in Madonne sante e vergini.
Dall’antichità, e in molti casi anche adesso, dove continua la tradizione dell’alpeggio,
la transumanza verso i pascoli alti non è svolta da professionisti: questo presuppone
già un’economia che ha superato la fase della sussistenza, per entrare, in qualche
misura, sul mercato. Al contrario, gran parte dell’alpicoltura è portata avanti (dalle
donne) come appoggio al bilancio familiare, non si serve di salariati ma si esaurisce
all’interno della famiglia. Ragion per cui quando si spostano le mucche, e cioè due
volte all’anno, trasloca il paese, spesso anche il prete: chi ha bestie, per dar loro da
mangiare l’erba fresca; i figli seguono le madri; gli altri, vanno in villeggiatura per
non stare “al piano” da soli. In ogni modo, ci si muove con tutte le masserizie, e sono
principalmente le donne che iniziano lo spostamento: una volta si mettevano viveri e
figli piccoli nella gerla, poi in macchina, negli ultimi anni si usa perfino l’elicottero:
ma fermi, mai. Gli uomini raggiungono le mogli nei fine settimana, perché di solito
hanno un lavoro fisso “nel piano”, che non possono abbandonare perché rappresenta
l’entrata cash sicura.
Anche se oggi quasi nessuno lavora più la campagna, l’abitudine e l’attitudine allo
spostamento sono duri da cacciar via dalla sensibilità: e quando arriva il periodo
giusto, maggio-giugno-luglio, nasce, difficilmente sopprimibile, l’esigenza di
muoversi verso l’alto, “sui monti”. Tanto che, appena si è potuto, si sono restaurati gli
antichi maggenghi; e si è capito che, magari, si sta meglio lì che al mare. E poi,
l’orgoglio di rimettere in piedi ciò che i padri e le madri hanno tirato su, pietra su
pietra (letteralmente, senza metafore!) nei secoli. Ciò è stato notato anche in altre
civiltà nomadi: per esempio, fra gli aborigeni australiani, che per diversi mesi all’anno
vanno a fare ”un giro in giro” in uno degli ambienti più inospitali della terra: il
deserto. Dei Sami diremo più avanti.
Le donne, signore degli animali

La caratteristica principale dei popoli nomadi è quella di viaggiare con il bestiame:


l’uomo è parassita dei suoi animali; le loro esigenze vengono prima di ogni altra cosa.
Un filo diretto, un rapporto reciproco di dedizione-dipendenza li lega l’uno all’altro. E
li lega ancora di più alla donna: perché è lei che ha iniziato l’allevamento; e perché è
lei che, anche in una società di cacciatori, ne assicura la riproduzione attraverso rituali
di magia simpatica (ovvero: se si moltiplica la specie umana attraverso le donne,
anche la generazione di animali potrà essere propiziata da chi assicura la nascita dei
bambini: la madre).
L’attitudine dei maschi, specie se cacciatori, verso gli animali adulti è marcata da
tratti di crudeltà: a caccia li mutilano o li feriscono con estrema noncuranza, talvolta
per divertimento. Anche le bestie domestiche non vengono trattate meglio. Il
comportamento è diverso, invece, nei riguardi dei cuccioli, di cui si prendono cura
quasi esclusivamente le donne, che sono tolleranti, e spesso vi si affezionano, oggi
come, presumibilmente, e a maggior ragione, nella preistoria.
La renna e il cervo (spesso indistinguibili fra loro, anche a livello linguistico)
occupano un posto centrale nell’alimentazione, così come nella religione, nella
mitologia e nelle rappresentazioni rupestri delle popolazioni sia alpine che nordiche.
In Francia, nella Langerie Basse, è stata rinvenuta un’incisione del Tardo
Maddaleniano che rappresenta una donna gravida che succhia il latte di una renna:
l’azione di succhiare è quella che ha preceduto la mungitura. D’altra parte, le renne
sono state munte, in Lapponia, almeno fino agli anni ’50. Nella Villa dei Misteri di
Pompei si vedono donne che allattano cerbiatti (e capretti). Ad Ercolano erano
rappresentati neonati umani che succhiavano latte di cerva. Latte di cerva, e latte di
camoscia erano impiegati per fare formaggi (anche questo, compito quasi
esclusivamente femminile). Sulle Alpi numerose sono le leggende che parlano di
bambini allevati dal latte di una cerva, della trasmutazione di donne in cerve
(bianche), di cervi che parlano….
Immagini di cervi e renne si ritrovano dall’Anatolia alla Carelia, dalla Valcamonica
alla penisola iberica, alla Scandinavia. Spesso, portano segni di fecondità (simboli
solari, spirali) fra le corna, curiosamente simili, se non identici. L’allevamento dei
cervidi (come tuttora quello della renna) si svolgeva in maniera abbastanza
rudimentale. Esso quindi venne integrato e gradualmente sostituito con quello di vari
animali addomesticati successivamente: caprovini, bovini, equidi, anche se, in
occasioni diverse (cerimonie, rituali) riemerge l’antica tradizione: non si poteva
abbandonare d’un colpo il cervo, animale sacro e divino, su cui era basata la propria
civiltà. E così, in una tomba siberiana della metà del I millennio, a Pazyrykkian, sono
state rinvenute delle maschere da cervo per cavalli.
Il cervo era consacrato al dio germanico Freir; il principio fecondatore celtico, il dio
Cernunnos, portava corna di cervo sulla testa. Ma, se andiamo ancora più indietro nel
tempo, scopriamo che la connessione più stretta non è fra uomo e cervo ( o renna), ma
fra donna e cervo (o renna).
Le sacerdotesse di Artemide venivano raffigurate su carri trainati da cervi. La stessa
dea veniva rappresentata accompagnata da un cervo, o su un cocchio tirato da cervi.
Ma Artemide non è che la traduzione, in ambito greco, di una divinità ben più antica,
forse la più arcaica, adorata già dalle popolazioni precedenti: la Signora della foresta e
degli animali(6). A Diana, in ogni angolo del mondo celtico, sono associate le
Matronae, le tre madri, a cui sono dedicate una gran quantità di iscrizioni. Di solito
commissionate da donne. Diana, Madonna Oriente, la Signora del Buon Zogo è allo
stesso tempo la signora delle streghe, e anche degli animali, selvatici e domestici.
Nelle prime confessioni del sabba, quando l’Inquisizione non ha ancora creato
un’immagine stereotipata di questi misteriosi culti estatici, alla festa partecipavano
anche le bestie; e la Dea (spesso nominata espressamente come Diana, cioè col nome
latino di Artemide) è la signora degli animali, gran conoscitrice di erbe officinali.
Ma Artemide era anche associata all’animale sacro per eccellenza da un capo all’altro
dell’Artico: l’orso. O meglio, l’orsa.
La sollecitudine dell’orsa verso i propri cuccioli era proverbiale nell’intero mondo
antico: forse per questo motivo, divenne simbolo di maternità. Esisteva una dea
celtica, in forma di orsa, chiamata Artio: epigrafi dedicate a lei sono state ritrovate sul
Palatinato Renano presso Buitburg, in Germania settentrionale, forse in Spagna. In
antico irlandese, orso è art; in gallico, *art. L’immagine della dea, in forma prima
ursina e poi umana, è associata alle Matres, e ricalca quella di Demetra seduta. Il
nesso dea ursina-dea nutrice emerge anche nei culti di Artemide Kalliste e Artemide
Brauronia, oltre che nei miti e nei culti cretesi. Esiste la possibilità di un rapporto
linguistico fra Artio, Artemis (il significato reale del nome è ancora sconosciuto) e
Artù.
Gli Sciti veneravano una dea mezzo donna e mezzo serpente, che richiama
immediatamente il mito di Melusina, arcaica divinità della foresta umiliata dalla
società patriarcale e costretta a fuggire da questo mondo (ma si trascinerà con sé l’arte
e la sapienza magica). Dea che è raffigurata quasi ovunque sulle Alpi, spesso nella
forma a doppia coda (7). D’altra parte, ancora oggi, sulle Alpi, e certamente molto di
più nella società tradizionale, le bestie rappresentano entità dotate di anima, sensibilità
e intelligenza; talvolta, di saggezza superiore a quella degli umani. Comunque, esseri
coi quali ci si rapportava quanto meno da pari a pari; in alcuni casi, il trattamento che
veniva loro riservato porta le tracce di un’antica divinizzazione. In Val di Fassa, nei
villaggi preistorici, le costruzioni più protette dalle valanghe, dalle frane, e dalle
intemperie non sono le case, ma le stalle.
In una società dove spesso l’uomo è assente, perché nell’antichità è fuori a cacciare,
oppure, negli ultimi secoli, è addetto ai lavori agricoli più faticosi (falciare, vangare)
chi quotidianamente si occupa delle mucche, come delle pecore e delle capre, a cui
sono addette le ragazze più giovani e i bambini, le munge, le porta al pascolo, le cura
con le erbe quando si ammalano, sono le donne di famiglia.
La padrona riconosce ognuna delle sue bestie alla voce. Ogni vacca ha un nome
proprio; esistono nomi specifici per loro. Parlare alle mucche (spesso in maniera più
gentile di come si interloquisce con gli altri esseri umani) è considerato normale. “Le
bestie, o si tengono bene, o non si tengono”. L’animale prova dei sentimenti, per cui,
nel limite del possibile, non bisogna farlo star male (“tutte le bestie piangono”); ma
non solo: ogni bestia è dotata di un carattere differenziato, e va trattata in un certo
modo. C’è chi ha parlato, per questa forma di dedizione dei popoli allevatori “di
interesse etnografico” (cioè “primitivi”), di “boolatria”, come se alle mucche si
attribuissero qualità sovrannaturali. Le Alpi non fanno eccezione.
D'altra parte, non bisogna trascurare di ricordare che il rapporto con gli animali, per
quegli uomini, e specialmente per quelle donne, era sempre stato molto stretto:
abitavano le stesse stanze e gli stessi territori. Quando facevano una festa, le bestie,
libere, non venivano cacciate; e con ogni probabilità stavano vicino alle padrone nella
speranza di ricevere qualche buon boccone, dandosi a dimostrazioni di gioia e di
affetto per il cibo ricevuto, partecipando alle danze. Gli animali erano ritenuti esseri in
grado di intendere e di volere, riconosciuti colpevoli perfino dai tribunali: pensiamo ai
numerosi processi istituiti, da un capo all'altro dell'Europa, contro la processionaria
(che era un insetto!).
Gli Alpini, poi, hanno dormito nelle stalle fino a poco tempo fa: e non per ragioni di
spazio (8), ma per una certa "sacralizzazione della bestia". Abitudine che ha sempre
suscitato scandalo e commiserazione in antropologi e "osservatori esterni". Ma non
solo: nel corso dei millenni, gli alpicoltori (ma forse tutti i contadini. Solo che sulle
Alpi certe tradizioni si sono tramandate quasi fino ai nostri giorni) hanno elaborato un
sistema di comunicazione con gli animali basato sulla modulazione della voce, che
raggiunge certe frequenze (anche molto acute) in un ritmo quasi cantato, che è
riconosciuto dagli animali anche dopo anni, e che non è ripetibile da chi non ha
sentito certi suoni fin dall'infanzia.
Per quanto riguarda la "sacralizzazione della bestia", all'inizio del nostro secolo
illustri studiosi come Freud, Frazer e Robertson Smith erano ancora convinti che le
religioni partissero dalla convinzione che l'umanità discendeva da varie specie
animali, e che l'esistenza di clan e tribù separate fosse dovuta al fatto che alcuni
pensavano di discendere dai lupi, altri dai serpenti, altri dalle volpi... se non,
addirittura, da alcune specie di piante, come nel caso di molte stirpi celtiche. Di
conseguenza, queste creature erano oggetto di venerazione e non di disprezzo. Ma sin
dall'inizio, in ambienti "colti", cominciò ad affermarsi una contromitologia, che
attribuiva all'uomo una creazione e un destino separati, non toccati dalla catena di
metamorfosi nelle quali si mescolavano e si fondevano, continuamente, gli elementi
divini, umani, vegetali ed animali.
Tuttavia, solo nella tradizione giudaico-cristiana-islamica, con il mito dell'uomo
creato a immagine e somiglianza di Dio, si è arrivati alla determinazione assoluta
della superiorità della razza umana sui suoi fratelli e sorelle privi di parola.
Analogamente, poiché soltanto l'essere umano è modellato a somiglianza del suo
creatore, Dio poteva essere raffigurato unicamente ad immagine sua: le bestie
cominciano ad essere schifate, e così gli uomini che con loro in qualche modo si
mischiavano.
Ma se boolatria c’è, rientra in una visione funzionalista dell’esistenza. Senza le renne
nell’Artico, senza le mucche sulle Alpi gli uomini non avrebbero potuto sopravvivere.

Streghe che vengono dal freddo

Madre, domani attingiamo,


attingiamo meritatamente (9)!

Secondo Ginzburg, il trait d’union fra sciamani lapponi e la variegata popolazione


stregonesca europea, alpina e pirenaica specialmente, dispersa nello spazio e nel
tempo, che parla lingue mitiche diverse, ma legate da parentele strettissime, (di
comportamento rituale e di credenze, oltre che di modi di vivere) era costituito dal
viaggio del vivente nel mondo dei morti. In realtà, però, le similitudini si spingono
ben oltre.
I pascoli di montagna, “dove l’aria è più sottile”, possono essere accomunati alle
praterie dell’estremo Nord, perché alzarsi in quota, a parte alcuni endemismi
biogeografici legati a vicissitudini storiche particolari (ritiro dei ghiacci, ecc.) è come
salire in latitudine. Le enormi estensioni pascolive di proprietà collettiva sono quanto
di più simile rimane dell’arcaica civiltà delle tribù che hanno colonizzato le Alpi, in
cui non esistevano terre private e in cui le differenze sociali erano molto sfumate:
quelle caratteristiche che più associano gli Alpini agli antichi popoli nomadi del Nord
e dell’Est. Quegli spazi fanno parte di una dimensione fisica ed ambientale ma anche
fantastica, di cui la donna, e la donna-strega-matriarca, esercita ancora un potere
indiscusso.
Le estasi delle seguaci della dea richiamano irresistibilmente quelle degli sciamani,
uomini e donne ma soprattutto donne, della Siberia, fino all’isola di Hokkaido e agli
Ainu giapponesi (10), e della Lapponia (11). In entrambe ritroviamo gli stessi
elementi: il volo dell’anima verso il mondo dei morti, in forma di animale, in groppa
ad un animale o ad altri veicoli magici. Il forte richiamo sessuale. Il bastone degli
sciamani lapponi si può accostare al manico di scopa con cui le streghe affermavano
di recarsi al sabba. Il nucleo folklorico del sabba – volo magico e metamorfosi –
sembra derivare da un remoto, remotissimo substrato euoasiatico. Nei voli notturni
descritti dalle streghe e dagli stregoni del Valais, processati all’inizio del ‘400 ed
estranei allo stereotipo inquisitoriale, si può riconoscere l’eco stravolta di un culto
estatico di origine prima celtica, e poi nordica. E così pure in innumerevoli
confessioni di streghe e stregoni da un estremo all’altro del Vecchio Continente.
La religione che sta alla base di queste credenze sembra straordinariamente simile,
nelle Alpi e nel Nord Europa, sia per quanto riguarda le credenze e la ritualità, sia per
ciò che concerne la conformazione dei luoghi sacri . La divinità principale è una dea
madre, che è la terra e tutto l’universo (12), e, fra i Sami, è rappresentata dal sole.
Anche in un ambiente piatto come la Lapponia, viene adorata principalmente sulle
alture, le “montagne sacre” (13), e segnalata da steli di pietra: anzi, si può dire che
l’abitudine di definire un luogo sacro con i menihir, o con i cromlech, è diffusa dalla
Lapponia alla Siberia, dai Pirenei alle Alpi fino al bacino del Danubio e alla Mongolia
(14). Rocce che, nei Grigioni, sono tuttora chiamate moma velha, madre antica, e
devono essere baciate dagli alpeggiatori giovani che salgono ai pascoli alti con le
bestie, per evitare i percoli della montagna. I pastori di renne Sami mi hanno
raccontato che “quei sassi”, chiamati sieidi nella loro lingua, gli parlano, gli danno
consigli, su questioni personali ma anche su questioni inerenti l’allevamento delle
renne, come, per esempio, dove portarle a pascolare, o come salvarle da un’epidemia.
Ognuno di loro, oltre a recarsi in alcuni posti in cui si trovano le rocce sacre
riconosciute a tutti, ne hanno una personale, messa magari da qualche antenato in un
luogo particolare, che non rivelano a nessuno, se non ai figli, o ai parenti stretti. Ed è
proprio attorno a queste località segnate dalla pietra che l’antica religione sciamanica
dei popoli del Nord si sta lentamente riorganizzando, dopo le persecuzioni cristiane
prima e marxiste (nelle versioni sovietiche e cinesi) poi.
La conformazione dei siti sacri alpini, celtici o pre celtici, sembra ricalcata su quella
dei Sami, e dei popoli nordici. Che adoravano le loro divinità in posti segnati da
cascate, imponenti formazioni di roccia, grandi massi, caverne, fenditure di roccia,
sorgenti, laghi, e siti sacrificali rotondi (15), segnati da sassi (cromlech), da muretti a
secco, palizzate, recinti, e così via. Con ogni probabilità, il disco sacro si ricollega
direttamente alla religione della Dea Madre: perché il primo recinto fu quello del
parto, luogo di vita ma anche di morte, in cui si consumava il mistero della
procreazione, da cui gli uomini erano rigorosamente esclusi. I simboli rotondi,
riempiti di raggi e di segni solari (o di ciò che noi interpretiamo come tali), associati, è
bene ricordarlo, al principio femminile, e non maschile, sono stati incisi, per secoli e
per millenni, sulle cassapanche delle spose, che dovevano portare figli; sulle soglie
delle porte, che segnavano il confine fra l’universo protetto della casa e l’esterno, fra
la luce, il sole, il giorno, e l’ignoto, il pericolo, il buio, gli spiriti della notte, da cui
bisognava difendersi; sulle travi delle case (e delle tende dei nomadi), che
sostenevano il tetto, fornivano un rifugio all’uomo, caldo e sicuro: un altro utero in
cui essere curati e protetti dalla Madre. Con ogni probabilità, il sole è stato
accomunato all’uomo in un secondo tempo, col passaggio al matriarcato, quando la
donna è stata relegata alla notte: pericolosa e oscura ma necessaria per la
riproduzione, indecifrabile come la luna, arcana e vendicativa, potente, benefica e
malefica, vita e morte, ci vollero millenni per riuscire a tenerla a bada.
Nell’Artico come sulle Alpi, gli spiriti aleggiano ovunque, ma i più importanti sono
quelli degli alberi sacri e delle sorgenti, specie se stanno sottoterra in grotte. Nelle
caverne buie delle viscere della terra, da cui sgorga l’acqua, legate alle simbologia
femminile della fertilità, spesso, in entrambe le culture, si nascondeva un essere che in
seguito verrà demonizzato, ma che non perderà mai il suo potere positivo: il drago. La
bestia più forte, dannatamente bella, che parla la lingua degli uomini, calda (sputa
fuoco) e fredda (è un rettile) nello stesso tempo, rappresenta le qualità sessuali e
generative della donna: irresistibili, consentono al mondo di continuare la sua
esistenza. Da sempre, fa compagnia prima alla Dea, poi alla Madonna, o alla Santa
che hanno sostituito l’arcaica divinità femminile nell’iconografia cristiana.
Altro mito che accomuna i popoli alpini con quelli dell’estremo Nord è la presenza
dell’Uomo selvatico (16). Nudo, stranamente rosso, coperto soltanto da una pelle in
vita, barbuto e capelluto, brandisce una clava, oppure un albero sradicato, protegge
Rovaniemi e la Lapponia. E’ documentato, e raffigurato sulla moneta del Giubileo del
re Carlo IX di Svezia nel 1606 (a quel tempo, la Lapponia era parte della Svezia).
Pochi, però, sanno chi è veramente: fra i Sami, è ricordato come Varaldenommai, dio
della fertilità degli uomini e delle renne. E’ rappresentato coperto del sangue delle sue
renne, mentre tiene in mano una giovane betulla con le radici rivolte verso l’alto (17).
In realtà, però, la stessa figura di Babbo Natale, o Santa Klaus, alias San Nicola,
sarebbe la trasposizione dell’Antenato Mitico (18), selvatico non tanto perché incivile
(al contrario, è un eroe civilizzatore) ma perché proviene dalle selve, dalle foreste:
cioè dal mondo altro, o dall’altro mondo. L’Uomo Selvatico è presente, come
personaggio mitologico, in tutta la Siberia, fino all’isola di Sakhalin e alla civiltà degli
Ainu giapponesi. E non solo è simile nell’aspetto esterno, e svolge lo stesso ruolo, del
suo corrispettivo alpino: fa anche la stessa fine: arrabbiato con gli uomini perché
trattano male la natura (“le renne e il pesce”), ritorna nel mondo divino da cui era
venuto, ovvero scompare senza lasciare traccia (19).

Il sabba, la droga e l’estasi sciamanica

In Scizia sono molti gli indovini….


Gli Sciti dunque raccolgono il seme di questa canapa, e si mettono sotto le coperte e
poi buttano il seme sulle pietre roventi; queste allora fanno fumo e danno un vapore
caldo tale da superare quello di qualsiasi bagno di vapore ellenico. Gli Sciti gridano
per il piacere…(20)

Il concetto di Nord, artico, è, nello stesso tempo, ecologico e mitico. La parola deriva
dal greco arktos, orso. E il mito non è facile da distruggere. Perché nacque in territori
vastissimi, impiegò un’enormità di tempo per autocostruirsi, elaborarsi, rifinirsi, per
poi conservarsi e trasmettersi in una catena di infinite generazioni di uomini.
Superficialmente, queste tradizioni si sono trasformate in storia e in geografia: in
realtà, rimangono nell’inconscio, nella memoria archetipa, nell’arte, nella speranza,
nei sogni, nelle allucinazioni, nelle paure senza nome.
Nel Kalevala, il poema epico dei finnici, l’eroe sale in Lapponia per trovarsi una
sposa, che deve chiedere alla regina (non al re) di Pohjola, potentissima sciamana.
Pohjola è chiamata anche Pimentola, terra delle tenebre, Untamola, terra di Untamo,
villaggio del gelo, in cui si divorano gli eroi. Quando la madre (sempre lei!) cerca di
proibire al figlio di recarsi al Nord, gli rivolge queste parole:

Non conosci la lingua di Turja, né sai il magico idioma di Lapponia

Intendendo non la lingua in senso stretto, la parlata quotidiana, ma la capacità di


lanciare incantesimi e magie, considerata peculiare per Pohjola.
Fino a pochi decenni fa, tutti i Sami venivano considerati stregoni; si sconsigliava di
frequentarli alla gente perbene e cristiana, perché potevano lanciare malefici, e, le
donne, incantare. Fino a pochi anni fa, si pensava (e si leggeva sulle pubblicazioni per
specialisti) che l’antica religione sami e i riti magici del tamburo fossero stati
sradicati, e fossero quindi scomparsi, fra il XVII e il XVIII secolo, conseguentemente
alla cristianizzazione. I Lapponi praticarono lo sciamanesimo ufficialmente fino al
1687, quando, ultimi in Europa, furono convertiti al cristianesimo da evangelizzatori
senza pietà (che si sostituirono ai monaci, presenti dal 1000 circa, i quali avevano
tentato, invano, di acculturarli con metodi meno cruenti) che impiccavano chi non
abiurava l’antica fede. Le conversioni continuarono, annotate nei registri parrocchiali,
fino al XIX secolo. Ciò significa che la Lapponia è il territorio, sul Vecchjio
Continente, in cui si è mantenuta più a lungo nel tempo la civiltà più arcaica:
insomma, è la regione che conserva le radici culturali dell’Europa pre cristiana.
Questo può significare che le testimonianze raccolte e i confronti che possiamo fare
fra la civiltà stregonesca alpina e quella sciamanica lappone potrebbero portare a
risultati interessanti.
Le analogie fra il sabba, la festa delle streghe, e il viaggio sciamanico degli stregoni
lapponi, sono numerose. Prima di tutto, il mezzo per ottenere l’estasi: la droga, la
musica, il ballo.
Per quanto riguarda l’uso di sostanze allucinogene, oltre alle testimonianze di
Erodoto, ci sono i reperti archeologici che provano l’impiego rituale degli psicotropi.
Per esempio, nella necropoli di Pazyryk 2, in Siberia, in cui era sepolto un uomo
completamente coperto di tatuaggi (come la mummia del Similaun!), si è rinvenuto un
cratere di bronzo dove erano collocate delle pietre tra le quali si trovavanoi semi di
canapa parzialmente combusti. Semi di camapa erano conservati anche in un
recipiente vicino, a cui si accompagnava un frammento di cuoi, decorato con grifi che
azzannano alci: un oggetto identificato come una cappa, destinata a coprire il volto e
la testa di chi volesse fare inalazioni. La canapa, bruciando, emana vapori
allucinogeni (21) (“e gridavano per il piacere….”). D’altra parte, sulle Alpi le
proprietà della canapa sono ben note: i semi venivano dati ai canarini che così
“cantavano meglio”… E il papavero da oppio, su licenza statale, viene ancor oggi
coltivato in Alto Adige perché i suoi semi servono per la preparazione di alcuni piatti
tradizionali… sembra molto strano che la gente non ne conoscesse anche altri
impieghi. Tanto che l’”oppio tebano” viene nominato esplicitamente nella ricetta della
pomata delle streghe fornita da Gerolamo Cardano nel 1547: fonte colta, quindi; ma il
papavero è fra gli ingredienti della pomata nel 1700 inoltrata, in una ricetta di fonte
popolare.
Molteplici rapporti dal Nord, redatti da viaggiatori come il mantovano Giuseppe
Acerbi alla fine del ‘700, o da sacerdoti, raccontano dell’uso dell’Amanita muscaria, il
fungo rosso a pallini bianchi, per raggiungere lo stato di trance, da parte degli
sciamani. Il fungo veniva mangiato, secco o fresco, oppure veniva assunto come
principio attivo concentrato nell’orina di chi l’aveva mangiato qualche ora prima,
secondo modalità ancora oggi praticate presso alcuni popoli sudamericani con la
psilocibina.
L’impiego dell’amanita muscaria per raggiungere la trance è sicuramente
antichissimo. Ragioni linguistiche fanno pensare che risalga ad almeno 4000 anni
prima di Cristo, quando ancora esisteva una lingua uralica comune. Un gruppo di
parole che designano l’amanita muscaria, i funghi in generale, la perdita di coscienza,
il tamburo sciamanico, nelle lingue ugro finniche e samoiede deriverebbero da
un’unica radice (22).
In antropologia, si distinguono le culture micofile da quelle micofobe: probabilmente,
i raccoglitori di funghi sono gli eredi di un antichissimo retaggio sciamanico, in cui i
vegetali erano addirittura divinizzati. L’uomo del Similaun portava funghi nella sua
“sacca della medicina”. La muscaria, sulle Alpi, è a tutt’oggi il fungo magico per
eccellenza; appare nelle figure delle fiabe; e, manco a dirlo, anche nelle ricette
popolari delle pomate delle streghe, micidiali miscugli di principi attivi miscelati e
allungati col grasso, da assorbire per contatto cutaneo e sfregamento nelle zone ricche
di capillari e vicine alle ghiandole linfatiche (le ascelle, le mucose vaginali, l’interno
delle cosce e dei gomiti, il collo).

Unguento verde delle streghe: ricetta del 1737


Si mescolino i succhi di atropa belladonna, giusquiamo, amanita muscaria, aconito,
datura, digitale, papavero e conium con grasso; si spalmi l’unguento sul viso, sotto le
ascelle, sulle mani. Volerete (23).

Questa ricetta, del XVIII secolo inoltrato, testimonia la permanenza sulle Alpi di
pratiche antichissime, che molti studiosi considerano cancellate con l’Inquisizione e il
Concilio di Trento. E dimostrano anche la conoscenza e l’uso degli stessi psicotropi,
sulle nostre montagne e nelle steppe artiche.
Altrettanto indiscutibile l’affinità fra amanita muscaria e rospo. Perfino in Alaska le
rane, malgrado siano rarissime, sono associate con lo sciamanesimo (24). Ancora
oggi, spesso i rospi sono raffigurati sul fungo più bello, e compaiono normalmente nei
giardini in questa posizione. A lungo si è pensato che questo rapporto fosse
inspiegabile. Fino a quando si è scoperto che la pelle di rospo contiene i bufadielonidi,
sostanze chimiche la cui azione come anestetici locali è 90 volte più forte di quella
della cocaina, sintetizzati e isolati pochi anni fa da G. R. Pettit dell’università
dell’Arizona, in una ricerca congiunta con l’università di Miami. Si tratta di strutture
chimiche complicatissime, potentissimi anestetici locali, la cui azione sul cuore
umano è simile a quella della digitale.
La conoscenza stregonesca delle essenze naturali era talmente profonda da permettere
alle specialiste l’impiego di sostanze pericolosissime, specie su organismi che
dovevano essere in stato di denutrizione quasi cronica, sia in funzione terapeutica che
allucinogena, per “aprire le porte della percezione” e per “entrare in un’altra
dimensione”. Per arrivare ad interpretare la volontà degli spiriti, oppure magari
soltanto per estraniarsi da una realtà fatta di dolore, miseria e fame, si procuravano
uno stato allucinatorio in cui facevano dei veri e propri viaggi nel “mondo di là”..
E’ Adam Lonicer che, per primo, descrive scientificamente la Claviceps purpurea,
ovvero la segale cornuta, nel 1582. Ma della cultura medica popolare, soprattutto
femminile, la segale cornuta faceva parte, verosimilmente, da molto tempo. Le sue
proprietà erano conosciute e controllate: le levatrici la somministravano per affrettare
le doglie. In antico francese si chiama siegle ivre (segale ubriaca), in tedesco Tollkor ,
grano pazzo. Esisteva una “madre della segale”, Roggenmutter, raffigurazione
tipicamente sciamanica, associata al lupo della segale e al lupo mannaro (25). Ancora
oggi, in Amazzonia, gli stregoni parlano del principio attivo degli agenti psicotropi
allucinatori come “madre” (madre dell’ayahuasca, per esempio, la sostanza
allucinogena usata tra il Perù, il Brasile e la Colombia). L’ipotesi che la segale
cornuta venisse consapevolmente usata per ottenere stati alterati di coscienza è resa
più plausibile da questa ricchezza di associazioni mitiche.
Con l’assunzione dello psicotropo, mentre si cade in catalessi, o “ci si addormenta”,
esce l’anima dal corpo: in altre parole, si entra in uno stato modificato di coscienza,
che, per una cultura sciamanica, è caratterizzato dal viaggio, o dal volo. A cavallo di
una scopa, per le streghe alpine; le quali, però, riferiscono (specie nelle confessioni
più antiche) anche di voli in groppa ad animali come il caprone, o addirittura
trasformazioni in animali. Anche nei territori artici, l’anima dello sciamano,
trasformata in lupo, orso, renna, pesce, oppure in groppa da un animale (cavallo o
cammello) che, nel rito, è simboleggiato dal tamburo, abbandona il corpo esanime.
Passato un certo tempo, più o meno lungo, lo sciamano esce dalla catalessi per riferire
agli spettatori del rito che cosa ha visto, che cosa ha imparato, che cosa ha fatto
nell’altro mondo. Olaus Magnus racconta che i maghi lapponi portavano perfino un
anello o un coltello come prova tangibile del viaggio fatto. Stessa storia per le streghe:
che sostenevano di essersi veramente recate al sabba, di aver davvero incontrato la
Signora del Buon Zogo con ogni specie di animali, e di aver ricevuto da lei
conoscenze e consigli sulle erbe terapeutiche. Il diavolo arriva in seguito, prima come
spirito ausiliario, poi come signore degli Inferi: imposto e creato, però, a forza di
torture.
Sui tamburi degli sciamani è stata riconosciuta, in molti casi, una mappa del mondo
dei morti. Ma anche i protagonisti del culto estatico documentato in ogni angolo del
continente europeo si consideravano, e venivano considerati, agenti mediatori fra i
vivi e i morti. In entrambi i casi, le cavalcate in groppa agli animali esprimevano
simbolicamente l’estasi: la morte temporanea segnata dall’uscita, in forma di animale,
dell’anima dal corpo.
Altra analogia fra le due civiltà riguarda l’uso e la tipologia delle maschere indossate
durante i riti sciamanici: maschere che presentano tratti molto simili fra loro. Per
esempio, la presenza delle corna, caratteristiche anche della divinità celtica
Cernunnos, dio degli animali, e di diverse rappresentazioni di sciamani preistorici pre
celtici. L’espressione oscena, la lingua fuori: che, se da una parte allude sicuramente
ad una sessualità esasperata, dall’altra sembra voler assaggiare tutto, divorare
l’universo intero. Stessa cosa per gli occhi: sbarrati, senza espressione, spiritati,
iniettati di sangue, spalancati di fronte all’incredibile visione del mondo degli spiriti,
che viene da dentro, dal sé, suscitata dagli psicotropi, non da oggetti toccabili; aperti
all’interpretazione dell’inconoscibile, dell’indicibile, dell’insopportabile: l’amoralità
della natura (26). Perché il mondo delle creature non è né buono né cattivo, è, e basta:
il compito dello sciamano (e della strega) consiste nell’assicurare la sopravvivenza
della comunità, con ogni mezzo: dal sacrificio propiziatorio di un essere vivente
all’infanticidio dei piccoli che non si possono trasportare durante un trasferimento, o
che la collettività non può mantenere.
Tanto è vero che uno degli choc culturali che colpisce gli appartenenti ad una civiltà
di religione non animista, atei compresi, è il vedere come chi crede negli spiriti accetti
“naturalmente” l’idea, e la pratica, della morte. I genitori, davanti ai propri figli morti
di fame, o di malattia, non solo non si ribellano, ma liquidano la perdita con riti
funebri brevi e sbrigativi, mentre esistono cerimonie molto complesse per la dipartita
dei membri importanti e adulti della comunità. Ricordiamo che, anche nelle campagne
europee e alpine, quando la situazione di povertà e di dipendenza dall’ambiente
esterno erano gravi, e il cristianesimo aveva soltanto scalfito le credenze precedenti, la
morte degli individui deboli, quando non era deliberatamente provocata (con la
mancanza di cure, se non con l’omicidio vero e proprio) era vissuta come una dura
necessità, che provocava ben pochi rimorsi.

Yoikos e jodlers: le musiche della trance

Sedette sulla rupe della gioia, si assise sulla pietra del canto (27)

Dopo l’assunzione dell’agente psicotropo, la seduta sciamanica, così come il sabba


delle streghe proseguono a suon di musica. Si tratta di ritmi particolari basati sulle
percussioni. Sembra che i colpi dei tamburi, tarati sui rumori interni (il pulsare del
sangue nelle vene, per esempio; il battito del cuore), ripetuti per ore, si prestino, più di
altre musiche, ad indurre la trance. Forse è per questo motivo che, sulle Alpi, la
Chiesa e i difensori dell’ordine costituito si accanirono per decenni contro gli
strumenti a percussione, che sono documentati sia nell’iconografia che nelle
testimonianze scritte, ordinandone, a più riprese, la distruzione. Infatti, non sono
sopravvissuti: erano troppo ingombranti per essere nascosti, al contrario di altri arnesi
“atti a far musica”, come la ghironda, che riuscì a scampare la condanna rimanendo
nascosta per diverse generazioni nei fienili e nelle cantine occitane.
Ecco come Virdung, nel suo “Musica generale”, nel 1511, descrive quegli antichi
tamburi di cui, nella tradizione popolare musicale alpina, non è rimasto nemmeno il
ricordo:

Sono enormi tamburi rombanti. Essi disturbano le persone anziane e rispettabili, i


sofferenti e i malati, quanti nei monasteri si dedicano allo studio, alla letteratura, alla
preghiera, e io ritengo, son convinto che il diavolo li abbia fatti e inventati.... (28).

Lo sciamano lappone è l’agente della propria trance, che ottiene suonando il tamburo:
non sono gli altri che suonano per lui. Per questo motivo viene usato, coscientemente,
il crescendo e l’accelerazione del ritmo. Il suono può variare anche di intensità,
altezza e timbro, a seconda dell’effetto che si vuole suscitare (su se stessi e/o sul
pubblico), obbedendo a regole musicali tramandate in funzione segnaletica, descrittiva
e simbolica.
Respiri rauchi, abbai, sospiri, fischi, grida, invocazioni, ansiti, sono il segno della
presenza degli spiriti. Lo sciamano racconta ciò che vede, e fissa nella memoria,
grazie anche alla musica, un testo lunghissimo, e, nel frattempo, si carica
magicamente. Ogni sciamano ha un suo canto personale che usa per invocare gli
spiriti. Spesso, la lingua segreta è un’imitazione “totemica” delle grida degli animali
(29).
I canti finnici sono di due tipi: canti narrativi, come il Kalevala, e canti magici, quelli
degli sciamani. Spesso però la distinzione non è poi così netta.
La melodia lappone è esclusivamente un’arte vocale, incentrata sugli yoikos,
antichissimi canti cerimoniali, di cui si è perso il significato. Lo yoik gioca un ruolo
importantissimo nel rituale sciamanico. Era anche un mezzo per cadere in trance.
Tanto è vero che i missionari proibirono il canto degli yoikos, anche se non
contengono un vero e proprio testo. Di solito, la strofa consiste di poche parole
coerenti fra loro, a cui si sovrappongono vocalizzi affini a quelli degli jodlers, che
richiamano il verso degli animali. Queste vocalizzazioni monosillabiche, che
appaiono senza significato, in realtà esprimono l’opinione di chi canta nei riguardi
della persona di cui si parla, o che ha di fronte.
Pare che questi strani suoni vogliano deliberatamente nascondere, secretare, le parole,
che in nessun caso venivano rivelate agli stranieri. Probabilmente, perché in origine
erano formule magiche, che ci trasmettono l’eco delle più arcaiche condizioni di vita
della razza umana. In generale, si può dire che gli yoikos venivano composti per
comunità di ridotte dimensioni, talvolta all’interno di una sola famiglia estesa, in cui
anche una piccolissima allusione, totalmente incomprensibile agli esterni, poteva fa
capire il significato. Col tempo, per mantenersi tra una persecuzione e l’altra,
diventarono canti esoterici, segreti: ancora oggi, i loro testi vengono mantenuti
all’interno di una ristretta cerchia di persone. D’altronde, chi canta non sempre
capisce il significato dei nomi e delle parole: semplicemente, li ripete così come li ha
sentiti cantare dagli anziani; ma in questo modo si sono conservati nel tempo.
In un quadro come questo, la particolare modalità di canto dei Sami rappresenta una
forma estremamente sofisticata di arte musicale, affine alla musica colta. Attraverso
suoni e gorgheggi si manifestano sentimenti: la tecnica deve essere molto raffinata.
Anche perché vengono imitati, ed espressi, i suoni della natura: la voce degli animali,
il rumore dell’acqua, ma anche il sole che sorge e che tramonta…. Per invocare
l’aiuto degli spiriti, per parlare con l’invisibile.
L’unica cosa che si può paragonare agli yoikos lapponi sono gli jodlers alpini,
anch’essi, in origine, canti magici che non descrivevano ma esprimevano la natura e il
trascendente, imitando spesso la voce degli animali. Persino i due sostantivi sono
acusticamente simili, anche se non posso avanzare supposizioni su una loro possibile
origine comune.
La conoscenza degli animali è così profonda, presso i popoli delle Alpi, da costituire
la loro grande sapienza. Poveri di tecnologia, esplicano tutta la loro esperienza sul
mondo animale, tanto che il canto tipico dell’alpeggio, lo jodler, pare fosse, in
origine, un richiamo per animali. Ed era diffuso su un areale molto più vasto di quello
odierno (per esempio, comprendeva anche la Valtellina e la Val Chiavenna). Fare
musica imitando le voci dei non umani non è prerogativa dei popoli pastori: ma
mentre i cacciatori dell’antichità producevano rumori con vari mezzi, allo scopo sia di
richiamare che di spaventare gli animali e di ucciderli, i pastori cercavano di
ammansire le bestie, di attirarle e di stringere un legame con loro. La musica era un
aiuto. Se una capra si perdeva fra i dirupi, sentendo il suono del flauto poteva
orientarsi e ritrovare le compagne. Se due armenti si incontravano ad una sorgente e si
mescolavano, i pastori cantavano ognuno il proprio leit motiv e gli animali lo
seguivano. Per questo ripetono sempre, all’infinito, lo stesso motivo, monotono e
familiare. Per chi non è abituato queste nenie sono spaventosamente uniformi, proprio
come le praterie di alta quota. Anche se hanno raggiunto un livello tecnico di
esecuzione vocale (il gorgheggio, il canto a tir) molto difficile da imitare, il loro
suono risulta “stonato” per chi ascolta musica armonizzata, moderna. In questa forma
d’arte tipicamente alpina, legata, nelle sue origini, agli animali, l’esatto contrario
dell’arte e delle bellezza secondo la “cultura colta”, sono ancora una volta le donne ad
eccellere, perché iniziano i cori, danno l’acuto, trascinano sempre più in alto le voci
dei cantori. E si ricordano le canzoni.
In Lapponia, il canto degli sciamani assumeva il carattere di una recita musicata dei
nomi degli spiriti, ma la persecuzione cristiana fece terminare le esibizioni pubbliche.
Gli sciamani furono costretti al silenzio, i nomi magici divennero segreti, e poi,
gradualmente, vennero dimenticati (?!) dalle generazioni successive di Lapponi ri
educati. Le melodie, però, riuscirono a conservarsi, perché costituivano il nutrimento
musicale della gente, che ha sempre fame di cibo spirituale, che soddisfa la mente,
oltre che la pancia. I nomi proibiti degli spiriti furono sostituiti da quelli della gente
comune della vita quotidiana. Il rituale propiziatorio del canto piano piano sparì, per
essere rimpiazzato dalle descrizioni di uomini e situazioni normali, che non erano
vietate dalle leggi cristiane. Soltanto in questi ultimi anni, si stanno portando avanti
ricerche più approfondite, che cercano di collegare gli yoikos con la cultura
sciamanica.

Sessualità, peccato, trance e sabba

Streghe alpine e sciamane artiche assolvono la stessa, importantissima funzione:


curano il disagio mentale, o la malattia fisica, che spesso derivano da una causa
connessa con la sessualità, considerata peccato dalla morale cristiana, senza chiedere
o discutere sulle cause della sofferenza, alleviando i sensi di colpa e fornendo una
spiegazione, o una giustificazione, plausibile all’evento. Le ragioni del dolore sono
sempre scaricate sulla malevolenza di uno spirito. D’altronde, le donne delle tribù
animiste non dovevano combattere soltanto contro il cristianesimo, che avrebbe
preteso di relegarle ad un puro ruolo riproduttivo, e quindi condannava ogni pratica
contraccettiva e qualsiasi uso non generativo del sesso. I monaci buddisti, che
tentarono di convertire (e di acculturare) i popoli di religione sciamanica della
Mongolia, dell’Altai, del nord del Giappone, spesso preceduti da eserciti di potenti
stati centralizzati, come la Cina o il Giappone stesso, ritenevano, tanto quanto i
colleghi cristiani, che la natura congenita della donna fosse quella di commettere
peccato.
Non sposarsi, abortire, abbandonare o ammazzare un bambino, erano tutte azioni che
l’avrebbero condannata in eterno e sprofondata nelle tenebre dell’inferno. Ma, date le
condizioni di estrema penuria e l’ambiente avaro da cui dovevano sopravvivere quegli
antichi popoli, contraccezione, aborto e infanticidio erano comunemente praticati.
Inoltre, la concezione animista non divide in maniera netta la vita dalla morte, dato
che l’una era considerata la conseguenza dell’altra; e, in caso di bisogno, la
soppressione degli elementi deboli, o inutili, o semplicemente l’abbandono degli
individui di troppo, non erano considerati degli atti gravi ma delle conseguenze dettate
dalla necessità. Il potere centrale, invece, sanzionava duramente ciò che normalmente
si faceva: ma la religione istituzionale era organizzata e centrata attorno agli interessi
degli uomini, non delle donne.
Streghe e sciamane offrono conforto, sollievo, e redenzione alle persone che patiscono
sofferenze insopportabili. L’itako, la sciamana cieca degli Ainu giapponesi, chiama
gli spiriti dei bambini morti. Le madri possono risentire le voci dei figli scomparsi, e,
di solito, le anime dei bimbi non le rimproverano, ma le consolano con parole gentili,
le salutano con affetto. In lacrime, le donne chiedono il loro perdono: e la sciamana
alleggerisce le pene psicologiche e solleva dai rimorsi le donne colpevolizzate per la
loro sessualità (30).
Streghe e sciamene sono forzatamente e inscindibilmente legate al sesso. Le streghe
raccontavano di essere state amanti del demonio. Ma anche gli sciamani buriati
intrattengono relazioni strettissime con i loro spiriti guida, tanto intime da arrivare
perfino al rapporto sessuale. D’altronde, l’intera seduta sciamanica consiste nel
suonare il tamburo ad una velocità sempre più intensa, fino a raggiungere la trance,
con movimenti simbolici che mimano l’atto sessuale (31), considerato l’azione
fondante della continuità demografica della comunità.
Si tratta di uno degli ingredienti principali della seduta sciamanica, soprattutto se
condotta dalle donne. La sessualità esasperata trova una sua spiegazione negli antichi
culti della fertilità, necessari per propiziare la riproduzione degli esseri umani, degli
animali ma anche delle piante, e quindi per salvare il mondo dalla rovina ed assicurare
il cibo a tutti i viventi. Per mezzo dell’imitazione (senza dubbio, una volta non si
trattava di sola imitazione, perché il sabba delle streghe assumeva spesso e volentieri
carattere orgiastico), cioè della magia simpatica, si inducevano gli organismi del
creato, qualunque essi fossero, a congiungersi e a riprodursi, per prevenire le
comunità dall’estinzione. Estinzione che, sia sulle Alpi che nelle steppe artiche,
doveva essere un’eventualità temuta perché di facile realizzazione. Per fame, per
freddo, per abbandono, per malattia, per razzia. O anche per ”malinconia”: la
depressione, che conduce alla morte o al suicidio, era un male ben conosciuto in
entrambe le culture. Sulle Alpi, si pensava che fosse addirittura contagiosa; e come
tale ne parlano i medici fino al XIX secolo.
A questo proposito, l’antropologo russo Anutshin, che svolse il suo lavoro di campo
nell’estremo Nord all’inizio del secolo, pubblicò nel 1914 questa eccezionale
testimonianza, raccolta durante le festività del 10 giugno 1907 nel distretto di
Kaljagino.
La seduta sciamanica è tenuta da una donna, Salda, che comincia cantando una
canzone:

Uomini e donne, guardate che cosa sta facendo la vecchia Salda…


Ragazzi e ragazze, guardate…
Sono una straniera per voi? … No, sono vostra madre…
Ho vissuto per molto tempo…
Ho dato da mangiare a molta gente: alcuni sono ancora vivi,
altri sono morti….
Date qualcosa alla vecchia Salda, lei danzerà bene…
Lei ha sempre danzato bene….
Hei, uomini, datemi della vodka…
Hei, donne, buttate un po’ di legna nel fuoco…

Gli ascoltatori le davano vodka, e aggiungevano ceppi al fuoco. Dopo aver bevuto,
Salda comincia a urlare e a saltare selvaggiamente attorno al fuoco, tenendo i seni in
mano, e proseguendo le sue canzoni.

Brucia bene, il fuoco…


Il fuoco è caldo, il fumo è amaro…
Il davanti è caldo per il fuoco, il didietro è freddo per il vento…
Il davanti è caldo per l’uomo, il didietro è freddo per la terra…
L’uccello ha molto cervello, l’orso ha molto cervello…
Perché non sono un uccello, perché non sono un orso…
Ogni notte il sole sprofonda nella terra ed esce fuori…
Il mio vecchio era un buon lavoratore, il mio vecchio era come il Sole…
Non vi ricordate di lui, non siete i suoi figli?…
Il mio vecchio era bravo a riscaldarmi…
Lui faceva così e io facevo così…

A questo punto, l’anziana donna cominciava a fare gesti che richiamavano l’atto
sessuale.
Adesso che il vecchio è andato, io sono diventata come la terra gelata…
Hei voi, che ancora fate del sesso, perché state seduti?
Venite qui, balliamo insieme…

Dopo diversi richiami, una parte delle donne si unisce a Solda e comincia a muoversi
con pudore. Gli uomini e le ragazze non partecipano alla danza; stanno seduti,
parlano, fumano, di tanto in tanto ridono alle parole oscene della vecchia che si
muove come se posseduta.

Se la mia vulva avesse i denti, taglierei i peni, così che potessero restare lì per
sempre.

La seduta sciamanica continuò fino all’alba. Il cerchio dei danzatori si muoveva


soltanto in senso orario (anche le danze sabbatiche sono balli in cerchio).
Attraverso questo racconto, si può rintracciare un substrato culturale sincretico, che
lega la sessualità alla continuità delle relazioni del clan al ciclo dell’anno, della
vegetazione, della riproduzione. La sessualità è sacralizzata e proiettata nell’universo.
L’audience condivide gli stessi sentimenti con la totalità del creato, nella rotazione
lunare che è mensile e annuale. I movimenti della sciamana rendono possibile
esprimere l’unità lunare e cosmica di tutta la comunità (32).

Le donne Sami, ieri e oggi

Per parlare delle donne Sami mi rifarò ai dati che l’antropologa statunitense Myrdene
Anderson, della Purdue University, West Lafayette, ha raccolto nel corso di diversi
anni di lavoro di campo fra il 1972 e il 1980 in Norvegia del Nord. Territori in cui,
malgrado gli sforzi del governo, che vorrebbe trasformare l’allevamento delle renne in
un’industria produttrice di carne, integrata con l’economia di mercato e fondata sul
denaro contante, e quindi gestita quasi soltanto dagli uomini, gli sforzi e la volontà
delle donne hanno permesso, fino ad ora, il permanere di un’economia di sussistenza
diversificata, che ha conservato l’ambiente oltre che la cultura. Perché una civiltà
continua nel tempo se riesce a mantenersi il sistema economico-ecologico che l’ha
originata, che l’ha nutrita, che l’ha fatta crescere. Quando le renne verranno
considerate soltanto carne da macello, i Sami si saranno estinti.
Prima di tutto, bisogna dire che, se qualche cosa dell’antica religione dei Sami si è
conservata, è potuto succedere grazie alla resistenza culturale delle donne. Perché,
mentre gli uomini, considerati capi famiglia, erano costretti a presenziare e a
partecipare alle cerimonie cristiane, e quindi ad andare alla messa domenicale, a
portare i figli a prendere i sacramenti, nel frattempo le loro mogli trovavano più
facilmente una scusa per starsene a casa, e continuare a pregare gli spiriti come
avevano sempre fatto: la distanza dalla chiesa, la neve e il freddo, la cura dei bambini
piccoli…
In realtà, la religione del potere trascurava le donne, non dava loro molta importanza;
ai preti bastava che gli uomini partecipassero alle funzioni, che battezzassero
regolarmente i loro figli con padrino e madrina. Non avevano capito, i missionari, che,
nella società sami, chi decideva il nome non era il padre, ma la madre; non avevano
compreso l’importanza che in una cultura animista, di antico retaggio matriarcale,
rivestiva l’imposizione del nome. Così, si praticava il battesimo lappone: il papà
portava il neonato in chiesa, e veniva battezzato con l’acqua santa. Una volta a casa,
la mamma lavava via l’acqua santa con la sacra cenere del focolare, dedicata alla dea
del fuoco, e lo ribattezzava con un nome sami.
Per secoli, gli uomini del Nord hanno dovuto far vedere, all’esterno, fuori di casa, nei
gruppi dei pari durante le occasioni pubbliche, in cui erano presenti anche
rappresentanti dell’autorità costituita, che avevano abbracciato la nuova fede. Di
sicuro, qualcuno di loro si sarà pure convinto. Viceversa, l’altra metà del cielo era
sottoposta a meno pressioni, perché non conduceva una vita di pubblica
rappresentanza: così ha potuto continuare ad officiare i riti arcaici, nella noncurante
ignoranza del potere. Ancora una volta, le donne custodi della memoria. Ancora una
volta, due comunità distinte per genere, in cui alcune cose della vita sono se non
precluse agli uomini, quanto meno affare di donne, da gestire in maniera matriarcale e
matrilineare: all’interno del clan della madre.
Passando dal passato al presente, si possono delineare alcune caratteristiche nella vita
delle donne sami di oggi, che fanno riconoscere l’eredità culturale di una civiltà che
assegnava (e assegna tuttora) alle signore un ruolo molto importante, e lascia loro una
grande libertà di movimento.
Il primo figlio, e talvolta anche i primi due, spesso nascono fuori dal matrimonio: ma
non sono la conseguenza di “sviste” adolescenziali: contraccezione e aborto erano e
sono largamente usati in questi casi; in passato, si praticava anche l’infanticidio. I
bambini nati fuori dal matrimonio non si possono neanche considerare ”prove di
fertilità”: semplicemente, sono desiderati e vengono reincorporati all’interno della
famiglia estesa (della madre). Sono benvenuti sia per i parenti paterni sia per quelli
materni, ma è la nonna materna che, normalmente, si occupa del bimbo.
In effetti, non esiste contraddizione fra famiglia estesa e libertà personale: il
corteggiamento informale è uno dei modi in cui si passa il tempo durante la gioventù
prolungata, anche in presenza di figli di altri partners. In una società matriarcale, o di
ascendenza matriarcale, in cui tutto quanto è connesso ai figli è affare di donne e della
discendenza matrilineare, non ha senso sposarsi per uscire di casa (e vivere finalmente
a modo proprio). Anzi: la costituzione di un nucleo familiare indipendente, e le spese
che ne conseguono, sono considerate quanto meno frivole per una coppia sola, e
perfino in presenza di uno o due figli: ecco perché spesso le donne fra i 20 e i 30 anni
fanno uno o due bambini. Li curerà la nonna, e, in subordine, l’intero clan della
madre. Nel frattempo, la neo mamma può lavorare e viaggiare senza difficoltà: ancora
una volta, lo spostamento è alla base di questo sistema di vita. Poi, quando avrà
raggranellato i soldi necessari per una casa propria (di solito, dopo i 30 anni di età)
uscirà dalla famiglia dei genitori, con un uomo (non necessariamente il padre dei figli)
o da sola. Ma manterrà rapporti strettissimi con la famiglia di origine: perché la
visione della famiglia fra i sami non è nucleare, isolata dal contesto, ma clanica,
inserita nei rapporti di vicinato, amicizia, solidarietà e parentela, ben più della madre
che del padre.
All’interno delle comunità sami, gli uomini si muovono principalmente con le
motoslitte, mezzi con cui raggiungono i siti di pascolo delle renne. Le donne, invece,
hanno la macchina: ovvero, godono di una notevole libertà di movimento. Sono loro
che si occupano delle pubbliche relazioni del clan: con i potenziali ospiti-partners, con
i commercianti, con gli amici, con i parenti, con i proprietari della fattorie con cui
scambiano beni e con cui litigano peri danni prodotti dalle renne che scorrazzano nei
campi devastandoli o cibandosi dei germogli, con i centri commerciali, con i turisti.
Sono i diplomatici, gli agenti di commercio, le guardie di confine (territoriali ma
anche culturali), che dominano i meccanismi di distribuzione dei beni e dirigono le
attività di consumo all’interno della famiglia così come nei confronti del mondo
esterno.
Statisticamente, hanno un livello di istruzione più alto dei loro compagni, spesso
parlano due o tre lingue. Ciò rende più agevole il lavoro di comunicazione e di
estensione della rete di relazioni, amicali ma anche lavorative e politiche, che le
signore svolgono senza sosta, stando fuori talvolta diversi giorni di seguito. La
necessità di consolidare i rapporti dà loro la scusa per passare gran parte del tempo in
macchina, per andare a trovare questo e quello. I figli sono con la nonna e, quando
diventano più grandicelli, vengono portati portano dietro perché fanno compagnia, e
intanto “imparano qualcosa”. Se i propri non sono cresciuti a sufficienza, si prendono
a prestito da una sorella, o da un’amica. Viaggiare con un bambino significa anche
evitare, o almeno ridurre, la possibilità di proposte indesiderate da parte maschile.
Mantenere un network amicale sufficientemente esteso (ed introdurvi i ragazzi fin da
giovani) assolve anche un’altra importantissima funzione: rinsaldare le relazioni fra
generazioni, ribadire l’identità culturale. Scegliendo oculatamente come amici
personali individui che hanno figli della stessa età dei propri, abituandoli a
frequentarsi fin da piccoli, vuol dire anche aprire dei “canali preferenziali” ai possibili
matrimoni, che si realizzano così all’interno della comunità (e della cultura di
appartenenza), senza forzature apparenti. In questo modo, usando metodi moderni
(impiegati anche da altre comunità. Per esempio, dagli ebrei, in cui le famiglie si
scambiano i bambini per mesi, per ”fargli imparare le lingue”) si realizza un antico
scopo: conservare i beni, materiali, come le renne, ma anche immateriali, come le
tradizioni, per mezzo dello scambio matrimoniale fra famiglie amiche, in cui ognuno
conosce i difetti degli altri e ci si sopporta in nome del bene comune, passando sopra
alle cose meno importanti.
Nelle famiglie di allevatori di renne, anche le bambine ricevono in regalo animali vivi.
Ancora oggi, un Sami, maschio o femmina che sia, se viene da una famiglia di
allevatori, non si muove senza il suo coltello appeso alla cintura.
Le case, così come le tende, in cui vive una donna adulta sono considerate sua
proprietà: l’uomo non ci deve mettere il becco. Le uniche residenze che possono
essere possedute da un maschio sono quelle occupate esclusivamente durante i periodi
in cui le renne pascolano lontano da casa e dalla famiglia, e non c’è nessuna matriarca
nei paraggi. L’artigianato, e l’economia monetaria, è in gran parte in mano alle donne:
gli uomini fanno i lavori più pesanti con le renne, anche se le signore partecipano
comunque alla selezione degli animali da macellare, alla distribuzione della carne,
delle carcasse e dei guadagni conseguenti. Ma sono le donne che gestiscono la rete
complessa di relazioni sociale ed economiche che collegano le comunità al mondo
esterno: scambi commerciali, flussi di energia, informazioni. Sono loro che scoprono,
scelgono, o scartano i beni che in vario modo offre il mercato.
Malgrado la mobilità a largo raggio, sono le donne che rafforzano l’identità etnica:
indossano e cuciono continuamente gli abiti tradizionali, per sé e per l’intera famiglia,
e cercano di riservare il privilegio di portarli ai membri delle sole comunità sami.
Ancora una volta, sono loro i custodi della memoria.

Ecosciamanesimo?

Non saprai niente. Sei troppo giovane, e troppo stupido, per qualcosa di tanto
importante!
Questa la risposta di un vecchio lappone, Lill-Marten, ad uno studioso, Torsten
Boberg, che, avendo intuito che l’amico adorava gli antichi dei, lo supplicò per anni di
mostrargli il luogo in cui portava le offerte. Ma morì senza soddisfare la sua curiosità.
Il seite (dio) di legno fu ritrovato, cinquant’anni più tardi, vicino ad un ripido scoglio,
a 900 metri di altezza (per il Nord, si tratta già di una quota ragguardevole), a meno di
un chilometro di distanza dalla casa di Boberg. Marten morì nel 1924; Boberg scrisse
la sua storia nel 1946. La scultura lignea fu rinvenuta da Rolf Kjellstrom, altro
studioso, nel 1972.
Le cerimonie col tamburo vennero segretamente praticate, e sono documentate,
almeno fino alla metà del XIX secolo, trasformate in tradizione di famiglia. Non solo:
i sacrifici agli dei continuano fino al XX secolo. Fino al 1950, i siti sacrificali erano
frequentati, curati e considerati importanti. Si credeva che la fortuna abbandonasse le
famiglie che smettevano di rispettare i vecchi dei. Nel 1945, un antropologo, Ernst
Manker, cercò di visitare uno di questi luoghi, vicino a Tjakkeli, in Svezia, ma i suoi
informatori sami si rifiutarono di indicarglielo in maniera precisa. Quando lui
comunque riuscì ad arrivarci, successe una cosa meravigliosa: apparvero sei vipere
nella zona sopra il limite delle conifere, dove non erano mai state viste prima. Non
basta: l’uomo che gli aveva indicato (vagamente) la zona, cominciò a sentire un tal
dolore alla gamba che dovette andare a Stoccolma a farsi visitare. In seguito riferì che
il male era iniziato proprio nel posto in cui aveva rivelato a Manker dove si trovava il
sito sacrificale.
Luoghi di culto segreti, e poi dimenticati, in cui si sono depositate offerte in corna di
renne, e praticati i culti arcaici, sono stati ritrovati a decine: e mostrano segni
inequivocabili di essere stati assiduamente frequentati fino agli anni ’50 almeno (33).
Ancora oggi, quando vanno a pescare, sono molti i finlandesi non sami che sputano
nell’acqua, ringraziando la Madre Terra per il pesce. E’ credenza comune, poi, anche
fra i docenti universitari di Rovaniemi, che chi vive al Nord, Sami o no, riesca, in
qualche modo, a prevedere il futuro. Parlare tranquillamente, fra vicini, dei propri
sogni premonitori è considerato normale argomento di conversazione.
Ciò significa che o i “vecchi credenti” sono rimasti attivi fino a pochissimo tempo fa,
o sono ancora praticanti. D’altra parte, i Sami, per difendere la propria cultura, spesso
hanno fatto la scelta di non parlare.
Le genti del Nord, nel corso dei millenni, hanno elaborato e costruito una civiltà
molto avanzata, ben adattata alle condizioni climatiche estreme. L’intensità dei
cambiamenti stagionali, segnati anche dalla lunghezza dei giorni e delle notti artiche,
che durano per mesi; la scarsità di risorse naturali e le durissime condizioni di vita
hanno condizionato le strutture sociali. Le tribù dell’artico hanno creato dei mestieri e
delle professionalità specifiche, che hanno consentito la loro sopravvivenza, che sono
stati conservati e si sono evoluti, e continuano a costituire la base per l’economia e la
vita degli indigeni. Non solo: la cultura si è espressa in forme originali, in modelli
artistici e decorativi particolari, in una poetica ben distinta da tutte le altre. Tra i
popoli siberiani, è cresciuta un’ideologia umanistica in cui la natura e l’uomo
costituiscono un’entità organica: da qui il profondo rispetto per l’ambiente e
l’ecologia.
La loro religione, al contrario di quelle rivelate, non è stata fondata né rielaborata da
esseri umani: interconnette e racchiude la natura, l’economia, la società, i sentimenti,
la sessualità, senza differenziare e dividere il sacro dal profano. Lo sciamanesimo è
parte integrante ed essenziale dell’identità culturale contemporanea delle genti del
Nord, dalla Lapponia alla Siberia.
In Siberia, lo sciamanesimo sta rifiorendo; anzi, sta diventando il principale segno di
identità delle popolazioni del Nord. A Tuva, in Mogolia, è stato dichiarato religione di
stato. Fra i Khanty, tutte le famiglie possiedono un tamburo; e la capacità di usarlo in
senso sciamanico e terapeutico è diffusa e condivisa (34). Il messaggio potrebbe
consistere in un programma, che sta crescendo nell’estremo Nord del mondo, per un
nuovo sciamanesimo, ecologicamente conscio, che persegue la protezione
dell’ambiente: un ecosciamanesimo. Che, forse, potrebbe portare ad una
riaffermazione identitaria, ad un rinnovato orgoglio di appartenenza etnica e culturale:
il primo passo per uscire dalla attuali condizioni di estrema marginalità, miseria e crisi
in cui versano queste popolazioni.

Note
1. Pierre de Lancre, Tableau de l’inconstance des mauvais anges et démons, Parigi
1613, p.253 e segg., cit. in Carlo Ginzburg, Storia notturna, Einaudi, Torino,
1989, p. 115
2. Erodoto, Storie, IV libro
3. Eugenio Turri, Gli uomini delle tende, Edizioni di Comunità, Milano, 1983, p. 9-
10, 48
4. Gaetano Forni, Gli albori dell’agricoltura, Ramo editoriale degli agricoltori,
Roma, 1990, p.123
5. Véronique Schiltz,. Gli Sciti dalla Siberia al Mar Nero, Universale
Electa/Gallimard, 1995, p.101, 128-130
6. Gaetano Forni, Gli albori cit., p. 38, 43, 126, 128, 131, 140-141
7. Michela Zucca, I draghi delle Alpi, in AA.VV., a cura di Michela Zucca,
Frammenti di cultura alpina ( r ) esistere in quota, report n° 18, Centro di
ecologia alpina, Trento, 199, p. 109-111
8. Giacomo Doglio, Gerardo Unia, Abitare le Alpi, Cuneo, L'Arciere, 1980, p.53 e
segg; e Arnolf Niederer, Economia e forme tradizionali di vita nelle Alpi, in
Storia e civiltà delle Alpi, a cura di Paul Guichonnet, vol II, Milano, Jaca Book,
1987, p. 74-75.
9. Detto pronunciato il giorno dei Morti dai bambini ancora oggi a Roana (Vr), fra le
comunità cimbre, che testimonia le antichissime credenze ancora vive nella Madre
Terra. Tratto da: Bruno Shweizer, Le credenze dei Cimbri sulle forze della
natura, Taucias Gareida, Giazza, Verona, i984, cit. in Oltre – Rivista di cultura
integrata per la sostenibilità ambientale, n° 5, marzo 2001, Italia Crea, Milano,
p. 32.
10. Kira van Deusen, The Flying Tiger: Women Shamans and Storytellers of the
Amur, Mc Gill-Queen’s University Press, Montreal, Canada, 2001; Takashi
Irimoto, Ainu Shamanism, in AA.VV., a cura di Takako Yamada e Takashi
Irimoto, Circumpolar Animism and Shamanism, Hokkaido University Press,
Sapporo, Giappone, 1997, p. 31, 42; Bo Lundmark, Rijukuo-Maia and Silbo-
Gammoe: toward the Question of Female Shamanism in the Saami Area, in
AA.VV., a cura di Tore Ahlback, Sami Religion, Almqvist & Wiksell
International, Stoccolma, Svezia, 1987, p. 158-169
11. AA.VV., a cura di Tore Ahlabck, Sami Religion cit.
12. Takako Yamada, The Concept of Universe and Spiritula Beings Among
Contemporary Yakut Shamans, in AA.VV., a cura di Takako Yamada e Takashi
Irimoto, Circumpolar Animism cit., p. 218
13. Olog Petersson, Sami Ideas about the realm of the Dead, in AA.VV., Sami
Religion cit., p. 72
14. Nacunbuhe, Stone Worhip in Mongolian Shamanism, in AA.VV., a cura di
Takako Yamada e Takashi Irimoto, Circumpolar Animism cit., p.255-259
15. Ornuly Vorren, Sacrificial Sites, Types and Function, in AA.VV., a cura di Tore
Ahlabck, Sami Religion cit., p. 94-109; AA.VV., a cura di Louise Backman e Ake
Hultkrantz, Saami Pre-Christian Religion, Stockholm Studies in Comparative
Religion n°25, Almqvist & Wiksell International, Stoccolma, Svezia,1985
16. Michela Zucca, Chi è salvatico si salva: l’uomo selvatico sulle Alpi, in AA.VV.,
a cura di Michela Zucca, La civiltà alpina – R – esistere in quota, IV Vol.,
L’immaginario, Centro di ecologia alpina, Trento, 1998
17. Odd Mathis Haetta, The Ancient Religion and Folk Beliefs of the Sami,
Fagttrikk Alta as, Alta Museum, 1994, p. 15
18. Libro su uomo selvatico a Madruzzo
19. Takashi Irimoto, Ainu Shamanism, in AA.VV., a cura di Takako Yamada e
Takashi Irimoto, Circumpolar Animism cit., Hokkaido University Press, Sapporo,
Giappone, 1997, p. 26-27
20. Erodoto, Storie cit.
21. Chiara Silvia Antonini, Religione e mitologia nell’arte degli sciti-siberiani, in
AA.VV., Siberia, Electa, Milano, 2001, p. 64
22. Carlo Ginzburg, Storia cit., p. 286
23. Questa, ed altre ricette della pomata delle streghe, sono riportate da Martha
Canestrini, Orti in Tirolo e in Trentino, supplemento al n° 21 di Arunda, Silandro
(Bz), p. 97. Ed ecco la Ricettta di Gerolamo Cardano, trattadal De Subtilitate, del
1547: Si prenda un grano di loglio, giusquiamo, cicuta, papavero rosso e nero,
lattuga e portoloca in quattro parti uguali, e si prepari l'unzione a regola d'arte.
Per ogni oncia del miscuglio aggiungere uno scrupolo di oppio tebano
24. Ann Fienup-Riordan, The Human Hand in Yup’ik Eskimo Iconography and
Oral Tradition, in AA.VV., a cura di Takako Yamada e Takashi Irimoto,
Circumpolar Animism cit., p. 180
25. Carlo Ginzburg, Storia cit., p. 284-287.
26. Joan Halifax, Shaman: the Wounded Healer, Thames and Hudson, Londra, 1982,
p. 32 e 82
27. Kalevala, runo III, Mondadori, Milano, 1988, p. 58
28. C Sachs, Storia degli strumenti musicali, Mondadori, Milano 1980, p. 388
29. Gregorio Bardini, Musica e sciamanesimo in Eurasia, Società editrice
Barbarossa, Milano, 1996, p. 12-13, 19
30. Takefusa Susamori, Healing Arts of the Itako, in AA.VV., a cura di Takako
Yamada e Takashi Irimoto, Circumpolar Animism cit., p. 45, 53
31. Mihaly Hoppal, Animistic Mythology and Helping Spirits in Siberian
Shamanism, in AA.VV., a cura di Takako Yamada e Takashi Irimoto,
Circumpolar Animism cit., p. 201
32. Juha Pentikainen, Shamanism and Culture, Etnika Co, Tampere, Finlandia,
Gummerus Printing, 1998, p. 53-56
33. Rolf Kjellstrom, Continuity of Old Sami Religion, in AA.VV., a cura di Tore
Ahlabck, Sami Religion cit., p. 24-33.
34. Juha Pentikainen, Toimi Jaatinen, Idikò Lehtinen, Marjo-Ritta Saloniemi,
Shamans, Tampere Museum Publications n° 45, Tampere, Finlandia, p. 22, 26,
42, 44

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