Streghe e Sciamane
Streghe e Sciamane
Streghe e Sciamane
Bisogna ammettere che gli stregoni erano un tempo molto meno numerosi di quanto
non siano oggi. Stavano in disparte nelle montagne e nei deserti, oppure nei paesi del
Settentrione come la Norvegia, la Danimarca, la Svezia, la Gotia, l’Irlanda, la
Livonia: perciò le loro idolatrie e i loro malefizi erano largamente sconosciuti, e
spesso venivano ritenuti favole o racconti di vecchie (1).
E’ Pierre de Lancre, uno fra i più feroci persecutori di streghe di tutti i tempi, che, a
distanza di quasi quattrocento anni, ci rimanda l’immagine di un rapporto stretto che
lui, fine conoscitore dell’offensiva lanciata da Satana contro il genere umano, non
fatica a distinguere. E così, accosta le seguaci di Diana dei Pirenei francesi agli
sciamani lapponi descritti da Olaus Magnus e da Peucer. Individuando un tratto
comune, caratteristico di entrambe le culture, quella genericamente stregonesca e
quella nordica: la trance, l’estasi diabolica, che da qualcuno viene interpretata come la
capacità dell’anima di uscire dal corpo, per “mettersi in viaggio”.
Dopo quattro secoli, sulla scia delle ricerche pionieristiche di Carlo Ginzburg,
approfittando della permanenza a più riprese in Lapponia quale project manager di un
progetto europeo, dal 1999 al 2001, che mi ha consentito di svolgere lavoro di campo
come antropologa e ricercatrice culturale, cercherò di riannodare le fila di un’antica
trama, che dalla Siberia avvolge l’Europa fino all’Irlanda, percorrendo i sentieri
dell’immaginario e della ritualità. Ricordi archetipi, sfocati, che si sono conservati
principalmente sulle Alpi e sui Pirenei, le montagne che sono riuscite, più di altri
territori, a mantenere un substrato cultuale arcaico, di origine misteriosa, che si
traduce in riti e tradizioni che rimandano ad un passato animista e sciamanico.
Anni in cui era la donna che amministrava il potere supremo. Come sacerdotessa, ma
anche come divinità. E come madre.
Uomini che non hanno né città né mura fortificate, ma portano con sé le proprie case
e sono tutti arcieri a cavallo e vivono non di agricoltura, ma di allevamento, e hanno
le loro case sui carri, come potranno non essere invincibili e inattaccabili? (2)
Un tempo si pensava che l’evoluzione delle società umane fosse caratterizzato da vari
stadi successivi: prima i cacciatori-raccoglitori, poi i pastori (entrambi nomadi) e
infine gli agricoltori (3). In realtà, queste classificazioni un’invenzione dei sedentari:
le popolazioni che occupano territori ampi e difficili quasi sempre hanno appartenuto
alle tre categorie insieme. E, se necessario, sono passate dall’una all’altra con relativa
facilità.
A guardar bene, l’Europa preistorica sembra percorsa in lungo e in largo da genti che
si spostano e si rimescolano continuamente, tramite migrazioni epocali ad ondate che
si trascinano dietro miti e culture. Quando si pensa al Vecchio continente di millenni e
millenni fa, lo si immagina vuoto, attraversato da orde che, in mancanza di meglio, si
fanno genericamente provenire da un non meglio identificato ”bacino dell’Indo”, da
cui sarebbe stata originata la “civiltà indoeuropea”, come se l’umanità fosse nata là e,
a poco a poco, avesse popolato un mondo vuoto. In realtà, questa è solo una
supposizione: di sicuro, la realtà è molto più complessa. Perché, mentre la
navigazione per mare presuppone un punto di partenza e un punto di arrivo in cui chi
viaggia rimane uguale a se stesso, il tragitto degli uomini e delle forme nella steppa
avviene con movimenti browniani: scambi, fusioni, contaminazioni che confondono le
piste, fanno perdere le tracce. Ciò che parte non è mai esattamente ciò che arriva.
Esaminando i ritrovamenti fossili oltre che archeologici, si sa che, con il lento ritiro
dei ghiacci, le renne e parte delle tribù cacciatrici, che su questo animale totemico
basavano la propria alimentazione e identità, si spostano verso nord. Chi rimane si
fonde con chi viene da sud, cioè dal Mediterraneo. Alla renna, che non è bestia di
montagna, subentra, nelle valli alpine ora abitabili, il cervo, che diventa anche
simbolo di fertilità. Ciò può essere dimostrato analizzando le tecniche di caccia delle
popolazioni polari, basate sull’impiego di esche sessuali, per cervi, alci, bovini
selvatici, che, fino al Medio Evo erano diffuse molto più a sud, fino alla Germania (4).
Secoli e secoli più tardi, dall’VIII sec. a.C. popolazioni nomadi provenienti dalle
steppe dell’Asia centrale, dall’Altai e dalla Siberia, cominciarono a compiere
incursioni ai confini dell’altopiano iranico, a occidente, e nella fascia compresa fra la
Mongolia e la Cina, a oriente. . Fra loro, gli Sciti, di matrice sicuramente protoceltica,
si stabilirono, alla fine, nel Caucaso e sul Mar Nero. All’inizio del VI sec. a.C. nuclei
consistenti di Sciti lasciarono le rive del Mar Nero e si spostarono verso occidente.
Varcarono il Dniestr e il Danubio, per insediarsi in Dobrugia. Dove si trovavano già i
Traci, che riconobbero la supremazia degli Sciti. Qui confluirono, all’inizio del IV
sec., tribù celtiche che, dopo aver investito una parte della penisola balcanica,
fondarono colonie in Asia Minore. Tutto ciò è documentato dal IV libro di Erodoto,
dedicato, appunto, agli Sciti; e da un’incredibile somiglianza delle forme artistiche in
cui si esprimevano queste antiche genti: un figurativismo animalista e fantastico, dove
si distinguono esseri che ancora oggi appartengono al folklore delle popolazioni
alpine: draghi, sirene, leoni alati, grifoni…..
Il territorio dei nomadi copre una fascia erbosa nel cuore del continente euroasiatico,
tra il 40° e il 50° parallelo, che corre dal Fiume Giallo al Danubio per più di 5mila
chilometri. L’immagine fisica che ci restituisce, ad ovest della steppa, l’arte greco-
romana, con una precisione quasi etnografica, è quella di uomini dai lunghi capelli
lisci, spesso barbuti e baffuti, con il volto ovale e un naso diritto molto marcato. Tutti
i testi, greci o cinesi che siano, suggeriscono una predominanza di capelli biondi o
rossi e una carnagione chiara, per non dire lattea (5). Gli Sciti, come, d’altra parte, i
Celti, straordinariamente affini come tratti somatici e acconciature, indossano un
indumento caratteristico, sconosciuto ai Greci e ai Romani: i pantaloni. Oltre ad un
lungo copricapo a cono: quello attribuito dalla tradizione a Merlino, ai maghi, agli
gnomi, alle fate.
La steppa unisce e non divide, neppure d’inverno: anzi, le immense torbiere
acquitrinose che dalla Lapponia si estendono fino a Vladivostok erano sicuramente
più trafficate nei mesi freddi, sulle slitte trainate dalle renne prima che dai cani, che si
muovevano agevolmente sui ghiacci, piuttosto che d’estate, periodo in cui la melma e
le zanzare rendevano difficoltosi gli spostamenti. Ricordiamo Caterina di Russia, che
per raggiungere il promesso sposo (e diventare imperatrice) preferisce viaggiare a
temperature polari, sepolta sotto le pellicce, per non subire i disagi di probabili derive
nel fango.
La sequenza delle migrazioni, quindi, potrebbe essere stata questa: nomadi delle
steppe e dell’artico-Sciti-Traci-Celti, a sud; nomadi delle steppe-Sami a nord.
Le Alpi dei nomadi
Il grafico è tratto da Eugenio Turri, Gli uomini delle tende, Edizioni di Comunità, Milano, 1983
1. Nomadismo arabo sahariano o nomadismo beduino (o beduinizzante)
2. Nomadismo saheliano
3. Nomadismo degli altipiani montuosi irano-anatolici
4. Nomadismo delle steppe asiatiche boreale
5. Nomadismo boreale degli allevatori di renne
6. Nomadismo alpino, balcanico e mediterraneo
7. Grandi muraglie per difendersi dai nomadi
Il concetto di Nord, artico, è, nello stesso tempo, ecologico e mitico. La parola deriva
dal greco arktos, orso. E il mito non è facile da distruggere. Perché nacque in territori
vastissimi, impiegò un’enormità di tempo per autocostruirsi, elaborarsi, rifinirsi, per
poi conservarsi e trasmettersi in una catena di infinite generazioni di uomini.
Superficialmente, queste tradizioni si sono trasformate in storia e in geografia: in
realtà, rimangono nell’inconscio, nella memoria archetipa, nell’arte, nella speranza,
nei sogni, nelle allucinazioni, nelle paure senza nome.
Nel Kalevala, il poema epico dei finnici, l’eroe sale in Lapponia per trovarsi una
sposa, che deve chiedere alla regina (non al re) di Pohjola, potentissima sciamana.
Pohjola è chiamata anche Pimentola, terra delle tenebre, Untamola, terra di Untamo,
villaggio del gelo, in cui si divorano gli eroi. Quando la madre (sempre lei!) cerca di
proibire al figlio di recarsi al Nord, gli rivolge queste parole:
Questa ricetta, del XVIII secolo inoltrato, testimonia la permanenza sulle Alpi di
pratiche antichissime, che molti studiosi considerano cancellate con l’Inquisizione e il
Concilio di Trento. E dimostrano anche la conoscenza e l’uso degli stessi psicotropi,
sulle nostre montagne e nelle steppe artiche.
Altrettanto indiscutibile l’affinità fra amanita muscaria e rospo. Perfino in Alaska le
rane, malgrado siano rarissime, sono associate con lo sciamanesimo (24). Ancora
oggi, spesso i rospi sono raffigurati sul fungo più bello, e compaiono normalmente nei
giardini in questa posizione. A lungo si è pensato che questo rapporto fosse
inspiegabile. Fino a quando si è scoperto che la pelle di rospo contiene i bufadielonidi,
sostanze chimiche la cui azione come anestetici locali è 90 volte più forte di quella
della cocaina, sintetizzati e isolati pochi anni fa da G. R. Pettit dell’università
dell’Arizona, in una ricerca congiunta con l’università di Miami. Si tratta di strutture
chimiche complicatissime, potentissimi anestetici locali, la cui azione sul cuore
umano è simile a quella della digitale.
La conoscenza stregonesca delle essenze naturali era talmente profonda da permettere
alle specialiste l’impiego di sostanze pericolosissime, specie su organismi che
dovevano essere in stato di denutrizione quasi cronica, sia in funzione terapeutica che
allucinogena, per “aprire le porte della percezione” e per “entrare in un’altra
dimensione”. Per arrivare ad interpretare la volontà degli spiriti, oppure magari
soltanto per estraniarsi da una realtà fatta di dolore, miseria e fame, si procuravano
uno stato allucinatorio in cui facevano dei veri e propri viaggi nel “mondo di là”..
E’ Adam Lonicer che, per primo, descrive scientificamente la Claviceps purpurea,
ovvero la segale cornuta, nel 1582. Ma della cultura medica popolare, soprattutto
femminile, la segale cornuta faceva parte, verosimilmente, da molto tempo. Le sue
proprietà erano conosciute e controllate: le levatrici la somministravano per affrettare
le doglie. In antico francese si chiama siegle ivre (segale ubriaca), in tedesco Tollkor ,
grano pazzo. Esisteva una “madre della segale”, Roggenmutter, raffigurazione
tipicamente sciamanica, associata al lupo della segale e al lupo mannaro (25). Ancora
oggi, in Amazzonia, gli stregoni parlano del principio attivo degli agenti psicotropi
allucinatori come “madre” (madre dell’ayahuasca, per esempio, la sostanza
allucinogena usata tra il Perù, il Brasile e la Colombia). L’ipotesi che la segale
cornuta venisse consapevolmente usata per ottenere stati alterati di coscienza è resa
più plausibile da questa ricchezza di associazioni mitiche.
Con l’assunzione dello psicotropo, mentre si cade in catalessi, o “ci si addormenta”,
esce l’anima dal corpo: in altre parole, si entra in uno stato modificato di coscienza,
che, per una cultura sciamanica, è caratterizzato dal viaggio, o dal volo. A cavallo di
una scopa, per le streghe alpine; le quali, però, riferiscono (specie nelle confessioni
più antiche) anche di voli in groppa ad animali come il caprone, o addirittura
trasformazioni in animali. Anche nei territori artici, l’anima dello sciamano,
trasformata in lupo, orso, renna, pesce, oppure in groppa da un animale (cavallo o
cammello) che, nel rito, è simboleggiato dal tamburo, abbandona il corpo esanime.
Passato un certo tempo, più o meno lungo, lo sciamano esce dalla catalessi per riferire
agli spettatori del rito che cosa ha visto, che cosa ha imparato, che cosa ha fatto
nell’altro mondo. Olaus Magnus racconta che i maghi lapponi portavano perfino un
anello o un coltello come prova tangibile del viaggio fatto. Stessa storia per le streghe:
che sostenevano di essersi veramente recate al sabba, di aver davvero incontrato la
Signora del Buon Zogo con ogni specie di animali, e di aver ricevuto da lei
conoscenze e consigli sulle erbe terapeutiche. Il diavolo arriva in seguito, prima come
spirito ausiliario, poi come signore degli Inferi: imposto e creato, però, a forza di
torture.
Sui tamburi degli sciamani è stata riconosciuta, in molti casi, una mappa del mondo
dei morti. Ma anche i protagonisti del culto estatico documentato in ogni angolo del
continente europeo si consideravano, e venivano considerati, agenti mediatori fra i
vivi e i morti. In entrambi i casi, le cavalcate in groppa agli animali esprimevano
simbolicamente l’estasi: la morte temporanea segnata dall’uscita, in forma di animale,
dell’anima dal corpo.
Altra analogia fra le due civiltà riguarda l’uso e la tipologia delle maschere indossate
durante i riti sciamanici: maschere che presentano tratti molto simili fra loro. Per
esempio, la presenza delle corna, caratteristiche anche della divinità celtica
Cernunnos, dio degli animali, e di diverse rappresentazioni di sciamani preistorici pre
celtici. L’espressione oscena, la lingua fuori: che, se da una parte allude sicuramente
ad una sessualità esasperata, dall’altra sembra voler assaggiare tutto, divorare
l’universo intero. Stessa cosa per gli occhi: sbarrati, senza espressione, spiritati,
iniettati di sangue, spalancati di fronte all’incredibile visione del mondo degli spiriti,
che viene da dentro, dal sé, suscitata dagli psicotropi, non da oggetti toccabili; aperti
all’interpretazione dell’inconoscibile, dell’indicibile, dell’insopportabile: l’amoralità
della natura (26). Perché il mondo delle creature non è né buono né cattivo, è, e basta:
il compito dello sciamano (e della strega) consiste nell’assicurare la sopravvivenza
della comunità, con ogni mezzo: dal sacrificio propiziatorio di un essere vivente
all’infanticidio dei piccoli che non si possono trasportare durante un trasferimento, o
che la collettività non può mantenere.
Tanto è vero che uno degli choc culturali che colpisce gli appartenenti ad una civiltà
di religione non animista, atei compresi, è il vedere come chi crede negli spiriti accetti
“naturalmente” l’idea, e la pratica, della morte. I genitori, davanti ai propri figli morti
di fame, o di malattia, non solo non si ribellano, ma liquidano la perdita con riti
funebri brevi e sbrigativi, mentre esistono cerimonie molto complesse per la dipartita
dei membri importanti e adulti della comunità. Ricordiamo che, anche nelle campagne
europee e alpine, quando la situazione di povertà e di dipendenza dall’ambiente
esterno erano gravi, e il cristianesimo aveva soltanto scalfito le credenze precedenti, la
morte degli individui deboli, quando non era deliberatamente provocata (con la
mancanza di cure, se non con l’omicidio vero e proprio) era vissuta come una dura
necessità, che provocava ben pochi rimorsi.
Sedette sulla rupe della gioia, si assise sulla pietra del canto (27)
Lo sciamano lappone è l’agente della propria trance, che ottiene suonando il tamburo:
non sono gli altri che suonano per lui. Per questo motivo viene usato, coscientemente,
il crescendo e l’accelerazione del ritmo. Il suono può variare anche di intensità,
altezza e timbro, a seconda dell’effetto che si vuole suscitare (su se stessi e/o sul
pubblico), obbedendo a regole musicali tramandate in funzione segnaletica, descrittiva
e simbolica.
Respiri rauchi, abbai, sospiri, fischi, grida, invocazioni, ansiti, sono il segno della
presenza degli spiriti. Lo sciamano racconta ciò che vede, e fissa nella memoria,
grazie anche alla musica, un testo lunghissimo, e, nel frattempo, si carica
magicamente. Ogni sciamano ha un suo canto personale che usa per invocare gli
spiriti. Spesso, la lingua segreta è un’imitazione “totemica” delle grida degli animali
(29).
I canti finnici sono di due tipi: canti narrativi, come il Kalevala, e canti magici, quelli
degli sciamani. Spesso però la distinzione non è poi così netta.
La melodia lappone è esclusivamente un’arte vocale, incentrata sugli yoikos,
antichissimi canti cerimoniali, di cui si è perso il significato. Lo yoik gioca un ruolo
importantissimo nel rituale sciamanico. Era anche un mezzo per cadere in trance.
Tanto è vero che i missionari proibirono il canto degli yoikos, anche se non
contengono un vero e proprio testo. Di solito, la strofa consiste di poche parole
coerenti fra loro, a cui si sovrappongono vocalizzi affini a quelli degli jodlers, che
richiamano il verso degli animali. Queste vocalizzazioni monosillabiche, che
appaiono senza significato, in realtà esprimono l’opinione di chi canta nei riguardi
della persona di cui si parla, o che ha di fronte.
Pare che questi strani suoni vogliano deliberatamente nascondere, secretare, le parole,
che in nessun caso venivano rivelate agli stranieri. Probabilmente, perché in origine
erano formule magiche, che ci trasmettono l’eco delle più arcaiche condizioni di vita
della razza umana. In generale, si può dire che gli yoikos venivano composti per
comunità di ridotte dimensioni, talvolta all’interno di una sola famiglia estesa, in cui
anche una piccolissima allusione, totalmente incomprensibile agli esterni, poteva fa
capire il significato. Col tempo, per mantenersi tra una persecuzione e l’altra,
diventarono canti esoterici, segreti: ancora oggi, i loro testi vengono mantenuti
all’interno di una ristretta cerchia di persone. D’altronde, chi canta non sempre
capisce il significato dei nomi e delle parole: semplicemente, li ripete così come li ha
sentiti cantare dagli anziani; ma in questo modo si sono conservati nel tempo.
In un quadro come questo, la particolare modalità di canto dei Sami rappresenta una
forma estremamente sofisticata di arte musicale, affine alla musica colta. Attraverso
suoni e gorgheggi si manifestano sentimenti: la tecnica deve essere molto raffinata.
Anche perché vengono imitati, ed espressi, i suoni della natura: la voce degli animali,
il rumore dell’acqua, ma anche il sole che sorge e che tramonta…. Per invocare
l’aiuto degli spiriti, per parlare con l’invisibile.
L’unica cosa che si può paragonare agli yoikos lapponi sono gli jodlers alpini,
anch’essi, in origine, canti magici che non descrivevano ma esprimevano la natura e il
trascendente, imitando spesso la voce degli animali. Persino i due sostantivi sono
acusticamente simili, anche se non posso avanzare supposizioni su una loro possibile
origine comune.
La conoscenza degli animali è così profonda, presso i popoli delle Alpi, da costituire
la loro grande sapienza. Poveri di tecnologia, esplicano tutta la loro esperienza sul
mondo animale, tanto che il canto tipico dell’alpeggio, lo jodler, pare fosse, in
origine, un richiamo per animali. Ed era diffuso su un areale molto più vasto di quello
odierno (per esempio, comprendeva anche la Valtellina e la Val Chiavenna). Fare
musica imitando le voci dei non umani non è prerogativa dei popoli pastori: ma
mentre i cacciatori dell’antichità producevano rumori con vari mezzi, allo scopo sia di
richiamare che di spaventare gli animali e di ucciderli, i pastori cercavano di
ammansire le bestie, di attirarle e di stringere un legame con loro. La musica era un
aiuto. Se una capra si perdeva fra i dirupi, sentendo il suono del flauto poteva
orientarsi e ritrovare le compagne. Se due armenti si incontravano ad una sorgente e si
mescolavano, i pastori cantavano ognuno il proprio leit motiv e gli animali lo
seguivano. Per questo ripetono sempre, all’infinito, lo stesso motivo, monotono e
familiare. Per chi non è abituato queste nenie sono spaventosamente uniformi, proprio
come le praterie di alta quota. Anche se hanno raggiunto un livello tecnico di
esecuzione vocale (il gorgheggio, il canto a tir) molto difficile da imitare, il loro
suono risulta “stonato” per chi ascolta musica armonizzata, moderna. In questa forma
d’arte tipicamente alpina, legata, nelle sue origini, agli animali, l’esatto contrario
dell’arte e delle bellezza secondo la “cultura colta”, sono ancora una volta le donne ad
eccellere, perché iniziano i cori, danno l’acuto, trascinano sempre più in alto le voci
dei cantori. E si ricordano le canzoni.
In Lapponia, il canto degli sciamani assumeva il carattere di una recita musicata dei
nomi degli spiriti, ma la persecuzione cristiana fece terminare le esibizioni pubbliche.
Gli sciamani furono costretti al silenzio, i nomi magici divennero segreti, e poi,
gradualmente, vennero dimenticati (?!) dalle generazioni successive di Lapponi ri
educati. Le melodie, però, riuscirono a conservarsi, perché costituivano il nutrimento
musicale della gente, che ha sempre fame di cibo spirituale, che soddisfa la mente,
oltre che la pancia. I nomi proibiti degli spiriti furono sostituiti da quelli della gente
comune della vita quotidiana. Il rituale propiziatorio del canto piano piano sparì, per
essere rimpiazzato dalle descrizioni di uomini e situazioni normali, che non erano
vietate dalle leggi cristiane. Soltanto in questi ultimi anni, si stanno portando avanti
ricerche più approfondite, che cercano di collegare gli yoikos con la cultura
sciamanica.
Gli ascoltatori le davano vodka, e aggiungevano ceppi al fuoco. Dopo aver bevuto,
Salda comincia a urlare e a saltare selvaggiamente attorno al fuoco, tenendo i seni in
mano, e proseguendo le sue canzoni.
A questo punto, l’anziana donna cominciava a fare gesti che richiamavano l’atto
sessuale.
Adesso che il vecchio è andato, io sono diventata come la terra gelata…
Hei voi, che ancora fate del sesso, perché state seduti?
Venite qui, balliamo insieme…
Dopo diversi richiami, una parte delle donne si unisce a Solda e comincia a muoversi
con pudore. Gli uomini e le ragazze non partecipano alla danza; stanno seduti,
parlano, fumano, di tanto in tanto ridono alle parole oscene della vecchia che si
muove come se posseduta.
Se la mia vulva avesse i denti, taglierei i peni, così che potessero restare lì per
sempre.
Per parlare delle donne Sami mi rifarò ai dati che l’antropologa statunitense Myrdene
Anderson, della Purdue University, West Lafayette, ha raccolto nel corso di diversi
anni di lavoro di campo fra il 1972 e il 1980 in Norvegia del Nord. Territori in cui,
malgrado gli sforzi del governo, che vorrebbe trasformare l’allevamento delle renne in
un’industria produttrice di carne, integrata con l’economia di mercato e fondata sul
denaro contante, e quindi gestita quasi soltanto dagli uomini, gli sforzi e la volontà
delle donne hanno permesso, fino ad ora, il permanere di un’economia di sussistenza
diversificata, che ha conservato l’ambiente oltre che la cultura. Perché una civiltà
continua nel tempo se riesce a mantenersi il sistema economico-ecologico che l’ha
originata, che l’ha nutrita, che l’ha fatta crescere. Quando le renne verranno
considerate soltanto carne da macello, i Sami si saranno estinti.
Prima di tutto, bisogna dire che, se qualche cosa dell’antica religione dei Sami si è
conservata, è potuto succedere grazie alla resistenza culturale delle donne. Perché,
mentre gli uomini, considerati capi famiglia, erano costretti a presenziare e a
partecipare alle cerimonie cristiane, e quindi ad andare alla messa domenicale, a
portare i figli a prendere i sacramenti, nel frattempo le loro mogli trovavano più
facilmente una scusa per starsene a casa, e continuare a pregare gli spiriti come
avevano sempre fatto: la distanza dalla chiesa, la neve e il freddo, la cura dei bambini
piccoli…
In realtà, la religione del potere trascurava le donne, non dava loro molta importanza;
ai preti bastava che gli uomini partecipassero alle funzioni, che battezzassero
regolarmente i loro figli con padrino e madrina. Non avevano capito, i missionari, che,
nella società sami, chi decideva il nome non era il padre, ma la madre; non avevano
compreso l’importanza che in una cultura animista, di antico retaggio matriarcale,
rivestiva l’imposizione del nome. Così, si praticava il battesimo lappone: il papà
portava il neonato in chiesa, e veniva battezzato con l’acqua santa. Una volta a casa,
la mamma lavava via l’acqua santa con la sacra cenere del focolare, dedicata alla dea
del fuoco, e lo ribattezzava con un nome sami.
Per secoli, gli uomini del Nord hanno dovuto far vedere, all’esterno, fuori di casa, nei
gruppi dei pari durante le occasioni pubbliche, in cui erano presenti anche
rappresentanti dell’autorità costituita, che avevano abbracciato la nuova fede. Di
sicuro, qualcuno di loro si sarà pure convinto. Viceversa, l’altra metà del cielo era
sottoposta a meno pressioni, perché non conduceva una vita di pubblica
rappresentanza: così ha potuto continuare ad officiare i riti arcaici, nella noncurante
ignoranza del potere. Ancora una volta, le donne custodi della memoria. Ancora una
volta, due comunità distinte per genere, in cui alcune cose della vita sono se non
precluse agli uomini, quanto meno affare di donne, da gestire in maniera matriarcale e
matrilineare: all’interno del clan della madre.
Passando dal passato al presente, si possono delineare alcune caratteristiche nella vita
delle donne sami di oggi, che fanno riconoscere l’eredità culturale di una civiltà che
assegnava (e assegna tuttora) alle signore un ruolo molto importante, e lascia loro una
grande libertà di movimento.
Il primo figlio, e talvolta anche i primi due, spesso nascono fuori dal matrimonio: ma
non sono la conseguenza di “sviste” adolescenziali: contraccezione e aborto erano e
sono largamente usati in questi casi; in passato, si praticava anche l’infanticidio. I
bambini nati fuori dal matrimonio non si possono neanche considerare ”prove di
fertilità”: semplicemente, sono desiderati e vengono reincorporati all’interno della
famiglia estesa (della madre). Sono benvenuti sia per i parenti paterni sia per quelli
materni, ma è la nonna materna che, normalmente, si occupa del bimbo.
In effetti, non esiste contraddizione fra famiglia estesa e libertà personale: il
corteggiamento informale è uno dei modi in cui si passa il tempo durante la gioventù
prolungata, anche in presenza di figli di altri partners. In una società matriarcale, o di
ascendenza matriarcale, in cui tutto quanto è connesso ai figli è affare di donne e della
discendenza matrilineare, non ha senso sposarsi per uscire di casa (e vivere finalmente
a modo proprio). Anzi: la costituzione di un nucleo familiare indipendente, e le spese
che ne conseguono, sono considerate quanto meno frivole per una coppia sola, e
perfino in presenza di uno o due figli: ecco perché spesso le donne fra i 20 e i 30 anni
fanno uno o due bambini. Li curerà la nonna, e, in subordine, l’intero clan della
madre. Nel frattempo, la neo mamma può lavorare e viaggiare senza difficoltà: ancora
una volta, lo spostamento è alla base di questo sistema di vita. Poi, quando avrà
raggranellato i soldi necessari per una casa propria (di solito, dopo i 30 anni di età)
uscirà dalla famiglia dei genitori, con un uomo (non necessariamente il padre dei figli)
o da sola. Ma manterrà rapporti strettissimi con la famiglia di origine: perché la
visione della famiglia fra i sami non è nucleare, isolata dal contesto, ma clanica,
inserita nei rapporti di vicinato, amicizia, solidarietà e parentela, ben più della madre
che del padre.
All’interno delle comunità sami, gli uomini si muovono principalmente con le
motoslitte, mezzi con cui raggiungono i siti di pascolo delle renne. Le donne, invece,
hanno la macchina: ovvero, godono di una notevole libertà di movimento. Sono loro
che si occupano delle pubbliche relazioni del clan: con i potenziali ospiti-partners, con
i commercianti, con gli amici, con i parenti, con i proprietari della fattorie con cui
scambiano beni e con cui litigano peri danni prodotti dalle renne che scorrazzano nei
campi devastandoli o cibandosi dei germogli, con i centri commerciali, con i turisti.
Sono i diplomatici, gli agenti di commercio, le guardie di confine (territoriali ma
anche culturali), che dominano i meccanismi di distribuzione dei beni e dirigono le
attività di consumo all’interno della famiglia così come nei confronti del mondo
esterno.
Statisticamente, hanno un livello di istruzione più alto dei loro compagni, spesso
parlano due o tre lingue. Ciò rende più agevole il lavoro di comunicazione e di
estensione della rete di relazioni, amicali ma anche lavorative e politiche, che le
signore svolgono senza sosta, stando fuori talvolta diversi giorni di seguito. La
necessità di consolidare i rapporti dà loro la scusa per passare gran parte del tempo in
macchina, per andare a trovare questo e quello. I figli sono con la nonna e, quando
diventano più grandicelli, vengono portati portano dietro perché fanno compagnia, e
intanto “imparano qualcosa”. Se i propri non sono cresciuti a sufficienza, si prendono
a prestito da una sorella, o da un’amica. Viaggiare con un bambino significa anche
evitare, o almeno ridurre, la possibilità di proposte indesiderate da parte maschile.
Mantenere un network amicale sufficientemente esteso (ed introdurvi i ragazzi fin da
giovani) assolve anche un’altra importantissima funzione: rinsaldare le relazioni fra
generazioni, ribadire l’identità culturale. Scegliendo oculatamente come amici
personali individui che hanno figli della stessa età dei propri, abituandoli a
frequentarsi fin da piccoli, vuol dire anche aprire dei “canali preferenziali” ai possibili
matrimoni, che si realizzano così all’interno della comunità (e della cultura di
appartenenza), senza forzature apparenti. In questo modo, usando metodi moderni
(impiegati anche da altre comunità. Per esempio, dagli ebrei, in cui le famiglie si
scambiano i bambini per mesi, per ”fargli imparare le lingue”) si realizza un antico
scopo: conservare i beni, materiali, come le renne, ma anche immateriali, come le
tradizioni, per mezzo dello scambio matrimoniale fra famiglie amiche, in cui ognuno
conosce i difetti degli altri e ci si sopporta in nome del bene comune, passando sopra
alle cose meno importanti.
Nelle famiglie di allevatori di renne, anche le bambine ricevono in regalo animali vivi.
Ancora oggi, un Sami, maschio o femmina che sia, se viene da una famiglia di
allevatori, non si muove senza il suo coltello appeso alla cintura.
Le case, così come le tende, in cui vive una donna adulta sono considerate sua
proprietà: l’uomo non ci deve mettere il becco. Le uniche residenze che possono
essere possedute da un maschio sono quelle occupate esclusivamente durante i periodi
in cui le renne pascolano lontano da casa e dalla famiglia, e non c’è nessuna matriarca
nei paraggi. L’artigianato, e l’economia monetaria, è in gran parte in mano alle donne:
gli uomini fanno i lavori più pesanti con le renne, anche se le signore partecipano
comunque alla selezione degli animali da macellare, alla distribuzione della carne,
delle carcasse e dei guadagni conseguenti. Ma sono le donne che gestiscono la rete
complessa di relazioni sociale ed economiche che collegano le comunità al mondo
esterno: scambi commerciali, flussi di energia, informazioni. Sono loro che scoprono,
scelgono, o scartano i beni che in vario modo offre il mercato.
Malgrado la mobilità a largo raggio, sono le donne che rafforzano l’identità etnica:
indossano e cuciono continuamente gli abiti tradizionali, per sé e per l’intera famiglia,
e cercano di riservare il privilegio di portarli ai membri delle sole comunità sami.
Ancora una volta, sono loro i custodi della memoria.
Ecosciamanesimo?
Non saprai niente. Sei troppo giovane, e troppo stupido, per qualcosa di tanto
importante!
Questa la risposta di un vecchio lappone, Lill-Marten, ad uno studioso, Torsten
Boberg, che, avendo intuito che l’amico adorava gli antichi dei, lo supplicò per anni di
mostrargli il luogo in cui portava le offerte. Ma morì senza soddisfare la sua curiosità.
Il seite (dio) di legno fu ritrovato, cinquant’anni più tardi, vicino ad un ripido scoglio,
a 900 metri di altezza (per il Nord, si tratta già di una quota ragguardevole), a meno di
un chilometro di distanza dalla casa di Boberg. Marten morì nel 1924; Boberg scrisse
la sua storia nel 1946. La scultura lignea fu rinvenuta da Rolf Kjellstrom, altro
studioso, nel 1972.
Le cerimonie col tamburo vennero segretamente praticate, e sono documentate,
almeno fino alla metà del XIX secolo, trasformate in tradizione di famiglia. Non solo:
i sacrifici agli dei continuano fino al XX secolo. Fino al 1950, i siti sacrificali erano
frequentati, curati e considerati importanti. Si credeva che la fortuna abbandonasse le
famiglie che smettevano di rispettare i vecchi dei. Nel 1945, un antropologo, Ernst
Manker, cercò di visitare uno di questi luoghi, vicino a Tjakkeli, in Svezia, ma i suoi
informatori sami si rifiutarono di indicarglielo in maniera precisa. Quando lui
comunque riuscì ad arrivarci, successe una cosa meravigliosa: apparvero sei vipere
nella zona sopra il limite delle conifere, dove non erano mai state viste prima. Non
basta: l’uomo che gli aveva indicato (vagamente) la zona, cominciò a sentire un tal
dolore alla gamba che dovette andare a Stoccolma a farsi visitare. In seguito riferì che
il male era iniziato proprio nel posto in cui aveva rivelato a Manker dove si trovava il
sito sacrificale.
Luoghi di culto segreti, e poi dimenticati, in cui si sono depositate offerte in corna di
renne, e praticati i culti arcaici, sono stati ritrovati a decine: e mostrano segni
inequivocabili di essere stati assiduamente frequentati fino agli anni ’50 almeno (33).
Ancora oggi, quando vanno a pescare, sono molti i finlandesi non sami che sputano
nell’acqua, ringraziando la Madre Terra per il pesce. E’ credenza comune, poi, anche
fra i docenti universitari di Rovaniemi, che chi vive al Nord, Sami o no, riesca, in
qualche modo, a prevedere il futuro. Parlare tranquillamente, fra vicini, dei propri
sogni premonitori è considerato normale argomento di conversazione.
Ciò significa che o i “vecchi credenti” sono rimasti attivi fino a pochissimo tempo fa,
o sono ancora praticanti. D’altra parte, i Sami, per difendere la propria cultura, spesso
hanno fatto la scelta di non parlare.
Le genti del Nord, nel corso dei millenni, hanno elaborato e costruito una civiltà
molto avanzata, ben adattata alle condizioni climatiche estreme. L’intensità dei
cambiamenti stagionali, segnati anche dalla lunghezza dei giorni e delle notti artiche,
che durano per mesi; la scarsità di risorse naturali e le durissime condizioni di vita
hanno condizionato le strutture sociali. Le tribù dell’artico hanno creato dei mestieri e
delle professionalità specifiche, che hanno consentito la loro sopravvivenza, che sono
stati conservati e si sono evoluti, e continuano a costituire la base per l’economia e la
vita degli indigeni. Non solo: la cultura si è espressa in forme originali, in modelli
artistici e decorativi particolari, in una poetica ben distinta da tutte le altre. Tra i
popoli siberiani, è cresciuta un’ideologia umanistica in cui la natura e l’uomo
costituiscono un’entità organica: da qui il profondo rispetto per l’ambiente e
l’ecologia.
La loro religione, al contrario di quelle rivelate, non è stata fondata né rielaborata da
esseri umani: interconnette e racchiude la natura, l’economia, la società, i sentimenti,
la sessualità, senza differenziare e dividere il sacro dal profano. Lo sciamanesimo è
parte integrante ed essenziale dell’identità culturale contemporanea delle genti del
Nord, dalla Lapponia alla Siberia.
In Siberia, lo sciamanesimo sta rifiorendo; anzi, sta diventando il principale segno di
identità delle popolazioni del Nord. A Tuva, in Mogolia, è stato dichiarato religione di
stato. Fra i Khanty, tutte le famiglie possiedono un tamburo; e la capacità di usarlo in
senso sciamanico e terapeutico è diffusa e condivisa (34). Il messaggio potrebbe
consistere in un programma, che sta crescendo nell’estremo Nord del mondo, per un
nuovo sciamanesimo, ecologicamente conscio, che persegue la protezione
dell’ambiente: un ecosciamanesimo. Che, forse, potrebbe portare ad una
riaffermazione identitaria, ad un rinnovato orgoglio di appartenenza etnica e culturale:
il primo passo per uscire dalla attuali condizioni di estrema marginalità, miseria e crisi
in cui versano queste popolazioni.
Note
1. Pierre de Lancre, Tableau de l’inconstance des mauvais anges et démons, Parigi
1613, p.253 e segg., cit. in Carlo Ginzburg, Storia notturna, Einaudi, Torino,
1989, p. 115
2. Erodoto, Storie, IV libro
3. Eugenio Turri, Gli uomini delle tende, Edizioni di Comunità, Milano, 1983, p. 9-
10, 48
4. Gaetano Forni, Gli albori dell’agricoltura, Ramo editoriale degli agricoltori,
Roma, 1990, p.123
5. Véronique Schiltz,. Gli Sciti dalla Siberia al Mar Nero, Universale
Electa/Gallimard, 1995, p.101, 128-130
6. Gaetano Forni, Gli albori cit., p. 38, 43, 126, 128, 131, 140-141
7. Michela Zucca, I draghi delle Alpi, in AA.VV., a cura di Michela Zucca,
Frammenti di cultura alpina ( r ) esistere in quota, report n° 18, Centro di
ecologia alpina, Trento, 199, p. 109-111
8. Giacomo Doglio, Gerardo Unia, Abitare le Alpi, Cuneo, L'Arciere, 1980, p.53 e
segg; e Arnolf Niederer, Economia e forme tradizionali di vita nelle Alpi, in
Storia e civiltà delle Alpi, a cura di Paul Guichonnet, vol II, Milano, Jaca Book,
1987, p. 74-75.
9. Detto pronunciato il giorno dei Morti dai bambini ancora oggi a Roana (Vr), fra le
comunità cimbre, che testimonia le antichissime credenze ancora vive nella Madre
Terra. Tratto da: Bruno Shweizer, Le credenze dei Cimbri sulle forze della
natura, Taucias Gareida, Giazza, Verona, i984, cit. in Oltre – Rivista di cultura
integrata per la sostenibilità ambientale, n° 5, marzo 2001, Italia Crea, Milano,
p. 32.
10. Kira van Deusen, The Flying Tiger: Women Shamans and Storytellers of the
Amur, Mc Gill-Queen’s University Press, Montreal, Canada, 2001; Takashi
Irimoto, Ainu Shamanism, in AA.VV., a cura di Takako Yamada e Takashi
Irimoto, Circumpolar Animism and Shamanism, Hokkaido University Press,
Sapporo, Giappone, 1997, p. 31, 42; Bo Lundmark, Rijukuo-Maia and Silbo-
Gammoe: toward the Question of Female Shamanism in the Saami Area, in
AA.VV., a cura di Tore Ahlback, Sami Religion, Almqvist & Wiksell
International, Stoccolma, Svezia, 1987, p. 158-169
11. AA.VV., a cura di Tore Ahlabck, Sami Religion cit.
12. Takako Yamada, The Concept of Universe and Spiritula Beings Among
Contemporary Yakut Shamans, in AA.VV., a cura di Takako Yamada e Takashi
Irimoto, Circumpolar Animism cit., p. 218
13. Olog Petersson, Sami Ideas about the realm of the Dead, in AA.VV., Sami
Religion cit., p. 72
14. Nacunbuhe, Stone Worhip in Mongolian Shamanism, in AA.VV., a cura di
Takako Yamada e Takashi Irimoto, Circumpolar Animism cit., p.255-259
15. Ornuly Vorren, Sacrificial Sites, Types and Function, in AA.VV., a cura di Tore
Ahlabck, Sami Religion cit., p. 94-109; AA.VV., a cura di Louise Backman e Ake
Hultkrantz, Saami Pre-Christian Religion, Stockholm Studies in Comparative
Religion n°25, Almqvist & Wiksell International, Stoccolma, Svezia,1985
16. Michela Zucca, Chi è salvatico si salva: l’uomo selvatico sulle Alpi, in AA.VV.,
a cura di Michela Zucca, La civiltà alpina – R – esistere in quota, IV Vol.,
L’immaginario, Centro di ecologia alpina, Trento, 1998
17. Odd Mathis Haetta, The Ancient Religion and Folk Beliefs of the Sami,
Fagttrikk Alta as, Alta Museum, 1994, p. 15
18. Libro su uomo selvatico a Madruzzo
19. Takashi Irimoto, Ainu Shamanism, in AA.VV., a cura di Takako Yamada e
Takashi Irimoto, Circumpolar Animism cit., Hokkaido University Press, Sapporo,
Giappone, 1997, p. 26-27
20. Erodoto, Storie cit.
21. Chiara Silvia Antonini, Religione e mitologia nell’arte degli sciti-siberiani, in
AA.VV., Siberia, Electa, Milano, 2001, p. 64
22. Carlo Ginzburg, Storia cit., p. 286
23. Questa, ed altre ricette della pomata delle streghe, sono riportate da Martha
Canestrini, Orti in Tirolo e in Trentino, supplemento al n° 21 di Arunda, Silandro
(Bz), p. 97. Ed ecco la Ricettta di Gerolamo Cardano, trattadal De Subtilitate, del
1547: Si prenda un grano di loglio, giusquiamo, cicuta, papavero rosso e nero,
lattuga e portoloca in quattro parti uguali, e si prepari l'unzione a regola d'arte.
Per ogni oncia del miscuglio aggiungere uno scrupolo di oppio tebano
24. Ann Fienup-Riordan, The Human Hand in Yup’ik Eskimo Iconography and
Oral Tradition, in AA.VV., a cura di Takako Yamada e Takashi Irimoto,
Circumpolar Animism cit., p. 180
25. Carlo Ginzburg, Storia cit., p. 284-287.
26. Joan Halifax, Shaman: the Wounded Healer, Thames and Hudson, Londra, 1982,
p. 32 e 82
27. Kalevala, runo III, Mondadori, Milano, 1988, p. 58
28. C Sachs, Storia degli strumenti musicali, Mondadori, Milano 1980, p. 388
29. Gregorio Bardini, Musica e sciamanesimo in Eurasia, Società editrice
Barbarossa, Milano, 1996, p. 12-13, 19
30. Takefusa Susamori, Healing Arts of the Itako, in AA.VV., a cura di Takako
Yamada e Takashi Irimoto, Circumpolar Animism cit., p. 45, 53
31. Mihaly Hoppal, Animistic Mythology and Helping Spirits in Siberian
Shamanism, in AA.VV., a cura di Takako Yamada e Takashi Irimoto,
Circumpolar Animism cit., p. 201
32. Juha Pentikainen, Shamanism and Culture, Etnika Co, Tampere, Finlandia,
Gummerus Printing, 1998, p. 53-56
33. Rolf Kjellstrom, Continuity of Old Sami Religion, in AA.VV., a cura di Tore
Ahlabck, Sami Religion cit., p. 24-33.
34. Juha Pentikainen, Toimi Jaatinen, Idikò Lehtinen, Marjo-Ritta Saloniemi,
Shamans, Tampere Museum Publications n° 45, Tampere, Finlandia, p. 22, 26,
42, 44