Letteratura Lat 1

Scarica in formato pdf o txt
Scarica in formato pdf o txt
Sei sulla pagina 1di 34

L-FIL-LET/04 LINGUA E LETTERATURA LATINA I (12 CFU)

PROF. ANTONINO ZUMBO

LEZIONI

U. D. 1
Ambienti e tipi del teatro plautino

Motivazione e obiettivi

Plauto può essere considerato il primo grande autore della letteratura latina. Le sue
commedie, infatti, costituiscono un modello di riferimento assoluto per tutto il teatro europeo fino al
Novecento.
Le opere di Plauto assumono particolare importanza essenzialmente per due motivi:
• con Plauto si stabilizzano i connotati dei personaggi comici in termini fissi, per cui essi
acquistano una evidente ‘trasferibilità’ da un’epoca all’altra. Del resto egli stesso per questo motivo
aveva potuto trarli dalla ‘commedia nuova’ greca di Menandro. Questi personaggi sono, quindi,
sempre gli stessi: il servus currens, che è il motore dell’azione, poiché, con la sua energia e le sue
iniziative, risolve i problemi dell’adulescens, il giovane innamorato, incapace di agire e di
conquistare il suo amore; il leno o la lena, cioè i protettori delle prostitute che tengono chiuse le
ragazze e impediscono al giovane di possederle o di sposarle; il senex, cioè il vecchio, ricco,
brontolone, avaro, che gareggia col figlio, o con il giovane, per la conquista di una ragazza; poi il
miles gloriosus, il colax (il soldato buffone; il parassita) ecc. Di qui la gradevole prevedibilità
dell’intreccio, in cui, dopo un inizio complicato dall’impossibilità che i due amanti si uniscano,
segue, alla fine della commedia, il suo felice scioglimento, di solito, grazie al servo;
• sua è la famosa vis comica, cioè la comicità tutta racchiusa nell’uso brillante e creativo del
linguaggio. Plauto è un maestro nei giochi di parole (paronomasie), allitterazioni, assonanze,
vocaboli inventati, ritmi sempre diversi (numeri innumeri), doppi sensi ecc., in cui egli mescola la
lingua parlata con una lingua raffinatissima e letteraria. La commedia, così, diventa una lettura
gioiosa e divertente, nell’iperbolica e irrealistica rappresentazione dei personaggi e delle vicende.
Il successo delle sue commedie, al di là della potente vis comica affidata al suo linguaggio,
consiste però nella sostanza antropologica che le sottende. Con Plauto si ha un vero e proprio
‘rovesciamento carnevalesco’ dei ruoli: il servo è la mente dell’azione (in lui si identifica lo
scrittore), il padrone vecchio è ridicolizzato, il giovane è inerte e incapace, la lena è furba e forte
ecc. In tal modo i valori topici della cultura delle origini, la sapientia del senex, la mitezza del
servus, la vivacità dell’adulescens vengono garbatamente ridicolizzati, permettendo allo spettatore
di cogliere la comicità delle situazioni serie. Il compiacimento, ad esempio, con cui Anfitrione
accoglie ‘l’onore’ che Giove abbia voluto sua moglie Alcmena mostra il comico della situazione
matrimoniale, deprivata del principio fondamentale della fedeltà.

Contenuti

Lezione 1. Plauto e la commedia a Roma

Tito Maccio Plauto nacque a Sarsina, in Umbria, intorno al 250 e morì nel 184 a.C. Della
sua vita sappiamo ben poco. Dall’Umbria si trasferì a Roma, dove lavorò per compagnie teatrali.
Investì male i suoi guadagni e si ridusse a dover lavorare come garzone presso un mugnaio.
Scrisse così le sue prime tre commedie (che non ci sono giunte), tra cui una forse
autobiografica, l’addictus, lo schiavo per debiti. Ebbe successo e da quel momento diventò talmente
famoso che a suo nome ci sono state tramandate moltissime commedie anche non sue. Varrone, un
grammatico erudito del I secolo a.C., ne scelse 21 che raggruppò in ordine alfabetico (fabulae
Varronianae): Amphitruo («Anfitrione»), Asinaria («La commedia degli asini»), Aulularia («La
commedia della pentola»), Bacchides («Le Bacchidi»), Captivi («I prigionieri»), Casina («La
fanciulla profumata di cannella»), Cistellaria («La commedia della cassetta»), Curculio («Il
gorgoglione»: verme del grano), Epidicus («Epidico»), Menaechmi («I Menecmi»), Mercator («Il
mercante»), Miles gloriosus («Il soldato fanfarone»), Mostellaria («La commedia del fantasma»),
Persa («Il Persiano»), Poenulus («Il Cartaginesuzzo»), Pseudolus («Pseudolo»), Rudens («La
gomena»), Stichus («Stico»), Trinummus («Le tre monete»), Truculentus («Truculento»), Vidularia
(«La commedia del bauletto»).
La data di composizione va circa dal 200 al 191 a.C. Le commedie erano in 5 atti e in versi
di metro vario. Le didascalie che le accompagnavano davano indicazioni sulla data di
rappresentazione e sull’esito dell’opera. Il prologo aveva una duplice funzione:
• fare una captatio benevolentiae, invogliare il pubblico, piuttosto rumoroso, rozzo e maleducato, ad
ascoltare in silenzio e a non fare troppo chiasso;
• riassumere il contenuto della commedia così da facilitarne la visione.
Nelle commedie vi erano parti recitate (diverbia) e parti cantate (cantica), accompagnate
dalla musica. Tuttavia, mancavano le parti del coro, che invece esistevano nella commedia greca.
Questa differenza è molto significativa per capire la distanza tra le due culture: i Greci
avevano previsto uno spazio per le evoluzioni del coro tra la cavea e la skenè (il palcoscenico); i
Romani utilizzarono quello stesso spazio per collocarvi i sedili dei senatori. In Grecia l’arte aveva
un valore superiore alla politica, mentre a Roma era il contrario. Gli attori erano tutti maschi, che
recitavano anche le parti femminili. Portavano un alto calzare, il soccus (zoccolo), per essere visti
meglio e avevano un abbigliamento fisso che ne faceva subito individuare la funzione: ad esempio,
chi portava il cappello a larga tesa (petasus) era lo straniero che veniva da lontano, chi aveva il
vestito tirato su dalla cintura era il servus currens ecc. I personaggi indossavano il pallium, il
mantello greco (da cui palliata), perché le commedie erano ambientate in Grecia, anche se le trame
alludevano talvolta a una realtà tipicamente romana. Quando l’ambientazione sarà romana, la
commedia si chiamerà togata (dalla toga romana). Il sipario aulaeum faceva anche da sfondo, per
cui ‘alzare il sipario’ significava far concludere la commedia e ‘abbassarlo’, darle inizio (al
contrario di come avviene per noi). La scena era quasi sempre una piazza con una casa e gli effetti
sonori si ottenevano con lamine metalliche che vibravano per indicare i tuoni.
Plauto adottò la tecnica della contaminatio che già Nevio aveva iniziato: si attingevano
personaggi, scene, dialoghi, trame, da diverse commedie greche per scrivere la propria. È
importante ricordare, però, che ogni commedia utilizzata non poteva più fornire materiale per
nessun altro scrittore, diventando, per così dire, esclusiva proprietà di chi l’aveva usata per primo.
Plauto attinge i modelli alla Commedia Nuova greca (la Néa) del IV e III secolo a.C. il cui
rappresentante più famoso è Menandro, poiché compaiono i tipi fissi, la cui utilizzazione in luoghi e
tempi diversi è possibile e facilissima.

Lezione 2. Al mercato

Lettura ed analisi morfo-linguistica di Pl. Aul. 371-397. Come è risaputo, i personaggi delle
commedie plautine non brillano per originalità e l’autore non dedica loro particolari attenzioni
quanto a studio dei caratteri e scavo psicologico. Seguendo i tratti tipici della comicità di Plauto, i
suoi personaggi valgono per i tratti comici che li delineano. Essi li inchiodano a una fissità
certamente poco realistica, ma proprio per questo estremamente divertente agli occhi di un pubblico
non abituato ad andare a teatro per riflettere sui casi umani e sulle sfumature problematiche delle
relazioni interpersonali. Questa unità didattica presenta alcune di queste tipologie, forse le più note
e le più amate dal pubblico: il soldato fanfarone, il parassita adulatore, il lenone, il vecchio avaro.
Alcune di esse hanno avuto particolare fortuna in ambito letterario, costituendosi come prototipi di
una lunga serie di personaggi analoghi che hanno popolato le pagine di romanzi o gli intrecci
drammatici nel corso dei secoli. Interessante è anche vedere gli ambienti in cui questi personaggi si
muovono. In genere lo sfondo delle commedie plautine è rappresentato dalle piazze. Nel primo testo
proposto, tratto dall’Aulularia, siamo in un mercato. In genere le palliate di Plauto hanno come
sfondo le piazze delle città greche in cui è ambientata l’azione. Talora – come in questo caso –
l’ambiente è il mercato o il foro romano. I versi che contengono riferimenti a questi luoghi
appaiono interessanti perché offrono uno spaccato della vita quotidiana nella Roma del tempo,
rivelando aspetti che sono veri e propri documenti storici, sociali, antropologici ed economici di
quella realtà. Nel passo presentato, il vecchio Euclione, l’avaro protagonista della commedia, si reca
al mercato per fare acquisti in vista del banchetto di nozze della figlia. Alla fine, però, non compera
nulla perché – si lamenta – i prezzi sono eccessivi. Certamente l’affermazione del vecchio può
trovare significato nel fatto che egli è avaro, ma può anche essere una spia della situazione che si
era verificata a Roma agli inizi del II sec. a.C., all’indomani della seconda guerra punica, quando si
assisté a un generale incremento dei prezzi, conseguente a una diffusa agiatezza. Il testo è anche
esempio di quello scollamento che di tanto in tanto compare nelle commedie di Plauto tra
l’ambientazione greca e la presenza nei versi di elementi del tutto romani: luoghi, abitudini, merci,
istituzioni. È la tipica incongruenza plautina, che fa collidere il piano della finzione scenica con
quello della realtà, quasi sempre con finalità comiche.

Lezione 3. Il soldato fanfarone e il parassita adulatore

Lettura ed analisi morfo-linguistica di Pl. Mil. 1-78. Nella prima scena del Miles gloriosus
vengono presentati i caratteri del personaggio che dà il titolo all’opera, cioè Pirgopolinice, tipico
esemplare di soldato sbruffone, che si vanta di imprese compiute solo nella sua fantasia, e del suo
compagno Artotrogo. Già i nomi dei due personaggi mettono sull’avviso lo spettatore riguardo alle
loro caratteristiche. Pirgopolinice, infatti, deriva etimologicamente da tre elementi greci che
significano rispettivamente: ‘torre’ (pyrgos), ‘città’ (polis) e ‘vittoria’ (nike); un campionario di
termini militari che nel loro complesso vorrebbero attribuire a Pirgopolinice il significato di
‘vincitore di torri e città’. Anche Artotrogo è nome derivato dalla combinazione di due termini
greci: artos (‘pane’) e trogo (‘mangio’); perciò il nome suonerebbe ‘mangiatore di pane’: come si
vede un tipico nome da parassita. Pirgopolinice fin dall’inizio fa apparire il suo carattere borioso
attraverso un vivace dialogo con Artotrogo, un parassita che sta appiccicato al soldato nella
speranza di ricavare vantaggi materiali. Dal momento che conosce il carattere di Pirgopolinice e le
sue debolezze, vale a dire il suo bisogno di essere blandito e lusingato, Artotrogo è prodigo di
adulazioni; così, mentre il fanfarone inventa e racconta le sue spacconerie, egli rincara la dose,
completando con nuovi particolari le fantasiose imprese dell’altro.
Per la focalizzazione del carattere del personaggio di Artotrogo appaiono significativi due
passaggi del brano. Nel primo si registra un istante di rottura della finzione scenica nel quale il
personaggio stringe con gli spettatori una sorta di scommessa ‘retorica’, sicuro di vincerla («Se
qualcuno avrà visto un uomo più spergiuro di questo, o più vanaglorioso di quanto non sia quello,
mi prenda per sé, io mi consegnerò come schiavo»); nel secondo si apre una specie di monologo
interiore rivelatore della triste condizione del parassita, costretto a venire a patti con la sua
coscienza pur di riempire lo stomaco («È il ventre che crea tutte queste tribolazioni: con le orecchie
è necessario bere fino in fondo tutte queste cose, affinché i denti non crescano, e si deve compiacere
a tutte le bugie che racconterà costui»). Da questi squarci è possibile per il lettore capire che il
personaggio conosce molto bene la vera identità di Pirgopolinice (che cioè egli è fanfarone e
borioso) e intende servirsi di ciò per i suoi fini. Egli è dunque fornito di furbizia e accortezza, le doti
apprezzate da Plauto e solitamente attribuite alla figura del servo. Si può pertanto affermare che
Artotrogo è assimilabile al tipo del servo, dominante nelle commedie plautine, anche se rispetto a
esso la sua figura è connotata in modo meno positivo.
Interessante è altresì il ‘catalogo’ che si trova nella parte conclusiva dell’atto. In esso
Artotrogo, da bravo profittatore, elenca con estrema precisione le imprese militari del suo padrone,
non tralasciando di ricordare gli apprezzamenti rivolti dalle donne, affascinate dalla sua somiglianza
con Achille e dalla sua capigliatura. Così raggiunge il suo completamento l’arte adulatoria del
parassita e Pirgopolinice abbandona la scena tronfio e pienamente appagato dalle lusinghe.
Dal punto di vista letterario questo catalogo è significativo perché rappresenta la matrice a
cui si è ispirato un altro celebre catalogo: quello compilato dal servo Leporello e riferito alle
imprese amatorie di Don Giovanni nel libretto di Da Ponte musicato da Mozart. Nell’opera
mozartiana Leporello legge a donna Elvira l’elenco delle donne amate dal suo padrone nelle diverse
contrade d’Europa, un numero – volutamente esagerato – di ben 2065, conosciute in Italia,
Germania, Francia, Turchia e Spagna.
Lezione 4. Il parassita affamato e il lenone

Lettura ed analisi morfo-linguistica di Pl. Men. 77-109. Siamo nel primo atto della
commedia. La scena è occupata dal monologo di Peniculus, un parassita che, come quasi sempre
avviene in Plauto, porta un ‘nome parlante’ (Peniculus, infatti, significa ‘Spazzola’), in stretta
connessione con il ruolo del personaggio. Che il cibo e il bisogno di mangiare siano gli oggetti
dell’interesse preponderante di Peniculus e quindi il fulcro del suo monologo è cosa abbastanza
scontata. Si vuole, però, illustrare gli stretti legami di dipendenza che intercorrono tra il parassita e
il suo patronus. È stato giustamente detto che, tra i diversi tipi che popolano le scene delle
commedie plautine, il parassita affamato è quello che maggiormente si avvicina al prototipo della
comicità italica: quando è in scena, allora ricorrono le allusioni più precise alla realtà quotidiana, e
non solo in materia alimentare. È questo un personaggio che usa frasi e immagini elaborate; abile
retore, non si interessa però della res publica, sebbene giunga a proporre il proprio modo di vivere
come una vera filosofia o un’onorevole professione a vita. Nei rapporti con il patrono è sleale, ma la
sua tanto decantata autosufficienza è una violenta parodia, che passa dal compiacimento iniziale alla
frustrazione e al rifiuto. Libero come uomo, è schiavo nello spirito: esattamente il contrario del leale
servus callidus. Ecco perché, dietro la maschera del parassita, ben difficilmente si coglie la voce
dello schiavo-commentatore: la sua gretta dedizione al cibo eguaglia quella del leno al profitto e ne
fa quindi una figura ambigua.
Lettura ed analisi morfo-linguistica di Pl. Rud. 125-126; Curc. 494-504. Considerandolo il
più spregevole tra i personaggi delle sue commedie, Plauto assegna al lenone il ruolo costante del
‘cattivo’ assoluto. Sfruttatore di donne, di cui diventa proprietario, per amore di denaro, egli è brutto
non solo per le sue caratteristiche morali, non solo per la pessima reputazione di cui gode presso gli
altri personaggi, ma anche nell’aspetto fisico. I due brevi passi sono la prova di quanto abbiamo
detto. Il primo, infatti, è un ritratto insieme fisico e morale, in cui si accumulano tratti negativi. Il
profilo fisico è quasi il correlativo oggettivo della deformità interiore. Il secondo si configura come
un giudizio stroncante di Curculio, nel quale non trova posto nessun elemento di positività e sembra
quasi annullarsi ogni parvenza di umanità.

Lezione 5. L’avaro

Lettura metrica (senari giambici) ed analisi morfo-linguistica di Pl. Aul. 40-66. La scena
presenta l’ambientazione consueta delle palliate: una città greca (in questo caso Atene), la casa di
Euclione, quella di Megadoro, in mezzo il tempio della dea Fides e più avanti, proprio al centro del
palcoscenico, l’altare dedicato ad Apollo. L’uscita di destra porta verso il foro, cioè l’agorà greca;
quella di sinistra verso la campagna. La scena ha lo scopo di presentare il carattere di Euclione, il
vecchio avaro protagonista della commedia. In apertura egli è impegnato a cacciare di casa la
vecchia serva Stafila – cosa che si ripeterà più volte nell’intreccio – per avere libertà di controllare,
senza essere visto, se la pentola dell’oro si trovi sempre al suo posto. Al centro di tutto campeggia,
come nel resto della commedia, la figura di Euclione, un avaro tratteggiato straordinariamente bene
da Plauto. Tale figura avrebbe avuto successivamente grande fortuna; soprattutto nel periodo
umanistico-rinascimentale essa fungerà da modello per molti personaggi comici. Chi però – in
ambito letterario – si sarebbe avvicinato più di ogni altro all’avaro plautino è Arpagone, il
protagonista dell’Avaro di Molière, commedia rappresentata per la prima volta nel 1668 a Parigi.
Già il nome del personaggio – come accade quasi sempre in Plauto – è indice del suo carattere; esso
infatti nasce dalla combinazione di due termini greci: l’avverbio eû (‘bene’) e il verbo kléo (‘chiudo
a chiave’) e quindi allude in modo evidente al compito che questo vecchio sembra essersi affidato:
tenere ben chiuso, nascosto, il suo tesoro. È in questo scopo vissuto con un’ossessione maniacale
che si riassume infatti l’intera esistenza di Euclione. Egli esiste nella misura in cui c’è il suo tesoro;
egli vive con l’unico fine di assaporare la presenza della pentola dell’oro e di essere l’unico a
conoscere questo segreto. Stafila invece richiama già nel nome i tratti di una vecchia amante della
bottiglia; infatti in greco staphylé significa ‘grappolo d’uva’. È una figura tipizzata, che ubbidisce
allo stereotipo della serva indolente, lenta e beona, molto diffuso nella tradizione comica non solo
plautina.
Nel generale panorama plautino, l’Aulularia rappresenta un’eccezione per due fondamentali
motivi: il primo è che si discosta nell’intreccio dallo schema rigido e sempre uguale a se stesso delle
altre palliate; il secondo che il suo protagonista (Euclione) offre l’unico esempio in Plauto di un
certo studio del carattere. È noto che l’arte plautina non si preoccupa di delineare i caratteri dei
personaggi comici e che preferisca mettere in scena dei ‘tipi’ abbastanza stereotipati, rivolgendo
tutto il proprio interesse alla costruzione dell’azione e alla vis comica. Plauto si dedica con grande
impegno a plasmare la lingua, ricavandone tutte le potenzialità di suono tramite giochi di parole,
doppi sensi, metafore, poliptoti, omoteleuti, paronomasie, allitterazioni, figure etimologiche;
aggiunge poi la metrica dei ritmi vivacissimi e multiformi (numeri innumeri), volta a inserire nel
testo vere e proprie esplosioni festose e trionfanti di suoni. Nel tratteggio dei personaggi, o per
meglio dire dei loro caratteri, invece, il commediografo appare latitante, tranne qualche rarissimo
caso, tra cui – come si è detto – quello di Euclione, che assume peculiari caratteristiche, tali da
differenziarlo dal ‘tipo’ dell’avaro tradizionalmente presente nella Commedia greca.
Lezione 6. Un personaggio insolito: il dio Mercurio

Lettura ed analisi morfo-linguistica di Pl. Amph. 271-309; 350-374. All’interno del


panorama comico plautino l’Amphitruo ricopre un ruolo particolare a partire dal fatto che
nell’intreccio si ha la presenza di un dio. La cosa è inusuale in un testo comico, perché in genere le
divinità agivano nella tragedia. D’altra parte, della tragedia l’Amphitruo possiede i personaggi – un
dio e un eroe – e lo sfondo di avvenimenti mitici: la nascita di Ercole, frutto di uno degli amori
terreni di Giove. Della particolarità di questo testo comico ci è testimone lo stesso Plauto, che nel
prologo fa dire a Mercurio, a proposito della tipologia della fabula: «io la trasformo da tragedia in
commedia» (vv. 54-55) e poi ancora: «ne farò una miscela; sarà una tragicommedia» (v. 59). La
presenza divina tuttavia non ha come conseguenza un innalzamento di tono o un allontanamento dal
consueto registro comico; proprio i caratteri di Mercurio, infatti, la sua figura arrogante, prepotente
e bugiarda finiscono anzi per sortire un effetto di abbassamento comico del mito. Così, se sfondo e
personaggi appartengono al livello tragico, intreccio e azione drammatica sono tipici della
commedia.
La scena, presentata in questa lezione solo in parte, è la più lunga e famosa dell’intero teatro
plautino. È notte. Sosia, inviato da Anfitrione ad annunciare il suo arrivo ad Alcmena, si imbatte in
un altro se stesso che fa la guardia alla casa e gli impedisce l’entrata. Si tratta di Mercurio che ha
assunto le sue fattezze per aiutare il padre Giove. Poiché il dio sa che il servo è di indole paurosa,
decide di minacciarlo per lo spasso suo e degli spettatori. Dopo diversi vani tentativi di entrare in
casa, Sosia deve cedere e allontanarsi. La situazione è abbastanza tipica dell’arte plautina, giocata
com’è su quella particolare forma dell’equivoco costituita dallo scambio di persona. Tre commedie
di Plauto ci propongono questo tema: Amphitruo, Menaechmi e Bacchides. Tuttavia in questo caso
la perfetta uguaglianza dei due personaggi è una manifestazione dell’azione divina e risulta
inquietante perché non si colloca al termine dell’azione scenica, come fattore di riconoscimento e
quindi di scioglimento dell’intreccio, ma all’inizio e perciò tende a complicare gli eventi e a
insinuare il dubbio e la paura.
La comicità della scena nasce dal contrasto tra l’atteggiamento sprezzante e aggressivo di
Mercurio e il timore e lo sconcerto di Sosia, in modo che la falsità del dio assuma i caratteri della
verità, e al contrario le verità di Sosia siano respinte come menzogna. La chiave della comicità – a
ben vedere – risiede nella condizione di superiorità degli spettatori, nel fatto cioè che essi
conoscono la verità, sconosciuta invece ai personaggi in scena, e possono perciò ridere dei loro
errori.
Il testo è caratterizzato da una lunga serie di battute ‘a parte’, in cui Mercurio parla ad alta
voce senza rivolgersi direttamente a Sosia ma sapendo che l’altro in realtà lo ascolta, ed è giocato su
un fitto intreccio di giochi di parole, doppi sensi, figure di suono, metafore, parodie e invenzioni
verbali, cui doveva aggiungersi una gestualità accentuata. Insomma, un capolavoro dell’arte comica
plautina, che ha garantito il successo all’opera sia presso i contemporanei sia presso i posteri, tant’è
vero che il nome del protagonista (Sosia) è diventato in italiano un sostantivo comune per indicare i
casi di somiglianza perfetta. Anche a livello letterario questo tema comico ha avuto molta fortuna ed
è stato assai spesso ripreso; si pensi – ad esempio – alla Commedia degli errori e a La dodicesima
notte di Shakespeare o a I due gemelli veneziani di Goldoni.
U. D. 2

L’arte del ritratto e dei discorsi in Sallustio

Motivazione e obiettivi

Sallustio ci immerge nelle convulse vicende della repubblica agonizzante, mostrandoci come
la sperequazione sociale, la discordia civile, la corruzione erodano la fiducia nelle istituzioni. Come
il suo contemporaneo Cicerone, lo storico si illudeva che un princeps provvidenziale potesse
ripristinare l’ordine e instaurare la concordia. Ambedue si sbagliavano: la storia antica e recente
hanno dimostrato che, ogniqualvolta il cittadino abdica alla politica e delega il potere a un monarca,
lascia in eredità alle generazioni successive la realtà dura dell’assolutismo. Solitamente, di questo ci
si accorge con il senno di poi; Sallustio ci guida in modo appassionato a cogliere i vizi della politica
di Roma, che sono anche quelli della nostra politica.
La lettura di Sallustio, previa analisi dell’autore e delle sue opere, per accattivare l’interesse
dei giovani studenti dovrebbe essere affrontata ponendo in risalto l’importanza dei discorsi e dei
ritratti, elementi che rappresentano la cifra delle monografie sallustiane e insieme caratterizzano
l’autore nella sua drammaticità e nel suo a volte esasperato espressionismo. Tutto questo riteniamo
possa affascinare e incuriosire i discenti, rendendoli ben disposti alla lettura dei brani in lingua
originale.
Sallustio, alla stessa stregua di Cornelio Nepote e di Cesare, elargisce al lettore numerosi
ritratti dei vari protagonisti degli eventi storici da lui trattati. Studiare Sallustio ponendo l’accento
sui ritratti dei suoi personaggi significa comprendere il loro ruolo in seno al contesto politico in cui
si muovono e operare tra di loro un confronto. Le figure di Catilina e Giugurta si ergono sin
dall’esordio delle due opere imponendosi agli occhi del lettore con straordinaria forza ed efficacia
narrativa: il primo è mosso da una smodata ambizione, il secondo, avido di potere, è sempre pronto
a dare sfogo alle sua protervia. Mentre di Catilina, però, Sallustio determina sin da subito i tratti
negativi, di Giugurta, invece, il quadro sarà delineato in toto solo a lavoro terminato. Persino di
Mario sarà offerta una presentazione in chiaroscuro, con luci e ombre: un personaggio
contraddistinto sì da non comuni qualità militari, ma non privo di ambiziose velleità. È questo
d’altronde il carattere saliente dell’arte del ritratto in Sallustio: in Catilina (Cat. 5), Giugurta (Iug.
6), Metello, Mario (Iug. 63), Silla, Sempronia (Cat. 25) il binomio vizio-virtù, bene-male è
un’entità inscindibile.
Sia nel Bellum Iugurthinum che nel Bellum Catilinae i protagonisti vengono tratteggiati
prima della narrazione, ma i ritratti, accanto a questa analogia, presentano numerose e determinanti
differenze: mentre di Catilina viene immediatamente offerta un’analisi psicologico-morale
approfondita, atta a svelarne l’ambigua e perversa individualità, di Giugurta la presentazione
iniziale non ci dà tutte le informazioni inerenti la sua complessa personalità. Addirittura, se ci si
limita all’analisi della sola parte iniziale del Bellum Iugurthinum, Giugurta appare come un giovane
virtuoso, dotato di eccezionali qualità ginnico-sportive e amato dal suo popolo. La tecnica del
ritratto di Sallustio in questa seconda opera si affina: al lettore è richiesta la particolare capacità di
giustapporre tutti i particolari a lui propinati durante la narrazione, per giungere alla piena
comprensione della complessità del personaggio, che nel prosieguo si rivelerà di un’indicibile
malvagità e astuzia. Ecco perché A. La Penna ha parlato per Sallustio di ‘ritratto paradossale’; tutte
le figure delineate sono enigmatiche: grandiose, degne di memoria, coraggiose, audaci, intelligenti,
ma distorte e dedite al vizio in modo altrettanto eccezionale.
L’obiettivo precipuo che ci si prefigge è quindi di far apprezzare la grandezza del
personaggio sallustiano in relazione al suo ritratto e anche ai suoi discorsi. Nei momenti più
‘patetici’ della narrazione, Sallustio è solito inserire uno o più discorsi tenuti dal o dai personaggi in
questione, caratteristica questa che se da un lato lo accosta al greco Tucidide, dall’altro lo allontana
dal contemporaneo Cesare, il quale si mostra molto parco nell’uso dei discorsi.

Contenuti

Lezione 1. L’autore e le opere

La prima lezione verterà sulla presentazione dell’autore, un uomo che vive in pieno
un’epoca di crisi: a partire dalle fonti a nostra disposizione si parlerà della sua vita, il suo cursus
honorum, l’impegno politico a favore dei populares e il legame con Cesare, il definitivo ritiro negli
Horti Sallustiani e l’inizio, nel momento dell’otium e dell’abbandono del negotium, dell’attività di
storiografo.
Verranno poi passate in rassegna le opere, con la loro datazione, le vicende connesse e il
valore attribuito ad esse da parte di Sallustio: l'autore, obbedendo all’onnipresente finalità etica
della storiografia romana, voleva offrire ancora una volta un notevole contributo alla res publica,
smascherando la corruzione presente a Roma tra il 43 e il 40 a. C. e contemporaneamente mettendo
in risalto la presenza di forze sane, come l’homo novus Mario, capace di svecchiare la società
romana vittima di un’aristocrazia tanto corrotta quanto inetta. Tralasciando le Historie e trattando
solamente le due monografie, si prenderà in esame il genere letterario in questione, facendo un
rapido excursus a partire dagli esordi con Celio Antipatro. Si analizzerà in seguito lo stile di
Sallustio, evidenziando come la sua prosa sia agli antipodi della concinnitas ciceroniana, in quanto
fortemente asimmetrica e densa: ogni parola è sezionata e carica del suo significato, all’interno di
un periodare che si impone per la brevitas, la variatio e la insistita presenza di arcaismi e di figure
retoriche.

Lezione 2. La figura di Catilina

Lettura e analisi di Sall. Cat. 5. Viene qui presentato a tinte fosche il protagonista indiscusso
dell'opera. Catilina mirava a sostituire il proprio potere personale agli organi istituzionali e ciò offre
il destro a Sallustio di delineare il ritratto di un uomo ambiguo e perverso. Sallustio lo presenta
come una personalità eccezionale ma d'indole malvagia (ingenio malo pravoque): in lui vede
riflessa la corruzione generale della società romana (incitabant praeterea corrupti civitatis mores)
che costituisce uno dei temi centrali della sua indagine monografica. Sallustio privilegia le
motivazioni psicologiche ed etiche rispetto ai fattori economico-sociali, ma è riuscito a superare -
sia pure in parte - tale limite in quanto ha colto il rapporto che lega una figura come quella di
Catilina alla crisi della società romana. Questo interesse per l'analisi psicologica scaturisce in
Sallustio direttamente dalla sua concezione della storia. Ne emerge un ritratto psicologico ben
definito già da questo momento, sicché non presenterà alcun evoluzione nel corso dell’opera. Esso
ha una struttura bipartita: nella prima parte sono indicate le straordinarie qualità psicofisiche del
personaggio, quali vigoria fisica, forza d'animo, malvagità, mancanza di scrupoli, volubilità, avidità;
nella seconda parte sono presentate le circostanze esterne che hanno favorito il manifestarsi della
perversa personalità di Catilina, cioè la situazione politica conseguente alla dittatura di Silla, la
scarsità del patrimonio, i corrotti costumi della società romana sopraffatta dal lusso e dall'avidità. Il
ritratto è costruito con un insieme di artifici retorico-stilistici. Il testo offre un esempio dello stile
sallustiano, costituito da un periodare spezzato, composto di brevi proposizioni e basato sulla
paratassi. Si analizzeranno, quindi, il lessico, le parole-chiave, la struttura sintattica e lo stile
dell'autore.
Lettura e analisi di Sall. Cat. 20-21. Ecco il primo dei discorsi diretti, che, nel rispetto della
‘drammaticità’ sallustiana, serve a completare la figura di Catilina, già ben delineata nel ritratto.
Rivolto ai congiurati, Catilina li esorta come un generale che si rivolge ai suoi soldati prima della
battaglia: ricorda loro il comportamento dell’oligarchia romana, che ha sempre riservato a sé il
potere, gli onori e i profitti, riducendo in miseria la maggior parte dei cittadini. È finalmente venuto
il momento che i diseredati diano prova del loro valore, rivendicando i propri diritti a lungo
calpestati. Il protagonista invita, quindi, i suoi a rovesciare il regime oligarchico, facendo appello
alla loro virtus.

Lezione 3. Il ritratto di Catilina nelle parole di Cicerone

Lettura ed analisi di Cic. Cael. 12-14. Cicerone è stato notoriamente il nemico giurato di
Lucio Catilina. Durante il suo consolato, il celebre retore aveva stroncato il tentativo di congiura di
Catilina, componendo le celebri orazioni Catilinarie (63 a.C). Il ritratto che Cicerone fa di Catilina
nell'orazione Pro Caelio - discorso che Sallustio probabilmente non dovete ignorare -, a confronto
con quello che lo stesso Arpinate presenta nelle altre sue orazioni e con il testo di Sallustio,
dimostra nello stesso tempo l'abilità dell'avvocato e l'incertezza morale di quei tempi travagliati.
Marco Celio Rufo, giovane di nobile famiglia ma di costumi piuttosto dissoluti, nel 56 fu difeso, per
opera di Cicerone, da varie accuse tra cui quella di essere stato amico di Catilina. Il fine di Cicerone
all'interno della Pro Caelio è quello di creare un ritratto positivo del suo protetto, al fine di
screditare per contrasto Clodia, la donna che ha orchestrato l'accusa. Il problema è che Celio ha
avuto un passato piuttosto turbolento, caratterizzato anche dalla vicinanza politica a Catilina. Per
questo motivo, Cicerone deve fare un ritratto di Catilina che contenga, a fianco degli elementi
negativi che lo hanno da sempre caratterizzato, anche delle qualità positive, tali da spiegare la
vicinanza del buon Celio al suo vecchio nemico. Una delle prime preoccupazioni era, quindi, quella
di giustificare i trascorsi catilinari di Celio. Cicerone preferisce non insistere troppo sugli aspetti più
inquietanti della corruzione che Catilina aveva esercitato sui giovani, perciò sgombra il campo
rapidamente e con decisione da ogni insinuazione sulla moralità privata del suo cliente. Ma la nota
familiarità che aveva legato Celio a Catilina poteva comunque destare il sospetto di un supporto alla
sua attività cospiratrice. Cicerone asserisce in maniera categorica che Celio si distacca dalla
tipologia del sovversivo già per il fatto di non essere né moralmente depravato né in disperate
condizioni economiche. D'altra parte, la vicinanza a Catilina non è di per sé sinonimo di corruzione
politica o morali. La strategia che Cicerone sceglie per dissipare le ombre è quella di mostrare come
Catilina avesse esercitato il suo fascino perverso non solo sulla parte peggiore della popolazione -
gli spiantati i criminali e i depravati - ma anche su numerosi esponenti delle classi elevate e della
gente per bene, e accenna addirittura a quando egli stesso fu sul punto di lasciarsi abbindolare dalle
sue finte virtù. Cicerone insiste sull'intreccio paradossale nella personalità di Caterina tra vizi
mostruosi e abbozzi di virtù, sottolineando l'incredibile contrasto fra l'abbrutimento nei piaceri e nel
crimine, e il permanere di un’inspiegabile energia fisica e morale; è notevole la rivalutazione della
sua tenacia nelle fatica del corpo (patientia), apertamente derisa nella seconda Catilinaria (ma già
non più nella terza). Ma al cuore del ritratto sta la capacità di modulare i propri comportamenti sulle
aspettative degli interlocutori più diversi, tanto da riuscire affascinante e seduttivo per ogni età e per
ogni ceto sociale; a questo proposito è molto probabile che Cicerone abbia rielaborato felicemente
spunti provenienti da un ritratto di Alcibiade, che avrà trovato in storici greci di età ellenistica. Dal
ritratto ciceroniano di Catilina trarrà più di uno spunto Sallustio nel tratteggiare il protagonista del
Bellum Catilinae: nonostante la condanna del personaggio, da ambedue gli autori traspare un
sottofondo di perplessa ammirazione.

Lezione 4. Le figure di Cesare e Catone


Lettura ed analisi di Sall. Cat. 51-54. Il ritratto di Cesare si regge su due momenti
fondamentali: il primo è il discorso che Cesare tiene in Senato, a cui segue quello di Catone e il
secondo è il ritratto comparato che Sallustio fa dello storico e politico, confrontandolo con Catone
secondo la tecnica del paragone ravvicinato. Mediante il ritratto biografia, Sallustio celebra le
virtutes contrapposte di entrambi, già prima delineate mediante l’agone oratorio. Nel dibattito
convocato da Cicerone per decidere le sorti dei congiurati, Cesare e Catone sono contrapposti:
Cesare, verso cui Sallustio naturalmente propende, vorrebbe la confisca dei beni nonché la
detenzione a vita dei congiurati nei municipi, Carone ne pretenderebbe la condanna a morte. Lo
spazio che Sallustio concede ai due discorsi è di uguale lunghezza, per sottolineare la parità della
grandezza delle due figure, anche se poi prevarrà la tesi catoniana. Dopo aver riferito i due discorsi,
Sallustio sente il bisogno di fare un ritratto a contrasto tra i due personaggi; affini per nobiltà di
origini, per magnanimità e per gloria, erano antitetici per molte qualità diverse: Cesare si
distingueva per munificenza, bontà e misericordia, Catone per rigidezza, severità e condotta
rettilinea. Questo giudizio comparativo, condotto da Sallustio secondo i procedimenti della
storiografia ellenistica e punteggiato da un gioco serrato di antitesi e di parallelismi, ha dato luogo
alle più diverse interpretazioni: da sempre, infatti, i critici hanno cercato di intravedere una sia pur
lieve propensione per l'uno o per l'altro dei due da parte dello storico; sembra invece che si possa
accettare l'opinione di chi pensa che Sallustio abbia voluto descrivere, differenziandoli, i mores dei
due eroi, affermando in entrambi valori ugualmente positivi per la res publica. Ad un'attenta analisi,
il discorso di Cesare e quello di Catone, oltre che espressione di due modi diversi di porsi di fronte
agli avvenimenti, sono anche due esempi di stile oratorio. La polemica tra atticisti e asiani era
ancora viva nel periodo in cui Sallustio si accingeva a scrivere, e questi due discorsi costituiscono
due modi diversi di rivolgersi al pubblico; e l'aver costruito il discorso per Cesare conformemente
alle simpatie da questi sempre dimostrate per l'atticismo, dimostra che del suo amico e protettore
Sallustio conosceva anche le posizioni in campo letterario. In questa lezione si punterà ovviamente
ad una traduzione con una buona resa in italiano, all'analisi morfosintattica e infine si cercherà di
comprendere quali elementi dell'ideologia sallustiana si possano ricavare dai passi presi in esame.

Lezione 5. La figura di Mario


Lettura ed analisi di Sall. Iug. 63-64; 85. A Sallustio bastano pochi cenni per delineare il
ritratto dell'homo novus. L’autore sottolinea come Mario, inizialmente luogotenente del generale
Metello, pur essendo plebeo, possedesse tutte le virtù e i requisiti morali per assumere la carica di
console. Mario viene presentato come un ambizioso e come un uomo assai determinato. Si metterà
in evidenza dalla lettura di questo capitolo come Sallustio metta in bocca a Mario parole così
veementi ed eloquenti, degne della più riuscita retorica tucididea. Viene quindi presentato il celebre
autoritratto che Mario disegna ai propri soldati nel discorso pronunciato dopo aver ottenuto il
comando della guerra. Notevoli risultano sia la polemica contro gli aristocratici sia l'orgoglio che
l'homo novus professa di fronte alla loro vile ignavia, alla loro corruzione e al loro disinteresse per
la cosa pubblica. Con questo discorso Mario ottiene l'appoggio della plebe, pronta a partire per
l'Africa, perché forte di possedere la virtus degli antichi avi. Si riscontra infatti un continuo
richiamo al mos maiorum e alla positività, ormai persa, del passato. Secondo Mario, gli homines
novi hanno il diritto di avere la meglio sulla aristocrazia senatoria, senza rinnegare la loro etica ma
rinnovandola. Mario è un uomo abile e lo dimostra nella tecnica adottata per accaparrarsi il
consenso della plebe, contrariamente alle aspettative del Senato: da console manterrà la sua
condotta di uomo plebeo senza tradire le proprie origini. Poi mette in evidenza la conoscenza anche
profonda delle più innovative tecniche militari. Ai nobili, la cui preparazione è per lo più teorica,
Mario oppone la sua grande operatività. La nobiltà è insieme di doti personali, non potere ereditato
dagli avi. Il discorso si conclude con l'esortazione vigorosa e sentita di un buon successo della
campagna in Numidia.

Lezione 6. Il ritratto di Silla in Sallustio a confronto con quello di Annibale in


Livio
Lettura ed analisi di Sall. Iug. 95. 2-4. Nell'ultima fase della guerra contro Giugurta fu
determinante l'opera di Silla, che con molta abilità spinse Bocco, il malfido re di Mauritania, a
tradire e consegnare ai Romani Giugurta, suo alleato. Quando Silla giunge in Africa, Sallustio
coglie l'opportunità di delinearne la personalità, tanto più che Sisenna, lo storico più autorevole di
Silla, non ha avuto sufficiente indipendenza di giudizio. Il futuro dittatore è presentato come un
uomo molto colto, amante dei piaceri e del lusso, ma anche dotato delle qualità positive del politico
e del soldato romano. Ma sulle doti positive di operosità, disciplina, senso del dovere che Sallustio
obiettivamente gli riconosce nel descriverne l'attività presso l'esercito, grava pesantemente
l'accenno preventivo alla sua inquietante capacità di simulazione e soprattutto la menzione di
quanto fece in seguito.
Lettura ed analisi di Liv. 21. 4. Delle doti che Livio attribuisce al personaggio di Annibale,
alcune investono le caratteristiche fisiche altre quelle morali. Seguendo il ritratto sallustiano della
costruzione al chiaroscuro, lo storico delinea le eccezionali virtù del futuro capo dei Cartaginesi:
audacia, prudenza, disciplina, frugalità, resistenza, forza fisica. Si tratta, però, di qualità di cui erano
sempre stati dotati i grandi personaggi della storia di Roma. Il ritratto di una personalità così varia è
completato con l'elenco dei vizi, quali crudeltà disumana, mala fede, nessun timore degli dei né
rispetto per i giuramenti, nessuno scrupolo religioso. Dalle parole di Livio sembrerebbe che proprio
la commistione di virtù e di vizi sia da porre alle origini dell’eccezionalità dell’indole di Annibale,
in quanto punto di partenza per divenire magnus dux. A ben vedere, questo ritratto offerto da Livio
ben si salda con l’immagine di Annibale consegnata dalla tradizione. Un’immagine che si sviluppa
lungo i binari dell’ambiguità e della contraddizione. Un’immagine controversa, fatta di luci e
ombre, come, d’altra parte, di luci e ombre è plasmata l’indole dei grandi personaggi negativi. Per la
tradizione, Annibale è dotato di poteri straordinari, è sostenuto da forze oscure. Ma c’è altro. È più
sleale dei compatrioti cartaginesi: la sua vis è alimentata da inganno, astuzia, furbizia, slealtà,
crudeltà nei confronti del nemico. Tale fama si lega, con ogni probabilità, all’atteggiamento tenuto
in guerra, ovvero alle tattiche adottate, che sovvertono la tradizionale morale bellica romana,
secondo cui la vittoria deve essere ottenuta in campo aperto e non attraverso insidie e tranelli.

.
U. D. 3

La critica alla religio tradizionale nel De rerum natura di Lucrezio

Motivazione e obiettivi

Lucrezio inizia la riflessione sulla religione con un elogio al suo maestro Epicuro: “Mentre
agli occhi di tutti, l’umanità trascinava sulla terra un’esistenza abbietta, schiacciata sotto il peso di
una religione il cui volto, mostrandosi dall’alto delle regioni celesti, minacciava i mortali col suo
aspetto, per primo un greco, un essere umano!, osò levare i suoi occhi mortali contro di lei e
opporlesi. Ha percorso tutta l’immensità dello spirito e del pensiero, per poi ritornare vittorioso e
insegnarci quel che può nascere, quel che non può, infine le leggi che determinano il potere di
ciascuna cosa secondo limiti invalicabili. La religione è a sua volta rovesciata e messa sotto i piedi,
e la nostra vittoria ci eleva fino alle stelle”. La minaccia viene proprio dall’alto dei cieli, dalle figure
degli dei che gli uomini stessi hanno costruito, immaginato e posizionato oltre le nuvole (Olimpo).
La paura della morte e il timore degli dei sono le cause del turbamento degli uomini. In parte,
questa paura viene alimentata dai racconti dei poeti religiosi (i profeti), che immaginano tante
fantasticherie per sconvolgere la condotta della vita e turbare ogni gioia dei mortali. Ma “se gli
uomini vedessero che c’è un limite fisso alle loro miserie, potrebbero in qualche modo tener testa
alle superstizioni ed alle minacce di quei profeti. Ma non c’è nessuna maniera, nessun mezzo di
resistervi se nella morte dobbiamo temere pene eterne”. Gli esseri umani fino a quando non
riusciranno a liberarsi dal sonno che li tiene imprigionati e che fa vedere “creature già abbattute
dalla morte e di cui la terra ricopre le ossa”, non potranno avere speranza.
Lucrezio conosce bene la mitologia greca e romana, l’influenza degli dei sugli uomini.
Stanno lì, nell’Olimpo, minacciosi, a ricattare e a pretendere dai mortali ogni sorta di obolo: dalle
preghiere ai sacrifici animali e a quelli umani. Sono irascibili, voluttuosi, vendicativi; non lavorano
e vivono di rendita; combattono, fanno festa, bevono in abbondanza e “ridono sgangheratamente del
fabbro zoppo che li serve”. Scagliano saette e fulmini contro le persone che non pagano.
Evidentemente era la massima aspirazione di una aristocrazia conquistatrice, degli eroi omerici che
vedevano nelle divinità la proiezione ideale delle loro gesta. Non può esistere la felicità per gli
uomini se essi non riusciranno a liberarsi dalla paura della morte e dal timore degli dei. La felicità
viene intesa alla maniera del maestro, non come forma di lascivia, vita sfrenata, dedita ad ogni sorta
di passioni, ma come ‘aponia’ (assenza di dolore fisico) ed ‘atarassia’ (assenza di turbamento). La
religione per Lucrezio è cieca ignoranza, ottundimento della ragione, che fa perdere l’acutezza della
mente e di conseguenza la felicità della vita. È l’ ‘oppio dei popoli’, come dirà Karl Marx
diciannove secoli più tardi. La religione oltre ad offuscare la chiara verità della ragione, si è
macchiata di “atti empi e criminali”. Il poeta cita così la tragica sorte di Ifigenia in Aulide.
Artemide, dea della caccia, è infuriata perché i greci avevano ucciso un cervo selvatico da lei
protetto. Blocca con la bonaccia mille navi greche nel porto di Aulide, pronte a salpare alla volta di
Troia. Per placare le ire della dea, secondo l’indovino Calcante, per propiziarsi i venti favorevoli,
bisognava sacrificare Ifigenia, figlia di Agamennone e Clitennestra. Agamennone accetta il
sacrificio della figlia, per l’ambizione di conquistare Troia e utilizza l’inganno per farla rientrare da
Micene, promettendole di sposare il prode Achille. Secondo la versione di Euripide, nella tragedia
omonima, Ifigenia viene graziata, portata in Tauride (l’attuale Crimea) e al suo posto viene
sacrificata una cerva. “A tali crimini ha potuto persuadere la religione”: spingere i padri ad uccidere
i figli. La teogonia greca è ricca di storie di ordinaria incestuosità e crimini di famiglia. Crono evira
il padre Urano con un falcetto e getta i testicoli in mare; si impadronisce del trono e sposa la sorella
Rea. Per evitare che i figli, a loro volta, possano detronizzarlo, li divora appena partoriti. L’ultimo
generato è Zeus, salvato dalla madre che lo getta nel fiume Neda, affidandolo alla madre terra e
sostituendo nelle sue fasce una pietra, per il pasto di Crono. Nella Bibbia ebraica Dio chiede ad
Abramo di sacrificare l’unico figlio Isacco, per provare la sua fedeltà ed altre richieste omicide si
ripetono nelle sacre scritture. I sacrifici umani erano praticati anche dai romani. Tito Livio cita la
battaglia di Canne, in cui Annibale sconfisse i romani e questi ultimi, per propiziarsi gli dei,
seppellirono vivi un gallo e una galla, un greco ed una greca. “O miserabile spirito degli uomini! O
cuore cieco! In quali tenebre, in quali pericoli trascorre quel breve istante ch’è la vita! Non sentite
quel che grida la natura? Reclama forse altra cosa che l’assenza di dolore per il corpo e una
sensazione di benessere, senza inquietudini e timori, per lo spirito? Tutta la nostra vita si dibatte
nell’oscurità: simili ai bambini che tremano e si impauriscono di tutto nelle tenebre cieche, noi, in
piena luce, spesso temiamo pericoli tanto poco terribili quanto quelli che l’immaginazione teme e
crede di vedere avvicinarsi. La strada da percorrere, per incamminarsi sul cammino della felicità,
per dissolvere le paure dalle superstizioni e dalla religione è la conoscenza delle leggi della natura,
l’unica che ci può sollevare fino al cielo. Questi terrori, queste tenebre dello spirito, li devono
dissipare non i raggi del sole, non i dardi luminosi del giorno ma lo studio della natura e la sua
comprensione. Se il timore tiene ora asserviti tutti i mortali, è perché vedono compiersi sulla terra e
nel cielo fenomeni di cui non sanno in alcun modo scorgere le cause e che attribuiscono alla
potenza divina. Quando avremo visto che nulla può essere creato dal nulla, potremo poi meglio
scoprire l’oggetto delle nostre ricerche e come tutto si compia senza l’intervento degli dei”.
Ma all’umanità la filosofia di Epicuro offre una possibilità di riscatto: la conoscenza delle
leggi naturali che regolano l’universo ha permesso a Epicuro di ottenere una vittoria schiacciante e
definitiva sulla religio, che pedibus subiecta vicissim obteritur, «messa sotto i piedi è a sua volta
calpestata», mentre la vittoria nos exaequat… caelo, «ci innalza al cielo» (1.78-79). Cacciata dal
cielo la religio, rigettata l’idea che gli dei abitino gli spazi celesti, da dove governerebbero le
vicende del mondo, all’umanità redenta si dischiude la possibilità, fino ad allora impensabile, di
eguagliare la divinità stessa. Lucrezio infatti non nega affatto l’esistenza degli dei, che estranei al
mondo, alla sua creazione e al suo ultimo destino, abitano immortali e beati gli spazi celesti tra i
mondi (gli intermundia). La loro fondata conoscenza è garantita dalla percezione dei simulacra (le
sottilissime pellicole atomiche emanate dagli oggetti sensibili, immagine della forma esteriore, su
cui si basa la teoria della conoscenza lucreziana), che i loro corpi di composizione atomica
continuamente emettono. Gli dei perciò sono dotati realmente di forma umana, sebbene più grande
e più bella di quella mortale, ma godono di una beatitudine imperturbabile, che non ammette
coinvolgimenti nelle vicende del cosmo. La vera pietas religiosa è quindi, come insegna Epicuro,
«non avere paura del dio, ma cessare dal turbamento» (fr. 384 Usener). Venerare gli dei non può più
risolversi nella pratica esteriore del culto, nell’osservare obblighi religiosi che schiavizzano l’uomo.
La vera pietas religiosa consiste nell’imitare la perfetta imperturbabilità, di cui gli dei rappresentano
il paradigma esemplare. E solo attraverso l’indagine filosofica, che il poema lucreziano propone al
suo lettore, l’uomo può conseguire il perfezionamento morale che lo rende pari alla divinità.
Anche studiare il De rerum natura da un punto di vista linguistico permette di cogliere
l’originalità dell’esperimento lucreziano. Il poeta, infatti, utilizza un linguaggio concreto che cerca
di riprodurre in latino termini filosofici greci, anche attraverso perifrasi, similitudini, immagini
tratte dalla vita quotidiana e neologismi: la parola ‘atomo’, per esempio, che in greco significa
letteralmente ‘indivisibile’ è tradotta con semina o primordia rerum. Lucrezio stesso è consapevole
di dover affrontare un compito arduo quando nel primo libro (vv. 136-139) afferma che “non sfugge
al mio animo ch’è difficile dar luce, in versi latini, alle oscure scoperte dei Greci, soprattutto poiché
molte cose occorre trattarle con nuove parole, per povertà della lingua e novità dell’oggetto”.
Per favorire l’ordine del discorso e indirizzare il discepolo alla piena comprensione dei
fenomeni, Lucrezio si rivolge spesso al lettore ideale, con cui instaura un fitto discorso: i passaggi
logici sono scanditi da ripetizioni e nessi argomentativi (quali igitur, praeterea, denique, nunc age,
huc accedit, postremo) che costituiscono una costante del suo modo di procedere. Si tratta, in
definitiva, di uno stile concitato, segnato da frequenti cambi di prospettiva e persona, ma in generale
alto e sublime, anche tramite il ricorso agli arcaismi che innalzano il tono della descrizione
(aggettivi composti sul modello enniano, infinito passivo di terza coniugazione in -ier, genitivo
singolare di prima declinazione in -ai e così via).

Contenuti

Lezione 1. Tito Lucrezio Caro, il cantore dell’epicureismo

Il De rerum natura è un poema didascalico in esametri suddiviso in sei libri, che Lucrezio
dedica al suo protettore Gaio Memmio con lo scopo di divulgare in latino il pensiero del filosofo
Epicuro (342-270 a.C.): non a caso il titolo è un calco della sua opera principe, il perduto Perì
phýseos. Il testo, che manca della revisione definitiva, si inserisce dunque nella complessa relazione
tra la morale tradizionale romana, l’apporto delle filosofie ellenistiche e le forme artistico-letterarie
che investe la cultura latina a partire dal II secolo a.C.
L’epicureismo in particolare è da sempre ostacolato dai ceti elevati della società romana, che
non possono tollerare le idee propugnate da Epicuro, cui contestano soprattutto il disimpegno
politico e lo scarso peso degli dei negli affari umani, che poco si conciliano con la concezione
romana dello stato e possono rendere vano lo strumento grazie al quale la classe dirigente deteneva
il potere, ovvero la religio. Tuttavia, nel corso del I secolo, l’epicureismo riesce non solo a
conquistare parte degli strati popolari romani, ma anche a penetrare in alcuni settori delle classi
elevate, come sappiamo per esempio dalle testimonianze di Ercolano, dove faceva lezione il
filosofo Filodemo di Gadara, e di Napoli, dove era attivo Sirone, maestro di Virgilio e forse Orazio.
Per divulgare la dottrina epicurea Lucrezio non sceglie la prosa ma il poema didascalico,
nonostante Epicuro avesse a suo tempo condannato la poesia, che era poco chiara, ricca di miti e
dunque incapace di insegnare il vero. Per Lucrezio, al contrario, il suo messaggio, difficile da
veicolare, viene addolcito dalla soavità della poesia ed è perciò appetibile per le classi colte di
Roma, come egli stesso mette in luce attraverso la metafora dei ragazzi che prendono più volentieri
l’amara medicina che li guarisce, se sulla coppa che la contiene è cosparso del miele. Perciò non è
un caso che il De rerum natura si ricolleghi più al Perì phýseos in esametri del greco Empedocle,
filosofo del V secolo a.C. elogiato da Lucrezio alla fine del primo libro, che alle opere di
divulgazione filosofica in prosa o ai poemi didascalici ellenistici, in cui vengono descritti - con il
tipico compiacimento alessandrino per l’argomento erudito e un interesse filosofico minore -
fenomeni scientifici.
In assenza di confronti certi con opere didascaliche latine precedenti, di cui ci rimangono
solo titoli o rarissimi frammenti, si può perciò affermare che Lucrezio aggiri la tradizione ellenistica
per rifarsi direttamente ad Esiodo e ai presocratici come Empedocle, restituendo al poema
didascalico la funzione di reale mezzo di insegnamento incentrato sul rapporto tra poeta-maestro e
lettore-discepolo, cui sono rivolti frequenti appelli nel corso dell’opera. In questo invito piuttosto
rude al dialogo e nell’uso sottile dell’ironia, che accompagna le false opinioni della massa, è
presente sicuramente anche l’influsso della diatriba, oltre a toni che ricordano, in qualche modo, la
satira.
Il De rerum natura è articolato in tre diadi, cioè gruppi di due libri, in cui il poeta spiega
rispettivamente:
• i principi della fisica epicurea (I-II libro);

• la natura dell’organismo umano e il rapporto tra anima e conoscenza (III-IV libro);

• l’origine del mondo e dei fenomeni naturali (V-VI libro).

Lezione 2. La religio tradizionale e il sacrificio di Ifigenia

Lettura metrica e analisi morfo-linguistica di Lucr. 1. 50-101. Dopo l’Inno a Venere


proemiale (1-49) e un breve invito al lettore a liberare la mente per poter comprendere le leggi della
natura e i principi delle cose (50-61), Lucrezio inserisce nel primo libro del suo De rerum natura il
primo dei quattro elogi di Epicuro che scandiscono l’intera opera e, a seguire, una difesa della
dottrina epicurea dall’accusa di empietà, la quale si trasforma presto in un duro attacco contro la
religio tradizionale. Infatti mentre l’empietà - da intendersi sostanzialmente come ateismo - non può
condurre agli occhi di Lucrezio a nessun crimine, la religione e la superstizione (superstitio)
possono invece divenire causa di molti errori e delitti (v. 83: scelerosa atque impia facta), come
dimostra l’episodio mitologico di Ifigenia, descritto ai vv. 84-100.
Ai vv. 62-79 si legge quindi l’elogio di Epicuro, che viene indicato - secondo la
consuetudine del pròtos euretès tanto caro agli antichi - come il primo ad aver avuto il coraggio di
liberarsi dall’oppressione della religio e ad aver così permesso all’umanità intera di vincere la
superstizione e le paure da questa generate (come l’intervento divino sulla Terra, la morte e la
punizione ultraterrena per le colpe commesse in vita). Lucrezio insiste particolarmente sul primato
del suo maestro: ai vv. 66-67 si può notare la ripetizione in poliptoto di primum (come avverbio) e
primus (come aggettivo), che poi ritorna a v. 71 in corrispondenza della cesura semiquinaria. Si
veda poi l’insistenza sull’avverbio contra, posto alla fine di due versi consecutivi (vv. 66-67),
secondo la figura retorica dell’epifora, che rafforza l’immagine di Epicuro come strenuo oppositore
della tradizione. Il filosofo greco è infatti presentato come un eroico combattente in virtù non delle
sue doti fisiche ma del suo acume intellettuale: egli infatti è stato l’unico pensatore capace di
penetrare la vera natura del mondo e dell’universo e di trasmettere agli altri uomini la giusta
comprensione del cosmo e delle sue leggi, nonché del senso della vita umana.
Dal v. 80 Lucrezio si rivolge direttamente al lettore e lo invita a non temere l’empietà della
dottrina epicurea. Secondo l’autore, non è l’epicureismo con la sua critica alla religiosità
tradizionale a portare l’uomo verso azioni contrarie alla morale, ma è proprio la religio che ha
condotto gli uomini a gesti di grave empietà. Fra tutti, Lucrezio sceglie l’esempio emblematico del
sacrificio di Ifigenia, uccisa dal padre Agamennone per placare l’ira degli dei (nella fattispecie
Artemide, adirata con Agamennone per l’uccisione di una cerva) e assicurare una felice navigazione
agli Achei verso Troia. Si deve notare come Lucrezio prediliga la versione del mito meno diffusa e
meno edulcorata: non quella a lieto fine proposta da Euripide nell’Ifigenia in Aulide (e
verisimilmente ripresa nel mondo latino da Nevio e da Ennio) secondo cui la dea sarebbe
intervenuta all’ultimo momento per sostituire la ragazza, peraltro vittima consenziente, con una
cerva, bensì quella raccontata da Eschilo nel prologo dell’Agamennone, in cui Ifigenia, presentata
come una vittima muta e riluttante alla morte, è realmente sacrificata dal padre. Solo questa
versione del mito, infatti, consentiva al poeta di mettere in luce come dalla pietà religiosa possano
nascere azioni empie. Dell’episodio mitico, Lucrezio descrive solo i momenti precedenti il
sacrificio, concentrandosi soprattutto sulla caratterizzazione psicologica del personaggio di Ifigenia:
attraverso i suoi occhi vediamo il padre vicino all’altare, i sacerdoti che celano l’arma del sacrificio
e gli occhi pieni di lacrime dei concittadini; poi la ragazza viene trascinata all’altare e fatta
inginocchiare. La descrizione del sacrificio, come già in Eschilo, è taciuta, mentre una lapidaria
sententia conclude e commenta l’intero episodio: tantum religio potuit suadere malorum.

Lezione 3. Inno ad Epicuro

Lettura metrica ed analisi morfo-linguistica di Lucr. 3. 1-58. La devozione dei seguaci per la
figura del maestro Epicuro trova in questo proemio la sua celebrazione più solenne. Nelle forme
dell'inno Lucrezio celebra il valore liberatorio della filosofia insegnata da Epicuro, i patria ed aurea
dicta cui un'umanità rinnovata deve ispirare ogni azione. La conformazione stilistica del proemio
(vv. 1-30), che segue da vicino ai moduli innodici ormai codificati dalla tradizione, ha suscitato
qualche problema esegetico in chi ha voluto rintracciare nella celebrazione dell'anti-dio Epicuro,
ricca di parole impregnate di allusioni religiose, una contraddizione rispetto alle teorie epicuree
sugli dei. Che proprio un essere umano, invece, assurga a dio laico, è una summa simbolica ed
insieme un caso limite di quella completa rivalutazione della dimensione umana che percorre tutto il
poema e tutta la dottrina epicureo-lucreziana. Nell'ambito dei rapporti interpersonali è l'amicizia ad
assurgere a imperativo morale, ed è l'ammirazione per i meriti intellettuali e umani di Epicuro,
celebrati giornalmente nell'atmosfera fraterna del ‘giardino’, a trasformare il maestro in un punto di
riferimento quasi trascendente.
Luce ed ombra, tenebre e giorno, annunciano dal primo verso il valore centrale di un tema
che riveste un’importanza essenziale in molte parti del poema. Epicuro, eroe della capacità umana
di ‘vedere’ con la mente i segreti più nascosti della natura, si contrappone al buio delle paure
irrazionali, all'oscurantismo proprio della superstizione. La lezione scientifica del maestro è infatti
quella che permette al discepolo di vedere a sua volta (17: video) l'intera natura delle cose. Alla
‘proclamazione’ (14: vociferari) di queste verità nuove la natura ‘appare’ al discepolo nell’evidenza
manifesta della razionalità scientifica (29-30: natura tua vi / tam manifesta patens ex omni parte
retecta est), spettacolo sublime che non frappone più alcun ostacolo all'osservatore armato della
scienza epicurea.
La seconda parte del passo racchiude l’indicazione sommaria del tema che libro si accinge a
trattare, la natura dell'anima e soprattutto la dimostrazione della sua mortalità; scacciare l'inutile
paura della morte costituisce lo sforzo massimo cui tende l'intera fisica epicurea, e Lucrezio dedica
al tema un intero libro, carico di vis polemica.

Lezione 4. L’anima non sopravvive al corpo: inanità delle pene dell’Oltretomba

Lettura metrica ed analisi morfo-linguistica di Lucr. 3. 417-444; 978-1010. La lunga


illustrazione delle prove della mortalità dell’anima si articola nelle parti seguenti:
1) l’anima è composta di particelle più piccole dell’acqua. Quando un vaso che contiene acqua si
rompe, allora l’acqua si disperde all’esterno. A maggior ragione se il corpo che contiene l’anima
viene danneggiato, l’anima si disperderà al di fuori;
2) la crescita e lo sviluppo dell’anima è parallelo a quello del corpo;
3) quando il corpo soffre, anche l’anima mostra di soffrire gli stati psicologici corrispondenti al
dolore fisico come angoscia e paura. Tale corrispondenza di sensazioni mostra che l’anima è
mortale come il corpo;
4) in ogni malattia l’anima condivide il disordine del corpo;
5) l’effetto del vino è tale che, quando attacca il corpo, i suoi effetti si risentono direttamente
sull’anima;
6) lo stesso si può dire di una malattia come l’epilessia, alla quale Lucrezio dedica un interesse
particolare al punto da indurre qualcuno a credere che anch’egli ne fosse affetto;
7) le cure mediche implicano alterazioni nella struttura atomica della mente; ma se vi sono
alterazioni vi sarà anche la morte;
8) spesso un uomo si spegne poco a poco: questo significa che la mente è distrutta
progressivamente.
Poiché quindi l’anima non sopravvive alla morte del corpo, Lucrezio affermare che premio o
punizione non possono esistere nell’aldilà, perché l’aldilà non esiste. Ciò che nel mito viene
raffigurato come punizione non è altro che la rappresentazione allegorica delle passioni umane:
Tantalo, oppresso da un sasso in bilico che può travolgerlo in ogni momento, è lo specchio dei vani
timori degli uomini, terrorizzati in vita dalle punizioni divine e impossibilitati per questo motivo a
gustare le gioie dell’esistenza; Tizio, a cui è divorato il fegato da due avvoltoi per aver insidiato
Latona, è il riflesso dell’innamorato sempre tormentato dalla sua passione irrazionale; Sisifo,
condannato a spingere eternamente un masso, riflette l’ambizione infinita di chi cerca il comando e
non riesce mai ad ottenerlo; le Danaidi, che attingono acqua in recipienti senza fondo,
rappresentano l’insaziabilità.
Dopo le interpretazioni simboliche di Tantalo, Tizio, Sisifo e le Danaidi, Lucrezio cita
collettivamente altre entità infernali (Cerbero, le Furie e il Tartaro), che sono soltanto oggettivazioni
del timore degli uomini di essere puniti per le loro colpe.

Lezione 5. L’origine del sentimento e della pratica religiosi

Lettura metrica ed analisi morfo-linguistica di Lucr. 5. 1161-1240. Le istituzioni portano con


sé la sventura delle religioni, che umiliano e abbattono l’uomo, costringendolo a inutili
atteggiamenti di sofferenza. L’idea della divinità è generata nell’uomo dalle visioni che gli appaiono
sia durante la veglia che in sogno: esse hanno rivelato agli uomini primitivi gli dei come esseri
splendidi e maestosi, eterni e felici. Così si è formata l’idea universale del divino.
Lucrezio dimostra che in tale fondamento della conoscenza degli dei risiede l’errore:
considerando i fenomeni celesti e la regolarità delle stagioni, e non sapendo scoprirne le vere cause,
gli uomini primitivi ne attribuirono l’origine agli dei. Così il timore dell’ira divina ha spinto gli
uomini alle pratiche superstiziose ed ha tolto loro la capacità di contemplare serenamente la natura
dell’universo.
Dopo aver delineato la genesi della religio (vv. 1161-1193), Lucrezio passa a deplorare il
fatto che gli uomini primitivi abbiano lasciato ai loro discendenti tale funesta eredità e sviluppa
l’antitesi fra l’empia pietas delle pratiche religiose ostentate ed esteriori e la vera pietas epicurea
che ristabilisce la pura comunione fra uomini e dei (vv. 1194-1240). Prendendo spunto dalle teorie
di Democrito, filosofo greco dell’atomismo, Lucrezio cerca di fornire una spiegazione razionale
all’origine della religione o, per meglio dire, alla nascita nella mente degli uomini dell’idea che
esistano gli dèi. La deorum opinio, l’idea degli dèi, appunto, è posta in connessione con le reazioni
psicologiche degli esseri umani, che in certe visioni notturne percepiscono immagini di esseri
grandiosi. Esse, formate da atomi di natura sottilissima, sono colte dalla vista e colpiscono
l’immaginazione umana. Ne derivano il convincimento che tali esseri sono potenti, felici e che a
loro vada attribuita la causa dei fenomeni naturali di straordinaria portata, di cui gli uomini non
sanno darsi ragione. Il passo verso la nascita di miti, credenze e culti è breve e gli uomini si
trovarono così irretiti nei lacci crudeli di una realtà, in cui loro stessi si posero all’origine. Facile
concludere che, come vi si sono invischiate, le menti umane possono liberarsi da queste idee;
importante è l’uso della ragione. Ciò non deve essere percepito dagli uomini come un atto di
empietà, perché la vera pietas, secondo Lucrezio, consiste nel contemplare l’universo e la realtà che
ci circonda con mente serena e con il totale equilibrio della ratio.
Si noti nel passo il tono acceso con cui sempre il poeta affronta questo tipo di argomenti e la
foga con cui annuncia la sua verità, sorretto dalla fede che con i suoi versi sta offrendo all’umanità
il mezzo migliore per affrancarsi.

Lezione 6. L’origine della peste di Atene

Lettura metrica ed analisi morfo-linguistica di Lucr. 6. 1138-1229. Il poema si conclude con


il lungo excursus dedicato alla peste scoppiata ad Atene nel 430 a.C., il secondo anno della guerra
del Peloponneso. Al tema della peste Lucrezio giunge seguendo lo schema tradizionale degli antichi
trattati di fisica, che ponevano come ultimo argomento della rassegna dei fenomeni naturali le
patologie mediche. La descrizione della peste è esemplata su quella contenuta nelle Storie di
Tucidide (2. 47-53), da cui però Lucrezio a tratti si discosta. Vengono sistematicamente omesse
quelle parti del modello in cui si parla di casi di guarigione che – secondo Tucidide – scatenarono
scoppi di gioia incontrollabile, e quei passi in cui si accenna alla tendenza ad abbandonarsi a
sfrenati godimenti in seguito alla riflessione sull’assoluta precarietà dell’esistenza umana. Le
aggiunte consistono soprattutto nell’immissione di dati illustrativi del male, ripresi dagli scritti di
Ippocrate. Più consistenti risultano le variazioni. Intanto all’esattezza scientifica che
contraddistingue la descrizione tucididea, Lucrezio contrappone una visione magica, poi vengono
esasperati i particolari ripugnanti, ingrandite le proporzioni dell’epidemia e sottolineate le
ripercussioni degli aspetti fisici della peste sul morale e gli animi degli ammalati. Infine, a
differenza di Tucidide che conduce una relazione fredda e distaccata, assolutamente scevra da
coinvolgimenti emotivi, Lucrezio dissemina il testo di espressioni intonate alla compassione e alla
solidarietà impotente davanti alla devastazione del male, anticipando di secoli accenti e riflessioni
che saranno propri del Leopardi della Ginestra.
La scena è dominata da espressionistiche descrizioni di corpi in sfacelo. Tuttavia questa è la
natura, tanto positiva e creatrice quanto insensibilmente distruttrice. Come diceva lo stesso Lucrezio
in altri passi del poema, il mondo non è stato fatto per l’uomo.
U. D. 4

Le origini di Roma tra mito e storia negli Ab Urbe condita libri

Motivazione e obiettivi

Leggere la storia di Roma e conoscere le sue origini secondo la versione raccontata da Tito
Livio è immergersi in una storia romanzata; la storia è quella di un'epopea di un popolo e leggere
Livio è come continuare a leggere l'Eneide. Livio non è uno storico in senso moderno, nella sua
narrazione non vi è un riferimento a dei documenti, tutto è improntato sul ‘si narra’, una storia de
relato che ha molti contenuti di realtà ma anche molti elementi inventati che devono suscitare
grandi ideali e grandi sentimenti. Una delle fonti a cui Livio si rifà quando racconta le guerre
puniche è Polibio, che ha il pregio di raccontare un fatto, Livio invece dà anima a quel fatto.
Questo è il motivo per cui Livio è stato definito il grande ‘innamorato di Roma’. Può piacere
oppure no ma leggere Livio significa conoscere l'epopea di un popolo e il concetto di cosa pubblica.
Nessun uomo poteva creare la storia di Roma se Roma non fosse stata popolata da eroi, quando
scompariva un grande personaggio ne compariva subito un altro che portava avanti la res pubblica.
Ecco Livio non fa altro che mettere per iscritto quello che era l'animo di un popolo che viveva la
virtù nei fatti.
Livio racconta che nel 260 a.C. il Senato negò l'abolizione dei debiti, nonostante lo avesse
promesso, e il popolo romano per tutta risposta si sollevò e si ritirò sul Monte Sacro.
L'episodio (storico) raccontato da Livio dà l'idea di cosa significava res publica e come i valori
condivisi fossero vissuti da tutto il popolo romano. La politica era al servizio del popolo e non il
contrario. È un episodio che fa pensare, se raffrontato al nostro modo di accettare qualsiasi
decisione, anche ingiusta, da parte di uno Stato come quello moderno che tratta i suoi cittadini come
sudditi.
La lettura di Tito Livio è quindi ancora oggi vivamente consigliata perché rappresenta
l'autore che meglio interpretò e impersonò la virtù di Roma.
Contenuti

Lezione 1. Tito Livio e il manifesto programmatico degli Ab Urbe condita libri

Lettura e analisi morfo-linguistica della Praefatio degli Ab Urbe condita libri. Livio
antepone alla sua monumentale opera storica un’introduzione tradizionalmente conosciuta come
Praefatio, che contiene alcune importanti affermazioni di natura programmatica. Si tratta di un testo
complesso, come spesso lo sono i proemi delle opere degli storici greci e latini, dove l’autore mette
a fuoco l’argomento, il metodo storiografico, la finalità del lavoro. Per quanto concerne
quest’ultimo aspetto, emerge con chiarezza il fine laudativo nei confronti di Roma, che, unito agli
intenti didattico-moralistici, legittima l’uso come fonte anche di racconti leggendari.
Il testo, assai complesso, propone alcuni importanti elementi tematici. L’autore esprime
(parr. 1-3) la coscienza della difficoltà della sua impresa, dovuta alla mole della materia da trattare
(oltre 700 anni di storia: Varrone aveva infatti stabilito la fondazione di Roma nel 753 a.C.) e
all’importanza delle gesta del popolo romano. Manifesta inoltre il timore della propria
inadeguatezza nel confronto con la precedente tradizione storiografica. Livio constata poi (parr. 4-
5), e ribadirà più volte, la decadenza del popolo romano, la cui attuale corruzione dei costumi è
tanto più evidente se confrontata con il suo fulgido passato. La contrapposizione tra un passato
glorioso e le bassezze e i mali del presente (con malorum quae... aetas Livio allude alle guerre civili
che hanno angustiato Roma durante buona parte del I secolo a.C.) è un topos caro alla tradizione
storiografica romana, e soprattutto a Sallustio. Si ha quindi (parr. 6-8) una chiara e onesta
dichiarazione dell’intenzione di ricorrere, come
Fonti per la ricostruzione delle epoche più antiche, anche a racconti leggendari e mitologici
(presenti soprattutto nella cosiddetta ‘archeologia’) dove umano e divino si mescolano: è la gloria
stessa del popolo romano, guadagnata soprattutto con le imprese militari, a legittimare il fatto che si
possano ricondurre le sue origini a una genealogia divina. Ciò non toglie che l’attenzione precipua
dello storico debba rivolgersi a una ricostruzione seria delle condizioni di vita, dei costumi, dei
mezzi di accrescimento dell’impero e dei motivi della sua attuale crisi e decadenza. L’autore (par. 9)
riprende e amplia il discorso sulla decadenza dei costumi. Al di là del tono genericamente
pessimistico, caro alla storiografia romana, qui Livio allude forse agli scarsi esiti della legislazione
moralistica augustea
(leggi contro il lusso, contro gli adultèri, a favore della religione tradizionale ecc.). Livio (parr. 10-
13) pone grande attenzione a definire chiaramente personaggi o situazioni come exempla positivi o
negativi, nel solco della tradizione del mos maiorum; chi legge deve dunque essere guidato a
interpretare il passato, perché possa ricavarne insegnamenti morali utili per sé e per lo Stato; è
chiara, alla luce di ciò, la funzione didattica della storiografia.
Lo stile della Praefatio è decisamente elevato e l’inizio Facturusne... sim ricalca addirittura
lo schema metrico dell’esametro, il verso della poesia epica: d’altronde, conformemente alle
dottrine retoriche antiche, la narrazione liviana intende essere un opus oratorium maxime, cioè
un’opera prima di tutto letteraria.
Sul versante lessicale, questo testo contiene alcune tra le parole-chiave della tradizione
moralistica della storiografia romana; particolarmente forti ai paragrafi 11-12 gli echi sallustiani,
tramite l’uso di parole come avaritia, luxuria, cupiditas, voluptas, luxus, libido, atte a indicare la
decadenza etica del popolo romano.

Lezione 2. Origini mitiche di Roma

Lettura e analisi morfo-linguistica di Liv. 1. 1-3: l’arrivo di Enea in Italia, la guerra contro
Turno e Mezenzio, la morte di Enea, Ascanio e la fondazione di Alba Longa.
La narrazione storica liviana si apre chiarendo il legame delle vicende dell’Italia antica con
quelle della guerra di Troia. Due eroi troiani, infatti, giungono in Italia profughi dalla loro patria:
Antenore, fondatore di Padova (città natale di Livio, che così viene omaggiata), ed Enea.
Quest’ultimo arriva nel Lazio, vince il re degli Aborigeni Latino (o si accorda con lui), ne sposa la
figlia Lavinia dalla quale nascerà il figlio Ascanio, e fonda una città detta Lavinio in onore della
moglie. Le lotte successive sono contro Turno, promesso sposo di Lavinia, e contro il suo alleato,
l’etrusco Mezenzio; alla sua morte, Enea viene divinizzato.
Vi sono, senza dubbio, differenze con il racconto dell’Eneide di Virgilio, dove Iulo-Ascanio
è figlio del matrimonio troiano di Enea e Creusa (è però vero che anche Livio si pone il problema di
chi fosse realmente la madre del giovane), e dove le lotte tra Enea e i popoli italici sono descritte in
modo più cruento, mentre Livio insiste sul processo di fusione tra genti diverse. In entrambe le
opere, però, è forte il tentativo di legare il mito delle origini di Roma alla stirpe troiana, alla quale la
gens Iulia di Ottaviano Augusto affermava di appartenere. Ascanio, figlio di Enea, fonda la città di
Alba Longa, perché Lavinio – città fondata nel Lazio dal padre – era ormai sovrappopolata. Questa
fondazione divenne così molto importante e Livio elenca la plurisecolare serie di re albani
succedutisi dopo la morte di Ascanio. In una determinata fase il re Proca lasciò il regno al figlio
primogenito Numitore, detronizzato però dal fratello Amulio, che uccise anche tutta la famiglia di
questi: sopravvivrà solo la figlia Rea Silvia, consacrata vergine vestale e che in seguito genererà
Romolo, fondatore di Roma.

Lezione 3. Romolo e Remo e la fondazione di Roma

Lettura e analisi morfo-linguistica di Liv. 1. 4-8: Romolo e Remo, riconoscimento di


Romolo e Remo, Numitore è acclamato re di Alba, Romolo e Remo vogliono fondare una città,
Morte di Remo e ordinamenti civili di Roma.
Si narra della nascita dei gemelli Romolo e Remo, in seguito alla violenza che il dio Marte
fece sulla vergine vestale Rea Silvia, e del tragico obbligo per quest’ultima di liberarsi dei figli che
– in quanto sacerdotessa – non avrebbe dovuto avere. La cesta con i due bimbi, gettata nel fiume
Tevere, si arenò nelle acque basse e stagnanti e una lupa li allattò impedendo loro di morire di fame;
ci pensarono poi i due pastori Faustolo e Larenzia, che trovarono casualmente Romolo e Remo, a
crescerli ed educarli. I due accenni ‘razionalistici’ (e cioè il fatto che il padre di Romolo avrebbe
potuto anche non essere Marte e che la lupa fosse in realtà una prostituta) fanno intendere come
Livio non mancasse del tutto di spirito critico. L’insistenza sulla versione tradizionale mitica è
legittimata dai più volte dichiarati intenti glorificatori nei confronti di Roma; ma deriva pure dalla
sincera credenza che, in qualunque modo si manifestino (anche nel meno plausibile), alcuni episodi
siano comunque il segno della particolare attenzione provvidenzialistica che gli dèi hanno nei
confronti di Roma e della sua storia. E proprio la lupa, animale sacro già presso le popolazione
italiche, venne così sentita come strumento della provvidenza divina, lasciando testimonianza anche
nelle arti figurative.
L’atteggiamento di Livio nei confronti dell’episodio che sta narrando è duplice. Da un lato
egli è consapevole del suo ruolo di storico di Roma, di interprete di un’autocoscienza collettiva
(opportunamente assorbita dall’ideologia augustea) che associava alle origini della città una
dimensione fatale.
D’altro lato, nonostante la posizione genericamente fiduciosa di Livio nei confronti del mito,
non manca qualche elemento di razionalistico ‘dubbio’.
Non vi è però sostanziale contraddizione tra questi due diversi punti di vista, che trovano il
loro elemento unificante nella breve espressione ut opinor all’interno della frase iniziale. Se infatti,
come già affermato nella Praefatio e come qui ribadito, Livio crede nella fatalità dell’origine di
Roma, connaturata al suo provvidenziale ruolo storico, politico e di ‘civilizzazione’ del mondo, non
possono certo essere questi ‘dettagli’ a fargli cambiare idea. L’apparente scrupolo documentario, il
riferire anche voci diverse fra loro, non fanno che accentuare la forza del suo messaggio; dunque, se
‘crede’ lo storico, che pure ha vagliato le fonti e confrontato tra loro le diverse opinioni, tanto più
dovrà ‘credere’ anche il lettore.
Evidente è la cura nella scelta lessicale per descrivere il momento più sacro dell’archeologia
romana. Livio si compiace di costruire il suo racconto mediante una sintassi abbastanza semplice,
caratterizzata da periodi brevi, dove prevalgono strutture simmetriche. D’altronde egli sa che deve
esprimersi in modo chiaro, come chi sta raccontando una favola dalle finalità in qualche modo
‘didattiche’ nei confronti del lettore. Non manca però – come si conviene a un brano storiografico
che si avvicina a una narrazione epico-mitologica – qualche figura di suono, come le allitterazioni.

Lezione 4. Le guerre con i Sabini

Lettura e analisi morfo-linguistica di Liv. 1. 9; 12-13: il ratto delle sabine, lo scontro tra
Sabini e Romani, Mezio Curzio, intervento delle donne sabine e fine della guerra.
Dopo aver fondato la nuova città sul Palatino e averla munita di leggi e di un consiglio di
cento senatori, Romolo raduna attorno a sé molte genti di diversa provenienza, fi no a rendere Roma
assai popolosa e forte. Mancano però le donne e questo mette a rischio la nuova potenza, destinata,
senza figli, a durare una sola generazione. Si provvede allora con l’astuzia.
Narratore interessato e partecipe dei difficili esordi della potenza romana, Livio sottolinea il
rischio di un rapido esaurimento della giovane potenza territoriale fondata da Romolo e descrive
l’ostilità dei popoli confinanti, restii ad avviare rapporti di connubio con Roma per disprezzo delle
sue umili origini e per timore della sua potenza sempre crescente. Le parole dei messaggeri romani,
inviati alle genti vicine per chiedere di stringere rapporti matrimoniali, riflettono ancora l’idea cara
allo storico patavino del favore concesso dagli dèi al sorgere della potenza romana, garanzia certa di
un glorioso avvenire.
Nel racconto del ratto Livio lascia trasparire qua e là una certa ironia come quando afferma,
a proposito delle sabine rapite, che per la maggior parte furono portate via dal primo uomo in cui si
erano imbattute, mentre quando ricorda che “alcune, che si distinguevano per la bellezza (forma
excellentes), destinate ai più eminenti senatori, furono portate alle case di questi da uomini della
plebe cui era stato affidato quest’incarico”, emerge con evidenza il carattere classista di quella
primitiva società romana. Sapida è anche la considerazione finale: “si aggiungevano le blandizie dei
mariti, i quali adducevano a giustificazione dell’accaduto la passione amorosa (cupiditate atque
amore), argomento quanto mai efficace a piegare gli animi femminili”.
Non manca mai, in Livio, e specie nel racconto delle origini, un qualche spunto eziologico
con cui l’autore spiega le cause originarie di un rito, di un nome, di un modo di dire. È il caso del
racconto della bella sabina rapita dalla combriccola di Talassio (a globo Thalassi): la sbrigativa,
ripetuta giustificazione che la squadra di questo Talassio rivolgeva a chiunque si avvicinasse (“la
portiamo a Talassio perché nessuno le faccia violenza”), spiega infatti l’origine del triplice o duplice
grido thalassio thalassio <thalassio>, che veniva rivolto a mo’ di augurio alle fresche spose e che
divenne pertanto, come dice lo stesso Livio, una vox nuptialis, un grido ripetuto in occasione delle
cerimonie e delle feste nuziali. Si tratta di un tipico esempio di paretimologia, o etimologia di
fantasia, legata al suono della parola, spesso praticata dagli antichi nei testi eziologici. A Roma
queste paretimologie erano complicate dal carattere “formulare” della religione, che portava a
ripetere alla lettera formule di preghiera anche quando, come in questo caso, il loro significato era
divenuto ormai incomprensibile.
Ancora una volta emerge infine la figura di Romolo come eroe positivo, nella descrizione
del suo affannarsi a rassicurare le fanciulle rapite, giustificando l’azione con l’accusa di superbia
rivolta ai loro padri, colpevoli di avere rifiutato il connubio con Roma, e a garantire che avrebbero
goduto di tutti i diritti di mogli, di cittadine e di madri: nasce così il fondamento, anche giuridico,
della grandezza di Roma.

Lezione 5. Morte di Romolo e il suo successore Numa Pompilio

Lettura e analisi morfo-linguistica di Liv. 1. 16-19: morte di Romolo, il popolo rimette al


Senato la nomina del nuovo re, il regno di Numa Pompilio, la ninfa Egeria.
Livio narra dell'apoteosi di Romolo, considerato il primo re di Roma e suo fondatore,
avvenuta improvvisamente mentre era intento a passare in rassegna le truppe. L'avvenimento,
riferisce Livio, viene preceduto da una tempesta eccezionale e improvvisa; con tale dato, lo storico
mostra di attenersi alla credenza antica secondo la quale i fenomeni naturali più rari anticipassero
degli eventi epocali (come nel caso della caduta di una cometa, che, come riferisce Plutarco nella
“Vita di Cesare”, avrebbe preannunciato la morte del dittatore). Il racconto segue un andamento
drammatico, con la crescita progressiva del pathos, che raggiunge il culmine con il discorso di
Giulio Proculo, e con un gusto particolare per i dettagli fantastici. Livio tuttavia non aderisce in
maniera acritica a questa versione e mostra, seppur senza analizzare le fonti in maniera
approfondita, un certo scetticismo, come emerge dal punto in cui riporta la tesi di alcuni che
ritenevano che Romolo fosse stato in realtà fatto a pezzi dai senatori (par. 16: Fuisse credo tum
aliquos... ). Livio tuttavia si premura di presentare questa variante soltanto di scorcio e di avvolgerla
in una perobscura fama, perché ciò che gli interessa è la celebrazione delle origini, che sono in
realtà funzionali a elogiare il regime augusteo. Grazie a Giulio Proculo, che riporta in maniera
indiretta le ultime parole di Romolo divinizzato, i Romani ricevono la profezia della futura
grandezza di Roma e la accolgono con un 'incredibile' atto di fede (mirum est quantum illi viro
nuntianti haec fides fuerit...).
Dopo la morte di Romolo nasce il disaccordo nel Senato per l'elezione del suo successore.
Le genti Sabine pretendono che sia eletto uno di loro, altrettanto i Quiriti.
Si giunse quindi ad un interregno che durò un anno durante il quale i cento membri di dieci
decurie rappresentanti delle varie tribù dovevano succedersi al potere a turni di cinque giorni.
Questo stato di cose non durò perché il popolo lamentava, dice Livio, non più uno ma cento
padroni.
Il Senato decise allora di lasciare che fosse il popolo a scegliere il re riservandosi il diritto di
approvazione. La delibera fu molto gradita alla plebe che, per non essere da meno, rimise la scelta
ai senatori.
Fu dunque proposto il sabino Numa Pompilio, uomo noto per rettitudine e saggezza che per
le sue virtù fu gradito anche ai senatori Romani. Dopo che un augure ebbe tratto auspici favorevoli
alla sua elezione, Numa fu creato secondo re di Roma.
Una volta eletto, Numa diede inizio a riforme civili e cercò di mitigare la belligeranza dei
Romani. Fondò il tempio di Giano la cui chiusura indicava la pace. Com'è noto, dopo Numa il
tempio fu chiuso solo due volte: durante il consolato di Tito Manlio (235 a.C.) e dopo la battaglia di
Azio. Per dar maggior credito alla sua figura ed alle sue leggi fece credere di essere assistito dalla
ninfa Egeria. Divise l'anno in dodici mesi con degli intercalari per farlo corrispondere alle
lunazioni. Determinò inoltre quali fossero i giorni fausti e infausti.
Riguardo ai due ‘padri fondatori’ la storiografia moderna manifesta orientamenti opposti:
Romolo e Numa secondo parte della critica recente sono nomi simbolici o denominazioni collettive
che coprono un lungo periodo di tempo, mentre più storicità hanno i re successivi e piena realtà i re
etruschi; per altri studiosi anche i primi re hanno piena storicità, anzi Romolo stesso, fondatore della
città, avrebbe fatto cantare e trasmettere la leggenda delle sue origini.

Lezione 6. Gli Orazi e i Curiazi


Lettura e analisi morfo-linguistica di Liv. 1. 24-26: accordo sulle modalità del duello fra
Orazi e Curiazi, il combattimento fra Orazi e Curiazi, l’Orazio vincitore uccide la sorella e l’istituto
giuridico della perduellio.
I tre campioni romani (Orazi) e i tre albani (Curiazi), trigemini gli uni e gli altri, eroi della
guerra sorta tra Alba e Roma sotto Tullo Ostilio, scelti a decidere in tenzone diretta circa la
supremazia delle due città rivali. In un primo momento ebbero la meglio i Curiazi che, pur feriti,
uccisero due Orazi: il terzo Orazio, incolume, riuscì a separare i Curiazi con una finta fuga e li
uccise. Sdegnato dei lamenti della sorella, fidanzata a un Curiazio, la uccise, e, condannato a morte,
fu graziato a furor di popolo. La leggenda, elaborata nel 5° o nel 4° sec. a. C., si collegava con
alcuni monumenti: 1. le credute tombe degli Orazi e dei Curiazi sulla Via Appia (da non
confondersi con quell'antico monumento sepolcrale che si soleva designare con questo nome tra
Albano e Aricia); 2. un luogo nel Foro che portava il nome di Pila Horatia. Si trattava nell'età
augustea d'una colonna o pilastro all'estremità della basilica Giulia o della basilica Emilia presso il
Foro, e si riteneva che ivi o ivi presso fossero state appese le spoglie dei vinti Curiazî. Se il
monumento prendesse nome da pila, pilastro, o da piluui, giavellotto, non è chiaro; 3. il cosiddetto
‘tigillo sororio’, trave lignea orizzontale sovrapposta a due stipiti verticali presso cui erano due are,
l'una di Giano Curiazio, l'altra di Giunone Sororia, Giano cioè considerato in relazione con le curie
e Giunone considerata come sorella di Giano (Ianus Iunonius). Colà avevano luogo cerimonie
espiatorie. Era probabilmente una antichissima porta da cui rientrava nel pomerio l'esercito cittadino
dopo essersi purificato del sangue versato in guerra. Che questi monumenti abbiano fornito alla
leggenda qualche spunto etiologico, è evidente ed è pure evidente che le ha fornito qualche
particolare il desiderio di dare un'origine antichissima all'appello al popolo (provocatio) nelle cause
capitali e di esemplarne la procedura. Ma la leggenda non si riduce a questi elementi e nel suo
insieme, come accade di regola nelle leggende più poetiche e più genuinamente popolari, essa non è
analizzabile.
I racconti delle origini, evidentemente, danno rilievo alla fondazione politica della città e al
fatto che Romolo diede ai Romani la prima costituzione; ma al periodo dei re sono fatte risalire
anche successive istituzioni conservate dalla res publica, come l’intercessio ‘inventata’, appunto, da
Livio sotto il regno di Tullo Ostilio per salvare dalla condanna a morte l’unico Orazio sopravvissuto
nel duello con i Curiazi, uccisore della sorella (I, 24-26: l’evento più celebre nel corso della guerra
fratricida tra Albani e Romani).

Potrebbero piacerti anche