Y362 I Disturbi Del Comportamento in Eta Evolutiva

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Pietro Muratori e Furio Lambruschi

Muratori e Lambruschi
I DISTURBI
Negli ultimi anni si è assistito a una diffusione quasi
epidemica dei disturbi del comportamento nell’età evo-
lutiva, tanto da portare alcuni ricercatori a definire que-
sta problematica come una vera e propria health crisis
dell’epoca moderna. DEL COMPORTAMENTO
A fronte di tale situazione, questo volume propone un
valido supporto alle diverse figure che si occupano di IN ETÀ EVOLUTIVA
costruire un percorso riabilitativo o educativo con bam-
bini e adolescenti con disturbi del comportamento, for-
nendo loro strumenti di valutazione e di intervento che Fattori di rischio, strumenti di assessment

I DISTURBI DEL COMPORTAMENTO IN ETÀ EVOLUTIVA


ne facilitino il compito. e strategie psicoterapeutiche
La realizzazione graduale di una relazione adeguata fra
bambino e genitori diventa quindi un obiettivo raggiun-
gibile, proprio laddove l’impresa può sembrare destinata
al fallimento.

€ 23,00
Pietro Muratori e Furio Lambruschi

Muratori e Lambruschi
I DISTURBI
Negli ultimi anni si è assistito a una diffusione quasi
epidemica dei disturbi del comportamento nell’età evo-
lutiva, tanto da portare alcuni ricercatori a definire que-
sta problematica come una vera e propria health crisis
dell’epoca moderna. DEL COMPORTAMENTO
A fronte di tale situazione, questo volume propone un
valido supporto alle diverse figure che si occupano di IN ETÀ EVOLUTIVA
costruire un percorso riabilitativo o educativo con bam-
bini e adolescenti con disturbi del comportamento, for-
nendo loro strumenti di valutazione e di intervento che Fattori di rischio, strumenti di assessment

I DISTURBI DEL COMPORTAMENTO IN ETÀ EVOLUTIVA


ne facilitino il compito. e strategie psicoterapeutiche
La realizzazione graduale di una relazione adeguata fra
bambino e genitori diventa quindi un obiettivo raggiun-
gibile, proprio laddove l’impresa può sembrare destinata
al fallimento.

€ 23,00
Indice

7 Prefazione (A. Milone)

15 Introduzione

17 CAP. 1 Approccio descrittivo ai disturbi


del comportamento in età evolutiva
57 CAP. 2 Parenting e disturbi esternalizzanti
73 CAP. 3 Procedure e Strumenti di Assessment
105 CAP. 4 Un approccio neuroscientifico-cognitivo alla
terapia dei disturbi del comportamento in età
evolutiva
177 Bibliografia
Introduzione

In un recente articolo, Burt e colleghi (2018) definiscono i disturbi del


comportamento in età evolutiva una vera e propria health crisis dei tempi
moderni. A sostegno di questa tesi portano dati che confermano la diffusione
epidemica di queste difficoltà di comportamento in bambini e adolescenti,
nonché la necessità di interventi mirati e precoci per interrompere il percorso
che vede questi soggetti a forte rischio di problematiche di adattamento,
insuccesso scolastico e comportamenti antisociali. Anche in età prescolare
emergono sempre di più bambini con difficoltà a regolare le loro emozioni
e a rispettare le regole.
Cosa fare? Anzitutto è essenziale un cambio di prospettiva concettuale
da parte dei contesti socio-educativi: le gravi difficoltà di regolazione del
comportamento non devono essere viste, banalmente, come problematiche
legate a mancanze educative da parte dei genitori. I bambini con gravi e
precoci difficoltà di comportamento sono bambini con bisogni speciali, e le
famiglie andrebbero aiutate a comprendere e ad affrontare tali bisogni dei
loro figli. Così come andrebbero aiutati gli insegnanti a gestire e prevenire
le esplosioni comportamentali di questi bambini nel contesto scolastico.
Nel definire i bisogni speciali e le caratteristiche di questi bambini,
il presente volume sostiene l’idea di un’interazione dinamica e complessa
tra variabili di rischio e variabili protettive nello sviluppo delle difficoltà
precoci di comportamento. Si cercherà, quindi, di delineare ciò che un
16 I disturbi del comportamento in età evolutiva

operatore dovrebbe valutare e approfondire in fase di assessment, fornendo


indicazioni pratiche e strumenti di valutazione aggiornati. Saranno indicati
alcuni processi cognitivo-affettivi che con il loro sviluppo atipico possono
contribuire all’emergere del comportamento aggressivo nel bambino e, per
ognuno di essi, si tenterà di offrire una descrizione clinica ed evolutiva e
alcuni suggerimenti operativi per l’intervento terapeutico con il bambino
e con i suoi caregiver.
Questo volume, dunque, si prefigge di fare il punto su un’area psi-
copatologica di grande interesse e di forte impegno per i servizi sanitari,
educativi e sociali che a vario titolo si occupano di infanzia e di età scolare.
La nostra speranza è che possa aiutare chi opera in questo campo a collocare
la rabbia del bambino e le possibili costellazioni sintomatologiche ad essa
connesse entro una cornice che fa dell’intreccio fra fattori di rischio bio-
psico-sociali e pattern relazionali la sua complessità e al tempo stesso il suo
punto di forza, in quanto indispensabile per cogliere le possibili funzioni,
i possibili significati interpersonali del comportamento dissociale e con
questi le dolorose rappresentazioni interne di sé e dell’altro ad essi sottese.
1
Approccio descrittivo ai disturbi
del comportamento in età evolutiva

Cosa è l’aggressività?

I bambini con difficoltà di comportamento sono spesso bambini ag-


gressivi. Quando però parliamo di aggressività, ci riferiamo a un costrutto
ampio, che racchiude al suo interno manifestazioni varie e differenti.
In generale, distinguiamo i comportamenti aggressivi facendo riferi-
mento a due dimensioni: la forma e la funzione. La forma si riferisce alla
modalità con cui il comportamento stesso viene emesso, il come: potremo
quindi, ad esempio, avere aggressività di tipo fisico, verbale, o relazionale.
La funzione, invece, riguarda le motivazioni sottostanti un determinato atto
aggressivo, il perché: magari il comportamento era necessario a raggiungere
uno scopo, a ottenere un vantaggio, oppure rappresentava la risposta com-
portamentale legata a un’emozione (non necessariamente la rabbia) di base.
Entrando maggiormente nel dettaglio, possiamo distinguere princi-
palmente tre forme di aggressività. L’aggressività fisica prevede l’uso della
forza, così come la minaccia di ferire una persona. Essa può manifestarsi
in molti modi, come ad esempio mordere, dare calci o pugni, prendere le
cose degli altri o spingere. L’aggressività relazionale, invece, prevede il porre
fine, o anche in questo caso la minaccia di mettere fine, a una relazione,
con l’intenzione di ferire l’altro; fanno parte di questa categoria il gossip, il
diffondere menzogne su un compagno, il rivelare segreti e l’esclusione attiva
18 I disturbi del comportamento in età evolutiva

di qualcuno da una relazione. Infine, l’aggressività sociale racchiude forme


di aggressività (verbale e non) che hanno il preciso scopo di danneggiare
l’autostima e lo status sociale della vittima. Comportamenti tipici dell’ag-
gressività sociale sono gli insulti.
Sul versante delle funzioni, invece, siamo soliti distinguere l’aggressività
proattiva e l’aggressività reattiva. L’aggressività proattiva è caratterizzata da
comportamenti intenzionali, premeditati, strumentali e volti al raggiun-
gimento di un preciso scopo; è definita, infatti, anche aggressività fredda.
L’aggressività reattiva, al contrario, è una forma calda di aggressività; riguarda
comportamenti impulsivi, ostili e vendicativi, messi in atto in risposta al
comportamento o alle offese, reali o percepite, degli altri.
Qualsiasi forma di comportamento aggressivo pervasivo ha una forte
base di rischio genetico. Giusto per riportare alcuni dati, studi stimano
che i fattori genetici siano in grado di spiegare il 65% della varianza per
quanto riguarda i comportamenti aggressivi e il 48% di quelli delinquenziali
(Burt, 2009). Risultati analoghi emergono per quanto riguarda l’aggressività
fisica (Brendgen et al., 2005). D’altra parte, sostenere una predisposizione
genetica verso un comportamento non indica in che modo la suscettibilità
genetica abbia modificato la traiettoria di vita dell’individuo. Ovvero,
correlazioni fra fattori ambientali e caratteristiche genetiche sembrano
essere determinanti per lo sviluppo di comportamenti aggressivi, ma
non è ancora chiaro quali tipologie di correlazioni geni-ambiente (rGE)
giochino il ruolo principale in questo processo. Vengono, infatti, distinti
tre tipi di correlazioni geni-ambiente: parliamo di rGE attive (o selettive),
quando un individuo seleziona e modifica attivamente il suo ambiente
sulla base delle sue caratteristiche geneticamente determinate. Questo è il
caso in cui, ad esempio, un ragazzo con problemi di aggressività, determi-
nati almeno parzialmente da fattori genetici, sceglierà volontariamente di
unirsi a gruppi di amici con le medesime caratteristiche. Quando invece
le caratteristiche (geneticamente determinate) di un individuo inducono
specifiche reazioni nell’ambiente sociale, abbiamo una rGE evocativa: può
succedere, pertanto, che l’aggressività di un bambino induca risposte di
rifiuto e una generale antipatia da parte dei pari, che porterà all’esclusione
sociale del bambino stesso. In entrambi questi esempi, le caratteristiche
dell’ambiente sono direttamente influenzate dalle caratteristiche ereditate
del bambino. Il terzo tipo di correlazioni è rappresentato dalle rGE passi-
ve: in questo caso sono le caratteristiche personali dei genitori, anch’esse
parzialmente determinate da fattori genetici, a influenzare l’ambiente del
bambino. Le esperienze ambientali che sono offerte al bambino non sono
Approccio descrittivo ai disturbi del comportamento in età evolutiva 19

elicitate, quindi, dal suo comportamento, ma da quello dei genitori: per


portare un esempio, i bambini con genitori con una disposizione genetica
per comportamenti aggressivi si trovano a esperire pratiche disciplinari
rigide più frequentemente, indipendentemente dalle loro caratteristiche
e dal loro comportamento.
Un altro aspetto da tenere in considerazione sono le interazioni gene-
ambiente (G×E), ovvero quei processi per cui l’espressione di una disposizione
genetica varia in funzione dell’ambiente o per cui l’effetto dell’ambiente varia
sulla base di una disposizione genetica. Anche in questo caso, i meccanismi
che guidano le interazioni G×E sono molteplici. Si parla di trigger process
quando una condizione ambientale elicita o esacerba una disposizione ge-
netica. Un esempio di trigger process si ha quando un bambino, con una
predisposizione genetica, vittima di continue vessazioni da parte dei com-
pagni, sviluppa comportamenti aggressivi. In questo caso, la vittimizzazione
ha favorito la manifestazione di una predisposizione genetica. Quando le
condizioni ambientali riducono il ruolo dei fattori genetici nello spiegare
le differenze interindividuali nel comportamento, abbiamo un processo di
soppressione. Con una certa facilità, possiamo immaginare che l’esposizione
alla guerra, ad esempio, possa favorire l’emergere di comportamenti aggressivi
anche in soggetti senza una vulnerabilità genetica. Infine, possiamo avere
un’interazione G×E indotta da un processo di compensazione: un ambiente
positivo riduce o, nel migliore dei casi, previene l’espressione genetica di un
comportamento problematico. Per portare un esempio: un bambino, con
una suscettibilità genetica, se esposto a un ambiente supportivo, potrebbe
non sviluppare problemi legati all’aggressività.
I fattori genetici, inoltre, influenzano molto la spinta verso i compor-
tamenti aggressivi, sia quelli di natura reattiva che proattiva. Ad ogni modo,
è necessario tenere in considerazione che ciò non significa che i fattori ge-
netici siano gli unici a giocare un ruolo nell’eziopatogenesi dei problemi di
aggressività ed è altrettanto importante non pensare che la presenza di una
vulnerabilità genetica porti inevitabilmente allo sviluppo di comportamenti
aggressivi. Infatti, molti studi hanno dimostrato che i fattori ambientali
esercitano una notevole influenza nel moderare la spinta genetica verso
l’aggressività. A tal proposito, risultano di estrema importanza il contesto
familiare, con particolare riferimento allo stile di parenting adottato dai
caregiver (si veda ad esempio Hyde et al., 2016), il contesto scolastico e la
relazione con i pari (si veda ad esempio Brendgen et al., 2008; 2011). Esce
parzialmente dal quadro appena delineato l’aggressività relazionale. Studi
hanno infatti evidenziato che solo il 20% della varianza è spiegato da fattori
20 I disturbi del comportamento in età evolutiva

genetici (ad esempio Brendgen et al., 2005): essa sembra maggiormente legata
al contesto in cui cresce il bambino e a quanto esso approvi o disapprovi
comportamenti di aggressività relazionale.
Essenzialmente, quello che vedono i clinici è come questo delicato
intreccio fra genetica e ambiente dia vita a differenti pattern di attivazione
del Sistema Nervoso Autonomo (SNA). Il SNA è composto da due dif-
ferenti branche: il Sistema Nervoso Simpatico (SNS), che è quel sistema
deputato alla preparazione dell’organismo ai meccanismi di attacco/fuga in
situazioni di minaccia o pericolo; il Sistema Nervoso Parasimpatico (SNP),
che si occupa invece di ristabilire l’equilibrio e riportare il corpo a uno stato
di quiete. Differenti gradi di attivazione sembrano associarsi specificamente
all’aggressività reattiva e a quella proattiva. In particolare, l’aggressività
reattiva risulta associata a una generale iperattivazione autonomica, che
sembra riflettere una risposta automatica allo stress e alle emozioni negative,
alla quale i bambini reagiscono con comportamenti aggressivi. Quando gli
stimoli sono percepiti come una minaccia, il SNS prende il sopravvento,
portando a un aumento della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca.
Al contrario, l’aggressività proattiva sembra associarsi a un’ipoattivazione
autonomica: soggetti con ipoattivazione del SNA hanno difficoltà a prestare
attenzione e a rispondere agli stimoli ambientali e, per questo, potrebbero
avere un maggior rischio di sviluppare comportamenti aggressivi. L’aggres-
sività proattiva si manifesta, quindi, nei bambini meno sensibili agli aspetti
positivi dell’ambiente che li circonda. In quest’ottica, le esperienze sociali
precoci assumono un ruolo di estrema rilevanza.
Vogliamo ora offrire una panoramica dell’approccio clinico ai compor-
tamenti aggressivi nei bambini in età preadolescenziale. Questo approccio
risponde, di fatto, a una domanda che spesso un clinico dell’età evolutiva
si pone, ovvero: «Cosa devo valutare per essere sicuro della presenza di un
determinato quadro diagnostico?», e ancora: «Quali strumenti possono
guidarmi nell’individuazione di un determinato quadro diagnostico?».
Dedicare il primo capitolo di questo volume all’inquadramento dia-
gnostico delle problematiche comportamentali in età evolutiva può aiutare il
clinico innanzitutto a far chiarezza su quali siano gli aspetti sintomatologici
e in particolare i criteri che permettono di formulare una precisa diagnosi
descrittiva. Tale diagnosi permette di delineare uno specifico disturbo che
può essere «sottotipizzato», prendendo in esame variabili come l’epoca di
insorgenza, la presenza di familiarità e le caratteristiche temperamentali del
bambino. Questo obiettivo nosografico, condiviso dai principali manuali
diagnostici, va soprattutto nella direzione di individuare specifiche entità
Approccio descrittivo ai disturbi del comportamento in età evolutiva 21

cliniche a cui indirizzare interventi terapeutici cuciti sulle caratteristiche del


quadro che il clinico ha di fronte.
I Disturbi da Comportamento Dirompente (DCD), più precisamente
il Disturbo Oppositivo-Provocatorio (DOP) e il Disturbo della Condotta
(DC), costituiscono anche nel nostro Paese uno dei motivi più frequenti di
richiesta di consultazione presso i Servizi di salute mentale dell’infanzia e
adolescenza. I minori che presentano quadri clinici riferibili a questa categoria
diagnostica hanno elevati rischi evolutivi e una compromissione rilevante
e pervasiva del loro funzionamento adattivo, che spesso rende fallimentare
il loro percorso sia in ambito scolastico che sociale. Le loro problematiche
comportamentali influenzano negativamente il funzionamento del contesto
familiare, scolastico e sociale in cui crescono o vengono inseriti nelle varie fasi
della loro vita. Infine, le loro traiettorie evolutive verso l’età adulta possono
portare allo sviluppo di varie patologie connesse con la marginalità sociale,
come nel caso dello sviluppo di un Disturbo Antisociale di Personalità o di
un Disturbo da Abuso o Dipendenza da Sostanze (Frick & Viding, 2009).
Poniamo in evidenza da subito che le problematiche di comportamen-
to in età evolutiva, come l’aggressività e i problemi di condotta, possono
manifestarsi nel bambino per le più diverse ragioni. Possono manifestarsi
durante i passaggi evolutivi e di crescita, in seguito a eventi di vita che il
bambino non riesce ad affrontare con le proprie risorse, oppure a seguito
di scompensi nel quadro familiare cui il bambino reagisce con rabbia. L’at-
tenzione del clinico deve certamente andare anche verso l’analisi della storia
del sintomo del bambino (si veda il capitolo 3), ma innanzitutto dovrebbe,
a nostro avviso, andare verso un’attenta risposta a tre domande:
‒ «Da quanto tempo i comportamenti “sintomo” sono presenti nel bam-
bino?»
‒ «Con che frequenza il bambino manifesta tali comportamenti?»
‒ «Posso ritenermi sicuro che manifesti tali comportamenti in almeno due
contesti di vita (ad esempio scuola e casa)?».
La ricerca attenta di una risposta a ognuna di queste tre domande
orienterà il clinico nel poter definire la situazione che ha davanti come col-
locabile all’interno di un quadro nosografico, che presuppone un intervento
primario sui sintomi del bambino e sui fattori contestuali che contribuiscono
al mantenimento di tale sintomo (si veda il capitolo 4). Nel caso in cui si
escluda la presenza di un quadro diagnostico specifico l’intervento primario
va progettato al fine di individuare e modulare il fattore di scompenso che
ha portato il bambino a manifestare alcuni comportamenti aggressivi. Nei
22 I disturbi del comportamento in età evolutiva

prossimi paragrafi cercheremo di descrivere cosa è essenziale valutare per


ottenere un ampio e completo quadro diagnostico.

Evoluzione nosografica dei DCD

L’importanza di descrivere quadri clinici associati alla comparsa di


condotte antisociali, tra i disturbi psichiatrici che insorgono in età evolutiva,
risale alla pubblicazione del DSM-II (1968). In questa edizione, infatti,
venivano descritte tre tipologie cliniche che si ricollegavano a tre diversi
comportamenti di devianza: le condotte di fuga, le condotte aggressive
non socializzate e le condotte delinquenziali di gruppo. Il DSM-II descrive
queste tipologie cliniche sulla base sia di studi osservazionali sia sull’analisi
dei cluster sintomatologici evidenziati in popolazioni di minori che arriva-
vano all’attenzione della giustizia minorile. I comportamenti disfunzionali
descritti venivano interpretati come modalità reattive, motivate anche da
una spinta «auto-conservativa», che il bambino o l’adolescente metteva in
atto in contesti familiari caratterizzati da schemi educativi inconsistenti o
eccessivamente punitivi e in contesti sociali svantaggiati in cui il monito-
raggio degli adulti era comunque molto scarso.
Nel DSM-III (1980) compaiono per la prima volta le categorie dia-
gnostiche del Disturbo Oppositivo-Provocatorio (DOP) e del Disturbo
della Condotta (DC) associate al Disturbo da Deficit di Attenzione ed
Iperattività (ADHD), all’interno della sottoclasse dei Disturbi con Compor-
tamento Dirompente, a sua volta collocata nel grande capitolo dei Disturbi
dell’Infanzia, Fanciullezza e Adolescenza. Rispetto a quanto proposto nel
DSM-II, è evidente il passaggio a una visione di queste patologie come
non esclusivamente «reattive» al contesto di vita del minore, ma motivate
da caratteristiche endogene del bambino/adolescente che si intrecciano a
fattori di rischio ambientali.
La formulazione presente nel DSM-III del DOP, infatti, prevedeva la
presenza di almeno due sintomi negli ultimi 6 mesi, con compromissione
clinicamente significativa del funzionamento sociale, scolastico o lavorativo
del soggetto. I due sintomi dovevano essere scelti tra 5 condotte proble-
matiche: violazione di regole minori, crisi di rabbia, polemicità, condotte
provocatorie, eccessiva testardaggine. Nella descrizione dei criteri diagnostici
del DC si evidenziava la maggiore gravità delle condotte devianti presenti e,
a tali condotte, doveva sottintendere l’obiettivo di ledere i diritti o l’inco-
lumità degli altri e/o la volontà di non aderire alle principali regole sociali.
Approccio descrittivo ai disturbi del comportamento in età evolutiva 23

Nel DSM-III veniva, inoltre, sottolineata l’importanza di distinguere le


due categorie diagnostiche DOP e DC che, pur condividendo fattori di
rischio e modelli eziologici comuni e facilitando l’uno (DOP) l’insorgenza
dell’altro (DC), non potevano essere diagnosticati in comorbidità. Nella
descrizione dei criteri diagnostici del DC veniva proposta anche una pri-
ma sottotipizzazione, in base sia alle condotte disfunzionali prevalenti, se
aggressive (condotte eterolesive) o non aggressive (condotte di furto o di
menzogna) e in base alle potenzialità relazionali del minore, distinguendo se
presenti in un soggetto inserito in un contesto sociale o in un soggetto che
tende a isolarsi. Quest’ultima sottotipizzazione cercava di distinguere due
tipologie di minori con DC, particolarmente interessanti dal punto di vista
delle modifiche proposte più recentemente nella nuova formulazione del
DSM-5. Infatti, i minori con DC che, comunque, presentavano competenze
relazionali e capacità empatiche e di sintonizzazione emotiva verso i pari,
venivano distinti dai minori che presentavano scarse competenze emotive e
una specifica difficoltà a sentirsi in colpa dopo agiti aggressivi o dissociali.
Questi ultimi, valutati in studi longitudinali, avevano una prognosi peggiore
con maggior rischio di deriva antisociale e arrivavano più frequentemente
all’attenzione della giustizia minorile.
Lo sforzo descrittivo del DSM-III, sia nel definire in modo specifico
differenti categorie diagnostiche per DOP e DC, sia nel delineare sotto-
tipi nel DC, in realtà non ha prodotto, come auspicato, un significativo
miglioramento della concordanza diagnostica tra clinici, alcuni dei quali
hanno criticato la categorizzazione proposta come un tentativo di stigma-
tizzare condotte aggressive parafisiologiche in età evolutiva. Anche i criteri
diagnostici per il DOP furono criticati perché troppo aspecifici, finendo
per descrivere una forma minore o iniziale di DC più che un’entità clinica
specifica.
Negli anni seguenti, in particolare nella revisione del DSM-III (APA,
1987) e negli anni che precedettero la pubblicazione del DSM-IV (APA,
1994) e DSM-IV-R (APA, 2000), il gruppo di lavoro coinvolto nella nuova
formulazione dei criteri diagnostici del DC tese ad ampliare il kit di criteri
sintomatologici del DOP, aggiungendo ulteriori condotte disfunzionali quali
l’essere dispettoso o vendicativo, arrabbiato e risentito. Inoltre, per evitare la
sovrastima clinica di comportamenti parafisiologici, nei criteri diagnostici
del DOP venne aggiunto il suggerimento di considerare un comportamento
disfunzionale solo se manifestato più frequentemente rispetto a quanto si
osserva tipicamente in soggetti comparabili per età e livello di sviluppo.
Anche i criteri diagnostici del DC vennero modificati inserendo condotte
24 I disturbi del comportamento in età evolutiva

che andavano a descrivere in modo più circostanziato le modalità aggressive


verso persone o animali, mentre per le condotte di frode o menzogna si
inserirono specifiche sintomatologiche tese a stigmatizzarne la gravità di tali
condotte, valutandone sia l’intento strumentale e quindi premeditato che
la precocità di insorgenza (prima dei 13 anni). L’obiettivo di questa tipiz-
zazione era di distinguere forme precoci (considerate più infauste a livello
di prognosi perché più frequentemente correlate allo sviluppo di condotte
di devianza sociale in età successive), da forme adolescenziali (più sensibili
agli interventi terapeutici e spesso limitate a questa fascia di età nel loro
decorso verso la risoluzione sintomatologica).
Nel DSM-IV e nel DSM-IV-R si dà continuità alla scelta dell’edizione
precedente, continuando a mantenere il DOP e DC in un gruppo unitario
insieme all’ADHD, compreso a sua volta nel raggruppamento relativo ai
Disturbi Psichiatrici che insorgono solitamente nell’infanzia e nell’adole-
scenza. In questa edizione però tale scelta fa riferimento non soltanto alle
analogie sintomatologiche tra i disturbi, ma alla presenza di fattori eziologici
comuni e alla loro frequente associazione sia in quadri di comorbidità che
di continuum evolutivo.

La nuova concezione dei disordini del comportamento nel DSM-5©

Per molti autori (Moffit et al., 2008), anche i criteri diagnostici proposti
per il DOP e il DC nel DSM-IV non sono riusciti a ridurre il fenomeno
dell’elevata comorbidità di questi disturbi e a individuare gruppi specifici di
soggetti che differiscono per gravità sintomatologica, decorso e prognosi tra
quelli che hanno in comune la presenza di condotte aggressive e/o antisociali.
Carol Bernstain sottolinea come i clinici che utilizzano il DSM-IV si trovino
spesso a porre diagnosi in molti pazienti associando più categorie diagnostiche
(Bernstain, 2011). Molti cluster di disturbi, infatti, tendono a presentare
un’elevata comorbidità, come accade per i disturbi del cosiddetto cluster
internalizzante e per i disturbi caratterizzati da comportamenti dirompenti,
raggruppabili nel cluster esternalizzante. L’autrice si chiede se forse non sia
più giusto identificare forme di «spettro» per varie categorie di disturbi,
seguendo ciò che è stato fatto recentemente per la nuova categorizzazione
del disturbo autistico. Ad esempio, in uno studio in cui si sono confrontate
le potenzialità predittive di outcome clinico in età adulta per indicatori del
DOP e del DC espressi con modalità dimensionali o categoriali, si è rilevato
come il modello dimensionale renda possibile rilevare quadri subclinici di
Approccio descrittivo ai disturbi del comportamento in età evolutiva 25

DOP o DC che costituiscono comunque un significativo indice di rischio


evolutivo (Fergusson, Boden, & Horwood, 2010).
In generale, siamo ancora lontani dalla condivisione di un approccio
dimensionale alla diagnosi descrittiva in età evolutiva; d’altra parte, il DSM-5
ha sicuramente raggiunto alcuni obiettivi che si era preposto.
I gruppi di lavoro chiamati a rivedere il DSM hanno cercato di fornire
criteri più specifici che permettessero di delineare la gravità della patolo-
gia mentale, proponendo l’utilizzo di un criterio dimensionale accanto a
quello categoriale, che è stato l’unico adottato sino alla scorsa edizione del
manuale. Per valutare quindi la presenza di uno specifico disturbo non è
più, quindi, solo necessario accertare la presenza o l’assenza di un indicatore
sintomatologico, ma anche valutarne il grado di intensità nella presenta-
zione e, quindi, il gradiente di menomazione che il sintomo provoca nel
funzionamento globale di quel soggetto. La maggior parte degli strumenti di
valutazione della psicopatologia in età evolutiva, usati sia in ambito clinico
e di ricerca o epidemiologico, sono basati su un approccio dimensionale al
sintomo e quindi forniscono indici di varianza dei sintomi, considerando
range normativi e permettendo di raccogliere elementi clinici da più fonti di
informazione (paziente, genitori, insegnanti) e quindi di valutare il sintomo
in contesti diversi di vita del minore.
Un altro concetto su cui si è andata organizzando la nuova struttura del
DSM-5 è «la prospettiva di sviluppo»; sappiamo, infatti, che la maggior parte
dei disturbi psichiatrici dell’età adulta possono presentare un esordio precoce
in età evolutiva. Questo criterio è stato scelto per organizzare la sequenza
delle categorie diagnostiche inserite, iniziando appunto con i Disturbi del
Neurosviluppo (DN), in cui rimane inserita buona parte dei disturbi che
nel DSM-IV erano inclusi nella categoria Disturbi dell’Infanzia e dell’Ado-
lescenza. Anche nell’organizzazione interna delle altre categorie diagnostiche
viene utilizzato un gradiente secondo età d’insorgenza, inserendo per primi
i disturbi che hanno più frequentemente esordio nell’infanzia (APA, 2013).
I gruppi di lavoro che hanno partecipato all’elaborazione del DSM-5
hanno discusso il criterio in base al quale i vari disturbi vengono inclusi
in una stessa categoria diagnostica. Il principio scelto è stato quello della
condivisione di caratteristiche comuni, che sono alla base di manifestazioni
sintomatologiche che possono anche essere diverse ma che fanno riferimento
ad alcuni fattori specifici (Krueger & South, 2009). I fattori condivisi dai
disturbi che vengono raggruppati all’interno della stessa categoria diagnostica
sono fattori di rischio (genetici, familiari, ambientali), substrati neuronali
e marker biologici, aspetti specifici temperamentali, anomalie dell’elabora-
2
Parenting e disturbi esternalizzanti

Il parenting

Il termine parenting («genitorialità») si riferisce a un costrutto ampio e


certamente di non semplice definizione. A prescindere dalle diverse possibili
tipologie di famiglia oggi esistenti e dalle singole individualità, ciò che risulta
essenziale è il legame di dipendenza che unisce il bambino a chi si prende
cura di lui, aspetto che implica una disparità di responsabilità, doveri e ruoli
nella diade. Questo nonostante la competenza che il bambino presenta
fin dalla nascita come partner attivo e partecipe all’interno della relazione
(Lambruschi & Lionetti, 2015; Barone, 2007; Reddy, 2010).
Sul piano procedurale, prendendo in considerazione cioè i modelli ta-
citi, la «genitorialità» si esprime in specifici modelli comportamentali volti
all’accudimento del figlio riguardo a una varietà di bisogni: a) di tipo fisico,
come quelli inerenti l’alimentazione, la salute, l’igiene, il vestiario, la sicurezza
fisica, le condizioni ambientali, abitative, ecc. (nurtural caregiving e material
caregiving; Bornstein, 1995); b) di tipo psicologico, come l’apprendimento di
conoscenze e autonomie personali e sociali capaci di orientare e sostenere il
bambino nella realtà; l’acquisizione di regole educative e morali e di adegua-
te strategie di socializzazione; il bisogno di sicurezza emotiva e affettiva, di
conforto e rassicurazione in situazioni di vulnerabilità e distress emotivo, ecc.
(didactic caregiving e social caregiving; Bornstein, 1995). Le configurazioni di
58 I disturbi del comportamento in età evolutiva

risposta dell’adulto a questi bisogni del bambino si esprimono in una gamma


più o meno ampia di atteggiamenti e comportamenti interpersonali osserva-
bili, che vanno a definire ciò che usualmente si intende per stile genitoriale.
Nella definizione di genitorialità vi sono due costrutti teorici che sul
piano della ricerca e degli strumenti di valutazione sono stati tradizional-
mente distinti in due importanti sotto-funzioni: la componente cosiddetta
educativa, ossia relativa ad aspetti disciplinari come porre limiti, definire
le regole, promuovere strategie di socializzazione, veicolare modelli cultu-
rali e morali; e la componente cosiddetta affettiva che, come abbiamo già
sottolineato parlando di sensibilità e responsività, riguarda la capacità di
cogliere, interpretare e rispondere in modo adeguato (e con il giusto timing
di sintonizzazione) ai segnali comunicativi del proprio bambino.
Anche un vasto ambito di ricerca nell’ambito della Developmental Psycho-
pathology tende a distinguerli per meglio focalizzarne e articolarne le singole
funzioni (Greenberg, 1999; DeKlyen & Greenberg, 2008). Così inquadrati,
capacità di porre regole e di veicolare affettività potrebbero apparire come
costrutti diversi e lontani tra loro, eppure l’esperienza clinica e i dati dalla
ricerca mostrano come queste due componenti siano strettamente correlate,
suggerendo di fatto come sia impossibile educare senza amare e viceversa.
In altri termini, come vedremo, le strategie di regolazione emotiva che il
bambino sviluppa nella relazione affettiva con il genitore influenzano anche
il grado di adesione ad aspetti di tipo educativo sul piano comportamentale
e sociale (Lambruschi & Muratori, 2013).
Il ruolo del caregiver è fondamentale per sostenere lo sviluppo fisico,
emotivo, relazionale e cognitivo del bambino, il quale a sua volta mostra
una motivazione innata e primaria alla ricerca di un adulto affettivamente
significativo, più forte e più saggio, che con responsabilità sappia fornire
cure sul piano non solo fisico ma anche emotivo, rappresentando una base
sicura da cui partire per brevi o lunghe escursioni, e un porto cui far ritorno
per ritrovare vicinanza e supporto (Ainsworth, Blehar, Waters, & Wall,
1978a, 1978b; Bowlby, 1969). Nel corso di questi primi scambi relazionali,
tra ricerca di protezione ed esplorazione, grazie alla mutua interazione tra
processi neurobiologici e relazioni interpersonali, fin dalla prima infanzia
si forma la mente. Durante questa evoluzione i rapporti con le figure ge-
nitoriali agiscono favorendo o inibendo lo sviluppo e organizzazione dei
circuiti neurali e il loro attivarsi.
Questo processo relazionale vede progressivi cambiamenti nel tempo
e richiede un continuo riaggiustamento dell’equilibrio tra il ruolo di pro-
tezione svolto dal caregiver e i progressivi bisogni di autonomia ed esplora-
Parenting e disturbi esternalizzanti 59

zione del bambino che cresce, rappresentando un vero e proprio compito di


sviluppo congiunto. In questo scambio relazionale è importante il grado in
cui il genitore riesce a riconoscere e a interpretare correttamente i segnali
del bambino, attribuendo a essi un significato (Downing, Bürgin, Reck, &
Ziegenhain, 2008) e sostenendo lo sviluppo con affettività e disponibilità
emotiva (Biringen, 2000) ma anche con capacità di struttura e definizio-
ne delle regole in modo sensibile (Juffer, Bakermans-Kranenburg, & van
IJzendoorn, 2008; Barone & Lionetti, 2013).
È nella relazione con le figure d’attaccamento primarie che si organiz-
za il Sé del bambino, fin dalle prime fasi di vita. Ecco perché un’adeguata
valutazione della genitorialità è così importante nell’ambito dei disturbi
esternalizzanti come anche di tutta la psicopatologia infantile: individuarne
precocemente eventuali vulnerabilità e fattori di rischio rappresenta il primo
passo per sostenerla in modo efficace e, indirettamente, promuoverne l’a-
dattamento e l’armonico sviluppo del bambino stesso. Ciò è tanto più vero
quanto più il disturbo del comportamento (in termini oppositivo provocatori
o di primi allarmanti segnali di rabbia) si presenta precocemente alla nostra
osservazione. Qui le figure genitoriali dovranno essere tenute saldamente al
centro del processo terapeutico fin dalle prime fasi d’assessment.
Le modalità di parenting osservabili nel genitore sono frutto della sua
storia evolutiva, che si esprime in un particolare stato mentale, caratterizzato
da livelli più o meno buoni di integrazione del sé, di mentalizzazione in prima
e in terza persona e quindi di mind-mindedness o insightfulness (Meins, 1997;
2003; Oppenheim & Koren-Karie, 2002), cioè di orientamento alla mente
del proprio figlio. Tutto ciò si riflette, insieme a gradi maggiori o minori
di sensibilità e responsività osservabili nell’interazione con il figlio, in una
maggiore o minore sicurezza nel legame d’attaccamento che egli sviluppe-
rà nei confronti del genitore e quindi di armonia nello sviluppo affettivo,
sociale e morale (per una descrizione più approfondita di tali passaggi, si
veda Lambruschi & Lionetti, 2015).

Disciplina sensibile

Il concetto di «disciplina sensibile» (Juffer, Bakermans-Kranenburg, &


van IJzendoorn, 2008; Barone & Lionetti, 2013) sta diventando centrale sia
nella comprensione che nei percorsi di trattamento dei disturbi esternalizzanti.
Le disposizioni temperamentali innate del bambino (con relativi
correlati neurobiologici) già di per sé possono porre importanti vincoli al
3
Procedure e Strumenti di Assessment

Le basi dell’assessment clinico nei disturbi del comportamento

L’ampia gamma di manifestazioni sintomatologiche, associata alla


complessità dei contesti socio-familiari in cui i disturbi esternalizzanti si
originano, rende particolarmente difficile la pianificazione e la realizzazione
di un intervento terapeutico, che deve tener conto dei molteplici aspetti
implicati nel disturbo e dei diversi fattori di rischio/protettivi coinvolti
nell’etiopatogenesi.
Nei DC, in effetti, è ormai ampiamente dimostrato come sia possibile
ottenere risultati più evidenti e più stabili nel tempo solo attraverso inter-
venti multi-modali e multi-dimensionali (Eyberg, Nelson, & Boggs, 2008;
Farmer, Compton, Burns, & Robertson, 2002; Henggeler & Borduin,1990;
Kazdin, 2000; Kazdin & Weisz, 2003; Lochman & Wells, 2002; Weisz &
Kazdin, 2010), in cui vengono adeguatamente integrati e dosati interventi
psicoterapeutici per il minore e per i genitori e interventi di counseling rivolti
a tutti gli operatori che interagiscono con il minore nei vari contesti di vita
(scolastico, sportivo, sociale).
La possibilità, inoltre, di prevedere setting multipli per il paziente, vale
a dire più figure professionali che a vario titolo interagiscono con il bam-
bino, rappresenta un ulteriore elemento di tutela e di garanzia rispetto alla
«tenuta» dell’intervento. Tale assetto terapeutico permette di agire con una
74 I disturbi del comportamento in età evolutiva

varietà di strumenti e modalità operative sui molteplici fattori di rischio che


contribuiscono all’emergere del comportamento problematico del bambino
(Burke, Loeber, & Birmaher, 2002; Garland, Hawley, & Hurlburt, 2008;
Lochman & Wells, 2002). Inoltre, la pluralità di operatori che interagiscono
con il bambino e la sua famiglia consente di esprimere, di volta in volta,
posizionamenti relazionali e modalità comportamentali che, adeguatamente
coordinate tra loro, offrono l’opportunità di una maggiore comprensione
e regolazione delle complesse manifestazioni emotive e comportamentali
espresse dal bambino e dal suo sistema familiare.
Come abbiamo visto, i disturbi della condotta sono spesso connessi a
contesti relazionali particolarmente critici e complessi, con strutturazioni
del Sé talvolta connotate da gravi deficit nelle competenze autoriflessive e
metacognitive. Nel confrontarsi con tali contesti relazionali (così come accade
nei gravi disturbi di personalità nell’adulto; Liotti, 1999; 2001; Liotti &
Farina, 2011), il terapeuta dovrebbe sapere, quasi come regola, che occor-
re rinunciare all’idea onnipotente di compensare tali limiti metacognitivi
affidandosi solo alle proprie risorse e al potere della relazione terapeutica
che il bambino e il suo sistema familiare hanno stabilito con lui. Quella
relazione, anzi, proprio nell’attivarsi degli stati emotivi e affettivi connessi
all’attaccamento, diverrà con ogni probabilità teatro di drammatici agiti,
esito delle imponenti disconnessioni interne tra i sistemi di memoria, e
più adeguatamente gestibili entro un contesto terapeutico strutturato su
setting multipli.
L’introduzione di un setting parallelo (l’educatore domiciliare, il
neuropsichiatria infantile che gestisce il piano farmacologico, un setting
gruppale per il bambino o per i genitori, ecc.) ha, quindi, l’effetto benefico
di limitare l’attivazione intensa del sistema motivazionale dell’attaccamento
e impedisce che un’unica relazione divenga ricettacolo di rappresentazioni
non integrate, contraddittorie e sature di intensi stati affettivi, positivi e ne-
gativi, divenendo confondente e minacciosa e determinando agiti impulsivi
e drop-out «inspiegabili».
Un adeguato assessment clinico in età evolutiva dovrebbe consentire
la raccolta di tutti i dati comportamentali e cognitivi utili alla formulazione
di una buona diagnosi descrittiva, sulla base dei manuali di classificazione
diagnostica attualmente disponibili: DSM-5 e ICD-11. Contemporanea-
mente dovremo tentare di formulare anche una diagnosi esplicativa, capace
di spiegare come mai quel particolare bambino, con quella particolare orga-
nizzazione del Sé, nel rapporto con quelle particolari figure d’attaccamento,
sia giunto a esprimere proprio quel particolare quadro sintomatologico, in
Procedure e Strumenti di Assessment 75

quel particolare momento del suo ciclo di vita. Pertanto, dovremo racco-
gliere dati che ci consentano di comprendere il funzionamento interno, lo
stile di regolazione emotiva del bambino, le sue capacità di negoziazione, le
sue strategie interpersonali, così come l’organizzazione cognitivo/emotiva
dei genitori, il loro stato mentale rispetto agli attaccamenti, e il modo in
cui tutto ciò si declina nella qualità del sistema di accudimento-cura che i
genitori sono in grado di esprimere verso il figlio. Ugualmente, dovremo
indagare gli sbilanciamenti affettivi e i meccanismi di scompenso che pos-
sono aver condotto alla sofferenza sintomatologica del bambino, e quindi
il significato che tali sintomi possono rivestire nella logica del sistema di
fronte al quale ci si trova.

Costruzione dell’alleanza di lavoro con i genitori e il bambino

Com’è noto, tutto il processo diagnostico e, successivamente, quello


terapeutico sono ampiamente influenzati in ogni loro fase dalla qualità
della relazione terapeutica costruita con il bambino e con la sua famiglia
(Norcross, 2002). La qualità dell’alleanza terapeutica, sia con il bambino
che con i suoi genitori, correla non solo con significativi cambiamenti nel
bambino, ma anche con un evidente incremento delle competenze genitoriali
e nella percezione dei miglioramenti nella situazione problematica da parte
del genitore (Kazdin, Whitley, & Marciano, 2006). Pertanto, al di là delle
metodologie e delle tecniche specifiche utilizzate, l’analisi e la gestione di
tale spazio relazionale dovranno costituire una delle variabili cruciali nella
strutturazione di ogni fase dell’intervento, soprattutto nel lavoro clinico
con il bambino con DC, il cui Sé tende in genere a esprimersi nel setting,
in forma emotivamente immediata, attraverso agiti impulsivi e talora
drammatici. Il bambino con DC è infatti un paziente assai poco paziente
e prevedibile, con il quale tutte le rassicuranti regole del setting clinico,
tipiche del lavoro in età evolutiva, mostrano inesorabilmente i loro limiti,
sollecitando costantemente nel terapeuta risonanze emotive più o meno
intense, che richiedono di essere monitorate, comprese e adeguatamente
gestite. Parallelamente, anche nella relazione con la coppia genitoriale, il
terapeuta si trova implicato in complesse dinamiche emozionali connotate
ora da allarme e urgenti aspettative di cura e di rassicurazione, ora intrise
di sentimenti di colpa e necessità di impellenti agiti riparativi, sentimenti
di inadeguatezza, incapacità e bisogno di conferma, rabbia e ostilità verso
il mondo esterno, compreso, talvolta, il terapeuta stesso.
4
Un approccio neuroscientifico-cognitivo
alla terapia dei disturbi
del comportamento in età evolutiva

Introduzione

Come già rilevato nei capitoli precedenti, il comportamento aggressivo


e antisociale rappresenta uno dei motivi più frequenti di richiesta di consul-
tazione ai servizi socio-sanitari. È risaputo, inoltre, che questi comportamenti
portano spesso i bambini e gli adolescenti a incorrere in outcome negativi
quali difficoltà scolastica, comportamenti delinquenziali, uso di sostanze e
permanenza della diagnosi psichiatrica. Per questi motivi sono stati sviluppati
tanti modelli che cercano di identificare i fattori di rischio e i meccanismi di
mantenimento del comportamento aggressivo e antisociale in età evolutiva. In
generale tutti questi modelli di trattamento descrivono vari target terapeutici
che non sono altro che la manifestazione del funzionamento di diversi sistemi
a base neurobiologica, nonché il prodotto di come questi sistemi sono stati
regolati dai caregiver nel corso dell’itinerario di sviluppo del bambino.
Il modello psicopatologico e di trattamento che verrà presentato in que-
sto capitolo si basa sull’approccio denominato Psicopatologia dello Sviluppo
(Developmental Psychopathology; Sameroff, 2010) che, in primo luogo, sotto-
linea l’importanza del principio di multifattorialità nella determinazione delle
problematiche comportamentali ed emotive di rilievo clinico in età evolutiva.
In altri termini, le ragioni di una data manifestazione psicopatologica sono
sempre ricercate nell’intreccio e nell’equilibrio dinamico tra fattori di rischio,
106 I disturbi del comportamento in età evolutiva

da un lato, e fattori protettivi, dall’altro. In particolare, nell’osservazione di


come le caratteristiche neurogenetiche e neurobiologiche proprie del bambino
e le diverse variabili ecologiche o ambientali (avversità economiche, stress
sociali, gruppi di pari, ecc.) vanno a ingranarsi con la qualità del parenting
(strategie educative e di socializzazione, qualità dei legami di attaccamento)
così come è stata descritta nel capitolo 2. Diverse combinazioni di fattori di
rischio possono condurre allo stesso tipo di disturbo (principio di equifinalità).
Inoltre, l’effetto di ogni singolo fattore di rischio dipenderà dal momento in
cui interviene e dalla combinazione con altri fattori (multifinalità).
Tale approccio, dunque, cerca di integrare lo studio dello sviluppo tipico
e atipico al fine di spiegare come determinati compiti di sviluppo possono
non arrivare a compimento nell’individuo. In tal senso, ha uno stretto lega-
me con l’approccio che un clinico dovrebbe tenere di fronte a un bambino
con seri problemi di condotta: il clinico già in fase di assessment dovrebbe
delineare i diversi compiti di sviluppo che si sono bloccati nel bambino e
che lo hanno portato poi a manifestare seri problemi di condotta. È, altresì,
importante sottolineare come l’approccio della psicopatologia dello sviluppo
veda sia lo sviluppo tipico che quello atipico non come un assetto statico, ma
come un processo dinamico e sempre in divenire. I fattori di rischio possono
essere affrontati e manipolati, attraverso interventi specifici, a volte anche
attraverso la relazione terapeutica, portando il bambino a riacquisire quelle
competenze atte a ridimensionare i problemi nel controllo dell’aggressività
e nelle problematiche di condotta.
L’intento di questo capitolo è di delineare alcuni processi cognitivo-
affettivi che con il loro sviluppo atipico possono aver contribuito all’emergere
del comportamento aggressivo nel bambino. Per ognuno di questi processi
vengono proposti una descrizione clinica ed evolutiva e alcuni suggerimenti
per l’intervento terapeutico. Al di là delle criticità nell’ambito del parenting
che possono rappresentare una variabile aggiuntiva di rischio e su cui co-
munque ci soffermeremo, essenzialmente il clinico che si occupa di disturbi
del comportamento può trovarsi di fronte tre diversi fenotipi, descrivibili
come segue (si veda la figura 4.1):
– il bambino con difficoltà a riconoscere l’ansia, spesso contagiato emotiva-
mente dal contesto e con scarsa capacità di leggere le intenzioni altrui;
i caregiver di questo bambino danno spesso vita a un contesto di vita
ansiogeno e, talvolta, maltrattante;
– il bambino con scarso interesse e scarsa empatia affettiva verso l’altro, spesso
caratterizzato da aggressività pianificata; i caregiver di questo bambino
danno spesso vita a un contesto di vita poco coinvolto e poco premiante;
Un approccio neuroscientifico-cognitivo alla terapia dei disturbi 107

– il bambino con difficoltà nel processo di problem solving, spesso caratterizzato


da un comportamento impulsivo e da una forte sensibilità alla frustrazione;
i caregiver di questo bambino danno spesso vita a un contesto educativo
incoerente e inconsistente.

Fig. 4.1 Fenotipi caratteristici dei disturbi del comportamento. Attualmente la valutazione
si concentra sugli aspetti del comportamento, sulle funzioni cognitive sottostanti
e sui fattori patogenetici di tipo ambientale. In futuro essa potrà estendersi allo
studio delle disfunzioni del cervello (in particolare amigdala e corteccia frontale)
mediante fMRI, e allo studio dei fattori genetici (MAOA, 5HTTLPR, COMT)
mediante genetica molecolare (da Blair, 2013, modificato).

Nella pratica clinica quotidiana, i quadri psicopatologici spesso ap-


paiono più confusi di quanto ora cercheremo di descrivere, tuttavia siamo
profondamente convinti che un’attenta analisi funzionale degli episodi in
cui più spesso si manifestano le difficoltà comportamentali del bambino
possa portare il clinico a individuare uno specifico fenotipo primario e di
conseguenze a cucire il suo intervento su queste caratteristiche primarie del
bambino e del suo contesto familiare.
108 I disturbi del comportamento in età evolutiva

Disturbo del comportamento e ansia (fenotipo 1)

L’aggressività reattiva a minacce esterne, la scarsa capacità di leggere la


mente altrui e lo stato emotivo perennemente attivato sono le caratteristiche
cliniche dei bambini che manifestano problemi di condotta e provengono
da questo itinerario di sviluppo. L’eziopatogenesi di questi quadri ha una
forte matrice ambientale: questo li differenzia dagli altri due itinerari che
andremo a descrivere caratterizzati, invece, da un’eziopatogenesi con-
trassegnata prevalentemente da fattori di rischio neurobiologici. Questi
bambini sono cresciuti in contesti di vita caratterizzati dalla pervasività
dell’esperienza di paura. La trasmissione della paura da parte dei loro ca-
regiver passa essenzialmente attraverso due modalità. La prima caratterizza
contesti familiari in cui il bambino è esposto frequentemente a forme di
disciplina dura e maltrattamento fisico o psicologico (nell’ottica dell’attac-
camento, il maltrattamento ci può essere anche in contesti distanzianti, ma
può portare alla sottomissione compiacente e non all’ansia perché consente
prevedibilità; nei pattern C ad alto indice c’è invece imprevedibilità nella
minaccia che mette ansia). La seconda modalità riguarda, invece, quei
contesti in cui i caregiver pervadono la relazione con il figlio con le loro
paure, prefigurando al piccolo un mondo pericoloso che lui non sarà mai
in grado di esplorare da solo. In questi casi, i modelli d’attaccamento si
configurano frequentemente in termini ansioso-resistenti e la strutturazione
del sé tende a evolvere con una percezione di sé in termini di vulnerabilità
fisica ed emotiva e una corrispondente percezione del mondo in termini
di pericolo e di minacciosità. Sono bloccati i processi di separazione e di
esplorazione autonoma dell’ambiente.
Entrambi i tipi di contesti condividono la caratteristica dell’impreve-
dibilità. Questa imprevedibilità, associata alla minaccia cui il bambino è
esposto, plasma la mente del bambino rendendola estremamente reattiva
alle minacce e poco interessata a scoprire cosa può esserci cognitivamente
nella mente dell’altro e all’esplorazione dell’ambiente. Da un punto di vista
evolutivo, il bambino ha sviluppato un’attenzione selettiva verso i segnali
di minaccia, la sua mente si è così plasmata per difendere la sua incolu-
mità fisica e psicologica dai comportamenti dei caregiver minaccianti o da
comportamenti ansiosi o iperapprensivi del caregiver che vanno a ledere la
sua autostima. Con il passare degli anni il bambino si trova a generalizzare
questa attenzione selettiva a tutti i suoi contesti di vita; semplificando si
potrebbe dire che la sua area amigdaloidea si è tarata per captare e rispondere
ai segnali di minaccia. Questo comporta che in tutti i contesti di vita del
Un approccio neuroscientifico-cognitivo alla terapia dei disturbi 109

bambino la sua attenzione sarà reattiva a tutti i possibili segnali di minaccia


(anche piccoli cambiamenti nel contesto), facendolo diventare più propenso
a reagire a questa ipotetica e sovrastimata minaccia con aggressività reattiva
ed esplosiva. Numerosi studi (Dodge, Lochman, Harnish, Bates, & Pettit,
1997; Dodge & Pettit, 2003; Waldman, 1996), infatti, suggeriscono che
per questi bambini le rappresentazioni di stati emotivi sono facilmente e
frequentemente attivate da segnali emotivi inappropriati, con conseguente
errore di etichettatura di questi segnali (ad esempio, l’espressione benigna di
un pari può essere letta come rabbia, a partire da una lettura erronea della
manifestazione di un sorriso da parte di un compagno che viene letto come
un sorriso di scherno, invece che come un sorriso prosociale). In altre parole,
si può dire che bambini che hanno subito un maltrattamento mostrano uno
schema generale di elaborazione degli affetti atipico, anche al di fuori della
consapevolezza cosciente. Data l’evidenza che l’elaborazione degli affetti pre-
attentivi risulta alterata anche in individui con disturbi d’ansia diagnosticati,
suggeriamo che questo pattern di innalzamento dell’attivazione dell’amigdala
e del sistema nervoso autonomico nei bambini maltrattati possa costituire
un marker neurale latente di rischio, associato a una maggiore vulnerabilità
ai futuri disturbi psichiatrici, non solo a disturbi della condotta.

Come manifestano la loro aggressività?


L’aggressività di questi bambini è tipicamente reattiva. I mammiferi
mostrano una risposta graduale e istintiva alla minaccia: le minacce lontane
provocano il congelamento, mentre l’aggressività reattiva è indotta quando
le minacce sono molto vicine e la fuga è impossibile. L’aggressività reattiva
è caratterizzata da aggressioni non programmate e furiose rivolte all’oggetto
percepito come fonte di minaccia. Studi su animali hanno dimostrato che
l’aggressività reattiva è mediata da un circuito che va dall’amigdala mediale,
in gran parte attraverso la stria terminale, fino all’ipotalamo mediale, e da
lì alla metà dorsale della sostanza grigia periacqueduttale (Lin et al., 2011).
Specifici polimorfismi genetici insieme all’esposizione a precoci condizioni
ambientali sfavorevoli possono portare a una maggiore reattività dell’amig-
dala, in particolare modo di fronte ai segnali di minaccia. Questa aumentata
reattività accresce a sua volta la sensibilità alle minacce, lo stato di perenne
attivazione emotiva rende il bambino più sensibile ai cambiamenti nel con-
testo e ciò accresce inoltre la probabilità che anche solo un cambiamento
imprevisto nel contesto inneschi un’aggressione reattiva. Questi soggetti
rappresentano probabilmente il 40% dei casi con disturbo della condotta
110 I disturbi del comportamento in età evolutiva

e soddisfano spesso anche i criteri per un disturbo d’ansia (Lahey, Loeber,


Burke, Rathouz, & McBurnett, 2002).
Essere esposti a un contesto maltrattante rappresenta un grave rischio
nello sviluppo di un’adeguata regolazione delle emozioni nei bambini. Nelle
famiglie maltrattanti, i genitori forniscono minor supporto quando i loro
figli sono sconvolti, e questo nel tempo finisce per limitare la capacità dei
bambini di apprendere strategie costruttive per regolare i loro stati emotivi.
Inoltre, i caregiver maltrattanti tendono a coinvolgere i loro figli meno spesso
in quelle che definiremo «discussioni emotive», dimostrando una ridotta
capacità di comprendere l’espressione affettiva dei loro figli e offrendo meno
strategie di gestione della rabbia rispetto ai genitori tipici.
Un rischio frequente è che un bambino che presenta spesso scoppi d’ira
possa apparire ai suoi genitori, ai suoi insegnanti, e anche a se stesso come
tutto tranne che ansioso. Questo è probabilmente il primo obiettivo tera-
peutico da porsi in questi casi: far riconoscere al bambino e al suo contesto
di vita l’ansia, spesso pervasiva, che lo caratterizza. In questo caso usiamo
il termine ansia, ma probabilmente la descrizione clinica più corretta che
delinea questi bambini sarebbe «essere in uno stato di perenne attivazione
emotiva e costante percezione di vulnerabilità». In effetti, questi bambini
hanno scarse capacità di riconoscere la paura come uno stato emotivo ge-
nuino e condivisibile, piuttosto la percepiscono in termini sensoriali come
somatizzazioni e la disregolano in ansia, oppure la trasformano in rabbia.
Sono, insomma, quei pattern «caldi» descritti nel capitolo 2, in cui la rabbia
agonistica svolge una funzione di potente ansiolitico e in cui, per il bam-
bino, avvertire un senso minimo di controllo del rapporto con il genitore
attraverso l’oppositività e la rabbia è assolutamente vitale nel mantenimento
dello stato di relazione.
Spesso questi bambini mostrano anche una scarsa capacità di leggere
cognitivamente la mente altrui. L’empatia cognitiva implica una com-
prensione esplicita dello stato mentale altrui, ma non è necessariamente
accompagnata a uno stato affettivo specifico. Con questo termine ci si
riferisce alla capacità di assumere intellettualmente il ruolo o il punto di
vista di un’altra persona, e questo implica la decodifica e il riconoscimento
delle emozioni e dei loro segnali situazionali. Infine, è noto da tempo che i
deficit nello sviluppo del linguaggio e dell’intelligenza verbale sono comuni
tra i bambini con problemi di condotta; tuttavia le evidenze attuali indica-
no che sono in qualche modo specifici per quei bambini che provengono
dall’itinerario che stiamo ora descrivendo (Salekin et al., 2004; Muñoz et
al., 2008). Il bambino si presenta al terapeuta carico di emozioni sulla pelle,
Un approccio neuroscientifico-cognitivo alla terapia dei disturbi 111

carico di immagini con cui descrivere ciò che gli succede, ma con scarso
dialogo interno per controllare cognitivamente tutto ciò. Il profilo di cui
stiamo trattando descrive un bambino con il termometro delle emozioni
tarato verso l’alto, sensibile alla minaccia, che ha difficoltà a verbalizzare le
sfumature dell’emozione in se stesso e negli altri (scarsa empatia cognitiva),
e che sperimenta un contagio emotivo frequente e intenso, forse addirittura
accentuato (empatia affettiva intatta).

L’intervento con il bambino


Ma andiamo a indagare quali sono i processi cognitivo-affettivi che con
il loro sviluppo atipico hanno contribuito all’emergere del comportamento
aggressivo nel bambino nel quadro clinico sopra descritto. Crediamo che
in questo caso siano la regolazione e il riconoscimento dell’emozionalità
«negativa» come reazione al sentirsi minacciato e la capacità di lettura
dell’ambiente circostante e della mente altrui (empatia cognitiva). Per ognuno
di questi processi (riassunti nella figura 4.2) offriremo alcuni suggerimenti
per l’intervento terapeutico.

Fig. 4.2 Processi di regolazione emotiva.


112 I disturbi del comportamento in età evolutiva

Innanzitutto, è importante aiutare il bambino a sviluppare l’autosser-


vazione/monitoraggio delle situazioni critiche e analizzare insieme alcuni
episodi durante i quali recentemente ha manifestato crisi di rabbia. Il primo
strumento terapeutico è a nostro avviso la scheda ABC (si veda il capitolo
3), dove per A intendiamo gli antecedenti a un episodio di «rabbia» avve-
nuto recentemente, possibilmente nell’ultima settimana del bambino; per
B intendiamo i pensieri su di sé e sugli altri che hanno accompagnato tali
episodi; e con C intendiamo le emozioni che oltre alla rabbia erano presenti
nel bambino durante l’episodio. L’uso della scheda ABC può essere reso più
appetibile per il bambino presentandola come un gioco, ad esempio il gioco
del «detective delle emozioni» in cui si cerca di scoprire insieme chi o cosa
è la causa di così tanta rabbia. Il gioco deve essere fatto passare al bambino
come una modalità per aiutarlo a non incorrere più nelle conseguenze ne-
gative che la rabbia spesso gli porta: punizioni, perdita di relazioni sociali
ed emozioni spiacevoli. Ma, per farlo, bisogna andare a cercare insieme cosa
in particolare ha fatto scattare la rabbia. La scheda ABC è solo uno schema
generale: con i bambini è bene che le schede vengano adattate, modificate
e abbellite con immagini, foto o figurine in modo da renderne la compila-
zione piacevole e interattiva (si può partire da un foglio bianco e disegnare
o scrivere insieme le diverse parti della scheda; si veda la figura 4.3).
In questo passaggio terapeutico, l’obiettivo è anzitutto di ricostruire
con ordine le sequenze sintomatologiche e rendere più consapevole il
bambino delle cosiddette «molle» che più frequentemente fanno scattare
in lui la rabbia: in altri termini, cerchiamo di introdurre ordine cognitivo
nel caos emotivo. Per fare questo bisogna aiutare il bambino a spostare la
sua attenzione dalle sue emozioni e comportamento a ciò che era successo
un attimo prima.
Come si può notare, l’antecedente tipico in questi itinerari viene espresso
dal bambino nei termini di: «Lui ce l’ha con me». Le descrizioni sono calde e
coinvolgenti, lo stile narrativo si basa principalmente su immagini sensoriali
attivanti e sul linguaggio connotativo evocativo. Pertanto, il dialogo interno
non ha una funzione cognitivamente «ordinante», di guida e di controllo sul
proprio comportamento e sulle proprie emozioni. La lettura delle emozioni è
di solito di tipo corporeo e sensoriale. Condividere e parlare dell’esistenza di
queste molle alla base di molti scoppi di rabbia del bambino è il primo passo
del percorso terapeutico che ci aspetta. Un’altra molla che frequentemente
riscontriamo in un bambino che vive all’interno di un contesto coercitivo
e controllante è la spinta verso l’autonomia, con i sentimenti di vulnerabi-
lità e di paura (scarsamente riconosciuti) che ciò procura nel bambino. In
Un approccio neuroscientifico-cognitivo alla terapia dei disturbi 113

questo caso, oltre a lavorare sulla consapevolezza che il bambino può avere
della molla che lo fa scattare, è bene anche approfondire il discorso con i
genitori, cercando di mettere in evidenza quali sono le abilità quotidiane
che il bambino può imparare a svolgere autonomamente: lavarsi i denti,
vestirsi, prepararsi la cartella per andare a scuola.

Fig. 4.3 ABC tipico di un bambino del sottotipo 1.

Ad esempio, Carlo è un bambino di 7 anni e mezzo, i cui genitori ar-


rivano in consultazione molto preoccupati per alcuni suoi comportamenti
«tirannici» espressi prevalentemente nei confronti della madre. Mentre a
scuola sembra essere sufficientemente educato e adeguato, a casa con la madre

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