Joyce (1882-1941)

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JOYCE (1882-1941)

James Joyce nasce a Dublino nel 1882 in una famiglia benestante profondamente
cattolica. Nella sua formazione hanno un’importanza decisiva gli studi classici in un
Collegio gesuita. Consegue la laurea in letteratura straniera, specializzandosi in francese e
in italiano.
Fin dall’adolescenza Joyce si appassiona alla letteratura ed in particolare a due scrittori
contemporanei: Ibsen, i cui drammi mettevano a nudo falsità e ipocrisie della vita borghese;
Yeats, rappresentante della letteratura nazionalista irlandese, che Joyce conobbe
all’università e da cui in seguito prese le distanze. Studia anche l’Odissea e la Divina
Commedia dantesca e comincia ad interessarsi al personaggio di Ulisse.
L’invasione della Francia nel 1940 da parte dei nazisti costringe Joyce a riparare
nuovamente in Svizzera dove muore, per le conseguenze di un'operazione chirurgica, nel
1941 a Zurigo.

JOYCE E PROUST

Joyce e Proust, questi due giganti della narrativa del XX secolo, meritano di essere accostati
in un comune discorso sull’identità del romanzo moderno.
Joyce è diverso rispetto a Proust (opera del 1913), il quale non ha il desiderio di detrarre
qualcosa dalla comprensibilità, bensì lavora sull’interiorità umana e sul pensiero. Joyce
esplora il territorio delle narrazioni interne, Dedalus infatti si chiude con monologo interiore,
flusso di coscienza che riflette con fedeltà i pensieri di una persona, chiusi nella sua testa,
che vengono narrati ma restano nella testa, servono per fluire-> difficoltà del lettore nel
capire. L’autore non si cura degli spazi che lascia (tagli cinematografici): il lettore deve
occuparsene, Joyce non mette a suo agio il lettore con un racconto lineare. E’ un romanzo
pieno di mancanze nella composizione, ma fa assolutamente parte del patto tra un lettore
che sa che l’autore fa parte del modernismo.

Stephen Dedalus non è un personaggio qualsiasi: è presente in due opere, esce dall’una ed
entra nell’altra. Si tratta di uno di quei segnali lanciati al “lettore ideale”, capace di
interpretare gli elementi sottesi nel testo, da intendersi come indicatori di senso. Partendo
dal titolo: molti scrittori hanno cercato di rappresentare se stessi intenti nello sforzo creativo,
ma qui il progetto di Joyce è così esplicito che Dedalus cerca di diventare, da giovane ed
involuto artista qual era, un artista adulto e significativo e quindi testimone dell’Arte stessa.
E’ indispensabile che Joyce iniziasse da un “Ritratto dell’artista da giovane” perché si
delineasse una precisa definibilità dell’Arte, e dell’Arte della Scrittura in particolare.

Evoluzione delle opere (Il filo è hero-a portrait-ulisse.)

Il 16 giugno 1904 è un anno di svolta e giorno in cui si svolgerà l’epopea di Leopold Bloom
nell’Ulisse, quando Joyce conosce Nora Barnacle, sua compagna.
Pubblica Musica da camera (Chamber music), libro in versi di ispirazione simbolista, e
pianifica due nuovi progetti importanti:

Nel 1904 a 23 anni, ha pronto il progetto di un romanzo pensato in ampio, in 63 capitoli,


Stephen Hero, ma si ferma e scrive altro e ritorna al tema abbozzato ma rifacendo il
progetto, conservando il personaggio Stephen.
Nel 1905 va a insegnare inglese a Trieste dove farà conoscenze importanti (Svevo). Ritorna
e dà vita al libro che leggiamo, riprendendo il nome di Stephen, in A portrait of the artist as
a young man, nel 1916. Nei 12 anni di mezzo lavora ad altro, anche a Dubliners-> per
pubblicarlo fatica con gli editori inglesi, perciò è pessimista riguardo la sua carriera da
scrittore. Questo romanzo viene letto da Pound, che stava dirigendo un periodico letterario
artistico dal nome ‘’The Egoist'', raffinata nello spirito modernista, interessata agli
esperimenti. Non era entusiasta della prima pubblicazione a puntate che avviene tra
1914-1915, e poi 1916 a cura di Pound per una casa editrice americana. Ha successo di
pubblico e critica.
Stephen sarà anche in Ulysses, di ritorno da un’esperienza parigina che ha bruciato
definitivamente i sogni di gloria dell’aspirante scrittore, per continuare un percorso di ricerca,
sublimato infine nella figura di Leopold Bloom, coprotagonista del romanzo – e soprattutto
incarnato in un corpo parlante che divora idiomi, suoni, grafie, soddisfando appetiti fisici e
intellettuali. Ulysses (1922) spinge al massimo delle sue possibilità la forma romanzo e
diventa un’immensa rete linguistica tesa a raffigurare simbolicamente l’intera storia del
mondo e delle sue rappresentazioni. Con Finnegans Wake (1939) la sperimentazione
formale e concettuale di Joyce si libera dell’impianto della sua odissea dublinese. Le vicende
narrate ruotano intorno alla veglia notturna di un morto (Finnegan, che diventa però
l’umanità intera), nell’abitazione dublinese della sua famiglia. E’ un sogno oppure
un’immensa tela onirica disegnata nel buio della notte, nella quale le forme e le aspirazioni
dell’umanità di ciascuno di noi si riversano direttamente sulla pagina dalle pieghe
dell’inconscio.

Il linguaggio

Nelle prime pagine a parlare è un bambino, seguendo la mimesi di un linguaggio infantile.


Vengono nominati nomi che non si possono conoscere e non vengono spiegati.
Non esiste nessuna introduzione al racconto, tanto che uno studioso commentò: "ogni
tema nell'opera principale intera di James Joyce è dichiarato su prime due pagine del
Ritratto". L’esperimento è dichiarato da una rottura volontaria con le forme già provate, che
serve per vedere come questa forma di frammentazione in realtà poi riesca a chiudersi in
pienezza, il che poi inevitabilmente stupisce il lettore.
La voce narrante (bambino) dal suo interno racconta il suo immediato mondo intorno, così
come lo conosce, e il linguaggio si evolve a seconda dell’evoluzione del protagonista (anzi,
si evolve tramite il linguaggio).

La prima cosa che il lettore deve affrontare è il linguaggio, di tipo mimetico. Senza dirci
che a parlare è un bambino, ci mette direttamente di fronte al linguaggio infantile, i suoi
contenuti e la forma. Il bambino esprime qualche pensiero ma mantenendo il linguaggio di
un bambino, che è essenzialmente senza dominio. Leggendo il romanzo si osserva un
processo di evoluzione evidenziato dal lessico che da puerile nelle prime pagine, diventa
ricco e forbito e che procede contemporaneamente a quella mentale e fisica di Stephen che,
da bambino spensierato, si trasforma in un ragazzo conscio del mondo che lo circonda.
Continua ad essere mimetico anche nell’ingenuità di Dedalus da giovane adulto, verso i
capitoli 4-5. Ciò che rompe la linearità è che attorno convergono personaggi di cui non si sa
nulla, solo il loro nome. Dai dialoghi ci è dato capire da dove vengono e le loro posizioni
(quando parlano di letteratura), ma niente nel racconto media tra autore o lettore. Non ha
interesse nel dare forma teorica alla propria idea di letteratura; l’opera intera che si
autogiustifica e commenta a ogni passo.
Ci si ritrova un continuo parlare del protagonista di cultura con altri, una grande dispersione
di discorsi e punti di vista, il che è tutto voluto. Il lettore deve ricostruire, è un lavoro che
diventa parossistico in Ulisse.

Nessuno, prima di Joyce, aveva mai giocato l’intera partita letteraria sul piano della
lingua, del suono, della forma e della consistenza delle parole che diventano la sostanza
del testo modernista; di quella ‘’langwedge’’, fusione di linguaggio (language) e
conoscenza (knowledge), che rappresenta senz’altro il punto estremo della
sperimentazione narrativa della prima metà del Novecento.

Inizia con l’incipit tipico delle fiabe: le cinque “u” di Mucca non sono un refuso di stampa, ma
un preciso segnale, ricordando un racconto che il padre gli faceva nel metterlo a dormire, e
le cinque “u” della mucca disvelano il piano giocoso ed emulativo del verso dell’animale che
il padre ripeteva e che ”tanto tanto” doveva piacere a Stephen-confettino, il quale viene
sottratto dal suo lettino delle fiabe, e accompagnato poi al collegio di Gesuiti dove si sarebbe
dovuta delineare l’intera formazione del ragazzo, irlandese e cattolico.

Già l’incipit ci porta alla rivoluzione copernicana, data la prima esperienza della realtà
dell’infante Stephen, che inaugura il racconto della sua vita: tratteggiata con il linguaggio
proprio di un bambino: è, dunque, esperienza della lingua stessa, più che del mondo, del
mondo in cui il linguaggio dà forma alle nostre percezioni sensoriali e ne costituisce
l’essenza, perché è nella lingua che solo possono manifestarsi. Con la crescita del
protagonista, si evolve anche il suo modo di esprimersi, in una progressione metamorfica
che porta su di sé anche i segni degli stili, che porteranno al mimetismo linguistico di
Ulysses e Finnegans Wake.

Il linguaggio rifiuta la chiarezza e favorisce l’improvvisazione libera al di sotto del livello della
coscienza.

In Finnegans Wake Sfilano leggende, miti, che vanno verso uno schema generale di caduta
e degenerazione. L’Irlanda è sempre presente. Difficile, soprattutto per il lettore non
anglofono, tenere il passo dell’incessante invenzione linguistica di un testo nel quale il
senso si crea attraverso infiniti riverberi, nella combinazione di suono, ortografia,
sinonimi e opposti, richiami intertestuali e allusioni.

L’unica via d’uscita, o d’entrata, consiste dunque nel lasciarsi trasportare dalla corrente dei
significati, inseguendo i percorsi più congeniali per ciascun lettore, messo alla prova.

Samuel Beckett scrisse giustamente che è inutile domandarsi di cosa tratti Finnegans Wake:
la sua scrittura non tratta di qualcosa, è quel qualcosa stesso, è l’oggetto e la forma del
proprio compiersi.

La sintassi è semplice, di tipo paratattico, è presente un sistema di rimando e associazione,


slittamento, metonimico.
L’arte, l’estetica, la filosofia

Joyce sottrae l’arte all’imperio dell’etica e dell’estetica: l’arte, per essere davvero tale,
deve essere vera, non buona o bella, anche se, quando è vera, diventa in un certo senso
l’una e l’altra cosa. L’artista deve impegnarsi a ritrarre il mondo così com’è, con tutto ciò
che di volgare e meschino esso contiene, coltivando in questo modo una forma di realismo
dell’ordinarietà che discende da Flaubert.

Gli altri personaggi cercano di usurpare a Stephen il diritto di parola – la famiglia, la Chiesa,
gli amici, i maestri. Joyce fa un lavoro meraviglioso, abbracciando la teologia di Tommaso
D’Aquino e la filosofia aristotelica, passa in rassegna l’evoluzione del concetto di
bellezza e celebra la parola letteraria come pilastro sul quale poggia l’intero universo.

Dedalus vive una tensione di tipo cognitivo-intellettualistico: il giovane “artista” conosce, e


subisce, la fatale attrazione del sesso e, da sedicenne, affronta una quotidiana
frequentazione con le prostitute di Dublino; poi con un vorticoso capovolgimento etico,
subisce la fascinazione di un predicatore che lo sospinge in un circuito di redenzione, causa
di grande coinvolgimento emotivo. Infine si apre dinanzi a Stephen l’orizzonte tanto atteso
dell’Arte, dove l’eros e la fede, già attraversate, trovano quasi un inveramento dialettico
hegeliano o una sintesi kierkegaardiana. E’ nella definizione conoscitiva dell’Arte, che
incontriamo davvero Dedalus, una definizione che incorpora e metabolizza le esperienze
precedenti, ma si pone in una netta differenziazione rispetto a quelle stesse esperienze: a tal
proposito c’è una pagina precisa, alla fine del quarto capitolo, dove è possibile rintracciare il
senso della ricerca della Bellezza e dell’Arte e che definisce e completa ‘’il ritratto
dell’artista’’, ovvero la vista della ragazza immobile che contemplava il mare.

La definizione di Arte fa riferimento al “contemplare”, che è soprattutto “vedere”, inteso come


concreta operazione sensoriale: “Pulchra sunt quae visa placent”, dice Tommaso d’Aquino,
sul cui pensiero estetico è incentrata tutta l’ultima parte dell’ultimo capitolo; l’espressione, da
Joyce, e, poi da Pavese, è tradotta così: “Il bello è ciò la cui appercezione piace” ; e, lungo
questa direzione concettuale, a dieci pagine dalla fine del romanzo, Joyce ci presenta
Stephen nella sua raggiunta adultità di artista, mentre discute con due compagni di
università, riprendendo un’altra espressione di Tommaso D’Aquino: “Tre cose sono
necessarie alla bellezza, integrità, armonia, radiosità”.

I capoversi successivi sono un vero e proprio trattato di estetica nel quale Stephen sviluppa
questi tre concetti necessari a definire ‘’bella’’ una cosa:
1) l’integrità è la separatezza della cosa dal resto dell’universo visibile; i sensi ne delineano
la visibilità specifica e la cosa è una cosa singola, possiede, appunto, “integritas”;
2) l’armonia, quella che Tommaso chiama “consonantia”, si evidenzia quando quella stessa
cosa viene vista proprio come “quella” cosa, caratterizzata da parti e interezza al tempo
stesso, in un’indiscutibile armonia delle parti con il tutto;
3) la “claritas” è radiosità: una cosa, per essere bella, deve accendersi di “essenza”, di
quidditas, deve essere percepita luminosamente perché si possa accedere fino in fondo al
piacere estetico.
Il limpido splendore dell’immagine estetica viene, dunque, percepito grazie all’integrità,
all’armonia e all’essenza radiosa delle cose, della natura, dei corpi, delle immagini: l’Arte
nasce in questa magia, ci dice Joyce, e il giovane artista è diventato, infine, adulto perché,
dopo aver riprodotto, in un luminoso ritratto, se stesso nella ricerca affannosa del giovane di
fronte alla Vita, è riuscito, altresì, a mettere a punto la fenomenologia della bellezza, vero
indiscusso obiettivo dell’Arte.

Questa ricerca ha un carattere affannoso e doloroso e spinge Stephen a rivolgersi al padre.


Il romanzo si chiude con un’invocazione al padre, la cui figura di narratore di fiabe era
nell’incipit del romanzo stesso, e tale evidente circolarità narrativa rende Dedalus “l’artista”,
sostenuto da un’atavica forza parentale, capace di librarsi in un volo cognitivo-estetico privo,
però, dei pericoli noti a Icaro e, al contempo, lo rende capace di “forgiare nell’anima la
coscienza increata della razza a cui un artista appartiene”(cap. V).

I ragazzi che lo circondano sono colti e circola sul libero scambio di idee. Per Stephen è
fondamentale l’estetica, la filosofia estetica. Le parole gli tornano in mente tra le mani in
maniera docile, le nomina e parla di qualsiasi cosa. Parte da Aristotele, soffermandosi su
San Tommaso che è l’autorità assoluta della filosofia del bello. E’ un discorso tutto
‘’codificato’’, Joyce infatti è drammaturgicamente intelligente nell’adattare la lingua a questo
stadio di evoluzione intellettuale.

Differenze tra i Bildungsroman:

In letteratura per Romanzo di formazione s’intende un genere narrativo che descrive


l’evoluzione, i cambiamenti e le esperienze del protagonista nel suo passaggio dall’età
infantile e adolescenziale a quella adulta. Nasce in Germania alla fine del Settecento, poi è
soggetto ad una diffusione ed un’evoluzione continua in vari temi e contesti: stati
d’animo/psicologici dei protagonisti, ambiente sociale, esperienze autobiografiche dei loro
autori.

L’Ottocento tedesco: È la letteratura tedesca ad aggiudicarsi la maternità del Romanzo di


formazione, il primo pubblicato nel 1796 con il titolo di ‘’Gli anni di apprendistato di
Wilhelm Meister’’ di Goethe, il quale stabilisce una tipologia e a cui si deve la definizione
stessa. Racconta le vicende del giovane Meister, che si realizza dirigendo un teatro dove
vengono inscenati spettacoli di burattini. Alle spalle c’è l’idealismo tedesco che vede l’uomo
che diventa buono per il suo volere spirituale. Racconta la storia di un ragazzo che cresce
pieno di valori, poi da giovane decide di lasciare la casa paterna e il mondo borghese per
tentare strada la dell’arte e sente di poter fare l’attore, tanto che tutti i suoi desideri si
concentrano su quello. Nella Germania del tardo 700, entra nel mondo dell’estetica e
impara l’arte presso piccole compagnie di teatro di passaggio. Si rende conto che non ha
talento, prova una forte delusione e dolorosamente deve ammettere che è escluso dalla vita
estetica come attore, rimane unicamente un lettore. Ha l’intelligenza però di capire che non
è una persona da nulla, ma che deve trovare una realizzazione altrove, diventando una
persona che si occupa di altri, un medico che salva vite.

Questo Bildungsroman ha questa teologia, questo ‘’schema’’, una direzione verso un fine
quasi previsto, delle avventure che hanno coerenza e arrivano alla fine ad avere un senso.
Vi sono: saggezza, l’utopia settecentesca, la luce della ragione grazie alla quale l’individuo
può prendere la buona strada (nel romanzo incontra la società della torre, composta da
persone lungimiranti che lo guidano nel suo percorso, ed erano destinate ad incontrarlo).

Il romanzo di formazione nel Novecento: la crisi: Nel XX secolo il Romanzo di


formazione si trasforma e incontra un periodo di crisi. L'indagine sugli aspetti psicologici dei
protagonisti si fa più complessa, mentre gli eventi politici e sociali impongono riflessioni più
profonde sui rapporti tra il singolo e la società.
Quello novecentesco preferisce dare una descrizione della realtà, delle sue contraddizioni,
dell'Uomo e delle sue complessità compiendo una narrazione intima dei personaggi.

Con il 900 e il crollo delle certezze cambia tutto:


Quello di Joyce non è un Bildungsroman in quel senso, poiché è programmaticamente la
storia di un fanciullo, a cui non ci introduce, che sin dall’infanzia cresce fino a diventare uno
scrittore che trova se stesso, è un cammino tutto sommato con un finale positivo, ma ha
all’interno una serie di passi che però non sono legati da un filo netto che porta verso uno
scopo, ma sono episodi chiusi in se stessi senza la consapevolezza dell’eroe, bensì
doloranti, dolorosi e dolenti, il personaggio è soffocato dalla crisi che attraversa e gli errori
che commette, tanto che non si prospetta la luce verso il finale.
Rivisitazione della ‘’forma’’ del Bildungsroman che riflette l’angoscia del 900, tutte le sue
domande e drammi. Non si crede più nella teologia e non si sviluppa qualcosa di organico. Il
personaggio si assesta alla fine ma senza provare di aver toccato quel senso aspirato.

DEDALUS - RITRATTO DELL’ARTISTA DA GIOVANE (1916)

L’opera ci conduce nel complesso mondo interiore di Stephen, che racchiude tra l’altro molti
tratti della persona di James Joyce. Non è un’autobiografia, il personaggio ha forti tratti
joyciani, ma è più fittizia. Con il cognome di Stephen, ‘’Dedalus’’, avviene la riattualizzazione
della mitologia per la contemporaneità.
La rassegna delle opere del ‘900 inizia con il Dedalus: è in questo romanzo che si può
cogliere il teoretico-esemplificativo estetico di cui è circonfuso pienamente il personaggio.

L’opera uscì tra il 1916 e il 1917 in Inghilterra e negli Stati Uniti; in Italia fu pubblicato nel
1933 nella traduzione di Cesare Pavese con la quale sviluppa la sua battaglia culturale di
rinnovatore del panorama letterario.

Non ebbe in Italia il successo meritato, poiché è un lavoro meta-letterario, più che un
romanzo, cioè si occupa di spiegare cos’è l’arte della scrittura, più che raccontare e
incalzare il lettore in avventurose e coinvolgenti vicende.

TRAMA

Si narra fino a 5 capitoli dei 63 previsti. Il primo capitolo è dedicato interamente all’infanzia di
Stephen e traccia il suo ambiente familiare e scolastico. Il secondo capitolo tratta
l’adolescenza in collegio, mentre il terzo si concentra sul giovane adulto che affronta una
crisi spirituale e religiosa ai limiti del suicidio. Nei capitoli quattro e cinque, all’uscita dalla
crisi, Dedalus prende una via dopo aver fatto pace con le contraddizioni e con il desiderio di
scrivere e inizia a darsi fiducia per iniziare le prime prove di scrittura. Infine sarà già adulto e
scrittore in Ulysses.

Nella prima parte del romanzo racconta la sua infanzia che è fortemente segnata da tratti
autobiografici di Joyce, dai primi giochi cresce dentro una famiglia borghese di buona cultura
che decide di far educare in un collegio di gesuiti (autobiografia), il bambino è dispiaciuto,
subisce un grande trauma a lasciare la protezione della casa. L’educazione impartita ai
ragazzini piccoli è caratterizzata da un’enorme freddezza d’animo in cui lui cresce, con una
sempre più lacerante nostalgia della casa (in cui torna un po’). La prima infanzia è segnata
dal trauma e dal malessere.

Questi anni segnano il giovane Dedalus, nel momento in cui esce e diventa un uomo con
l’avvenire davanti-> si sente un’artista non sapendo però che mezzi espressivi utilizzare
e cosa dire, ma la sua biografia giovanile prevede presto un’apertura verso tante possibilità
creative e potenzialità letterarie. La parte successiva al collegio vede gli anni in cui il giovane
cerca di trovare spazio per la sua arte in un futuro pensato diversamente per lui dalla sua
famiglia. Ciò rimanda ad un conflitto generazionale. Si parla anche di letteratura e arte (una
prima iniziazione alla letteratura, con tutti i suoi dubbi e le angosce iniziali) attraverso la
biografia del giovane che vuole diventare un’artista. Il titolo ‘’artista da giovane’’ contiene
qualcosa di profetico.

La formazione di Stephen risulta estremamente dolorosa: nasce in un ambiente mai


presentato, ma si tratta di un sobborgo residenziale altolocato alla periferia di Dublino. Lui
vive in mezzo alla natura addomesticata. Tutte le percezioni vengono raccontate e trapassa
tutto in maniera suggestiva. Il bambino si accorge di avere una posizione poco organica
al gruppo di bambini, è un ‘’outcast, outsider’’ che si rende conto dell'isolamento da piccolo,
non è integrato in un gruppo o alle caratteristiche di un leader, anzi risente dell'inferiorità,
di essere strano agli occhi degli altri, è solo e non sa niente su di sé ed è costretto a
decodificare la realtà circostante.

I genitori sono distratti: il padre rincorre la borghesia e la madre è una religiosa accanita; un
altro personaggio è Charles, zio o conoscente, che in realtà è la raffigurazione di un uomo
politico del tempo estromesso dal parlamento, fa parte della famiglia allargata dove c’è
anche una governante, ma sono tutti immersi in atmosfera religiosità molto forte.

A 7 anni la sua è una visione oscura del mondo-> prova gradazioni della sofferenza
(castighi). Lo salva quando è messo in contatto con un pensiero, un insegnamento, un libro,
qualcosa che lo spinge ad andare avanti e capire, compensando la sua debolezza.
La considerazione della vita fisica, sacrificata alla vita spirituale, lo porta a pensare di
peccare sempre con una paura costante del peccato.

In un episodio di coraggio inaspettato, sente la pace per un breve istante, quando dopo che
un bambino in palestra gli ha rotto gli occhiali (lui non vede), lo spiega al padre insegnante e
lui lo dispensa dai compiti per non sforzare la vista. Un giorno entra il prefetto del collegio,
responsabile della condotta in classe, lo vede che non lavora e nonostante il padre gli
spieghi di averlo esonerato, lui lo accusa di pigrizia e menzogna. Si fa carico di colpe con in
seguito la punizione. Accusato di mentire quando non mente, a Stephen sale la rabbia per
l'ingiustizia: quel pomeriggio va dal rettore, coraggioso, accusando il prefetto.
Viene sottoposto alle punizioni corporali e molestie dei compagni, che lo fanno cadere in una
fontana melmosa e fredda con consequenziale malattia e incubi mortiferi da febbre

E’ accolto con gioia e complimenti, è la sua prima ‘’conquista esistenziale’’, ma presto


scopre dentro di sé qualcosa che è la rivolta, la rabbia, che va contro l’umiltà che gli
insegnano, facendo valere per la prima volta il suo principio.

Suo padre è un medico, dopo finito in guai finanziari, per cui sono costretti ad abbandonare
lo stato di benessere e andare a Dublino. Al bambino non viene dato alcun strumento per
affrontare la realtà urbana, il quale gira da solo la città e con la stessa tecnica viene descritta
la città: i luoghi non vengono mai chiamati per nome, è esposta solo la percezione del
bambino che non sa nulla.

E’ costretto a lasciare il collegio di Clongowes, per passare alla Belvedere School –


sinistri presagi funestano la mente irrequieta e facilmente eccitabile del giovane
protagonista, che inizia a fare i conti con la durezza della vita, con la propria condizione di
alterità. Stephen scopre Dublino, «una sensazione nuova e complessa», mentre è
tormentato da una «silenziosa amarezza»: ce l’ha con se stesso per la sua giovinezza, per i
suoi «sciocchi impulsi inquieti», e con «il cambiamento di fortuna che stava riplasmando il
mondo intorno a lui in una visione di squallore e insincerità».

Comincia a ragionare sul peccato, un’entità oscura proposta per suggestione ai ragazzi, una
regola che vede di mortificare qualsiasi pulsione anche minima. E’ l’annichilimento della
personalità e di ogni sua espressione considerata peccaminosa.

Gli anni della media adolescenza diventano meno gravosi: acquista autonomia maggiore e
paradossalmente la disgrazia della famiglia lo mette in sospensione dal perenne castigo,
permettendogli di respirare e inizia a dedicarsi alla lettura. Stephen comincia a sviluppare in
parte consapevolmente l’identità di scrittore.

Il periodo dei 16 anni avviene la formazione dell’embrione dello scrittore, scrive già molto,
ma è funestato da una cosa che si oppone alla sua educazione. Vive la scoperta della
propria sessualità e sfera sessuale (è legata alla sua sensibilità e ciò la rende molto forte)
come la scoperta di una dimensione psicofisica, ma ricade nel senso di colpa.

Tormentato da questo nuovo stadio di debolezza, reso peggiore dall’autocensura.


La sofferenza è continua per via della sua immaginazione straordinaria che volge
all’erotismo: non riesce a resistere al richiamo.

Si innamora di una ragazzina in questo periodo, Emma (associata a Norah dalla critica),
molto sensuale, quindi il concetto di amore si mischia con il concetto sessualità-peccato.

Irlanda = Gabbia

Essere cattolici in Irlanda vuol dire avere grande fede in Dio, ma è anche un dato politico da
progressista, essere diversi dagli invasori britannici. Attraverso la religione passa il discorso
dell’identità nazionale. Fanatismo religioso= nazionalismo. Questo porta i genitori a mettere
il bambino in un collegio gesuita, in cui sottosta a regole rigidissime ed alla prassi quotidiana
religiosa infernale.
Stephen è anche un irlandese, è stato messo in una storia antica di schiavitù.
Contribuiscono a rendere la sua città natale così ostile le continue discussioni dei suoi
compagni sull’indipendenza dell’Irlanda dall’Inghilterra. La famiglia è litigiosa a causa delle
idee divergenti e ciò contribuisce a creare un’atmosfera di tensione (e una frammentazione
di consigli per il giovane)
La discordia l’ha formato e non può fare finta di essere inglese, infatti nella teoria estetica
non può negare l’entrata della storia e della politica, che riguardano tutti gli uomini.
Dedalus è fedele al suo essere irlandese senza volerlo negare o assimilarsi alla britannicità
astratta, però non vuole essere come il suo compagno Darwin: nazionalista irlandese, che
vuole indipendenza d’Irlanda del nord, ma insieme coltivare le antiche tradizioni, le musiche
e le storie, i miti delle origini irlandesi. Stephen non è sensibile su questo punto: vuole
essere un intellettuale e non può esserlo solo per capire l'Irlanda; vuole essere uno scrittore
per tutti, senza chiudersi in un’unica tradizione. Il nazionalismo irlandese è ragione per cui
lascia l’Irlanda e va verso una città cosmopolita.

MITOLOGIA

Il metodo mitico (Eliot) è una modalità di scrittura adoperata dagli scrittori modernisti per
raccontare il senso di crisi e di decadenza di inizio Novecento, cercando di dare un senso al
disordine, ma il mito è capovolto, perdendo così la grandezza che l’aveva caratterizzato nel
passato, e l’immagine del presente che emerge è di decadenza e declino.

E’ evidente il richiamo al personaggio mitologico Dedalo, il grande costruttore/architetto


geniale, costruì per il re Minosse il Labirinto in cui venne rinchiuso il mostruoso Minotauro (
Pasifae, moglie di Minosse e di un toro divino) che spaventava la città. In seguito lo stesso
Dedalo vi fu imprigionato con il figlio Icaro. L’ingegnoso Dedalo fabbricò allora delle ali di
piume unite con la cera e con il figlio volò via. Dedalo ammonì Icaro a non volare
troppo in basso, dove l’acqua poteva rendere pesanti le penne con la sua
evaporazione, né troppo in alto, dove il sole avrebbe potuto ammollare la cera e
bruciare le ali. Ma, Icaro, imprudente, si avvicinò troppo al sole che sciolse la cera delle
ali.

E’ significativo Il ‘’grande volo’’ di Icaro, che si lascia trascinare dalla gioia, mentre Dedalus è
portato per la costruzione e la permanenza. Un genio spiccato ma legato alla coscienza,
lucidità, costruzione.

Questo aspetto alla fine viene trattato abbastanza esplicitamente, si capisce che parla del
raffronto tra se stesso e questa figura indicata nel suo cammino, con tratti che vorrebbe suoi,
la costruzione intellettuale e romanzesca che gli permette di coniugare parte irrazionale del
genio e costruttiva del genio stesso.

L’Arte non può, però, purtroppo, proteggere l’Artista, non riesce ad impedire che la Bellezza
dei voli e delle invenzioni immaginifiche e ardimentose eviti il dolore e l’infelicità: esiste un
prezzo da pagare. E, d’altra parte, Stephen Dedalus porta nello strano e improbabile
cognome la tracotanza dell’antico Mito, ma nel nome di battesimo il vero destino dell’artista,
il martirio: Stefano, protomartire ebreo di cultura ellenistica, fu lapidato e rappresenta per
la comunità cattolica irlandese, a cui Joyce apparteneva, uno degli esempi più intensi della
vocazione religiosa: così tra Dedalo e Stefano, Joyce costruisce l’exemplum dell’Artista che
fa della Bellezza la sua ossessione, con la quale, a volte, riesce a “volare” tra le stelle.

Le epifanie
Con le epifanie, in Dubliners, lo sguardo si volge alla città d’origine e presenta un’umanità
intrappolata. Si è incapaci di svolgere in modo decisivo, anche se il destino concede per
istanti di vederne la possibilità in modo chiaro, poi tutto viene occultato dall’abitudine
opprimente: accadono le cosiddette “epifanie”, l’evento significativo in un istante di verità
resa accessibile al protagonista. Uno stato di paralisi perenne, lo definì lo stesso Joyce.

Sono presenti anche in Dedalus: sono dei momenti in cui questo giovane artista riesce a
togliersi di dosso tutti i legami e venire in diretto contatto con le realtà naturali che divengono
la sua ispirazione, e di avere a questo momento di ispirazione la possibilità concreta di
scrivere. (Dal capitolo 5, ‘’verso l’alba si svegliò’’, p. 263). Con ‘’patetico’’ indica ‘’pieno di
pathos’’, emozioni. Parla di un istante che va via subito, ma è preciso, l’ispirazione, una
forma indistinta nella nube. Villanella= piccolo poema semplice, riprende per statuto versi già
detti in forma successiva. Il piacere fisico dal colore dell’alba, la luce, nella nube si
concretizza una forma che scappa e ritorna, il cuore si è spezzato, ne scrive un pezzo, alla
fine la poesia la scrive tutta. Viene ripartito in parti, ma c’è anche il racconto, per
salvaguardare questo enorme talento lirico, inserendoli nel romanzo costruttivo. Fonde
elementi lirici ed epici.

Quando dopo aver studiato tanto inizia a scrivere, equilibra la necessaria definizione per
scrivere all’esperienza mistica che non potrebbe esistere da sola, altrimenti sarebbe nulla.
Questo lavoro richiede l'abbandono all’incoscienza naturale e anche coscienza di sé per
cogliere la forma e trasformarla in versi: questo è il modo dell’epifania Joyce, legata però alla
scrittura ed alle conoscenze diverse, che richiedono compresenza tra conscio e
inconscio. Si tratta di un equilibrio fragilissimo, tutto sta in un momento.
Modo Joyciano di elaborare dal punto di vista poetologico: certe forme eccelse di arte
nascono nel momento in cui i grandi poli della mente si allineano per un lievissimo momento.
Scrivere non è progettare in tutti i particolari, ma mantenere dentro di sé una predisposizione
adatta per cogliere il momento.
Sperimenta questo equilibrio capendo che non è un semplice abbandonarsi alla visione, ma
c’è qualcosa che prende forma (il ritmo), e fruga per poterlo scrivere. Sono omenti intensi
che riportano al principio lirico fondamentale, l’espressione del cuore, estroversione
dell’anima senza particolare fine.

Prospettiva di narratore: extradiegetico, totalmente esterno alla narrazione che non


si fa sentire, un’istanza onnisciente che sa tutto e lo racconta in modalità decise da lui,
onnisciente oltre ai fatti anche nella mente. Si viene a creare un patto di finzione
autore-lettore, ci racconta proponendosi nella posizione di credibilità di conoscere tutta la
storia e raccontarla a una persona che non sa, ovvero una gerarchia sa-non sa.
Il bambino racconta in parte in prima persona e in parte no. Non è un monologo interiore
compatto, dialogano tra loro le forme.

La narrazione avviene in 3 persona, il narratore è esterno e onnisciente dal punto di vista


formale senza mai romperlo, poi in certi momenti non si sa chi sia che parla: l’autore Joyce
oppure il personaggio Dedalus, creando momenti di ambiguità.

L’ambiguità è data dallo stile indiretto libero: questo discorso è uno stile misto, il cui
maestro è Flaubert con l’opera Madame Bovary del 1860.

Esempio: S pensò:<<partirò, farò molti viaggi, incontrerò molte persone…>>, il


personaggio S è trattato da qualcuno in terza persona, un narratore alle spalle dice cosa
pensa, mettendo le due virgolette, per dire in prima persona il contenuto del pensiero.
Discorso diretto di narrazione in terza persona.

S pensò: <<partirò.>> avrebbe fatto molti viaggi, avrebbe incontrato molte persone…
Il discorso diretto si ferma e prosegue in altra maniera, nella prospettiva del narratore. La
frase seguente è senza introduzione, senza soggetto e mostra segni di ambiguità, tanto che
bisogna scegliere dentro un testo se a parlare sia S o l’autore. Questo è il discorso indiretto
libero.

Si tratta di una contaminazione (o continuazione del pensiero del personaggio, ma fatto in


maniera ambigua). L’autore fa il possibile per portare in un punto sintatticamente più vicino
possibile, il massimo punto di indistinzione: ciò rappresenta il modernismo che rivisita gli
antichi modi di espressione con una riformulazione in modo tale che la percezione di
concretezza e sicurezza vada perduta. Deve esserci un lavoro da parte del lettore, il quale
deve accettare gli esperimenti.

Altro esempio di frase principale che porta vicinissimi autore e personaggio:


T non rispose. (Era ancora in tempo, poteva andarsene.): nessun segno che lo introduca
come discorso.

1. IL SENSO: La fase iniziale è caratterizzata dalle prime, timide, acerbe domande e


riflessioni sul significato delle cose, dei fatti, delle parole. La ricerca del senso è legata alla
figura femminile, che ne fornisce la chiave interpretativa.

Ma dall’esperienza dell’ingiustizia, della punizione, del dolore, dell’umiliazione scaturisce in


Stephen la consapevolezza della propria dignità, dei propri diritti, iniquamente, brutalmente
violati. Incapperà presto nelle punizioni corporali, tipiche di quei tempi e di quelle scuole,
punizioni spesso ingiuste come quella subita per non aver potuto studiare a causa della
rottura degli occhiali; ma Stephen, epico-eroico, diventato un collegiale, sottoposto a
molestie dei compagni, che lo fanno cadere in una fontana melmosa e fredda con
consequenziale malattia e incubi mortiferi da febbre, si ritrova con la sua prima vera
‘’conquista esistenziale’’:

2. IL PECCATO Dal rapporto di Stephen con la famiglia, l’amore e il sesso scaturiscono i


temi «della notte, della brezza fragrante e del vergine splendore della luna. Un dolore
indefinito era nascosto nei cuori dei protagonisti, mentre stavano in silenzio sotto gli alberi
spogli, e quando era giunto il momento dell’addio, il bacio, rifiutato da uno, veniva dato da
entrambi».

Stephen vive in un’altra dimensione, la dimensione complessa e variopinta della propria


interiorità, della propria individualità creativa.

Oltretutto gli impulsi erotici, incontrollabili, indomabili lo assediano, sfociando nella pura
depravazione, in fantasie orgiastiche che uccidono la poesia. Stephen prova a frenarli, a
reprimerli, tentando, ma il tentativo fallisce ed egli torna a vagabondare senza meta per le
più buie, strette, sporche e maleodoranti strade di Dublino, consumato dal desiderio e dalla
lussuria.

Momento critico della vita di Stephen: non riesce a domare gli istinti carnali che lo rodono nel
profondo e lo dominano tutto, anima e corpo. La tensione psico-fisica accumulata da
Stephen in questa seconda fase, complessa e ricca di sfumature, di spinte e contro-spinte,
di pulsioni e ripulsioni, si scioglie nel bacio della giovane prostituta, ovvero nel peccato,
inattesa fonte di pace.

3. L’ESPIAZIONE

Dopo il peccato Stephen non prova rimorso, anzi, sente fluire dentro di sé una travolgente e
impetuosa ondata di vitalità che si scioglie infine in una «pace misteriosa» tra corpo e anima.
La devozione di Stephen scompare, abbandona la preghiera e sente che dal primo, violento
peccato, scaturiscono tutti gli altri peccati capitali. Stephen è consapevole della propria
caduta, ma non se ne cura, o meglio, non si affligge per essa.

In questa fase uno dei padri vedendolo così religioso, gli chiede genericamente se non
avesse considerato di diventare sacerdote. Si era già posto quella domanda e conosce la
risposta: non è fatto per la vita ecclesiastica, per il peccato d’orgoglio, che avrebbe portato
nella sua nuova vita. Ha già maturato tanti dubbi sulla religiosità personale, sentendosi così
staccato dalla fede decide di abbandonare completamente questa condotta gesuita, e di
rifare altro. Ancora non sa cosa, ma sa che la sua vera ragione dell’abbandono è che vuole
coltivare il suo intelletto, di studiare (passione estrema, consapevole anche della propria
identità intellettuale da ‘’eletti’’, dato il periodo)

Lo stato di noncuranza non dura a lungo e il momento di svolta è rappresentato dal ritiro
spirituale organizzato alla Belvedere School. Le fonti del discorso sono le visioni
apocalittiche del giorno del giudizio (una visione post giudizio universale).

In questa parte di testo sono evidenti le capacità lessicali di Joyce, scelte del lessico che
rimandano agli scenari apocalittici, come il richiamo alla morte reso forte rimandando ai
cinque sensi.

Il coltello del predicatore affonda spietato nella coscienza del giovane protagonista che
sente l’anima «incancrenita nel peccato». E’ tormentato dai peccati commessi.
Nella seconda giornata del ritiro spirituale, dedicata all’inferno e al paradiso, il predicatore,
attraverso la cosiddetta «costituzione del luogo», come la definisce sant’Ignazio nei suoi
esercizi spirituali, il predicatore realizza un’efficacissima e pregnante descrizione del regno
infernale: il lezzo insopportabile, il fuoco eterno, che brucia ma non illumina, le tenebre
eterne, la totale assenza di umanità, i dannati singoli inferni che ardono per sempre, le grida
assordanti, i rimproveri dei diavoli, voci della coscienza offesa. Questa persuasiva
descrizione colpisce Stephen nel profondo, le gambe tremanti e la pelle scossa da lunghi
brividi: ogni singola parola del predicatore la sente rivolta a lui. Stephen muore di nuovo e
sente le fiamme nel suo corpo. Vorrebbe confessare tutto ripulirsi, ma non nella cappella
della scuola tra i compagni.

Alla sera il predicatore torna sulla natura dei tormenti spirituali dell’inferno.
La maggiore e più grave pena spirituale è rappresentata dalla perdita, la seconda è quella
della coscienza, la terza è spirituale è rappresentata dall’estensione. Coesistente con la
pena dell’estensione è la pena dell’intensità, perché l’inferno è il centro del male. L’ultima,
suprema pena spirituale dell’inferno è la sua eternità, un’eternità di dolore.

Rientrato nella sua stanza, tormentato, ossessionato dai peccati commessi, Stephen vede il
suo inferno e decide di tornare alla preghiera, piangendo lacrime per l’innocenza perduta.
Stephen vaga per le strade buie di Dublino, spinto dal desiderio di confessarsi: riesce a
vincere la vergogna e si confessa, con i peccati che gli gocciolano via dalle labbra. Accoglie
l’assoluzione e il perdono, purificato. Termina così la sua lunga espiazione e inizia per lui
una nuova vita, una vita di grazia, virtù e felicità. Ad appena sedici anni, Stephen è già morto
e risorto moralmente.

Stephen sarà sempre segnato dal cattolicesimo, iniziando poi la sua vita futura di giovane
scrittore. Il percorso di formazione è assolutamente solitario e non è pensato e fatto affinché
fiorisca una personalità, ma affinché si chiuda e diventi un individuo obbediente con dei
preconcetti. Si tratta di un percorso che condanna.

Nelle annotazioni del diario Stephen, alla fine del romanzo, è in partenza senza dire dove,
con sforzo gigantesco dalla famiglia, con pochi oggetti, con povertà marcata, ma con la
sicurezza che il momento sia arrivato. Che trovi la sua strada non si sta, alla fine della parte
del libro sono annotazioni di diario della primavera, ad esempio il 14, quando è stato
pubblicato il libro a puntate. Fanno sperare, data la con scrittura forte, in previsioni future
chiare. Il romanzo chiude su una nota positiva di Dedalus che pensa al futuro di giovane
intellettuale, ma la fine si saprà con la sua figura di scrittore nell'Ulisse del ‘22.

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