Cartesio

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Cartesio

I principi della filosofia -> testo importante perché comincia a specificare il senso soggettivo del
pensiero.
La tradizione antica del pensiero, infatti, individua nel pensare non semplicemente l’esercizio di
una facoltà umana ma individua lo spazio della scoperta delle cose, il pensare quindi è legato
all’ordine dell’ente; Prima di essere un atto mentale è il modo in cui la realtà si mostra.
Questa visione è evidente in Platone, in particolare in una nozione di idea che non si lega all’idea
come immagine o prodotto mentale, ma è ciò che sta all’inizio del nostro percorso di pensiero,
quindi, è più vicina alle cose che non al nostro pensiero delle cose.
L’idea indica il reale e non il mentale, cioè una realtà rielaborata a partire dalle facoltà umane;
Platone da un paradigma molto particolare per cui non dobbiamo cercare un’oggettività che sia al
di là delle idee, perché sono le idee le cose vere.

Con Cartesio avviene un cambiamento di paradigma radicale, perché le idee non sono più le cose
ma sono le rappresentazioni che ci facciamo delle cose, si collocano quindi in una distanza rispetto
alle cose: sono ciò che si frappone tra noi e le cose.
Diventando questo le idee si caricano di una fisionomia soggettivistica che coinvolge in pieno il
pensiero: esso non viene visto come struttura del reale ma viene visto come il risultato di un atto
cosciente, quindi diventa un “io penso”, “cogito”.

Con Cartesio si inaugura un periodo in cui non è più sotto attenzione il logos come quel discorso in
cui si specificano le relazioni tra le cose e tra gli uomini che parlano di cose (uomo come animale
politico perché in possesso del logos), qui invece si registra il logos come il risultato di un io che
pensa, quindi il centro diviene il soggetto pensante, soggetto inteso non come io ma inteso come
res, cioè qualcosa che soggiace ai suoi predicati tra le quali c’è anche l’acogitatio, non c’è quindi
un’idea piena della soggettività, ma un’idea dell’ego cogito come determinazione di una sostanza
dove in fondo non è il cogitare al centro ma è la res che cogita: res cogitans.
Dunque, il soggetto non è concepito come io che penso ma come qualcosa che accomuna tante
cose tra cui ci sono anch’io.

Principio di non contraddizione -> Quarto libro della metafisica di Aristotele: non è
possibile che una cosa sia e non sia nello stesso tempo -> siamo portati a leggere questo principio
come un principio logico, ma per Aristotele la funzione di questa discussione serve a introdurre la
sostanza, cioè ciò che non può essere diverso da come è, prima di essere una legge logica è il
tessuto dell’essere.

IL PENSIERO SOGGETTIVO -> l’atto del pensare soggettivo è stato celebrato da cartesio come un
congesto che sospende la realtà, l’evidenza e la certezza del mondo a vantaggio di un’evidenza che
è quella dell’io.
Questo segna la separazione del mondo dall’io, e l’immagine di un pensare che si radica non nella
struttura del cosmo ma nel funzionamento e nell’attività dell’io.
Egli ambisce a un punto zero della riflessione, una specie di riduzione di tutto il nostro universo
rappresentativo che è rivolto all’esterno fino ad arrivare a un principio che non è riducibile perché
non è soggetto al dubbio.

“Poiché siamo nati infanti e abbiamo portato vari giudizi sulle cose sensibili
prima che avessimo l’intero uso della nostra ragione, siamo allontanati dalla
conoscenza del vero da molti pregiudizi, dai quali sembra che non possiamo
liberarci se non cercando una volta nella vita di dubitare di tutte quelle cose in cui
troveremo il benché minimo sospetto di incertezza.”
Subito notiamo l’idea per cui il dubbio si rivolge non solo alle cose di cui dubitiamo fortemente ma
anche alle cose che sono minimamente incerte.
Il dubbio, che per questo in Cartesio si chiama iperbolico, non è altro che l’atto del ritenere falso
ciò che non è evidente, non perché si pensi realmente che sia falso ma perché è la posizione
metodica corretta da assumere per cominciare a stabilire delle evidenze assolutamente certe; il
mondo non può essere più un punto di partenza, ci mette al cospetto di sensazioni e immagini che
potrebbero non essere vere, quindi ne devo dubitare.

Qui troviamo anche un modello conoscitivo legato all’idea che per conoscere le evidenze devo
rimuovere gli ostacoli, cioè i pregiudizi, per Cartesio io erro solo perché giudico.

Il dubbio iperbolico -> ciò di cui dubito lo ritengo falso perché è meglio sospendere tutto
quando le cose non mi sono evidenti, non posso parlare del mondo esterno se le rappresentazioni
del mondo esterno non sono evidenti.
È un dubbio esagerato, ma si tratta di un dubbio metodico: non è la descrizione di com’è fatto il
mondo.

Differenza tra conoscenza e condotta quotidiana


“Questo dubbio però deve intanto limitarsi alla sola contemplazione della verità.
Infatti, quanto alla condotta della vita, poiché spessissimo l’occasione delle azioni
da compiere sfuggirebbe prima che ci si possa liberare dai nostri dubbi, non di
rado siamo costretti ad accogliere ciò che è soltanto verisimile; o anche, talvolta,
siamo costretti a scegliere l’una o l’altra cosa, sebbene nessuna delle due appaia
più verisimile dell’altra.”
Nella condotta quotidiana non posso ragionare in questo modo, posso farlo quando sono nello
spazio contemplativo dove mi sto ponendo la questione dell’esistenza del mondo esterno.
Trasferire l’atteggiamento contemplativo nella prassi quotidiana porterebbe all’immobilità.
Questo ragionamento riporta a una tesi di un autore che ha un retaggio cartesiano che è Berkeley,
il quale dice “bisogna distinguere il parlare come il saggio e il parlare come l’uomo comune.
L’uomo comune continua a parlare del mondo anche se il saggio lo mette in dubbio, il filosofo
quando fa l’uomo comune non può portarsi dietro tutti i dubbi della contemplazione.
Il dubbio sul mondo esterno risponde a un’istanza di rigore nei discorsi; il giudizio o il para giudizio
sulla falsità di cui dubito non corrisponde a dichiarare che qualcosa a falso.
Il dubbio sulle cose sensibili
Il primo ambito in cui si esente il dubbio sono le cose sensibili, che per la loro capacità di imporsi
anche quando non siamo interessati a guardarle avrebbero l’aspetto di qualcosa di reale; in
particolare la sensazione dell’udito ci espone a questa cosa.
L’udito ci espone di più al mondo perché è fatto di maggiore involontarietà -> allo stesso modo le
idee sensibili provengono da cose reali perché sono involontarie.
Cartesio si oppone a questa idea e dice che anche avendo immagini sensibili delle cose non
significa che queste idee corrispondano a qualcosa di reale, per questo la prima cosa su cui si
abbatte il dubbio sono le cose reali.

“Ma, poiché ora ci impegniamo solamente nella ricerca della verità, prima di ogni
altra cosa dubiteremo che esistano cose sensibili o immaginabili: in primo luogo
perché talvolta cogliamo i sensi in errore ed è prudente non fidarsi mai troppo di
quelli che anche una sola volta ci hanno ingannato; in secondo luogo poiché
quotidianamente ne: sogni ci sembra di percepire o immaginare innumerevoli
cose che non esistono in nessun luogo; e a chi dubita in tal modo non appare
alcun segno in base al quale riconoscere con certezza il sonno dalla veglia.”

I sensi possono ingannarci, per questo devo far conto che questi mi ingannino sempre; dunque, ne
devo sospendere il giudizio di evidenza.

Il rischio dell’inganno nelle verità matematiche


“Dubiteremo anche di tutte le altre cose, che prima abbiamo ritenute come
massimamente certe, anche delle dimostrazioni Matematiche, anche di quei principi che
finora abbiamo considerato noti per sé stessi; sia perché talvolta abbiamo visto alcuni
errare in tali cose e ammettere come certissime e note per se stesse cose che a noi
sembravano false, sia soprattutto perché abbiamo sentito dire che c’è un Dio che può
tutto e dal quale siamo stati creati. Noi infatti ignoriamo se egli per caso non abbia voluto
crearci tali che ci inganniamo sempre, anche nelle cose che ci appaiono più note, poiché
sembra che ciò possa essere avvenuto non meno del fatto che talvolta ci inganniamo, e ci
siamo già accorti che ciò accade. Poi, se fingiamo che la nostra esistenza venga non da un
Dio potentissimo, ma da noi stessi o da un altro qualsiasi, quanto meno potente sarà
l’autore cui attribuiremo la nostra origine, tanto più sarà credibile che noi siamo così
imperfetti da ingannarci sempre.”

Il dubbio estende la sua ombra anche sulle idee matematiche, non perché esse ci inducono in
errore, ma perché può darsi che ci sia un dio che ci fa pensare che 2+2 fa 4 ma in realtà non è così.
Questo è il punto del massimo dubitare, cioè vengono sottoposte a dubbio persino le conoscenze
matematiche, conoscenze che sembravano essere al riparo rispetto alle conoscenze sensibili in
quanto trasversali sia rispetto alla veglia che al sonno.
In Cartesio, però, le idee matematiche potrebbero essere il frutto di un genio maligno che ci ha
disposti in modo tale che noi tutto quello che pensiamo con evidenza sia realmente così mentre in
realtà non sono così.
Si tratta di una radice teorica profonda che tende a una soggettivazione del pensiero, cioè come
radicato nel modo in cui noi siamo fatti.

Cartesio esce dal dubbio con un argomento secco: potrebbe essere tutto un inganno ma per
esserci un inganno qualcuno deve essere ingannato. “mi inganni pure quanto vuole, non può
ingannarmi se non esisto.” -> Difronte all’ego cogito ogni dubbio deve deporre le armi.
Egli arriva così all’evidenza del cogito, mentre quella del mondo è ancora tutta da dimostrare.

Dal dubbio ricaviamo due cose:


1. Che siamo
2. Che siamo imperfetti
La nostra imperfezione lo testimonia il fatto che dubitiamo.
A partire da questo Cartesio pone in evidenza che abbiamo un’idea dell’essere perfetto senza la
quale non riusciremmo a percepire la nostra imperfezione, in quanto non posso dedurre la
perfezione dall’imperfezione; la perfezione ha un contenuto determinato che è molto più ricco
dell’imperfezione.

Il libero arbitrio come libertà di astenersi dal giudizio. Volontà e


conoscenza
Cartesio fa notare che c’è un legame tra l’esercizio del libero arbitrio e la capacità di dubitare.
Dubita chi nel conoscere non è pronto ad affermare una certa proposizione anziché un’altra,
senonché la sospensione del giudizio non è solo un atto conoscitivo ma implica anche un gesto
volontario, quindi nel dubitare si da seguito a una determinazione della volontà.

Il dubitare non dipende solo da un difetto conoscitivo ma dipende anche da una decisione
volontaria, che ha a che fare con la ragion pratica.
Secondo Cartesio ciò in cui noi siamo più simili a Dio non è l’intelletto ma è la volontà, in quanto
l’intelletto è finito, infatti dubita, la volontà invece ha un carattere infinito, di inarrestabilità,
vogliamo volere, vogliamo molto più di ciò che siamo.
La volontà è in noi qualcosa che nello stesso tempo ci trascende in quanto non ha limiti, mentre
l’intelletto ce li ha, non possiamo conoscere tutto ma allo stesso tempo vogliamo tutto.

La volontà contraddistingue la condizione del dubbio -> sospendo il giudizio perché lo voglio
sospendere; il giudizio quindi si iscrive anche in una condizione pratica legata ai nostri desideri e
alla nostra volontà.

“Ma intanto, da chiunque infine il nostro essere derivi, e per quanto potente e
ingannatore egli sia nondimeno sperimentiamo che c’è in noi questa libertà di poterci
sempre astenere dal credere quelle cose che non sono del tutto certe e esaminate e così
procurare di non errare mai.”
Astenerci è il modo in cui possiamo opporre resistenza a un dio ingannatore.
Finché dubito esisto
Finché dubito esisto significa che la certezza della mia esistenza si da non come teoria generale ma
come un’esperienza: nel momento in cui dubito so di esistere.

“Ma, rifiutando così tutte quelle cose delle quali possiamo in qualche modo dubitare e
anzi immaginando anche che siano false, facilmente supponiamo che non ci sia nessun
Dio, nessun cielo, nessun corpo, e che anche noi stessi non abbiamo mani, né piedi, né
infine alcun corpo, ma non per questo noi, che pensiamo tali cose, siamo nulla: ci
ripugna infatti ritenere che ciò che pensa, nello stesso tempo in cui pensa, non esista.
Pertanto questa conoscenza: io penso, dunque sono, è la prima e la più certa di tutte che
venga alla mente di chiunque filosofi con ordine.”

Dall’ego cogito alla res cogitans


Finché dubito esisto non è un giudizio, ma è l’essere immediatamente presenti a sé stessi nel
sentire le cose, dire che io esisto perché dubito non è un passaggio logico: io esisto nel dubitare.
L’esistenza a cui si fa riferimento è un’esistenza puntuale, cioè legata a ciò che sto facendo in
questo momento.

Dire invece ego sum res cogitans implica una continuità dell’esistenza: non esisto solo in questo
momento ma esisto anche quando non sto facendo quello che sto facendo.

Io sono una cosa pensante indica un giudizio che riferisce il mio pensiero a una sostanza che
permane nei diversi modi di essere -> atto del giudizio che si spinge più avanti rispetto a quello
legato a una percezione attuale.

Il passaggio da ego cogito ego existo a ego sum res cogitans è un passaggio dalla prima alla terza
persona -> la res cogitans è.
Questo passaggio non è facilmente giustificabile, se non in relazione alla presenza di un ente che
tiene insieme tutti i miei momenti. -> necessità del riferimento al divino: Dio è colui che stabilisce
una continuità d’essere tra tutti i miei attimi.
Posso essere certo della mia esistenza nel momento in cui sto pensando adesso; il passaggio alla
res cogitans mi può essere garantita dalla presenza del divino.
Distinzione dell’anima dal corpo
L’argomento Cartesiano sulla evidenza incontrastata del cogito lega la certezza di questa evidenza
all’esistenza dell’anima la quale acquisisce una fisionomia propria anche rispetto al corpo: dato
che io sono certo della mia esistenza come cogito io mi posso concepire come anima separata dal
corpo.

Questa è una tesi che ha rilevanza per la storia della metafisica ma è anche importante nella
dimensione religiosa.

“E questa è la via migliore per riconoscere la natura della mente e la sua


distinzione dal corpo. Infatti, esaminando chi mai siamo noi che supponiamo
esser false tutte le cose diverse da noi, vediamo chiaramente che nessuna
estensione, né figura, né moto locale, né alcunché di simile, che sia da attribuirsi
al corpo, appartiene alla nostra natura, ma solo il pensiero, che quindi è
conosciuto prima e con maggior certezza di qualsiasi cosa corporea; questo
infatti lo abbiamo già percepito, mentre delle altre cose ancora dubitiamo.”

Evidenza incontrastata della mente


Innanzitutto siamo certi di noi stessi in quanto mente, in quanto i fenomeni legati alla nostra mente sono
fenomeni auto evidenti e innegabili.

L’esser coscienti è il semplice sentirsi in ciò che sentiamo e pensiamo, per questo anche il cogito è il sentire
sé stessi anche quando non poniamo attenzione alla sensazione, è l’intera esperienza umana e non è
riducibile a un atto di pensiero.

“Col nome di pensiero intendo tutte quelle cose che accadono in noi, essendone noi
coscienti, in quanto vi è in noi coscienza di esse. E così non solo intendere, volere,
immaginare, ma anche sentire è qui la stessa cosa che pensare. Infatti se dicessi: io vedo,
oppure: io cammino, dunque sono, e traessi ciò dall’atto del vedere o del camminare che è
compiuto dal corpo, la conclusione non sarebbe assolutamente certa; poiché, come spesso
accade nei sogni, posso ritenere di vedere o di camminare, benché non apra gli occhi e
non mi muova dal luogo, e fors’anche benché non abbia alcun corpo. Ma se lo traessi
specificamente dalla sensazione ovvero dalla coscienza di vedere o di camminare, la
conclusione sarebbe certa in modo assoluto, perché “allora si riferirebbe alla mente, che
sola sente, ossia pensa di vedere o di camminare.”
C’è un livello dell’esperienza umana che fa riferimento alla nostra mente la cui evidenza è inattaccabile da
qualsiasi dubbio -> questa tesi si lega a quella della impossibilità delle idee materialmente false: le idee
hanno un contenuto rispetto al quale io mi devo chiedere se esiste veramente o no, ma le sensazioni non
sono mai false in sé stesse; può essere falso il giudizio ma non la sensazione.

Le idee hanno una realtà formale legata al semplice e nudo fatto che io le sto avendo; le idee hanno anche
una realtà oggettiva che è nella mia mente ma rispetto a queste posso chiedermi se hanno corrispondenza
fuori di me.
“se giudico che la terra esiste per il fatto che la tocco o che la vedo, certamente per questo
stesso fatto ancor di più debbo giudicare che esiste la mia mente; infatti può forse
accadere che io giudichi di toccare la terra, sebbene non esista alcuna terra, ma non che
io giudichi ciò e la mia mente che giudica ciò non esista; e così per le altre cose.”
Posso giudicare di toccare qualcosa come la terra sebbene non esista la terra, ma il fatto che io stia avendo
questo giudizio attesta che la mia mente esista. -> questo ci porta a una tesi cartesiana che individua la
possibilità dell’errore solo nel giudizio, cioè nell’atto di riferire il contenuto delle mie rappresentazioni a
qualcosa che è esterno a me.

La conoscenza delle cose dipende dalla conoscenza di Dio


Cartesio si muove sospendendo il mondo, arrivando alla certezza di sé, ma in sé rinviene un’idea
che non è come tutte le altre, cioè l’idea di Dio che farà da garanzia rispetto alla nostra percezione
delle cose, in quanto un Dio perfetto non si comporterebbe come un genio maligno istillando in
noi l’evidenza di qualcosa che in realtà è falso.

“Ma quando la mente, che conosce se stessa e ancora dubita di tutte le altre
cose, si guarda attorno da tutte le parti per estendere ulteriormente la sua
conoscenza, anzitutto trova in se stessa le idee di molte cose, e finché le
contempla soltanto e non afferma né nega che esista fuori di sé nulla di simile ad
esse, non può ingannarsi. Trova anche certe nozioni comuni, e con queste
compone varie dimostrazioni, e fintantoché fa attenzione ad esse, si persuade del
tutto che son vere. Così, per esempio, ha in sé le idee dei numeri e delle figure, e
tra le nozioni comuni ha anche che, se a quantità uguali si aggiungono quantità
uguali, quelle che ne risulteranno saranno uguali, e simili, dalle quali facilmente
si dimostra che i tre angoli di un triangolo sono uguali a due retti ecc.; e pertanto
〈la mente〉 si persuade che queste e simili cose sono vere fintantoché fa
attenzione alle premesse, da cui le ha tratte. Ma poiché non sempre può far
attenzione ad esse, quando poi si ricorda di non sapere ancora se per caso sia
stata creata di tale natura da ingannarsi anche in quelle cose che le appaiono
evidentissime, vede che giustamente dubita di tali cose e che non può avere
alcuna scienza certa, prima che abbia conosciuto l’autore della propria origine.”
L’unico modo per uscire dal dubbio è interrogarsi e capire la propria origine, in modo da capire se
la nostra mente è fatta in modo tale da ingannarsi.
Tale questione tende ad andare verso Dio.

Esistenza necessaria di Dio


“Considerando poi che, tra le diverse idee che ha in sé, ve ne è una di un essere
sommamente intelligente, sommamente potente e sommamente perfetto, che è
di gran lunga la più importante di tutte, riconosce in essa un’esistenza, non
soltanto possibile e contingente, come nelle idee di tutte le altre cose che
percepisce distintamente, ma del tutto necessaria ed eterna. E come dal fatto
che, per esempio, percepisce che nell’idea di triangolo è contenuto
necessariamente che i suoi tre angoli sono uguali a due retti si persuade
pienamente che il triangolo ha tre angoli uguali a due retti, così dal solo fatto che
percepisce che l’esistenza necessaria ed eterna è contenuta nell’idea di un ente
sommamente perfetto deve senz’altro concludere che l’ente sommamente
perfetto esiste.”
A partire da questo si arriva al passaggio dall’io a Dio; tale passaggio si rende necessario per
spiegare la prova della realtà del mondo esterno.

Dio è un’idea tra le altre ma non è un’idea come tutte le altre: tra le altre perché ne abbiamo
percezione e rappresentazione, in questo modo dio è nella nostra mente come forma di un’idea;
Dio non è come tutte le altre idee perché non possiamo pensare l’idea di Dio come priva
dell’esistenza: mentre le idee di tutte le altre cose le possiamo pensare come non esistenti, nel
caso di Dio noi non possiamo pensare la sua natura come separata dall’esistenza perché, siccome
noi pensiamo Dio, e siccome un ente perfettissimo ha tutte le perfezioni, tra tutte le perfezioni non
possiamo escludere la sua esistenza-> l’esistenza per Cartesio è una perfezione

Nel caso di tutte le altre idee posso distinguere ciò che è possibile e ciò che è esistente, nel caso di
Dio non posso farlo in quanto egli è perfetto; questa idea posso averla in quanto essere
imperfetto, la percezione della mia imperfezione posso averla solo grazie a qualcosa di perfetto, e
una volta che ho l’idea del perfetto non posso negare la sua esistenza.

Dio come l’unica rappresentazione di una esistenza necessaria


“E tanto più 〈la mente〉 lo crederà, se farà attenzione al fatto che non trova in sé
l’idea di nessun’altra cosa, nella quale si accorga che sia contenuta nello stesso
modo l’esistenza necessaria. Da ciò infatti comprenderà che quest’idea
dell’essere sommamente perfetto non è prodotta da sé, né presenta una natura
chimerica, ma vera e immutabile e che non può non esistere, essendo contenuta
in essa l’esistenza necessaria.”
La mente non riesce a concepire l’esistenza necessaria se non come attributo dell’ens
perfectissimum. Questa unicità concorre a solidificare la sua evidenza, in quanto la mente non ha
ricavato l’idea dell’esistenza necessaria dalla percezione di altre cose, il che fa pensare che non è
relata a un’idea pregressa ma viene da una fonte che può essere solamente un Dio esistente.

L’idea di Dio non è giustificata da altre idee che la mente potrebbe ricavare da sé, per questo
indica l’esistenza di qualcosa che è esterna alla mente.

Questo per Cartesio costituisce delle evidenze indubitabili -> di due cose non possiamo dubitare:
dell’io e di Dio.

La dimostrazione dell’esistenza di Dio è un modo per liberare la mente da tutti i pregiudizi che si
frappongono tra noi e le nostre evidenze; dio è un’evidenza al pari di quelle matematiche.
Le idee innate in Cartesio sono idee la cui realtà viene dimostrata dal fatto che io non posso
comporle e scomporle a mio piacimento. (ex. Pegaso)
Nel caso dell’idea di Dio ho a che fare con un’idea il quale contenuto implica l’esistenza, che è un
attributo divino, in dio essenza ed esistenza coincidono.

I pregiudizi impediscono la conoscenza di ciò che è in sé evidente


Per Cartesio tra noi e le evidenze si frappongono i pregiudizi che impediscono il mostrarsi delle
cose così come sono.
La conoscenza, quindi, deve rimuovere questi pregiudizi mettendo in questione tutto quello che
noi davamo per certo.

“Questo, dico, la nostra mente lo crederà facilmente, se prima si sarà liberata del
tutto dai pregiudizi. Ma poiché siamo abituati a distinguere in tutte le altre cose
l’essenza dall’esistenza, e anche ad inventare ad arbitrio varie idee di cose che
non esistono, né sono esistite mai in nessun luogo, facilmente accade, quando
non siamo completamente fissi nella contemplazione dell’essere sommamente
perfetto, che dubitiamo se l’idea di lui non sia per caso una di quelle che abbiamo
inventate a nostro piacere, o almeno di quelle alla cui essenza non appartiene
l’esistenza.
Noi siamo abituati a separare l’essenza dall’esistenza, l’esistenza nelle realtà fattuali è qualcosa di
contingente, per questo abbiamo difficoltà a credere che nel caso di Dio l’esistenza è qualcosa di
necessario.
Il primo compito della filosofia è quello di rimozione dei pregiudizi, togliere tutto ciò che
imprigiona la nostra conoscenza.

La realtà oggettiva delle idee


“Considerando poi ulteriormente le idee che abbiamo in noi, certamente vediamo che
esse, in quanto sono modi di pensare, non differiscono molto tra loro, ma in quanto
rappresentano l’una una cosa, l’altra un’altra, sono assai diverse; e quanto maggiore è
la perfezione oggettiva che contengono in sé, tanto più perfetta deve essere la loro
causa. Come, se uno ha in sé l’idea di qualche macchina molto complessa, a ragione si
può domandare quale sia la causa dalla quale l’abbia tratta, se cioè egli abbia visto in
qualche luogo una macchina del genere costruita da altri, se abbia imparato con tanta
cura le arti meccaniche, o se abbia tanta forza d’ingegno che ha potuto escogitarla da
solo senza averla mai vista in nessun luogo. Infatti tutto l’artificio che in quella idea è
contenuto soltanto oggettivamente, ovvero come in un’immagine, deve essere
contenuto nella sua causa, qualunque sia, almeno nella prima e principale, non soltanto
oggettivamente, ossia rappresentativamente, ma in realtà formalmente o
eminentemente.”

Differenza tra due livelli di comprensione delle idee -> cambia il contenuto delle idee, questo contenuto
Cartesio lo chiama realtà oggettiva, per oggetto si intende qualcosa di cui sono pensabili le sue
caratteristiche: ogni idea ha un contenuto determinato (un triangolo quadrato non ha una realtà oggettiva
perché non è pensabile.), il triangolo ha un contenuto determinato ma ciò non significa che il triangolo
esiste in natura, significa invece che quando lo penso posso pensarne un contenuto; la realtà oggettiva,
quindi, non per forza è la realtà di un ente esistente, ma può essere di un ente solo possibile.

Reale non è l’atto di essere, ma è l’avere un contenuto determinato;


le nostre idee sono cigotationes, ma esse provengono da qualcosa; di molte idee possiamo esserne noi la
causa, nel caso dell’idea di Dio la causa di questa idea non può essere in noi.

Le idee hanno una realtà formale e una realtà oggettiva: la realtà oggettiva è il loro contenuto, la realtà
formale è la loro causa, cioè qualcosa di esistente da cui questo contenuto proviene.

L’idea di dio ha una realtà oggettiva, cioè che è l’ens perfectissimum -> questa realtà oggettiva deve avere
una realtà formale, cioè da qualcosa che esiste -> l’essere oggettivo deve essere causato da un essere in
atto.
Nel caso di dio non posso essere la fonte di una cosa così perfetta, per questo Dio si da come idea fuori
dalla mia mente e non solo nella mia mente -> questo modello lo classifichiamo come la prova a posteriori
dell’esistenza di Dio.

Prova a posteriori
“Così, poiché abbiamo in noi l’idea di Dio, ovvero del sommo essere, a buon
diritto possiamo esaminare da quale causa l’abbiamo; e vi troveremo tanta
immensità da essere per ciò assolutamente certi che quell’idea non può essere
stata impressa in noi se non da una cosa in cui sia davvero il compimento di tutte
le perfezioni, cioè solo da Dio realmente esistente. E’ infatti notissimo per lume
naturale, non solo che nulla si crea dal nulla e che ciò che è più perfetto non può
essere prodotto da ciò che è meno perfetto, come da causa efficiente e totale, ma
anche che non può esistere in “noi l’idea ovvero l’immagine di alcuna cosa, di cui
non esista in qualche luogo, sia in noi stessi, sia fuori di noi, un qualche Archetipo
che contenga realmente tutte le sue perfezioni. E poiché quelle somme perfezioni
di cui abbiamo l’idea non le troviamo in nessun modo in noi, da ciò stesso
concludiamo rettamente che esse sono in qualcuno diverso da noi, cioè in Dio, o
certamente vi sono state un tempo, dal che segue evidentissimamente che vi
sono tuttora.”
Si chiama a posteriori perché muove dall’esistenza dell’io, cioè della mente; noi che siamo
esistenti in quanto pensanti abbiamo tra gli altri pensieri anche quello di dio, ma siccome la realtà
oggettiva di dio è infinitamente più grande di quella di cui può essere causa la nostra realtà
formale, non posso far altro che riferire questa realtà oggettiva a un’esistenza che è fuori di me.

La prova a priori è un ulteriore sforzo della metafisica moderna che cerca di dedurre l’esistenza di
Dio dalla logicità intrinseca all’idea di Dio.
Mentre la prova a posteriori dice che abbiamo in noi un’idea così grande e perfetta di cui non
possiamo essere la causa, la prova a priori invece muove dall’idea di un essere perfettissimo,
quindi parte dalla possibilità di pensare Dio, insiste sulla connessione tra le diverse determinazioni
che compongono l’idea di Dio, non considerando, a differenza della prova a posteriori, come l’idea
di Dio sia arrivata a noi.
Il modo di essere dell’infinito in noi: non comprendiamo la natura di Dio
ma intendiamo le sue perfezioni
“E ciò è abbastanza certo e manifesto a coloro che sono abituati a contemplare l’idea di
Dio e ad osservare le sue somme perfezioni. Sebbene infatti non le comprendiamo, poiché
certamente è proprio della natura dell’infinito non esser compreso da noi che siamo finiti,
nondimeno possiamo intenderle più chiaramente e distintamente di qualsiasi cosa
corporea, perché riempiono di più il nostro pensiero e sono più semplici, né sono offuscate
da alcuna limitazione.”
Cartesio si chiede, se la mia mente non è in grado di giustificare tutte le perfezioni di Dio, come fa questa
idea ad essere nella nostra mente stessa?
La spiegazione Cartesio cerca di darla attraverso la differenza tra comprendere e intendere:
Comprendere significa comprendere tutte le caratteristiche di una cosa e coglierne tutte le determinazioni;
intendere significa cogliere le note che identificano quella cosa, cioè comprendere della cosa quelle
determinazioni che mi consentono di distinguerla in modo chiaro e distinto delle altre.

In quanto imperfetti non proveniamo da noi stessi


“Ora, poiché non tutti si accorgono di ciò, e poiché inoltre, a differenza di coloro che,
avendo l’idea di una qualche macchina complessa, sanno di solito donde l’hanno
ricevuta, noi invece non ricordiamo similmente che l’idea di Dio ci è venuta una volta da
Dio 〈stesso〉, dato che l’abbiamo sempre avuta, si deve ancora cercare da chi mai
veniamo noi stessi, che abbiamo in noi l’idea delle somme perfezioni di Dio. Infatti è
certamente notissimo per lume naturale che quella cosa, che conosce qualcosa più
perfetta di sé, non proviene da se stessa: infatti si sarebbe data tutte le perfezioni di cui
ha in sé l’idea; né quindi può provenire da alcuno che non abbia in sé tutte quelle
perfezioni, cioè che non sia Dio.”

L’idea di dio non può derivare dall’io a partire dal fatto che noi stessi non possiamo derivare da noi
stessi.
Avendo la percezione di un ente perfetto non provengo da me, perché altrimenti sarei io l’ente
perfetto.

Dio in quanto causa della durata della nostra esistenza


“E nulla può offuscare l’evidenza di questa dimostrazione, solo che facciamo attenzione
alla natura del tempo ossia della durata delle cose, la quale è tale che le sue parti non
dipendono reciprocamente tra loro, né esistono mai simultaneamente; e perciò dal fatto
che in questo momento esistiamo non segue che esisteremo anche nel tempo
immediatamente seguente, se qualche causa, e precisamente quella stessa che ci ha
prodotti dapprincipio, non ci riproduca come di continuo, cioè ci conservi. Infatti
comprendiamo facilmente che non c’è in noi nessuna forza per la quale conserviamo noi
stessi e che colui nel quale c’è tanta forza da conservare noi che siamo separati da lui,
tanto più conserva anche se stesso, o piuttosto non ha bisogno di nessuna conservazione
da parte di alcuno, e infine è Dio.”
L’ente divino assicura la durata della nostra esistenza dal momento che il tempo è di per se lo scorrere di
momenti che non sono in una relaziona causale uno con l’altro, ciò che assicura la permanenza quindi non è
il tempo stesso ma è Dio.

L’idea di un argomento unico


Anche da questo si capisce come senza dio il cogito non può che farsi garante di un’esistenza
puntuale che però non è l’esistenza di me come individuo ma è l’’esistenza di un atto cogitativo ->
dio entra dentro il congegno della res cogitans.

Da questo momento prende forma più chiara il tentativo della filosofia a concepire un argomento
che nel dimostrare l’esistenza di Dio ne fornisca anche le determinazioni -> una prova è tanto più
efficace quanto più riesce a svolgere il compito duplice di chiarire che Dio esiste e di esplicitare
anche gli attributi e le determinazioni di Dio.

“D’altra parte in questo modo di provare l’esistenza di Dio, cioè mediante la idea di lui, vi
è un grande vantaggio: che contemporaneamente conosciamo chi è, per quanto lo
consente la debolezza della nostra natura. Evidentemente, considerando l’idea di lui
innata in noi, vediamo che egli è eterno, onnisciente, onnipotente, fonte di ogni bontà e
verità, creatore di tutte le cose, e, infine, che ha in sé tutte quelle cose in cui possiamo
rilevare chiaramente una qualche perfezione infinita, ovvero non limitata da alcuna
imperfezione.”

Dalla sua perfezione deriva il suo essere incorporeo


In questo passo Cartesio fornisce l’esempio di come dalla dimostrazione dell’esistenza dell’ens
perfectissimum si ricavano altre determinazioni.

“Infatti ci sono davvero molte cose nelle quali, sebbene riconosciamo qualche
perfezione, scopriamo tuttavia anche qualcosa di imperfetto, ovvero di limitato, e
che non possono pertanto appartenere a Dio. Così, dato che nella natura
corporea insieme all’estensione locale si include la divisibilità, e l’esser divisibile è
un’imperfezione, è certo che Dio non è corpo. E per quanto il “fatto che sentiamo
sia in noi una certa perfezione, poiché tuttavia in ogni sensazione vi è una
passione, e patire è dipendere da qualcuno, non si deve credere in nessun modo
che Dio senta, ma soltanto che intenda e voglia: e questo non come noi per
mezzo di operazioni in qualche modo distinte, ma in modo tale che, per il tramite
di un’unica e sempre medesima e semplicissima azione, simultaneamente tutto
intenda, voglia e operi. Tutto, dico, cioè tutte le cose: infatti non vuole la
malvagità del peccato, poiché non è una cosa.”
Estensione locale e l’essere divisibile: estensione locale è ciò per cui qualcosa è distante da un
‘altra; l’esser divisibile è l’estensione interna a qualcosa.
Cosa è l’indefinito?
La domanda sorge dal problema che Cartesio ha dell’infinito: la prova che è stata esposta
dell’esistenza di dio punta sull’esistenza in noi di un ente infinito, Cartesio si chiede come è
possibile che un ente infinito sia in noi che siamo finiti.

Questo problema scatena altre questioni che vede intrecciarsi la questione del finito con la
questione dell’indefinito -> abbiamo un modo per accostarci all’infinito, e cioè il modo stesso di
una ricerca in indefinitum.

“Così non ci affaticheremo mai in alcuna disputa sull’infinito. Certamente, infatti, essendo
noi finiti, sarebbe assurdo che determinassimo qualcosa di esso e così tentassimo quasi di
delimitarlo e comprenderlo. Non ci cureremo pertanto di rispondere a quelli che chiedono
se, data una linea infinita, la sua metà sarebbe anch’essa infinita o se il numero infinito
sia pari o dispari, e simili cose, poiché sembra che ad esse non debba pensare nessuno, se
non chi creda che la sua mente sia infinita. Noi invece non affermeremo certo che tutte
quelle cose in cui sotto qualche aspetto non potremo trovare alcun limite siano infinite,
ma le considereremo come indefinite. Così, poiché non possiamo immaginare
un’estensione tanto grande senza concepire che ve ne possa essere una ancora maggiore,
diremo che la grandezza delle cose possibili è indefinita. E poiché non si può dividere un
corpo in tante parti senza che si concepisca ciascuna di queste parti ancora divisibile,
riterremo che la quantità è indefinitamente divisibile. E poiché non si può immaginare un
numero di stelle tanto grande, senza credere che ne abbian potuto esser create da Dio
ancora di più, supporremo indefinito anche il loro numero; e così per[…]”
L’idea di Dio è l’unica di cui siamo certi dell’infinitezza perché l’infinitezza fa parte dei suoi
attributi, mentre idee come quelle dell’infinito matematico o delle stelle possiamo chiamarle sono
indefinite perché non siamo certi che siano infinite.
L’indefinito quindi è il rapporto con qualcosa che non possiamo cogliere, ed è una via verso
l’infinito.

L’esser veridico di Dio


“Il primo degli attributi di Dio che viene qui alla mente è che egli è sommamente
veridico e datore di ogni lume, così che assolutamente ripugna che ci inganni,
ovvero che sia propriamente e positivamente la causa degli errori ai quali
sperimentiamo esser soggetti. Infatti, per quanto forse tra noi uomini l’esser
capaci di ingannare sembri esser un qualche indizio di ingegno, senza dubbio la
volontà di ingannare non viene mai se non da malignità o paura e debolezza, e
quindi non può trovarsi in Dio.”
Gli errori che facciamo non dipendono da un dio ingannatore, in quanto la capacità di ingannare
non è frutto di ingegno o perfezione ma segno di limite e debolezza.
Gli errori e la volontà
Cartesio allora si chiede da dove provengono i nostri errori; questo introduce il tema della volontà
che costituisce il tema centrale di Cartesio, in quanto la volontà esprime la propensione del cogito
perché il dubbio in Cartesio viene fuori dalla volontà, cioè una sospensione del giudizio che noi
vogliamo fare.

“Ora poiché, sebbene Dio non sia ingannatore, nondimeno spesso accade che noi
ci inganniamo, per investigare l’origine e la causa dei nostri errori e per imparare
a premunirci da essi, dobbiamo tener presente che essi non dipendono tanto
dall’intelletto quanto dalla volontà e che non sono cose alla cui produzione sia
richiesto il reale concorso di Dio: ma quando 〈gli errori〉 sono riferiti a lui sono
soltanto negazioni, e quando a noi privazioni.”

Percezione e volizione
Gli errori non dipendono dall’intelletto ma dipendono dalla volontà; questa tesi non è del tutto
vero, in quanto più che dipendere dalla volontà i nostri errori dipendono dalla sproporzione tra
intelletto e volontà (intelletto finito e volontà infinita) la volontà vuole più di quello che l’intelletto
può offrire.
Il nostro volere non è un tutt’uno con il nostro potere -> il volere quindi si rivolge anche a cose che
non dipendono da noi e sulla quale non abbiamo l’esercizio dell’arbitrio.

VOLONTA’ E ARBITRIO -> l’arbitrio non è legato alla volontà in quanto esprime una condizione di
non impedimento, si dispone dell’arbitrio se si è nella possibilità di esercitare un’opzione; quando
una cosa è arbitraria non significa che è volontaria ma che non obbedisce a una regola, cioè non
considera alcun possibile impedimento, per questo si tratta più di una condizione fisica che
mentale, ma l’esercizio di questa condizione può essere libero o meno.

“Infatti tutti i modi di pensare, che sperimentiamo in noi, si possono ricondurre a


due generali, uno dei quali è la percezione, ovvero l’operazione dell’intelletto,
l’altro è la volizione, ovvero l’operazione della volontà: il sentire, l’immaginare e il
puro intendere sono infatti soltanto modi diversi di percepire, come il desiderare,
il provare avversione, l’affermare, il negare, il dubitare sono modi diversi di
volere.”
La percezione è l’operazione dell’intelletto, può indicare una modalità sensibile ma soprattutto il pensare;
in generale ha a che fare con l’atteggiamento teoretico, cioè con la conoscenza, infatti è un modo di
guardare le cose a partire con un intentio di tipo conoscitivo, cioè legata a alla rappresentazione di un
oggetto, non il suo utilizzo ma la sua conoscenza.

L’errore e il giudizio
La volontà è ciò che ci consente di sospendere un giudizio, il problema è che l’errore sta anche
nella volontà, in quanto volendo conoscere si esprime in un giudizio anche quando l’intelletto non
ha finito il suo lavoro -> l’errore per cartesio è il frutto di un giudizio che non muove
dall’acquisizione di un’evidenza.

“Quando invero percepiamo qualcosa, purché soltanto non affermiamo o neghiamo


assolutamente nulla di essa, è evidente che non ci inganniamo, come neanche quando
affermiamo o neghiamo soltanto ciò che percepiamo chiaramente e distintamente dover
esser così affermato o negato, ma unicamente quando (come accade), benché non
percepiamo rettamente qualcosa, tuttavia diamo giudizi intorno ad essa.
Quando percepiamo qualcosa in modo evidente non possiamo ingannarci.

L’errore non consiste solo nell’errore materiale, perché in realtà erriamo anche quando giudicando
diciamo delle verità in quanto non seguiamo gli step dell’intelletto.

Giudizio tra intelletto e volontà


L’errore risiede nel giudizio che è un atto conoscitivo dettato dalla volontà -> è la facoltà che tiene
insieme la teoretica e la pratica.
Il giudizio è quel luogo in cui seguiamo la vocazione della volontà a non arrestarsi davanti a niente,
questo ci porta a cadere in errore.

Intelletto finito e volontà infinita


“Invero la percezione dell’intelletto si estende solo a quelle poche cose che si
presentano ad esso, ed è sempre fortemente limitata. La volontà invece in un
certo senso si può dire infinita, perché non avvertiamo mai nulla, che possa
essere oggetto di qualche altra volontà, o anche di quella immensa che è in Dio,
cui non si estenda anche la nostra: cosicché la estendiamo facilmente al di là di
ciò che percepiamo chiaramente; e nel far ciò non è meraviglia che capiti di
ingannarci.”
La volontà è infinita perché la sua estensione è infinita. -> non ha limiti neanche strutturalmente,
per questo non è meraviglia che ci capiti di sbagliarci.

I nostri errori non provengono da Dio


C’è qualcosa nel modo in cui siamo fatti che può indurci in errore -> l’errore consiste nel fatto che
la volontà si spinge oltre l’intelletto, quindi giudichiamo, e il luogo dell’errore sta nel giudizio:
quando giudichiamo rischiamo di commettere l’errore.

In sostanza, l’errore trova come sua condizione lo scarto tra volontà infinita e intelletto finito,
questo non implica che necessariamente erriamo ma costituisce la situazione per la quale
naturalmente possiamo incorrere nell’errore.

La natura della volontà e di chi ne è titolare


Il fatto che dio ci abbia fatto in modo tale che possiamo errare riporta Cartesio all’ipotesi del genio
maligno. -> la sua risposta è sia illusiva che efficace: egli dice che siamo enti finiti nella misura in
cui dio nel crearci ha creato un ente diverso da lui, per questo la finitezza è quello che ci distingue
da dio; per questo è del tutto fisiologico che noi abbiamo una natura finita e con esso un intelletto
finito -> l’errore sta nel fatto che attribuiamo a Dio la fonte prima dell’errore, cioè la volontà
infinita e un intelletto finito, stiamo obiettando a Dio il fatto di averci immesso una cosa che ci
rende somiglianti a lui, cioè la volontà; proprio per questo secondo cartesio la responsabilità
dell’errore cade interamente sull’uomo in quanto quella stessa volontà infinita in attrito con la
quale il giudizio può produrre degli errori, è anche quella che ci permette di sospendere il giudizio.

“Che invece la volontà si estenda molto ampiamente, anche questo si addice alla
sua natura; e nell’uomo è in un certo modo somma perfezione agire per mezzo
della volontà, cioè liberamente, ed esser così in un certo peculiare modo autore
delle proprie azioni e meritare lode per esse. Non si lodano infatti gli automi per il
fatto che eseguono esattamente tutti i movimenti per i quali sono stati costruiti,
poiché necessariamente li eseguono così; si loda invece il loro artefice per averli
costruiti con tanta precisione, poiché li ha costruiti 〈così〉 non necessariamente,
ma liberamente. E per la medesima ragione ci deve esser di certo accordato
maggior 〈credito〉 per il fatto che abbracciamo il vero, quando l’abbracciamo,
poiché agiamo volontariamente, di quello che ci sarebbe accordato se non
potessimo non abbracciarlo.”
L’errore lo si compie anche se giudicando diciamo la verità, perché possiamo essere lodati solo quando
abbracciamo il vero perché volontariamente ci atteniamo alle evidenze che ci porta l’intelletto: il processo
conoscitivo non esclude quindi il concorso della volontà

L’errore come frutto di una nostra azione e non della creazione


“Il cadere invece in errore è certamente difetto insito nella nostra azione ovvero
nell’uso della libertà, ma non nella nostra natura, giacché essa è sempre la
stessa, sia quando giudichiamo in modo errato sia quando rettamente. E benché
Dio avrebbe potuto dare al nostro, intelletto tanta perspicacia che non ci
ingannassimo mai, tuttavia con nessun diritto possiamo esigere questo da lui.
Come tra noi uomini, se qualcuno ha il potere di impedire qualche male e tuttavia
non lo impedisce, diciamo che ne è lui la causa, non dobbiamo allo stesso modo,
per il fatto che Dio avrebbe potuto far sì che noi non ci ingannassimo mai,
ritenerlo perciò causa dei nostri errori. Infatti il potere, che gli uomini hanno gli
uni sugli altri, è stato istituito appunto perché essi se ne avvalgano per tenerli
lontani dal male; invece quello che Dio ha su tutti è assoluto e libero al massimo
grado e perciò gli dobbiamo sommi ringraziamenti per i beni che ci ha elargito,
ma con nessun diritto possiamo lamentarci che non ci abbia elargito tutti i beni
che riconosciamo avrebbe potuto elargirci.”
In questo passo si esprime la parte volontarista di Cartesio -> la volontà è la forma di vita infinita
per eccellenza ed è ciò in base a cui si definisce il divino.
L’automa è una figura importantissima nella modernità, perché ha in sé un significato legato alla
descrizione di un ente che non è capace di agire volontariamente.
Automa però ha nella sua radice il termine greco autos che è il termine legato all’autonomia, cioè
a ciò che è legge a sé, quindi è legato a ciò che si muove di per sé.
Il termine automa nella filosofia suggerisce che noi non dobbiamo cercare la libertà fuori dalla
necessità.

La libertà come nozione innata e auto-evidente


Cartesio ha un concetto di libertà che non si concilia con la necessità -> concetto di libertà come
quella forma di vita dotata di massima estensione, cioè un concetto illimitato di libertà che cozza
con l’idea di ordine necessario.

“Il fatto poi che nella nostra volontà ci sia libertà e che possiamo ad arbitrio
assentire o non assentire a molte cose è tanto manifesto che si deve annoverare
tra le prime e più comuni nozioni, che ci sono innate. E ciò è apparso
massimamente chiaro poco fa3 quando, cercando di dubitar di tutte le cose,
pervenimmo al punto di supporre che qualche potentissimo autore della nostra
origine tentasse in tutti i modi di ingannarci: nonostante ciò, infatti,
sperimentavamo di avere questa libertà di poterci astenere dal credere alle cose
che non erano assolutamente certe e esaminate. E non possono esservi cose più
note per se stesse ed esaminate di quelle che in quel momento sembravano non
dubbie.”

Sappiamo di essere liberi, non c’è una dimostrazione di questo ma è un’esperienza del pensiero.
Percepiamo la libertà con la stessa immediatezza con cui percepiamo il dubbio del cogito, perché il
dubbio viene dal libero esercizio della mia volontà.

Difficoltà di conciliare la nostra libertà con l’idea di un ,ondo


preordinato da Dio
“Ci trarremo però fuori da quelle 〈difficoltà〉 se ricorderemo che la nostra mente è
finita e che invece la potenza di Dio, per la quale egli non solo ha “preconosciuto”
dall’eternità, ma anche voluto e preordinato, tutte le cose che sono o possono
essere, è infinita e che pertanto noi ci avviciniamo abbastanza a 〈tale potenza〉
da percepire chiaramente e distintamente che essa è in Dio, ma non la
comprendiamo abbastanza da vedere in che maniera lasci indeterminate le libere
azioni degli uomini; d’altra parte della libertà e dell’indifferenza che sono in noi
siamo così consapevoli, che non c’è nulla che comprendiamo più evidentemente e
perfettamente. Infatti sarebbe assurdo che, poiché non comprendiamo una cosa,
che sappiamo doverci essere per sua natura incomprensibile, dubitassimo di
un’altra che comprendiamo intimamente e sperimentiamo in noi stessi.”

La libertà è qualcosa che sperimentiamo in noi stessi, ci imbattiamo in essa, non possiamo
dimostrarla ma possiamo percepirla.
Quando non possiamo ingannarci?
“È certo invece che non ammetteremo mai nulla di falso come vero, se daremo
l’assenso soltanto a cose che percepiremo chiaramente e distintamente. Certo,
dico, perché, non essendo Dio ingannatore, la facoltà di percepire che ci ha dato
non può tendere al falso, come neppure la facoltà di assentire, quando si estende
soltanto a cose che sono percepite chiaramente. E per quanto ciò non fosse
provato da nessuna ragione, è stato dalla natura talmente impresso nell’anima
di tutti, che ogni qual volta percepiamo qualcosa chiaramente, vi assentiamo
spontaneamente e non possiamo dubitare in nessun modo che sia vero.”

Distinzione tra percezione chiara e percezione distinta


“Invero moltissimi uomini, in tutta la loro vita, non percepiscono assolutamente
nulla abbastanza bene in modo da darne un giudizio sicuro. Infatti ad una
percezione su cui possa fondarsi un giudizio sicuro e indubitabile non si richiede
soltanto che sia chiara, ma anche che sia distinta. Chiamo chiara quella che è
presente e manifesta alla mente che presti attenzione, come diciamo che da noi
sono viste chiaramente quelle cose che, presenti all’occhio che guarda
attentamente, lo muovono abbastanza fortemente e visibilmente. Chiamo invece
distinta quella che, essendo chiara, è da tutte le altre così disgiunta e separata,
che non contiene in sé assolutamente nient’altro se non ciò che è chiaro.”