Principi Di Filosofia Del Diritto
Principi Di Filosofia Del Diritto
Principi Di Filosofia Del Diritto
CAPITOLO 1:
L’uomo riconosce tramite i suoi sensi l’esistenza delle cose, che hanno la caratteristica
di essere altro rispetto a lui. Inoltre egli riconosce il fatto che tali cose esistono anche
nel momento in cui non le percepisce in modo diretto. Ciò si verifica in quanto l’uomo
non dubita di possedere i sensi, dunque dato che egli non dubita ad esempio di
possedere il senso del tatto, tramite il quale riconosce l’esistenza di un oggetto, di
conseguenza non potrà dubitare dell’esistenza stessa dell’oggetto percepito e perciò di
una realtà esterna a lui. L’uomo riconosce dunque l’esistenza delle cose, non le
riconosce però nella loro singolarità, bensì riconosce ad esse una realtà generale.
Dunque l’essere umano è consapevole che ciò che egli sente esistere in un determinato
istante di fronte a lui, altro non è che un caso particolare di una realtà generale. Fitche
chiama questo sapere immediato della realtà “credenza”. Così come è certo
dell’esistenza delle cose, l’uomo è certo anche dell’esistenza dell’essere umano. Egli
riconosce nell’essere umano le sue medesime caratteristiche, è dunque consapevole di
essere una cosa tra le altre, bensì continui a riconoscere di essere altro rispetto alle
cose e rispetto agli altri esseri umani. La coscienza che distingue in tal modo sé e
l’oggetto la chiamiamo coscienza empirica. Tale coscienza riconosce indiscutibilmente
la realtà dell’oggetto e l’alterità dal singolo essere umano, si trova inoltre alla base di
ogni scienza empirica. La scienza empirica ha come scopo quello di dominare l’oggetto
dato. Essa cerca di indagare i mezzi tramite i quali il soggetto, e dunque la scienza,
domina l’oggetto dato. Secondo questa concezione realista, l’uomo si comporta
all’interno del processo conoscitivo in modo passivo e recettivo. Riconosciamo però al
soggetto la capacità di pensare e di sentire e dunque affermiamo che il processo
conoscitivo non è solamente il frutto delle attività prima citate. Secondo la coscienza
riflettente invece, la coscienza del soggetto reagisce all’oggetto che anche in questo
caso è dato. Arriviamo successivamente a superare questo realismo “ingenuo”,
comprendendo che la coscienza non presuppone l’oggetto, bensì lo crea. È dunque la
coscienza tramite la sua attività, che nel credere di vedere un oggetto lo rende reale. La
coscienza e l’oggetto sono inoltre legati, in quanto è proprio nella coscienza e grazie a
quest’ultima che l’oggetto diviene ciò che è. La coscienza non deve essere intesa come
coscienza individuale, altrimenti la morte di un individuo dovrebbe portare alla fine del
mondo, va invece intesa come coscienza universale, di cui la coscienza soggettiva è
solamente un caso particolare. Tali riflessioni appartengono all’idealismo, chiamiamo
ideale ciò che appartiene soltanto alla coscienza. L’idealismo non nega la realtà, nega il
suo essere data, afferma invece il suo essere un tutt’uno con la coscienza. La coscienza
si distingue in oggetto e soggetto, ma è l’unità di entrambi. Il soggetto infatti
presuppone l’oggetto e viceversa, essi non possono essere pensati distintamente, ma
solo come determinato dall’altro e determinante l’altro. All’idealismo si obietta il fatto
che il mondo degli oggetti è solamente ideale, dunque appartiene solamente alla
coscienza. Ciò non è altro che un fraintendimento, in quanto se così fosse bisognerebbe
però ammettere la realtà di quanto pensato, in quanto conosciuto dal soggetto e
riprodotto. Dunque l’oggetto avrebbe una realtà e sarebbe un dato per il soggetto, che
a sua volta sarebbe reale come soggetto che pensa. Ammettendo una pluralità di
soggetti pensanti, ammettiamo dunque una pluralità di cose, la cui esistenza non può
dunque essere messa in dubbio senza mettere in dubbio anche la nostra esistenza.
Mettendo in dubbio la nostra esistenza, cadrebbe il presupposto dell’idealismo,
secondo il quale il mondo oggettivo è un contenuto di coscienza di un soggetto
pensante. La coscienza non è un dato, ma è il presupposto di ogni dato, dunque si
trova a priori di ogni cosa. Come affermato prima, la coscienza è sia oggetto che
soggetto, è dunque consapevole di sé e di essere allo stesso tempo altro, di essere
diversa dagli altri oggetti e dalle altre coscienze. La coscienza è quindi necessariamente
autocoscienza, di cui prima la definizione. L’autocoscienza riconoscendo sé, crea l’io
come singolo che si contrappone all’altro io e così facendo lo riconosce. L’oggetto è
dunque qualcosa che sta al di là di sé, ma è allo stesso tempo contenuto nella
coscienza. Se fosse accettata l’ipotesi realista, secondo cui l’oggetto è al di là della
coscienza, non si potrebbe comprendere in che modo la coscienza potesse conoscere
l’oggetto in quanto fuori da essa. La coscienza in quanto tale è coscienza di qualcosa,
presuppone dunque il sapere qualcosa dell’oggetto e per questo non può essere al di là
da me, in quanto se così fosse non potrei sapere nulla. Una sorta di ponte tra il realismo
e l’idealismo è rappresentata dal criticismo, secondo il quale l’oggetto nasce nella
coscienza grazie all’intelletto e alla sensibilità. Tali sensazioni sono però di natura
esterna rispetto alla coscienza, per questo non riesce a superare il problema del
realismo. Altra criticità del realismo è rappresentata dal fatto che bisogna capire se
l’oggetto che vengo a conoscere, che viene appreso come oggetto dalla mia coscienza
grazie ai miei sensi, corrisponda all’oggetto in sé. Si ha conoscenza solo quando tali
figure coincidono, dunque è necessario che l’uomo possa effettuare un confronto.
Affinché si verifichi tale fattispecie l’uomo dovrebbe conoscere il modello, l’oggetto in
sé, ma ciò è impossibile in quanto esso è trascendente, ovvero non riconducibile alle
determinazioni dell’esperienza. Ancora una volta il criticismo tenta di apportare una
soluzione a ciò, secondo tale corrente filosofica infatti non è necessaria la distinzione
tra l’oggetto in sé e l’oggetto della mia coscienza, in quanto l’oggetto si forma
all’interno della coscienza. Tale corrente sostiene però che dietro l’oggetto formato
dalla coscienza si trovi l’oggetto in sé, che non può essere oggetto della coscienza e
dunque non può essere conosciuto. Il criticismo crede dunque che le cose della nostra
conoscenza, non sono cose in sé, ma manifestazioni della cosa in sé che accogliamo
nella nostra coscienza formando appunto i nostri oggetti della coscienza. Soluzione a
tutto ciò è rappresentata dall’idealismo, secondo cui se la cosa in sé è al di là della
nostra conoscenza non esiste. L’unico mondo che possiamo considerare è quello della
nostra coscienza, intesa come coscienza universale e individuale. Dunque l’oggetto è
reale in quanto ideale, fondato cioè nella coscienza, è reale perché è pensato. Nella
coscienza nasce come già visto il soggetto e l’oggetto, l’opposizione che ne scaturisce li
tiene uniti. Nella coscienza, nel pensiero, il soggetto distinguendosi dall’oggetto si
pensa, ma non diventa un oggetto come gli altri, in quanto pensandosi in opposizione
mantiene il possesso di sé. Si origina così l’autocoscienza, altro non è che l’essenza del
pensiero in generale che nel pensare conosce fondamentalmente sé stesso, in quanto
come già affermato in precedenza, il pensiero è l’unità del pensiero e del pensato.
Pensando dunque l’uomo pensa solamente a sé stesso, questo pensare sé stesso è lo
spirito. L’intelletto è il pensiero che mantiene ferma l’opposizione fra soggetto e
oggetto. Esso non è subordinato alla ragione, ma è la ragione stessa in un particolare
grado della sua attività. All’interno della coscienza si ha infatti l’opposizione di soggetto
e oggetto e nella loro opposizione si ha la loro unione. È appunto l’intelletto che li
divide e la ragione che li riunisce. La coscienza non svolge solamente una funzione
teoretica, ovvero comportandosi come osservatrice, ma può agire di fronte all’oggetto
e su di esso, così da eliminare tramite tale attività l’opposizione tra soggetto e oggetto.
L’uomo può ad esempio cogliere i frutti di un albero, mangiarli e privarli così di una loro
autonomia ciò è la volontà. L’intelletto è quindi pensiero e volontà. L’idealismo è il solo
punto di vista pensabile e valido. Questo perché si fonda sull’essenza stessa del
pensiero e dunque deve essere riconosciuto da ogni pensiero ed è valido per ogni
pensiero. L’uomo è dunque pensiero. Egli deve far sviluppare il suo pensiero senza
condizionamenti, in modo tale che tale pensiero sia oggettivo. È la libertà della ragione
che porta dunque all’oggettività. L’oggetto non è una cosa particolare, ma è l’intero
mondo esterno. L’io è cosciente di sé come una cosa vivente e pensante, la sua realtà è
come la realtà dell’oggetto, una realtà ideale, è cioè reale come coscienza. L’uomo è
unità di anima e di corpo, questi sono unità nella distinzione. Lo spirito nell’animare un
corpo prende il nome di anima, la quale si realizza appunto nel corpo. L’io non è unico
in quanto se così fosse la morte di un io porterebbe alla morte di un mondo, l’io è
perciò un particolare di un universale. L’io è universale e, come tale, io mi determino
pensandomi, ed è pertanto al tempo stesso l’unità di tutti gli io. Nel far valere il suo io
l’uomo afferma la sua universalità, in quanto l’io afferma le sue conoscenze, le stesse di
una coscienza universale e per questo universalmente riconosciute. L’uomo deve
intendere l’universalità come verità e cercare di realizzare l’universalità nella sua
particolarità. L’uomo che fa ciò è l’uomo buono. Il pensiero del singolo si presenta
quindi valido di fronte al soggetto pensante ed a tutti gli altri soggetti perché come
pensiero di quel soggetto particolare è il pensiero universale, che esiste ed è reale
come pensiero individuale. L’universale è reale nel particolare e viceversa. Dunque si ha
che l’umanità è reale nei singoli e viceversa, ciò si concretizza nella nazione. Si ha
quindi in sentimento nazionalista che si oppone al cosmopolitismo, ma anche qui
l’opposizione crea l’unione. Infatti l’umanità esiste solo nella nazione e la nazione è
nulla in confronto all’umanità. La famiglia ha invece la funzione di aiutare l’individuo ad
inserirsi nella comunità popolare. Lo spirito del singolo si realizza attraverso lo spirito
della nazione, che si differenzia dagli altri popoli nel diritto e nello Stato. Lo spirito
come universalità prende dunque realtà nello Stato e come ogni realtà esiste nella
coscienza. Tale coscienza è la coscienza universale, reale appunto nella coscienza
individuale di ogni singolo che può anche considerare lo Stato come male. I vari
atteggiamenti che un individuo può avere nei confronti del proprio Stato sono la
coscienza concreta che un popolo ha del proprio Stato. Il realismo invece nega la realtà
dello Stato, affermando che questo è pura rappresentazione, il cui sostrato reale sono
gli individui che si presentano come dati. Solo l’idealismo può comprendere la realtà
della nazione e dello Stato; esso sa, infatti, che ogni realtà, anche quella degli oggetti
dati e quindi dei singoli individui è reale solo in quanto dato dalla coscienza e nella
coscienza. Il processo fino ad ora distinto secondo il quale il pensiero subisce prima uno
sdoppiamento e successivamente i pensati si riuniscono, prende il nome di dialettica.
Tale è l’essenza del pensiero, ogni pensiero pensa dialetticamente. Il pensiero parte
dunque dall’unità, si sdoppia e torna poi all’unità. Esso non ritorna uguale a prima, ma
come coscienza che ha compreso sé e la realtà degli oggetti.
CAPITOLO 2:
Libero è ciò che non dipende da forze estranee, lo spirito in quanto condizione della
realtà è incondizionato da queste. Lo spirito è libertà e per questo le filosofie
empiristiche, che non si occupano di conoscerlo ed affermano che la libertà nella realtà
è un’illusione. Il diritto è volontà e si rivolge alla volontà, esso non è dunque un limite
alla volontà. Ad oggi si distinguono 3 domini della realtà: il dominio della natura, il
dominio dell’anima e il dominio dello spirito. Il dominio dell’anima è quello della
psicologia, mentre il dominio dello spirito è il luogo della creazione spirituale. Esiste un
legame tra anima e spirto. Sappiamo infatti che ogni realtà è spirito e dunque anche
l’anima è spirito non ancora però coscienza e pensiero. L’anima si manifesta attraverso
il corpo e dunque può esserci nota solo attraverso le manifestazioni di un corpo
vivente. Da ciò si origina la discussione tra psicologi, se vi sia un’anima sostanziale o vi
siano invece soltanto processi psichici. Se per sostanza si intende un’essenza immobile
alla base dei fenomeni mutevoli, allora la risposta è che non esiste un’ anima
sostanziale. La sostanza che si trova alla base delle manifestazioni dell’anima è lo
spirito. All’intelletto appare perfettamente evidente la dottrina secondo la quale la
realtà è dominata dalle leggi naturali e il principio secondo cui nulla al mondo accade
senza causa, per questo ci si chiede se anche la volontà, in quanto processo che si
svolge nella realtà, sia soggetta alle leggi naturali. La realtà soggetta alle leggi naturali è
la natura, ma la natura non è tutta la realtà. Al di sopra di essa troviamo infatti lo
spirito che non è regolato da tali leggi. Tali leggi infatti si ritiene regolino solamente la
vita inorganica e non la vita organica, la quale costituisce il primo passo dello spirito
verso la libertà. La volontà è coscienza, presupposto di tutto e dunque non è oggetto
dell’empirismo e della psicologia. La psicologia non studia dunque la volontà, ma i
processi volitivi riconducibili a determinate condizioni empiriche. Nulla si può sapere sul
fondamento di tali processi. Dunque volontà e libertà coincidono. La vera volontà è la
volontà cosciente della sua libertà. Essa diviene dunque libera quando diviene
cosciente di sé. Tale libertà si realizza nel diritto attraverso la storia. Nel corso dei secoli
si è protratta una disputa sulla libertà o meno della volontà. Si distinguono il
determinismo secondo il quale ogni fenomeno presente è determinato da un
fenomeno precedente e l’indeterminismo che si oppone al primo. Osserviamo ora i
diversi punti di discussione. I teologi da un lato sembrano presupporre la libertà della
volontà in quanto accolgono l’esistenza del giudizio divino sulle azioni umane e del
peccato, mentre dall’altro lato l’onnipotenza di Dio sembra escluderla. In questa
contraddizione, Lutero afferma che il peccato è voluto da Dio e dunque egli
condannerebbe l’uomo alla dannazione eterna per peccati da lui voluti, per un semplice
disegno divino. Secondo tale dottrina l’uomo è dunque predestinato dalla volontà
divina alla beatitudine o alla dannazione, ma ciò eliminerebbe il concetto di redenzione
che sta alla base del cristianesimo. Per il cristianesimo però l’uomo e Dio non sono così
differenti, bensì sono la stessa cosa: Dio nato uomo e ritornato alla divinità dalla sua
umanità. Tale è il processo che aiuta lo sviluppo dello spirito nel passaggio dalla
particolarità all’universalità del volere. I filosofi si sono da sempre occupati di
conseguire il vero concetto di libertà. Per Socrate è libero chi agisce secondo i principi
morali, Goethe dice che solamente la legge può darci la libertà e Aristotele, sostenendo
i precedenti, dichiara non essere libera l’azione a cui si è costretti dall’esterno o di cui
non si è coscienti, e libera invece l’azione intrapresa con coscienza, questa coscienza è
la coscienza morale. Gli stoici sostengono invece che il mondo è uno Stato ordinato nel
quale valgono le leggi di natura. Kant cerca di risolvere il problema accettando
l’esistenza di 2 domini: quello della natura e quello della ragione. Sul dominio della
natura dominano le leggi di natura, mentre sul dominio della ragione la libertà. Per Kant
l’eticità esiste nelle idee così come la libertà, non può esistere nel mondo degli oggetti
empirici in quanto la natura sensibile dell’uomo non può mai corrispondere alla
perfezione delle idee. Non viene così però trovata una definitiva soluzione al problema
della libertà. Fichte crea, accanto al mondo empirico e al mondo della natura, il mondo
della libertà, che l’uomo si costruisce nella libertà, pensandolo e creandolo. In questo
mondo le idee vengono realizzate, esse non rimangono attaccate all’al di là, ma idea è
lo spirito che si trova nella realtà, che mediante l’uomo crea una realtà spirituale. In
questo mondo troviamo anche il mondo dell’eticità e del diritto, non solo quello
dell’esigenza etica (della morale), bensì anche quello dell’eticità realizzata. Il diritto ha
significato solo presupponendo la libertà. Verso la fine dello scorso secolo ci si è
orientati verso il naturalismo. Secondo tale filosofia la volontà era pensata
semplicemente come un processo fisico e dunque priva di ogni libertà. In quest’ottica
non poteva più parlarsi di imputabilità dell’azione, di colpa o di responsabilità e dunque
il diritto di punire non si basava più sulla giustizia, ma solamente sull’utilità. La pena
dunque, che veniva inflitta per giustizia, perde significato. La pena rappresenta la
reazione della giustizia violata riguardo all’atto e non una misura rivolta contro
l’agente. L’agente non è dunque punito perché “cattivo” ma perché è “cattivo” l’atto
che ha compiuto. Eliminando però la libertà della volontà, si elimina la possibilità di
imputare un determinato atto all’agente. L’imputabilità si ha nell’agente quando
l’agente ha coscienza dell’atto e dei suoi effetti. Per i deterministi la libertà che ha
l’uomo nel decidere di commettere o meno un delitto, è pari all’uomo che osserva la
caduta di un masso che potrebbe schiacciare o meno una capanna. Tali eventi non
possono essere paragonati, in quanto l’atto è compiuto dalla coscienza, ma non si può
dire la stessa cosa degli eventi naturali. I deterministi affermano quindi che l’uomo può
agire come vuole, ma non può volere come vuole. Volontà e azione sono però la stessa
cosa. L’indeterminismo assoluto afferma invece l’indipendenza della volontà da
qualsivoglia causalità esterna e interna in generale. L’indeterminismo relativo sostiene
che la decisione di un soggetto non sia casuale, ma condizionata da circostanze esterne
ed interne. In questo caso dunque la volontà è pensata come soggetto passivo esposto
a qualsiasi influsso, senza alcuna libertà. L’uomo può dunque agire come vuole, ma
deve volere come glielo impone una determinata situazione in base appunto al suo
carattere. Si ricadrebbe così nel determinismo. Osserviamo però che tali caratteristiche,
o meglio dire il carattere di un soggetto, non viene formato, bensì si forma in quanto è
in grado di permettere che le circostanze esterne influiscano o meno sulla sua indole.
Alla fine di questa discussione ci troviamo dunque a rifiutare sia l’indeterminismo
relativo sia il determinismo, ma ciò non deve portarci ad ammettere l’assoluta assenza
di motivi nella determinazione della volontà. La volontà è spirito, dunque gli atti da essa
compiuti si svolgono per l’azione di una volontà razionale che rende l’atto
universalmente valido, o almeno dice Kant, dovremmo agire a tal fine. Accogliamo
dunque l’indeterminismo assoluto, ma ciò non significa che la volontà sia senza motivo
e dunque priva di senso, in quanto essendo spirito attivo, la volontà e le azioni non
sono mai senza motivo. Perciò anche la decisione più irrazionale implica una certa
partecipazione della ragione, in quanto la volontà vi si determina per considerazioni di
opportunità e di interesse e dunque ogni decisione è fondata su valutazioni. Possiamo
dunque affermare che la volontà dell’uomo è assolutamente libera, essa la troviamo in
questo mondo empirico, ha esistenza e realtà nel mondo dello spirito, della cultura,
della storia, ma soprattutto nel mondo del diritto. Il concetto di legge naturale, non
contrasta come potrebbe sembrare il concetto di libertà, in quanto nella natura non
esiste libertà. Tale concetto deriva infatti da una concezione storica, secondo la quale
gli astri erano dotati di volontà. La libertà non è data, ma diviene. Dunque presupposto
della libertà del volere è l’idealismo. Il torto del determinismo quanto
dell’indeterminismo consiste nell’intendere l’opposizione di libertà e non libertà del
volere nel senso della reciproca esclusione. Ma non è così che stanno le cose. L’uomo
che è considerato dal diritto come volontà, non si trova al di là della natura, ma fa parte
di essa. Teoricamente quindi l’uomo non dovrebbe essere libero, la natura è infatti lo
spirito nel suo essere altro e non nel suo essere in possesso di sé. Dall’altra parte
abbiamo poi Dio, lo spirito assoluto, che ha superato il vincolo di qualsiasi legge. Nel
mezzo si trova l’uomo. L’uomo è dunque natura e la sua volontà è volontà naturale.
L’uomo riconosce la morale come propria universalità. Grazie alla sua razionalità
l’uomo riesce a superare le particolarità della sua volontà, volte solo al soddisfacimento
dei propri istinti e vuole l’universale. Tale è la volontà etica, nella quale l’uomo è
veramente libero. Qui l’uomo come universale non esclude la particolarità ma la
comprende. L’uomo non deve dunque sopprimere i propri impulsi che ha bisogno di
appagare in quanto essere naturale, ma deve mantenere la sua naturalità nella sua
libertà morale ed etica. In quanto libero allora l’uomo è imputabile. L’uomo deve
essersi sviluppato fino alla piena autocoscienza, deve sapere di essere “io” e
comprendere l’unità del suo particolare col suo universale, perché il suo atto possa
venirgli imputato come proprio.
CAPITOLO 3:
come già visto l’essenza della volontà è la liberta. Ora non ci resta che osservare il
motivo per cui l’essenza del diritto è la libertà. Partiamo nell’affermare che in quanto
io la volontà è anzitutto pensiero in sé e unità di universale e particolare. È io
particolare in quanto volontà finita, poiché si rivolge ad una cosa particolare, ma
sappiamo che l’io particolare è solo un caso dell’io universale. Per questo motivo
coincidono, in quanto l’io come essere particolare può volere solo il particolare, ma
riconoscendo l’universalità dell’oggetto, eleva sé stesso all’universale. Egli si conosce
come io e quindi come universale nonostante la sua particolarità e in quanto tale. In un
primo momento si crede che la volontà nella contrapposizione agli oggetti si comporti
in maniera passiva, mentre in realtà è proprio la sua attività che li produce e si indirizza
poi verso essi sotto forma ad esempio di desiderio. La volontà scegli quale desiderio
appagare, non potendoli appagare tutti insieme. Il criterio della scelta verrà tratto dalla
propria essenza. La sua essenza è l’universalità concreta. La volontà vuole infatti, sia
pure in forma di impulso e desiderio, tutto ciò che è utile alla sua vita, e cioè alla sua
universalità concreta. La realizzazione dell’impulso conduce al superamento
dell’opposizione di soggetto e oggetto. La felicità si potrebbe avere solo nel caso in cui
l’uomo riuscisse ad appagare tutti i propri desideri. L’uomo cerca dunque di appagare
quegli impulsi il cui soddisfacimento lo avvicinerà maggiormente a quello stato, così
facendo egli si eleverà al di sopra dei suoi impulsi diventando padrone di essi e
cosciente di sé. La volontà cessa con ciò di essere volontà meramente naturale e
diventa volontà morale. Tale volontà non ha ancora piena coscienza di sé, conosce la
libertà e l’universalità, ma ancora non è arrivata alla loro realizzazione. Qui la coscienza
morale si scinde dunque in volere e dovere. Il punto di vista della coscienza morale è
quello della soggettività, in quanto la volontà si sente libera dei vincoli della natura e
dagli impulsi. Ciò porta alla propria essenza, che come già detto è universalità e dunque
oggettività. La volontà morale si sviluppa quindi liberamente, giungendo alla coscienza
di sé e diventando così eticità. Dimostreremo in seguito che l’eticità è il diritto,
comprendiamo così che la morale è solo un gradino per giungere al vero diritto. La
volontà etica è infinita perché il suo oggetto è essa stessa. Il diritto ha per la coscienza
un diverso significato a seconda di quale grado si trovi la coscienza stessa. Che il diritto
sia la realtà della libertà può ammetterlo solo la coscienza che si sia elevata tanto da
poter comprendere l’unità di volontà universale e particolare. Ciò spiega perché per
molti il diritto sia l’opposto della libertà, ossia coercizione e violenza, oppure un limite
alla libertà stessa. Che cosa sia il diritto per la coscienza soggettiva del singolo, dipende
dal grado raggiunto dallo sviluppo della sua coscienza pensante. Il diritto
nell’individualismo, secondo il quale l’io rappresenta il valore assoluto, è limitazione.
Solo l’universalismo riconosce al diritto il suo diritto. Osserviamo lo sviluppo del diritto
nei 3 gradi corrispondenti al 3 gradi di sviluppo della volontà. Nel primo grado
abbiamo la coscienza individuale astratta, quella che Hegel chiama il grado del diritto
astratto. Dobbiamo quindi semplicemente osservare quale sviluppo compia il concetto
del diritto che si realizza, ossia dobbiamo acquistare coscienza dei momenti contenuti
del concetto del diritto in sé ma di cui ancora non siamo consapevoli quando pensiamo
la volontà e il diritto, perché dobbiamo ricavarli e svilupparli dal concetto. Quando
l’uomo pensa la volontà pensa a sé stesso e continuando il percorso ci rendiamo conto
che la volontà si rivolge ad una cosa particolare. Ma questa volontà particolare che
porta all’appagamento degli impulsi, rappresenta anche il soddisfacimento della sua
universalità. Essa infatti serve alla conservazione e all’incremento non solo della pura
esistenza ma anche di quella della sua famiglia, della sua classe, della sua stirpe, del suo
popolo e infine del genere umano. Perciò anche quando l’uomo conosce e vuole
soltanto la propria particolarità, è in verità la sua volontà ovvero in sé o per noi volontà
universale. Affermiamo che non esiste dunque l’individuo isolato, egli non può decidere
di rinunciare all’universale senza decidere di rinunciare alla propria essenza. L’uomo
che non comprende ancora la propria universalità è persona. Egli sa di essere un io tra
gli altri, dei quali è cosciente come se medesimo. In questo grado di coscienza, la libertà
consiste nel fare e nell’ammettere ciò che uno vuole come soggetto particolare, a patto
di non ledere quella stessa sfera di libertà spettante ad un altro soggetto. Rispetto alla
natura invece la persona si pone come il soggetto nei confronti dell’oggetto. In questo
caso si ha una relazione. La relazione in cui entra la volontà con l’oggetto è una
relazione con la cosa, la quale serve alla volontà ed ai suoi fini soggettivi: possesso e
proprietà. La volontà si pone nella cosa, ma pur in questo alienarsi rimane in possesso
di sé, rimane volontà della persona astratta e singola che in rapporto soltanto con se
medesima e vuole soltanto sé e i propri fini. Essa è costretta a relazionarsi anche con le
altre persone, dapprima negativamente, contrapponendosi come proprietario al
proprietario, affermando per sé la sua proprietà e riconoscendo l’altro come
proprietario. La persona può anche alienare la casa, concedendo ad un’altra persona di
imporre la sua volontà sulla casa. Nel reciproco contratto di alienazione la volontà
particolare positiva di una persona si unisce con la volontà particolare positiva dell’altra
diventando volontà comune. La volontà particolare esce dunque fuori dalla sua
condizione di essere fuori da ogni relazione e rivolta solo a sé stessa, ma non è ancora
universalità. In quanto volontà particolare, la volontà può dirigersi anche contro l’altra
persona, contrastando il diritto sulla cosa dell’altra persona. Si giunge in questo modo
al delitto, mentre la pena proclama la superiorità della volontà universale sulla volontà
particolare. La pena può pertanto definirsi “la conseguenza diretta del delitto”, dato
che con essa l’universale si oppone al non diritto della volontà particolare ed afferma il
diritto. Le categorie del diritto derivanti dalla volontà particolare astratta sono dunque
la persona, la proprietà, il contratto di alienazione e il non diritto. Giungiamo poi al
secondo grado. Qui la volontà, che sa di essere volontà particolare in opposizione
all’universale, che comprende questa universalità ed ha pertanto superato il grado
dell’astrattezza, è la volontà morale, e il pensiero che comprende l’antitesi di
universale e particolare nella volontà ma la mantiene senza riuscire a superarla, è il
punto di vista teoretico della moralità. Il soggetto morale non si comporta più in modo
negativo e indifferente rispetto alla persona del diritto astratto, ma entra in relazione
con essa. Sa di doversi relazionare con l’altro e che così facendo realizza la sua
universalità, la quale non è però ancora realizzata nella coscienza morale. Il soggetto,
comprendendosi come soggetto morale, non supera quindi la propria soggettività ma
viceversa la mantiene e l’accentua. Il soggetto comprende che la proprietà non serve
solamente alla conservazione della propria libertà, ma in quanto essa ha le sue radici
nell’universalità, va messa al servizio altrui. Senza dubbio io posso fare della mia
proprietà l’uso che voglio, ma devo adoperarla in modo che attraverso la mia condotta
si realizzi l’universale. Nella coscienza morale possiamo riconoscere le obbligazioni.
Questo perché il soggetto morale sa di essere soggetto individuale e autonomo di
fronte a un altro soggetto e sa di non contrapporsi a questo soggetto negativamente
ma di onorare in lui la sua stessa universalità; egli sa quindi di essere obbligato o
vincolato nella sua coscienza rispetto all’altro soggetto; sa che l’universalità del proprio
volere permane anche quando muta o dilegua la sua volontà particolare, e tale
permanenza della sua volontà universale è appunto ciò che chiamiamo obbligazione. La
libertà morale è libertà di scelta tra universale e particolare. Il soggetto morale si
accorge che deve volere ciò che razionalmente anche gli altri devono volere, deve dare
ai suoi fini particolari una forma tale che devono essere voluti anche dagli altri, così che
hanno diritto nella loro universalità. La volontà soggettiva ha il diritto se, nella sua
soggettività, è al tempo stesso oggettivamente giusta. Il soggetto morale agisce, cioè
traduce in fatto la sua soggettività. Egli riconosce sé e dunque si riconosce come autore
dell’atto e delle conseguenze. Quindi la coscienza morale è altresì il presupposto della
categoria dell’imputabilità. Come soggetto morale, come volontà soggettiva nel suo
essere per sé, la volontà cerca di soddisfare i suoi impulsi e desideri soggettivi, i suoi fini
e le sue intenzioni. Deve però scegliere come già si è detto quali impulsi appagare e la
sua razionalità è cioè la sua universalità la portano a riconoscere che anche questo
relativo appagamento urta nell’uguale diritto degli altri soggetti morali, i quali fanno
anch’essi valere e affermano questo diritto, che in tal diritto si fa valere la sua stessa
universalità di fronte alla sua mera soggettività. La soggettività non si dissolve
nell’universalità, ma conserva il proprio diritto. Il soggetto comprende dunque che deve
capire l’oggettivo e l’universale per far si che la sua soggettività sia fondata. Tale è il
terzo grado, il grado dell’etica. Vediamo ora come l’etica sia appunto diritto. Non
cerchiamo una definizione di diritto, in quanto il compito della filosofica del diritto è
quello di far sviluppare il concetto di diritto e non di darne una definizione. Chiariamo
che parliamo di eventi giuridici solo quando possiamo parlare di volontà universale. Si è
discusso anche se al diritto appartenga in modo essenziale la coazione, ovvero il ricorso
alla violenza volto a inibire l’altrui libertà di azione. Si è giunti alla conclusione che la
coazione nei casi in cui opera è l’essenza naturale del diritto, quando manca va invece
fondata tale mancanza all’essenza del diritto. L’ordinamento giuridico procede nei
confronti delle volontà particolari in alcuni casi con pene, anche molto dure, mentre
altre volte rinuncia all’utilizzo di tali mezzi coattivi. L’uomo è portato a pensare a cosa
succederebbe se ad esempio l’omicidio non fosse punito con la pena. La pena non è
relativamente necessaria ad un solo fine, è bensì assolutamente necessaria, in quanto è
il risultato necessario del concetto del diritto. La pena si applica non perché altrimenti
non sarebbe possibile la società civile o perché altrimenti il mondo andrebbe a rotoli,
ma perché senza il diritto e senza la pena nel mondo non esisterebbero in generale la
ragione e lo spirito. Il diritto è dunque conseguenza necessaria della libera volontà. Essa
è necessità in quanto necessità della volontà universale.
CAPITOLO 4:
il diritto che conosciamo grazie allo sviluppo della coscienza, non è un diritto ideale in
cui lo spirito debba trovare scampo dall’imperfezione umana, bensì è questo stesso
diritto umano che gli uomini in generale ed i giuristi in particolare sanno e riconoscono
come diritto, quello che, in quanto appartiene alla realtà storica, in quanto parte della
realtà, può essere oggetto di indagine filosofica. Esso appartiene dunque al mondo
reale, in quanto abbiamo riconosciuto che esso è manifestazione dello spirito che si
manifesta in esso e viene chiamato idea. Per Kant invece il diritto è pura idea, ed idea e
realtà sono separate. Per noi invece l’idea è reale nel suo oggetto e per questo il diritto
come idea non ha altro significato se non appunto quello di essere rappresentato e
realizzato nel diritto empirico e in quanto tale. Tale diritto noi lo chiamiamo diritto
positivo, in quanto viene compreso da noi come posto per opera della volontà umana,
esso è cioè posto per un atto cosciente del pensiero. Questa positività si esplicita
mediante la legge e mediante l’attività diretta della volontà comune nella pratica della
vita quotidiana. La positività ci fa giungere alla consapevolezza che il diritto non è
qualcosa di inerte o senza spirito, ma appartiene allo spirito che in quanto tale deve
svilupparsi. In tale ottica dunque, viene rifiutato il diritto consuetudinario, in quanto le
sue norme come dice Hegel sono conosciute in maniera soggettiva e accidentale e per
questo non è ancora giunto al grado cosciente della positività. In quanto è tale volontà
oggettivamente divenuta e determinata, il diritto è valido. La positività è dunque un
presupposto della sua validità. Quindi la positività del diritto significa soltanto un
presupposto della sua validità che consiste nel fatto che esso è conosciuto, considerato
e applicato come diritto. È implicito nel concetto del diritto in sé che si sviluppi da un
concetto meramente astratto a concetto concreto e giunga alla validità, si è per noi
rivelata assurda l’opinione che la validità del diritto si trovi al di fuori del suo concetto.
Il diritto può essere conosciuto e realizzato in quanto valido, e non può esser
conosciuto né compreso se non come diritto vigente. La realtà del diritto è validità.
Comprendiamo il significato di essere valido. Qualcosa di valido è qualcosa che è
confermato o riconosciuto dalla ragione pensante. La vera validità è l’unità della
soggettività e dell’oggettività, validità vera è quella di un giudizio, del quale il soggetto,
in virtù della sua razionalità, è in grado di conoscere e conoscere l’oggettiva verità. La
dialettica della sua validità segue la dialettica del diritto. Riprendendo i 3 gradi della
soggettività, della morale e dell’etica, affermiamo che nella prima fase, il diritto è una
forza estranea di fronte alla quale la volontà soggettiva si sente sottomessa e dunque
qui la validità coincide con l’attuabilità, dunque con la semplice messa in atto del
diritto. Per la volontà morale il diritto è l’oggettività della ragione che si fa valere in essa
come esigenza, mentre per la volontà etica, è la perfetta unità della sua soggettività
con la sua oggettività, unità di volontà universale e particolare, secondo lo sviluppo che
abbiamo seguito nella dialettica del concetto del diritto. Dunque per la coscienza etica,
la coattività rappresenta la sottomissione della sua soggettività astratta all’obbiettività
universale del diritto. Il riconoscimento del diritto da parte dei soggetti giuridici non
può essere interpretato come fatto psicologico, bensì che tale riconoscimento è una
categoria della coscienza pratica e rientra nell’ambito dello spirito, cioè della ragione
pensante e volente che diviene cosciente di sé nella soggettività del pensiero e
dell’azione umana. L’uomo non può negare il diritto, perché questo è la sua stessa
ragione, la sua essenza, la sua libertà, perché, negando il diritto in quanto verità e
libertà della propria volontà, negherebbe se medesimo. Discutiamo ora il problema del
fondamento della validità del diritto. Tale domanda avrebbe senso solo se il diritto si
contrapponesse come qualcosa di altro. Il diritto è valido proprio perché è diritto. Il
contenuto della legge è valido solo quando è diritto, ossia quando può essere compreso
come conforme al concetto sviluppato del diritto, come concetto realizzato del diritto.
Quindi la validità del diritto è la coscienza, da parte della comunità come del singolo,
del vincolo attraverso il diritto, come realizzazione del concetto del diritto. La legge nel
suo contenuto può essere diversa da ciò che è in sé il diritto, questo perché essendo la
materia dell’ordinamento giuridico la particolarità, è possibile che la volontà che si
manifesta sottoforma di legislazione sia particolare e non universale. La legge,
nonostante la necessaria particolarità dei suoi contenuti, deve essere volontà
universale per essere diritto. Non bisogna però creare una distinzione tra validità ideale
dell’idea del diritto e validità reale del diritto positivo. L’idea è infatti la potenza che dà
forma alla realtà, è lo spirito che si realizza nella realtà e come tale. Le creazioni
dell’uomo sono valide in quanto realizzano il loro concetto di spirito. Neppure la
questione del fondamento della validità del diritto conserva il suo significato. La
ragione, per cui il diritto si fa diritto e dalla quale è condizionata la sua validità, è il
diritto stesso che porta interamente in sé il fondamento della sua validità. Non è quindi
dal predominio di un’idea etica situata al di là del diritto che può prendere la validità
del diritto. Il diritto perciò non è esso stesso etico, ma è un mezzo dato all’individuo
umano per rendere possibile una vita etica. La vita etica dell’uomo infatti non è vita
individuale ma vita sociale, un essere etico è possibile all’uomo solo in quanto comunità
e nella comunità. Se collochiamo però il diritto nel dominio dell’etica e neghiamo che
esso sia essenzialmente etico, torniamo al problema su cosa sia il diritto positivo.
Dunque il diritto è l’eticità stessa e non soltanto un mezzo per rendere possibile la vita
etica, è la libertà reale e l’unica possibilità della libertà. Inoltre affermiamo che soltanto
la volontà razionale, quella etica, può creare il diritto e non l’arbitrio del legislatore. Il
giudice per stabilire la validità delle leggi deve comprendere il diritto nella sua
particolarità temporale e nazionale in quanto realizzazione del suo contesto, e quindi
deve esaminare e risolvere la questione della sua validità alla luce di questa sua
condizione temporale e nazionale. Per essere diritto, le norme devono quindi sempre
inserirsi nella totalità dell’esistente ordinamento giuridico storicamente condizionato e
rivelarsi quali realizzazioni del concetto del diritto per opera dello spirito individuale di
un popolo. Il legislatore nell’emanare leggi deve mettersi al livello della civiltà in cui
opera, affinché le leggi siano espressione dello spirito oggettivo e dunque diritto.
Pertanto istituzioni che sono contrarie alla nostra coscienza etica possono essere
eticamente necessarie in un determinato grado di civiltà e per lo spirito di un
determinato popolo (come ad esempio la schiavitù).
CAPITOLO 5:
per il pensiero contemporaneo la giustizia non è più, come per la filosofia antica, la
virtù fondamentale, alla base di ogni realtà politica e giuridica in quanto potenza
spirituale che la condiziona, la forma e la vivifica, bensì è una semplice idea priva di
realtà, appartenente al mondo dei puri valori. L’idealismo invece dà alla giustizia una
realtà e chiama giusta una legge che realizza il concetto del diritto e giusta una
sentenza che corrisponde a questo concetto del diritto realizzato nella legge. Ciò che è
diritto è giusto. Abbiamo poi l’equità, la quale esprime un rapporto con la particolarità
e il carattere specifico del caso singolo. Apparentemente l’equità si contrappone perciò
al diritto. Essa ha il significato di un’esigenza posta dalla coscienza giuridica al diritto
positivo al fine di non sopprimere nell’uguaglianza della norma la particolarità del caso
singolo.