Lezioni Di Pedagogia Fondamentale

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•LEZIONI DI PEDAGOGIA FONDAMENTALE•

1. L’educazione: Una Mappa Storica E Geografica


L’educazione è un fenomeno che non può essere compreso al di fuori delle coordinate dello spazio
e del tempo entro cui da sempre essa si concretizza. Ogni società umana ha prodotto una cultura,
ovvero, come suggerisce l’antropologia, un sistema di valori, comportamenti, norme, simboli che
per essere trasmessi, conservati e/o rinnovati, hanno reso necessaria l’educazione. È stata così
assicurata la continuità tra le generazioni, introducendo i più giovani alla cultura di appartenenza
messa a loro disposizione, fatta propria, utilizzata, elaborata in alcuni casi trasformata. Per
comprendere il ruolo dell’educazione, pensata come fenomeno umano e universale, è necessario
avviare una prima indagine, chiamata empirico-storica. Si tratta, di individuare le molte educazioni
cui il genere umano ha dato vita nel corso della sua evoluzione.

1.1. L’educazione della preistoria: le civiltà orali

L’educazione intesa come cura e allevamento dei bambini in quanto nuovi membri di una
comunità è presente sin dalla preistoria presso le civiltà orali (20.000 – 5.000 a.C.). Si trattava di
popoli nomadi e seminomadi che prediligevano un’educazione naturale e spontanea, basata sul
linguaggio e sull’imitazione, che prevedeva la partecipazione di tutti alla vita del gruppo sociale. Il
suo obiettivo principale era la conservazione e la trasmissione della cultura delle generazioni
precedenti, in modo da garantire il passaggio diretto di valori, regole, modi di vita.
Come avveniva (e avviene tuttora) in alcune aree del continente africano, l’educazione orale
aveva un carattere di tipo comunitario: la comunità del villaggio era come un’unica
famiglia, dove ognuno rappresentava una risorsa educativa per il bambino, il quale aveva degli
obblighi nei loro confronti sin quando l’iniziazione avrebbe segnato la fine dell’infanzia e
l’ingresso nell’età adulta. Il processo educativo consisteva in un iter di socializzazione basato
sulla conformazione, poiché mirava ad integrare gli individui nelle norme e nei valori della
comunità del villaggio, favorendo la coesione e la solidarietà.

1.2. Le prime civiltà della scrittura e la nascita dell’educazione formale

Dal 5.000 al 3.000 a.C. s diffuse l’uso della scrittura, destinata a cambiare le forme e i modi
dell’educazione. Nasceva difatti un’educazione di tipo formale, affidata a sacerdoti e scribi,
destinati ai ceti elevati ed impartita in luoghi predisposti per la trasmissione dell’arte della
scrittura; mentre per i ceti più umili era sufficiente un’educazione informale affidata alla famiglia.
Quella degli scribi era un’educazione basata su un modello autoritario, che includeva castighi e
punizioni corporali come metodi affinché gli educandi accettassero la disciplina nei contenuti
trasmessi e nei comportamenti richiesti.

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In particolare, ciò che caratterizza le differenti educazioni della prima civiltà è un modello
educativo rigido e autoritario, basato su metodi di studio mnemonici e coerente con un certo
immobilismo sociale, presente anche nelle civiltà precolombiane e nelle culture asiatiche, in
particolare India, Cina e Giappone.

1.3. L’educazione nel mondo antico: i Greci e i Romani

Il processo educativo avviato dai primi fautori della scrittura conobbe il suo grande sviluppo grazie
ai Greci, che elaborarono forme e modi di educazione destinati a influenzare tutta la cultura
occidentale. In particolare dal VII secolo, con l’affermarsi e il diffondersi della polis in gran parte
del Mediterraneo, l’educazione fu strettamente collegata alle questioni di ordine politico e sociale,
anche se è bene ricordare che fra le poleis vi furono significative differenze: quella spartana ad
esempio, fu un’educazione di stato e prevalentemente guerriera, basata sull’addestramento
militare dei giovani e poco interessata alla conoscenza della scrittura. Questo modello, basato
sulla

statalizzazione dell’educazione e dell’individuo, non ebbe alcuna diffusione nel resto della
Grecia: si pensi al modello proposto da Atene, che all’educazione del guerriero preferì la
formazione del cittadino, da cui erano escluse le femmine. Le fonti classiche ci consegnano
l’immagine di una società consapevole dell’importanza dell’educazione ai valori collettivi e del
ruolo assegnato alla cultura: è da questa consapevolezza che tra il V e il IV secolo nacque il
concetto di paideia, formazione integrale dell’uomo e del cittadino, destinato a una lunghissima
durata e rielaborato nel corso dei secoli.
La paideia greca si diffuse in tutta l’area mediterranea ed orientale e, infine, anche a
Roma, acquistando il carattere di una formazione generale che comprendeva, oltre agli studi
umanistici, anche quelli scientifici.
Nell’antica Roma – a seguito delle numerose campagne di conquista condotte dalla capitale –
l’educazione risentì dell’influenza del modello ellenistico. Infatti se nel periodo monarchico (753 –
509 a.C.) l’educazione si rifaceva ai principi del mos maiorum e durante la Repubblica (509 – 31
a.C.) era incentrata sulla famiglia e sulla figura del pater familias, con l’Impero (31 a.C. – 476
d.C.) si allargò l’intervento dello Stato in campo educativo allo scopo di diffondere i valori della
romanità. In età imperiale lo Stato si fece sempre più attento al controllo e all’incremento
dell’istruzione allo scopo di favorire una coesione culturale all’interno dell’Impero.

1.4. L’educazione cristiana dalla tarda antichità al medioevo

Il declino dell’Impero romano d’Occidente nel 476 d.C. coincise con l’avvento e la diffusione del
Cristianesimo, che propose un modello educativo proprio rivolto a bambini e adulti da parte
prima di persone che si improvvisavano maestri, poi di sacerdoti. L’istruzione – che aveva come
finalità la salvezza dell’anima – consisteva nella lettura di testi sacri e nell’esercizio delle virtù

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cristiane.
Con l’affermarsi dei regni romano-barbarici, nell’Alto Medioevo l’educazione venne affidata
principalmente alla Chiesa: le scholae monastiche divennero depositarie del sapere e
dell’istruzione in Occidente. A questo proposito la Regula Magistri di San Benedetto da Norcia è
un documento molto importante dal punto di vista educativo, perché vi vengono fissate le norme
relative alla formazione dei novizi e dei giovani accolti nelle scholae del monastero.
Anche Carlo Magno aveva dato vita ad una rinascita culturale: egli fondò la scuola palatina,
destinata all’educazione dei figli della nobiltà laica, e le scuole urbane, con l’obiettivo di una
maggiore alfabetizzazione della popolazione.
Se l’educazione altomedievale era organizzata in forme diverse e contrapposte (formale e
raffinata
per i ceti aristocratici, orale e legata all’immaginario quella popolare), nel basso medioevo
invece
l’educazione subì una profonda trasformazione in direzione borghese, dando vita a strutture
educative di lunga durata come le università, le botteghe e la famiglia come primo luogo
educativo, aspetto che avrebbe caratterizzato l’età moderna.

1.5. L’educazione islamica

Altro modello educativo importante da analizzare è quello islamico, finalizzato alla conoscenza
del Corano. La formazione era in primo luogo affidata alla famiglia, considerata il primo ambiente
educativo dove il bambino apprendeva le norme di base della società, le tradizioni, gli usi, i
costumi, il rispetto per Allah, per i genitori, per gli antenati. Si trattava di un’educazione informale,
religiosa, morale, sociale, affidata all’oralità alle esperienze di vita familiare, al racconto di fiabe.
Al compimento dei 7 anni di et per i piccoli discenti iniziava l’istruzione di base, che durava sino ai
12 anni e riservata unicamente ai maschi. Le scuole inferiori si occupavano di impartire
un’istruzione essenzialmente mnemonica, mentre l’istruzione superiore, dai 13 ai 18 anni, veniva
impartita prima nelle moschee e poi nelle madrase, dove si insegnavano scienze coraniche,
giurisprudenza, teologia, filosofia e retorica.

1.6. L’ascesa dell’Occidente: l’educazione della modernità all’età contemporanea

L’educazione occidentale europea visse nell’età moderna (1492 – 1789) una vera a propria
rivoluzione: con l’Umanesimo e il Rinascimento cambiarono i fini dell’educazione, che venivano
ora rivolti al modello già classico di homo faber, di un soggetto attivo nella società e capace di
trasformarla; ma cambiarono anche i mezzi educativi e nacquero nuove istituzioni accanto alla
famiglia e alla Chiesa. Inoltre scuola e famiglia acquisirono sempre più importanza, perché
investite di un compito che non era più solo di cura ed istruzione, ma anche di formazione
personale e sociale. La famiglia si caratterizzò sempre più come nucleare e fu coinvolta

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nell’educazione del bambino in modo del tutto nuovo, sviluppando un’inedita sensibilità affettiva
nei suoi confronti ed elaborando un sistema di controllo e di cura atto a conformarlo a un ideale.
Se la famiglia preparava i figli alla vita, la scuola invece svolgeva una funzione correttiva,
diventando apparato di Stato.
Fra il XIX e il XX sec d.C. le forme e i metodi educativi subirono significativi cambiamenti, a
causa della Rivoluzione Industriale: in Europa la crescita urbana, l’industrializzazione e
l’affermarsi della borghesia come protagonista indiscussa favorirono una nuova espansione della
scuola e una maggiore importanza dell’istruzione che limitava i compiti educativi della famiglia
affidandosi sempre più allo Stato. Nella seconda metà del Novecento, gli spazi e i tempi
dell’educazione si sono allargati: insieme all’educazione formale, vissuta in tempi e luoghi
istituzionalizzati come la scuola e l’università, si è diffusa sempre più un’educazione informale
svolta dalla famiglia, dall’ambiente, dalle associazioni, dal lavoro, dai media.

Oggi, nel terzo millennio, da più parti si riconosce una diffusa “povertà educativa” e una crisi
mondiale dell’apprendimento: circa 57 milioni di bambini e bambine nel mondo non hanno
accesso all’istruzione e 250 milioni non hanno la possibilità di maturare nemmeno le
competenze di base di alfabetizzazione. Ciò avviene sia in Paesi industrializzati che in quelli in
via di sviluppo; in quest’ultimo caso talvolta l’educazione viene affidata a una cultura orale
trasmissiva e coercitiva.

2. Le “Emergenze” dell’educazione contemporanea


La ricognizione empirico-storica, chiede di essere approfondita cominciando a osservare
principalmente l’educazione nella società contemporanea. Lo scopo principale è quindi quello di
determinare gli specifici bisogni educativi che nell’epoca contemporanea assumono un carattere di
maggiore emergenza rispetto ad altri. Per procedere in questo senso, dobbiamo muoverci verso la
descrizione di una serie di fenomeni che si presentano con una certa evidenza, assumendo un
carattere ricorrente e/o addirittura dominante, tanto che si sente autorizzato ad esprimere la
propria opinione sui fenomeni in questione.

2.1. Tra immagine e comunicazione


Le società post-industriali vengono definite società dell’immagine. Molti studi sociologici
rintracciano nei media e nella pubblicità i maggiori promotori di questa forma espressiva (quella
visiva, appunto) che sta assumendo i caratteri di un nuovo orizzonte culturale. L’informazione, nel
corso della comunicazione, va smarrendo il suo contenuto verbale; l’immagine non è più utilizzata
come ausilio al contenuto del messaggio, ma diventa essa stessa il messaggio. Sembra allora
che un evento non esista se non può essere corredato da immagini: sempre più spesso il
mostrare prende il posto del dimostrare.

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Un altro aspetto delle società post-industriali, in qualche modo legato alla velocità del flusso delle
immagini pubblicitarie, è la velocità nei consumi: sembra prevalere un “bisogno” quasi compulsivo
di consumare, gettare via e riacquistare, alla ricerca costante di un godimento effimero attraverso
gli oggetti.
Inoltre è avvertita diffusamente la pressione, quasi il soffocamento, dovuto ad una costante
mancanza di tempo in tutte le attività che si svolgono durante il giorno. Assistiamo quindi, ad un
accreditamento culturale della velocità come valore primario, alla dominanza della cultura della
fretta, ma anche della cogenza del principio dell’immediatezza e del piacere.

2.2. Il bambino “adorato”

Di fronte a questi profondi cambiamenti, le indagini psico-sociali mostrano come i bambini e le


bambine di oggi siano sempre più soli: le reti orizzontali, cioè le possibilità di rapporti fra pari, si
sono impoverite e la maggiore differenza di età fra genitori e figli ha cambiato la configurazione
anche delle reti verticali e a questo si accompagna un’instabilità dei nuclei familiari.
La solitudine e la non comunicazione sono avvertite anche pure fra le famiglie stesse. Queste si
sentono poco supportate nella loro funzione genitoriale e sono sempre più schiacciate da tempi di
vita pressanti che hanno quasi del tutto annullato i rapporti di vicinato e la possibilità di una
condivisione delle problematiche educative.
Inoltre il controllo della procreazione, insieme alla scelta e alla programmazione del momento
in cui avere un bambino e di come averlo, hanno creato un figlio più adorato che amato.
Assistiamo ad una vera e propria mitizzazione dell’infanzia, che ha trasformato il senso strutturale
della famiglia rispetto al passato, comportando una rivoluzione antropologica: oggi gli adulti si
vedono attraverso i bambini, si proiettano in loro. Nelle nuove “famiglie affettive”, è il figlio che fa
la famiglia, non il contrario.
Nella vita quotidiana, questa regalità si traduce, in primo luogo, in bambini carichi di impegni che
qualcun altro ha già preso per loro. Naturalmente senza che il reale desiderio di creatività
del bambino venga realmente ascoltato e, quindi, lasciato libero di esprimersi in giochi poco

strutturati o negoziati tra pari, così importanti per lo sviluppo del pensiero e della socialità.
In secondo luogo, la regalità del bambino sovrano è uno dei fattori all’origine di un rifiuto da parte
della famiglia di imporgli qualsiasi forma di norma, confine, limite e differenza. Tale cambiamento
nell’educazione si lega ad una trasformazione dei ruoli genitoriali in direzione di una conflittualità
intergenerazionale sempre più ridotta: anche il senso comune percepisce con evidenza
l’avvenuto slittamento dalla “famiglia normativa” all’attuale “famiglia affettiva”.

2.3. Preadolescenza, adolescenza e post-adolescenza: perché si è rotto il patto tra le generazioni

L’adolescenza, come moratoria psico-sociale o tempo di latenza, non è affatto un periodo della

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vita riconosciuto in tutte le culture e, sicuramente, non lo era in passato. L’adolescenza è


un’invenzione del XIX secolo e nasce contestualmente alla società industriale, che consente ai
bambini e ai giovani più lunghi periodi di scolarizzazione e formazione, rendendo più prolungata e
complessa la transizione all’età adulta. Successivamente, con l’avvento della psicoanalisi,
l’adolescenza verrà considerata una vera e propria fase “psicopatologica”. Quello a cui assistiamo
oggi, nelle società occidentali, è un tempo dell’adolescenza che si sta allungando sempre più: un
prolungamento di almeno una decina d’anni, che viene definita post-adolescenza. Con questa
espressione non si allude ad una fase successiva all’adolescenza, ma ad un periodo in cui questa
si protrae in quanto alcuni compiti di sviluppo tipici dell’adolescenza non sono stati assolti. Fra
questi, la costruzione della propria identità, la conquista dell’indipendenza dalle figure genitoriali e
la creazione di relazioni sociali ed intime più mature. Poiché l’adolescenza sembra allungarsi
sempre più, negli studi più recenti sul tema si nota un proliferare di termini che la definiscono
senza circoscriverla: adolescenza lunga, adolescenza prolungata, età del labirinto, generazione
non desiderante. Si parla inoltre di generazione degli sdraiati o all’opposto di generazione
mongolfiera, che sembra galleggiare nel tempo senza avere alcuna fretta di atterrare.
Ma va inoltre osservato che, insieme a questa adolescenza quasi evanescente, i genitori hanno
modificato sostanzialmente i sistemi di rappresentazione delle funzioni genitoriali nei confronti dei
loro figli adolescenti. Mi riferisco all’assunzione di un modello educativo quasi esclusivamente
affettivo, che ha soppiantato quello etico-normativo. È qui riconoscibile un desiderio genitoriale di
perpetuare la protezione e la dipendenza dei figli, anziché promuovere e favorire la loro
autonomia e indipendenza; i figli vengono “protetti” dalla fatica dell’individualizzazione, unica via
per un’autentica separazione. Sembra quindi che l’adolescenza sia caratterizzata da un
narcisismo alimentato da una cultura dell’immagine e da genitori estremamente protettivi che
basano la relazione educativa sull’affettività.

Nonostante questa vicinanza affettiva si parla di una “rottura” del patto tra le generazioni, da
attribuire all’incertezza dei confini che dovrebbero separare e distinguere una generazione
dall’altra. Infatti, nell’apparire adolescenti giovani e adulti si vedono più somiglianze che
differenze: non si registrano discontinuità esperienziali fra una generazione e l’altra. Quanto però
– in un apparente paradosso – emerge dalle parole di molti genitori “affettivi” è una profonda crisi
del dialogo intergenerazionale, di cui non riescono a vedere le ragioni. Una crisi che,
diversamente dal passato, non si manifesta in un conflitto, in una ribellione, ma in una sorta di
tregua, di reciproca rassegnazione.
Per i genitori, esercitare la propria autorevolezza è vissuto come un tentativo di limitare la
libertà del figlio in crescita, evitando così il più possibile di entrare in conflitto con lui, perché il
conflitto è percepito come un segno del proprio fallimento come genitori. Nasce così quella che è
stata definita famiglia negoziale, cioè un sistema familiare caratterizzato da una contrattazione
continua fra genitore e figlio. Nonostante questa negoziazione continua e l’apparente assenza di
discontinuità generazionale, assistiamo a forme di totale incomunicabilità.

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2.4. Frammentazione del lavoro, famiglia lunga impegno nel volontariato

La società contemporanea sta attraversando una serie di trasformazioni specie per ciò che
concerne l’aspetto economico; quanto detto non può che aver influenzato – e influenzare tuttora
– tutte le sfere della vita, soprattutto dei più giovani.
La disoccupazione giovanile si alterna spesso con l’occupazione a tempo determinato,
comportando un avvicendarsi di fasi lavorative e periodi di disoccupazione. Ciò testimonia una
condizione di incertezza generale che non riguarda unicamente l’inserimento lavorativo, ma
anche la possibilità di mantenere il lavoro nel tempo. Quanto appena detto si ripercuote sul
significato simbolico attribuito al lavoro: non si tratta più di un passaggio definitivo che connota e
segna (insieme ad altri) l’ingresso nell’età adulta.
La popolazione italiana si caratterizza inoltre per la più alta percentuale di Neet in Europa; si
tratta di giovani che non studiano e non lavorano. Campania e Sicilia sono le regioni con le quote
più elevate, superiori al 35%. Inoltre va sottolineato che l’incidenza dei Neet è per i ragazzi
stranieri ancor più accentuata che per gli italiani.
La maggior parte dei Neet si dichiara poco disponibile ad impegnarsi in talune attività lavorative
o lo è solo ad alcune condizioni. Se, da un lato, si evince una sfiducia che rende difficile
pensare ad un cambiamento possibile, dall’altro emerge l’esigenza di una maggiore realizzazione
che si orienta più verso la vita privata e si concretizza nella relazione con la famiglia d’origine.

In risposta ai cambiamenti socio-economici, fonte di profonda incertezza, si registrano un


aumento della sfiducia nel futuro, percepito come una minaccia e non più come una promessa, e
una lettura pessimistica della realtà come tratto caratterizzante della condizione giovanile.
Così sembra che a mitigare questo quadro di incertezza rimanga ancora centrale la funzione di
“rifugio” della famiglia d’origine nella vita del giovane adulto; la famiglia infatti, oggi più che mai, si
configura come unico riferimento sicuro, non solo come supporto per le difficoltà di inserimento
nel mondo del lavoro ma anche come fonte di sostegno da un punto di vista emotivo-affettivo, E’
il fenomeno, tipicamente italiano, della famiglia lunga: il clima di armonia che si respira in
famiglia restituisce ai figli una condizione di benessere difficile da abbandonare perché
contrapposto ad un clima sociale fortemente instabile e insicuro; così, sempre più
frequentemente, la transizione all’età adulta avviene all’interno della famiglia d’origine.
A fronte di questo quadro relativo ai dati sulla condizione giovanile in Italia, ce ne sono altri di
segno opposto. Un esempio concreto è rappresentato dal volontariato, che presenta un trend in
crescita. È cambiata negli anni la concezione del volontariato negli under 30, che non lo
concepiscono solo come rimozione del bisogno o del disagio altrui, ma lo vivono come una
forma di cittadinanza attiva legata ad una più ampia responsabilità solidale. Il volontariato, con il
suo grado di apertura all’altro e la sua carica rigenerativa, rappresenta un’esperienza che può
sostenere il processo di costruzione dell’identità sociale e civica e può costruire, insieme alla vita

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familiare un nodo fondamentale della rete relazionale in cui i giovani possono inserirsi. Le
motivazioni prevalenti di questo tipo di scelte pro-sociali sono legate a un bisogno di crescita
personale, a bisogni relazionali, all’influenza della famiglia d’origine e del contesto sociale
d’appartenenza.

2.5. Cambiamenti della famiglia


La precarietà lavorativa sembra legarsi anche ad altri cambiamenti rilevanti. Si parla oggi anche
di una precarietà affettiva: molti giovani adulti lamentano di non riuscire a progettare una vita in
coppia né tanto meno a coltivare l’idea di diventare genitori. Assistiamo quindi a un progressivo
calo delle nascite che nel 2013 ha toccato il punto più basso nella storia della Repubblica italiana;
solo la presenza di donne e famiglie migranti influenza sensibilmente una ripresa demografica nel
nostro Paese.
Il “costo del figli” cui spesso alludono molti giovani non è solo di natura economica: le motivazioni
interiori sono molto più profonde e si riferiscono al costo emotivo di una scelta irreversibile, più
che di una sostenibilità materiale. Intimorisce l’idea che la transizione genitoriale pare, almeno in
modo più evidente, l’unica da cui non si possa recedere.
Inoltre, al fenomeno della famiglia lunga e alla procrastinazione della transizione genitoriale, si
aggiungono altri cambiamenti che interessano la famiglia: il matrimonio non è più una
scelta

prevalente e si assiste ad una pluralizzazione delle forme familiari. La vita di coppia ha


assunto delle forme sempre meno ritualizzate e più de-istituzionalizzate: sono in aumento le
convivenze e le coppie di fatto, che attualmente costituiscono il 20% delle coppie italiane.
I cambiamenti più evidenti, che coinvolgono l’istituto del matrimonio, sono rintracciabili nella
riduzione delle prime nozze, nell’aumento delle seconde e delle successive, in una crescita della
scelta della convivenza e in un aumento delle separazioni e dei divorzi.
Questa pluralizzazione delle forme familiari ha modificato anche un vocabolario essenziale in cui
parole come “famiglia” e “amore” non hanno più un significato univoco per tutti, ma assumono un
senso differente per ciascuno, indebolendo i valori che a tali parole si associano. Tuttavia, davanti
a una deriva de-generativa, confermata anche dall’aumento del numero di coppie che sceglie di
non avere figli (coppie Childfree), assistiamo a nuove forme di generatività sociale: il riferimento è
a quelle coppie che, non potendo generare figli, intraprendono percorsi adottivi internazionali,
scegliendo forme di genitorialità consapevole nella prospettiva di un impegno educativo evidente.

2.6. Cambiamenti della scuola

È inoltre possibile constatare una trasformazione della scuola nella stessa direzione di quella
descritta per la famiglia, nel senso che entrambe sembrano aver perso un valore simbolico chiaro

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e condiviso; tale perdita sembra aver spezzato il patto di alleanza tra le due principali agenzie
educative e, ancora una volta, aver rotto la trasmissione educativa tra le generazioni. I genitori si
alleano con i figli e lasciano gli insegnanti nella più totale solitudine, a rappresentare quel che
resta della differenza generazionale e del compito educativo. Molti insegnanti, nell’assumere una
funzione educativa, sentono svalutato il loro ruolo professionale proprio dai genitori degli alunni:
si è rotta una condivisione educativa che in passato vedeva una sinergia di intenti nei genitori e
negli insegnanti.
Alcune ricerche mostrano come le rappresentazioni che gli insegnanti hanno dei genitori riportino
ad un’idea di “utenti incompetenti” e ad una tipologia di famiglia che richiama aspettative legate
ad un’immagine tradizionale. D’altra parte, la scuola viene accusata dalle famiglie di non essere
più in grado di preparare i giovani alla vita e, pertanto, di essere venuta meno al suo mandato,
risultando inadeguata rispetto alle trasformazioni in termini di conoscenze e competenze.

2.6.1. Il fenomeno migratorio degli alunni stranieri

La popolazione dei residenti stranieri in Italia al primo gennaio 2015 è di oltre cinque milioni; in
particolare, se ci riferiamo ai minori, il totale si aggira intorno ai 900.000. Diminuisce invece dello
0,6% la popolazione di alunni italiani.
I giovani immigrati riportano risultati scolastici peggiori rispetto agli studenti italiani e smettono di
andare a scuola prima, soprattutto se arrivati in Italia in età avanzata. I ragazzi stranieri cresciuti
in Italia presentano delle caratteristiche diverse rispetto a quelli giunti nel nostro paese ad un’età

maggiore; in particolare i primi sono più simili agli italiani appartenenti al loro ceto sociale
piuttosto che ai loro connazionali giunti in Italia in un secondo momento. Tra i minori trasferitisi in
Italia a più di dieci anni di età la proporzione di ritardo scolastico è di oltre il 70%.
Le ricerche sottolineano come l’elaborazione della propria identità sia più problematica per i
minori giunti in Italia già adolescenti, rispetto ai figli di immigrati nati in Italia o a quelli giunti
durante la prima infanzia. Quando vengono analizzate le problematiche relative alla
socializzazione nel paese ospitante e all’inserimento scolastico dei minori stranieri, si parte dalla
premessa che l’identità dei figli degli immigrati si sviluppi su basi etniche, anche se questi
ragazzi in realtà non sono portatori di un’identità etnica così specifica e definita. A fronte di
queste osservazioni nella scuola italiana è una prassi ormai consolidata e generalizzata quella di
inserire i minori stranieri in una o più classi indietro rispetto a quella che dovrebbero frequentare
in relazione all’età anagrafica. L’adozione indiscriminata di questa pratica diventa spesso il primo
passo verso una marginalizzazione e un senso di frustrazione dei ragazzi che desiderano
concludere prima possibile il periodo scolastico.
A ciò si aggiunge la tendenza ad attribuire erroneamente a deficit della persona quelle che,
invece, possono essere difficoltà di carattere linguistico. Così il ritardo accumulato porta ad una
sottovalutazione delle proprie capacità e spinge all’abbandono degli studi.

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Un rischio sempre più reale è quello di creare classi o interi istituti scolastici “polarizzati”: si
corre il pericolo di creare delle “scuole-ghetto”, dove l’idea di un’integrazione non è più pensabile,
in quanto contemporaneamente si verifica in queste scuole un ritiro dei propri figli da parte delle
famiglie italiane, con conseguente rischio di marginalizzazione.
Inoltre oggi viene richiamato spesso il concetto di “inclusione”, che descrive il processo per cui la
scuola cerca di rispondere agli alunni come persone, riconsiderando la sua organizzazione e la
sua offerta curriculare, evitando di concentrare l’attenzione sul solo ambito degli alunni con
disabilità certificata e spostandola invece dai deficit ai bisogni cognitivi di tutti gli alunni.

3. La nostra epoca tarda


Guardando il rapporto tra le generazioni più giovani e quelle più anziane, ci si può facilmente
accorgere, che tale rapporto è stato sempre segnato da una certa problematicità. In ogni epoca
gli adulti considerano spesso i giovani maleducati e riguardo sì. Un semplice segno empirico di
questo e rintracciabile nell’espressione usata più volte attraverso i secoli “i giovani d’oggi”.
Questa è un’esclamazione che, quasi ogni generazione ha sentito ed essa è utilizzata con un
tono di lamento e rimprovero. Spesso per gli adulti, i giovani costituiscono un vero e proprio
enigma. E ciò è vero in ogni epoca. Oggi però il rapporto tra generazioni diverse è più complicato
rispetto al solito.

3.1. Crisi della modernità


Negli ultimi quattro decenni sociologi e filosofi si sono ampiamente soffermati sulla crisi della
modernità, intendendo con quest’ultimo termine quel progetto di razionalizzazione del mondo,
nato con l’Illuminismo, che si basava su una grande fiducia nelle possibilità della scienza,
sull’ideale di progresso come strumento di emancipazione umana, sull’istanza di una morale e un
diritto universali.
L’analisi di suddetta crisi ha condotto gli studiosi di scienze umane a parlare di postmodernità e
a definire dunque l’epoca in cui stiamo vivendo come “ultramoderna” o “tardo-moderna”. La
modernità avrebbe dunque raggiunto il suo termine con l’ingresso e la diffusione di un’incredulità
nei confronti delle grandi narrazioni, ossia con la delegittimazione di quelle prospettive generali di
senso che hanno determinato le credenze e i valori della cultura occidentale moderna: tra queste,
soprattutto il racconto ottimistico del progresso come illimitato miglioramento delle condizioni di
vita.
I fautori del postmoderno hanno negato la validità di saperi oggettivi e universali, riconoscendo
solo l’autenticità di conoscenze contingenti, frammentarie e relative; si parla infatti di
contestualismo o di decostruzionismo.
In Italia al concetto di postmoderno ha dedicato particolare attenzione il filosofo G. Vattimo: egli
ha elaborato la nozione di “pensiero debole” per definire l’atteggiamento filosofico che ha preso
atto della dissoluzione delle forti certezze e dei valori assoluti. Anch’egli sottolinea così che, se la
modernità è stato il tempo dei grandi sistemi di pensiero, della ricerca fiduciosa della verità, delle

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credenze granitiche e condivise, la postmodernità ha inteso essere esattamente l’opposto:


appunto il tempo del pensiero debole, dove i grandi orizzonti di senso si sono frantumati in tante
prospettive e dove la ricerca della verità non può che apparire del tutto priva di senso.

3.2. Valore e limiti della post modernità


Certamente, non si può disconoscere che l’esperienza postmoderna ha fatto emergere il valore
delle diversità, della coesistenza di culture, tradizioni, luoghi, persone e abitudini differenti, che –
come già accennato – segna oggi stabilmente i mondi dell’educare. Tuttavia non si può nemmeno
nascondere che l’insistenza sull’aspetto frammentario ed effimero tanto della realtà quanto del
sapere umano rischia di rendere impossibile qualsiasi tipo di azione o pensiero sensati: seguire il
postmoderno sino alle sue estreme conseguenze ci porta a non poter che registrare e accettare
la complessità della realtà, solo come un insieme caotico di immagini e rappresentazioni che non
rinviano a nulla oltre che a sé stesse.
I più recenti fatti di violenza, molto globale e molto locale insieme, fanno venire alla luce il fatto
che negare sul piano teorico qualsiasi pretesa di validità equivale a rendere impraticabile sul
piano
pratico qualsiasi tipo di lotta non violenta per il bene delle persone e per la giustizia. In altri
termini, se non esistono fatti ma solo interpretazioni, come si possono avere strumenti per
affermare con il logos (e non con la forza bruta) la maggior validità di una posizione piuttosto che
di un’altra?
C’è chi, come Habemas, al termine “post-modermità” preferisce quello di epoca ultramoderna.
Ciò significa che – piuttosto che pensare l’oggi nei termini di un dopo, di un post che porta a
leggere le trasformazioni della contemporaneità nel segno di una rottura con il moderno – emerge
una continuità possibile tra il nostro tempo e il tempo della modernità, come tempo di un uso
critico della ragione: si tratta, da una parte, di riconoscere nel tempo che viviamo ancora
un’espressione del moderno, dall’altra di intendere questa continuità come un compito da
svolgere.

3.3. Verso un’epoca ultra-moderna?


Il carattere principale del tempo che stiamo vivendo è quello della sempre più forte
“individualizzazione”. Se infatti la modernità si è aperta con l’esaltazione della libertà
dell’individuo, oggi tale parabola pare compiuta sino all’estremo: nelle nostre società a modernità
avanzata, sempre maggiore è l’emancipazione del singolo dalle istituzioni e dalle appartenenze
tradizionali e sempre più netto è il parallelo espandersi di un atteggiamento disincantato nei
confronti delle credenze legate a queste appartenenze. In nome della crescente
individualizzazione, le fondazioni ontologiche – ossia i riferimenti forti – che in passato
sorreggevano la libertà del singolo, appaiono sgretolate e sembra che ne rimangano solo
frammenti. Così ciascuno si trova a dover prendere nella vita quotidiana diverse decisioni, anche

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importanti, come se giocasse alla lotteria.


Tale incertezza nasce probabilmente dal declino del valore proprio delle tradizioni. A questo
proposito, Giddens osserva che nelle società premoderne, la tradizione aveva un peso
innegabile; nella nostra società post-industriale, invece, le tradizioni vengono rinnegate,
attraverso un vero e proprio sradicamento dei rapporti sociali dai contesti locali e dagli orizzonti
culturali in cui essi avevano e hanno luogo. Anche se poi – in un apparente paradosso – oggi
proliferano numerose forme di tradizionalismo, che si legano allo sgretolarsi degli sforzi dialogici e
comunitari. In effetti il paradosso è soltanto apparente perché, a ben guardare, si può scorgere
che, proprio quando tutto è incerto, prolifera facilmente la paura. Quindi, irrigidirsi nelle tradizioni
del passato senza tollerare che in alcun modo vengano messe in discussione, costruire muri fisici
e ideologici è una forma di difesa.
Da un punto di vista pedagogico, possiamo osservare che viviamo in un’epoca di passaggio,
dov’è chiaro ciò che non è più praticabile o sensato; non è ben chiaro ciò che in futuro lo sarà.
Riferimenti valoriali, traiettorie bibliografiche, modelli di relazione interpersonale e pratiche
educative che apparivano, in un passato non troppo lontano, valide e tanto efficaci da sembrare
indubitabili, ora
appaiono ampiamente incerte e discutibili. E non sembra che disponiamo ancora degli strumenti
per trovare nuovi riferimenti condivisi, per tracciare progetti e traiettorie esistenziali, per tessere
significative modalità relazionali. E tutto questo si riflette nelle tante incertezze degli educatori.

3.4. La fatica odierna di costruire sé stessi


Del nostro tempo tardo alcuni caratteri cominciano a rendersi evidenti. Fra questi, senz’altro la
liquidità: in particolare, Bauman parlerà della società contemporanea come “società liquida”. Per
lo più l’uomo contemporaneo è, nella vita quotidiana, nel lavoro, nelle relazioni affettive, liquido:
incerto, precario, fluttuante; è incapace di fermarsi, restio a riconoscere confini netti e forme
solide. Nella società liquida la conquista dell’identità costituisce un compito arduo; tale compito
assume, con un’intonazione che indica una particolare fatica, i contorni di un’impresa solitaria di
costruzione di sé.
Innanzitutto, se usiamo le categorie di Bauman, possiamo facilmente riconoscere che i liquidi, a
differenza dei solidi, non mantengono una forma propria, ma assumono la forma del recipiente
che di volta in volta li contiene. Fuor di metafora, il cambiamento, la flessibilità, la riconfigurazione
di sé sembrano essere gli imperativi assoluti del nostro tempo.
Le biografie di ciascuno di noi restano dunque incompiute e si presentano inoltre come
destandardizzate: mentre in passato le tappe di ogni percorso di vita erano simili e certe, oggi le
biografie sono sempre rivedibili e flessibili. In particolare, si tratta di una flessibilità/precarietà
esistenziale, ossia l’assenza di modelli esistenziali universalmente vincolanti, capaci di strutturare
una forma di vita nella sua totalità e soprattutto l’incapacità di fare i conti con questa assenza.
Bauman osserva che proprio la crisi della modernità ha generato l’identità come problema;

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l’esperienza premoderna delle comunità caratterizzate da stabilità e prossimità, non richiedeva


agli uomini e alle donne la problematizzazione della loro individualità, che era predeterminata e
non negoziabile. L’io si definiva in modo certo rispetto ad un noi ben definito.
Sia ben chiaro: il fatto che le appartenenze alle tradizioni del passato fossero dati indiscutibili non
era un bene per le persone. Definire l’identità come un compito e lo scopo dell’impegno di tutta
una vita era, se paragonato all’attribuzione automatica a un ceto dell’era premoderna, un atto di
liberazione: una liberazione dall’inerzia delle strade tradizionali, delle autorità immutabili, delle
routines preordinate e delle verità incontestabili. Tuttavia oggi sembra impraticabile qualsiasi
“tradizione”, che etimologicamente indica proprio il passaggio di un patrimonio culturale e
valoriale attraverso il tempo, da una generazione all’altra. Beck scrive che oggi, poiché le regole
non emanano più dall’alto di una tradizione indiscussa o di una qualche fede, sembra che nessun
tipo di regola sia trasmissibile e difendibile come valida in sé stessa. Ciò si traduce – nella
quotidianità dei mondi dell’educare - in un’impossibilità e/o insensatezza di segnare differenze
limiti o regole. Rimproverare un bambino, ad esempio, viene vissuto dall’educatore quasi come
una
colpa, un eccesso da evitare in ogni caso.
Il risultato generale è il soggettivismo morale tipico del nostro tempo, ovvero l’idea che le
posizioni morali non siano in nessun modo fondate sulla ragione o sulla natura delle cose, ma
siano in ultima analisi adottate da ciascuno di noi per il semplice motivo che ci troviamo a subire
la loro attrazione.
Al soggettivismo morale si lega anche una specifica eclissi dei fini; in particolare sono eclissati
non solo i fini del passato ma anche il senso stesso dell’avere un fine da perseguire: si parla oggi
anche di abbandono della teleologia perché sembra che una prospettiva finalistica sull’esistenza
come tale non possa che essere vana.

4. Esistono bisogni propriamente educativi?

Soffermarsi a riflettere sui limiti della condizione post-moderna è importante sia per i pedagogisti
che per gli educatori, in quanto il post-moderno, nella vita quotidiana continua a permeare molti
atteggiamenti collettivi ed “educativi”, non tanto come posizione consapevolmente assunta, ma più
che altro come visione del mondo semplicemente assorbita e, di fatto, intesa e vissuta come
l’unica ragionevole e la migliore possibile.

4.1. Una persona, tanti bisogni


Pur nella crescente complessità ed incertezza del nostro tempo, l’educazione mostra di sé il suo
carattere necessario. Essa è vissuta come un compito ineludibile poiché da più parti si avverte
che nell’educare si gioca qualcosa di essenziale di noi. Infatti dietro tanti disagi, dietro tante

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ricerche vane di felicità, è possibile scorgere una – spesso inarticolata – domanda di educazione
autentica.
A questo proposito ricordiamo che, nonostante nelle società occidentali contemporanee molti
bisogni primari nella vita dell’essere umano siano colmati e soddisfatti, rimane un fondo di
insoddisfazione. Per “bisogni primari” intendiamo qui i bisogni legati alla vita fisica, il cui
soddisfacimento è necessario per la sopravvivenza. Tuttavia, per vivere una vita davvero umana
tale soddisfacimento, pur essendo necessario, non è sufficiente. Può aiutarci a cominciare a
riflettere in tal senso la celebre Piramide di Maslow.

Con questa immagine efficace, lo psicologo Abraham Maslow ha descritto i diversi bisogni,
disponendoli in una gerarchia che va dai bisogni elementari fisiologici, fino al bisogno più alto e
complesso, quello di “autorealizzazione”. Secondo questa spiegazione della vita umana,
l’individuo si realizza passando per i diversi livelli, perché i diversi bisogni devono essere colmati
in modo progressivo.
È dunque necessario partire dall’assunto per cui siamo esseri sostanzialmente bisognosi,
manchevoli; ciò significa simultaneamente – data la particolare natura che ci caratterizza -
che siamo dipendenti da altri, dalle loro cure. Senza cura non c’è vita umana: nessuno viene e

rimane al mondo senza che un altro essere umano, che è rispetto a lui meno debole o solo più
capace ed esperto, si occupi di lui. Si pensi che gli antropologi sono giunti ad individuare gli albori
della società umana grazie al ritrovamento dei resti di un essere umano morto a circa trent’anni,
con una gamba spezzata; ma – è questo il punto più importante – la gamba si era spezzata
quando lui era bambino. La conclusione degli antropologi era semplice: lì doveva esserci stata
una società umana, perché questo non sarebbe potuto succedere nel branco, dove una gamba
spezzata pone fine alla vita, poiché comporta l’impossibilità di sostentarsi. La società umana è
diversa dal branco di animali perché implica la possibilità di sostenersi vicendevolmente.
Tornando alla Piramide di Maslow, possiamo notare che essa registra un altro dato di fatto della
nostra esistenza: noi siamo esseri con una molteplicità di bisogni distinti, ma interconnessi; quello
che M. chiama “bisogno di autorealizzazione” non è immediatamente a disposizione: esso, per

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essere soddisfatto, richiede un progressivo approfondimento delle proprie modalità di vivere.


Ora può essere utile, per i futuri educatori, immaginare di rovesciare la piramide e conficcarla
almeno in parte su un terreno. Cosa vediamo? Solo la base e non il vertice. Spesso con le
persone accade la stessa cosa: degli altri (e forse anche di noi stessi) riusciamo a vedere solo i
bisogni più basilari ed elementari, ma anche più superficiali; non prestiamo invece attenzione al
fatto che ci sono, sebbene più difficili da riconoscere, anche bisogni più profondi.

4.2. Tanti bisogni e tante forme di cura


Un educatore può dunque erroneamente ipotizzare di curare la vita umana avendo solo cura della
vita fisica. Esiste tuttavia un livello più profondo, una cura della persona che si concentra sul suo
benessere psicologico, sull’equilibrio del suo mondo interno e anche sulle sue capacità cognitive,
intellettuali ed affettive. Si potrebbe dire che la risposta a quello che Maslow denomina “bisogno
di sicurezza” segna il passaggio da una cura semplicemente fisica ad una di matrice psicologica.
A questo livello ci si preoccupa soprattutto delle performances di cui il soggetto in formazione è
capace, delle sue attitudini, delle sue competenze. Preoccupazioni importanti ma non ancora
bastevoli, se si vuole davvero educare la persona.
Ci può qui essere utile il riferimento alla pedagogia fenomenologica di Edith Stein, la quale parla
della vita come di un progressivo approfondirsi di potenzialità. Costei ritiene che esistano viventi
dotati unicamente di un’anima vegetativa: sono le piante, le cui funzioni sono legate
essenzialmente al nutrirsi per crescere. Ci sono poi viventi che possiedono inoltre un’anima
sensitiva e cinestetica: questi sono gli animali, capaci di provare sensazioni, ma anche di
muoversi sulla base dei loro impulsi o di qualche forma di condizionamento esteriore. Infine ci
siamo noi – gli esseri umani – che possediamo la ragione, articolata in capacità di riflessione
(libertà di pensiero) e di scelta (libertà di azione). Considerando ciò che ci accomuna a
piante o animali, possiamo dire che

possediamo quella che Stein chiama anima del corpo che è vegetativa, sensitiva e cinestetica;
per ciò che invece ci distingue dagli altri esseri e ci connota essenzialmente, possediamo
un’anima dell’anima.
Nella prospettiva dischiusa dalla Stein, è possibile vedere che ogni persona è una totalità dove si
integrano più dimensioni: la sua corporeità – ovvero il suo possedere un corpo non solo come
una cosa nello spazio, ma come corpo animato vivente – la sua realtà psichica, cioè la
dimensione interna che è forma del corpo e luogo dei suoi stati psicologici; l’esistenza spirituale,
ovvero l’anima intesa come dimensione interiore, ovvero come luogo degli atti davvero
caratterizzanti la persona umana, quelli segnati da consapevolezza e libertà. È proprio
quest’ultimo lo spazio proprio del cammino formativo ed è questa dimensione dell’anima che
permette alle altre di svilupparsi in modo autenticamente umano e quindi, alla persona tutta, di
fiorire. Cominciando a parlare di “fioritura umana”, almeno un aspetto si impone con evidenza:
non è scontata. Persino in alcuni contesti cosiddetti “educativi” si può scegliere di far fiorire ben

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poco dell’umanità degli educandi o, di fatto, ciò può accadere senza una previa riflessione o una
specifica consapevolezza.

4.3. Tra mezzi e fini


Il filosofo R. Spaemann – in una delle sue opere – descrive l’esperienza che forse tutti abbiamo
fatto, almeno una volta: quel particolare stato d’animo che proviamo, inaspettatamente, quando
abbiamo ottenuto qualcosa che volevamo fortemente, ma che proprio nel momento in cui è stata
raggiunta, ci ha lasciato un senso di vuoto ed insoddisfazione. L’esperienza appena descritta
prende il nome di relativizzazione a posteriori di un fine: quel tale obiettivo, per un certo
periodo, ci era sembrato esclusivamente degno di ogni nostro sforzo e lo avevamo voluto
incondizionatamente, ma avevamo trascurato di riconoscerne il carattere parziale; non avevamo
colto che esso, forse, poteva anche avere un valore, ma solo come parte di una totalità della vita
nella quale quel fine andava correttamente inserito, secondo la sua reale dimensione.
Spontaneamente però diciamo che quel dato oggetto perseguito a lungo come fine unico, o
ultimo, e alla fine così deludente, non ha mantenuto quel che prometteva. Ciò rivela la
convinzione che le cose, il cui godimento o possesso bramiamo, devono in qualche modo
promettere qualcos’altro oltre sé stesse, qualcosa di più grande. Alla condizione umana
appartiene questo sentimento, che è indice di una “modalità di orientamento a una totalità di
senso”. E l’educazione – possiamo aggiungere – si dà dove c’è uno sguardo rivolto innanzitutto a
questa totalità di senso, ovvero alla persona nella sua totalità.
Spaemann parla anche di una riuscita della vita, per indicare che, per rispondere davvero ai
suoi bisogni più profondi, la persona ha bisogno innanzitutto di riconoscere, elaborare, e
mantenere nel tempo una prospettiva globale sulla propria esistenza, un orientamento ultimo e
comprensivo

di tutti gli obiettivi pratici. Per rispondere ai nostri bisogni abbiamo bisogno di un progetto che ci
permetta di personalizzare la nostra esistenza. Ma per elaborarlo, realizzarlo e mantenerlo
abbiamo bisogno degli altri. Non si dimentichi che più andiamo nella profondità di quello che ci
manca, più scopriamo che gli altri sono essenziali per la nostra felicità. E soprattutto, coloro che
nel cammino di formazione di sé sono più avanti, conoscono – si potrebbe dire – la strada. Com’è
facile intuire, costoro sono gli educatori. Per questo, si può dire che avere bisogno di un progetto
che riguarda la totalità di sé è tutt’uno con l’aver bisogno di un’educazione.

5. La Situazione Originaria
Se riflettiamo sulle Lezioni che abbiamo sinora svolto, balza davanti agli occhi con evidenza il fatto
che punto di avvio di tutto il discorso è la semplice presa d'atto che esistono, si danno nella storia
fenomeni umani comunemente chiamati educativi, presenti in tutte le comunità sia pure nelle forme

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più differenziate. Questa assunzione e il proposito di riflettere sui fenomeni educativi qualifica la
nostra riflessione come pedagogica. Procedendo avremo modo di osservare che questo andare
direttamente alle cose, avviare il discorso parlando senz'altro dei fenomeni educativi, è
caratteristico dello stile di pensiero fenomenologico ed ermeneutico, che come già detto, è il
metodo di ricerca secondo il quale intendiamo costruire la nostra ricerca sulla realtà umana
dell'educazione. Come vedremo da adesso in poi, proprio l'emergere di situazioni problematiche
impone alla riflessione di andare oltre la semplice ricognizione empirica: accettando un'istanza di
ulteriorità e mettendo in discussione le presupposizioni contenute nel nostro sapere, costitutive di
quanto configura la nostra esperienza. Tale istanza può essere chiamata semplicemente istanza di
criticità e consiste nel tentativo di giustificare ciò che "spontaneamente" già da sempre sappiamo,
esplicitandolo e rendendolo evidente.

5.1. L’appartenenza al mondo


Facciamo subito nostra quella che per la fenomenologia costituisce la prima regola per il
pensiero: condurre la riflessione mossi dal criterio dell’evidenza. Ora, la prima evidenza che si
offre quando si inizia una riflessione è che c’è un soggetto che si pone le domande in prima
persona. Non si tratta mai di soggetti generici: esistono sempre soggetti singolari, definiti da
coordinate temporali e spaziali ben determinate; si tratta dei mondi della vita cui ciascuno di noi,
sin dal proprio avvento nell’essere, viene consegnato. Tale avvento non può che coincidere con
la nostra appartenenza ad una situazione originaria che non siamo stati noi a scegliere; un tempo
o un’epoca della storia che non abbiamo stabilito e uno spazio o un ambito geografico-
antropologico nel quale ci ritroviamo immessi/immersi.
L’esistenza umana viene dunque definita come “essere al mondo”, originaria appartenenza
al
mondo, o semplicemente esser-ci, il quale precede ogni altra appartenenza.
Ora, il mondo a cui apparteniamo è soprattutto un mondo di cose, oggetti familiari e strumenti
utilizzabili, di cui ci si prende cura. Col mondo delle cose, però, il soggetto trova anche altri
soggetti, che gli sono anch’essi familiari, abitano lo stesso spazio intramondano e condividono
con lui molti significati, per lo più d’ordine pratico.

5.2. La precomprensione
Com’è originaria l’appartenenza, altrettanto originaria è la disposizione ad orientarsi nel mondo
del quale siamo abitatori: il soggetto che è nel mondo già da sempre ha del mondo una
comprensione, o piuttosto una precomprensione, dal momento che precede qualsiasi altra
comprensione acquisita nel concreto svolgersi dell’esistenza. Si tratta di un sapere spontaneo,
pre-riflessivo, che ciascun soggetto apprende sin dalla nascita, attingendolo o meglio ricevendolo
dai mondi della sua vita.
Va detto che la precomprensione è sempre un sapere prospettico: in ragione dell’appartenenza

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del soggetto ad una situazione storica, ma anche di un’insuperabile posizione che egli
occupa nello spazio, in quanto è corpo materiale animato vivente; esso può essere descritto
immaginando di vederlo attraversato da un asse verticale: definisce una sorta di punto zero, a
partire dal quale si dispiega una prospettiva aperta sul mondo. Partendo dalla precomprensione
dunque, ogni soggetto interpreta il mondo nel quale dimora ed è interessante notare come
ogni interpretazione implichi una prensione globale del mondo, una qualche percezione del
proprio modo di trovarsi nel mondo. Ogni evento e ogni conoscenza acquisita esplicita questa
originaria prensione, articolandola, chiarendola ma soprattutto conducendo ad una
ricomprensione; si tratta di un’istanza di trascendimento della situazione originaria, una
tensione ad andare oltre quanto è dato o trovato.
Il termine più adeguato per intendere questa energia che rivela la ricerca di senso e che
connota essenzialmente la vita umana è desiderio. Questo, se per un verso è sempre
determinato,

desiderio di qualcosa che il soggetto intende; per un altro verso, anche dopo aver trovato un
soddisfacimento, si ripropone sempre nuovo: quasi risorgesse, intrascendibile e incoercibile.

5.3. Un’introduzione adeguata alla fenomenologia e all’ermeneutica


L’analisi dell’esistenza umana nei mondi della vita e la presentazione degli esistenziali
dell’originaria appartenenza al mondo costituiscono la migliore introduzione alla fenomenologia.
Essa, come asserisce il suo fondatore Husserl, è una posizione di principio che assume come
punto di partenza di ogni riflessione il mondo della vita e le convinzioni in esso presenti. Ma
affinché la fenomenologia possa valere come istanza critica è necessaria una vera e propria
conversione dell’intelligenza e del volere, una messa in questione e una presa di distanza dalle
certezze immediate irriflesse. La conversione dell’intelligenza implica che essa sia mossa solo
ed esclusivamente dall’evidenza; la conversione del volere consiste nel disporsi verso la ricerca
del vero, unico bene desiderabile.
In effetti in principio e perlopiù, i soggetti sembrano trovarsi nello stato di dormienti (Eraclito):
sembra quasi che nessuno sia realmente desto e che la condizione umana sia caratterizzata da
una sorta di sonnambulismo esistenziale. È la condizione che Heidegger, nel suo capolavoro,
definisce “esistenza inautentica”.
Nella situazione originaria cui è consegnato – di cui abbiamo disquisito all’inizio del capitolo –
ogni soggetto trova sé stesso piuttosto come un oggetto; egli, per essere autenticamente un
soggetto, deve rispondere di sé proprio nella qualità di attore protagonista delle proprie azioni e
attivo propositore delle sue parole. Si tratta, in buona sostanza, di prendere in mano la propria
vita e di rispondere di sé in prima persona, tentando dunque un’opera di personalizzazione della
propria esistenza; Ricoeur ne parla come del compito di “appropriazione di sé”. Il passo
preliminare, da parte del soggetto, è di riconoscere lo stato di deiezione o alienazione, una sorta
di assenza di sé a sé, e di volerne prendere le distanze.

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5.5. Funzione metodologica della prima ricognizione empirica


La predominante dimensione dell’avere o del possesso che la fa da padrone nel mondo tardo
moderno, induce i soggetti a percepirsi (e a venir percepiti) come oggetti, più che come soggetti.
È un tratto prevalente che possiamo qualificare come reificazione dell’esistenza, che porta con
sé lo smarrimento del senso della qualità singolare dei soggetti.
5.6. Un’evidenza d’ordine etico e assiologico
La reificazione coinvolge inevitabilmente anche il sapere e il pensare, Il primo tende allora ad
ideologizzarsi, a non essere più misurato secondo un criterio di verità o falsità e a tramutarsi
semplicemente il “chiacchiera”; il pensare subisce una vera e propria mortificazione: l’intelligenza
pare diventare una potenza opaca e la ragione sperimenta un’incapacità nel giudicare intorno
all’infinito.
Quanto detto, per sancire e ribadire il valore incommensurabile della persona, del soggetto
come
persona, che come tale è irriducibile alla proprietà delle cose e alla dimensione dell’avere;
la
persona giunge a presentare così il carattere di un’evidenza morale (la persona è in sé un bene
senza condizioni) e valoriale (valore che è degno d’esser riconosciuto solo per il fatto di esserci).

6. La Pedagogia Spontanea
Tutto questo «bagaglio simbolico» opera nei mondi della vita come un insieme di certezze
indiscusse e indiscutibili, cioè in modo irriflesso e automatico.
Innanzitutto cercheremo di vedere come il «bagaglio simbolico» di cui si diceva costituisca non
solo un punto di partenza ineludibile, come è per la conoscenza di molte realtà umane, ma svolga
una funzione metodologica specifica nell'ambito del sapere pedagogico. Successi-vamente,
chiariremo quando e perché soprattutto oggi ci troviamo di fronte all'esigenza di esaminare
criticamente il bagaglio di sintesi passive sull'educare, evidenziandone i limiti, ma anche le
potenzialità.

6.1. Atteggiamento naturale e pedagogia spontanea: le certezze sull’educazione


L’essere umano che abita il mondo ha con esso un “commercio” – così si esprime Heidegger –
con il mondo, di tipo pragmatico: incontra le diverse realtà innanzitutto e perlopiù come semplici
mezzi da utilizzare. Ora, in questo commercio pragmatico con il mondo, l’essere umano è da
sempre accompagnato da un atteggiamento naturale ingenuo, pieno di certezze e modi di fare, e
persino di ragionare, che sono in effetti automatici e acritici.
Anche nelle pratiche educative è già da sempre contenuto un certo sapere sull’educazione che

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chiamiamo pedagogia spontanea. Essa è quel sapere immediato, di tipo pre-riflessivo, non
rigoroso ed organico, ma spesso efficace; la pedagogia spontanea raccoglie le precomprensioni
sull’ambito educativo, ovvero quelle comprensioni vitali e originarie che precede ogni altra
possibile comprensione di esso. Anche le azioni comunemente dette “educative” si nutrono di dati
per scontato: innanzitutto e perlopiù nell’educare, ci si lascia guidare dall’atteggiamento naturale,
senza problematizzare ciò che subito ne vediamo e sappiamo.
Questo genere di pedagogia può anche essere inteso come insieme di valori, opinioni, credenze
e atteggiamenti ritenuti certi che, in un dato contesto storico e geografico, di fatto strutturano
l’idea di educazione, quindi di persona ben educata, ma anche di buona prassi educativa e di
buon educatore.
Questo sapere, sebbene abbia dei limiti, non va trascurato dallo studioso di pedagogia
fondamentale; piuttosto, è degno della massima attenzione.
Evidenziamone dunque alcune caratteristiche specifiche:
- In primo luogo non è un sapere teoricamente elaborato. Si tratta piuttosto di un sapere
incorporato nella pratica e nelle comunità. Ciò implica almeno due corollari: a) il criterio di
validità di questo sapere, proprio perché pre-riflessivo, risiede nell’efficacia pratica; b) se
si vuol comprendere qualcosa della pedagogia spontanea, è necessario guardarla
operare.
- In secondo luogo, soprattutto in contesti ristretti e in società omogenee, la pedagogia
spontanea appare come un sapere condiviso ed intersoggettivo, che accomuna più
persone. Innanzitutto in senso diacronico – viene tramandata di madre in figlia –
secondariamente in senso sincronico.
- Infine essa porta con sé un certo criterio etico-normativo. Infatti sempre, insieme con le
pratiche educative, viene trasmesso anche un certo ideale di umanità, ritenuto
assiologicamente positivo. Possiamo dunque asserire che per chi asseconda le pratiche
proprie della pedagogia spontanea non tutto va ugualmente bene, specie quando si
tratta di tirar su il proprio bambino.

6.2. Le opinioni notevoli


Un ultimo aspetto della pedagogia spontanea merita di essere sottolineato: come ogni sapere
condiviso in modo automatico, esso si poggia sull’autorità indiscussa di alcune persone, che
valgono spesso come figure esemplari. Per comprendere questo aspetto del sapere spontaneo,
può essere utile ricordare come Aristotele mostri che anche il ragionare filosofico muove dal
senso comune, ovvero da ciò che egli definisce endoxa. Si tratta di un particolare tipo di opinioni:
le opinioni notevoli, ciò che appare a tutti, ai più o ai sapienti. Secondo Aristotele, per trattare
con adeguato rigore qualsiasi argomento non si può che muovere da esse. Ne parla come di
fenomeni e non come mere parvenze, facendo riferimento dunque ai modi in cui le cose
sembrano e si mostrano in modo evidente nei modi di pensare spontaneamente presenti nella

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vita quotidiana.
Nei suoi scritti Aristotele si mostra sempre molto rispettoso delle opinioni e dei saperi spontanei,
convinto che – specie se molto diffusi – essi possano contenere la verità; in particolare, il sapere
spontaneo costituirebbe il punto di partenza per la ricerca della verità. Aristotele non propone
certamente un’apologia del pensiero dominante, bensì – argomentando – ne rivela le intuizioni
promettenti e le contraddizioni, le incongruenze e le confusioni, in modo da procedere nella
direzione di un’autentica conoscenza della realtà.
Non è difficile pensare a molti esempi in cui una certa pedagogia spontanea, sebbene condivisa e
confermata da opinioni al loro modo “autorevoli”, ha fatto da premessa a ragionamenti pratici –
quindi ad azioni “educative” – ingiuste e persino violente. Non tutto ciò che viene inteso e
praticato come forma di educazione, lo è davvero.

6.3. L’istanza veritativa: scoprire le incertezze e istruire il problema pedagogico

La fenomenologia insegna che per sottrarsi e sfuggire ai dati per scontato, ai modi ovvi del vivere,
occorre impegnarsi per andare alle cose stesse, ovvero le cose nella loro essenza. Questo
genere di impegno si traduce, tra l’altro, nel gesto dell’epochè, ossia la sospensione del modo
abituale di giudicare e delle certezze che lo rendevano possibile. Infatti per il fenomenologo,
occorre innanzitutto sospendere, mettere tra parentesi ciò che sul mondo dicono l’atteggiamento
naturale e il senso comune; solo così il soggetto comincia a vivere in prima persona. Ma come
nasce questo primo gesto? Non è improvvisamente e senza ragione che abbandoniamo tutte le
nostre certezze spontanee; si tratta piuttosto della conseguenza dell’urto della realtà sulla nostra
vita. Heidegger in ciò è molto chiaro: è l’inutilizzabilità del mezzo che ci sorprende e ci mette
dinnanzi alla semplice presenza di qualcosa. Smettiamo semplicemente di occuparci di una cosa,
considerandola solo mezzo da usare, e cominciamo a chiederci cosa sia e quale sia il suo
significato, proprio quando smette di funzionare. Lo stesso vale per le pratiche educative: un
educatore mette in questione il proprio modo di intendere l’educazione quando il suo solito modo
di fare non funziona più, non può più essere utilizzato. Il cammino dell’educatore viene dunque
interrotto: egli vive una crisi che

-come tutte le crisi- se percorsa sino in fondo e in modo adeguato è innanzitutto rivelativa, perché
porta allo scoperto ciò che rimaneva prima in ombra, e può essere soprattutto occasione feconda
di discernimento e di nuovo inizio. In questo modo sta dunque facendo ingresso una modalità
della riflessione che ha l’esigenza d’essere oggettiva: coltiva l’ambizione di essere una riflessione
che vale di più di una semplice opinione soggettiva o intersoggettiva. Per questo entra qui in
gioco la possibilità del passaggio dalla pedagogia come semplice opinione ad una pedagogia che
aspiri ad essere scienza.

6.4. Pedagogia spontanea tra ieri e oggi

Da quanto detto finora, emerge che la pedagogia spontanea viene messa in discussione quando

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qualcosa rompe gli equilibri abituali dell’educare, ovvero le consuete modalità di cura e
trasmissione che la coscienza spontanea aveva, fino a quel momento, ritenuto educative. Nel
nostro tempo, molte sono le circostanze che mettono costantemente in questione la pedagogia
spontanea, e ciò in ragione della rottura del patto tra le generazioni che ha reso più complessa la
trasmissione, ma anche la condivisione educativa.
Oggi c’è, rispetto a qualche decennio fa, meno consenso intorno ad una pedagogia spontanea
condivisa: non a caso, ordinariamente, ci sono conflitti più che alleanze fra genitori. Inoltre,
l’incontro tra culture diverse deve anche essere inteso come incontro fra persone che vengono da
mondi della vita diversi da quelli per noi abituali e hanno trovato, come dato per scontato a cui
sono stati consegnati, altre premesse incorporate nelle pratiche educative.

Soprattutto nell’ambito della formazione della persona, è molto facile e insieme pericoloso
restare
imbrigliati in un miscuglio di credenze spontanee, basate a volte su banalizzazioni e stereotipi.

6.5. Limiti e valore della pedagogia spontanea

L’impegno di conversione dell’intelligenza e del volere da cui solo può nascere la pedagogia
come scienza, comincia con la messa fuori circuito della pedagogia spontanea. Non si tratta di
una cosa che si può fare facilmente, tuttavia è un impegno particolarmente importante per
l’educatore.
La pedagogia spontanea è un’arma a doppio taglio, in quanto racchiude in sé rischi e risorse per
la pedagogia come scienza. Il primo rischio è dato dalla sua stessa esistenza: poiché
l’educazione è un fenomeno umano universale, tutti si sentono abilitati a dirne qualcosa;
avvertono, non senza ragione, di saperne qualcosa. Inoltre tutti di educazione sanno dire
qualcosa in particolare di fronte alle situazioni più controverse e problematiche, perché la
pedagogia spontanea è più facilmente un sapere destruens. Ma per l’educazione c’è un vitale
bisogno di saperi capaci di costruire, non solo di demolire.
Un altro limite della pedagogia spontanea è la sua poca accuratezza: generalizzando, vede le
somiglianze ma non le differenze. Spesso cade in generalizzazioni e scade in “ricette”, come se
noi contesti educativi si potessero replicare strategie e modi di comportamento; diciamo subito
che
l’irripetibilità della persona non lo permette.

Soprattutto, ad un certo punto l’educazione ha bisogno di un sapere che offra nuove certezze o,
meglio, certezze diversamente fondate. Gli educatori vorrebbero un fondamento saldo a cui
ancorare le loro pratiche: non una certezza dogmatica, ma un criterio di senso. Gli educatori più
accorti – in altre parole – vorrebbero una prova, che sia capace di portare la verità ad evidenza.

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7. Una Forma Di Razionalità Pratica


Nel delineare la genesi della pedagogia come scienza nei mondi della quita, abbiamo osservato
che lo studioso di pedagogia è un «uomo di scienza» in modo particolare.

Poiché è, infatti, intende studiare i fenomeni che anche la conoscenza comune intende come
“educativi” o comunque legati, sia pure in modo aporetico e contraddittorio, ad un'esigenza di
educazione -, egli trova già il suo oggetto: non lo costituisce. Si potrebbe dire che prima c'è
l'educazione; e solo dopo la pedagogia'. Questa affermazione registra un fatto, ma anche una
regola interna alla pedagogia come scienza: se si smarrisce questa priorità ontologica
dell'esperienza e della realtà in cui l'educazione si realizza, viene di fatto smarrita la pedagogia
come scienza specifica, Già solo per questo, si potrebbe dire che la razionalità pedagogica è una
forma di razionalità pratica.

D'altra parte, non solo la pedagogia avvia il suo percorso di riflessio-ne teorica a partire
dall'esperienza viva dell'educare, ma tale percorso è svolto al fine di un cambiamento in tale
concreta esperienza educativa.

Infatti, la pedagogia come scienza non si occupa solo dell'essere dell'e-ducare e delle persone
coinvolte nelle pratiche di cura educativa, ma anche del loro poter essere.

7.1. Il significato dell’espressione “pedagogia fondamentale”: base empirica e fondamento


teoretico

Il termine pedagogia fondamentale fa riferimento ad un particolare atteggiamento di ricerca


circa i fenomeni educativi, volto a coglierne appunto i fondamenti: non solo la base empirica, ma
anche la profondità di senso, che in qualche modo trascende l’esperienza pratica dell’educare.
Essa ha base empirica, nella misura in cui muove dai mondi della vita dell’educare, avendo la sua
genesi nell’esperienza concreta; tuttavia non pone come suo criterio di riferimento ultimo quello
dell’evidenza empirica o della ricorrenza statistica, pertanto non può definirsi una “scienza
empiriologica”. Quanto detto per precisare che la pedagogia non può esser intesa e praticata
come una delle scienze “dei dati di fatto”, registrabili osservando ed eventualmente controllando
l’esperienza.
Tuttavia è bene ricordare che non si tratta nemmeno di una “scienza eidetica”, ovvero totalmente
libera in tutti i suoi passaggi da qualunque posizione dei dati di fatto e da qualunque riferimento
all’esperienza concreta; infatti è nell’effettività dei mondi della vita che la pedagogia ha genesi
propria ed inoltre il nesso all’esperienza si rende altresì necessario per quel che riguarda la
progettazione del nuovo, del poter essere.
In altre parole, base prima e destinazione ultima della scienza pedagogica è l’esperienza
concreta dell’educare; ma questa esperienza non ne è il fondamento.
Husserl annovera la pedagogia fra le discipline tecnico-pratiche; si tratterebbe di scienze che

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possiedono un carattere ibrido, il quale conferisce loro un’universale ambiguità: è in ragione di


tale ambiguità che il senso comune spesso fatica a considerarle scienze. Il filosofo inoltre
individua due aspetti basilari della pedagogia:
1) La pedagogia come scienza nasce da un orientamento originariamente pratico, cioè
da
quello di un uomo pratico, l’educatore.
2) La pedagogia come riflessione teorica nasce nell’intento di portare un qualche
giovamento a quest’uomo e alla sua pratica.
Da questi due aspetti emerge che nella pedagogia è frammisto anche molto di extra-teoretico,
quindi di esperienza, e che essa intende offrire ancoraggi oggettivi alla pratica.
Il termine teoretico va qui inteso in senso fenomenologico: l’atteggiamento teoretico è quello di
chi si ferma e, sostando, contempla in modo disinteressato, cioè senza farsi guidare da istanze di
utilità ed efficacia.

7.2. La pedagogia fondamentale e la filosofia pratica


Che cosa significhi “atteggiamento teoretico” può essere ulteriormente chiarito esplicitando il
nesso, costitutivo nella pedagogia fondamentale, fra questa espressione ed un’altra: ragion
pratica. Aristotele usa l’espressione “ragione pratica” sia per indicare la capacità di fare filosofia
pratica sia la capacità di esercitare la saggezza pratica. Diciamo subito che sul modello della
prima possiamo pensare la ragion pratica - che è ragionare sulla prassi – del pedagogista;
mentre su modello della seconda possiamo pensare la ragion pratica – che è ragionare nella
prassi di quel

particolare uomo pratico che è l’educatore.


La scienza pedagogica può supportare la saggezza di chi è chiamato a ben deliberare, a
decidere e operare in situazioni che sono sempre diverse e spesso cambiano rapidamente. La
pedagogia fondamentale può rendere l’educatore più capace di riflettere sul proprio vissuto,
personale e professionale, e di compiere un’ermeneutica della pratica, cioè una lettura di essa
orientata al coglimento del senso e di nuovi significati e di nuovi interventi possibili.

7.4. I momenti della pedagogia fondamentale: primo schema


Veniamo adesso al secondo aspetto in cui si vede – in modo ancor più determinato – l’esser
pratica

della pedagogia fondamentale: il suo essere un logos integrato.


Indichiamo dunque i tre momenti sempre presenti in una riflessione di pedagogia fondamentale:
- Il primo momento è quell’inventario o rapsodia dell’esperienza che ha il carattere di una
ricognizione empirica e problematica: l’esperienza comincia ad essere descritta, con i
suoi punti critici e le sue aporie, ma anche domande di senso, novità e risorse. A tal fine,

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ci si serve anche di indagini statistiche e soprattutto psicosociali. In questa fase si può


fare utilmente riferimento anche alle “buone prassi” ampiamente presenti nei mondi
dell’educare: in esse si possono riscontrare delle realtà percepite con immediatezza
anche da senso comune come “esemplari”.
In seguito alla prima ricognizione dell’esperienza, lo studioso di pedagogia fondamentale
coglie l’esigenza di portare a chiarezza la problematicità, le ambiguità e le risorse
emerse, di far ordine tra concetti confusi e organizzazioni poco coerenti per affrontare
l’inutilizzabilità di certi modi di fare consolidati e fino a poco tempo prima ritenuti certi e
naturali.
- Il secondo momento costituisce un approfondimento rispetto alla semplice rassegna
della vita effettiva e dell’opinare pre-riflessivo che la anima: grazie all’epoché, lo studioso
di pedagogia fondamentale entra in una riflessione critica che gli consente di prendere
una prima distanza dall’atteggiamento spontaneo e naturale, evitando stereotipi e
generalizzazioni. Accogliendo i contributi delle altre scienze difatti, l’obiettivo non è quello
di riassumerne i risultati, bensì di giungere a prime osservazioni critiche che sono
spesso, rispetto alle istanze proprie della scienza pedagogica, ipotesi provvisorie.
- Il terzo momento coincide con il livello di fondazione pedagogica. Esso si articola
ulteriormente in due momenti: quello teoretico e quello prassico-poietico. Nel suo insieme
la fondazione pedagogica mira a rendere evidenti i caratteri essenziali e costitutivi del
fenomeno preso in analisi (momento teoretico) e di conseguenza ad esplicitare
adeguatamente direzioni metodologiche per la prassi educativa (momento prassico-
poietico). Ricordiamo che con il termine “prassico” si fa riferimento a ciò che, nei discorsi
del pedagogista, è “volto ad orientare la prassi”, cioè appunto l’operare concreto
dell’educatore. All’aggettivo “prassico” leghiamo poi “poietico” con riferimento alla
poiesis, nome con cui la filosofia greca classica indicava il fare.

8. Un Nuovo Codice Epistemologico


L’imporsi dell’istanza critica è interrogazione della ragione e, insieme, ricerca della realtà
dell’educazione. Una tale interrogazione e la ricerca costituiscono l’istituzione del problema
pedagogico: nelle nostre azioni educative, in particolare nelle scelte che siamo chiamati a
compiere, non possiamo non partire dalle nostre convinzioni consolidate; ma con l’insorgere del
dubbio siamo quasi costretti a chiederci se quanto ci appare certo sia poi anche vero, in sé e per
sé preferibile in ragione della sua oggettività. In sintesi, l’istanza critica ci dispone a ricercare il
vero. È questa ricerca del vero che ci ha fatto parlare non più di pedagogia spontanea, ma di
pedagogia razionale.

Ora, un primo dato si impone con evidenza: non è praticabile sensatamente nessuna concreta

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ricerca razionale, nessuna definita elaborazione di un sapere, se non si tiene conto di quanto si
può denotare con la nozione di codice epistemologico. Grazie ad un tale codice, una riflessione
veritativo può svolgersi in senso critico e sistematico; ossia, più chiaramente, un codice
epistemologico è quanto rende la riflessione pedagogica mossa dall’istanza di razionalità,
pedagogia scientifica – sapere rigoroso e oggettivo. Si tratta, propriamente di un codice che è
specifico per ogni sapere che voglia porsi come scienza specifica; e ci troviamo di fronte ad un
dato che può essere reso evidente, innanzitutto attraverso una riflessione sintetica.

8.1. Una rottura epistemologica


Iniziamo da due rilievi, che sembrano emergere come tratti qualificanti della pedagogia
contemporanea. Il primo possiamo presentarlo, affermando che pedagogia oggi si dice in molti
modi: nel nostro tempo si registra un massimo di convivenza tra paradigmi e forme. La
pedagogia, meglio – al plurale – le pedagogie sembrano saperi variegati e direi compositi, quanto
a pratiche e teorie, ideali o valori.
A questo va accostato un altro dato generale: oggi la pedagogia ambisce a porsi come scienza
autonoma, distinta dalle altre scienze ma soprattutto dalla filosofia. Nella storia culturale
dell’Occidente difatti, secondo una tradizione secolare, la pedagogia è stata considerata parte
della filosofia, una sorta di filosofia applicata, in ragione dell’intuizione fondante che con
l’educazione di una persona si tratta pur sempre di un’impresa filosofica perché connessa ad
una certa filosofia della persona.
Quanto detto s’inserisce in un quadro più ampio, di una vera e propria “rottura epistemologica”
nella storia della pedagogia del secolo ventesimo. Da questa frattura sono emersi insieme i limiti
critici di un paradigma puramente filosofico – di una riconduzione tout court della pedagogia alla
filosofia; e la necessità di pensare un paradigma propriamente scientifico, che veda e intenda la
pedagogia come scienza specifica dell’educazione. Innanzitutto bisogna asserire che c’è del vero
nell’argomentazione secondo la quale affrontandolo esclusivamente come problema filosofico, il
problema educativo tende a non essere visto nella sua specificità; esso è riportato ad una logica
astratta, che non apprende dall’esperienza, ossia dalla realtà così come immediatamente appare.
La critica dunque ad un paradigma esclusivamente filosofico, ad una logica astratta ed
autoreferenziale, deve essere accolta.
In secondo luogo va notato come una logica filosofica, applicata senza la mediazione logica
specifica della scienza, tenda surrettiziamente a ipostatizzare forme e modelli storicamente
determinati di educazione e moduli di pensieri, generando anch’essa una vera e propria
consacrazione dell’esistente.
La scienza, in quanto è garanzia di fedeltà all’esperienza, può sostenere invece l’impegno critico
di “ridurre il fenomeno a sé stesso, permettendo di distinguere aspetti di carattere solo
contingente e tratti che invece devono essere di necessità predicati del fenomeno, pena la sua
insignificanza. È quanto con il linguaggio della fenomenologia si chiama definizione

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dell’essenziale.

8.2. Verso la configurazione di un nuovo codice


All’inizio e per tutta la prima parte del ventesimo secolo, due grandi impostazioni sembrano
idealmente fronteggiarsi. Da un lato, l’idealismo attualistico di G. Gentile, l’ultimo, grandioso e
coerente tentativo di inglobare la pedagogia nella filosofia. Dall’altro lato, la pedagogia
pragmatista di J. Dewey, che può essere interpretata come un tentativo antitetico rispetto a
quello gentiliano:

concepire la filosofia nella sua essenza in senso storico ed esistenziale, come un atto
pedagogico; fondando la formazione e l’educazione esclusivamente sulla ragione pratica, senza il
riferimento al fondamento teoretico.
Dovremmo allora ricomprendere queste due impostazioni in una sintesi che, mentre da un lato
deve affermare la legittima autonomia della riflessione pedagogica e in essa un peculiare primato
del pratico; dall’altro lato possa ritrovare il significato costitutivo di un nesso con la filosofia come
sapere teoretico, poietico e pratico e come stile esistenziale.
Tenendo presente quanto è accaduto nel nostro paese, è possibile distinguere quattro momenti o
tappe dell’evoluzione pedagogica nella seconda metà del secolo scorso; sono dei momenti reali,
documentabili storicamente, ma possono essere considerati anche momenti ideali, perché svoltisi
all’interno di una “vicenda trascendentale”.

1) In un primo momento è sembrato che, per fare della pedagogia una scienza autonoma, fosse
necessario e sufficiente applicare il principio della sperimentazione alle azioni educative. Per
questa posizione, in sintesi, la pedagogia diviene scienza distinta solo diventando pedagogia
sperimentale; ciò conducendo ad una volontà di superamento di ogni residuo metafisico
presente nel codice epistemologico della pedagogia.
2) In un secondo momento è sembrato che il principio di scientificità di una scienza pratica in
senso eminente dovesse essere il principio della critica dell’ordine esistente. La pedagogia è
stata vista soprattutto nel suo aspetto di ideologia funzionale agli interessi del potere nelle
società; è la posizione critica radicale della cosiddetta “anti-pedagogia”, che ha messo in
questione l’esistenza stessa della pedagogia. In altre parole la pedagogia generale – a sentir i
fautori di questa teoria – costituirebbe la teoria e la prassi attraverso le quali si trasmettono e si
consolidano i rapporti di produzione del sistema dominante e l’assetto di potere di una società,
mediante il controllo completo delle coscienze.
3) In un terzo momento si è imposto il cosiddetto principio di specificazione. In questa
prospettiva, l’educazione è percepita nella sua irriducibile complessità Risulta allora necessario
accostarsi ad ogni aspetto specifico con un metodo altrettanto specifico, a ciascuno adeguato; e
anziché di pedagogia generale, si dovrà parlare di “scienze dell’educazione”, molteplici
differenziate scienze specifiche applicate allo studio dei fenomeni educativi. Alla pedagogia

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generale resterebbe solo il ruolo di coordinamento fra i diversi ambiti disciplinari, costituendone
una sintesi.
4) Nell’ultimo decennio del secolo passato è emersa in forma rinnovata l’esigenza di una
pedagogia generale come specifica scienza umana applicata allo studio dell’educazione,
autonoma rispetto alle altre scienze dell’educazione, ma non autarchica, costituita piuttosto dal
dialogo critico con esse.

È il quarto momento, il ritorno della pedagogia generale come ontologia regionale, il cui compito
è la ricerca e la giustificazione di senso dei fenomeni umani in quanto sono educativi.

8.3. Primo profilo di una pedagogia fondamentale fenomenologico - ermeneutica


Vista e intesa in questo contesto problematico, insieme storico e teorico, può inserirsi e
acquistare un significato la nostra proposta di una pedagogia generale – o meglio, fondamentale
– di stile fenomenologico ermeneutico.
Insisto nell’affermare che è preferibile parlare di “pedagogia fondamentale”, per comunicare che
oggetto proprio e adeguato di questa scienza sono i problemi essenziali, pertanto di fondo
dell’educazione. Essi sono sempre presupposti dalle altre scienze pedagogiche e pertanto,
restano impliciti all’interno di queste scienze; attendono quindi di essere pensati in modo esplicito,
critico e sistematico, da una scienza che li assuma come propri problemi.
Si tratta di una scienza umana, distinta dalle altre e in qualche modo autonoma, ancorché non
autarchica perché si elabora e si sostanzia grazie al dialogo amicale con le altre scienze
pedagogiche.
In conclusione, è opportuno affermare che il codice epistemologico che presiede all’esser scienza
della pedagogia fondamentale è segnato da una convivenza feconda tra il paradigma scientifico
vigente all’interno delle scienze dell’uomo e un paradigma filosofico chiamato ad assumere le
domande sul senso e quelle sul valore e sul bene

9. Breve Storia Dell’epistemologia Pedagogica Moderna

9.1. L’età moderna: verso la pedagogia come sapere autonomo


È bene ricordare che il passaggio da una pedagogia “filosofica” ad una di stampo scientifico sia
da collocarsi sostanzialmente nel periodo che va dal XVII al XVIII secolo; l’Europa moderna è
stata infatti attraversata da una rivoluzione educativa che ha gettato le basi per una pedagogia
intesa come sapere codificato.

9.1.1. Comenio
Un primo tentativo di riflessione organica ed autonoma sull’educazione e sulla didattica, fu

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elaborata nel 600 da Comenio: nella sua prospettiva la pedagogia non doveva più essere
considerata un’appendice di altri saperi, ma doveva costituirsi come didattica, cioè come
metodologia dell’educazione il cui fine era lo sviluppo integrale della personalità dell’educando,
posto al centro del processo formativo. Compito di una retta educazione sarebbe quello di
promuovere uno sviluppo armonico delle facoltà umane che renda l’uomo quanto Dio gli ha
concesso di essere, destinandolo ad essere partecipe della Sua eternità.
La pedagogia promossa da Comenio era senz’altro anticipatamente inclusiva: superando ogni
genere di discriminazione, metteva in campo un’educazione e un’istruzione rivolte a tutti.
Il contributo maggiore offerto da Comenio fu la sua teorizzazione didattica che conferiva
autonomia e scientificità alla pedagogia; ciò che andava ricercato era il fondamento di ogni
possibile educazione attraverso un’interpretazione razionale della didattica, che egli definiva
docendi artificium (l’arte di insegnare), per indicare che si trattava di una costruzione intenzionale
volta a realizzare un fine determinato e che comprendeva l’oggetto, cioè l’insegnamento, e le
strategie attraverso cui realizzare i propri obiettivi.
Nel tentativo di rendere la pedagogia un sapere con una sua specificità, Comenio andava oltre la
concezione tradizionale di istruzione: egli fissava alcuni principi a fondamento del sapere
pedagogico, dei precisi criteri didattici atti a formare nell’educando una personalità autonoma
attraverso lo svolgimento delle sue peculiarità specifiche. Mediante la gradualità e la ciclicità
veniva posta enfasi sulla necessità di seguire i ritmi di maturazione dell’alunno e di arricchire
l’apprendimento delle conoscenze riferendole alle cose date dall’esperienza.
Secondo l’ottica del pastore protestante, l’insegnante avrebbe dovuto seguire l’armonia della
natura, senza voler imporre al discepolo una propria idea di sviluppo; è la natura che mostra
all’uomo una via ciclica in base alla quale ogni apprendimento non si compie in modo perfetto e
chiuso, ma si realizza come sviluppo che porta al miglioramento di capacità già presenti sin
dall’inizio del processo.

Comenio ha avuto il merito di voler definire, in un’epoca in cui nell’educazione prevaleva


l’improvvisazione, il campo di studio della scienza pedagogica offrendo un progetto valido che ne
giustificasse l’esistenza. Alcuni dei principi fondamentali di Comenio vennero rielaborati da quei
filosofi e pedagogisti che – nei secoli successivi – avrebbero adattato le sue teorie alle esigenze
del momento storico.

9.1.2 Rosseau

Tuttora considerato il padre della pedagogia contemporanea intesa come sapere autonomo,
Rousseau operò una svolta epocale, che faceva del bambino il protagonista principale
dell’educazione e della formazione dell’uomo naturale, contro la tradizionale logica adultistica. Il
filosofo sosteneva l’esistenza di una netta distinzione tra l’uomo naturale e l’uomo civile: “il primo
era quello che usciva dalle mani del Creatore e per questo era buono; il secondo invece risentiva
della nefasta influenza della società, che rovescia e trasforma tutto. Rousseau intendeva

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individuare forme educative volte alla valorizzazione dell’uomo naturale, forme che presentò con
chiarezza nell’Emilio (1762). Si tratta di un’opera considerata “il manifesto o l’atto di nascita della
pedagogia moderna”, trattato sulla bontà originaria dell’uomo e ambientato in campagna, luogo
che meglio si prestava a preservare l’originaria innocenza e la naturale bontà del protagonista.
Rousseau assegnava alla pedagogia l’importante funzione di avviare la rinascita dell’uomo
morale e il risanamento della società, indicando nel metodo dell’educazione negativa – che
riduceva ogni intervento esterno – e nell’educazione positiva – che poneva il proprio fine
nell’uomo stesso e nella propria autonomia morale – la strada da percorrere.
Va sottolineato come il filosofo, con l’Emilio, abbia operato l’importante scoperta del sentimento
dell’infanzia, andando in questo modo contro l’educazione del tempo che accusava di adultismo,
poiché non rispettava il bambino nella sua identità, ma lo considerava solo in vista dell’adulto che
sarebbe diventato. Il suo metodo educativo veniva costruito a partire dall’intuizione per cui non si
doveva accelerare lo sviluppo del bambino ma seguirne l’evoluzione naturale, anticipando così
idee che sarebbero state centrali nell’attivismo pedagogico e nella psicologia evolutiva del
Novecento. L’educazione non era per Rousseau precettistica, ma scoperta autonoma dell’allievo:
il precettore non doveva “dare precetti ma farli trovare”, mostrandosi in grado di conoscere la
natura dell’educando e di comprenderne la personalità e i bisogni, accompagnando gradualmente
il suo sviluppo naturale. Seguendo il metodo dell’educazione negativa, nella prima educazione
(da 0 a 12 anni), il precettore non doveva imporre alcunché all’educando in modo diretto,
piuttosto aiutarlo ad eliminare le cattive influenze e gli impedimenti imposti dalla società. Si
trattava di un’educazione che non va interpretata come permissiva, ma come educazione a una
libertà che comunque non eliminava l’autorità del precettore. Nella preferenza accordata da
Rousseau all’educazione privata rispetto a quella pubblica, al precettore veniva affidato un ruolo
di primo piano e sempre più decisivo nelle diverse fasi della crescita dell’educando: nella seconda
età educativa (dai 12 ai 15 anni), il precettore doveva essere più presente con il suo intervento
positivo finalizzato allo sviluppo

delle conoscenze intellettuali e, nella terza età educativa (dai 15 ai 20 anni), doveva svolgere il
compito di preparare l’educando alla vita sentimentale, sociale, morale, religiosa ed estetica.
L’ultimo compito del precettore era la formazione politica, che avrebbe reso l’educando un buon
cittadino capace di scegliere liberamente il contratto sociale al quale sottomettersi e di creare una
propria famiglia.
Com’è stato tuttavia osservato, il precettore, svolgendo il ruolo di tutor, nei fatti finiva con il
manipolare continuamente il suo allievo attraverso una serie di stratagemmi, orientandone la
spontaneità e la libertà, che erano quindi categorie astratte piuttosto che frutto di un’educazione
che si realizzava come sviluppo concreto.
L’educazione sociale e politica rappresentava il coronamento del processo formativo descritto
nell’Emilio; dopo aver compreso il rapporto con la natura e i rapporti morali con gli uomini,
l’educando giungeva a comprendere i rapporti civili. Il Contratto sociale aveva il compito di

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chiarire i fini politici e giuridici della pedagogia di Rousseau, ovvero la realizzazione nel mondo
sociale della libertà e dell’uguaglianza che appartengono già al mondo della natura
Progetto pedagogico e progetto politico, nella riflessione del filosofo, erano pertanto intrecciati:
l’Emilio e il Contratto sociale, infatti, si integravano nell’utopia rousseauiana di una rifondazione
della società attraverso il rinnovamento dell’individuo.

9.2. L’Ottocento pedagogico

L’Ottocento fu definito il secolo della pedagogia, poiché fu attraversato da una rivoluzione


culturale che vide la diffusione di nuove teorizzazioni e di diversi modelli educativi che
intensificarono la riflessione sull’identità della pedagogia. Se da un lato prevalse l’orientamento
romantico, che vedeva nell’educazione il momento centrale della formazione dello spirito, non
mancarono tuttavia altre filosofie, come quella del Positivismo, che considerava la scienza
pedagogica una sintesi di più discipline.

9.2.1. Pestalozzi

Pestalozzi – influenzato inizialmente dalla pedagogia di Rousseau, di cui condivideva l’originaria


bontà dell’uomo e l’idea di educazione negativa come processo naturale – andò maturando l’idea
di un’educazione positiva, popolare e sociale, rivendicando l’importanza dell’istruzione,
dell’intuizione e della gradualità, cioè dell’origine esperienziale di ogni insegnamento.
La sua riflessione ha avuto il merito di fare della pedagogia un sapere sull’educazione intesa
come
formazione umana insieme spirituale e socio-politica: poiché l’uomo è dato dall’unità di “cuore
(attività etico-religiosa), mente (attività teoretica) e mano (attività tecnico- pratica)”, la sua
formazione deve essere integrale, riguardare cioè la sfera morale, quella intellettuale e quella
professionale. A ben guardare, in Pestalozzi la pedagogia assumeva i tratti della scienza
contemporanea nel tentativo di superare la sua tradizionale derivazione dalla filosofia,
privilegiando il ricorso all’esperienza e indicando un metodo.

9.2.2. Herbart

Una tappa decisiva dell’epistemologia pedagogica ottocentesca è costituita dalle riflessioni di


Herbart; il suo maggior merito è di aver per primo compreso in modo chiaro la necessità che la
pedagogia si costituisse come scienza caratterizzata da sistematicità e adeguati strumenti di
controllo, distinguendola da un’educazione intesa come arte. Egli sosteneva che la pedagogia,
pur essendo una scienza filosofica, aveva oggetti e fini diversi dalla filosofia, ovvero il “governo
dei fanciulli”. Essa era pertanto una scienza pratica applicata, che implicava il riferimento
all’esperienza e che veniva elaborata grazie al rapporto con la psicologia e con l’etica. Herbart
cercava in questo modo di salvare la scienza pedagogica da un lato dal rischio di un riduzionismo
naturistico che avrebbe ricondotto la sua scientificità alle scienze naturali, dall’altro lato ad un

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riduzionismo metafisico che, identificando pedagogia e filosofia, avrebbe continuato a privilegiare


un’impostazione teoretica di una scienza che avrebbe invece base empirica.
L’educazione non poteva realizzarsi senza l’istruzione, anche se i contenuti di quest’ultima
dovevano essere collegati con la multilateralità degli interessi presenti negli educandi, sui quali
costruire un curriculo che seguisse un procedimento conoscitivo ordinato. L’interesse era
considerato da Herbart un fenomeno psichico che aveva una sua intrinseca capacità formativa e
che toccava all’educatore scorgere e orientare. Per questa ragione venivano indicati due gruppi di
interesse: il primo riguardava la conoscenza e si riferiva all’attività teoretica sulla natura (interessi
empirici) o alla valutazione morale ed estetica (interessi estetici); il secondo faceva riferimento
alla compartecipazione, cioè al rapporto con ogni singolo individuo (interessi simpatetici), con la
collettività (interessi sociali) e con Dio (interessi religiosi).
Il fenomeno educativo aveva come suo centro l’incontro tra l’educatore e l’educando, il cui
rapporto doveva basarsi sul governo (cioè sulla disciplina esterna, necessaria per l’incapacità
iniziale dell’educando di autogovernarsi); sull’insegnamento (ovvero sull’istruzione, che aveva
come fine quello di suscitare nel soggetto l’autoformazione); sulla coltura morale (ovvero
sull’educazione, che aveva il compito di consolidare e coltivare la virtù dell’educando).
La pedagogia herbertiana dava poi molta importanza ai luoghi dell’educare quali la famiglia e la
scuola, considerati i due ambienti sociali decisivi per l’esperienza educativa: la famiglia era
ritenuta il primo ambiente educativo che garantiva la crescita individuale del bambino, anche se il
suo limite

era dato da una pedagogia spontanea fondata su capricci o mezze conoscenze; la scuola, pur
essendo un ambiente educativo necessario perché assicurava a tutti un’istruzione, non poteva
comunque sostituirsi alla famiglia nell’offrire un’educazione attenta ad una crescita
individualizzata dell’educando.
I motivi più innovativi della proposta pedagogica herbertiana furono senza dubbio la scientificità
del metodo educativo, la necessità che l’aspetto pratico dell’educazione fosse sostenuto da
quello teorico, l’insistenza sulla priorità del rapporto fra l’educatore e l’educando, il ruolo formativo
della famiglia e quello educativo della scuola, il valore attribuito alla persona dell’educando,
l’attenzione ai suoi bisogni e il rispetto dei suoi ritmi individuali di crescita.

9.2.3. Il Positivismo

Un importante contributo alla pedagogia fu offerto anche dal Positivismo: esso ebbe il merito di
riproporre, in modo simile ad Herbart, il problema di dare uno statuto scientifico alla pedagogia,
della quale veniva esaltata la sua funzione di sintesi e di coordinatrice di tutte le scienze con cui si
trovava in dialogo.
Il fenomeno educativo veniva indagato come un fatto di natura, nella convinzione che si
potessero indicare delle norme dell’educazione così come si formulavano le leggi della natura; il
momento più importante della pedagogia era considerato quello concreto, cioè il momento

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educativo.
Nonostante i meriti evidenti che vanno riconosciuti al Positivismo, in particolare quello di aver
tentato di fare della pedagogia una scienza, vanno anche indicati alcuni limiti:
1) privilegiando il metodo unico delle scienze esatte, la pedagogia correva il rischio del
“riduzionismo naturalistico”, cioè di sostituire alla sua dipendenza secolare dal sapere filosofico
una nuova dipendenza che non le avrebbe garantito l’autonomia annunciata.
2) prevaleva così lo “scientismo”, cioè l’idea che la scienza potesse spiegare in modo
inconfutabile la problematicità e la complessità della realtà educativa.
3) la pedagogia positivista non distingueva l’educazione dall’istruzione e considerava
quest’ultima indispensabile per la formazione della persona, rischiando di fare dell’insegnamento
una pratica nozionistica ed enciclopedica.
4) nonostante il proposito fosse quello di elaborare un pensiero laico, antidogmatico e
antimetafisico, anche il Positivismo ricadeva nel modello sistematico e metafisico, proponendo
un’idea di scienza dogmatica in quanto “sapere certo, invariante e costitutivo di progressive
certezze”.
5) era ancora alla filosofia, anche se della scienza e del metodo, che veniva affidato il ruolo di
guida del sapere pedagogico.

9.2.4. La pedagogia del Risorgimento italiano


La pedagogia del Risorgimento era orientata ad educare il popolo, nella convinzione che la
grandezza e l’unità di uno Stato fossero collegate al sentimento nazionale dei cittadini. Si trattava
pertanto di promuovere un’educazione nazionale e popolare capace di formare gli italiani agli
ideali della nazione; all’educazione veniva assegnata una funzione politica, che richiedeva
l’impegno non solo degli educatori, ma di tutti gli uomini di cultura, che si sentivano chiamati a
svolgere una missione civile. La pedagogia del Risorgimento si intrecciò pertanto con le istanze
politiche, sociali e religiose che caratterizzarono il movimento di indipendenza e di unificazione
nazionale. All’interno di un così vasto e variegato movimento pedagogico è comunque possibile
cogliere tre diversi indirizzi: l’educazione nazionale e popolare di Vincenzo Cuoco e Giuseppe
Mazzini; la pedagogia della Toscana di Gino Capponi e Raffaello Lambruschini; la pedagogia
cattolica piemontese di Antonio Rosmini e Giovanni Bosco.

1) L’educazione nazionale e popolare


Si trattava di un mezzo attraverso cui risvegliare la coscienza nazionale e civile degli italiani, non
uno strumento di livellamento sociale ma un mezzo capace di condurre il popolo verso
un’autentica autonomia e un’incondizionata libertà spirituale.
Giuseppe Mazzini auspicava un sistema di istruzione scolastica generale, obbligatorio, laico e
gratuito che doveva essere garantito e controllato dallo Stato. Egli affermava che l’educazione
dovesse basarsi sull’osservanza di quattro doveri fondamentali: verso l’umanità, verso la patria,

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verso la famiglia e verso sé stessi; naturalmente era necessario tradurre questi doveri in
azione grazie ad un impegno personale e costante, che non escludesse in taluni casi anche
l’estremo sacrificio.

2) La pedagogia toscana
Il tratto distintivo della pedagogia del Capponi fu la critica rivolta al didatticismo che
caratterizzava l’educazione del tempo, ovvero l’eccessiva fiducia nei metodi educativi – premi,
castighi o procedure – che egli considerava artificiosi. Secondo Capponi la prassi educativa
doveva seguire lo sviluppo integrale dello spirito, dirigendosi in primo luogo al sentimento:
educare al sentimento significava educare alla volontà del fanciullo, rispettandone la spontaneità
e la personalità.
Lambruschini si proponeva di affrontare il problema dell’istruzione del popolo proponendo
un’educazione paternalistica che assicurasse ai ceti popolari migliori condizioni di
sostentamento e onesta condotta. Per quanto riguarda l’educazione religiosa, essa veniva
considerata il fondamento di ogni altra educazione e doveva realizzarsi non come osservanza
passiva di precetti

e riti, bensì come un incontro interiore con Dio. Il problema educativo più sentito dal
Lambruschini
fu il rapporto tra autorità e libertà che riguardava ogni relazione educativa: quella del maestro
doveva essere intesa come un’autorità liberatrice del fanciullo, orientata ad aiutarlo a dispiegare
le proprie potenzialità in modo spontaneo. L’educatore era chiamato a intervenire attraverso
un’educazione diretta (suggerimento, proibizione, comando) ed una indiretta, che poteva essere
negativa, nel caso in cui il maestro si assicurava di tenere lontano il fanciullo dalle influenze
negative e da esempi nocivi, ma anche positiva, quando egli prevedeva che il fanciullo fosse
esposto ad influenze ed esempi positivi. Il successo educativo dipendeva però dall’educatore e
dall’atteggiamento che egli avrebbe assunto nei confronti dell’educando: egli doveva amare i
suoi scolari con la necessaria fermezza, essere giusto e mai presuntuoso, attento e rispettoso.

3) La pedagogia cattolica
La riflessione di Rosmini si svolse attorno a due tematiche centrali: la necessità di
un’educazione unitaria e l’individuazione di una strategia di insegnamento fondata sui principi
della conoscenza umana. Egli ritrovava nella religione cattolica l’unità dei fini, poiché ogni
insegnamento doveva essere rivolto a Dio; nelle scienze l’unità delle dottrine, poiché tutte le
scienze sono volte a far comprendere ed accettare la religione.
Nell’atto di insegnamento, secondo Rosmini, particolare e generale non dovevano essere
separati, ma bisognava fare in modo che il fanciullo esercitasse la capacità di cogliere nel
particolare anche i concetti più generali. Egli propose inoltre una pedagogia dell’infanzia che,
come secondo Rosseau, rispettasse la crescita autonoma del fanciullo secondo regole proprie e
non in conformità a regole adulte.

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Don Bosco, fondatore dell’ordine dei Salesiani, con il sistema preventivo dedicò la sua opera
all’educazione dei giovani. Egli non fu mai un pedagogista in senso stretto, ma adottò una serie
di pratiche che ponevano in essere un’educazione non repressiva il cui scopo era suscitare
energie di bene. Formulò un progetto pedagogico che mirava alla promozione nei giovani di una
crescita sul piano sociale, culturale, religioso ed umano, preoccupandosi di proteggerli dai
pericoli dovuti ad un diffuso abbassamento della moralità e alle condizioni sempre più difficili dei
luoghi di lavoro.
Egli valorizzò il lavoro come strumento di formazione della persona e sperimentò il metodo della
prevenzione nei laboratori istituiti all’interno dell’Oratorio. Lo scopo dell’educazione preventiva
non era semplicemente quello di suscitare energie positive nei giovani; si trattava di aiutare i
ragazzi a ben vivere come “buoni cristiani e onesti cittadini”. Ciò attraverso un’educazione che
si

polarizzava intorno al trinomio ragione, religione, amorevolezza; in particolare l’amorevolezza,


che si esprimeva nei gesti e nei comportamenti benevoli dell’educatore, andava costantemente
illuminata e purificata dalla ragione e dalla religione.

10. Breve storia dell’epistemologia pedagogica contemporanea (SBOBINA)


Se fino ad adesso abbiamo parlato di Comenio e Rousseau e abbiamo capito come entrambi
abbiamo contribuito alla nascita della pedagogia in quanto scienza, adesso dobbiamo scoprire
cosa sia successo nell’800, nel cosiddetto 800 pedagogico, il “secolo della pedagogia”
(chiamato così dalla professoressa Romano). Si tratta di un periodo storico molto importante per
la nascita della pedagogia come scienza. Un secolo caratterizzato dal Romanticismo, corrente
culturale durante la quale si è affermata l’idea di un’educazione integrale dell’uomo. Quindi si è
affermata questa idea di bildung. Bildung è un termine che sta proprio ad indicare la formazione
integrale, globale della persona. È un termine che indica l’idea che la persona debba essere
formata a 360°. Quindi non solo la mente, ma anche la parte più spirituale e la parte più pratica.
Il Romanticismo è l’affermazione di questo tipo di educazione. Ma l’800 è stata caratterizzato
non solo dal romanticismo e quindi da questa idea di educazione, una formazione integrale, ma
l’800 è stato anche segnato dal Positivismo. Il Positivismo è stato molto determinante per la
nascita della pedagogia in quanto scienza. Probabilmente se non ci fosse stato il positivismo, la
pedagogia in quanto scienza non sarebbe sorta. Il positivismo è stato un periodo storico molto
importante e anche quello dell’Herbartismo, cioè delle teorie di Herbart, importante studioso
dell’800 che ha contribuito alla nascita della pedagogia come scienza. Ma l’800 pedagogico è
stato anche il secolo del Risorgimento italiano, il secolo cioè, durante il quale si sono affermati
alcuni pedagogisti cattolici e alcuni pedagogisti laici, ciascuno dei quali ha contribuito al dibattito
intorno all’educazione, intorno a questa pedagogia che da lì a poco sarebbe diventata una
scienza.

Nell’800 un pensatore molto importante, molto rilevante è stato PESTALOZZI. Anche lui come

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Comenio e come Rousseau ha gettato le basi per la nascita della pedagogia in quanto scienza.
Pestalozzi lo collochiamo tra il 700 e l’800 (epoca moderna). È stato un pensatore e un
pedagogista svizzero di religione protestante. Lui, un po' come Comenio nel lontano 1600, ha
affermato l’idea di un’educazione che debba essere popolare. Un’educazione, una formazione
che deve riguardare tutti senza distinzione di sorte. Tutti devono avere il diritto di imparare a
scrivere, a leggere e far di conto. Egli non solo ha teorizzato un modo di fare educazione, ma
ha avviato delle vere e proprie esperienze di pratiche educative. Pestalozzi ha creato dei veri e
propri istituti educativi in Svizzera nei quali ha attuato la sua idea di educazione, come per
esempio l’azienda agricola a Neuhof, la comunità di Stans o la scuola popolare a Yverdon. Tra
le opere più importanti di Pestalozzi ricordiamo COME GELTRUDE ISTRUISCE I SUOI FIGLI,
un saggio pedagogico del 1801. Pestalozzi ha concentrato molto l’attenzione sul ruolo educativo
della famiglia, in particolare sulla figura madre, intesa come colei che deve occuparsi
direttamente dell’educazione, della formazione dei figli sin dalla nascita. In questo scritto parla
proprio dell’importanza dell’educazione familiare, dell’importanza di Geltrude, che era questa
donna, madre di famiglia, che doveva occuparsi dell’educazione dei propri figli. L’800 è stato il
secolo in cui si è affermata l’idea di bildung, cioè l’idea che la formazione dell’uomo debba
avvenire in maniera integrale. Non dobbiamo educare solo la mente del bambino, ma dobbiamo
educare anche l’aspetto spirituale, dobbiamo educare le mani, cioè dobbiamo fare in modo che i
bambini fin dalla più tenera età maturino delle competenze spendibili nel mondo del lavoro.
Questa idea di bildung è stata promossa anche da Pestalozzi. Egli infatti ha detto come
bisognasse educare la MENTE, LA MANO e il CUORE dell’educando. Cioè si deve educare la
mente, il che significa che dobbiamo contribuire a fare sviluppare le capacità mentali, le capacità
cognitive. Dobbiamo educare anche il cuore, cioè dobbiamo far sì che il bambino sviluppi delle
doti etiche, quindi capisca cosa sia il bene, cosa sia il male, agisca in virtù del bene a discapito
del male, etc. Ma secondo Pestalozzi noi dobbiamo educare anche la mano, cioè dobbiamo fare
in modo che il bambino impari a svolgere delle attività come la falegnameria, l’attività del cucito
(attività tipiche dell’epoca contemporanea di Pestalozzi). Secondo Pestalozzi l’educazione deve
iniziare in famiglia, quindi le relazioni parentali, le relazioni con la madre sono molto importanti.
Pestalozzi è figlio del suo tempo, vive nell’800, un’epoca dove non c’era un’uguaglianza tra
l’uomo e la donna, ma soprattutto tra madre e padre. La madre era colei che si occupava della
casa, dei bambini, mentre il padre si occupava dell’aspetto economico della famiglia. Secondo
Pestalozzi l’educazione non deve avvenire solo a casa, in famiglia, ma anche in contesti
educativi che nascono per fare educazione, ovvero le scuole. Quindi anche per Pestalozzi la
scuola è un luogo privilegiato nel quale continuare quel processo educativo che si era
inizialmente avviato a casa, in famiglia. Quindi per Pestalozzi gli ambienti educativi per
eccellenza sono la famiglia e la scuola. Un’altra opera importante di Pestalozzi è IL CANTO DEL
CIGNO del 1824, dove lui afferma la convinzione che sia la vita ad educare, nel senso che per
Pestalozzi è vivendo delle esperienze che i bambini possono imparare, apprendere dei concetti.

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Pestalozzi ha avuto un’influenza nella pedagogia futura molto rilevante. Il pensiero di Pestalozzi
ha influenzato l’idee di Herbart, Frobel, ma anche di molti pedagogisti dell’800 e del 900. Per
questo motivo si dice che lui è stato il pioniere della scuola attiva, cioè dell’idea che la scuola
debba essere un luogo non solo di teoria, ma anche un luogo dove vivere delle esperienze
pratiche attraverso cui imparare. La scuola deve essere un luogo in cui partecipare a dei
laboratori, a delle esperienze pratiche di gruppo, attraverso le quali imparare, educare e
crescere. Egli inoltre ha riconosciuto molto importanza nel valore della famiglia, sul ruolo
educativo della madre, oltre che dell’importanza educativa delle scuole. Quindi Pestalozzi con la
sua idea di educazione ha influenzato la nascita della pedagogia come scienza, perché quello
che poi la pedagogia diventò, quando divenne una scienza a tutti gli effetti nel 1900, fu il risultato
delle teorie di Pestalozzi.

HERBART è stato un altro pensatore vissuto tra il 1700 e il 1800 che ha influenzata la nascita
della pedagogia come scienza. Autore del Compendio delle lezioni di pedagogia, fu il primo
pedagogista moderno ad aver compiuto una riflessione organica sulla pedagogia, sia in
relazione ai fini educativi che ai metodi. È stato uno dei primi che ha parlato chiaramente della
pedagogia come scienza. Nel 1806 pubblicò un’opera intitolata LA PEDAGOGIA GENERALE, in
cui ha riflettuto sulla pedagogia come scienza. Infatti in questo scritto Herbart chiarisce come
secondo lui la pedagogia debba essere una disciplina diversa dalla filosofia. Prima del 900 la
pedagogia era dentro la filosofia, cioè le riflessioni pedagogiche erano anche riflessioni
filosofiche, per Herbart la pedagogia è una disciplina che si occupa dell’educazione e quindi
deve essere considerata una disciplina distinta dalla filosofia. La pedagogia è una scienza
pratica applicata, cioè una scienza che studia un aspetto pratico della vita dell’uomo,
l’educazione. La filosofia non è un sapere pratico, è in larga parte un sapere teoretico, la
pedagogia invece è un sapere teoretico ma soprattutto pratico, riflette di quanto di più pratico
possa esistere nella nostra vita, l’educazione si teorizza, ma soprattutto l’educazione si fa. Per
Herbart la pedagogia doveva essere separata dalla filosofia e doveva essere intesa come una
scienza pratica e applicata, quindi di una scienza che si occupa di quanto più pratico esista,
l’educazione. Quindi doveva essere una scienza che si doveva riferire all’esperienza e doveva
entrare in dialogo con la psicologia e con l’etica. Egli come Comenio ha riflettuto sul metodo
didattico, cioè sul modo in cui insegnare. Secondo lui l’insegnamento efficace deve essere
caratterizzato dalla CHIAREZZA, cioè l'insegnante quando spiega deve essere chiara, deve
ripetere lo stesso concetto anche 300 volte affinchè tutti lo comprendano. Ma l’insegnante deve
anche insegnare per ASSOCIAZIONE, cioè deve collegare le conoscenze tra di loro, per evitare
il rischio che gli alunni apprendano dei concetti considerati tutti separati tra di loro, mentre se si
lavora per associazione, si apprende attivamente il concetto. Bisogna insegnare in maniera
SISTEMATICA, quindi ancora una volta collegare vecchie e nuove conoscenze, collegare ciò
che già si sa con quello che si sta imparando oggi grazie alla spiegazione dell’insegnante. Il
METODO deve essere chiaro, ben strutturato da parte dell’insegnante, affinchè l’apprendimento

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possa essere efficace. Per Herbart il rapporto tra l’educatore e l’educando doveva essere basato
sul governo. Secondo lui era importante la disciplina, secondo cui l’educando doveva essere
soggetto a delle regole. Era importante anche il processo di insegnamento che doveva avvenire
secondo criteri che abbiamo appena detto e poi era importante l’aspetto morale. Secondo
Herbart, l’educazione doveva servire a sviluppare una certa moralità, quindi a capire cosa sia il
bene e cosa sia il male e sviluppare delle virtù per poi diventare una persona virtuosa e una
persona capace di vivere nel mondo in modo sereno. Anche per lui, come per Pestalozzi, i
luoghi dell’educatore sono la famiglia prima, e la scuola dopo. Herbart è stato quindi un
anticipatore di tempi ed è stato un pensatore che ha influenzato la pedagogia del 900,
anticipatore dell’attivismo pedagogico (corrente di pensiero sviluppatasi all’inizio del 900 che ha
promosso l’idea che l’educazione e l’insegnamento debbano avvenire attraverso la pratica,
attraverso l’esperienza e non solo attraverso la lettura del libro). Fa un primo tentativo di
emancipazione della pedagogia alla filosofia al fine di renderla una scienza autonoma.

Un altro momento molto importante dell’800 è stato il momento del Positivismo. I massimi
esponenti sono: Comte, Stuart Mill e Spencer. Se non ci fosse stato il periodo del positivismo
probabilmente la nascita della pedagogia come scienza avrebbe subito dei rallentamenti o
probabilmente non sarebbe mai sorta. La pedagogia positivista si è diffusa in tutta Europa e
anche in Italia, i cui massimi esponenti sono stati Roberto Ardigò, Nicola Fornelli e De
Dominicis. Il Positivismo è stato una corrente di pensiero che ha affermato il primato della
scienza. Per i positivisti la scienza è l’unica fonte di conoscenza. Secondo i positivisti, quello che
dice la scienza è giusto, quello che non dice la scienza non è giusto. Quindi attraverso il
positivismo si è affermato l’importanza della scienza e del metodo e del sapere scientifico, infatti
in questo periodo molti saperi non scientifici, come la filosofia, sono stati messi in discussione
perché non basandosi su metodi scientifici non erano scienza e quindi non potevano essere
considerate come conoscenze vera. I positivisti hanno combattuto le concezioni idealistiche, le
conoscenze spiritualistiche, cioè quelle conoscenze che sono astratte, non hanno valore
scientifico. Un merito molto importante del positivismo è stato quello di aver dato uno statuto
scientifico alla pedagogia. Si è capito che anche la pedagogia poteva rientrare in questo
concetto di scienza. Quindi anche la pedagogia, cioè quella disciplina che si occupa di
educazione in senso teoretico ed in senso pratico, può rientrare in questo concetto di scienza
che i positivisti hanno affermato nel 1800, infatti si è affermata una nuova identità della
pedagogia, meno filosofica e più scientifica, sperimentale, rigorosa e plurale, fondata su un
rapporto virtuoso tra le scienze umane e le scienze naturali. Uno dei limiti del positivismo è stato
lo scientismo, termine che sta ad indicare questo dare eccessivo valore alla scienza,
sottraendo valore a ciò che scienza non è. In altre parole si è criticato ai positivisti di aver dato
troppa importanza alla scienza e avere dimenticato tutto il resto. Quindi anche la filosofia è
importante, va bene non avrà un rigore, non avrà un’oggettività come l’ha la scienza, ma è pur
sempre un sapere valido che può essere studiato e considerato.

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Inoltre nel periodo Ottocentesco in Italia assistiamo anche alla Pedagogia del Risorgimento. Il
Risorgimento è stato un periodo di rinascita da un punto di vista politico, culturale, sociale,
economico e anche educativo, ed è stato anche un periodo in cui in Italia si è riflettuto in
particolare sull’educazione popolare. Nell’800 in Italia il numero di persone analfabete era
altissimo, solamente i più ricchi, aristocratici e famiglie borghesi avevano questo privilegio.
Nell’Italia del primo 800 ci sono stati alcuni pensatori che hanno riflettuto sull’importanza di
educare il popolo, cioè educare tutti e promuovere anche un’educazione nazionale che
potesse contribuire alla nascita dell’Italia unita, educare al senso di patria, cosa che all’epoca
non c’era perché l’Italia non era ancora unita. Quindi le caratteristiche della pedagogia del
risorgimento sono state:

1. L’educazione nazionale popolare

2. La pedagogia della toscana

3. La pedagogia cattolica

Tra gli esponenti più importanti dell’educazione nazionale e popolare del Risorgimento
ricordiamo Vincenzo Cuoco, che ha promosso un’educazione pubblica e nazionale. Giuseppe
Mazzini che ha sostenuto nell’800 un’educazione gratuita, obbligatoria e laica aperta a tutti.

La pedagogia toscana è caratterizzata da pedagogisti toscani e tra i maggiori esponenti


ricordiamo Gino Capponi, Raffaello Lambruschini.

Massimi esponenti della pedagogia cattolica sono stati Antonio Rosmini e San Giovanni Bosco.
Quest’ultimo è uno dei massimi esponenti della pedagogia cattolica del risorgimento ed è stato
colui che ha promosso il metodo preventivo. San Giovanni Bosco ha preso a cuore tutti quei
giovani che vivevano in condizioni disagiate, che appartenevano a famiglie disagiate da un
punto di vista economico, culturale, sociale. Quindi tutti quei giovani che per questo motivo
erano a rischio di devianza, rischiando di diventare degli adulti criminali, di compiere dei reati,
dei furti, perché provenivano da famiglie che non erano particolarmente virtuose. San Giovanni
Bosco istituì il suo oratorio, all’interno del quale applicò il metodo il metodo preventivo, metodo
il cui scopo era quello di prevenire che questi ragazzi provenienti da situazioni disagiate si
perdessero e che quindi diventassero futuri criminali, alcolizzati, ladri. Il metodo di Don Bosco
era quello di offrire a questi ragazzi una strada alternativa rispetto a quella della criminalità. Lo
scopo era quello di indicare loro la retta via, la via della virtù, dell’eticità, trasmettere loro valori
anche religiosi, valori come il rispetto, l’amorevolezza, la giustizia.

Quindi in sintesi possiamo dire che l’epoca moderna stata un’epoca molto importante per la
nascita della pedagogia come scienza, perché all’interno di questa epoca ci sono stati pensatori
come Comenio, Rousseau, Pestalozzi, Herbart, il positivismo che hanno contribuito a definire
cosa sia la pedagogia, cosa sia l’educazione, ma soprattutto hanno contribuito alla nascita della
pedagogia in quanto scienza, differenziandola dalla filosofia.

Cos’è successo prima che la pedagogia come scienza potesse determinarsi? È stato un

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processo lungo dove ciascuno ha detto la propria che poi nel 900 ha determinato la definizione
di pedagogia come scienza, si è compreso come la pedagogia, sia e possa essere una scienza
e la si è iniziata a studiare. Il 900 è un secolo molto ricco per la pedagogia, perché è ricco di
scuole di pensiero di maestri, pedagogisti che hanno contribuito a determinare questa
rivoluzione epistemologica in ambito pedagogico che ha determinato la nascita della pedagogia
come scienza separata dalla filosofia e da tutte le altre scienze. Il 900 è il secolo in cui la
pedagogia si afferma, tuttavia in Italia ci furono alcuni che sostennero il contrario cioè come se
la pedagogia non dovesse autonomizzarsi come la filosofia, uno di questi fu Giovanni Gentile,
ministro della pubblica istruzione sotto il governo fascista a partire dal 1927, ha riformato la
scuola in senso fascista ed è anche stato un importante studioso che tra le altre cose ha
riflettuto su questa discussione che c’era in merito alla pedagogia. La pedagogia deve essere
autonoma alla filosofia o deve essere dentro la filosofia? per Gentile si, la pedagogia non
doveva scindersi dalla filosofia ma doveva continuare ad essere dentro il sapere filosofico
perché secondo lui questo dava importanza al sapere educativo e perché la filosofia per lui era
un sapere superiore. Noteremo che questo entrerà in contraddizione con ciò che sostenevano
altri come John Dewey che diceva che la pedagogia deve essere una scienza a parte dalla
filosofia. Il 900 è stato un periodo ricco per la pedagogia ad esempio si sono diffuse le
pedagogie di pensatori brillanti come Maria Montessori. La pedagogia nel primo 900 diventa una
scienza, in Europa e negli Stati Uniti hanno una larga diffusione le scuole nuove, l’attivismo, si
afferma una pedagogia progressista e non autoritaria, si promuovono percorsi alternativi che
mettono il bambino al centro del processo educativo, che parlano di un'educazione e di
un'istruzione che non devono avvenire attraverso una lettura del libro di testo ma si deve
educare attraverso la pratica. Si afferma l’idea che l’educando è il protagonista del processo
educativo e non la maestra o l’educatore cosa che prima non era così perché c'era il magistro
centrismo quindi il maestro al centro. Il maestro è un protagonista ma tanto quanto l’educando.
La pedagogia si afferma come scienza quando si capisce che il modo di educare deve essere
rivoluzionato. Una delle pedagogiste più importanti di questo periodo storico è Maria
Montessori che ha contribuito a rivoluzionare e migliorare il modo di intendere e fare
l’educazione. Lei è stata una donna medico, non solo pedagogista. quando parliamo di lei
parliamo inevitabilmente della casa dei bambini, questa scuola da lei stessa creata nel 900
prima in un quartiere popolare di Roma, poi lei ne ha aperte molte altre. Era una scuola per
bambini a misura di bambino, doveva essere strutturata per assecondare i bisogni, le richieste
dei bambini: dalla sedia, al banco ecc… Perchè per lei non era il bambino che doveva adattarsi
alla scuola ma era la scuola che doveva adattarsi al bambino.Il clima doveva essere sereno e
familiare, le educatrici erano le protagoniste del processo educativo quanto il bambino. Il
materiale delle scuole montessoriane era strutturato, cioè il materiale era pensato dalle
educatrici secondo l’età dei bambini e anche in base alle loro capacità e interessi. Questo si
differenzia dal metodo delle sorelle Agazzi: anche loro hanno creato delle istituzioni educative

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ma a differenza della Montessori il loro metodo educativo non prevedeva l’utilizzo di materiali
prestabiliti dalle educatrici ma il materiale con cui fare la scuola veniva selezionato dai bambini.
Ai bambini veniva chiesto di portare da casa un oggetto quotidianamente e attraverso quel
materiale si organizzavano le attività (cianfrusaglie senza brevetto). In questo periodo storico
una personalità di spicco è John Dewey, pedagogista vissuto tra il 1859 e il 1952. è stato un
pensatore importantissimo, ha promosso l’idea che l’istruzione e l’educazione debbano avvenire
attraverso l’esperienza. Per esempio dice che va bene insegnare leggendo un manuale ma va
bene anche insegnare facendo fare un’esperienza. Lui a fine 800 creò una scuola a chicago che
era una scuola dove gli studenti venivano istruiti facendo laboratori pratici. Un aspetto che ci
interessa riguarda un libro "Le fonti di una scienza dell'educazione" che ha pubblicato nel
1929 in America che è stato poi tradotto negli anni 50 per la casa editrice La Nuova Italia. È
importante questo libro che è stato pubblicato durante il crollo della borsa di Wall street, quindi
l'inizio di una grande crisi economica che dall'America poi si è diffusa in tutto il mondo fino ad
arrivare anche in Italia. In questo periodo storico dewey ha riflettuto sul valore scientifico della
pedagogia, all'interno di questo scritto lui ha definito chiaramente come la pedagogia debba
essere una scienza autonoma, deve avere un proprio oggetto di studio, una propria metodologia
e un proprio statuto.

In questo scritto ha parlato anche delle scienze che devono essere ausiliari cioè che devono
essere le fonti della pedagogia punto ovvero la psicologia la sociologia e la filosofia
dell'educazione. In pratica dewey ha detto che la pedagogia è una scienza autonoma ma non
significa che non deve dialogare con le altre cioè che nella sua autonomia scientifica deve può
dialogare con altre scienze al fine di arricchirsi e di meglio studiare il fenomeno educativo.
Queste fonti sono la psicologia che studia l'individuo da un punto di vista cognitivo e che quindi
può offrire un supporto importante alla pedagogia perché la psicologia e ci fa capire come
funziona la mente dell'uomo, la sociologia che si occupa invece della società e anche se
importante per la pedagogia perché la pedagogia studia l'educazione di un uomo che è inserito
in una società e poi la filosofia dell'educazione che è importante perché analizza l'educazione da
un punto di vista teoretico quindi dalla filosofia dell'educazione la pedagogia può prendere
qualcosa per meglio approfondire il concetto di educazione. Un altro importante pensatore che
ha riflettuto sulla pedagogia come scienza è stato Francesco de Bartolomeis che è stato un
grandissimo studioso di dewey e anche lui negli anni 50 ha pubblicato "La pedagogia come
scienza" un libricino in cui lui ha parlato della pedagogia che deve essere una scienza.

Quando la pedagogia si è affermata come scienza continuarono i dibattiti all'interno del mondo
della pedagogia per esempio nel 1968 che è un periodo storico molto importante perché è il
periodo delle contestazioni giovanili che dall'America sono poi proseguite anche in Europa.
Queste contestazioni giovanili erano delle contestazioni mosse dei giovani che si ribellavano alla
politica, alle istituzioni come la famiglia, la scuola, l'Università di quel periodo perché credevano
che queste istituzioni fossero corrotte, appunto molti ragazzi infatti nel 68 denunciarono la

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presenza di scuole e la presenza di università che erano corrotte da un punto di vista politico,
cioè sostenevano che quello che veniva insegnato a scuola, nelle aule accademiche fosse
influenzato dalla politica e che quindi non fosse un sapere neutrale. È un periodo di rivoluzione,
molti giovani non accettano più la cultura patriarcale molte delle cose della loro epoca. Si mette
in discussione anche la pedagogia perché si sostiene che molte teorie pedagogiche fossero
anch'esse corrotte e quindi nasce l'ANTI-PEDAGOGIA ovvero una pedagogia critica. Uno dei
massimi esponenti della pedagogia critica è stato Ivan Illich che negli anni 70 ha scritto un
volume dove parla della descolarizzazione delle nuove generazioni ovvero che le nuove
generazioni devono essere "depurate" da tutto quello che la scuola aveva loro trasmesso. Illich
parlava di un'educazione che doveva avvenire a casa con un maestro privato per evitare di
inserirsi in un'istituzione che era corrotta. Negli anni 80 si passa alla scienza dell'educazione
anziché parlare di pedagogia e criticarla. Si mette in discussione l'identità della pedagogia, e si
comincia a parlare di una serie di scienze che trattano l'educazione. Chiaramente questa idea è
stata criticata perché per alcuni non era corretto cessare di parlare di pedagogia. Negli anni 90
si ritorna alla pedagogia. Nel 1986 Granese-Bertin pubblicarono uno scritto "Che cos'è la
pedagogia?", in cui fecero il punto della situazione sulla pedagogia. Si afferma la pedagogia
come ONTOLOGIA REGIONALE ovvero una pedagogia che è un sapere autonomo, una
scienza assestante ma che entra in dialogo con altri saperi. Nella seconda metà del 900 si
ritorna a parlare di pedagogia come scienza attraversata da un momento teoretico e uno pratico.

12. Il Logos Integrato


Analizziamo in che senso la pedagogia fondamentale di stile fenomenologico-ermeneutico si
ponga come logos integrato. Possiamo dire che si tratta di un discorso che si snoda attraverso
diversi livelli di approfondimento, in un progressivo avvicinamento al senso del fenomeno
oggetto di indagine; ne deriva un sistema composito di forme differenti di sapere che si
presentano organicamente legate l’una all’altra:

12.1. Il momento empirico


Per quanto riguarda il problema della ricerca della verità dell’educazione, la cosiddetta coscienza
spontanea si limita a distinguere le forme autentiche di educazione da quelle inautentiche,
mostrando di possedere implicitamente un criterio di distinzione del vero dal falso. Si tratta però di
un sapere non consapevole di sé: la coscienza spontanea non sa o non sa dire di percepire il
vero e, soprattutto, non sa argomentare le ragioni di quanto afferma. In base a quanto detto, è
giusto affermare che la conoscenza spontanea deve andare oltre sé stessa, deve attraversare
l’esperienza del dubbio, mettendosi in questione. Mettendosi allora in crisi la coscienza immediata
affronta una vera e propria conversione, paragonabile per tanti aspetti a quella religiosa:

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oltrepassando l’immediato, si accetta dunque di essere mossi unicamente dalla “ricerca della
verità”. Il soggetto è dunque mosso dalla consapevolezza, germinale ma realistica, che vivere
segnati dalla ricerca del vero sia un bene per sé stesso preferibile rispetto al semplice vivere, al
lasciarsi vivere.

12.2. Il momento empiriologico


Dopo il momento empirico della pedagogia fondamentale l’istanza critica si concretizza come
indagine rivolta agli aspetti specifici del fenomeno. Le logiche specifiche sono quelle proprie delle
scienze che si applicano allo studio dei differenti aspetti specifici dell’esperienza
dell’educazione: ad esempio si tratta della psicologia dell’educazione che sussume gli aspetti
psichici delle relazioni educative; oppure, si tratta della sociologia dell’educazione, che studia i
fenomeni di socializzazione. In fondo, tutte le scienze umane, ciascuna con la sua specificità,
posso applicarsi allo studio dei diversi fenomeni specifici dell’educazione. Ma anche le scienze
della natura, come l’auxiologia, scienza medica che intende spiegare i fenomeni della crescita
fisica dei soggetti; e le scienze esatte, come la statistica sociale, che utilmente analizza i dati
delle imprese educative e tenta di fornirne delle ipotesi interpretative plausibili.
Le scienze – siano esse umane, naturali o esatte – applicate allo studio dell’educazione
vengono considerate “empiriologiche”. Si tratta di un termine che specifica la scelta delle
scienze in

questione di muoversi restando all’interno dell’esperienza, ponendo in ultima istanza il riscontro


o
il paragone con l’esperienza come criterio ultimo di sensatezza dei propri asserti.
Ora, da un lato è verità universale che ogni scienza e tutte le scienze sono tali solo se pongono
sempre l’esperienza “a monte” e “a valle”; in generale non c’è conoscenza né scienza senza
l’esperienza. Dall’altro lato però, costituisce una scelta d’altro genere quella di alcune scienze
che pongono le verità di fatto dell’esperienza non solo come base ma come fondamento della
ricerca del vero; questa
è la ragione per cui sono “scienze empiriologiche”.

12.3. Il momento teoretico


Si dà però un livello ulteriore di avvicinamento al senso, nel quale viene aggiunto quanto sinora
restava “non pensato”. Si tratta del senso che qualifica come specificatamente e realmente
educativo un determinato comportamento umano.

12.3.1. La domanda sull’essenza


La pedagogia fondamentale sembra debba mirare, progressivamente, ad affinare lo sguardo
dell’intelligenza e a potenziare la facoltà di significazione della ragione, per poter andare
veramente oltre il senso comune e oltre le scienze dei dati di fatto.
È necessario proprio uno sguardo affinato un tipo speciale di intuizione, che con il linguaggio

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della fenomenologia chiamiamo “eidetica”, tale da saper cogliere, nei fenomeni così come si
manifestano, quanto è essenziale: quanto non può non darsi affinché un fenomeno realmente e
sensatamente sia quel determinato fenomeno che esso è.

12.3.2. I principi della fenomenologia


È bene ricordare che è proprio nel momento teoretico che viene esaltato il contributo specifico
della fenomenologia, che prima di essere una determinata dottrina filosofica, è piuttosto una
certa apertura di fronte al reale, dunque una certa “postura filosofica”.
In questa sede ci accingiamo dunque ad enumerare i principi della fenomenologia:
- Principio di donazione di senso, nozione il cui significato può essere antropologico o
ontologico. Ci soffermeremo su questa seconda accezione, per cui se “donazione di senso”
viene intesa come “offerta di senso”, per ciò stesso si afferma che la realtà ha un senso, ovvero
è intellegibile o visibile, e che questo senso appare alla coscienza. Il senso che al soggetto è
offerto, viene dal soggetto “messo in forma”, formulato in un linguaggio umano che in quanto
tale è sempre una costruzione definita che produce significati.
- Principio dell’evidenza L’intelligenza intuitiva e la ragione argomentativa sono mossi
dall’evidenza, che vale dunque come loro criterio essenziale. Ogni realtà è un fenomeno, ossia
mostrandosi appare, e mai appare invano, perché è offerta di senso; ma mostrandosi appare
sempre secondo uno specifico, unico stile di evidenza che del fenomeno connota le proprietà.

- Principio della trascendenza Non tutto è evidente. Ci sono nei fenomeni lati oscuri o nascosti,
dei quali ovviamente noi parliamo perché in ciò che di essi appare con evidenza, con evidenza
si mostra anche il rinvio ad un oltre che è dato nell’adombramento.
- Principio gnoseologico, basato sulla distinzionetra intuizione empirica ed intuizione eidetica.
Con la prima ci si riferisce alla visione, che avviene grazie ai nostri sensi, di un fenomeno
determinato dell’esperienza immediata; la seconda è invece intuizione di un aspetto essenziale,
il quale non è un dato empirico, ma un dato nuovo, metempirico.
In altre parole, l’intuizione eideica consiste nella capacità di vedere, megli aspetti ricorrenti e
caratterizzanti di un fenomeno, un tratto esemplare; non più determinato, ossia riferibile al
fenomeno che si dà qui ed ora, ma universale, ossia riferibile a tutti i fenomeni.

12.3.3. Il nesso della pedagogia fondamentale con la filosofia dell’educazione


Nonostante il momento teoretico sia definibile come “filosofico”, la pedagogia fondamentale non è
affatto una scienza filosofica, identificabile con la filosofia dell’educazione. Ciò anche se le due
discipline hanno un nucleo problematico e di contenuto che è comune ad entrambe: il momento
teoretico della pedagogia fondamentale. Solo che la filosofia dell’educazione svolge questo
nucleo tematico connettendolo ad un’analisi eidetica più vasta, quella che intende l’intero della
persona, rispetto alla realtà dell’educazione che né è per così dire solo una parte.
Ecco la differenza essenziale con la pedagogia fondamentale: questa, nel suo momento teoretico

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svolge lo stesso nucleo tematico, connettendolo però alla concerta prassi educativa che sempre
internamente la orienta; la pedagogia si muove dunque nell’orizzonte di un fondamentale primato
della ragion pratica. Ciò significa che stima la riflessione teoretica come un momento all’interno
della prassi, che possiamo chiamare “momento di idealità della prassi”. L’autonomia del momento
teoretico della pedagogia fondamentale è dunque solo relativa, perché essa è tale in quanto
connette o articola la riflessione teoretica con una prassico-poietica: nella fattispecie, ponendo la
questione – pratica in senso eminente – del metodo educativo che sia confacente al senso
dell’educazione istituito dall’analisi eidetica.
Comunque sia, abbiamo già affermato che educare una persona è un’impresa filosofica;
pertanto, per la pedagogia fondamentale è necessario istituire un dialogo critico con la filosofia.
Ciò costituisce un vantaggio per entrambe: è un beneficio per la pedagogia, che in questo modo
pone al centro di tutto il suo impegno, pratico-poietico-teoretico, la nozione di persona. La
persona infatti costituisce, nelle azioni educative e nella riflessione pedagogica, la prima evidenza
e il primo criterio di senso. Reciprocamente, il nesso con la pedagogia apporta benefici alla
filosofia, la quale può vedere nella scienza pedagogica la piena realizzazione di un fondamentale
programma filosofico. Riteniamo si possa affermare che queste due forme di sapere, pur
in sé differenti,

abbiano in comune un progetto di vita: il conoscere della filosofia infatti è per la cura della
persona, ha parte essenziale all’azione formativa della persona, tanto da poter asserire che lo
stile filosofico di vita è un sostanziale programma pedagogico ed educativo.

12.4. Il momento prassico-poietico


L’orientamento all’azione, il concreto impegno educativo, esige il ritorno ai mondi della vita, ma
anche la scelta argomentata di un metodo adeguato a produrre un cambiamento qualitativo
nelle persone coinvolte nella relazione educativa. Nel momento teoretico si è trattato della
ricerca del perché educare. Ora, il momento ulteriore lo denominiamo prassico e insieme
poietico, perché si tratta del come educare e di un metodo diagonale in senso eminente. Si
tratta di un metodo che definiamo “dialogo esistenziale centrato sull’empatia”. E’ un’esperienza
trasformante per l’educatore non meno che per l’educando, di decentramento dall’io concreto
che ciascuno è e di riappropriazione di qualche tratto del “sé” autentico. Il dialogo esistenziale
è innanzitutto ed essenzialmente una pratica di comunicazione autentica tra i soggetti in esso
coinvolti. Certamente questo ha come condizione che lo rende possibile e reale il fatto che esso
sia centrato sull’empatia, virtù che consente infatti di tenere sempre come fine proprio e
prioritario della relazione quello di accogliere, comprendere e condividere quanto vissuto e
comunicato dall’altro. Il fine proprio e prioritario del dialogo non è dunque quello di persuadere
l’altro in merito a quanto noi reputiamo la nostra visione adeguata alle cose, bensì è riuscire a
vedere il modo con cui l’altro vede e sperimenta il mondo. Il dialogo è poi “esistenziale” perché in
esso è sempre a tema il modo con cui ciascuno di noi abita il mondo: le sue visioni

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caratterizzanti, l’ordine delle preferenze, gli amori e anche gli odi. E’ proprio l’interpretazione del
metodo educativo come dialogo esistenziale centrato sull’empatia a mostrare la necessità di una
speciale competenza ermeneutica, nel momento prassico-poietico della pedagogia
fondamentale.

14. Possibilita’ Di Ricerca Empirica Nella Pedagogia Fondamentale


La ricerca empirica offre senz’altro una nuova, più specifica possibilità di girare intorno al
fenomeno e coglierne altri profili: infatti i metodi di ricerca sul campo sono accomunati dal rilievo
riconosciuto ai vissuti dei partecipanti, direttamente coinvolti nel fenomeno preso in esame e
considerati ciascuno un punto zero da cui si dischiude un’inedita e originale prospettiva sul
mondo. Nella struttura epistemologica della pedagogia fondamentale di stile fenomenologico-
ermenenutico, una ricerca sul campo può trovare due diverse collocazioni, in base alla
finalità con cui viene condotta nell’economia dello studio in cui è inserita:
1) nella ricognizione empirica, come parte integrante del primo sguardo sull’esperienza da cui
tutto
il percorso di studio pedagogico prende avvio;
2) nel passaggio dalla riflessione di prima istanza a quella di seconda istanza, come una sorta
di introduzione alla riflessione sul senso dei fenomeni indagati e alla conseguente teoria del
metodo educativo.
In particolare, ricordiamo che la riflessione di seconda istanza coincide con la fondazione
pedagogica: si tratta della riflessione che è mossa non solo dall’esigenza di spiegazione dei
fenomeni, ma da quella di comprensione ed è infatti finalizzata ad evidenziare e argomentare i
tratti fondanti, essenziali e caratterizzanti, dei fenomeni su cui si pone l’attenzione.
Possiamo dunque osservare che, prima di una tale fondazione pedagogica è possibile, in
seno ad una ricerca di pedagogia fondamentale, un secondo tipo di ricognizione (a cui facevano
cenno nel punto 2. Tale nuova ricognizione empirica costituisce un’ulteriore fase esplorativa
dell’esperienza; si giova dell’aver attraversato la riflessione di prima istanza che ha delimitato
l’orizzonte del fenomeno considerato e ne ha spiegato gli aspetti empiricamente evidenti.
Emerge infatti l’esigenza di ritornare sull’esperienza dell’educare, per avviarne la comprensione
pedagogica vera e propria. Collocata dopo la riflessione di prima istanza, la ricerca qualitativa
sul campo permette di insistere e sostare nell’epochè fenomenologica: di sospendere in modo
più radicale il giudizio per chiedersi se le certezze raggiunte dicano qualcosa della verità
dell’educare.
In una ricerca empirica di stile fenomenologico, il principio metodologico che guida il fare del
ricercatore è quello di fedeltà al fenomeno: andare alle cose stesse, come si danno in sé stesse
e da sé stesse. Nel caso di una ricerca empirica di pedagogia fondamentale, non è possibile

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individuare in modo rigido e definitivo i passaggi da seguire, bisogna essere flessibili. Tuttavia
possiamo dire che le diverse fasi sono raggruppate in tre principali:

La raccolta di materiali di esperienza vissuta


In questa fase il ricercatore si lascia guidare dalla consapevolezza che, quando si tratta di
esperienze vissute, è necessario ricorrere ad un ascolto attivo e ad un continuo supporto nella
verbalizzazione. I ricercatori dunque, lavorano come facilitatori: offrono strumenti per precisare
quanto detto e far vedere nessi non visti, riassumono quel che viene detto, chiedono chiarimenti
aiutano a nominare ed elaborare i pensieri, le emozioni e i sentimenti. Si può dire che i
partecipanti sono aiutati a – per citare Ricoeur – portare la loro esperienza al linguaggio. Dare
un nome ai vissuti significa darvi diritto di cittadinanza e, così, cominciare un cammino di
autenticazione e personalizzazione dell’esistenza.
Per far ciò, è necessario lavorare sulle parole per trovare le espressioni più adeguate (o meno
inadeguate) per mantenersi fedeli alla realtà, mantenendo comunque desta la consapevolezza
sui limiti del linguaggio esistente.

L’analisi del materiale raccolto


Essa è praticata come un’accurata descrizione che vuol rendere, per quanto possibili, chiari
ed evidenti i temi ricorrenti ed essenziali.
In questa fase, i ricercatori si lasciano guidare soprattutto dalla volontà di non sovrapporre
categorizzazioni preconcette a ciò che, man mano, si manifesta davanti ai loro occhi. Ricordiamo
difatti che secondo la strategia di indagine di matrice fenomenologica, il metodo di ricerca non
può che essere concepito come uno strumento flessibile; a questo proposito si parla di disegno
emergente. Si faccia attenzione: non avere un disegno di ricerca rigidamente stabilito in anticipo,
non significa mancare di precisione. Piuttosto, si cerca di essere rigorosamente fedeli al
fenomeno, lasciando spazio al manifestarsi della realtà nella sua irriducibile alterità.
Piuttosto, si deve notare che la postura di ricerca fenomenologico-ermeneutica non può che
essere allocentrica: si tratta nel praticare, nel far ricerca, una ricettività accogliente, che non va
in alcun modo scambiata con la facile improvvisazione. In questo modo il ricercatore dedicherà al
fenomeno un’attenzione radicalmente differente da quella autocentrica propria del metodo
positivistico; è questa una declinazione del principio di fedeltà al fenomeno che caratterizza la
lezione husserliana.

La restituzione ai partecipanti
Meglio indicata come “co-elaborazione dei significati”, viene appunto condotta nell’ottica di una
corresponsabilità tra ricercatore/i e partecipanti: non solo al momento del report finale, ma più
volte lungo lo svolgimento della ricerca la codifica di quanto emerge deve essere condivisa dai
partecipanti ed eventualmente più volte negoziata. Lo spazio della ricerca si configura così
come

uno spazio intersoggettivo di co-costruzione dei significati e di contaminazione dei saperi diversi

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di cui i diversi soggetti sono portatori.

In questa fase, il ricercatore deve impegnarsi a saper riconoscere e mettere tra parentesi i propri
saperi, le rappresentazioni date per scontate e le precomprensioni del fenomeno (e delle
persone!) in esame; deve inoltre trovare un accesso al modo in cui le situazioni sono vissute in
prima persona dai protagonisti e studiare in profondità le relazioni intenzionali fra il/i soggetto/i e il
suo/loro mondo della vita.

17. L’esser persona della persona

17.1. L’incontro interpersonale


Come asserito in precedenza, abitiamo i mondi della nostra vita con altri esseri umani: il nostro
esserci è sempre un con-esserci. Ciascuno percepisce l’altro di fronte a sé in qualità di corpo
animato vivente sessuato; la persona che io sono e – analogicamente – che è l’altro accanto a
me, innanzitutto e con evidenza appare corpo. La persona, in breve, è il suo corpo e l’incontro
che più volte abbiamo definito “interpersonale”, invero è originariamente un incontro
intercorporale.
Ora, noi siamo in grado di vedere e di intendere che il corpo animato vivente, mentre da un lato si
presenta essenzialmente come un oggetto, dall’altro lato – in virtù dell’interiore animazione –
esso appare sempre insieme come soggetto. Si può dunque asserire che il corpo è una sorta di
“entità ontica”: la corporeità fisica o biologica, quella che lo fa apparire come oggetto esteso, sotto
qualche aspetto rende manifesto un soggetto, che è piuttosto uno spazio inesteso, dimensione
che trascende la semplice fisicità.

17.1.1. L’altro come un altro


Ciascun corpo occupa altresì una posizione determinata nello spazio; possiamo chiamarla il suo
punto zero, denotando così l’asse attorno al quale il corpo insiste. Proprio perché può ruotare
solo attorno al suo asse, il corpo permette al soggetto una visione prospettica sul reale: la realtà
appare sempre in una determinata prospettiva, mostra solo un suo determinato aspetto.
Mentre vediamo una regione del mondo intorno a noi, non riusciamo a vedere il punto da cui la
nostra visione si origina; esso rimane inoggettivabile, tanto da dover affermare che il punto zero è
in realtà un punto cieco.
Dunque, in ragione della prospetticità del mio sguardo, io come soggetto sono un’originale
apertura
sul mondo: la persona è una singolarissima presenza di essere e senso, unica e irripetibile.

17.1.2. Una conoscenza oggettiva del mondo soggettivo

È interessante notare che il linguaggio originario con il quale il nostro corpo registra nel proprio

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mondo la presenza di un’altra persona con cui si imbatte è quello delle emozioni. Quando l’altro
entra nel nostro campo visivo, il nostro corpo subito si pronuncia con una reazione emotiva
favorevole oppure con una sfavorevole. Le nostre emozioni possono rivelarsi effimere, durare un
solo giorno, o possono approfondirsi e permanere nel tempo, diventando affetti stabili o
sentimenti forti. Ce ne rendiamo conto quando acquistiamo coscienza che esse, se tendono a
permanere, si saldano ad altri aspetti della nostra vita personale. Ora, quando le emozioni
crescono in consapevolezza e permangono in noi, esse acquistano una nuova forma di esistenza
e diventano affetti. Inoltre anche gli affetti possono ulteriormente approfondirsi divenendo
sentimenti; ciò accade quando gli affetti, acquistando ulteriore tempo e spazio nella nostra
esistenza, si legano in modo essenziale e non accessorio ai nostri progetti di vita. Se molti sono
gli incontri con l’altro che suscitano le nostre emozioni, solo alcuni di questi incontri conducono
alla maturazione di un affetto stabile; e ancora un ulteriore restringimento si ha quando,
dall’ambito degli affetti, si

procede verso la maggiore profondità dei sentimenti: solo a poche delle molte persone a cui
siamo affezionati possiamo dire di voler veramente bene e di saper coltivare con loro una
relazione autentica e generativa.

17.1.3. L’altro come volto


Nell’incontro con l’altro, diventa quasi spontaneo imbattersi nel viso di chi ci sta di fronte e vedere
in esso una sorta di sintesi efficace della sua presenza personale. Il corpo animato vivente ci si
presenta allora come un volto: nel volto, infatti, l’altro ora diventa subito identificabile; nel volto ma
soprattutto nel suo sguardo, che ora pare una sorta di lucerna: effonde chiarità su tutto il volto,
tanto da farne una rappresentazione prossima della persona stessa.
Certamente può accadere, quando la nostra intuizione si limita ad ispezionare la superficie, che
riconduciamo sia il volto sia lo sguardo ad immagini standard. Mostriamo così di non avere
interesse a comprendere chi ci sta di fronte, né ci attrae quanto possa esprimersi della sua
interiorità. Questa però è solo una possibilità di approccio all’altro, col linguaggio della
fenomenologia dobbiamo chiamarla “inautentica”. L’esperienza ci rivela invece che si dà
un’altra possibilità, di tipo autentico e positivo: l’altro ci apparirà allora come un altro mondo
personale, un insieme di emozioni, di pensieri e di motivazioni sicuramente configurate in modo
caratteristico, che io non posso assimilare a me. L’altro è proprio un altro; e l’emozione che la
visione del suo volto genera, desta interesse e una qualche attrazione per la sua persona. È la
reazione favorevole, chiaramente simpatetica, che mi fa desiderare in modo immediato e quasi
spontaneo di condividere anche solo per un istante la sua condizione spirituale. Questa nuova
modalità d’incontro autentico con l’altro nella sua alterità e l’empatia: l’emozione intelligente che
permette di vedere e intendere il volto come sintesi vivente di una persona altra, e il suo sguardo
come visibilità o epifania di un mondo personale differente. L’altro è un volto: la sua identità e –
ancor più – il segreto che sembra custodire nel suo sguardo è costituito dall’ordine o dal disordine

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dei suoi amori.

17.2. La razionalità riconoscente


A questo punto della nostra ricerca, abbiamo abbastanza elementi per descrivere come si possa
pervenire a conoscere il volto e il cuore delle persone che incontriamo: rispondere alla domanda
cruciale su come avvenga concretamente il riconoscimento dell’altro.

17.2.1. Il rilievo dell’empatia


È bene precisare che l’empatia si distingue dalle altre forme di emozione simpatetica per il suo
essere percezione dell’altro in quanto è un altro da me.
Ogni persona sin dalla nascita è capace di empatia; possiamo chiamarlo “comportamento
empatico” e si manifesta già nei primi giorni di vita del bambino nella forma del contagio emotivo.
Normalmente, intorno ai ventiquattro mesi, il suddetto comportamento si tramuta in un
“atteggiamento empatico” vero e proprio. Infatti apprendendo a percepire l’altro – innanzitutto la
madre – come distinto da sé, il bambino diventa capace di compartecipazione emotiva. Solo con
l’adolescenza però, il soggetto diviene capace di “empatia matura”, di penetrare
nell’universo

personale dell’altro non in modo intrusivo e di riuscire a comprendere ed amare la prospettiva che
egli tiene aperta sul mondo. Precisiamo però che l’empatia matura non è una disposizione
spontanea: empatici non si nasce, piuttosto lo si diventa. È necessario difatti che il soggetto
compia su di sé un lavoro formativo, consistente fondamentalmente nell’apprendere e gestire le
proprie capacità relazionali e comunicative. Qui pertanto la lezione della psicologia ha bisogno di
integrarsi con quella che può venire dalla pedagogia dell’educazione: il soggetto ha bisogno di
essere aiutato da altri, da persone che hanno acquisito tale dote affinata e che danno poi anche
trasmetterla, per esempio conducendo esercizi di training empatico – di educazione dell’empatia
e all’empatia.
Ridotta a sé stessa, l’empatia va rivelando i tratti essenziali, fra cui una disposizione
contemplante dell’altro; implica dunque nel soggetto un atteggiamento allocentrico, o meglio
“ontocentrico”: un trascendimento di sé che dispone ad un pensare veritativo. In virtù di tale
disposizione contemplante, l’empatia può essere annoverata fra le virtù dianoetiche, ovvero di
un abito che l’intelletto può acquisire stabilmente.
Inoltre come fenomeno simpatetico, l’empatia dispone la persona all’altruismo; si distingue però
dalle altre forme simpatetiche perché l’atteggiamento altruistico in essa è segnato da
un’intenzionalità etica. Tale istanza strutturale rende l’empatia una virtù morale, che vede ed
intende l’altro come un bene senza condizioni, nel momento stesso in cui si sente coinvolto ad
operare perché il bene che l’altro è sia riconosciuto e si compia.

17.2.2. Il primo acquisto

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È interessante notare come l’empatia non sia un atto solitario del soggetto empatizzante, si
compie piuttosto come processo relazionale che coinvolge in un atteggiamento responsivo l’altro,
il soggetto empatizzato. In sostanza, l’empatia si presenta come un appello che desta la
coscienza di chi si vede amato e conosciuto.
Quanto del mondo dell’altro è accolto e condiviso può venir inteso ed espresso dall’empatizzante
in una prospettiva che alla persona empatizzata possa presentarsi come una novità: quasi
portasse una comprensione del suo mondo personale rimasta sino a quel momento allo stesso
empatizzato nascosta; quest’ultimo nello sguardo empatico viene visto non soltanto per quello
che effettivamente è, ma per quello che egli può essere.

17.2.3. Reciproco riconoscimento


Questo genere di riconoscimento personale al soggetto empatizzato appare alla stregua di un
dono: la speciale conoscenza di sé è offerta al soggetto empatizzato proprio come un dono; in
nessun modo essa può accadere come esito di un processo solitario, si riceve dall’altro incontrato
qualcosa di non atteso, non richiesto. Ed è interessante sottolineare che la coscienza personale
dell’empatizzato si desta nell’atto stesso in cui si pone come risposta d’amore e di conoscenza
all’empatizzante: quando sorge come una risposta ad una chiamata, diventando a sua volta
empatica nei confronti del suo empatizzante.

In definitiva, l’empatia è da considerarsi anche una virtù dialogale, ovvero un fenomeno


essenzialmente ed eminentemente relazionale, un appello che attiva una risposta. È per la
persona un evento davvero trasformante.

18. Il bisogno educativo


18.1. Il diventar persona della persona
L’educazione deve avere un nesso con la scelta di dimorare nella dimensione dell’esistenza
autentica; pertanto, con coerenza, l’educazione deve essere virtù etica e dianoetica
essenzialmente connessa alla riappropriazione di sé. Inoltre l’acquisto di una tale virtù deve
essere per sé stessa preferibile, essa si presenta desiderabile senza condizioni: è il viver bene
che s’impone, rispetto al semplice vivere.
Una tale conquista è però nient’affatto semplice, perché si tratta di un’impresa che il soggetto, se
anche volesse compierla, non può gestire da solo in un percorso solitario; può avvenire solo
all’interno di una relazione e in un percorso di cui egli non può disporre. L’acquisto della virtù
dell’educazione resta vincolato alla libera iniziativa di un altro, c’entra con un suo speciale atto
d’amore che abbia il potere di destare la coscienza della condizione di assenza a sé stessa.
Com’è stato precedentemente detto, l’educazione consente alla persona di pervenire ad una
dimensione autentica dell’esistenza; sia tale processo che la conquista hanno un nesso

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essenziale con il riconoscimento di sé che avviene nella forma di una relazionalità gratuita.

18.2. Bisogno di riconoscimento


La persona, proprio in ragione di una costitutiva relazionalità, per esistere come persona, ha
bisogno sia si essere riconosciuta nell’essere che di riconoscere l’essere. La prima istanza altro
non è che il lato affettivo del riconoscimento personale, mentre la seconda ne è la componente
etica.
In conclusione, possiamo affermare che bisogno di riconoscimento e bisogno educativo
coincidono; quest’ultimo si rivela o si esprime come bisogno d’intimità (componente affettiva) e
bisogno di dignità (componente etica).

18.3. I codici identitari


La prospettiva pedagogica relazionale che si va delineando, intende il riconoscimento come un
bisogno antropologico fondamentale ed originario, in ragione di una relazionalità costitutiva della
persona che senza qualcuno che si prenda cura di lui non ha alcuna possibilità non solo e non
tanto di sopravvivere, ma neanche di vivere. Un accudimento originario è dunque imprescindibile
per la sopravvivenza umana; ora, questo tipo di accudimento deve essere caratterizzato da una
tonalità empatica che può autenticamente esprimersi solo se l’altro viene riconosciuto come
persona, ovvero come interlocutore competente rispetto alla relazione che chi lo accoglie e si
prende cura di lui va costruendo con lui sin dalla nascita.
Il bisogno di riconoscimento della persona – è evidente – trova la sua prima soddisfazione
all’interno del contesto familiare. Le figure genitoriali, attraverso l’accudimento ma anche oltre il
semplice accudimento, sono chiamate a rispondere in modo adeguato a questo bisogno
originario e fondamentale della persona, perché se questo bisogno non venisse soddisfatto, ne
andrebbe della possibilità della persona di divenire tale. Si tratterebbe, in quest’ultimo caso, di
un vero e proprio danno antropologico, di proporzioni tali da comportare delle ferite educative
che renderanno

la persona incapace di vivere in pienezza.

18.4. Il codice materno


Erik Homburger Erikson descrive il primo stadio dello sviluppo del bambino come caratterizzato
da due polarità, di cui quella positiva si riferisce alla conquista della fiducia di base grazie alle
risposte che la madre è in grado di fornire prontamente per soddisfare i bisogni primari del
bambino. Al contrario, una madre non responsiva o poco responsiva porterà il bambino a
superare questa prima fase aderendo al polo negativo dello stadio in questione, cioè strutturando
una sfiducia di base. Le ricerche sembrano confermare che le persone maggiormente
predisposte a dare fiducia agli altri hanno sperimentato nelle prime relazioni con i genitori le

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risposte adeguate e pronte ai loro bisogni. Si tratta di persone che da adulte saranno meno
conflittuali, più amichevoli, più efficienti e con un alto livello di autostima, perché nutrono una
buona fiducia anche nei confronti di sé stessi.
La psicoanalisi lacaniana afferma che la funzione materna di esprime soprattutto in “interesse
particolareggiato” da parte della madre, per la singolarità insostituibile e irripetibile del suo
bambino che orienterà il modo di prendersi cura di lui. Questa attenzione alla singolarità del
bambino riflette una cura amorevole che non si limita ad una serie di adempimenti spersonalizzati
e spersonalizzanti, ma che è espressione di una tensione verso l’altro che educa il bambino al
desiderio e alla possibilità di poter desiderare a sua volta.
In sintesi, sin dalla sua nascita il bambino sperimenta il valore della dipendenza da qualcuno che
si prende cura di lui e si prodiga per soddisfare i suoi bisogni. Questa cura “incondizionata”
risponde anche ad un bisogno di appartenenza e protezione, denominato bisogno d’intimità;
solo grazie alla saturazione di questa prima necessità è possibile sentirsi degni e meritevoli di
costruire un’esistenza unica e personale.
Nei casi in cui il soggetto non sente di essere accolto come un dono, quando cioè il bambino è
privato di un accudimento empatico, assistiamo all’insorgere di un senso d’abbandono che
provocherà rabbia e indifferenza verso il mondo, forme di attaccamento insicuro, eccessiva
dipendenza sia durante l’adolescenza che nell’età adulta. La teoria dell’attaccamento applicata
alla scelta del partner ci ha confermato che la ricerca di una dipendenza dall’altro, a volte, può
presentarsi come forme di relazione compensatoria rispetto al vissuto di un legame di
attaccamento carente con la madre e/o con le figure di riferimento più significative.
Possiamo dunque affermare che bisogno psichico primario è quello di essere accuditi
empaticamente, accolti e amati incondizionatamente. Comincia a delinearsi l’idea che ci stiamo
riferendo, nella descrizione di ciò che è inscritto nel codice materno, al polo affettivo della
relazione.

18.5. Il codice paterno


La psicologia dell’età evolutiva ci ha spiegato come il padre favorisca la nascita sociale dei figli e
la loro autonomia, ponendosi come figura che permette in modo funzionale la rottura della diade
simbiotica madre-bambino, consentendo così l’avvio del conseguente processo di separazione-
individuazione del figlio, necessario per una differenziazione e un’autonomia dai genitori.
Il padre è colui che introduce la norma nella vita del bambino; ed è proprio nella norma che
risiede l’essenza della successiva capacità di scelta autonoma del soggetto che, senza limiti, non
interiorizza alcun criterio di discriminazione e, allora, ogni scelta apparirà “in-differente”. Per tale
ragione il padre dovrebbe essere testimone di un modo di stare al mondo, dovrebbe
rappresentare un riferimento sicuro attraverso un dono di sé costante. Si del promotore
dell’educazione al senso del limite, che consente al figlio di assumere il suo personale desiderio e

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significarlo. Diversamente, i giovani non sanno da dove partire (ogni strada è consentita) per
costruire una vita che abbia un significato e quindi anche il desiderio di vivere in pienezza.
Il codice paterno, quindi, è inerente al polo etico. Il padre deve consegnare al figlio un’ideale etico
perché egli possa vivere con un proprio significato la sua esistenza.

Ricordiamo tuttavia che questa funzione può essere svolta anche da una figura significativa che
non è necessariamente il padre biologico e, a sua volta, un padre può svolgere questa funzione
anche per quanti non sono i suoi figli biologici.
Affinché il padre assuma un atteggiamento pedagogicamente corretto è necessaria una buona
qualità della relazione coniugale. Ciò significa che – nello svolgimento del proprio ruolo
genitoriale
– il modo di essere padre è influenzato dal modo di essere madre della propria partner e
viceversa. In particolare, il concetto di autoefficacia coniugale indica quell’aspetto della
relazione coniugale che si riferisce alla percezione di ciascun coniuge di una buona qualità
comunicativa, di essere in grado di fornire un supporto al proprio partner, di saper trovare un
accordo sull’educazione dei figli e su altre questioni relative alla vita familiare; viceversa uno
scarso senso di autoefficacia coniugale espone la coppia a maggiore stress e conflittualità con
una conseguente influenza negativa sulla genitorialità.
L’azione educativa deve essere condivisa, nella costruzione di un vero e proprio patto genitoriale
che costituisca l’alleanza e la condivisione educativa tra i due adulti responsabili della crescita del
bambino. Tale patto si realizza quando i genitori sanno sostenersi a vicenda, legittimandosi
reciprocamente e condividendo le scelte educative; in sintesi si tratta di un patto educativo
costitutivamente duale.

18.6. Un bisogno fondamentale


18.6.1. il livello specifico della crescita educativa
È opportuno ricordare che l’amore incondizionato che si dà a un bambino non può, da solo,
umanizzarlo, ma che in qualche modo le due istanze del bisogno di riconoscimento (bisogno
di
intimità e bisogno di dignità) vanno integrate. Si tratta di un bisogno fondamentale reciproco, nel
senso che va inteso nella sua forma passiva e attiva: essere riconosciuti, chiedere di essere
riconosciuti (come risposta a un bisogno di intimità), ma anche riconoscere l’altro nella sua
unicità, nella sua singolare ricchezza e infine imparare, tramite una consegna etica, a riconoscere
significati e valori (come risposta ad un bisogno di dignità).
Questo discorso ha un valore essenziale per il lavoro educativo che può esplicarsi
sostanzialmente in una forma di riconoscimento reciproco tra educatore ed educando. La
domanda di riconoscimento esprime un’attesa che può essere soddisfatta solo in quanto mutuo
riconoscimento. In tal senso diviene centrale la concezione mutuale del riconoscimento: ogni
domanda di riconoscimento non può eludere a sua volta l’offerta del riconoscimento. Non basta

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che sia l’altro a riconoscermi, occorre anche che io riconosca l’altro come degno di riconoscermi.
In altre parole, il processo del riconoscimento è sempre biunivoco e reversibile. Nessuno dei due
soggetti reifica l’altro, in quanto entrambi risultano essere, allo stesso titolo, soggetti della
relazione di dialogo.

18.6.2. Un codice relazionale dule


Secondo la prospettiva della psicoanalisi, le funzioni della madre e del padre non possono essere
uniformate secondo un richiamo generico alla genitorialità che annulli le differenze fra le due
funzioni paterne e materne, tra i due codici simbolici che queste due figure richiamano. Infatti, la
madre non si limita ad elargire il suo amore al bambino, ma accogliendolo in modo incondizionato
fa posto, crea lo spazio fisico e mentale perché il figlio possa fiorire nel suo carattere unico. Così
il padre, in modo analogo ma non identico, non si limita a veicolare il senso della legge, la
dimensione normativo-punitiva; il compito del padre è incarnare – nella sua vita singolare – la
vocazione del suo desiderio che gli permette di sostenere anche la vocazione del desiderio del
figlio. Questo riferimento ci aiuta a capire la specificità della madre e del padre come persone
reali e potenze simboliche nella vita dei figli. Ora, queste due funzioni (materna e paterna)
assumono un senso pieno solo nella loro integrazione: ciascuno dei coniugi è tenuto a favorire la
funzione genitoriale dell’altro in quanto altro e quindi valorizzato nella sua differenza.
Stiamo parlando quindi di un’integrazione delle due funzioni che può consentire un reale
passaggio da relazioni affettive a relazioni elettive anche all’interni del contesto familiare. Si tratta
di relazioni che al legame di consanguineità aggiungono la libertà di scegliersi proprio grazie ad
un riconoscimento reciproco.
Nonostante quanto detto in precedenza, noi oggi assistiamo ad una particolare attenzione al
versante affettivo della relazione genitoriale. Abbiamo osservato una radicale aderenza al
sistema regolativo delle istanze interpersonali iscritte nel codice materno, ma abbiamo altresì
sottolineato la difficoltà a rispondere a un bisogno di dignità, alla consegna di significati e valori
iscritti nel codice paterno. Nel nostro tempo, l’autorità simbolica del padre ha perso peso, si è
eclissata, è

irreversibilmente tramontata. Allora, cosa resta del padre? Ciò che possiamo attendere da quel
che resta del padre nel tempo della sua evaporazione è un atto, una testimonianza singolare sul
proprio desiderio; quel che resta del padre si manifesta non più come ordine trascendentale della
Legge, ma come ordine singolare ed etico della testimonianza. Si tratterebbe di un padre che si
faccia vicario, rappresentante del mondo in cui vive, mostrando con consapevolezza la scelta di
un suo specifico modo d’essere uomo nel mondo contemporaneo.

19. La consegna educativa


19.1. Un ideale di vita buona

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La persona si riconosce già da sempre a partire dalla comprensione originaria che gli viene
trasmessa nei modi della sua vita: è assimilata nelle forme della certezza immediata nelle quali si
struttura il sistema delle su evidenze elementari

19.1.1. La lotta per il riconoscimento


Ogni impresa educativa rivela il bisogno di riconoscimento nell’atto stesso in cui tenta di portare
ad esso una certa risposta; ma proprio in quanto intende risultare educativa, essa implica in
modo eminente l’esercizio della riflessione. L’azione educativa implica allora un lavoro su di sé in
senso eminente: tanto un inventario di quello che si è, il riconoscimento dell’io concreto; quanto
l’esplorazione di ciò che si può essere, volendo diventare sé stessi, dunque di ciò che si deve
essere. La situazione originaria è un dato, una “consegna”; ma è anche il proporsi di un compito,
ovvero un appello ad una responsabilità: onde pervenire ad una personalizzazione creativa
della consegna e alla conquista dell’autonomia.

19.1.2. La testimonianza di un agire responsabile


Siamo certi di aver riconosciuto nella persona incontrata un educatore in ragione della precipua
capacità di farci amare ciò che lui stesso amava. Quell’incontro è stato dunque speciale perché
abbiamo ricevuto una testimonianza, una consegna di vita buona: l’educazione si può dunque
definire un processo di consegna di un ideale etico di vita buona, interessante per qualità umana.
Si tratta di una rel-azione, un’azione reciproca fra il consegnante (l’educatore) e il consegnatario
(l’educando): è un coinvolgimento che impegna entrambi i soggetti, ovvero che l’educazione è
un’operazione duale, o meglio bidirezionale. Risulta certo ben evidente che l’avvio del processo
avviene grazie all’evento, il dato o forse meglio il dono, di una personalità morale autentica; un
tipo umano definito dalla ricerca e dalla scelta di un ideale etico, ma anche la graziosa presenza
di chi sceglie di esistere ponendosi come impegno prioritario quello di comunicare il valore
d’essere e di senso che lo segna.

19.1.3. La condivisione di un comune orizzonte di senso


A ben vedere, però, la consegna da parte dell’educatore diventa educativamente significativa ed
efficace ad una condizione: la proposta di una determinata figura dell’esistenza come
autentico poter essere deve essere offerta secondo un aspetto che la rende carica di fascino e
attraente; in breve, quando essa porta la promessa di una felicità. Un ideale di vita difatti è
desiderato e può essere scelto in quanto incarnato da una persona che trova in esso la fonte di
un’interiore energia trasformante.
Va notato che per l’educando non è bene che l’oggetto del desiderio sia ciò che l’educatore vive
in modo singolare: per l’educando deve essere desiderabile l’ideale di vita che ispira quella
configurazione personale. Perché ciò possa accadere è necessario che l’educatore non attragga
a sé. Egli è chiamato a mostrarsi capace d’impegnare e “legare” l’educando, nella misura in cui

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entrambi riconoscono un orizzonte di senso comune e sono capaci di permanere al suo interno,
con una disposizione all’ascolto.
Naturalmente non può esserci esito educativo senza l’impegno deciso dell’educando a
interiorizzare la consegna che ha ricevuto, per poterla personalizzare secondo configurazioni
nuove. Lo stesso ideale di vita vive una nuova forma, realizzando aspetti che in altri contesti
erano rimasti virtualità inespresse.
Precisiamo che in ogni momento della consegna, ne va di un riconoscimento personale da parte
di entrambi i soggetti coinvolti. In primo luogo, è il riconoscimento dell’educatore, iniziatore del
processo di consegna educativa: egli si riconosce a partire dalla comprensione originaria che lo
costituisce, ma assumendola come proprio poter essere secondo un’articolazione innovativa. In
secondo luogo, si tratta del riconoscimento personale da parte dell’educando, il soggetto della
consegna: il quale – anche grazie alla mediazione dell’educatore – può riuscire a vedere lo stesso
ideale di vita buona in un’articolazione personalizzata, secondo una nuova inflessione.

19.1.4. La virtù dell’educazione


È doveroso aggiungere che la relazione riconoscente è efficace quando avviene nel soggetto un
cambiamento, una trasformazione di sé assiologicamente ed eticamente positiva. Tale
mutamento personale può avvenire soltanto se l’educando si vede nella proposta offerta
dall’educatore che ha assunto nei suoi confronti un’iniziativa; dunque se sotto qualche riguardo si
identifica con lui e ne interiorizza la consegna. In altre parole, un reale cambiamento della
persona c’è se egli fa vivere dentro di sé l’ideale dal quale si sente attratto, se l’educatore – o
meglio il tipo umano che incarna – trova dimora nel cuore di chi è coinvolto nella relazione.
Nessuna testimonianza positiva può essere veramente efficace, né destare il soggetto a sé
stesso perché assuma in prima persona l’ideale di vita proposto, senza una pratica in cui
entrambi i soggetti si coinvolgano in un’esperienza trasformante di reciproco riconoscimento.

19.2. Intercettare il desiderio d’essere e di senso


Ogni impresa educativa – si è detto – è sempre un tentativo di portare una risposta ad un
fondamentale bisogno di riconoscimento del soggetto. Ora, la riuscita dell’impresa dipende da
due fattori: in primo luogo, dall’adeguatezza dell’ideale di vita buona, che tale sia veramente da
un punto di vista ontologico, etico, assiologico; in secondo luogo, l’ideale risulta educativamente
efficace, pertanto adeguato dal punto di vista pedagogico, ove riesca a porsi come termine del
desiderio che costituisce il soggetto e che lo muove.
Il lavoro educativo consiste nel far fare esperienza di sé al soggetto, aiutandolo a diventare
consapevole di quello che è, attraverso un inventario del suo io concreto – di quello che
chiamiamo “archeologia del desiderio”; e insieme ad esplorare l’autentico poter essere, la
“teleologia del desiderio”.

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19.2.1. Desiderio d’esser desiderati


Secondo un’analisi fenomenologica del desiderare umano, noi desideriamo sempre, a motivo di
una mancanza che diviene tensione inesausta verso quanto ciascuno percepisce come
compimento possibile della sua povertà costitutiva. Per quanto desiderare sia sempre desiderare
qualcosa, nessun oggetto determinato sazia mai pienamente la fame e la sete del desiderare, il
quale dunque sempre oltrepassa quanto di volta in volta esso sceglie.
È opportuno ricordare che il desiderio nasce dai bisogni, ma non coincide con essi, in ragione
soprattutto della sua indeterminatezza, che lo rende in qualche modo autonomo rispetto ad essi.
In secondo luogo, esso non può essere fatto coincidere con l’amore, il quale è definito dalla
presenza di un bene, di cui può saziarsi; il desiderio è costituito piuttosto da un’assenza percepita
sempre come incolmabile. In terzo luogo non coincide con la volontà, che è riflessività, poter dire
di sì o dire di no ad un oggetto desiderato, mentre il desiderio non può dire di no all’oggetto che
intende.
In ultima istanza, la radice del desiderio è inconscia o preconscia, sottratta cioè per definizione al
regime della luce, alla piena comprensione.
Tutti gli impulsi umani appaiono forme e modalità differenti del desiderare. In effetti, ad una
descrizione fenomenologica più affinata, le stratificazioni della vita emotiva si mostrano
progressivamente e appaiono forme diverse del sé desiderante: coinvolgono sempre lo stato più
profondo del sé soggetto, sono attivati e sostenuti dalla ricerca di qualcosa o di qualcuno che
possa colmare una mancanza, avvertita dal soggetto come insopportabile.
Il primo risultato di questa analisi è vedere unitariamente la patosfera: tutto il vasto complesso di
fenomeni che definiamo universo emotivo si presenta con una certa unità organica. Si può dire
che la patosfera rivela quanto il soggetto intende a proposito del proprio essere nel mondo,
perlopiù in atti coscienziali che si esprimono nel modo più immediato e che sono sottratti alla
consapevolezza. Si tratta di quella che, evocando il linguaggio di Heidegger, abbiamo già
chiamato “prensione globale dell’essere”, il “trovarsi” o originario sentirsi costitutivo del soggetto
nel suo essere-nel- mondo.

19.2.2. Acquisire una competenza esistenziale


La consegna educativa dell’educatore deve intercettare dunque il desiderio singolare
dell’educando, solo così può essere percepita e accolta come adeguata: solamente a questa
condizione può essere dall’educando interiorizzata e può divenire concreta. Allora, il motore
segreto di quest’opera diviene l’attivazione nell’educando della parte più viva della sua persona:
l’anima dell’anima.

20. Verso un nuovo ideale poi dedico


20.1. Microcomunità, forme di socialità ristretta

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I giovani del nostro tempo si sentono meno preoccupati dai problemi della vita collettiva e
sembrano più interessati a coltivare rapporti interpersonali in piccoli gruppi, in forme di socialità
ristretta: si tratta di comunità piccole anche amicali che proponiamo di denotare microcomunità,
in cui giovani e meno giovani possono provare a rispondere al loro bisogno di significato.
L’elemento aggregante delle suddette microcomunità è senz’altro l’accettazione da parte dell’altro
e la percezione che l’esperienza dell’altro sia analoga alla propria: sentirsi accettati apre alla
possibilità di riuscire a condividere il proprio vissuto nella ricerca comune di significati.
La prima microcomunità in cui ci troviamo consegnati è innanzitutto la famiglia, come espressione
insieme della coniugalità e della genitorialità; essa costituisce per la pedagogia fondamentale un
esistenziale, dimensione costitutiva dell’esistenza personale e luogo privilegiato per consentire
un’integrale fioritura della persona che in essa può trovare un potenziale di grande
umanizzazione, tale da potersi diffondere anche all’esterno.
Un altro esempio è dato dall’amicizia: essa sintetizza una forma di amore etico in cui
all’affettività si coniuga l’interesse autentico per l’altro, un interesse che in essa è in modo
evidentemente reciproco. Sono proprio l’interesse autentico e la reciprocità a consentire di
sperimentare un’intimità spirituale che si traduce in una ricerca comune e condivisa di significati.
Queste forme di socialità, nelle diverse declinazioni in cui possono presentarsi, assumono grande
valore per l’educazione, perché ispirano ideali di vita che appaiono più adeguati per la
promozione della fioritura umana del nostro tempo.

20.2. Primato della relazione, un evento bidirezionale


Bisogna innanzitutto riconoscere il primato della relazione come elemento costitutivo dell’essere
umano; una relazionalità che assume un carattere pieno solo quando riconosciamo l’altro come
“altro da noi” e quindi mai totalmente conoscibile. Va notato come questo primato della relazione
cui ci stiamo riferendo, abbia assunto oggi in modo specifico il carattere del primato della
dimensione affettiva, cui è legato l’indebolimento graduale della dimensione etica della relazione.
Abbiamo inoltre sottolineato come questo scivolamento verso un prevalere della dimensione
affettiva caratterizzi tutte le relazioni più significative.
Le nuove generazioni sentono come elemento fortemente positivo l’essere stati amati e l’essere
amati dai propri genitori. Quindi nel passaggio fra le generazioni, la socializzazione è
prevalentemente caratterizzata dall’importanza data all’affetto e ai sentimenti rispetto alle altre
dimensioni educative. Anche in riferimento alle relazioni elettive – cioè quelle legate ad una scelta
di vita di coppia – l’affettività prevale sulla dimensione etica dell’impegno nei confronti dell’altro,
restituendoci un quadro di evidente fragilità delle coppie di oggi.
L’accettazione da parte dell’altro attraverso un’affettività incondizionata sembra consentire quella
reciprocità che segna l’evento relazionale come indubbiamente biunivoco. Peraltro l’esempio
delle microcomunità ci conferma che la relazione educativa deve imboccare – innanzitutto, anche
se non esclusivamente – la strada dell’affettività che, avviando verso un’accettazione reciproca,
apra anche alla dimensione etica dell’impegno e della ricerca di significati condivisi. Tuttavia,
senza negare l’indubbia utilità della dimensione affettiva, la difficoltà ad intraprendere un progetto
educativo più ampio sta proprio nel conciliare questa dimensione con l’esigenza di stabilire delle
regole e attribuire significati nelle fasi successive di crescita dei figli.
Il giusto contenimento di una sempre maggiore richiesta di libertà è fondamentale per il processo
di individuazione del soggetto: avere dei limiti è rassicurante e aiuta a crescere iniziando da
alcuni punti di partenza; far pensare ad un bambino che è lui a decidere per sé crea soltanto una
profonda insicurezza. Un bambino privato di un contenimento del suo “narcisismo primario” è un
bambino in preda a fantasie e immagini che lo conducono verso una confusione mentale
indigeribile, che si tramuta nell’ingannevole illusione di poter essere tutto.
In altre parole, l’amore solo spontaneo non educa, poiché si nutre di un gioco di proiezioni

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narcisistiche che non permettono all’educando di conoscersi e sperimentarsi pienamente, e


all’educatore di comprendere e accogliere l’altro come altro da sé, rispondendo così ad un’istanza
veritativa e insieme etica.
L’idea attuale di famiglia è quella di un ambito sociale ristretto, distinto e per alcuni aspetti anche
opposto alla sfera pubblica. Anche la genitorialità diviene dunque una scelta privata: il figlio è un
desiderio privato di una coppia intimizzata. La genitorialità – in altre parole – diviene
un’esperienza personale e non più sociale: il figlio è diventato unicamente dei genitori, perdendo
spesso anche la funzione di legame fra le generazioni. Questi fenomeni sembrano in qualche
modo tradire, o meglio dimenticare, la logica del dono che ci connota come esseri umani e che
caratterizza tutte le relazioni significative della nostra vita. Senza il dono di una persona che
liberamente e gratuitamente ci ama in modo incondizionato e che ci percepisce proprio come un
bene, nessuno di noi è in grado di pervenire ad un’autentica conoscenza del proprio bene.

20.3.
La logica del dono ci inserisce nell’universo della “restituzione”, in cui sentiamo che per compiere
autenticamente noi stessi dobbiamo donare a nostra volta. Con ciò non intendiamo dire che il
donare sia un effetto lineare del ricevere, tuttavia l’analisi fenomenologica ci permette di vedere
che esiste una relazione reciproca fra il dono e il debito che infine si manifesterà nella restituzione
e nella riconciliazione, momento in cui sappiamo accettare i limiti di coloro che si sono presi cura
di noi, perdonandone tutte le mancanze, per volgerci a nostra volta verso la cura di
un’altra generazione con la speranza che sappia accettare i nostri limiti.
Allora ciò che caratterizza lo scambio tra una generazione e un’altra è il doppio versante dono-
debito che, a sua volta, riflette ancora una dimensione affettiva ed una etico-normativa. Per
approfondire questo oppio versante, faremo riferimento a due concetti accomunabili a quelli di
dono-debito, cioè la gratuità e la gratitudine. La prima attiene più al dono e si manifesta nella
mancanza dell’attesa di un contraccambio. La seconda si riferisce al debito e ci preserva dal
rischio di un “donare narcisistico”; quest’ultimo si realizza, ad esempio, nel caso dei genitori che,
tenendo vicini i figli ad oltranza, possono più facilmente controllarli e condizionarli e quindi
esercitare il loro potere e dominio genitoriale, espressione di un possesso iperprotettivo.
Viceversa la gratitudine per quanto ricevuto in dono ci aiuta ad accettare che la finalità ultima del
prendersi cura è l’autonomia dell’altro e che qualsiasi progetto autenticamente educativo supera
chi l’ha messo in moto.
Quanto detto non significa che il dono fatto all’altro sia fine a sé stesso, ma è probabile che nel
momento in cui finalmente germoglieranno i frutti seminati da un “adulto generativo”, questi non
sarà più in vita: la restituzione non è mai un processo lineare e può seguire strade impensate,
caratterizzate tra l’altro da salti fra le generazioni.
Allora, i genitori dei giovani adulti devono saper gestire la sofferenza per il distacco dai propri figli,
devono imparare ad abbandonarli, rinunciare ai propri progetti su di loro. Dovrebbero quindi
predisporsi a riconvertire le proprie energie generative in altre imprese, lasciando ai propri figli lo
spazio di diventare, a loro volta, adulti. In vista di una vita che si prospetta ancora lunga, i genitori
possono realizzare un passaggio da una generatività familiare ad una sociale, come nel caso del
volontariato o di altre forme di associazionismo.

20.4. Il valore educativo della solidarietà e del volontariato


A questo proposito, asseriamo che tra le comunità educanti contemporanee, l’associazionismo –
che, in maniera crescente, ha come protagonisti i giovani – costituisce indubbiamente un luogo di
socializzazione ed educazione. L’associazionismo e in particolare il volontariato svolgono,
soprattutto oggi, un’importante funzione educativa e formativa per i giovani; si tratta di una scelta

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che viene valorizzata proprio perché i legami sociali si sono allentati sempre di più.
È bene precisare che un’evoluzione da uno spontaneo atteggiamento prosociale verso una più
ampia generatività sociale, può avvenire grazie al filtro dell’educazione familiare ma anche
attraverso esperienze autentiche all’interno di microcomunità empatiche, come quelle dove si
praticano attività di volontariato. Per tale ragione, oggi si può affermare che il volontariato sia il
deposito più significativo di capitale sociale per la ricostruzione di legami comunitari e la
costruzione di tutti quegli aspetti dell’identità definiti come morali, sociali e civici.
Le ricerche sul tema affermano che la scelta dell’impegno in qualche forma di volontariato si
muova sostanzialmente da una presa di coscienza critica dei propri bisogni e dalla capacità di
uscire da sé per riconoscere anche i bisogni degli altri. In questo passaggio sembra realizzarsi
concretamente quanto affermato sopra a proposito della logica del dono, che si fa
consapevolezza non solo della propria dipendenza dall’altro, ma anche di una condizione che
accomuna tutti e ci rende in qualche modo “fratelli e sorelle di condizione”.
G. Elia ci ha aiutato a fare un’importante distinzione tra altruismo e impegno nel volontariato; egli
afferma infatti che lo specifico del volontariato è la generazione di nessi di relazionalità fra gli
uomini. È proprio questa la caratteristica che differenzia il dono gratuito, tipico del volontariato,
dalla beneficienza privata, tipica della filantropia o dell’altruismo. Infatti la forza del dono non sta
nella cosa donata, ma nella speciale qualità umana che il dono significa per il fatto di essere
relazione. Così, il volontariato non si configura come comportamento d’aiuto occasionale ma si
esprime – in primo luogo – attraverso la continuità e diviene nel tempo come un modo di essere,
uno stile di vita. Si tratta di una relazione che deve instaurarsi in un’interazione faccia a faccia con
altri e in una continuità temporale che consente lo strutturarsi, appunto, di una relazione
caratterizzata da un impegno nei confronti dell’altro, da un amore etico.
Ancora, alcune ricerche hanno evidenziato che il comportamento prosociale e l’impegno nel
volontariato hanno certamente una connessione con le relazioni e i legami familiari, fra cui
l’influenza della madre rispetto alla scelta concreta dell’impegno nel volontariato e l’impegno
attivo del padre in azioni prosociali e il supporto che questi fornisce ai figli. Altre ricerche
dimostrano invece come il volontariato possa divenire un percorso in cui sperimentare e
apprendere ciò che la famiglia non ha potuto o saputo dare, una sorta di fonte educativa vicaria,
che permette alla persona, attraverso le potenzialità proprie della microcomunità empatica di
accedere alla logica del dono; si tratta – in altre parole – di un vero e proprio “tampone
intergenerazionale”.
Il volontariato allora si pone come utile strumento in grado di favorire e sviluppare una formazione
completa della persona solidale. M. Pollo sottolinea come sia importante che i giovani, ed alcuni
lo fanno, mettano al centro della propria vita una costellazione di valori, che egli definisce
“dell’alterità solidale”, riferendosi ad un percorso di decentramento da sé per aprirsi all’altro.
Tuttavia ciò non avviene in modo naturale e spontaneo, ma occorre educare alla condivisione
all’interno – ad esempio – dell’iniziazione al volontariato, i cui è possibile sperimentare la concreta
realtà dell’altro da me all’interno di una condivisione autentica. Soprattutto, dischiude alla
dimensione della relazionalità riconoscente; una restituzione intesa non solo in senso letterale
“ridare a chi ci ha fatto un dono”, non solo indietro, ma anche in avanti “donare perché si è
ricevuto in dono”, trasferire ad
altri in senso pienamente generativo quanto abbiamo già ricevuto e oltre a ciò che abbiamo
ricevuto.

21. Aver Cura


21.1. I gesti dell’aver cura

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Nonostante l’errore antropologico connesso all’individualismo del nostro tempo, le forme dell’aver
cura dell’altro sono quelle che più caratterizzano e arricchiscono la vita umana proprio in quanto
umana. Esse scaturiscono dallo stare in ascolto del proprio e altrui desiderio di divenire
pienamente quello che si può essere, dando forma alla propria originale presenza nel mondo.
La filosofa dell’educazione Nel Noddings muove dall’osservazione della cura genitoriale come
fatto originario della nostra umanità. Infatti la studiosa propone di ripartire dall’esperienza
del caring come relazione e, innanzitutto, dal ricordo di essere stati fruitori della cura d’altri, che ci
hanno permesso di essere quel che siamo oggi.
Secondo la Noddings, la prima modalità dell’aver cura è senz’altro l’attenzione, intesa come una
basilare capacità di decentramento, di silenzio ed ascolto dell’altro. Essa è innanzitutto una virtù
dianoetica, cioè del pensiero – che poi si traduce in una specifica virtù etica, cioè del
comportamento. Solo dopo questo primo gesto, tutto interiore, è possibile compierne un altro,
altrettanto interiore, che Noddings definisce uno spostamento della propria energia dal sé
all’altro.
Gli studiosi della comunicazione interpersonale individuano nel silenzio e nell’ascolto ricettivo il
primo momento della comunicazione autentica: occorre una profonda competenza nell’ascoltare
che permetta di essere veramente aperti a tutti i messaggi dell’altro, impegnandosi a
comprendere l’emittente e i suoi messaggi dal suo punto di vista. Non soddisferebbe a queste
esigenze quell’ascoltatore che nel contatto comunicativo riconducesse subito la presenza
dell’altro ai propri schemi di riferimento, atteggiamenti, valori, desideri. In un certo senso, si può
dire che per prendersi cura dell’altro bisogna distrarsi da sé.
Spesso la disattenzione per l’altro è evidente, altre volte sottilmente mascherata. Ci sono – ad
esempio – cattive abitudini di ascolto che restituiscono subito all’altro la percezione di una
presenza, forse anche fattiva ed efficace nella risoluzione di alcune esigenze pratiche, ma
distratta. Fra queste, non mantenere il contatto visivo con la persona ma guardare
frequentemente altro; non guardarlo mai negli occhi; mantenere una distanza spaziale eccessiva.
Il primo atteggiamento di cura, allora, sarà quello di offrire sempre un volto disponibile.
Heidegger ci suggerisce che la cura deve essere fatta di riguardo e indulgenza: è importante
rilevare che entrambi i termini, in lingua tedesca, contengono la parola “sicht” (vista), come a
voler sottolineare che il mantenere lo sguardo sull’altro è elemento imprescindibile della cura per
l’altro. La cura si esplicita poi nella capacità di fare silenzio davanti all’altro e – piuttosto che
giudicarlo e sostituirlo nell’elaborazione del suo pensiero – nel supportarlo con azioni dialogihe
che lo aiutino alla verbalizzazione di ciò che forse non è capace di esprimere.
All’ascolto, fa seguito il gesto dell’accoglienza: accogliere e contenere per rassicurare, far sentire
a proprio agio. È qui la traduzione pratica specifica delle modalità relazionali del codice materno.
Ora, tutti questi gesti di cura saranno autentici e non troppo inadeguati se gli educandi sentiranno
di essere amati, nelle cose che a loro piacciono: un semplice gesto di cura dell’adulto nei
confronti del bambino, ma anche di un partner verso l’altro, è quello di informarsi e di
cercare di conoscere quegli ambiti verso cui si orienta l’interesse dell’altro.
Inoltre gli educandi si sentiranno ascoltati, accolti e contenuti davvero se percepiranno che
l’educatore non ha fretta, ma accetta di rallentare e fare le cose anche lentamente. Al contrario, la
dinamica della comprensione può essere bloccata se l’educando percepisce un’invadenza che
pretende di svelare ogni cosa e che non rispetta i tempi e i ritmi personali. L’educando dunque,
da una parte deve sentire che l’educatore intende farsi a lui vicino, ma senza volerlo possedere,
esaudire nelle sue categorie, dominare; dall’altra parte l’educatore deve essere sempre
consapevole che il comprendere non equivale necessariamente a “capire” tutto, a “capire” l’altro,
che è e deve essere mantenuto come non contenibile. Proprio per questo la ricerca di
comprensione si regge sul desiderio di accoglienza incondizionata.
L’azione di cura deve essere poi ferma e non tentennante: molti “educatori” non sanno porre limiti

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e fare rimproveri; se lo fanno, sembra quasi se ne debbano scusare e difficilmente sanno poi
tener fede a quello che dicono di fare, qualora il limite venga trasgredito. Sono di fatto incapaci di
far fare l’esperienza feconda per ogni persona del proprio limite; di conseguenza i bambini che
vengono loro affidati diventano “selvaggi” e “sovrani”. In altri termini, un bambino a cui non
vengono imposte delle regole è un bambino che manifesta in più modi di averne proprio bisogno.
Gli autori del celebre testo L’epoca delle passioni tristi legano la tristezza dominante del nostro
tempo alla crisi dell’autorità educativa, che si può considerare un’incapacità di consegnare in
eredità un mondo dotato di significato. Alludono ad un’eclissi di autorevolezza che oggi si
manifesta soprattutto nel concepire ogni relazione come simmetrica e contrattuale; risulta difficile
esercitare un ruolo educativo perché genitori e insegnanti, in nome del rispetto della libertà
individuale, si sentono continuamente tenuti a giustificare tutte le loro scelte, fino a scusarsi con il
bambino dinnanzi alla sua insofferenza o ribellione. Senza essere rassicurati e contenuti, questi
bambini sono lasciati soli di fronte alle proprie emozioni e il rapporto con gli educatori, ma anche
con i pari, diviene teso e ansioso. È proprio nei meno desiderabili atteggiamenti e gesti di
controllo e guida che può trovarsi la traduzione pratica specifica delle modalità relazionali del
codice paterno.
Abbiamo già spiegato come i due codici paterno e materno vivano di una strutturante reciprocità.
Ora la nostra riflessione ci conduce ad esplicitarlo sul piano del metodo educativo, con
l’individuazione delle due variabili del controllo e del contatto, che sempre dovrebbero entrare in
gioco nello stile dell’educatore.

21.2. Gli stili dell’aver cura


Per definire uno stile educativo bisogna fare riferimento almeno a due variabili.
Tali variabili sono:

- Lo stile educativo autoritario è quello dove il controllo è massimo, mentre minimo –


quasi assente – è il contatto. L’imposizione delle norme e la trasmissione dei significati è
preponderante rispetto alla promozione della persona dell’educando e, quindi, a quella
che abbiamo presentato come autentica consegna educativa.
- Lo stile educativo permissivo è quello dove il controllo è minimo, quasi assente. Nella
maggior parte dei casi, quando il controllo è minimo il contatto è massimo; tuttavia nel
caso di un educatore permissivo, il contatto può essere anche minimo, come avviene per
molti adulti permissivi trascuranti che non rispondono in nessun modo al bisogno di
riconoscimento dell’educando.
- Lo stile educativo autorevole ed empatico è quello in cui la misura del controllo è in una
saggia medietà, mentre massimo è il contatto. C’è uno sbilanciamento nell’espressione
dell’affettività e del calore che diventano habitat proprio della consegna educativa. Ed è
lo sbilanciamento proprio di quel “darsi fiducia” reciprocamente, che solo genera
comunità davvero educative. Si tratta di uno stile educativo che vede la compenetrazione
dei due codici, materno e paterno.
Quel bambino che non riceve né dai genitori né dagli altri educatori alcuna indicazione,
non è affatto libero di scegliere e di trovare i significati che cerca, bensì è incapace di
selezionare il gran numero di informazioni che riceve, di comprendere ciò che lo circonda, di
scegliere e prendere una qualsiasi posizione, di inserirsi positivamente e costruttivamente nelle
relazioni sociali. Dove, invece, il principio di autorità è autenticamente inteso e vissuto come
autorevolezza educativa, viene offerto al bambino un mondo simbolico comprensibile, una
mappa di significati dalla quale partire.

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Infine, va osservato che il principio di autorità è autenticamente inteso e vissuto dove l’adeguato
grado di controllo e di contatto si congiunge alla congruenza dell’educatore. Nessuna consegna
educativa potrebbe essere possibile se l’educatore fosse incostante, inaffidabile: se non tenesse
fede, in prima persona, alle sue parole e non tenesse saldo il suo comportamento. L’educatore
dev’essere dunque capace di un’attestazione affidabile, ovvero di autentica testimonianza.

21.3. La risposta dell’aver cura


In una teoria della cura educativa, non va da ultimo dimenticata la risposta del fruitore delle cure.
L’educatore – e innanzitutto il genitore – non può aspettarsi una simmetria, che permetta di
riavere indietro dalla persona di cui ha cura una risposta che riequilibri la relazione. Tuttavia, il
contributo del fruitore della cura va valorizzato come elemento strutturante, e non accessorio,
della relazione
educativa. Si tratta di “risposte di riconoscimento”, che non si esprimono necessariamente a
parole e che in ogni caso costituiscono un feedback prezioso, di cui il datore di cura deve tenere
conto: continuare sempre ad essere attento, ascoltare e osservare la persona che è affidata
alle su cure, aiuta a che la cura non segua solo l’idea iniziale dell’educatore, ma che si adatti al
divenire, alla crescita e al cambiamento della persona. Sinteticamente si può dire che, attraverso
la cura, viene perseguito il bene dell’altro, ma in un modo per cui l’altro viene posto nelle
condizioni di promuovere egli stesso il proprio bene, di aver cura di sé.
A questo proposito lo psicologo Hoffman valorizza lo stile educativo induttivo, caratterizzato
dall’impegno dell’adulto a spiegare, evidenziare nessi, trarre conseguenze da fatti e scelte. In
esso sono decisivi gli incontri disciplinari, cioè le occasioni di rimprovero, che diventano veri e
propri incontri morali: grazie ad essi il bambino può imparare ad aver cura. Hoffman spiega infatti
che, attraverso il dialogo ed il ragionamento, gli educatori possono offrire significative ragioni per
l’azione, che saranno gradatamente interiorizzate. Con appropriate parole, gli educatori possono
far esercitare a spostare l’attenzione sul punto di vista dell’altro; invitare il figlio a provare ad
immaginare come si sentirebbe al posto dell’altro e a guardare oltre la situazione immediata. In
effetti si diventa capaci di forme di esplicito e compiuto “perspective taking” – cioè di assunzione
della prospettiva dell’altro – a partire dai sei anni circa. Tuttavia l’educatore può gradatamente
formare in tal senso buone abitudini, che aiutano il crescere dell’abilità morale del decentramento.
Così, se opportunamente guidato nel graduale superamento del suo fisiologico egocentrismo, un
bambino modifica il suo modo di relazionarsi con gli altri: può diventare più capace di tener conto
della prospettiva dell’altro, accogliere la diversità di opinioni, costruire e coltivare nuovi legami di
amicizia. Ben lungi dall’essere interventi di cui scusarsi allora, i rimproveri sono regali della cura
educativa: sono incontri relazionali speciali con gli adulti che costituiscono una sorta di prova
degli incontri che nella vita il bambino dovrà affrontare da solo. Spesso un “no” non detto, come
un rimprovero non fatto, rappresenta un’occasione formativa mancata.

22. Educare le emozioni, educare il sentire


22.1. Educazione della vita emotiva, educazione alla vita morale
Le emozioni – ben lungi dal costituire reazioni incontrollate e incontrollabili e/o disturbi per la
razionalità, ci danno preziose indicazioni per comprendere il mondo e gli altri; esse costituiscono
innanzitutto il linguaggio con il quale il corpo registra la presenza di una realtà esterna a sé,
intuendone quelle qualità specifiche che sono di rilievo per la persona e per la sua piena

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realizzazione. In tal senso possiamo affermare che le emozioni dischiudono universi soggettivi.
Diversi fenomenologi hanno evidenziato che – per ogni persona – le capacità di “sentire” e le
conseguenti tonalità emotive svolgono diverse funzioni, fra cui quella di nutrire la memoria del
passato e di contribuire a configurare una gerarchia di possibilità future.
Si tratta di aspetti da valorizzare e non da annullare nella pratica educativa e. in particolare, nella
formazione morale: il bene non entra nella mia esperienza concreta e personale senza il
contributo del mio sentire. Viceversa l’apatia, come incapacità di sentire la vita e il suo valore, è
correlata a tante forme di incapacità morale.
In tal senso, un’appropriata educazione delle emozioni deve aiutare a riconoscere che vivere
un’emozione non è cogliere autoriflessivamente i nostri stati emotivi, bensì carprire ciò che è
sottratto al nostro controllo, gli altri o le cose nel potere che hanno di risuonare interiormente, di
essere sentiti affettivamente.
Oggi si verifica spesso una “dittatura del sentire immediato”, delle emozioni del momento
sganciate da ogni possibile ricerca della verità e – di conseguenza – risulta prevalente una
considerazione del solo potenziale espressivo delle emozioni. Non si pone attenzione a quella
caratteristica delle emozioni che è connaturata ad esse: la loro potenzialità di dirci qualcosa del
reale, di affinare e ampliare l’esperienza che ne abbiamo (referenza oggettiva/ontologica).
Laddove le emozioni mancano di referenza ontologica, crescono a dismisura nel loro versante
espressivo, diventano passioni che sempre debordano, stra-vedono, accecano; pertanto vengono
intese da educandi ed educatori alla stregua di forze che al più il soggetto deve imparare a
gestire, per quanto egli possa riuscirci.
È dunque necessario far maturare nella consapevolezza della necessità di intraprendere un
cammino di approfondimento del sentire. Quando ciò non accade, si cade nell’emozionalismo
tipico del nostro tempo: si finisce per conferire alle emozioni il compito, per esse sproporzionato,
di dirci tutto ciò che è davvero importante.
Come è stato in precedenza asserito (lezione n. 17), le emozioni possono approfondirsi e
dischiuderci porzioni di realtà nuove, quando acquisiamo consapevolezza della loro genesi in
noi: un educatore deve essere capace di far riflettere sulla genesi delle emozioni.
Grazie all’incontro con un educatore autorevole ed empatico, il “cuore” in formazione – in principio
universo disordinato, guazzabuglio pieno di ferite e lacerazioni – appare capace di apprendere e
riconoscere la realtà dell’altro in quanto altro, quindi a superare il narcisismo individualistico ed
espressivo. Soprattutto in questa dimensione, che è quella della relazione con l’altro, ciascuno
può riconoscere – innanzitutto imparando a sentirlo – che c’è qualcosa di ulteriore e più
importante rispetto al proprio “io”.
Il sentire dunque, non si lega solo ad un vissuto passivo e disimpegnato, a qualcosa che ci
sorprende e fugacemente va via, ma può legarsi ad un atto impegnativo e voluto, ad una
paziente costruzione di sé e della relazione con l’altro, in cui il versante affettivo e quello etico
non possono essere scissi: proprio per questa ragione, nel sentimento – che non è solo
emozione, ma anche impegno morale – la vita emotiva pienamente fiorisce.
Abbiamo così posto le condizioni pratiche fondamentali di un’educazione del sentire, più ampia
dell’educazione alle emozioni, che permetta un’esplorazione di sé progressiva e profonda e che
avvenga al fine di, ma anche attraverso la conoscenza e la promozione del bene dell’altro.
22.2. Educare le emozioni nella vita di famiglia
Il dialogo emotivo familiare assume una grande importanza nell’educazione dei figli, spesso ben
al di là della consapevolezza o delle intenzioni esplicite dei genitori. In particolare la psicologia ci
rende accorti su come, innanzitutto in famiglia, si realizzi una vera e propria socializzazione delle
emozioni. Infatti le manifestazioni degli stati interni del bambino, sin da quando è molto piccolo,
assumono significato in base al modo in cui sono (o non sono) oggetto dell’attenzione,
dell’accoglienza e della significazione offerta dagli adulti. Ciò che è misconosciuto o condannato

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dall’adulto, anche solo con una parola, uno sguardo troppo distratto, il tono della voce o un rapido
gesto, non potrà acquisire una fisionomia adeguata nel mondo interno del bambino, o lo farà più
tardi con difficoltà. Infatti, decisiva per la fioritura umana del bambino è la possibilità di
esplorare le proprie emozioni, riconoscerle e, pian piano, imparare a nominarle, narrarle e
condividerle.
Le ricerche pedagogiche evidenziano una correlazione molto positiva fra precoce uso e
comprensione del vocabolario emotivo da parte dell’adulto di riferimento e capacità di
comprensione delle emozioni nel bambino Se quindi chi si prende cura di lui usa, sin da quando è
molto piccolo e poi costantemente lungo le fasi della sua crescita, un lessico appropriato,
supportando questo bambino in modo adeguato, lo guida gradualmente nell’interpretazione degli
eventi che scatenano le emozioni e gli permette di accedere al suo mondo interno.
Va altresì osservato che sulla crescita affettiva dei bambini influisce fortemente la
metaemozione dei genitori, ovvero l’insieme delle loro opinioni e convinzioni sulle emozioni, sul
loro valore e sul loro modo di viverle. Altrettanto importante per lo sviluppo degli educandi è lo
stile cognitivo degli adulti di riferimento; a tal riguardo Gottman distingue uno stile di guida
(coaching) e uno stile di messa al bando (dismissing). Possiamo attribuire il primo ai genitori
autorevoli, il secondo a quelli incapaci di contatto emotivo, perché troppo autoritari o trascuranti.
I genitori che mostrano di avere uno stile di guida sono quelli che cercano di essere consapevoli
delle loro emozioni e attenti a quelle altrui, che accettano e non minimizzano le emozioni del
bambino, siano esse di segno positivo o negativo. Costoro considerano anche le emozioni
spiacevoli del figlio come un’occasione formativa per stargli vicino e nutrire il loro dialogo emotivo.
Si noti che in questo modello di comportamento, possiamo riconoscere una feconda integrazione
tra il codice materno e quello paterno.
Del tutto opposto allo stile appena analizzato è quello caratterizzato dalla messa al bando delle
emozioni. I genitori che lo praticano non sanno esplorare innanzitutto la propria dimensione
interna, quindi non possono accostarsi adeguatamente alle emozioni del figlio. Soprattutto di
fronte alle emozioni intense e di segno negativo, tendono a minimizzare, a negare, a scegliere le
strategie più sbrigative per rimuovere la situazione che le ha generate (il “problema”!) il prima
possibile. In genitori come questi, i codici relazionali paterno e materno non sono ben integrati.
I figli di genitori che praticano abitualmente uno stile emotivo di guida hanno maggior abilità di
regolazione delle proprie emozioni e hanno relazioni con i pari più positive.
In altri termini, le ricerche empiriche indicano non solo che un adulto emotivamente competente e
attento genera un figlio capace di comprendere meglio le emozioni, ma anche che ciò vale sia per
le emozioni proprie che per quelle altrui. Sembra questa la ragione per cui aver potuto godere di
relazioni di attaccamento di tipo sicuro si collega ad una maggiore capacità di accoglienza
dell’altro.
È in questa prospettiva che si può cogliere la rilevanza dell’educazione all’empatia: poiché un
individuo ha più probabilità di rispondere empaticamente a un’emozione altrui se l’ha
sperimentata, le relazioni familiari devono innanzitutto permettere al bambino di esplorare
serenamente il proprio mondo emotivo, quindi anche le emozioni negative.
Tutto ciò sarà possibile con un lavoro di educazione all’immaginazione: occorre trovare modi
per far esercitare il bambino a figurarsi come si sentirebbe egli stesso o una persona a cui tiene
molto, se fosse al posto di vittime sconosciute o al posto di ciascuna delle parti coinvolte in una
situazione conflittuale. Per far ciò si possono valorizzare i giochi di finzione, in cui il bambino si
esercita a costruire un mondo ipotetico grazie al quale accedere a punti di vista, condizioni e
vissuti diversi dai suoi; o si può fare un uso intenzionalmente educativo delle narrazioni e in
particolare di quelle, come i romanzi, che spingono i lettori a mettersi al posto di altre persone,
anche lontane da loro, partecipando alle loro esperienze. La narrazione poi, soprattutto a partire
dall’adolescenza e massimamente nell’età adulta, diventa risorsa formativa attraverso

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l’autobiografia: raccontarsi aiuta a risignificare il tempo e i vissuti, a riscoprire l’intenzionalità delle


proprie emozioni, affetti e sentimenti.
Infine, va ribadito un dato basilare, finora soltanto accennato. Nessuno di questi orientamenti per
la pratica educativa può avere una qualche efficacia – tanto a scuola, quanto in famiglia – se
innanzitutto gli educatori non acquisiscono consapevolezza del dover essere a loro volta in prima
persona impegnati in un costante lavoro di formazione delle emozioni. Se vogliono offrire una
consegna, gli educatori devono offrire in primo luogo sé stessi come modello di competenza
emotiva e di comportamento empatico.

22.3. Educare le emozioni a scuola


Recenti studi hanno fatto emergere l’impatto positivo sia della conoscenza effettiva che gli
insegnanti hanno dell’educando, sia l’espressione concreta della stima nei suoi confronti. Infatti,
innanzitutto l’espressività positiva dell’adulto di riferimento è correlata alla capacità di risposta in
buoni comportamenti degli alunni nei confronti sia dei loro insegnanti, sia di altri membri della
scuola e degli altri in generale. Ad esempio, un modello educativo di adulto aggressivo,
poco capace di autentica consegna educativa, che cerca di ottenere e mantenere la disciplina
sempre e solo con la forza, senza mai cercare di comprendere le ragioni e le emozioni dell’altro,
insegna nei fatti al bambino che con l’aggressività si possano raggiungere i propri obiettivi.
Va ricordato che l’educazione delle emozioni trova nel gruppo dei pari una risorsa insostituibile.
Naturalmente il gruppo dei pari non ha, come tale, un ruolo educativo, tuttavia gli altri bambini,
incontrati come compagni di classe senza la rete di protezione della famiglia, con le loro
rivendicazioni costringono ciascun bambino a rendersi conto, nei fatti, che non esistono solo i
suoi desideri.
Se guardiamo in modo più specifico al mondo della scuola, le diverse proposte di educazione
delle emozioni che si sono diffuse negli ultimi anni si concentrano principalmente sull’acquisizione
di tre abilità di base: riconoscere le emozioni; comprenderle; esprimerle. Riconoscere significa
saper nominare le emozioni, associandole anche alle loro manifestazioni corporee; comprenderle
significa saper formulare spiegazioni ed interpretazioni; esprimerle significa saperle comunicare e
gestire in modo appropriato alle diverse situazioni e relazioni. Ciò va ovviamente graduato e
proporzionato in base all’età.
Ora, al di là dei tratti comuni, le diverse proposte di educazione delle emozioni a scuola possono
essere distinte a partire dai diversi costrutti teorici ad esse sottesi. I principali costrutti di
riferimento sono quattro:
- Intelligenza emotiva, che si traduce nella volontà di insegnare ai bambini quello che
potremmo definire “alfabeto emozionale”, le capacità fondamentali del cuore. Attraverso
la conoscenza delle emozioni, l’obiettivo formativo è la maturazione di una specifica
competenza sociale in cui centrale è la capacità di regolare, controllare e usare le
emozioni.
- Metacognizione, tesa a promuovere l’abilità di identificazione degli stati fisici che
caratterizzano certe emozioni, di riconoscere le emozioni in sé stessi o negli altri
(tenendo conto anche del fatto che uno stesso evento può suscitare emozioni diverse in
soggetti diversi, oppure che una certa emozione può essere manifestata in un modo o in
un altro, oppure non manifestata affatto).
- Teoria Relazionale Emotiva (RET), che mette in risalto soprattutto l’influenza del
pensiero sulla genesi delle emozioni e soprattutto di evitare pensieri nocivi e irrazionali
che generano e alimentano stati d’animo distruttivi per la persona e per le sue relazioni.
Questo approccio valorizza il cosiddetto “dialogo interiore”, inteso come un commento
interno che possiamo elaborare dinnanzi a eventi esterni o interni, in modo da guidare il
sorgere e lo svilupparsi delle emozioni dentro di noi.

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- Competenza emotiva, di matrice sociocostruttivista. Per “competenza emotiva”


s’intende l’insieme di diverse abilità quali: essere consapevoli delle proprie emozioni;
saperle esprimere anche in base al contesto; saper distinguere l’emozione provata da
quella espressa; usare un vocabolario emotivo adeguato; essere consapevoli del ruolo
della comunicazione emotiva nelle relazioni; saper attivare strategie di coping (cioè saper
far fronte a situazioni problematiche). La competenza emotiva è un costrutto ricco e
complesso, che porta a sintesi anche approcci precedenti.

23. Educare alla relazione, educare alla generativita’


L’altro, l’estraneo, il diverso può sollecitarci due atteggiamenti di segno opposto: la paura, il
disagio, l’allontanamento (dalla tolleranza alle forme più gravi di discriminazione) oppure il
rispetto, il desiderio di conoscere, l’ospitalità; questi ultimi costituiscono il segno di una tensione
verso il senso più acuto dell’alterità. Uscire fuori dalla logica del rispetto significa allontanarsi
dall’alterità, rifiutarla e respingerla, non cogliendo l’altro come una risorsa, perdendo la possibilità
di un apprendimento reciproco.
Ne consegue che non può esserci dialogo autentico senza un riconoscimento della differenza
dell’altro e dell’ambivalenza e dell’incertezza che questa consapevolezza implica. In tal senso, se
vogliamo costruire un metodo dialogico interculturale, è inevitabile lavorare sulla gestione dei
conflitti per arginare atteggiamenti appropriativi propri di colui che tenta di dominare l’altro.
Allora, educare giovani e meno giovani alla relazione significa acquisire un metodo responsivo
per tradurre in pratica la logica del riconoscimento reciproco, antitesi perfetta della logica di
appropriazione. Si tratterebbe dunque di una “disposizione abituale” che deve appartenere in
primo luogo all’educatore che, mentre prospetta la sua proposta educativa, si dispone ad
accogliere e riconoscere l’altro, l’educando. Da un riconoscimento reciproco, confermando
l’esistenza e l’importanza dell’altro, e attraverso un autentico dialogo interculturale, può nascere
la ricerca di ciò che è comune appartenenza, di ciò che è essenzialmente umano e che quindi per
analogia mi fa cogliere la comunione con l’altro, che però, interpellandomi con le sue domande,
mi fa percepire autenticamente anche la sua alterità. Non bisogna tuttavia commettere l’errore di
finire per promuovere un ideale di umanità universale che metta fuori campo le differenze. Al
contrario, un concreto lavoro educativo è finalizzato a sensibilizzare le nuove generazioni alle
differenze che connotano la singolarità dell’altro e insieme a far cogliere la comune umanità da
cui originano queste differenze.
È necessario pertanto attivare percorsi educativi che facilitino l’accesso ad occasioni di
conoscenza dell’altro, anche attraverso un fare comune e condiviso. In tal senso, non possiamo
dimenticare il ruolo svolto anche dalla scuola nella direzione di nuove proposte di educazione
all’alterità, alla differenza. La scuola può assumere un ruolo centrale nell’attivare processi di
contatto e incontro tra bambini e adolescenti provenienti da contesti culturali diversi; confrontarsi
con le “buone” pratiche promosse e realizzate in alcune scuole italiane ci permette di intravedere
elementi di novità che possono attivare percorsi segnati da un’educazione autentica. Ciò grazie
ad uno sguardo attento alle dimensioni fondamentali che definiscono una scuola inclusiva e di
qualità: la comunicazione interculturale ed il riconoscimento reciproco.
23.2. Educare alla generatività
Ci accingiamo adesso a delineare una proposta riguardante l’educazione alla generatività, come
forma di educazione alle relazioni familiari grazie alla quale possiamo aspirare anche ad
un’educazione alle relazioni sociali.
Quando consideriamo il concetto di generatività facciamo innanzitutto riferimento alla
procreazione e alla genitorialità: le energie di base che muovono la generatività sono l’impegno e

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un senso di responsabilità assunto nel prendersi cura della generazione successiva alla propria.
Al suddetto concetto si oppone quello di stagnazione, condizione per cui un adulto non generativo
rimane bloccato in una condizione di vita caratterizzata da un ripiegamento su sé stesso (come
bloccato in uno stagno, appunto).
Nella letteratura italiana il costrutto di generatività occupa una posizione cruciale per alcuni
studiosi di area relazionale-simbolica che la intendono come essenzialmente relazionale: solo
nella nostra specie la riproduzione diviene anche generazione, perché la generatività non si
esaurisce nella discendenza biologica, ma si apre anche alla dimensione simbolica. Nella sua
accezione sistemico- relazionale, la generatività è nucleo vitale di tutte le relazioni familiari: si
riceve dal passato per essere offerta al futuro, è un’eredità che va elaborata dalla coppia per poi
essere rilanciata in modo adeguato. E seppur abbia origine da fonti donative carenti, può essere
feconda se la coppia è in grado di assumere su di sé il peso dell’ingiustizia subita, se è il grado di
fare da tampone intergenerazionale.
Così diventare generativi significa sostanzialmente offrire uno spazio ospitale all’altro, ma anche
custodire ciò che si è generato. Allora le relazioni educative famigliari dovrebbero essere segnate
dall’accoglienza, dalla solidarietà, dalla gratuità e dalla reciprocità. Se tutto ciò si respira
all’interno della famiglia, possiamo essere capaci di uno spazio ospitale che si apre anche
all’esterno, che divenga piena espressione di una generatività sociale.
Uno sguardo attento alla possibilità concreta di un’educazione alla generatività richiama la
dimensione etica della responsabilità: se gli uomini non si assumono responsabilità, possono
arrivare a pervertire il legame, a negarlo o ad abolirlo; ed è proprio l’attacco grave al legame e
la sua perversione che rappresentano la costante relazionale dell’antigeneratività. Il controllo
delle nascite, la procrastinazione della genitorialità, l’instabilità affettiva nella coppia e uno status
di single sempre più diffuso ed accettato sono tutti fenomeni che fanno pensare appunto ad una
distorsione – se non ad una negazione – del legame; si tratta di un contesto sociale che sembra
aderire ad una deriva antigenerativa sia nelle scelte di vita familiare sia nelle relazioni sociali.
Com’è possibile allora educare le famiglie alla generatività?
Innanzitutto è necessario partire da un’educazione alla vita di coppia, in primo luogo aiutando gli
adolescenti a collocare il cambiamento avviato dall’innamoramento in una prospettiva in cui
vengano recuperate le componenti volitive del soggetto e la responsabilità di un impegno con e
per l’altro; in altre parole, è necessario recuperare la dimensione dell’impegno che è componente
essenziale – insieme all’affettività – di tutte le relazioni significative.
L’educazione alla generatività richiama un’educazione alla coppia e alla genitoriaòità. Il
riferimento è in primo luogo ad una preparazione al matrimonio che renda chiari ed espliciti
due elementi: la valutazione della cultura familiare del partner e la maturazione della coppia
verso la disponibilità a progettare la sua apertura alla vita. Alle giovani coppie deve essere
chiarito che il matrimonio postula l’unione anche delle due famiglie d’origine: ciò significa che è
necessario valutare il sistema valoriale di cui la famiglia del partner è portatore. Tutto ciò avrà
una ricaduta anche al momento della scelta procreativa, perché sarà necessario negoziare
all’interno della coppia due sistemi valoriali per trovare il proprio e poter formulare un progetto
educativo condiviso per i figli. Le difficoltà maggiori di una relazione di coppia, allora, risiedono
nella capacità reciproca di assumere il punto di vista dell’altro e di impegnarsi nel promuovere il
bene della relazione che ne scaturisce. Ancora una volta, un lavoro sul riconoscimento delle
differenze tra me e l’altro è alla base di un’educazione alla relazione, grazie alla quale la
coppia acquisisce una maggiore consapevolezza delle differenze da cui è segnata al suo
interno. Ed è proprio attraverso un confronto dialogico sulle differenze che può nascere l’inedito
della nuova coppia, il cosiddetto “innesto” generativo. Questo tipo di percorso si basa non solo
sul potenziamento delle risorse interne alla coppia, ma anche sull’incremento di scambi
positivi tra la coppia e le altre coppie con cui condividere de esprienze: una microcomunità che

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sostiene e incoraggia la vita di coppia, stimolando una reciproca riflessività relazionale.


Si tratta – in altri termini – di organizzare gruppi di lavoro meglio definiti come “gruppi di dialogo
pedagogico”, costituiti anche da poche coppie che hanno lo scopo di diventare una comunità
educante e quindi formativa, in cui l’ascolto, la comunicazione e la possibilità di esprimere i propri
vissuti e le emozioni che li accompagnano divengano gli strumenti di un sostegno reciproco
e creino uno spazio adeguato per una nuova elaborazione di significati.
Un’educazione alla relazione genitoriale può seguire percorsi analoghi, che mettano al centro
proprio la promozione della generatività, individuata come la vera risosrsa di una vita familiare
adeguata alla crescita dei suoi membri. Questo tipo di approccio al sostegno alla genitorialità
sembra concretizzarsi nell’esperienza formativa promossa dalle “Scuole per genitori”. Si tratta di
luoghi, o meglio di spazi, in cui i genitori possano accrescere la percezione delle proprie capacità
educative e competenze genitoriali, grazie anche ad un confronto tra risorse e potenzialità
educative proprie e di altri genitori; in tal senso, i genitori possono apprendere nuovi modi di
relazionarsi, per una realizzazione piena del loro compito educativo.
Anche in questo caso, la condivisione di vissuti ed esperienze con altri genitori, diviene mezzo
ma anche fine dell’azione educativa: grazie ad una riflessione comune, è possibile riscoprire
nuovi significati che connotano le relazioni educative.

24. Il dialogo esistenziale centrato sull’empatia


SBOBINA
Uno dei primi aspetti è il dialogo esistenziale centrato sull’empatia. Nelle relazioni educative c’è
sempre un tempo reale e un tempo possibile, un tempo futuro. Noi partiamo sempre da quella
che è una considerazione del reale, dei mondi della vita dell’educazione, su ciò che a noi si mostra
in qualche modo, ciò che prende forma all’interno delle relazioni concrete. Ma noi sappiamo che il
fine ultimo, in educazione, è quello del “poter essere”, cioè far si che la persona possa scoprire,
vivere già fin dal tempo presente, ma scoprire per un tempo futuro, quella che è la sua forma
possibile di vita migliore.
Pertanto, nonostante la lezione 24 possa sembrare di carattere prettamente teorico, in realtà ci
sono delle parole chiave che sottolineano e mettono in evidenza un aspetto molto importante per
noi.
Quando si parla di relazione educativa viene affermato e confermato sempre questo aspetto: che
la consegna educativa è un’azione pratica.
La consegna educativa è un’attività pratica perché parte sempre da quelle che sono le
inclinazioni dell’educando, quindi si struttura all’interno di una relazione di prossimità: ci sono 2
persone che entrano in relazione tra di loro, mira ad un “poter essere”, dischiude nell’educando le
sue potenzialità. La consegna educativa è legata a due caratteristiche che sono il tempo e lo
spazio.
Questa relazione educativa richiede del tempo che è il tempo personale, nostro, dei professionisti,
per acquisire conoscenze, competenze e abilità; ed è un tempo anche per l’educando, per
acquisire queste componenti e per maturare questo processo educativo.
C’è anche uno spazio: la consegna educativa si struttura all’interno di uno spazio vero e proprio
che è lo spazio della cura. È uno spazio ambientale che si deve strutturare all’interno dei contesti
educativi che possono essere le comunità, la scuola, la famiglia. È uno spazio segnato proprio
dalla cura.
Quindi la consegna di cui stiamo parlando è una consegna pratica.
Si tratta di acquisire sempre di più, attraverso il metodo del dialogo esistenziale centrato
sull’empatia, le competenze esistenziali, cioè ci permette di vivere bene e di agire con

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responsabilità.
Questo è il primo aspetto ed è la sintesi di questa lezione. Noi ci muoviamo sempre all’interno della
relazione educativa tra educatore ed educando, dove c’è sempre un atto educativo dell’educando,
c’è un protagonista in educazione, che è l’educatore, cioè c’è colui che favorisce quell’educazione.
C’è un tempo e uno spazio dell’educatore che stabilisce la concretezza della consegna educativa;
E c’è un tempo che è il tempo reale in cui l’educazione prende forma, ma mira sempre ad un “poter
essere”. Qui pertanto sta quella che noi definiamo come la prospettiva dell’ermeneutica.
C’è una parte di descrizione del fenomeno, dove si mira a coglierne il senso e c’è allo stesso
tempo un’attribuzione di significato, cioè un’interpretazione di ciò che emerge da quella relazione
educativa. Questa interpretazione, questo significato che emerge, che non è altro che una scrittura
e riscrittura di queste storie di vita, è la prospettiva ermeneutica di cui stiamo parlando. Quindi
sono due facce della stessa medaglia, l’una in relazione con l’altra, in quanto la fenomenologia ci
permette di descrivere il fenomeno, di saperlo riconoscere e di attribuirne un senso; l’ermeneutica
invece ci permette di coglierne il significato profondo. Questo avviene attraverso l’interpretazione
che noi diamo di ciò che emerge. Ecco perché viene presa in considerazione la metafora del testo.
Quindi cos’è questo processo di relazione educativa? Non è altro che una scrittura-riscrittura di
una storia di vita e quindi di significati che in qualche modo vengono attribuiti ad un “poter essere”,
cioè ad un tempo reale dove (nell’esempio della lettura) un testo viene letto, viene compreso, ma
c’è anche un andare oltre, un attribuire dei significati interpretativi che vanno oltre la solita lettura.
È come se noi, di fronte ad un testo già scritto, che ci permette di comprendere in maniera
originaria quelli che sono gli aspetti di questo testo che è già scritto, allo stesso tempo noi, dalla
vita dell’educando, le sue inclinazioni, ciò che in quel momento noi abbiamo la possibilità di
comprendere, attraverso il dialogo esistenziale centrato sull’empatia, considerato quello che è il
“poter essere dell’educando”, allo stesso tempo noi abbiamo la possibilità insieme a lui di cogliere
il significato di quel testo, di interpretarlo, ma allo stesso tempo di riscriverlo, quindi di poter
aggiungere ulteriori elementi. Di riscrivere ulteriormente quel progetto di vita, quel progetto
personalizzato. Sono aspetti che possono sembrare teorici, ma in realtà sono molto concreti.

Ermeneutica di Ricoeur
In questo processo di attribuzione di significato a qualcosa che già noi abbiamo descritto, che
riguarda ciò che emerge da questa relazione educativa, da questa relazione che si instaura tra
educatore ed educando, in qualsiasi contesto dialogico, in qualsiasi atto di comunicazione,
emergono a livello oggettivo quelle che sono opinioni, idee, pre-comprensioni. Quindi già noi
attribuiamo un significato a ciò che, nella metafora del testo, stiamo leggendo. Allo stesso tempo
però, noi ci siamo detti che non è un testo già scritto, statico ma è un testo che è soggetto
continuamente a nuovi significati e nuove interpretazioni, in quanto in questo progetto
personalizzato la storia dell’altro, la storia dell’educando è continuamente un processo di
riscrizione.
Ogni dialogo si struttura secondo un codice di funzionamento, ovvero una serie di regole che
riguardano la comunicazione, e soprattutto la comunicazione che mira a muoversi in un orizzonte
positivo. Cioè noi sappiamo che la comunicazione è dettata da un linguaggio, quindi un linguaggio
linguistico, in una lingua vera e propria che viene utilizzata nella comunicazione: c’è un tono, c’è un
contesto dove la comunicazione prende forma, ci sono tutta una serie di regole di funzionamento
che noi mettiamo in atto quando ci troviamo a comunicare e dialogare con una persona.
All’interno di questo codice di funzionamento del metodo del nostro codice empatico, noi troviamo
principalmente tre fattori.
1. Il fattore di controllo, sempre all’interno della relazione educativa, (perché noi ci muoviamo
sempre nell’ottica della relazione educativa), riguarda gli aspetti di autorità e di competenza
nell’educazione. Gli aspetti di controllo sono quegli aspetti che principalmente riguardano
l’educatore, nella capacità da parte dell’educatore di saper controllare quel dialogo, di

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saperlo strutturare, di saperlo controllare. Riguarda quelli che sono gli aspetti di autorità e
di competenza, cioè del come si viene a strutturare il dialogo. Quindi questo fattore di
controllo è più un fattore formale, riguarda proprio la prospettiva dell’educatore di situare
quel dialogo all’interno di un contesto specifico, e quindi di saperlo controllare.
2. Il secondo fattore che è quello emotivo- affettivo, il fattore E, che comprende i tratti del
contatto socio-affettivo dei partner in interazione. Due persone entrano realmente in dialogo
quando sentono il bisogno di dialogare. Quindi da una parte c’è un fattore di questo codice
empatico, che è quello di controllo del dialogo vero e proprio, perché chi dialoga sa anche
che deve essere in grado di saper controllare. Allo stesso tempo però c’è un fattore
emotivo- affettivo.
Questo fattore emotivo-affettivo dei partner che si trovano in interazione in questo percorso
dialogico, costituisce principalmente il “chi”, cioè quella predisposizione positiva, quindi quel
clima positivo che ci proietta verso l’ascolto dell’altro, che in quel momento si racconta, si
narra e che è frutto di un’interazione.
Quindi da una parte c’è un controllo di questa relazione educativa, di questo dialogo
empatico, dall’altra parte c’è un fattore emotivo-affettivo che ci porta invece a connotarci
all’interno di un clima di dialogo, che deve essere un clima positivo, dove noi possiamo
ascoltare l’altro e l’altro può liberamente narrare il suo vissuto.
3. Insieme a questi due fattori noi riconosciamo anche un terzo fattore che è quello
dell’autenticità espressiva e comunicativa. È qui la prospettiva qualitativa del dialogo
esistenziale centrato sull’empatia. Questo dialogo quindi è formato da un aspetto di
controllo vero e proprio della comunicazione e da un aspetto emotivo-affettivo, cioè il
sentire e il percepire il vissuto dell’altro, quindi bisogna anche saper generare contesti di
vita accoglienti, contesti di cura accoglienti, dove il clima possa essere un clima che
permette all’educando di narrare la propria vita. Questi due fattori del dialogo si
concretizzano in un fattore che viene denominato fattore A ed è il fattore dell’autenticità
espressiva e comunicativa.
Quando agiamo in educazione dobbiamo agire con chiarezza. Quella della chiarezza è una
competenza vera e propria. Dobbiamo essere chiari in quello che facciamo e nel modo in cui ci
mostriamo.
Questo terzo aspetto, quello dell’autenticità espressiva e comunicativa, riguarda il linguaggio
utilizzato dall’educatore che si concretizza poi nelle sue espressioni, nei suoi gesti, cioè nel modo
che l’educatore ha di portare avanti quella comunicazione, di portarla avanti in maniera positiva e
autentica.
Questi tre fattori definiscono quello che è il sistema dialogale del nostro metodo centrato
sull’empatia.
Questi due fattori (il fattore E e il fattore C) sono in dialettica tra di loro.
Questo fattore di controllo e il fattore E (emotivo-affettivo) in un rapporto dialettico tra di loro non si
collocano più in due polarità, ma sono in interazione tra di loro. Cioè quando il fattore C si muove
in un atteggiamento che non è né di dominanza dell’educatore nel suo relazionarsi con l’educando,
né dall’altra parte di sottomissione dell’educando di fronte all’educatore, in questo caso avviene
che questo rapporto dialogico è determinato da un fine e diviene una struttura teleologicamente
determinata il cui il termine è la riuscita e la virtù dell’educazione.
In questo dialogo esistenziale, quando i 2 fattori (C ed E), non si trovano in contrapposizione, ma
interagiscono tra di loro, ci si muove in un’ottica dove l’educatore è capace di controllare quel
dialogo e allo stesso tempo favorire un clima buono all’interno del dialogo che si sta portando
avanti. In questo caso noi non parliamo di atteggiamento autoritario da parte dell’educatore, ma si
viene a costituire quella che è l’autorevolezza. Cioè in questo momento, ciò che prevale da parte
di entrambi è l’autonomia. Non ci si muove dentro un sistema autoritario, quindi di imposizione,
dove l’educatore impone attraverso il dialogo il proprio pensiero, una propria opinione, ma si mira

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sempre più ad un processo di autonomia da parte dell’educando. Questo viene in una prospettiva
di autorevolezza. Cioè se questi due fattori (il fattore C e il fattore E) sono in perfetta interazione tra
di loro e sono connotati all’interno di un sistema di comunicazione autentico, di autenticità
espressiva da parte soprattutto di chi favorisce quella comunicazione, quindi dall’educatore, la
prospettiva all’interno della quale si muove l’educazione promessa dall’educatore è una prospettiva
che mira alla piena autonomia dell’altro. Quindi l’educatore non si muove con l’autorità, ma si
muove nei confronti dell’educando con autorevolezza.
Quando la comunicazione educativa è segnata dall’empatia il sistema dialogale è determinato da
un fine il cui termine è la virtù dell’educazione.
Possiamo dire che quello del dialogo esistenziale centrato sull’empatia è un modo di procedere
verso l’autonomia in quanto la prospettiva, il modo di procedere dell’educatore non è dettato
dall’autorità, non è un modo di autorità vera e propria, ma si muove all’interno di un orizzonte di
autorevolezza.
Importante: La consegna educativa di fatto può concretizzarsi in una pratica, un’esperienza
veritativa e valoriale che possa risultare possibilità di cambiamento per i soggetti coinvolti. Quindi è
questa la prospettiva a cui noi miriamo: ricerca e scelta di un nuovo senso della realtà e di sé nella
realtà.
Quindi noi ci muoviamo sempre in un’ottica di tempo presente in direzione di un tempo futuro. In
questo processo di attribuzione di significato e di interpretazione, partiamo da ciò che emerge
(quindi descriviamo il fenomeno, ciò che emerge), in direzione sempre di ulteriore riscrizione,
riscrittura di quella che è la storia, di quella che è la realtà, di ciò che nella realtà si viene a
mostrare.
È importante a questo punto evidenziare che in tutte le relazioni i nostri desideri sono sempre
messi a tema, anche se non ci facciamo caso. Questo è un aspetto molto importante del dialogo.
Ciò che noi trasportiamo nelle relazioni appare sempre, anche se noi spesso diciamo che non ce
ne rendiamo conto. Probabilmente abbiamo l’intuizione o una premonizione che se venissimo a
capo del nostro desiderio d’essere e di senso, apprenderemmo il nostro nome proprio, la nostra
destinazione in questo mondo. Si tratta quindi di acquisire una competenza esistenziale.
La prospettiva a cui in qualche modo ci indirizza questo codice empatico, questa nostra riflessione
è quella di un qualche modo di porci continuamente in veglia, cioè stare sempre attenti a cogliere
nuovi significati, che in qualche modo l’altro ci offre attraverso principalmente la narrazione,
attraverso il dialogo, quindi in qualche modo svegliarci da questo stato di dormienti e acquisire
questa prospettiva vigile, che ci permette sempre di cogliere il senso nuovo nell’altro.

Se da una parte questo stile, che noi adottiamo, è un qualcosa che può sembrare teorico, in realtà
si concretizza in una consegna educativa vera e propria ed è un modo di procedere, che non è
solo rivolto a un tempo presente, ma è una proposta, che mira a proiettarci continuamente verso
“un appello futuro, una provocazione, buona diremmo, che ha come termine ultimo un’esistenza
responsabile.” Quindi è un qualcosa che nasce da un tempo presente e che ci proietta verso
l’orizzonte futuro, che è questa poi la predisposizione del progetto personalizzato, si concretizza
principalmente su questo.

Allora questo è in qualche modo quando noi diciamo che questo significato basato su una regola,
quindi questo modo di procedere del dialogo empatico e mira ad una libertà educativa perché noi
ci teniamo all’autonomia ed è basato su una regola di libertà educativa. Libertà educativa nel
senso che questi due fattori, il fattore di controllo e il fattore di autenticità. I primi due fattori si
muovono in direzioni opposte o agiscono all’interno del dialogo singolarmente, quindi il fattore C,
attraverso il controllo vero e proprio di quella che è la comunicazione, cioè l’educatore in qualche
modo controlla tutto, tutti gli aspetti della comunicazione, quindi in qualche modo ne padroneggia
anche, non dando all’altro la possibilità di manifestarsi realmente per come noi pensiamo, per
esempio a quello che è lo stile educativo autoritario.

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In qualche modo c’è un’autorità, cioè un controllo di quella che è la relazione, la comunicazione e
non si dà all’altro la possibilità di potersi assumere liberamente, dall’altra parte il fattore emotivo
affettivo invece si potrebbe tradurre come un fattore permissivo, uno stile educativo permissivo
dove in qualche modo si dà la totale libertà all’ educando di comunicare di agire nel modo e nelle
forme, che lui ritiene opportuno e da parte dell’educatore, cioè di chi dovrebbe avere il controllo
della relazione invece si viene a determinare una prospettiva di tipo permissiva, cioè lascia fare.

Quando questi due fattori (quello autoritario e quello permissivo) interagiscono tra di loro si viene a
determinare un equilibrio tra questi due fattori tra quello autoritario e quello permissivo attraverso
anche questo ulteriore fattore, che ci permette per così dire di mettere in interazione il fattore C e
del fattore E, il fattore A, cioè quello proprio dell’autenticità, della chiarezza espressiva, della
chiarezza comunicativa. Quando questi due fattori C ed E si vengono a trovare in interazione, in
quel momento a prevalere non è più né lo stile autoritario né quello permissivo, ma quello
autorevole, ciò che noi lo definiamo con autorevolezza, cioè lo stile democratico. Ed è proprio
questo stile democratico, che è il nostro stile, proprio del nostro codice empatico, del nostro
sistema di comunicazione, è basato su delle regole, perché l’autorevolezza, che mira
all’autonomia, si basa su delle regole, allo stesso tempo però sono delle regole che in qualche
modo mirano a una libertà dal punto di vista educativo, cioè mirano a far sì che l’altro possa
realmente tirar fuori ciò che c’è in lui di buono, quindi mirare e creare una forma migliore di vita.

Di ermeneutica si comincia a parlare già nell’Ottocento, quando si parla della necessità di


interpretare il testo biblico oppure i testi giuridici.

Dilthey aveva il problema tra virgolette di giustificare la scientificità della storia, infatti lui affermava
di non voler solo spiegare i fenomeni storici, ma di comprendere il senso, infatti bisognava
collegare sempre la parola comprensione all’idea di una continua ricerca di senso e anche
Heidegger valorizza il fatto che non siano enti cercanti e dobbiamo cercare il senso. Ma Gadamer,
che è considerato il padre dell’ermeneutica, riprende Dilthey ed Heidegger, anche perché è a sua
volta allievo di Heidegger. Quindi questa lezione dell'ermeneutica della fenomenologia, che
insieme si fondono, diventa già concreta prima con Heidegger e poi con Gadamer, anche se
Gadamer in realtà è molto più concentrato sull’ aspetto ermeneutico, quindi interpretazione, lettura
del testo, quella del testo diventa una metafora, cioè in fondo tutta la nostra vita è leggere e
comprendere un testo.

Ricouer a sua volta riprende questi tre autori, in quanto valorizza in modo esplicito questo innesto
che lui chiama dell'ermeneutica sulla fenomenologia ed è come se l'una aiutasse l'altra a chiarire
meglio questa idea di un io, che non hai un mio soltanto, ma è un sé, con la parola se noi
indichiamo quell’io, che è un frutto di una relazione, ma non è soltanto un io, che è maestro di sé e
che non ha bisogno di nessuno, ma è un sé, che è discepolo del testo, cioè che lascia che siano i
testi, la realtà, gli altri a insegnargli chi è. Ecco perché l’io è discepolo del testo, l’io si scopre nella
relazione e l'esistenza di ciascuno è un dono offerto, ma la consegna non è una semplice
trasmissione per cui vi lascia passiva, ma chiama in causa come protagonista, e nel momento in
cui è un dono, è anche un compito da assumere, che poi è la libertà umana, che per noi è sempre
un dono, una ricchezza, ma anche un compito, non possiamo non essere liberi, noi per essere noi
stessi dobbiamo assumere il compito di essere liberi.

Quindi Heidegger e Gadamer mettono insiseme ermeneutica e fenomenologia. Mentre il soggetto


della MODERNITA’ è l’individuo che non deve niente a nessuno, quindi l’uomo chiuso, che non
deve neanche imparare dagli altri. Il SE di cui parlano ermeneutica e fenomenologia è la persona
che è frutto di una relazione, sempre pronta ad apprendere dagli altri.

Il dialogo esistenziale empatico diventa per l’educando il punto di partenza per assumere il compito
di diventare sé stesso, dando forma a quei valori, che ha quegli ideali etici di umanità, che la

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relazione educativa gli ha fatto conoscere, ma non è che se io ho una profonda relazione con un
educatore e mi fa conoscere il valore della giustizia, poi mi siedo sul divano e non è cambiato
niente, poi mi rimbocco le maniche cambia tutto, ecco un compito da assumere, quello che dicevo
prima rispetto alla libertà. Noi siamo liberi, noi dobbiamo dare forma alla nostra libertà, cioè
dobbiamo assumere il compito, la differenza tra ontico e ontologico, di cui avete parlato con
Heidegger, noi non siamo semplici enti presenti, così, esistono e basta, ma dobbiamo assumere
su di noi, dobbiamo avere una relazione attiva con la nostra essenza, facendola diventare un
compito nel senso che la dobbiamo realizzare.

Per capire cosa sono le microcomunità, lo abbiamo visto un po’ anche nella lezione 20, dobbiamo
partire dal fatto che non esistono più le grandi narrazioni, le grandi adunanze, le grandi passioni
politiche ma è più il tempo questo delle comunità piccole, che le abbiamo chiamate micro comunità
empatiche. La microcomunità empatica può essere anche un luogo di persone, che hanno
orientamenti valoriali e anche religiosi diversi.

Il laico non è quello, che a volte si dice “no io non sono cattolico io sono laico” e mi viene a
rispondere “io sono cattolica e sono laica perché non appartengo a nessun ordine religioso”, il laico
è chi appartiene al popolo, nell’ottica religiosa al popolo di Dio. Allora la laicità è uno dei temi
fondamentali del nostro tempo, che diventa anche la chiave del dialogo interreligioso ovvero del
dialogo tra persone che hanno orientamenti valoriali diversi. Non bisogna essere nel dialogo
religiosi e confessionali, per esempio c'è anche una persona che ha una fede religiosa può non
vuole averla come dire imporre all'altro ma costruire nuove forme di laicità cioè di essere insieme.

L’alienazione è citata come l’esistenza inautentica cioè quello che Heidegger chiama deiezione
cioè la vita che noi viviamo ma che come dice quest’ultimo scansiamo.

Il termine coscienza intenzionale, è uno delle parole chiave della fenomenologia che viene dal
latino intentio, quindi, intenzionalità, in senso fenomenologico è l’esser rivolti alla coscienza, la
coscienza non è un res ma una modalità di relazione. La coscienza è sempre coscienza di
qualcosa, quindi è una modalità di relazione, apertura verso l’altro. Quindi passare dall’alienazione,
all’esistenza inautentica, dal si impersonale, alla coscienza che riflette su stessa, che si volge
anche al mondo ed è sempre coscienza di qualcosa, anche quando noi riflettiamo su di noi, è
come se ci oggettivassimo, ci mettessimo un po' fuori di noi e ci guardassimo con occhi diversi. La
coscienza è sempre intenzionale.
La fenomenologia è un passaggio dall’atteggiamento che noi chiamiamo naturale, in cui diamo
tutte cose per scontate, all’atteggiamento fenomenologico in cui appunto siamo maggiormente
riflessivi, e per fare questo dobbiamo convertirci.

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