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FAUSTO MARINETTI

LETTERE DALLA PERIFERIA DELLA STORIA

LETTERA ALL’AUTORE

Caro Padre Fausto,


non ti scrivo una prefazione, ma una semplice lettera. Il tuo libro si fa
leggere da solo, perché racconta fatti. Voglio solo dire che ogni volta che vado in
un paese del terzo mondo e vedo cose simili a quelle che tu racconti, entro in uno
stato d’animo simile a quello che emerge da molte pagine del tuo libro: dolore,
smarrimento, incredulità di fronte a tanta miseria e sfruttamento dei poveri,
rimorso, rifiuto per questo nostro mondo occidentale che si ritiene civile e
sopporta accanto a sé miserie così incredibili. Si vorrebbe fare di tutto per stare
vicino a questa gente che soffre ed insieme ti dà tanta umanità quanta raramente
ne trovi in altri paesi più sviluppati. Ma poi il viaggio termina: per alcune

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settimane si rimane quasi col rimorso di trovare davanti a sé una tavola
imbandita, un letto con lenzuola, una camera dove non si abbia a che fare con
topi, zanzare malariche, scarafaggi... Infine le impressioni anche le più
drammatiche, come tutte le cose umane sbiadiscono per l’urgenza delle cose
quotidiane, un pò anche perché non si riesce a sopportare a lungo questo peso
sulla coscienza.
Il tuo libro vale come richiamo a queste cose ! che non dovremmo mai
dimenticare. Esso aiuta a vedere la sconvolgente realtà della miseria immeritata
di una moltitudine di uomini e donne, bambini, adulti e anziani, che soffrono
sotto il suo peso: lo scandalo della fame in un mondo che spreca immense
ricchezze, la carenza di abitazioni degne dell’uomo, le malattie anche mortali che
proliferano tra denutriti e disidratati, il lavoro mal pagato o non pagato, le
immense terre di Dio e dei suoi figli possedute da pochi potenti, l’assenza di ogni
previdenza sociale; e ancora analfabetismo, disoccupazione, egoismi,
alcoolismo, corruzioni, prostituzione, indebitamenti, miseria culturale, la
mentalità | dello schiavo diffusa nei poveri e che appare incorreggibile, e quella
del padrone assoluto giustificata e legittimata, la limitazione o negazione dei
diritti; fondamentali della persona umana, istituzioni e strutture che pianificano lo
sfruttamento dei poveri; e, in tutti, la quotidiana tentazione a odiare.
Esso dà anche voce a quella rabbia, a quelle esclamazioni e grida che
lette a mente fredda possono apparire esagerate o addirittura irriverenti, ma che
riportate nell’ambiente drammatico da cui provengono ce ne danno una
immagine autentica. Si tratta poi di esclamazioni, grida e giudizi che anche se
suonano ira e rabbia, sono di fatto vissuti in i un contesto di tale umanità e
pazienza, quella dei poveri più poveri, sempre più poveri e sempre pronti a
sorridere per uno spiraglio di bontà, che solo nel loro ambiente possono essere
capite pienamente.
Tu, infatti, nel vedere come mescolato a tutta questa negatività - che
denunci con coraggio e forza come gli antichi profeti (del resto la denuncia dei

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mali e delle ingiustizie è un aspetto della funzione profetica della Chiesa, cfr.
Sollicitudo rei socialis, IV, n. 41) - vi sono «le ricchezze dei poveri» o valori che
essi conservano come sempre per miracolo: la loro fede in Dio che, perché Padre,
ama sempre i suoi figli e sa convertire, a suo tempo, il male in bene; la devozione
a Gesù Cristo Crocifisso paziente e misericordioso, mirabile modello di vita per
ogni cristiano che voglia essere autentico; e ancora il loro spirito di solidarietà,
l’amore per i figli e per i bambini; il distacco dalle cose materiali, la disponibilità
nel servizio degli altri, il disinteresse per tanti bisogni inutili; la ricerca
dell’essenziale, la riconoscenza, la resistenza al dolore, la speranza che muore
sempre dopo di loro e tanti altri segni positivi che sviluppati portano ad una
nuova civiltà, quella dell’amore, annunciata e promossa dal Vangelo di Gesù.
Certamente il tuo libro non contiene ricette sociali ed economiche. I
problemi rimangono immensi, gravissimi. Non si danno soluzioni facili. Il
semplicismo non aiuta qui, come neppure altrove. Ma la speranza è che attraverso
la partecipazione emotiva, seria a tanta sofferenza cresca in tanti di noi quel senso
della « interdipendenza » di cui ci parla la Sollicitudo rei socialis e che ciò
indirizzi il nostro agire verso quegli orizzonti di solidarietà universale dai quali
soltanto potrà venire una risposta meno inadeguata a quegli abissi di sofferenza.
Per collaborare con Dio alla costruzione di un’umanità nuova, nonostante
tutte le difficoltà, i dubbi, gli interrogativi, le apparenti inutilità, i fallimenti, le
debolezze e gli errori anche degli uomini di Chiesa, dobbiamo sempre annunciare
il Vangelo di Cristo, con i fatti e con le parole, anche perché questo dà alla
denuncia la forza della più alta motivazione.
Anche le domande così centrali nella tua cronaca, penetranti e vitali,
trovano la risposta di Dio nel suo Vangelo. Lo dobbiamo «rileggere nella
situazione esistenziale e culturale» della gente che amiamo. Credo proprio, come
dice il tuo amico Cicero, che una comunità rinasca attraverso la Parola di Dio (p.
63) capace di provocare in ciascuno un’esistenza più significativa e autentica.
Nella Bibbia troviamo il progetto di Dio da proporre ai poveri e ai ricchi, ai

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potenti e ai deboli, agli istruiti e agli ignoranti e insieme a quella illuminazione
che ci porta a conoscere il mistero dell’uomo, le vie della sua liberazione, il vero
senso della sua vita.
Rileggere il Vangelo in una situazione vuol dire soprattutto
sperimentarlo, riviverlo. Tra le tante tue operazioni pastorali mi è piaciuto molto
il «Progetto comunitario» che descrivi in maniera sintetica alle pagine 107-109;
in esso proponi come traguardo la solidarietà sociale e fraterna, la scoperta di
quel legame naturale, universale e divino che ci lega tutti insieme: l’esperienza di
vivere da fratelli nell’uso delle cose, nella gestione comunitaria dei beni, nella
partecipazione, nell'Eucaristia ... proprio come i primi cristiani.
Bisogna offrire alla gente modelli semplici di organizzazioni, di
condivisione, di solidarietà. Dici bene che chi incomincia ad assaporare i frutti
della solidarietà farà nascere altre piante che daranno nuovi frutti.
La solidarietà, scrive Giovanni Paolo il nella Sollicitudo rei socialis, ci
aiuta a vedere l’altro - persona, popolo o Nazione - non come uno strumento
qualsiasi per sfruttare a basso costo le capacità di lavoro e la resistenza fisica,
abbandonandolo poi quando non serve più, ma come un nostro simile un aiuto da
rendere partecipe, al pari di noi, del banchetto della vita, a cui tutti gli uomini
sono egualmente invitati da Dio (SRS v,. n. 38). Di qui l’importanza
dell’istruzione religiosa e della formazione di coscienze umane e sociali.
Da ultimo vorrei ringraziarti per l’amore che hai per ogni uomo, per i più
poveri, per i paria del mondo; amore che esprimi soprattutto stando insieme a
loro, immettendoti nella loro storia, vivendo il povero. Grazie perché riesci a
coinvolgerci in questo immane problema dei poveri che deve diventare un
problema di tutti.
E quando ti sembra tutto difficile, impossibile, inutile fa anche tu quello
che hai suggerito, tra il serio e il faceto, a Maddalena e Raimundo: « ... Guarda il
Crocifisso » (p. 72). Lui ci insegna come e quanto dobbiamo amare. Con te mi
metterò anch’io in ginocchio, in cima al Cosmo, a pregare.

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Carlo Maria card. MARTINI
Arcivescovo di Milano A

AGLI UOMINI CAPACI DI FRATERNITÀ


Si tratta di un « Diario di bordo » : il quotidiano più normale che si possa
immaginare. E, allo stesso tempo, il più commovente. « Dalla periferia », dai
margini dell’umanità, dal Sud, dal Terzo Mondo: dove è proibito perfino esistere;
dove la società occidentale - e cristiana! - butta la grande maggioranza. Periferia
disumana, che « i popoli sfruttatori del terzo mondo » sono riusciti a produrre ad
immagine e somiglianza del loro egoismo capitalista, il quale è - per definizione -
sfruttamento, disumanizzazione, morte.
Ma, simultaneamente - e questo è il mistero che la Fede rivela e che
anche la passione politica genuina può intuire - si tratta di una periferia « della
vita ».
L’« istinto della fede », l’istinto di una politica nuova - che sta quasi per
nascere - possono riporre la loro fiducia nelle potenzialità rivoluzionarie di questa
« morte imposta », di questo « povero di Javé » ridotto a moltitudini, di questo «
servo sofferente » collettivo.
Il libro-testimonianza di Fausto Marinetti non è pessimista. È
provocatorio. Come la Croce di Cristo, come la vita del povero. Come il Dio
Vivente.
Chi si sente ancora uomo, può e deve aspirare ad un’Umanità umana.
Diversa, evidentemente, al di fuori di questa civiltà che ci distrugge tra i dollari e
le armi, sotto il terrore e l’inquinamento, attraverso la droga ed il consumismo. Al
di fuori di queste democrazie pervertitrici del « popolare ».

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Al di fuori di queste « Nuove Repubbliche » - alternative di fiducia delle
dittature - che nascono stantie, figlie del Fondo Monetario Internazionale, della
Sicurezza Nazionale o Continentale, del liberalismo delle minoranze privilegiate.
Parlando evangelicamente - ed anche secondo questa nuova politica
genuina - « gli ultimi saranno i primi » nella costruzione del Regno,
nell'accoglierlo, nell'annunciarlo. Il primo mondo non può essere « il primo », né
mai lo sarà, fino a quando sarà il primo. Parlando, ho detto, secondo i parametri
dell’Evangelo di Gesù e della Giustizia universale. Come i poveri sono
evangelizzati - ed è questo il segno che il Regno di Dio è arrivato e così sono loro
che evangelizzano. In questa visione utopico-salvifica che Dio vuole e che i figli
di Dio devono difendere con le unghie della più grande generosità, è il Terzo
Mondo che diventa il primo...
Per questo c’è il Cristo. Per questo siamo cristiani. Per questo siamo
umani. « Affinché tutti abbiano la vita ed in abbondanza ».
La morale che Fausto fa scaturire da ogni storia non è un modo
superficiale di circoscrivere la tragedia del Maranhão, del Nordest, del Brasile
della maggioranza umiliata ed oppressa, del Terzo o Quarto Mondo. È solo la
morale della storia del Dio della Storia. La paglia del presepio ed il sangue della
croce, le beatitudini ed il Padre Nostro, Luca 4, 16-24 e Matteo 25, 31-46
proclamano, attraverso la bocca e la vita del Figlio di Dio fatto Figlio dell’Uomo,
la stessa assurda morale salvifica.
Padre Fausto non poteva tacere il dramma, ma non poteva neppure
tralasciare di annunciare questa morale. Egli è cristiano ed evangelizzatore. « Il
silenzio sarebbe sovversione ». Ateismo dubitare della forza dei deboli.
Tradimento negargli la parola. Suicidio spirituale non tentare di mettersi sulle
loro orme, là dove passa Colui che si è fatto « il Cammino ».

Se non ho inteso male, Fausto scrive questo secondo libro per certi

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cristiani d’Europa che alimentano la fiamma missionaria ed hanno scoperto che
la fede senza le opere della trasformazione socio-politico-economica è una fede
morta. E quindi devono essere disposti « a lavorare con - contro - la fame, con -
contro - l’ingiustizia, con - contro - la guerra, per la pace ». « Cristiani impegnati
», sottolinea Fausto, dovrebbe sottintendere che si tratta di cristiani davvero.
A loro, quindi, ed a tutti gli esseri umani capaci di fraternità umana,
raccomando questo libro.
Tanto meglio se non li lascerà tranquilli. Cristo non è venuto a portare
una pace placida, ma il fuoco della conflittualità. Non ha mai pensato di riporre la
sua fiducia in discepoli, che mettono mano all’aratro e tornano alle nostalgie del
privilegio, delle comodità, del primo-mondismo.
« La vita alternativa » che Fausto propone e che questa piccola «
comunità gedeonica » di 13 famiglie sta tentando, si trova nella direzione della
«Vita Nuova » di Colui che è venuto a portare la Vita.
« Suoi consanguinei », tutti noi, fratelli nel suo Spirito, solo per questa
Vita possiamo vivere e per questa Vita vale la pena rischiare la vita. Dalla
periferia della storia, tra i poveri della terra, con Colui che si fece povero per
arricchirci di Liberazione.

Mons. PEDRO CASALDALIGA

Vescovo di São Felix do Araguaia Mato Grosso – Brasile

AL LETTORE
Ancora sui gulag della fame, sulle fogne del mondo. Ancora sulla
miseria. Fino alla nausea. Fino a quando la società di Caino non si deciderà a
cancellare questa ignominia.

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Se lo volesse, il mondo sarebbe un altro. Manca solo un gesto collettivo,
una decisione popolare. Basta chiudere il rubinetto di un milione e mezzo di
miliardi di lire l’anno (due miliardi e 850 milioni al minuto), che corrono per
produrre le guerre. Basta che il 30% della popolazione mondiale decida di non
saccheggiare 1’87,5% di tutte le risorse della terra. Parlare di latrocinio sociale,
pirateria permanente, attentato contro le economie bambine, è troppo poco.
Basterebbe volerlo, dunque. Soltanto volerlo. Chi ce lo impedisce? La
logica delittuosa degli imperi? La corsa pazza per ampliare fino alle stelle il
deterrente nucleare? Oppure l’ignavia delle masse, la connivenza delle ideologie,
l’acquiescenza delle religioni? Che stanno ad aspettare? Che non ci siano più
superstiti al « naufragio procurato »? Oppure che nasca, finalmente, una
coscienza civile?
Fino a quando « quello » non sarà più che un ricordo; fino a quando
l’indegnità e la schiavitù dei popoli non saranno oggetti da museo; fino a quando
la morte innaturale non sarà più nominata tra noi, qualcuno dovrà lasciarci senza
tregua. Per rimestare nella piaga. Per cercare, tra le macerie umane, i perché. O,
se si vuole, i mandanti e gli esecutori materiali della soluzione finale che non
finisce mai.
Oppure per celebrare, almeno, le vittime. Per commemorare i vinti, « i
bambini di cera », le moltitudini di coloro che « muoiono prima di morire ».
Per rinnovare la memoria. Perché si sappia che i forni fumano ancora;
che la bomba della fame continua a sterminare 50 milioni di persone all’anno (di
cui 20 milioni sono bambini).

IL VILLAGGIO CROCIFISSO

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Boa Vista, 11.8.1985

Da dove incominciare? Che dire di fronte ad un villaggio circondato di


filo spinato? Stringere la mano degli amici attraverso il filo dell’ignominia!
Venerdì 9 agosto ci doveva essere la Messa nella cappella del villaggio.
II popolo è arrivato alla spicciolata, senza premura. Molti bambini, pochi adulti
per l’orario stabilito. Approfitto per visitare i vecchi ed i malati, anche loro dietro
al fino spinato, in certi casi ad un metro dalla porta di casa. Ogni passaggio sotto
il filo mi re-immerge nel mondo concentrazionario. Le vittime dei campi
sembrano essersi date appuntamento qui; le loro ombre mi trapassano; le loro
storie lette sui libri sembrano prendere corpo nella carne degli abitanti del
villaggio. Rivivo Auschwitz, le SS, il gas liberatore.
Verso le dieci indosso i paramenti. Qualche cosa mi blocca. Dopo il
canto d’apertura si parla del peccato sociale: qui il peccato di tutti è quel filo
spinato. Chiediamo perdono per il villaggio crocifisso. Poi la lettura. Invito a
leggere quel filo che strozza anche l’anima del villaggio. « Che ve ne pare?
Volevo entrare nella casa di donna Antonia, in quella di Cicero e mi sono trovato
davanti un muro di spine. Che ne pensate? ».
Reticenza. Mugolii di rassegnazione: « Non c’è più niente da fare » - «
Meglio lasciar perdere » - « Quel che è stato è stato ». Insisto: « Celebrare la
Messa è celebrare la vita. Che vita è quella dei nostri figli costretti a vivere dietro
un filo spinato? Qui siamo in pieno Venerdì Santo. La vita è crocifissa. È
possibile celebrare la Messa in queste condizioni? ». Il villaggio è in balia della
rassegnazione.
Interrompo la Messa e propongo la Via Crucis per chiedere perdono al
cielo ed alla terra per una cosa così grave. I bambini, davanti, portano la croce. La
processione si svolge lungo il filo.
Di tanto in tanto sostiamo per celebrare « la passione secondo il popolo di

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Boa Vista ». Dentro, quel filo scava un solco che non so misurare.
Dopo la processione chiedo se qualcuno se la sente di andare con me dal
proprietario del terreno recintato.
La moglie di Severino mi chiede, per l’amor di « Dio, di lasciar perdere...
« Perché? » - « Perché sì ».
Solo 5 o 6 persone mi accompagnano. Sebastiano è nei campi; in casa
troviamo sua moglie; « Guardi, donna Maria, siamo venuti a parlare a proposito
di quel filo. Sa, io giro molto, ma non ho mai visto una cosa così: il filo spinato
davanti casa. Cerchia mo insieme una soluzione. Vediamo che cosa si può fare...
Non le pare che quella gente sia stata rinchiusa, come porci nel porcile? ».
Si vede che è una donna che ha sofferto tutta la
vita: magra, morena, esausta, nervosa. Dopo poche battute chiude il
discorso: « Non c’è più niente da fare. Quella gente è una manica di fannulloni, di
profittatori irriconoscenti... Alcuni sono venuti in casa a minacciare. Mio marito
ha combinato con loro prima di tirare il filo... ».
È duro sentire un pequenino parlare male dei pequeninos. « Qui attorno ci
sono tanti fazendeiros. Perché non vanno da loro a chiedere un pezzetto di terra?
Noi siamo poveri. Quello che abbiamo, l’abbiamo tirato insieme con tanti
sacrifici ». - «Donna Maria: io capirei un grande che butta fuori i pequeninos, ma
non mi riesce di capire voi, piccoli, che volete rendere impossibile la vita ad altri
piccoli, affinché se ne vadano ». Neppure una breccia. Allora vuoto il sacco: «
Guardi donna Maria: io sono venuto qui a cercare una via d’uscita; visto che lei
rifiuta tutto, io scuoto la polvere dei miei piedi... Se lo ricordi bene: quando lei si
presenterà là in cielo troverà, davanti a sé, una siepe di filo spinato... ».
Durante il pranzo da donna Irene, Maria è passata davanti casa: andava
nei campi a portare il pranzo al marito. Quando ha visto il mio toyota è tornata
indietro. Si è buttata ai miei piedi e si è messa a piangere come un’aquila: « Non
faccia questa cosa con me, Padre, io sono perduta. Non c’è più speranza per la
mia famiglia. Povera me! ». Cerco di calmarla e di farle capire che non è con me,

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ma con le dieci famiglie rinchiuse, che deve riconciliarsi. Dopo venti minuti di
sfogo e di pianto, combiniamo di fare una riunione con tutti i capifamiglia
domenica prossima.

Domenica 11, ore 15: riunione di riconciliazione. Siamo tutti in cerchio.


C’è anche donna Maria. Al mio arrivo era prostrata a letto. Ho pranzato da lei,
come d’accordo, ed ho chiacchierato parecchio con suo marito. Ho scoperto che è
un ometto, in tutti i sensi; non ha nulla dello spirito borghese dei grandi; è stato
l’incaricato della banca a montargli la testa: « Se non butti fuori gli aggregados,
un giorno possono darti delle grane, rivendicare un pezzo di terra; e poi la banca
non dà finanziamenti in queste condizioni ». Ecco come il veleno si insinua anche
nel cuore dei piccoli. Sebastiano ricorda ancora le parole che aveva detto: « Il mio
cuore mi dice che non posso fare questo. La coscienza si rifiuta, perché anch’io
sono povero ». Ma poi ha ceduto alle insistenze.
Chiedo agli aggregados di dire il loro parere. Antonio: «Per me è meglio
che tutto rimanga come è. Ho già deciso di andarmene ». Domingos: « La cosa è
già fatta. Non vale la pena... ».
Preferirei ricevere dei pugni nello stomaco piuttosto che... Intervengo: «
Scusate, vi sembra che sia possibile insegnare a dei figli che vivono dietro il filo
spinato, che Dio è buono, che ha fatto il mondo per noi? ».
Vicente: « Io sono l’ultimo arrivato nella terra di Sebastiano e non posso
dire niente. Per me va bene così ». Altra mazzata. Donna Severa: « Sebastiano sta
nel suo diritto. Io avrei fatto la stessa cosa... ». Dorival apre uno spiraglio: « Si
potrebbe far passare il filo dietro casa ed aprire un passaggio per portare in casa
l’acqua ed il prodotto dei campi ». Alcuni sembrano accettare l’idea del cancello;
si tratta di impegnarsi a chiuderlo, altrimenti gli animali invadono le
coltivazioni. Nessuno accetta di responsabilizzarsi e così la proposta cade nel
vuoto. Il clima è di rassegnazione (ma la parola è troppo debole); sembrano
uomini senza volontà. Schiavi di una storia, di secoli di oppressione e di

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dipendenza.
In fondo non hanno mai deciso nulla nella loro vita. Cosa pretendi, che
gli schiavi abbiano la forza di rompere le loro catene? Ma se non hanno mai
sentito l’odore della libertà, come potranno anche solo desiderarla? Nella
schiavitù non si ha altro termine di confronto se non la schiavitù...
Ogni parola mi moriva sulle labbra prima di proferirla. Ho lasciato la
conclusione alla suora: « Va bene. Noi siamo venuti, perché il padre è un pastore;
il politico cerca voti, il padre la vita e la pace del villaggio. Se per voi va bene
così, sta bene anche per noi... ».
Ce ne siamo andati. Distrutti più ancora di quando siamo arrivati. Suor
Luiza mi ha confidato che lei se lo aspettava. Io no. Non riuscivo ad immaginare
che la schiavitù arrivasse all’estremo di giustificare il male, chinare la testa e
rifiutare la mano che si porge per sollevare, almeno, il peso delle catene.
Chi non è nato nella schiavitù secolare, non può capire gli schiavi. Questi
hanno un’altra natura, un’altra misura delle cose.
L’unico modo che gli è rimasto per sopravvivere è quello di dire sempre
« sissignore »; votarsi alla rassegnazione; rifiutare a priori il pensiero di potersi
liberare. Dal bisogno, dal padrone, dalla fame, dalla diarrea, dai vermi. Quante
schiavitù istituzionalizza te ai nostri giorni! Ci sarebbe da raccogliere tutta i una
letteratura che costella il linguaggio degli schiavi di ieri e di oggi. Basta entrare in
un negozio ed il commesso: « Comandi, signor Padrone! ». E, quando esci: «
Sempre ai suoi ordini, Padrone! ».
Sulla via del ritorno spingevo il piede sull’acceleratore e mi sembrava di
schiacciare il pedale della storia per accelerare il tempo della speranza.

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PAGARE LE TASSE NEL SUB-MONDO

Açailàndia, 19.08.1985

La vita continua. A denti stretti. Il primo mondo non lo vuol capire: la sua
opulenza costa il prezzo della vita dei popoli poveri. Oh, se un giorno i
crocifissori potessero guardare negli occhi le loro vittime! Io, che le vedo tutti i
giorni, mi sento interiormente distrutto.
Che voglia di urlarlo dai tetti: Occidente, sei tu che stai uccidendo il
vecchio Joàonzinho! Sono andato a trovarlo, perché non sono riuscito a resistere
alle insistenze di donna Cicera. L’ennesimo crocifisso. Accanto alla parete della
casa di Daniel hanno ricavato un parallelepipedo inchiodando delle vecchie
tavole: lì dentro sta morendo l’ottantaquatrenne abbandonato da tutti.
Sono entrato nel parallelepipedo della « morte Severina » chinando la
schiena. Non una finestra. Una vita da pipistrelli. Eppure lì dentro ci vive un
uomo. Non so descrivere il colore dell’amaca in cui giace, la puzza intollerabile.
Volevo portarlo via. Poi ci ho ripensato: non posso sottrarlo alle cure dei vicini.
Donna Necì mi ha raccontato che la vicina non ha neppure un pugno di riso da
dare ai figli. Le ho risposto di getto di fare qualche cosa insieme ai vicini. Poi le
ho dato un pò di riso. Risolve? In città tutti sanno che il sindaco ha autorizzato i
consiglieri a servirsi a volontà della merenda destinata agli alunni delle scuole
pubbliche. È un piglia-piglia che fa venire il vomito. Ed io non posso neppure
alzare la voce per dire che siamo tutti dei vigliacchi a permettere che sia sottratto
di bocca il pane ai figli, perché ci sono delle orecchie troppo deboli... E a che
serve che il padre urli in chiesa? Da solo, cosa può fare? Un gesto profetico come

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il digiuno di Gandhi? A che servirebbe, qui, dove il popolino digiuna 365 giorni
all’anno? Diversi stanno dimenticando il sapore della carne. Gli occhi gialli ed
anemici dei miei amici sembrano aumentare. Mi sto facendo forza e ricomincio a
visitare la periferia: Vila Tancredo, Vila Nova, il rione della « Buraqueira ».
Immergersi nei poveri solo per guardarli in faccia, è peggio di una tortura. Eppure
per loro è una grande cosa, che il padre stia con loro, in mezzo a loro. I figli di
Raimundo, quando mi vedono di lontano, danno l’allarme e tutti i bambini del
vicinato mi corrono incontro chiedendo la benedizione: « Benção, seu Padre ».
Stiamo tentando di utilizzare qualsiasi briciola di buona volontà. Le donne della
Vila Tancredo hanno scavato il pozzo comunitario. Lo chiamano « il nostro »
pozzo. Per loro è più che una conquista; una vittoria sulla morte. Adesso si fa la
colletta in chiesa per comprare cemento e mattoni per fare la « bocca » del pozzo.
Stiamo toccando l’apice della barbarie: il municipio ha avuto il coraggio di
mandare la bolletta delle tasse. Tutti l’hanno ricevuta. Anche i sub-uomini; anche
quelli che abitano sul « buco » e ci cadranno dentro il prossimo inverno. Ma
prima di crepare, nel sub-mondo bisogna pagare le tasse. Sulla bolletta c’è scritto:
« Tassa per i servizi pubblici ». Quale servizio? L’immondizia a montagne nelle
strade, l’acqua potabile che non c’è, l’illuminazione precaria, i buchi, la morte a
buon mercato, le malattie infettive. Non è ora di dire « basta »?
Un consigliere mi diceva: « Il sindaco mangia la banana e passa la buccia
ai consiglieri. Siamo imbavagliati, perché se parliamo lui apre il sacco della
corruzione. Un ricatto: se mi denunci, io ti denuncio ». Ma la cosa più
incomprensibile è il silenzio del popolo. Pare nato con la bocca cucita.
Dopo il colpo delle tasse vivo con gli incubi. Come non reagire di fronte
ai crimini impuniti, agli abusi legalizzati, ai miserabili inghiottiti da un sistema
politico oppressore?
Piccoli e grandi usano lo stesso metodo. Il sindaco era un venditore di
banane; oggi ha tre fazende e la casa nella capitale. L’incaricato del pozzo di

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Novo Bacabal è un poveraccio, ma ha imparato la lezione: riceve il buono per il
gasolio della pompa e lo vende sotto banco, riducendo le ore di funzionamento.
Ci sono momenti in cui ci si sente inebetiti. Non si sa più cosa pensare.
Dire che il popolo è morto, che non vive di vita propria, perché è senza libertà,
senza dignità, senza autonomia alcuna? Eppure il popolo dell’interior ha delle
qualità umane eccellenti. Come difenderlo dagli attacchi dell’integrazione
nazionale, dall’invasione dei modelli di vita importati dall’Occidente?
Il gioco del « faraone », ieri come oggi, è di ridurre il potere di acquisto
del popolino; far sì che produca più mattoni, che lavori di più, in modo che non
pensi. Non deve avere il tempo di pensare.
Forse il popolo non ha la forza di reagire, perché si è abituato a perdere.
Ne ha prese tante, che ci ha fatto il callo. Gli hanno tolto perfino la volontà. Gli
hanno spento, dentro, ogni tentativo di riscossa. La schiavitù non è un oggetto nel
museo della storia. Io gli schiavi li incontro tutti i giorni. Ne conosco le piaghe
segrete del cuore. E la più grande di tutte è che lo schiavo non sa di essere
schiavo.
Quando viene a saperlo (come è successo nel 1889, anno dell’abolizione
della schiavitù), è troppo tardi. La schiavitù gli è entrata perfino nelle cellule, nei
cromosomi, nell’anima. Quando gli schiavi sono stati dichiarati liberi, cadute le
catene, si sono guardati attorno: « E adesso a che ci serve la libertà? Non abbiamo
terra; non abbiamo una professione; non abbiamo niente. La nostra situazione è
peggio di prima, perché sotto i padroni almeno ci si riempiva la pancia... ».
Costretti a rimpiangere la schiavitù! E, in certi casi, chiedevano ai loro padroni di
riaccettarli come schiavi. Schiavitù volontaria! Per questo io dico che il fatto di
avere o non avere il minimo indispensabile per vivere, non è una cosa
insignificante, indifferente. Il non avere influisce sul non-essere.
Crea degli esseri dipendenti, dei sub-uomini, « incapaci di intendere e di
volere ». Vivono con il cordone ombelicale. Senza il minimo per vivere si è in
situazione di schiavitù. Schiavi di tutto: del padrone o di un piatto di riso e fagioli;

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schiavi disposti a tutto, pur di sopravvivere.
E chi avrebbe il coraggio di fargliene un torto?
Ho sempre davanti la visione di Boa Vista concentrizzata. Lo schiavo
non è un uomo. Il sistema che lo produce è talmente diabolico, che lo induce a
pensare come lui; lo costringe ad accettare la sua logica; gli incute l’orrore della
sovversione; gli cava l’anima.
La « Nova Repubblica » muove i primi passi. I poveri non ce la fanno
più: aumenta il salario, ma ancor più i prezzi. Il governo fa grandi iniezioni di
speranza. Promette mari e monti ai contadini, che sembrano esplodere da un
momento all’altro: entro poco tempo sette milioni di famiglie riceveranno la
terra! Si parla di Re forma Agraria. Tutti dicono: « Finalmente! ». Anche i
latifondi improduttivi saranno espropriati...
I poveracci che stavano affogando riprendono fiato. Si può ricominciare
a vivere. Di promesse. E di sogni. Guai se il popolino non avesse queste due ali
per sopravvivere!
Mentre si tira la cinghia, il governo si compiace con opere gigantesche. Il
gusto dei faraoni. Basta ricordare le imponenti dighe di Itaipù, Tucuruì e quella
immensa cattedrale nel deserto che è la capitale: Brasilia. Le ambizioni militari
stanno mettendo a punto l’uranio arricchito ed aerei da combattimento per
esportazione (Tucano).

È LECITO VENDERE LA «TERRA PROMESSA»?

Brejinho, 7.9.1985

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In piena foresta col mal di pancia. Deve essere stata la carne di maiale.
Non c’era altra cosa in tavola e, dopo 4 ore a cavallo, avevo una fame da lupo.
Anch’io, oggi, sono prigioniero delle più grosse fazende della regione. Respiro
aria di schiavitù. Per entrare bisogna sottoporsi ad un interrogatorio e passare due
portoni con lucchetto e guardia armata.
Il gioco delle imprese è di lasciare che i pequeninos crepino di malaria, di
morsi di serpenti, di eccesso di lavoro o sotto un tronco nel tentativo di
addomesticare la foresta. Quando l’area è « pulita » si fa avanti l’intermediario e
compra tutto a prezzo di banana.
Maria, piangendo senza ritegno, si sfogava: « Qui c’è molta roba da
vendere: granoturco, farina di tapioca, riso, ecc.; ma dove vado a venderla per
comprare una medicina se il mezzo di trasporto più vicino è a quattro ore di
cavallo tra spine, guadi e fango? È come essere in prigione ». I suoi figli sono
malaticci. Uno ha pianto tutta la notte. Eppure, non un lamento rivolto al cielo: «
Siamo nati per soffrire. Dio ci prova come Giobbe ».
È da una settimana che viaggio nella foresta del Pindaré. Avevo paura di
questo viaggio, perché è il più estenuante, sia per le cavalcate, che per il cibo
precario, i moscerini, le zanzare (la malaria). Per la prima volta ho messo le
scarpe, perché c’è un moscerino terribile, che mi ha ridotto le gambe ad un
colabrodo. Il mulo si è comportato bene: niente piaghe in quel posto, graqas a
Deus. Ho passato la notte con l’incubo di cadere di botto sul pavimento. I topi
rodevano tutto; avevo paura che rodessero la corda che sospendeva la mia amaca.
Un cane puzzolente batteva i denti per mangiarsi le pulci.
Nonostante tutto non mi sento né stanco né scoraggiato. Ne vale la pena.
Mi accompagnano due animatori: Oriel e José. È importante vedere come il
nativo tratta il nativo, come si rapporta con i suoi uguali. Concordano nel dire che
ogni comunità è come una persona umana: ognuna ha il suo volto, la sua storia, la
sua età. Ieri hanno convinto il signor Joào (nero come il carbone, il cuore candido
come la neve), che il padre avrebbe fatto il suo matrimonio in casa e senza esigere

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la tassa. 67 anni di vita non gli hanno dato nulla: due gallinette e due nipoti, che
alleva come se fossero la sua maggior ricchezza. Si è lavato e profumato. Una
gioia contenuta. Era un sogno o realtà quello che stava succedendo? Il padre nella
sua capanna, il matrimonio con la sua vecchia, il battesimo dei nipoti... tutto così
incredibile! Ha promesso di pagarmi con una gallina.
Ricevere soldi dalle mani callose di certi poveracci strappa il cuore. Il
raccolto è stato magro. Pochi hanno il riso per arrivare fino al prossimo raccolto.
E, non avere il riso per il consumo di casa, vuol dire miseria nera: a coisa tà preta.
Ma il povero non si lamenta, non reagisce. La schiavitù l’ha addomesticato: « Il
povero deve vivere in silenzio ». E donna Ilda: « Vale solo chi ha soldi; il
poveraccio non vale niente ». Alcino: « Noi siamo abituati a vivere di miseria;
siamo nati con il costume della miseria ». Artù: « Per il povero l’anno venturo
sarà migliore; ed è sempre l’anno prossimo, che non arriva mai... ».
Nel Brejão abbiamo trovato la comunità a pezzi. Donna Francisca è in
litigio con Celio per 50 metri di terra: uno dice che l’ha comprata, l’altra che ne ha
diritto, perché la coltiva da più di un anno. Ed i pescecani non aspettano altro: che
i pesciolini si dividano tra loro, per mangiarseli in un boccone. Il nostro sforzo
nella riunione è stato quello di far capire loro che c’è un pericolo comune e
maggiore: le grandi imprese che vogliono divorare tutto per piantare canna da
zucchero con gli incentivi del governo.
Come è difficile che i poveri si organizzino! Non li giudico. Io non sono
cresciuto in regime di sopravvivenza. Il dottor Walter diceva: « Con i tempi che
corrono la salute sta diventando una cosa secondaria. La gente si preoccupa,
prima di tutto, di riempire la pancia, di scampare. Io ritengo che il popolo abbia di
suo solo la vita ».
Nella capitale è iniziata la lotta all’ultimo sangue per conquistare la
poltrona del sindaco. Sono in lizza donna Gardènia e Jaime Santana. Gardènia è
moglie dell’ex-governatore, quello che ha venduto il Maranhão alle
multinazionali. Tutti i giorni si presenta in un quartiere con un camion di regali

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per i miseri; promette mari e monti; urla che è un cosa indegna per
l’amministrazione lasciare i cittadini nelle immondizie, senza acqua, senza
scuola e salute; il popolo applaude e continua a vivere di illusioni, di promesse e
di sogni. Il sogno, un giorno, di riempire la pancia di riso e fagioli. «Che ce li dia
donna Gardenia, o Jaime Santana, o Tancredo Neves, o José Sarney, o il diavolo,
per noi, in fondo, è la stessa cosa... ».
Un amico mi diceva: « Il sistema sopravvive grazie ai miserabili. La sua
base elettorale è la miseria. Il numero dei ricchi deve essere inferiore al numero
dei poveri, se no si compromette l’equilibrio. Non è assurdo? Chi produce il ricco
è il povero ».
Che crampi allo stomaco mandar giù certe cose. Nel Brejo Social su 118
contadini che avevano ottenuto un pezzetto di terra col nostro aiuto, più di 40
hanno già venduto. Le sconfitte dei poveri sono come una pugnalata alla schiena.
Certi poveracci sono talmente miserabili da screditare tutta la categoria. Mi è
venuto voglia di scappar via senza celebrare la Messa. Ma cosa capirebbero?
Hanno imparato dal ricco: usare la terra per fare affari. Un peccato contro la
Genesi della terra, contro il suo « principio », quando le cose non erano così. Al
principio la terra era libera come la foresta del Pindaré. La terra era di tutti: della
anta, del caititù, del macaco, del porcão, della curica, della onça. Oggi tutti
figgono. È arrivato l’uomo del progresso, che non ha pietà di nulla.
La Messa sotto le mangueiras ha radunato una folla. Ed io mi angustiavo:
come toccare l’argomento più spinoso del giorno, la vendita di terra, senza urtare
l’animo suscettibile del contadino? Durante l’atto penitenziale abbiamo invitato
tutti a guardare due rami, che pendevano sulla nostra testa: uno carico di frutti e
l’altro secco. Com’è la nostra vita? A quale ramo assomiglia? Poi siamo passati ai
peccati sociali: non quelli del ramo, ma del tronco, cioè della comunità. E lì ho
preso quota: ricordate il popolo ebreo? Quante prove per arrivare nella terra
promessa! Un pò quello che è successo qui quando il dottore si atteggiava a
faraone.

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Che ne direste se il popolo eletto avesse cominciato a vendere la terra
promessa? È lecito vendere la terra consacrata dal nostro sudore, la terra che è il
pane dei figli, la garanzia del nostro e loro domani? Vendere ciò che Dio ha
benedetto e misurato per noi. Chiediamo perdono. Abbiamo profanato una cosa
sacra: la terra che, fin dal principio, mantiene la promessa di nutrirci. E,
stendendo la mano sulla terra, sull’altare, il popolo, davanti a Dio ed ai figli, ha
promesso di amare la terra del Creatore; di rispettarla; di non vendere il pane dei
figli.
Riusciremo ad invertire la marcia della storia?
Il movente di tutto è il lucro. L’uomo vale quello che produce. Una civiltà
efficientista e produttivista misura l’uomo per i sacchi di riso, fagioli e patate che
produce. Un popolo vale per i silos nucleari! La sua potenza si misura in base al
deterrente atomico...?

ELIAS, IL PISTOLEIRO

Rio verde, 16.9.1985

Un pistoleiro mi ha dato un passaggio fino al ponte del Pindaré. Ho


percorso con lui 12 km. di strada ed un lungo tratto della sua vita. Elias moriva
dalla voglia di sfogarsi. Non ha fissa dimora e passa da una fazenda all’altra per
fare i « servizi » più rischiosi. Oggi offre i suoi servizi ad una delle fazende più

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famose in fatto di espulsione di contadini.
L’argomento del giorno è la morte di tre uomini nel villaggio vicino:
rissa e regolazione di conti. Un suo amico ha accoltellato un tizio che lo
stuzzicava con il coltello: « Vediamo se sei un uomo... se sei un maschio... ». Il
Pernambucano e Chico da Cachorra si sono alleati per eliminare l’assassino.
L’hanno immobilizzato e, mentre lo tenevano fermo, il fratello dell’ucciso gli ha
infilato il coltello nel cuore. « Una ferita spaventosa ». Elias non riesce a digerire
la vigliaccheria dei due. È disposto a perdonare chi gli ha ucciso l’amico, ma non
i due che ne hanno favorito l’uccisione a tradimento.
« Non hai paura di morire? » gli chiedo. - « No. È questione di sorte. Se è
arrivato il giorno stabilito da Dio io parto, se no parte il Pernambucano e Chico da
Cachorra. O io o loro ». E lì imbocca un’altra storia: « L’anno scorso lavoravo in
Manaus. È arrivata la notizia che hanno ucciso un mio parente e sono corso in
casa. Qualche giorno dopo l’assassino è stato trovato morto. Io non so chi l’ha
ammazzato; so solo che ha tirato le cuoia ». Lo diceva con un ghigno sornione. E
lo ripeteva: « Io so solo che è crepato ». « E la polizia? Se ti prendono? » - «
Polizia? La polizia si muove solo con i soldi. Una volta ho chiesto protezione
contro minacce di morte. Il delegato mi ha risposto: “Compadre, nella nostra terra
questo è normale! ”. Da allora io dò o meu jeito (mi arrangio)! ».
Altra filosofia. Questo è il mondo della giustizia sommaria. L’ondata di
violenza è in aumento. Nel villaggio Novo Bacabal si sono uccisi a vicenda in
quattro per una questione di diecimila cruzeiros. In città ogni tanto, all’alba,
appare un cadavere e nessuno sa niente, nessuno ha visto niente.
Guardando i campi qui attorno sembra di essere in piena Genesi. Molte
terre riceveranno la semente per la prima volta dal giorno della creazione. Tutto
sa di « In principio era il cielo e la terra... ». Tutto è all’inizio: agricoltura di
sopravvivenza; gli uomini affrontano la foresta con la scure; vivono di caccia e di
quel poco che producono.
Ed io invoco un’altra Genesi, quella del popolo: « In principio, all’inizio

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di tutto c’è il popolo. Un popolo artefice di se stesso, creatore della sua storia ». Il
popolo deve mettere fine a questo stadio di vita simile a quello della foresta; deve
uscire dal suo « inizio »; deve nascere a se stesso.
Siamo chiamati a vivere la Genesi di una creatura unica al mondo: il
popolo. Fino ad ora la sua è stata un’esistenza caotica, sulla quale aleggiava lo
Spirito fermentandola; ora aneliamo l’ordine, la separazione tra cielo e terra, tra il
mare e la terra ferma, tra la luce e le tenebre. Il popolo deve continuare a ri-
generarsi. Nonostante tutti i loro limiti, i poveri sembrano i più adatti per
intraprendere questa avventura così divina, perché si tratta di una impresa
creatrice: darsi un volto, una storia, una identità.
Era a squarciagola che il popolo chiudeva la celebrazione cantando: «
Povo unido não sera vencido, povo unido, não sera vencido ».
Il cielo sembrava accogliere di buon grado la sfida.

SEVERINO, COME ZACCHEO

Rio Azul, 17.9.1985

Nel villaggio non esistono segreti. Si sa tutto di tutti. Non esistono i


derivati ed i sottoprodotti di una civiltà individualistica. Ognuno si offre all’altro
come è: senza finzioni, senza alterazioni, senza doppi fondi.
Dentro casa non esistono le porte per « chiudere » qualche cosa ed
escludere gli altri. L’intimità è quasi inesistente. A volte, invece della porta, un
panno trasparente. La stanza dei genitori è a parte, ma senza porta. Le finestre
(quando ci sono) sono fatte per essere chiuse solo di notte. La vita dei poveri e
tutta in vetrina. Tutto in comune: la fame, la diarrea, l’anemia.

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Si fa il bagno nel fiume, nudi, da una parte gli uomini, dall’altra le donne.
I vestiti, in genere, non ’ nascondono gran che. Le mamme allattano in pubblico
senza inibizione.
Nei villaggi dove predominano i sudisti (popolazione del sud), quando
incomincia la fila della confessione auricolare, i ragazzini si mettono lì attorno
incuriositi. « Che bisogno c’è di bisbigliare nell’orecchio del padre quello che
sanno tutti? » devono pensare. La maggior parte parla ad alta voce e tutti sentono
i peccati dei poveri. Peccati che, a confronto di quelli dei popoli occidentali, sono
inezie.
Dovrei trovare il modo di esprimerlo come lo sento dentro: è lecito
appartenere alla civiltà occidentale, una civiltà di morte, la civiltà di Auschwitz e
di Hiroshima?
Civiltà cristiana? Non può dirsi neppure umana una civiltà che ha ridotto
i popoli del Terzo Mondo a fattori di produzione, a manodopera di sottocosto.
Ho pranzato da Severino. Viene dal sud portandosi dietro pregi e difetti
dei coloni italiani. Ha comprato un bel pezzo di terra ed ora è assediato dagli
scrupoli: « Perché un uomo deve possedere tanta terra? Per farne che cosa?
Durante il raccolto ho portato mia moglie a vedere i campi pieni di riso,
granoturco, zucche, manioca, di tutto. Guarda lì che abbondanza ed in città fanno
la fame. Qui c’è da sfamare un rione. Perché un uomo, da solo, deve essere
padrone di tanto cibo? Se la riforma agraria mi toglie un pezzo di terra per darla
ad un ricco, mi oppongo; per darla ad un poveraccio, vado ad aiutare a prendere le
misure. La terra è di Dio, non nostra. Non è giusto che un uomo disponga del cibo
che spetta agli altri ».
Per la prima volta ho incontrato un sudista in crisi. E pensare che la prima
cosa che mi ha mostrato appena entrato in casa è stato « il titolo di proprietà »
della terra: 450 ettari. Con orgoglio. Poi, pian piano, ha incominciato a scottargli
tra le mani. Lo sfogo di Severino è come quello di Zaccheo:
« Tutta questa terra, di cui gli uomini e le loro leggi mi riconoscono

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legittimo proprietario, non è mia. Non può appartenermi ». Mi è parsa una
confessione civile, il riconoscimento di un delitto contro l’umanità alla fame:
appropriazione indebita. Egli ha visto chiaramente che non solo il frutto della
terra, ma anche il mezzo che lo produce, spetta a chi non ne ha.
Ed invece... nel Maranhão è in atto una corsa alla distruzione della foresta
per piantare colonhão (erba alta due metri), perché il governo riconosce il diritto
di proprietà a chi pianta il 30% della terra a pascolo. Gli effetti di questa
devastazione saranno pagati cari dalle future generazioni. Per ora non ci resta che
registrare, ogni anno, il degrado, la desertificazione prodotta dalle piogge
equatoriali che lavano il terreno e portano a valle l’humus.
La nostra regione è infestata di buoi. Ma il popolo non riesce a comprare
la carne. Il contadino è contro i buoi. Quando la foresta sarà tutta trasformata in
pascolo, dove pianterà riso e fagioli? Gabriel diceva: « Se non si farà la riforma
agraria, noi siamo belle che fritti! Nel Para si va solo per morire di malaria ».
Ester: « Qui per ottenere un pezzetto di terra bisogna passare per la gola
della morte » (riferimento ai pistoleiros)
José: « Il pistoleiro è venuto in casa per uccidermi, ma Dio mi ha
liberato».
Juvenal: « È passato il tempo che ci trattavano da asini! La pecora non
può far amicizia col leone. Non si può ospitare in casa il lupo che ti sbrana i I figli.
Il ricco ci sbrana vivi ».

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I POPOLI DEL TERZO MONDO EVANGELIZZANO

Cantareira, 21.9.1985

Ho sospirato la luce più che la sentinella l’aurora. L’ho invocata con il


pigolio dei pulcini ed il canto del gallo. Sullo sfondo della foresta il coro del
capelão (un tipo di scimmia) e delle cicale. Ho accompagnato la crescente
intensità della luce che avanzava, inondando il giorno nascente. Bramare la luce,
il tepore della vita, i colori delle cose. Esperienze umane impercettibili.
Sono arrivato a pezzi. Per la prima volta ho avuto paura della foresta,
come di una forza oscura e sconosciuta. Chico mi aveva assicurato che ci voleva
mezz’ora per arrivare fin qui. Ne abbiamo impiegate due. Nel buio ha perso il
cammino. Di tanto in tanto mi volto indietro. Nella fantasia passano storie di
animali feroci e di serpenti. Ma eccomi qui in una casa. Senza porte e finestre.'
Come dovrebbe essere ogni cuore d’uomo. Dove la luce entra senza freno; la vita
non ha paura; la verità risplende.
Chi evangelizza il mondo, oggi, non sono i preti, ma i popoli del terzo
mondo. Loro sono i detentori dell’annuncio più essenziale della storia, quello che
ha il potere di farci esseri umani, non « lupi ». Gli oppressi non parlano di Cristo:
essi sono il Cristo. Questo « figlio dell’umanità » che si erge a difensore di ogni
carne. Il giudice vive nelle loro stigmate.
Potrà apparire contraddittorio, ma, potenzialmente, sono i più adatti per
costruire una nuova umanità. I popoli affluenti sono per lo status quo, i popoli
derubati sono i migliori candidati ad un modo nuovo di essere, senza vermi e
senza diarrea. Gli impoveriti (anche se non lo sanno) sollecitano un mondo
nuovo; sono la presenza, sulla terra, della speranza di una nuova civiltà. La sola
presenza degli oppressi è una condanna ed un « imperativo categorico » di

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cambiamento. Essi disturbano, inquietano, provocano. Anche senza volerlo.
Convocano tutti gli uomini di buona volontà attorno ad una bandiera: l’uomo.
La civiltà dell’uomo. L’uomo vogliamo vedere, non un sacco di vermi.

LEGITTIMA DIFESA

Corrego Novo, 8.10.1985

Prima o poi ci doveva scappare il morto. Tutti lo sapevano che il Bigode


(baffo) era nel mirino dei pistoleiros. Ma queste cose ci trovano sempre
impreparati. Il giorno di S. Francesco è arrivato un messaggero con la triste
notizia: « Ieri, alle nove del mattino, in un’imboscata, sono stati uccisi due
contadini con armi automatiche e silenziatore. La moglie di uno dei due è rimasta
ferita. Mandate subito una macchina per portarla all’ospedale. Firma: Bigode ».
A voce i dettagli. Antenor (uno dei due morti) assomiglia al Bigode; per
questo è stato fulminato con un colpo al petto. Ha fatto solo in tempo a dire alla
moglie: « Attenta... » ed una pallottola ha bruciato i capelli di lei. Si è finta morta.
Dopo 20 minuti è corsa a dare l’allarme.
Perché volevano uccidere il Bigode? Perché ha capeggiato l’occupazione
di un latifondo incolto: 46 mila ettari. La norma del grileiro è: « Uccidine uno, ne
fuggono mille! ». Alle costole del Bigode adesso dicono che ci siano 30
pistoleiros. I pistoleiros mi danno filo da torcere. Dove metterli nel vangelo?
Nella parabola del buon grano e della zizzania? In quella del pesce buono e di

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quello cattivo?
Quando i morti ti attraversano l’anima, ribaltano tutto. La vittima ha lo
stesso potere rivoluzionario del crocifisso.
Antenor e Francisco mi accompagnano dappertutto. Con loro parlo
nell’attesa dell’alba. Il loro sangue mi parla: « Noi siamo entrati nella foresta
spinti dalla forza della disperazione. La fame dei figli ci ha costretti ad occupare
un pezzetto di terra abitato solo dai serpenti. La legge della vita ci ha imposto di
prendere ciò che era abbandonato. Abbiamo rischiato tutto. Ci siamo cimentati
con le piante secolari, gli animali selvatici, le zanzare. Con la scure ed un pugno
di riso per vincere la foresta. L’unico modo di difenderci dagli attacchi della
fame: occupare un pezzo di terra. Chi muore di fame per legge di stato non è
forse tenuto per legge di natura a ribellarsi, ad opporsi con tutte le sue forze? Un
regime di sopravvivenza giustifica un regime di legittima difesa. I veri violenti ci
tolgono la vita con la miseria e con i pistoleiros. Noi eravamo tenuti a difendere il
diritto alla vita dei nostri figli. Siamo martiri della legge naturale. Ci hanno
ucciso, perché amavamo la vita; perché l’abbiamo difesa; perché abbiamo
obbedito ad una legge, che viene prima di ogni altra legge: “primum vivere...”. Ci
siamo difesi dalle leggi inique che istituzionalizzano la morte dei deboli. Non
abbiamo il diritto anche noi di dire con Pietro: « Meglio obbedire a Dio che agli
uomini? ».
Certa teologia ha confuso le carte in tavola. Con la scusa dell’amore al
nemico ha infiacchito i poveri; li ha convinti a rinunciare ai loro diritti
inalienabili-, ha spento la sete di giustizia degli oppressi: la religione è stata usata
come un analgesico per acquietare i bollenti spiriti dei ribelli; per indurre alla
rassegnazione davanti a qualunque ingiustizia; per fa- 1 re dei rinunciatari e degli
imbelli.
Oliveira, un animatore, si sfogava così: « L’unico modo di sopravvivere
per noi poveri è di mettersi all’ombra dei grandi ». Vive nella terra di un
fazendeiro. Non ha nulla, neppure una sedia. I due porci che alleva sono a mezzo

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con il padrone.
Che religione è la nostra, se non ci insegna neppure a vivere da uomini?
Per obbedire alla legge di Dio bisogna essere dei vigliacchi?
Il Dio che i popoli del Terzo Mondo hanno bisogno di conoscere, è quello
che sa « ascoltare il clamore degli oppressi »; quello che scende in campo a
difendere la vedova, l’orfano, lo straniero, il popolo calpestato. Con la pretesa di
rivelarci Dio, ci avete nascosto l’uomo. Ci avete nascosto la chiave della giustizia
per insegnarci a fare l’assistenzialismo.
Avevamo bisogno di difenderci dai lupi e ci avete imposto di lasciarci
sbranare. Abbiamo tempestato di telefonate tutte le stazioni di polizia della
regione, ma i corpi delle due vittime sono ancora là. Nessuno ha il coraggio di
andare a ritirarli, perché i pistoleiros possono essere in agguato come urubù sulle
carogne. Nazaré, la vedova di Antenor, quella che ha ricevuto la pallottola di
striscio, sembra assente. Parla solo di « corpi insepolti ».

VIOLENZA ISTITUZIONALIZZATA

Casa parrocchiale, 17.10.1985

Faccio fatica a dormire. Difficile dormire sul cuscino dei martiri, con le
vedove che ti vengono in casa ad aprire il loro cuore e non riescono a piangere.
Perché? Perché sono nate e cresciute nel pianto. Mi muovo in un mondo, nel

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quale non mi riconosco più. Qualche anno fa avevo orrore di certe cose e
predicavo la nonviolenza ad oltranza. Oggi sono costretto a sostenere il dovere
civile della legittima difesa dalla violenza organizzata dei sistemi.
Nel villaggio vicino i contadini hanno occupato 4 latifondi improduttivi.
I pistoleiros seminano il terrore. I padri non possono più uscire di casa. Corre
voce che oltre a Francisco e Antenor ci siano una ventina di vittime, che stanno
marcendo nella foresta. Visto che le autorità costituite non proteggono la vita dei
cittadini, i poveri si sono organizzati e si sono trincerati su un cucuzzolo, dal
quale si domina ogni movimento del villaggio. Un modo per richiamare
l’opinione pubblica sulle inadempienze della società civile. Infatti la polizia è
arrivata entro 24 ore, mitra in pugno, per disarmare i contadini... Vi aspettavate
che disarmasse i pistoleiros, che godono della protezione dei potenti? Il
pistoleiros che ha ucciso i nostri amici fa lo spavaldo nei bar del villaggio; mezzo
brillo dichiara di averne fatti fuori due dozzine. Il giorno seguente, all’alba, un
gruppo di uomini circonda la sua casa; lo invita fuori a scambiare due
chiacchiere; esce in mutande; quando si rende conto di quello che sta per
succedere, mette mano al revolver, ma cade crivellato di colpi. Non bisogna forse
dire che i contadini hanno dovuto fare quello che la polizia ha omesso di fare? Poi
è arrivata la polizia a prendere atto dell’accaduto. Adesso il villaggio non ha
ospedale pubblico, non ha acqua né luce, ma ha la sua bella polizia, che disarma i
poveri ed assicura l’ordine per i grandi. Tutti i giornali hanno dato notizia della
morte di Ireneo, « il mattatore del Pindaré ». Sono stati pubblicati i nomi dei
mandanti del delitto, i quali se la sono data a gambe sotto il naso della polizia.
Giungono notizie di altre storie di repressione organizzata, di barbarie
istituzionalizzata.
A Vitorino Freire la polizia ha sepolto due contadini fino al collo, perché
dicessero chi li ha istigati ad invadere la terra. A Pau Santo la polizia ha fatto
irruzione in cerca di guerriglieri: raffiche di mitra contro casine di paglia e galline
in fuga. Un vecchio di 78 anni, Manoel, è stato trafitto da diverse pallottole. Il

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governatore è convinto che sia in atto la guerriglia appoggiata da alcuni padri
estremisti. Ma può essere anche la sua copertura per giustificare la repressione.
Notoriamente egli è il patrono dei fazendeiros; costoro non hanno neppure il
pudore di camuffare i loro piani. Ostentatamente fanno delle aste in piazza per
raccogliere fondi per comprare armi ed allenare i pistoleiros. Non so più dove
hanno messo all’asta mille buoi! E così nascono, qua e là, piccoli eserciti di
mercenari, inquadrati nelle loro organizzazioni private. Ogni regione ha la sua «
Unione Democratica Ruralista » (UDR): una società civile legalmente
riconosciuta che difende « gli interessi dei soci (55 mila) ». Da altre parti sarebbe
messa al bando come « associazione a delinquere », organizzazione di « banda
armata ». Neppure gli organi federali possono fare niente, perché hanno
competenza per intervenire nei rispettivi stati solo su invito del governatore; così
prescrive la Costituzione.
Non è evidente che un regime di ingiustizia istituzionalizzata presuppone
un regime di violenza organizzata contro il popolo? Forse bisogna dire che lo
Stato è violento per sua natura. Come difendersi da uno Stato che impone la
disoccupazione, la denutrizione, le leggi che favoriscono i fazendeiros, la
corruzione degli organi pubblici?
E quando scatena i suoi soldati contro i deboli, i poveri, gli indifesi? Chi
gli dà il diritto di attaccare violentemente i suoi liberi cittadini? È più di Dio
questo Stato che ha diritto di vita e di morte sui cittadini? O noi ne abbiamo fatto
un mostro, un Moloch, il « leviatano »? La politica va di male in peggio. Parola
d’ordine: negoziare, venire a patti, cooptare tutti quanti (anche la Chiesa). La
Nuova Repubblica - si dice - è un sogno inventato per i poveracci ed i creduloni.
Forse è una anestesia collettiva. C’è solo da scegliere tra la vigliaccheria del
silenzio e il tentativo di ridurre il numero delle vittime.

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SOVVERSIONE È TACERE...

Açailàndia, 31.11.1985

Anche noi abbiamo preso atto dell’ultima dichiarazione del Papa: l’uomo
ha diritto di morire con dignità. Ed è giusto.
Come è diverso il mondo! In occidente ci si preoccupa di crepare
degnamente; nel sub-mondo ci si preoccupa di vivere con un minimo di dignità.
Non si pensa neppure a morire con dignità dove si muore di vermi e diarrea. La
nostra morte? È come quella di Francisco e Antenor: loro trafitti dalla pallottola
del fazendeiro e dagli urubù, noi trafitti dalla fame.
Sono andato sul luogo del loro martirio. Sepolti dopo che, per otto giorni,
gli animali ne avevano fatto scempio. Gli hanno buttato sopra una spanna di terra.
Ho chiesto ad un contadino di scavare: è venuto alla luce un pezzo di camicia, le
ciabatte ed un grande fetore. Ecco l’unica cosa che ho conosciuto di loro: l’odore
della putrefazione. Questo il ricordo che di loro conserverò. È vita degna
dell’uomo, questa?
Francisco e Antenor sono entrati nella mia vita in punta di piedi. Per me è
peggio di un uragano. Hanno abbattuto tante cose: preconcetti, paure, dubbi,
titubanze, incertezze. Mi hanno convinto che la vera sovversione è tacere davanti
al male, davanti alla morte istituzionalizzata dei poveri, davanti all’ingiustizia;
che è necessario predicare la mobilitazione per la difesa della vita. Anche a costo
della propria vita. I miei martiri hanno innescato dentro un processo nuovo, un
modo nuovo di vedere le cose. Scoprire che la vita viene prima di tutto. È la prima
ed assoluta « religione » di Dio e di ogni « figlio dell’uomo ». I poveri devono
organizzarsi per difendere la vita. I martiri dei diritti umani mi hanno fatto vedere

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che un sistema fondato sull’ingiustizia non può che generare situazioni di
violenza organizzata.
Fino ad ora l’unica arma di difesa dei « derubati della terra » è stata
l’apatia, il lasciarsi andare, il lasciarsi vivere. Come potrebbe essere
diversamente? Perché prendersela tanto per una vita da cani come la nostra?
Meglio che vada come l’inferno vuole...
Etica, morale, diritti umani? Cose di lusso per noi che conosciamo solo il
paesaggio del riso e fagioli. La nostra etica è una sola: tentare di non crepare;
difenderci dalla denutrizione e da chi ce la impone. Quando si deve fare di tutto
per riempire la pancia; quando bisogna vendersi a qualsiasi prezzo; quando si è
costretti a vivere in condizioni subumane, forse che non ci è lecito allearci con
chiunque per alleviare la nostra croce? L’unica legge che ci permette di
sopravvivere è « il fine giustifica i mezzi ». Cosa valgono tutti i principi etici se
non sanno darci da mangiare? In un villaggio ho visto dei bambini che
scuoiavano un jacaré (piccolo coccodrillo): qui si mangia di tutto pur di non
essere ingoiati dalla morte.
La macchina dello stato, invece di contenere, rintuzzare gli istinti
egoistici dell’uomo, ne favorisce la sete di lucro e di potere con le leggi sui
finanziamenti, gli incentivi, gli sgravi fiscali, i privilegi. Lo stato, così come è
concepito, è contro l’uomo debole, sprovveduto, incapace di sfruttare gli altri.
Favorisce chi non ha bisogno di essere favorito, perché sa « arrangiarsi ».
Un contadino (uno dei cinquemila senza terra della nostra regione) così si
descriveva: « Il contadino senza terra è come un pesce fuori dall’acqua ».
Il sangue dei nostri martiri sembra aver dato nuova speranza al popolo:
una sessantina di famiglie, non sapendo più come fare per tirare avanti, si sono
accampate in quella parte della fazenda, che non era ancora stata occupata,
proprio a un tiro di schioppo dalla fossa di Francisco e Antenor. Due croci
ricordano ai passanti che l’unico modo per ottenere qualche cosa è ancora quello:
« è necessario che qualcuno muoia per tutti».

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L’accampamento: immagina un capannone il cui tetto sia un telo .di
plastica; sotto, una moltitudine di amache appese. Tutti insieme, uomini, donne,
bambini: chi con la tosse, chi con la polmonite, tutti con i vermi, l’anemia e la
denutrizione. Malattie tipiche della fame. Un assembramento di esseri, che
sembrano usciti dalle viscere della miseria. Sono venuti qui, perché non avevano
più nessun altro luogo dove sbattere la testa. Tutta gente mobile, che vive di
espedienti, un pò qui un pò là. Gli rimane ancora un luogo dove tentare la sorte:
l’inferno...
Ho dormito nel capannone degli ospiti, coperto di paglia di bacaba,
scongiurando il cielo che non piovesse. Ed è piovuto. La suora non ha chiuso
occhio. Ogni momento spostava la sua amaca per non bagnarsi. Io ho dormito tra
i medicinali. Ero così stanco, che ho sentito la pioggia di lontano. Il giorno
seguente ho aiutato « gli stracci umani » ad organizzarsi: la squadra della caccia,
quella che va a piantare, quella che prepara il carbone, quella che sistema il
campo. La cosa più orribile è stata il pranzo: un catino dal quale ognuno si serviva
con le mani. Il riso era acido, perché si era bagnato nel trasporto.
Non voglio compassione. Questo è un mondo assurdo, illegale, perché la
miseria è contro la legge della vita.

UNA REALTÀ IMPAZZITA

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Casa parrocchiale, 1.12.1985

L’interno del paese è tutto sbrecciato, le strade impraticabili. Come se


fosse passato, di notte, un cataclisma. Le piogge amazzoniche fanno disastri.
Invece che alle sette sono venuti a prenderci alle undici. All’altezza della Retta
c’è un camion nel burrone. Poi incomincia la danza sulla strada di terra battuta.
Piove. Tratti di strada completamente sommersi; più di mezzo metro senza
contare i buchi, che nascondono le loro sorprese. La Chevrolet non ce la fa più.
Né avanti né indietro. Il fango entra nella cabina. Sopraggiunge un altro camion e
si impianta di fianco a noi. Non ci rimane che proseguire con un camion rimasto
al di là della pozza d’acqua. La velocità del nuovo guidatore mi fa venire i crampi
allo stomaco.
Sul posto la gente aspetta dalle sette del mattino. È l’una e non hanno
ancora pranzato (di solito si pranza alle undici). All’una e mezza si riesce a
mettersi a tavola. La solita reazione: questa non è vita degna dell’uomo! Bambini
seminudi vanno e vengono sotto la pioggia. Fango dappertutto. Non si mangia, si
divora. Tutti dentro casa. I bambini da battezzare non fanno che piangere. Hanno
ragione: è dalle sette che aspettano!
Converso a lungo con un vecchietto che ha tanta voglia di chiacchierare,
di stare con qualcuno che abbia tempo di ascoltarlo. Nesinho ha un pezzetto di
terra in trecho seco, 8 alqueires. « Ma - dichiara - io ho un pezzo di Paradiso qui
sulla terra! ». Dopo la Messa sono andato a vederlo. Era fuori di sé per la gioia: «
In tutta la mia vita non ho mai visto un sacerdote varcare la soglia della mia
catapecchia! ».
Prima di tutto mi ha portato dietro casa a vedere il suo tesoro: una
cisterna per l’acqua. « Contiene 60 mila litri », diceva con aria di trionfo.
Riconosceva di essere mezzo brillo: « Che vuoi, padre, la carne è debole. Ma io
non ho mai fatto del male. Qualche volta bevo, perché la lingua si scioglie ed è
più facile farsi degli amici. Dopo l’acqua, l’amicizia è il più grande tesoro del

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mondo ». Ha promesso di portare in parrocchia una gallina. Un vecchietto sereno,
semplice, amico della terra. Mi ha fatto conoscere i suoi alberi da frutta: aranci,
banane, cajù, mangueiras e me li ha presentati come se fossero i suoi amici più
cari. Un pezzo di umanità sempre più raro.
Mi ha mostrato una cicatrice alla gamba e mi ha chiesto se il dolore
cancella i peccati. Gli ho risposto che mi pare di sì, perché anche Gesù ha sofferto
ed ha espiato ecc. ecc.
Viaggio di ritorno: il camion non parte. Tutti a terra, cioè nel fango
(tranne il padre, per volontà popolare), sotto la pioggia, a spingere. Quaranta
minuti per fare otto chilometri. Arrivati alla strada asfaltata non passa una sola
corriera. Le imprese hanno ritirato i loro automezzi per paura di disastri. Le strade
sono troppo malconce. All’altezza del Pequià il torrente ha portato via trenta
metri di strada e ci sono già state diverse vittime, perché non sono stati messi i
segnali di pericolo. E, per di più, il baratro è in fondo ad una discesa.
Adesso hanno fatto una deviazione. E qui ci aspetta una colonna di
automezzi fermi: un camion stracarico è rimasto di traverso sulla strada. Siamo
bloccati qui senza nulla, né acqua, né altro. Come andrà a finire? La folla si
ingrossa attorno al camion. Tutti guardano, tutti ammettono che ci vuole una gru,
un trattore grosso, ma il camion rimane lì. Nella fila di attesa c’è perfino il
Vice-prefetto. Anche lui ammette che ci vorrebbe... bisognerebbe... non è giusto
che i camionisti passino la notte all’adiaccio... Ma il camion non si sposta di un
millimetro.
Un autista spericolato tenta di aprirsi un varco nei campi e ce la fa. Anche
la nostra macchina (avevo fatto l’autostop) ce la fa: « Graças a Deus! ». Prima di
noi è passato il Vice-prefetto. Che voglia di sbarrargli il passo e dirgli: « No, lei
non passa! Lei rimane qui con tutti i camionisti che passeranno la notte al freddo
e con la fame. Anche lei deve sperimentare cosa vuol dire avere dei governanti
che non risolvono niente... ». Ma, da solo, uno che cosa può fare? Può risolvere
un caso isolato, può sostituirsi al popolo, ma il sistema continua come prima.

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Il popolo sa che per « risolvere » bisogna unirsi, fare forza insieme, tirare
tutti nella stessa direzione.
Perché l’uomo non riesce ad avere fiducia nel suo compagno di sventura?
Non viaggiamo sullo stesso i convoglio, nelle stesse condizioni disperate?
Non sono riuscito a darmi risposta. Solo la storia saprà rispondere. Forse
ci vorranno ancora secoli di chiodi e spine. Ma se il popolo non guadagnerà a sue
spese le sue conquiste, non servirà a nulla. Per chi sta qui per dare la vita è una
pena di Tantalo, una cosa crudele.
È duro dover ammettere che la situazione è abnorme; fuori di qualsiasi
legalità; una realtà impazzita. E i nostri metri di misura non valgono niente.
L’unica immagine che traduce il nostro mondo è quella della zattera alla deriva:
ogni naufrago si preoccupa di salvare la sua pelle. E come puoi contestarglielo?
Per legge naturale ognuno non ha forse il diritto-dovere di fare tutto quello che
può per sopravvivere?
E se questo volesse dire buttare a mare un compagno di sventura, perché
il suo peso farebbe affondare tutti quanti? Sanno darci una soluzione i luminari di
tutte le scienze occidentali? Noi ci troviamo in questa situazione moltiplicata per
mille, i per diecimila, per milioni... Noi siamo sobreviventes (sopravvissuti). Sto
arrivando ad una conclusione: o assumere la psicologia, la natura del
sobrevivente, o affondare in una specie di apatia psichica.
Lo voglio credere: i poveri sono padroni del futuro. Grande la loro
vocazione storica: « deporre i potenti dai troni » (Le. 1, 52). Tutto è così difficile,
così fuori dai nostri schemi! Un esempio: Cristina ha dieci anni. Un giorno le ho
offerto un cocco. Adesso tutti i giorni è qui in attesa di un altro cocco, il « suo »
cocco. Ne ho fatto una « dipendente ». Di Cristine il nostro Maranhão è strapieno.

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QUANDO IL VILLAGGIO ERA VILLAGGIO

Açailàndia, 5.12.1985

Di ritorno dalla capitale, mentre l’omnibus sfrecciava davanti ai villaggi


di capanne sgranati sulla BR 222, rifacevo la loro storia. Quando il villaggio era
villaggio, non esisteva neppure l’odore dello sfruttamento. Le terre erano di tutti.
Ognuno coltivava dove voleva. Neanche l’ombra del filo spinato o del titolo di
proprietà. Il titolo - si diceva - erano i calli, i campi coltivati, le piante. Chi
tornava con la selvaggina, la condivideva con i vicini: era una festa per tutti. La
frutta ed il latte non erano venduti, ma « dati ».
Poi è arrivata la gente del sud. Appare il primo « Hotel del popolo», il
compratore di riso, il commerciante, il macellaio ed il lattaio. La città non era
ancora arrivata - si era in pochi -, ma il suo spirito aveva già preso d’assalto il
villaggio. Il villaggio, pian piano, cessava di essere una famiglia di famiglie.
Se vuoi assistere al processo di impianto dello spirito borghese,
analizzare le sue fasi, i suoi passaggi, vieni qui e lo vedrai. Lo spirito urbano, dà
alle cose un valore che in se stesse non hanno: il valore di scambio. Ed i contadini
ci si trovano dentro come in una camicia di forza. Ogni giorno assistiamo alla
consumazione di questo fenomeno: i costumi del villaggio muoiono; arriva la
televisione; non si perdono più lunghe ore a chiacchierare con il vicino; si
incomincia a misurare il tempo con l’orologio, le sagre popolari sono un ricordo
lontano.
Sarebbe interessante riuscire a fotografare il momento esatto in cui viene
alla luce lo « spirito della città »: il lucro, il guadagno, l’arrivismo, lo
sfruttamento dell’uomo sull’uomo, l’individualismo, lo spirito di accumulo ecc.
Ed oggi non è solo l’urbanesimo che devasta le popolazioni semplici e
contadine. Lo spirito della civiltà occidentale condiziona tutto e tutti: nel tempo
stesso in cui la vecchia Europa perdeva l’ egemonia sul mondo, diventava l’unico

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modello universale, dal vestire al divertirsi e, soprattutto, modello di produrre.
Siamo giunti al punto che il modo di vivere occidentale non può considerarsi
come uno tra tanti possibili, bensì il modo di vivere dell’umanità. Se non di fatto,
almeno nelle aspirazioni.
Questa è la nostra tragedia: lo spirito occidentale: conquistatore,
speculatore, colonizzatore, sfruttatore, esportatore di mali costumi, di guerre
mondiali, di campi di concentramento e di terrori nucleari ed ecologici. Siamo
riusciti ad iniettarlo anche nei popoli innocenti del Terzo Mondo. Gli abbiamo
trasmesso la nostra cultura, quella che riduce l’uomo ad uno strumento, un fattore
di produzione. Posso usarlo come uso un cacciavite, una macchina, un computer.
Si usa l’uomo per arricchire, per attingere il potere politico, per qualsiasi cosa.

ECCO PERCHÉ VOLEVO UBRIACARMI

Casa parrocchiale, 27.12.1985

La Notte di Natale ero ospite della Rua Nova o « Rua da palha » (perché
le capanne sono di paglia di babaçù) nel villaggio Novo Bacabal. Una
cinquantina di capanne di Betlemme, allineate lungo la statale. Mi sono rifugiato
da loro, perché tra loro - poveri ed emarginati - mi sentivo come tra l’asino ed il
bue. Dopo la Messa di mezzanotte il grande invito a cena: il solito riso pilato nel
pilão (a mano, per cui, immancabilmente, ti trovi i sassolini tra i denti) ed un
pezzetto di gallina. A consolazione degli schiavi c’era del vermouth. Secondo la
tradizione quando si diventa « compadre » (padrino di battesimo) si offre o mìgio
da criança (letteralmente: « la pipì del bambino », che significa « offrire da bere
»). Mai come quella notte, mentre ingoiavo a forza le cucchiaiate di riso, ho

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desiderato ubriacarmi con migio da criança.
Durante la Messa Gesù Bambino ci aveva fatto il più bel regalo: la prima
pioggia dell’inverno, da tutti agognata come un miracolo. Avevo visto tanta gente
triste e preoccupata: le piantine di riso stavano morendo per la siccità. Con il
temporale, il freddo. Ed anch’io mi sono messo a bere insieme a Sr. Manoel, al
Nego, a dona Ana ed a tutte le ombre della casa, che si muovevano attorno alla
pentola del riso. La refezione qui non ha nulla a che vedere con le liturgie delle
mense italiane. Si mangia in fretta, in piedi, senza cerimonie, aspettando il
proprio turno, perché non ci sono piatti e cucchiai per tutti. Tutto è ridotto
all’essenziale.
Il freddo aumentava. E la voglia di dimenticare di essere nella capanna di
paglia, in un mondo così sudicio, in mezzo a naufraghi, cresceva sempre più. Ho
mescolato caffè e vermouth. La bottiglia di casciaça passava di bocca in bocca.
Ed io mi struggevo dalla voglia di passare ad altri i miei pensieri.
Non ho ancora detto da dove vengono le famiglie della « Rua da palha ».
Il resto del villaggio li taccia di ubriaconi e di violenti. Una vecchietta mi aveva
detto in un orecchio, inorridita, che aveva sentito dire che là, di notte, si maneggia
il coltello ed il revolver. Sono stati sfrattati dalla fazenda di Adão. Questi gli
aveva assicurato che potevano stare nella sua terra fin che volevano; una sola
condizione: disboscare, piantare il riso in dicembre ed il capìm (erba per i buoi) in
marzo. Poi, per paura della riforma agraria, li ha buttati fuori a calci nel sedere.
Non una, due, ma ben cinquanta famiglie. All’improvviso. Oggi vivono come
bestie, imprigionati tra la strada asfaltata ed il filo spinato dei buoi, che passa a
tredici metri dietro casa. Neppure lo spazio per defecare.
Ecco perché volevo ubriacarmi. Per dimenticare il filo spinato, tutti gli
Adão senza cuore, i buoi dell’ Apocalisse, la schiavitù. Ivan me l’ha spiegata
così: « Avevo del riso da vendere. Il commerciante mi aveva promesso un prezzo
e poi me ne ha dato ( un altro. Io lavoro per lui. È lui che mi ha prestato i soldi per
pagare il parto della moglie. Che Ì faccio, vado a bisticciare con lui? È chiaro che

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tocca a lui fare il prezzo... ». Scrutavo Ivan: pelle scurissima, quasi lucida; viene
da Codó, dove esisteva una grande colonia di schiavi trasportati dall’ Africa
all’epoca della coltivazione del cotone. L’ho fissato a lungo: le fattezze di uno
schiavo; la mentalità dello schiavo; la logica dello schiavo.
Quando la terra in cui vivi è del padrone; l’aria che respiri, l’acqua che
bevi, il cibo che mangi, tutto è del padrone; quando vivi per bontà sua; quando ti
senti un eterno « dipendente »; quando ti vedi sempre attaccato, con il cordone
ombelicale, alla volontà del padrone, che cosa ti resta? Che cosa ti appartiene?
Che cosa ti può far sentire « persona »? Autonomia, diritto, libertà verità: sogni
proibiti per gli schiavi.
Macédo - schiavo di lunga data - definiva così la verità: « Sai dove sta la
verità? A mezza strada tra la verità e la bugia ». Se lo schiavo dicesse quello che
pensa, sarebbe la sua fine; se esigesse i suoi diritti, non sopravviverebbe. Deve
sempre e solo dire quello che il padrone ha il piacere di sentirsi dire. Sempre
ossequiente, sorridente, « sissignore! nossignore! », per essere uno schiavo
buono.
Quella notte ho steso la mia amaca nella baracca di Ivan. Alle due ho
dovuto alzarmi, perché mi pioveva sulla testa. Ho cambiato posizione tre volte.
Quando mi sono alzato, bagnato ed avvelenato, ho fissato sulla carta
quello che, all’alba, mi era passato dentro: Natale, nel Nordest, non è mai
arrivato.
I bambini-Gesù sostano brevi istanti nel corridoio della vita. Passano in
fretta per il torchio, come la canna da zucchero, triturati dai vermi e dalla diarrea.
Gli occidentali invocano chi li salvi dalla morte ecologica e nucleare, dalla gotta e
dall’infarto (per abuso di cibo); noi, dannati della terra, invochiamo chi ci liberi
dal vostro « dio », dai vostri idoli, che vi permettono di fare di noi cavie e
strumenti del progresso e del consumismo.
Non ci sarà mai Natale finché un solo « figlio del ‘ popolo » non potrà

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esercitare la sua umanità. Fin che denutrizione e malattia ci terranno schiavi,
neppure uomini potremo essere. Avete preteso essere i custodi ed i messaggeri
della buona novella. A che servirà un messaggio senza destinatario?
Avete elaborato la teologia dell’acquiescenza; la teologia dell’ordine
costituito. Avete consacrato la libera concorrenza, il « più produci, più guadagni
». Avete esaltato l’elemosina, l’assistenzialismo ed il paternalismo, offuscando il
senso della giustizia. Avete innalzato castelli interiori a difesa dello spirito. Noi,
che tutti i giorni tocchiamo con mano i corpi che affondano nella miseria,
abbiamo bisogno di antropologie della riscossa, teologie della risurrezione dal
bisogno, filosofie della legittima difesa.
Ho reincontrato il Baianino. Due mesi fa gli ho battezzato l’ultimogenito.
Era stata una bella festa (con riso e fagioli, chiaro). Un bimbo vispo sano,
sorridente. Il morbillo se l’è mangiato in due setti- i mane. Me lo raccontava
senza toni di rivolta. E come avrebbe potuto davanti al padre, che gli
rappresentava quel « dio », che gli è stato trasmesso come la rassegnazione per
essenza?
Donna Otilia ha avuto nove figli. Vivi ne sono rimasti tre. Senza un filo
di rabbia.
Juracì: « Noi viviamo a rimorchio. Oggi sì, domani no... La nostra è una
vita senza speranza. Pianti aranci, manioca, jaca, maracujà, ecc. e non sai se
coglierai... ».
Durval: « Questa vita è un rischio. Stiamo cercando di vedere se
riusciamo a passare dall’altra parte... ».
Doracì: « L’unione tra noi vale più di diecimila salari...».
Domingos: « Il solo pensare di diventare ricco è già un peccato. Quando
Gesù verrà a prendermi non porterò nulla con me: né il bestiame, né i soldi, né
niente. Solo il cuore pulito ».
Cicero: « Il Natale è una pianta che, ogni giorno, rinasce. Il Cristo si

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sforza, fa di tutto per vedere se questo popolo nasce per il Signore, se no succede
quello che è successo ai tempi di Noè. L’arca di Gesù è la Bibbia. La mia
comunità è rinata attraverso la Bibbia ».
Maria (una vedova che ha incominciato a lavorare con il nostro gruppo di
volontari di pastorale): « Io sono rinata. Sento la sofferenza degli altri. Prima mi
faceva orrore, perché pensavo solo a me stessa. Adesso mi accorgo di essere
rinata. Ero come un germoglio secco. Gesù è morto ed è rinato attraverso la croce
per darci la forza di risorgere ».

GIUSTIZIA E PERDONO

Rio Azul, 28.3.1986

Oggi, Venerdì Santo, ho scandalizzato il popolo, perché nessuno va a


cavallo in questo giorno; e, chi ci è costretto per portare un malato (per esempio),
non può usare né frusta né speroni. Ed io per 35 chilometri non ho fatto che
frustare il mio cavallo.
Un viaggio massacrante. A più riprese pioggia e sole. E fango, fango a

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non finire. In un punto era tanto, che il cavallo non ne voleva più sapere di
proseguire. Ho dovuto tirarlo per la cavezza. Fino a mezza gamba. Il peso del
fango ha rotto un « chinelo » (ciabatte usate dai contadini). Ho proseguito a piedi
scalzi, le piogge hanno portato via tutto, anche i ponti.
Ho aspettato il pulman due ore. Ma oggi, secondo la tradizione, i trasporti
pubblici non si fermano. I negozi chiusi. Perfino dove si vende la bevanda
tradizionale: la «casciaça » (distillato alcoolico di canna da zucchero). Non posso
comprarmi un altro paio di ciabatte. Gerardo mi impresta le sue, due misure più
grandi.
Un camion mi dà un passaggio fino a Novo Bacabal. Proseguo a piedi per
altri 6 chilometri. In casa di Rosalino oggi si digiuna, si recita l’ufficio della
Madonna e si cantano inni sacri fino a notte fonda.
Durante questi viaggi disumani non si riesce ad essere buoni. Al vedere
tanta terra, tanto pascolo per ingrassare i buoi e lasciar crepare « i figli dell’uomo
», come si fa a sentirsi buoni? Come non sentire la tentazione di odiare l’uomo?
Ed io dovrei convincere il popolo che « Dio è Padre di tutti ». Non si rischia di
ingannare il popolo, di occultargli il volto del male, di perpetuare la sua
schiavitù?
Durante il viaggio mi ha accompagnato la storia di un collega, quando mi
raccontava le sue impressioni sul funerale del vecchio Manoel: « Non ho mai
vissuto tanto intensamente le parole di Gesù: “Tutto quello che farete al più
piccolo, l’avrete fatto a me”. Mi risuonavano dentro queste parole durante la
messa di “corpo presente” del vecchio contadino. Il suo (corpo crivellato era lì,
davanti a me, come un crocifisso. La polizia era entrata nel villaggio mitragliando
anche le galline, per intimidire... Ma poi ho invitato il popolo a perdonare... ». Sia
chiaro: di perdono si parla in chiesa. In piazza si parla solo di giustizia. Una
società pluralista non si regge senza la forza coercitiva. Gesù non ha condonato il
debito di Zaccheo perché si tratta di una cosa « pubblica ». Questi si impegna a
restituire, perché senza riparazione dei danni non può esistere perdono. Nel

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campo civile ciò che vale è la giustizia. E chi la infrange è tenuto a rimediare,
perché l’ingiustizia lede i diritti inalienabili dell’uomo. Una civiltà che si
considera umana non può lasciare la mano libera ai vari Baby-Doc, ai Marcos, ai
Pinochet che uccidono con la copertura del sistema e del diritto.
Sarebbe favoreggiare ed incrementare il « libero delitto in libero stato ».
Forse che il Vangelo ci insegna ad andare a braccetto con i delinquenti, siano essi
pistoleiros o capi di stato? Può forse imporci di non essere cittadini, permettendo
che i sistemi ci massacrino i figli di fame? Perché i popoli del Terzo Mondo non
dovrebbero ricorrere al diritto della legittima difesa contro i popoli del Primo
Mondo?
Chi può uscire sulla piazza della storia e gridare: « Cari dittatori: cari
Somoza, cari Pinochet, noi cristiani abbiamo un abbraccio di pace anche per voi;
noi siamo per la non-violenza; noi perdoniamo tutto... ».
Cristo al Giudizio universale non perdona nessuno. Non condona niente.
Anzi, proprio Lui, « mite ed umile di cuore», arriva a maledire chi non avrà
onorato la fame e la sete di ogni popolo.
« Vinci il male con il bene »: dovremo forse vincere gli imperatori ed i
faraoni di oggi applaudendoli, inneggiando alle loro prepotenze, ai loro attentati
nucleari ed ecologici, alle loro guerre stellari? Vedi, carissimo Pinochet, puoi
continuare a far « scomparire » chi si ribella alla tua barbarie: puoi ammazzarci,
torturarci i figli, i mariti, le mogli... e noi ti perdoneremo; vinceremo il tuo male
con il bene... Se ci ammazzi un figlio, ti offriremo anche l’altro...!
Certa religione si è lasciata usare come strumento di ordine civile; si è
fatta garante dell’ordine pubblico, anche quando era nelle mani dei dittatori e dei
sanguinari. Di santa alleanza in santa alleanza; di piccolo in grande concordato si
è fatta legittimare dal sistema fino ad assurgere al ruolo di religione ufficiale,
religione di stato. La più grande offesa a tutte le vittime degli stati. Chi legittima e
garantisce il sistema ne condivide i disordini: disoccupazione, miseria, malattia,
sfruttamento.

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Come ha potuto la « chiesa dei martiri » divenire la chiesa dei Nunzi
Apostolici, dei cappellani militari, la chiesa dei popoli ricchi e sfruttatori del
terzo mondo?
Quando mi attaccano queste riflessioni mi sento perduto, solo nel ventre
della storia. Dove, a chi aggrapparsi?
Di questi tempi faccio più fatica ad andare in mezzo ai poveri. Me Io
faceva notare anche Raimundinha, una ragazza del popolo, che lavora nella
nostra équipe pastorale. Devo ammetterlo: forse mi sto difendendo dal povero,
perché non riesco ad essere come lui, dei « suoi ».

DUE QUALITÀ UMANE

Novo Corrego, 28.3.1986

Da una settimana sono in viaggio per visitare le comunità dell’interior.


Le solite cavalcate per incontrare questa gente che, nella maggior parte dei casi,
vive e lavora per smorzare i morsi della fame. Una visita all’anno.
Tornare nell’interior dopo l’inverno (sei mesi) è un’esperienza che
dischiude nuovi orizzonti, nuove pieghe della vita del popolo, nuove prospettive.
Lunedì 24. Novo Bacabal. Quattro matrimoni, 21 battesimi. La
celebrazione è stata di notte. Una moltitudine, compresi gli ubriachi. Ho dovuto
mettermi in piedi su una sedia per attirare l’attenzione e farmi sentire.
Martedì 25. comunità San Sebastião. Strada orribile. E mi avevano
assicurato che era ottima! Bisogna cercare di stare calmi, mentre il Toyota cigola
tutto, fuori da un buco dentro in un altro. Dopo una giornata di viaggio così è
difficile non perdere la pazienza. Non ce la faccio a proseguire; si è fatto buio.

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L’indomani proseguo a cavallo.
Mercoledì 26: San Miguel. Arrivo all’imbrunire. Un boccone di riso
freddo e mi butto nell’amaca. A mezzanotte un bambino piange - senza esagerare
- per venti minuti. Disperatamente. E nessuno si dà pensiero. Esco all’aperto con
l’intenzione di andare a dormire in un’altra casa. Ma dove, a quell’ora? E poi i
padroni di casa si risentirebbero. Guardo le stelle a lungo. La croce del sud
risplende forte. Tutto è calmo nella foresta. Rientro e chiamo la mamma del
bambino, che non ha ancora smesso di piangere.
Non ho più ripreso il sonno. Ho pensato parecchio alle due qualità
umane: la mia e la loro; quella del primo e del terzo mondo. Cosa pretendere da
queste comunità isolate dove non c’è scuola, non esistono i concetti minimi di
igiene, salute preventiva, acqua potabile, educazione? E poi hai a che fare con le
superstizioni, le credenze popolari, le rezadeiras (donne che recitano formule
strane sui malati con gesti tramandati da generazioni), la macumba, lo spiritismo.
Venerdì 28. Novo Corrego. Qui il popolo dice che vuole sentire parlare di
Gesù, non delle « cose della terra », perché di questo ne parlano tutti i giorni
(l’ultima volta è venuto qui un padre, il quale ha accentuato il problema « terra »).
Ed io sono tentato di aprire il Vangelo a caso, e dimostrargli che Gesù parla di
pane, di pesce, di campi, di malattie, di amici, di pecore, di vino, di inviti a
pranzo, di sete di giustizia, di maledizioni.
Eppure bisogna saper dosare, ascoltare, tacere, esortare, incoraggiare.
Dire senza offendere. Rispettare la loro psicologia. Non affrontano mai diretta-
mente un argomento. Non ti diranno mai in faccia che non sono d’accordo. E per
noi è difficile tener sempre presente la storia che pesa sulle spalle di questo
popolo.
Non si entra nel santuario di un altro popolo con ricette magiche e piani
prefabbricati. Bisogna spogliarsi di tutto. In punta di piedi. Per entrare in questo
sacrario non basta togliere i sandali come ha fatto Mosè davanti al roveto ardente.

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Bisogna strapparsi anche la pelle dalla faccia. Perdere i propri connotati, per
assumere quelli di un altro «Cristo-storico-geografico ».
Non abbiamo ancora afferrato l’incarnazione in tutte le sue dimensioni.
Specialmente a livello di popoli e civiltà.
Ed il nostro modo di vivere l’ incarnazione, qui e oggi, è promuovere
l’uomo, credere nell’educazione popolare, appoggiare tutto quello che aiuta a
liberarsi dalla schiavitù del riso e fagioli. E, ancor più difficile, credere che questo
è il primo passo, l’unica maniera che abbiamo a disposizione per vivere ed amare
l’incarnazione, perché stiamo difendendo la Sua vita, la Sua storia, il suo «
crescere in età e grazia a livello di popolo ».

VIVERE IL POVERO

Açailàndia, 4.4.1986

Sono tornato dall’ultimo viaggio con una diarrea fulminante. L’ameba mi


ha attaccato di nuovo. È la malattia dei poveri. Questi poveri sono così tremendi,
che ti attaccano di dentro e di fuori. Perfino nella pancia mi sono entrati... E mi
danno un gran da fare. Vogliono giustificazioni. A tutti i costi vogliono sapere il
perché di certe cose.
Il responso medico dice: « Exame parasitológico: cistos de entamoeba

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coli e histolitica: + + 4- ». Quelle tre crocette (molte amebe), mi richiamano le
piccole croci degli anjinos (neonati, angioletti), di cui sono pieni i cimiteri
dell’interno.
È venuta la Maddalena con suo marito, quello che ha solo un occhio. È
venuta per dirmi che la Rosina è morta, lasciando il Louro (Biondo) mezzo
impazzito e 5 bambini senza nessuno. Grazie al cielo ero riuscito a convincerla a
dare il sesto ad un’altra famiglia. Francinete (la figlia prostituta) ha trovato
marito. E, questo, lo diceva con fierezza. Alla fine mi ha invitato a pranzo: « Là
nei campi abbiamo tante banane e zucche a volontà ». Ha insistito per avere un
santino. Le ho dato il crocifisso missionario di un padre che l’ha abbandonato qui
e mi è parso che nella casa di Maddalena e di Raimundo si sarebbe trovato a suo
agio. Quando l’hanno visto hanno trattenuto il respiro per un attimo. Raimundo si
è tolto il cappello. Lo teneva in mano come se avesse paura di fargli male. « E
quando avete voglia di bisticciare o di bere, prima di tutto guardate il crocifisso, il
mio regalo... ». Lo dicevo tra il serio ed il faceto, ma per loro erano tutte parole
molto serie.
Proprio in questi giorni il libro La grande sete mi ha messo in crisi. È la
storia di un sacerdote - Sandro Spinelli -, che ha lavorato diversi anni nella
regione arida del Piauì. Immersione totale nelle piaghe del popolo. Anche nel
lavoro manuale. Mi ha aiutato a riflettere che, per non essere ospiti, o semplici
ammiratori, o tifosi dei poveri, bisogna assumere la loro vita fino in fondo. Che
sfida! Non basta valorizzare il povero; non è sufficiente ascoltarlo, dargli spazio,
accoglierlo, restituirgli ciò di cui è stato derubato; non basta neppure aiutarlo a
crescere nella coscienza dei suoi diritti; manca ancora una cosa: vivere la sua vita.
Vivere il povero. Il verbo è intransitivo. Ma è proprio qui l’operazione più
difficile per me: « transitare », fare questo passaggio, armi e bagagli, dalla parte
del povero.
Vivere la sua vita, le sue condizioni, il suo mondo, la sua storia.
Un’operazione quasi impossibile per noi, ricchi di cultura, di religione, di

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teologie e filosofie. Ma, per lo meno, bisogna tentare l’avventura di accorciare le
distanze.

NEL PANCIONE DELLA STORIA

Açailàndia, 6.4.1986

La notte scende d’improvviso. È stato un giorno qualunque come sono


tutti i giorni dei poveri. L’allontanamento da loro mi rende triste. Anche per
questo mi sono rituffato in mezzo a loro.
Il vecchio George insisteva, perché gli comprassi la casa. I suoi simili
vorrebbero comprarla, ma non ce la fanno a pagare in contanti. E lui ha bisogno
dei soldi in contati per tornare nella sua terra. Il Venerdì Santo gli hanno
ammazzato il figlio per una banalità. Doveva pagare un bicchiere, che aveva rotto
al bar. L’assassino l’ha chiamato dentro: « Quando mi paghi? ». E lui estrae una
banconota di centomila. Per tutta risposta la coltellata. Il vecchio vuole andare
lontano, non vedere più le cose che suo figlio vedeva. Gli unici che possono
abitare la sua casa (una delle mille non-case), sono i poveri, il cui denaro è «
cort».
Nel rione della buraqueira (le piogge hanno aperto voragini) le cose sono
peggiorate. È normale sentir dire: Tizio, Caio sono caduti nel buraco (buco).
Il vecchio Euclides, come mi ha visto, ha smesso di lavorare e mi ha
introdotto nella « casa dei santi »: la parete è letteralmente piena di quadri,
quadrini e quadretti, statue e statuine. Un’esposizione di santi al completo.
Troneggiava il « nostro padim Cicero » (sacerdote del Cearà morto in concetto di

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santità). Candele, incenso, bottiglie di acque lustrali, erbe ed intrugli vari per
recitare le preghiere sugli infermi. In un angolo della casa i tamburi della
macumba. Appesa ad un chiodo una specie di veste sacerdotale, stola rossa e
cappello azzurro. L’ordine ed il senso di proprietà danno un tocco particolare
all’ambiente. Sull’orlo del buraco c’è posto anche per una casa di cura espirita.
Con aria di importanza Euclides mi ha spiegato che molta gente entra
nella « casa dei santi » trascinandosi e ne esce guarita e sollevata. Mi ha dato una
dimostrazione pratica, spargendo sulle mie braccia e sulla testa l’infuso di una
radice profumata, facendo segni di croci e bisbigliando parole incomprensibili.
Mi ha spiegato, poi, che era la formula per il mal di testa.
Mi confida il suo cruccio: « Padre, anche i santi erano in pericolo, perché
la pioggia si stava inghiottendo la loro casa. Ed allora ho deciso di fare quella
tettoia nel cortile. Solo i santi stanno con noi ». Se i poveri non avessero i santi, i
Padim Cicero, i São Francisco de Canindé, poveri noi!
Donna Rita, 76 anni, è convinta che è Gesù che sostiene la sua casa: «
Gesù non lascerà cadere la mia baracca nel buco. È con il potere di Dio che noi
scampiamo ». Era quasi mezzodì e nella pentola c’era i solo un pugno di fagioli. E
lei aspettava che Gesù mandasse una manciata di riso. Vedi? Anch’io sono
costretto ad accettare per buona la tesi di donna Rita: « è pelo poder de Deus que
os pobres escapam... ». Non c’è, non ci può essere altra spiegazione.
L’ultima novità l’ho trovata nella Vila Tancredo. Da tre mesi non ci
mettevo piede. Donna Anna mi è venuta incontro buttandomi nel cuore, a piene
mani, il suo dolore. Piangeva senza ritegno. Le lacrime scendevano lungo il viso
affilato e scarno. Oltre gli stenti della fame; oltre gli 11 figli da mantenere; oltre il
lavoro fuori di casa; oltre la casa che fa acqua, il marito ha incominciato a bere.
L’ha minacciata due volte con il coltello. Non le resterà altro che fuggire,
portandosi dietro l’ultimo figlio nella pancia: il dodicesimo. « Oh, Padre, pensavo
di non vederla più! E questo mi rendeva triste... Lei è il nostro padre, o pai da

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pobreza (il padre dei poveri) ». Poi tutti i dettagli delle bevute del marito; la
diarrea del figlio più piccolo, l’anemia dell’altro, i vermi del più grandicello, il
nuovo impiego come cuciniera. « Per lo meno porto a casa il cibo che gli operai
scartano ».
Non mi ha raccontato un evento felice. Le lacrime scendevano ancora. In
mezzo alla strada, immersa in un crocchio di gente. Il povero non ha vergogna del
pianto. Né del suo né di quello degli altri. Ed il pai da pobreza cosa poteva fare?
Ascoltare, accogliere, raccogliere quelle lacrime e custodirle, in silenzio, nel
proprio cuore.
Di lontano ho chiamato donna Rita (quella che ha tentato di impiccarsi
più volte). Anche lei col pancione. Mi è parsa un pò più robusta. Le ho fatto un
complimento. Sta tirando insieme quattro stracci, perché il compadre (il padrino
del figlio) l’ha invitata a raccogliere il riso nei campi. Ha distribuito i figli nelle
famiglie degli amici e, questa notte, con le due più grandicelle (7 e 8 anni),
prenderà il camion che la porterà nel Corrego Novo.
Ho azzardato una domanda; « Rita: non ti farà male piegarti ed alzarti
tutto il giorno? ». « Padre, non posso lasciar morir di fame i miei figli. Diverse
persone li vogliono adottare, ma io non dò i miei figli agli altri ». Me lo
confermava la vicina: « La miseria di Rita è con dignità. Non chiede niente a
nessuno. Lavorava nella piantagione della gomma e l’hanno licenziata per via del
pancione. Cosa le resta da fare? Il marito è nella Serra Pelada e non manda notizie
». È proprio così: non le resta altro da fare se non raccogliere il riso insieme al
nascituro.
Io vorrei cercare le cause della miseria con Donna Rita, Donna Anna, il
signor George e tutti gli altri. Perché i poveri devono soffrire anche prima di
venire alla luce? Il nascituro di Donna Rita imparerà a raccogliere il riso prima di
vedere la faccia di questo mondo. Tutti i poveri sono - più o meno - nelle stesse
condizioni. Vivono nel pancione della miseria. È il pancione della storia di una

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umanità disumana. Il povero, come il nascituro, è indifeso; in balia di chi lo porta
nel ventre. Non può neppure reagire, farsi sentire.
Non ne ha il diritto. Non gli è riconosciuta cittadinanza alcuna. Esiste, ma
la società non lo riconosce.
Non c’è immagine più precisa per descriverlo. La storia non gli permette
di nascere, di rivendicare i suoi diritti.
Sandro scrive : « Un cammino di liberazione è vero, autentico, quando si
esce almeno un poco dalla spirale della sopravvivenza, dell’economico ». Donna
Anna, Rita, Ralgisa, Domingas non possono aspirare ad una vita umana fino a
quando non potranno calmare i morsi della fame. Una di loro, sorridendo con una
punta di sarcasmo, mi diceva: « La carne? Io mangio solo l’odore della carne,
quando la vicina la mette nella pentola... ».
Dentro di me è nato uno strano conflitto di attrazione- repulsione dei
poveri. Cosa vado a proporgli? Che soluzione prospettare a chi vive in fondo al
pozzo della miseria? Ingannarli con due paroline prese in prestito dal Vangelo?
Una benedizione che non fa né bene né male? Una goccia di consolazione?

PERCHE’ NON SI DIFENDONO?

Açailandia, 10.4.1986

Tutte le volte che torno dalle-non-case dei miei amici, ripiombo nello
stesso incubo: perché i poveri non si difendono? Perché non si organizzano
contro di noi che siamo i loro nemici? Invece di dichiarare fuorilegge i poveri
quando la loro pazienza storica scoppia e scendono in piazza, perché non di-
chiariamo fuorilegge i ricchi (i popoli opulenti), che viyono alle loro spalle?

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Siamo in clima pasquale: il trionfo della vita sulla morte. Che cosa ci può
dire in un paese dove si muore per niente? Nella sola São Paulo ci sono quattro
milioni di bambini abbandonati. In tutto il Brasile si calcola ce ne siano 36
milioni. Non sono già morti, civilmente? Non sono condannati ad ingrossare il
numero dei marginali, dei delinquenti, dei naufraghi civili? Quanti delitti contro
la vita, quante cose fuorilegge! Non è fuorilegge la morte prematura per morbillo
ed anemia? Non è fuorilegge la denutrizione, la disoccupazione, l’ignoranza e la
schiavitù sociale? Tutte queste cose non dichiarano fuorilegge una civiltà che le
permette, le legalizza, le produce e le impone a tutti quanti con le sue leggi?
Cristo insegna a ricercare la causa ultima del male. E, una volta trovata,
dice di mettere mano alla scure. Niente mezze misure, accomodamenti, pannicelli
caldi.

ACQUA DI FIUME A VOLONTÀ

Non si può immaginare l’effetto che fanno le telenovelas scodellate dalla


TV all’ora di cena. Lusso sfacciato, vestiti sopraffini, gente sofisticata. Una bella
borghesia a colori. Il mondo proibito dei ricchi invade la catapecchia dei poveri e
gli impone le sue abitudini, il suo modo di pensare, la sua cultura.
Il contenuto gira sempre attorno ai problemi dei borghesi: incompatibilità
di vita matrimoniale, intrallazzi, fughe e compensazioni amorose, i vizi tipici di
una società alienata. L’altro giorno ho incontrato, in carne ed ossa, un prototipo di
questa cultura. Ha congedato tutti quanti ed ha chiuso a chiave la porta del suo
ufficio. Mi sono sentito prigioniero, ostaggio nelle sue mani. Per un’ora si è
sfogato contro la moglie che non lo capisce, che non gli dà più niente, che si è
trovata una compensazione nella religione. Conclusione: « Io ho diritto alle mie
scappatelle, non le pare? ». Voleva la benedizione del padre... Stavo sulle spine.

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Mi sembrava di rubare quel tempo ai poveri, le cui storie sono tanto diverse.
La borghesia dorata che la TV ci propina è una aggressione psicologica
in piena regola. Ci impongono un sistema di vita alienante; ci seducono a suon di
apparenze, di allettamenti, di facciate ben verniciate, di luci e colori smaglianti.
Lo spirito critico dell’analfabeta è minimo. Ma ogni sera ingerisce una pillola di
borghesia, la sua dose di veleno, un’iniezione che lo distoglie dai suoi problemi.
Che effetto farà nel cuore di un miserabile la proiezione di un mondo, che gli è
totalmente alieno? Analgesico, seduzione, sogno, oppure violenza? A lungo
andare non scoprirà il gioco, non riconoscerà i suoi nemici? (È risaputo che i
mezzi di comunicazione, in Brasile, sono nelle mani di sei famiglie).
Giovedì scorso ho voluto fare un test: sono andato a raccogliere il riso
con i contadini del Brejo Social. Aureliano mi ha imprestato calze e scarpe.
Siamo arrivati sul luogo che il sole era a picco. Ho resistito solo due ore.
Formiche che pizzicano, spini, moscerini pungenti, sudore, caldo terribile, sete.
Le foglie del riso sembrano lame di rasoio che penetrano nelle braccia. Ho
riempito due cofos (cesto da 15 kg.) e non ho fatto altro che chiedermi: « Come fa
a vivere una vita così questa gente? ». Dopo due ore ero esausto. Non avevo
voglia di niente. Anzi, una sola: maledire la vita... e tutto il resto.
Per loro è l’epoca più bella dell’anno. Vivono la soddisfazione di
raccogliere il frutto del loro sudore e, spesso, del loro sangue. Raccogliere una
spiga alla volta. Il caldo equatoriale ti prosciuga; con il sudore butti fuori tutto; il
tuo fisico non allenato a reagire in condizioni infra-umane, non regge. I due
giorni che ho passato lì non ho mangiato neppure l’odore della carne. Questa
volta non mi aspettavano e così ho vissuto la loro vita al naturale: mangiare
quello che loro mangiano tutti i giorni, sentire quello che si prova durante il
lavoro con una alimentazione così precaria. E mi chiedo: potrà un occidentale
vivere la loro non-vita, essere dei loro, sopravvivere come loro?
Non mi rassegno. Può rischiare di essere un suicidio pretendere di vivere

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nelle loro condizioni. Ma come scoprire, diversamente, le radici ultime del male,
le cause della loro indegnità? Come essere « alla pari » con loro? Qui non è
necessario ricorrere a gesti eclatanti, tradursi in torce umane (come i bonzi
vietnamiti), votarsi a digiuni della fame per richiamare l’attenzione del mondo;
basta vivere la non-vita di tanti miei amici.
La maggior parte degli abitanti del villaggio sono stati costretti a vendere
il riso na folha (sul campo, appena nato). Chi per pagare l’ospedale, chi per
comprare il caffè, l’olio e lo zucchero; chi per poter sopravvivere e chi per
dimenticare, con l’aiuto della casciaça, una vita tanto indegna. Ribamar ha già
venduto il riso del suo campo, prima di raccoglierlo, perché il bottegaio (al quale
l’ha « svenduto ») gli ha anticipato la vita imprestandogli riso, fagioli ecc. Come
togliere la corda al collo di questo popolo?
Da qui siamo andati nella Capoema. Strada orribile: voragini e fango. Il
toyota è sprofondato tre volte. C’è voluto mezz’ora per tirarlo fuori da un buco di
80 centimetri. Sono arrivato distrutto dopo 8 ore di viaggio. Cena? Una
cucchiaiata di riso senza una goccia di olio e radici di macaxeira. E acqua di
fiume a volontà. Mi sono buttato nell’amaca ed ho desiderato di chiudere gli
occhi per sempre.

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DAI MARGINI DELLA STORIA

Novo Bacabal, 18.4.1986

C’è ancora chi vede la « missione » come conversione degli infedeli


«stupidi, ignoranti e immorali ». Siamo imbevuti di presunzione primo-mondista.
Si parte dal presupposto che la civiltà che ci ha generato è la migliore; che la
«nostra » religione è l’unica possibile. Coltiviamo, impercettibilmente, uno
spirito di tolleranza, quando non di esclusivismo e di assolutismo.
Forse che Cristo non è consanguineo dell’indio, dell’ateo, dello schiavo,
del macumbeiro? Tomàs (primo sacerdote indigeno guatemalteco) sosteneva, che
la rivelazione di Cristo non può essere iconoclasta ed esclusivista come noi la
vorremmo: « San Paolo non dice che la prima e più universale rivelazione è
quella della natura? ». Con una certa discrezione ha dettò cose di fuoco. Egli
cerca di trasmettere il messaggio cristiano agli indios, ma trova molte resistenze,
perché il « contenuto ci è stato trasmesso in un recipiente (cultura, storia, pratica)
talmente incoerente, ambiguo, riduttivo, che crea in loro un fenomeno di rigetto.
La nostra è sempre la religione di fuori, dei conquistatori, di coloro che hanno
provocato il loro genocidio.
Una religione è tanto più genuina, quanto più è universale. Il Vangelo ha
un valore storico, civile, umano prima e al di là di ogni altra considerazione.
Forse che lì non c’è una piattaforma comune a tutti gli uomini? La difesa della
natura e dei diritti umani hanno una valenza umana universale. Il più non esclude
il meno.
Cristo ci ha dato un criterio infallibile di credibilità: « Da come vi
amerete, riconosceranno che io sono stato mandato dal Padre ». Perché non

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siamo riusciti a strappare agli indios quell’ammirazione che faceva dire ai pagani:
« Guarda come i cristiani si amano tra loro! »? La nostra storia che cosa può of-
frire agli indios? Non solo l’omissione, ma il contro-segno. Non solo non gli
abbiamo fatto vedere (« che vedano le vostre onere buone »; « vedendo,
crederanno ») come il Cristo salva il lavoro, la famiglia, le relazioni sociali ecc.,
ma gli abbiamo spacciata per cristiana questa civiltà occidentale votata al
suicidio ecologico e nucleare. Li abbiamo costretti a rifiutarci. Li abbiamo indotti
non dico a rigettare un cristo invasore, dominatore, iconoclasta dei loro usi e
costumi, ma almeno a « prenderlo con le pinze ». O, come si dice qui, dopo secoli
di inganni e di delusioni, confiar desconfiando (fidarsi è bene, non fidarsi è
meglio).
Nell’incontro dei volontari di pastorale che lavorano con gli indios è
rimasto a mezz’aria un interrogativo: perché il cristianesimo non ha fatto breccia
nella cultura indigena? Perché non siamo riusciti a farli come noi? Secoli di
dipendenza e di oppressione gli hanno insegnato a non rifiutare la religione
dell’invasore: « meglio farselo amico, perché come nemico è più pericoloso ».
Risultato? Due religioni concomitanti, stratificate: la loro (genuina creativa,
cosmogonica) e la nostra (artificiale, importata, fredda), che si riduce ad una
religione parallela. Dopo aver assistito passivamente alla Messa, incominciano i
riti sciolti della religiosità ancestrale.
Nonostante le molteplici differenze etniche, i popoli indigeni hanno un
denominatore comune che li unisce: sono dei diversi. Malgrado i tentativi della
società di assorbirli; malgrado i colonialismi aperti e mascherati, essi riescono -
bene o male - ad essere se stessi. Malgrado gli attacchi della civiltà capitalistica,
che li vuole domare, integrare, ridurre al suo servizio, essi resistono. Il sistema
vuol farne dei bravi lavoratori, cittadini edificanti: docili, servizievoli, votati al
lucro. E loro insistono nel loro diritto di esistere: nelle aldee (villaggi), lontano
dalle città di Caino. Rigettano il nostro modo di essere, di vestire, di pensare.
Abbracciano gli alberi; condividono la caccia; tra loro non si compra e vende

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sudore umano; vivono i sacramenti naturali della condivisione e della
compartecipazione.
Questi esseri, mezzo nudi ed analfabeti, sono una spina nel fianco della
società. Tutto ciò che rimane fuori dal sistema, rischia di giudicarlo, di essere un
termine di confronto.
Sembrano vivere per dispetto. Esposti a tutti i pericoli. Eppure resistono.
Ultimi in progresso tecnologico, primi in progresso di umanità. Dalla periferia
della vita lanciano ancora la loro sfida: perche appartenere ad una civiltà che
mette non solo i singoli, ma anche i popoli gli uni contro gli altri? Che consacra il
libertinaggio economico, premia il più forte (violento), benedice lo sfruttatore?
Ci avevano fatto credere che gli stati nazionali avrebbero messo fine alle
guerre fratricide. In nome della ragion di stato e della sicurezza nazionale che
cosa non si è fatto? Si scambiano prigionieri con armi; si infrangono tribunali
internazionali, embarghi, etiche, autodeterminazioni. Alle battaglie con gli
archibugi sono subentrate le guerre di mercato, battaglie dei computer, armi
economiche, guerre stellari.
Siamo alle soglie di una crisi di civiltà. La denuncia più spassionata ci
viene dagli ultimi, dalla sede più pura del mondo, la foresta, dove queste reliquie
umane si sono rifugiate in compagnia delle specie animali in estinzione. Gli stati
nazionali hanno sottratto loro le terre, la cultura, l’anima. Perseguitati, decimati,
inquinati in tutti i sensi. Non resta che distruggerli come razza.
Non sono loro gli unici ed incontestabili padroni del territorio dove
vivono da sempre? Eppure gli stati concedono loro solo l’uso della terra, non la
proprietà (riservandosi il sottosuolo). È evidente che questi popoli sono entità
etniche con la loro storia, lingua e cultura. Perché si nega loro il diritto di esistere
come entità autonome? Non hanno tutte le caratteristiche di un popolo, il cui
primo diritto è l’autodeterminazione, il diritto di essere creatore dei suoi destini?
E le chiese non hanno nulla da dire di fronte a queste sacche di umanità
incontaminata? Sapranno leggere 1a loro valenza profetica, la loro esigenza di

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nuova civiltà, il superamento degli stati nazionali, il diritto di ogni entità culturale
alla cittadinanza nel consorzio dei popoli, la fine dei confini « innaturali »?
È ora di scoprire quel legame naturale ed universale, che ci lega tutti
insieme prima e al di là degli stati nazionali e delle religioni particolari. Come era
universale colui che si è fatto chiamare figlio dell’uomo, figlio dell’umanità!
Titolo di cittadinanza cosmica. E gli indios, mezzi nudi come il Battista, sono
ancora lì ai margini della storia, ultimi tra gli ultimi, a ricordarcelo.

CHE COS’È LA VERITÀ?


Imperatriz, 22.4.1986

Una buona notizia: è arrivato il visto di permanenza. Ma per i poveri non


giunge il « Visto », il permesso di vivere una vita degna dell’uomo. Rita mi
raccontava, perplessa, che non sa più cosa fare con sua figlia: quel poco che c’è in
casa, quando c’è, lei lo dà a quelli che glielo chiedono. E cosa ci può essere in
quella non-casa? (Il tetto è un pezzo di plastica nera che io le ho dato e adesso è
già pieno di buchi). Un pugno di riso, una scodella di grasso di maiale, due
fagioli. Nené ha undici anni e non è una santa. Sostiene che la vita dei poveri è «
brutta » ed ha chiesto a sua madre di metterla a servizio di qualche signora-bene,
almeno potrà togliersi la fame.
Rita va fiera di questa figlia. Diversi le hanno chiesto di adottarla, ma non
la cede neanche « per tutto l’oro del mondo ». Capire i poveri: bella pretesa!
Come capire la degradazione di dover vivere sopravvivendo. È vita degna
dell’uomo avere come primo ed unico ideale di vita mettere insieme una
cucchiaiata di riso e fagioli per tirare sera? « Vivere per ingannare la fame ». Tra
noi e loro c’è l’abisso che divide il ricco Epulone dal povero Lazzaro.
Popoli-Lazzaro e popoli- Epulone; nemici irriducibili. Anche se non vogliono

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ammetterlo. Chi si trova su una sponda è contro tutti quelli che si trovano
sull’altra sponda. Questo abisso, nella Bibbia, è chiamato « mistero di iniquità ».
Neppure Dio l’ha spiegato. Anzi, anche lui ne è stato vittima.
Il Terzo Mondo ha una missione storica. Ci costringerà a rileggere il
vangelo, la vita, la storia dalla posizione dei vinti del lucro e del capitale. Fino ad
oggi si è scritto la storia degli oppressori. Ed i loro frutti - i macroproblemi - li
condannano con formula piena. La salvezza viene ancora dalle « Betlemme-
Terzo Mondo », dove si continua a nascere senza pannicelli, senza diritti, senza
cittadinanza, senza alleanze con i vari Erodi al potere. La stella della storia si è
fermata su ogni catapecchia, in Brasile come in Africa, dove si muore per causa
dell’ingiustizia.
Il Terzo Mondo è il nostro vangelo vivo. Ci manifesterà il valore anche
civile delle beatitudini; la bontà della virtù civile della moderazione; la sobrietà
nell’uso delle materie prime e delle risorse non rinnovabili; la mansuetudine tra le
nazioni; la tenerezza per tutto ciò che vive sulla terra e nel mare; la venerazione
del sacro sudore umano. Gli analfabeti ci daranno la lezione più importante della
storia: se non volete mettere fine al patrimonio umano, bisogna dirottare la storia
del rapporto tra gli uomini. Terra e storia non possono essere dilapidate
impunemente.
Come vivrebbe Cristo, oggi, la parabola del buon samaritano?
Lascerebbe da parte ogni affare (anche quello di portare la comunione), per
chinarsi sui popoli saccheggiati dal primo mondo. Dio cerca la sua e nostra
umanità nelle fogne della miseria, delle favelas, delle « invasioni ». « La verità vi
farà liberi ». Cos’è per noi, dannati della terra, la verità? Tutto ciò che ci libera dai
vermi e dalla diarrea. Per noi non c’è nulla di più vero di un piatto di riso e fagioli.
Forse è il primo mondo che impedisce l’avvento della verità. Come ci può essere
al mondo un « uomo vero » mentre siamo costretti a vivere in condizioni
infraumane?
La presenza dei miseri squalifica tutti quanti. Anche i cercatori di verità.

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Non ci può essere verità con tanti esseri umani alla deriva. Se l’avessero scoperta,
noi non saremmo in queste condizioni. Noi siamo la porta della verità. Guardate:
la nostra fame è vera; la nostra sete è vera; il riso ed i fagioli che sogniamo sono
verissimi.
Proviamo a chiedere « che cos’è la verità » a Mariano, il mio amico indio,
che è passato di qui ubriaco fradicio con la moglie, due figli, i cognati, i nipoti.
Avevano l’aspetto smarrito dei naufraghi. Erano in giro per la città a vendere
collane e cestini di paglia. « Per noi indios, non c’è nulla di più vero del fiume con
i suoi pesci, della foresta con la caccia abbondante, del cielo senza fine, degli
uccelli che cantano la libertà ».
Che cosa sarà la verità per un favelado, un « palafittato», la cui casa,
come quella di Deise, galleggia sulla fogna della città? Aria pura, acqua potabile,
un cortile per giocare. Tutti i « poveri cristi », davanti ai Pilati del mondo
continuano a chiedere 1 « cos’è la verità? ». Il mondo è in « stato di errore »,
perché ogni denutrito è un errore vivente prodotto dalla nostra civiltà.
Oh se avessimo avuto al Concilio dei Vescovi esercitati nella miseria! Se
conoscessero direttamente, non per interposta persona, la tortura della fame,
avremmo dei pastori che non hanno paura di camminare sulla lava incandescente
dei miserabili. Secondo certe posizioni io dovrei dire a Ribamar, a João
Tranquilo, a tutti gli amici del Brejo Social (che hanno già svenduto il riso a metà
prezzo), che « il cristiano preferirà sempre la via del dialogo e dell’accordo ».
Dovrei convincere le vittime ad amare i loro carnefici. Santa chiesa di Dio, non è
troppo stridente? Sull’orlo del duemila perché non indire un Concilio dei miseri
di tutto il mondo? I « capi » hanno sempre avuto la parola. Noi non abbiamo mai
sentito la nostra voce sulla piazza del mondo. Sì, un Concilio per soli diseredati.
In prima fila gli anjinhos, « i bambini di cera », Rita, Anna, le Maddalene, le
Lucie, i Raimundi. Vogliamo sapere da loro, che cosa ne pensano di tutti i popoli
consumisti; come vedono i cristiani, le chiese, le religioni.
Un Concilio di emarginati, di denutriti, di favelados, di flagelados, di

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anemici, di « scomunicati dalla vita ». Non spetta al sacerdozio regale dei laici
pronunciarsi sulla materia, il bene comune, « il sociale ed il politico» (Gaudium
et spes, n. 41)? Quando impareremo che il mondo è più ampio della Chiesa, che il
popolo ha la sua sacra autonomia « in materia mundi »? Non si sottolinea mai
abbastanza questa parola: civiltà. Perché? Perché in essa ci siamo tutti: religiosi e
laici, atei e non, est ed ovest, nord e sud.
Ho re-incontrato la vedova Isabel, quella che si regge in piedi
appoggiandosi all’aria: « Ma non ha neppure un parente che la possa aiutare? » - «
Io ho un solo parente: Dio... ». Il Signor Francisco ha qualche cosa di mistico: «
Se noi sapessimo che siamo fratelli di Dio! Se obbedissimo al sole, alla luna, al
vento, obbediremmo alle opere di Dio ».
Macédo: « Io rimango confuso davanti a tante religioni. Non c’è
religione che salvi; che ci salvano sono le nostre opere ».
Nilson: « Il denaro è il maggior nemico dell’uomo ».
Jonas: « Il ricco senza di noi non è niente. La terra è il nostro cibo. Io non
mi lamento della croce, perché vivo sempre abbracciato ad essa. E la scaricherò
solo nell’ora di morire ».
Dorival: « Dio ha seminato una semente buona e una cattiva. Noi siamo
la semente che Dio ha seminato in questo mondo».
RACCOGLIERE LE SPIGHE DI RISO

Açailàndia, 26.4.1986

Di nuovo alle prese con il riso: dalle 13 alle 16 nei campi di Anastasio.
Accanto a me donna Luiza: 27 anni, otto figli, il marito in ospedale. Il sole
cuoceva le cervella. Scongiuravo i nuvoloni neri in movimento che si
spicciassero a darci la pioggia. Il sudore era insopportabile negli occhi. E noi

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raccoglievamo le spighe di riso, ad una ad una. In momenti come questi la mente
bolle come un vulcano.
Un lavoro bestiale. Il vento ha steso il riso; la fatica di raccoglierlo
raddoppia. L’ho chiesto a donna Luiza: « È un lavoro duro, vero? » - « Noi siamo
abituati a soffrire ». Cledinor aveva il coraggio di cantare: « Il tempo passa più in
fretta e non si pensa alla fatica ». Beato lui! Per me sono state tre ore di purgatorio
ed ho dato ragione a Justino, cioè ho capito perché beve.
Poi sono arrivati i nuvoloni neri ad esaudire la mia preghiera. Mi sono
preso tutta la pioggia che potevo. Sudore e pioggia si sono compenetrati. All’ora
di pranzo ho divorato il più grosso piatto di riso e fagioli della mia vita. Ho capito
perché i poveri usano condire il cibo con un peperoncino piccantissimo: è
difficile inghiottire tutti i giorni riso e fagioli senza l’aiuto di uno stimolante.
Brucia la bocca, ma fa venir voglia di mandar giù alla svelta per smorzare il
bruciore. Justino ci ha ricevuto con festa. Aveva la casa piena di pioes
(letteralmente: « trottole »; è il nomignolo dato a chi non ha lavoro fisso), che
vengono da Vitorino Freire, perché là neppure il riso cresce più. Un giorno di
viaggio per sciogliersi di sudore nel campo di riso al prezzo di 15 mila cruzeiros
l’arroba (45 kg.). In un giorno si raccoglie da 3 a 4 arrobas. La casa era già piena
di amache, ma ci ha fatto stare anche la mia. E alle 20,30 mi ci sono buttato dentro
con la schiena a pezzi. Dopo un pò non seguivo più la storia di Justino, che
raccontava tutti i particolari della sua odissea. Le ha tentate tutte. È stato nella
Serra Pelada ed ha guadagnato solo malaria. Ha tentato vicino a Santa Luzia, ma
la terra non rende. Ha dovuto tornare sui suoi passi prendendo in prestito un sacco
di riso per restituirne tre. È da novembre che vive « in prestito ». I 60-70 sacchi
del raccolto serviranno per pagare i debiti dell’anno scorso. « Il povero passa la
vita, pagando i debiti ».
Ho visitato quasi tutte le famiglie. La maggior parte sta progettando di
andarsene. Non ce la fanno più. L’affitto è troppo caro: 3 sacchi di riso « per linea

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» (una « linea » produce 10-12 sacchi). La prima cosa che mi chiedono è quando
ci sarà la Messa. Donna Severa mi ha confidato che l’ultima volta, siccome non
ho celebrato la Messa (per via del filo spinato), ha pianto.

L’ASSEMBLEA DEI NAUFRAGHI

Imperatriz, 29.4.1986

Ieri ho festeggiato il mio 44° compleanno a riso e fagioli, con molta


acqua gialla di torrente. Nell’accampamento della Capoema domina, ancora una
volta, l’incubo della fame. Amancio, gli occhi dilatati: « Padre, non abbiamo una
goccia di olio, un cucchiaio di zucchero, un grano di caffè. I bambini stanno
ammalandosi tutti quanti». Ne ho battezzato uno in fin di vita. Anche le mie
risorse emozionali sono alla fine. Per la terza volta, in un mese, sono tornato nella
Capoema. Dopo aver sconfitto « il pescecane » (così viene chiamato il
latifondiario), i pesciolini si mangiano tra di loro. Il gruppo dei posseiros è in
conflitto con quello degli acampados. I primi stanno cedendo (o vendendo) lotti
di terra ad amici e parenti e così gli acampados rischiano di rimanere a bocca
asciutta. Questi ultimi sono nell’accampamento dal 16 novembre 1985. Si tratta
di 63 famiglie, che resistono con i denti agli assalti della fame, della diarrea, della
verminosi. E, oltre a questi, adesso è apparso un nuovo nemico: l’egoismo,
l’individualismo. Non dei grandi, ma dei piccoli, cioè di quelli della nostra stessa

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razza, la razza dei poveri.
Era stato fatto un progetto comunitario, ma è fallito prima di nascere,
perché nessuno si fida dell’altro. Chico ha avuto il coraggio di dirlo apertamente:
« Se non metto la mano sui miei soldi, non credo in nessun progetto ». Perché?
Perché per loro è questione di vita o di morte avere qualche spicciolo per
comprare una medicina, i generi di prima necessità.
Eravamo andati per partecipare alla prima Assemblea di tutti gli
«occupanti » del « latifondo ozioso », al fine di aiutarli ad organizzarsi. Abbiamo
affrontato 15 km. a piedi, sotto l’acqua, per sentieri in saliscendi, sdrucciolevoli,
senza mangiare. Mi si sono spelati i piedi. Il terreno sembrava sapone. Avevo
accettato l’invito, perché sapevo che la nostra presenza avrebbe aiutato a calmare
gli animi.
Erano tutti là, in cerchio, saldati dallo stesso bisogno (terra), attratti dalla
stessa speranza (piantare). Alcuni con i piedi gonfi (55 km. a piedi); altri
affamati; tutti con un guizzo di speranza negli occhi anemici.
Mi sono portato in mezzo al cerchio dei duecento contadini ed ho
raccolto una manciata di terra: « Questa terra l’abbiamo strappata con i denti a chi
non ne aveva bisogno. È sacra, perché è stata inzuppata di sangue. Il sangue dei
nostri fratelli Francisco e Antenor. Facciamo un momento di silenzio in loro
memoria ». E, dopo la pausa, nella quale parlavano solo il sangue e le voci della
foresta, ho aggiunto: « Stendiamo la mano e facciamo una promessa: Padre del
Cielo; Francisco e Antenor, nostri fratelli, vi promettiamo che altro sangue non
sarà sparso su questa terra sacra ai poveri. Vivremo uniti come fratelli. Amen ».
Il clima si è fatto più disteso. Sono stati ritirati più di 40 fucili. Il giorno
prima il Bigode si era azzuffato con Dejacì e l’aveva minacciato con il revolver.
C’era stata la secessione degli acampados. Si è negoziato tutta la notte. Senza
mangiare. Sono venute fuori tante cose. La legge della sopravvivenza è sottile e
nascosta. Serpeggia, tortuosamente, nella foresta e nel cuore della miseria. Sia gli

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uni che gli altri, per sopravvivere, non per cattiveria - chiaro! -, hanno patteggiato
cedendo lotti di terra a chi ha fornito il camion per il trasporto delle masserizie; a
chi ha anticipato i viveri per affrontare l’inverno; ai propri familiari, amici,
conoscenti. Ci sarebbero mille dettagli da raccontare. Tutto converge in un punto:
il seme dell’egoismo, la sete di accumulare per sé ed i propri cari, sta nel cuore di
Chico Rico (presunto proprietario della Capoema), come in quello del posseiro e
dell’ acampado. Senza un lavoro di coscientizzazione, una conquista interiore
dell’uomo nuovo, non fiorirà niente. C’è di mezzo una situazione abnorme, di
emergenza; la legge della sopravvivenza pare terribile e, a volte, crudele. Per
questo non deve meravigliare se neppure il povero ha compassione del povero.
Come su una zattera alla deriva: se un naufrago in più fa affondare tutti gli altri,
che fare? Non mi era mai successo di dover fare considerazioni tanto crudeli.
L’assemblea è riuscita a riportare un pò d’ordine e alcune decisioni
comuni:1)chi ha bisogno della terra, nella terra deve abitare e lavorare; chi non
occupa il suo lotto entro il 15 maggio, ne perde il diritto;
2)nessuno può custodire il lotto per altri, che se ne stanno in città;
3)misurare tutta l’area e suddividerla in lotti di duecento cinquanta metri
ciascuno;
4)i figli minorenni non hanno diritto alla terra;
5)chi vende il suo lotto sappia che il contratto di vendita è invalido; chi ha
bisogno di andare da un’altra parte, cede alla comunità il suo diritto e
questa indennizzerà il lavoro fatto e consegnerà il lotto ad un altro senza
terra;
6)far pressione sugli organi federali per ottenere l’esproprio e la
demarcazione finale della terra.

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IL TRENO DELLA SPERANZA

Casa parrocchiale, 6.5.1986

Ho attraversato il Maranhão in treno. Un viaggio da leggenda. Seicento


chilometri, forando ciuffi di foresta e comunità di palme babaçù. Rivedere i
villaggi fatti di niente, appiccicati alle rotaie, è rivivere la passione di questo
popolo. Guardare le casine di taipa (argilla); i volti scarni dei contadini; le loro
forme di vita primitiva; i campi gialli di riso, nei quali è incominciato il raccolto,
spiga per spiga: vedere tutto questo dalla poltrona di un treno in corsa, dà un
senso di irrealtà. Di sogno. '
La fermata ad ogni villaggio diventava l’attracco alla realtà: grappoli di
bambini, ragazzetti, ragazzine, uomini, donne, tutti appesi ai finestrini per
vendere due banane, una ciambella, una pannocchia di granoturco abbrustolito,
acqua. Vedere i villaggi della miseria dal treno del progresso è un terremoto
interiore.
Ore 17: sosta ad Alto Alegre. Tutto il villaggio era là, esposto sul lato
sinistro delle rotaie, a contemplare lo spettacolo. C’erano tutti all’appuntamento
con il progresso. La folla dei piccoli venditori all’attacco. Sulla passerella una
ragazzina su una sedia a rotelle aspettava il suo turno per essere imbarcata. Lo
sguardo inebetito, incredula anche lei, che i poveri possano vivere in salute.
L’hanno messa a bordo attraverso il finestrino, con manovre molto complicate.
Un ragazzino metteva dentro la testa attraverso il finestrino, per guardare
l’interno, le viscere del mostro che corre sulle rotaie.
Imbruniva. Ma il villaggio stava là a godersi il suo spettacolo. Chissà che
il convoglio della salute, della dignità, della giustizia, un giorno non si decida a
fermarsi da noi!

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Il treno suona una musica diversa secondo il tipo di terreno che incontra
sotto le rotaie. Puoi chiudere gli occhi ed indovinare: stiamo passando su un
ponte, un viadotto, un fondo di sabbia.
Abbiamo dato la precedenza a tutti i treni-merce: 5 convogli al giorno,
160 vagoni l’uno, carichi di minerale ferroso destinato all’estero. Il salasso dei
poveri continua. Il prodotto delle nostre mani è più importante di chi lo produce.
Sapessero i pii occidentali, i devoti del consumismo da dove viene, che
cosa costa il ferro delle loro macchine, dei loro frigoriferi, delle loro armi
commerciate con il sud del mondo!
In questi giorni il Presidente ha lanciato un appello alla nazione, facendo
leva sul patriottismo. Come si fa ad invitare i denutriti ad amare la patria che li
condanna ad una vita da cani? Non è provocazione? « Patria amata! » cantano a
squarciagola l’impresario ed il fazendeiro, il flagellato ed il boia-fria, l’indio ed il
favelado. Patria amata, perché nessuno ci insegna a perseguitarti?
Fuori è buio pesto. La folla di Alto Alegre deve essere ancora là, incollata
al terrapieno, in attesa del treno della speranza.

INTERMEZZO RELIGIOSO
Casa parrocchiale, 16.8.1986

Signore, come sa di sale il tuo pane in terra straniera. Non siamo stranieri
tutti noi, che abbiamo per patria la miseria, oppressi dai nostri fratelli, messi in
croce dai nostri simili?
La Messa. Dovrebbe essere la festa della vita, del pane spezzato insieme.
Celebrare la condivisione. La gioia di farsi pane gli uni per gli altri: « Prendi e
mangia, questo sono io ». Gratuità. Reciprocità dell’amore. Invisibili pieghe della
vita.

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Celebrare il pane nella terra dei denutriti, dei condannati alla morte
innaturale, sa di esilio. Conflitti interiori si sollevano, dentro, come onde in
burrasca.
Ed il pane tace sull’altare. Sull’altare di questa terra inzuppata di sangue.
Sangue di contadini uccisi in conflitti per la terra. Sangue di desaparecidos.
Sangue di poveri cristi, che continuano a morire, perché l’umanità viva.
Eucarestia. Segno ed anticipo delle « cose venture »: il banchetto finale,
dove gli ultimi della storia siederanno al primo posto; dove i condannati della
terra saranno esaltati; dove i popoli assetati di giustizia si inebrieranno per
sempre; dove i popoli del terzo mondo siederanno su dodici troni a giudicare i
popoli del primo mondo.
Pane amaro. Senza il lievito della giustizia come impasteremo la farina
dell’amore?
Sull’altare il pane, in attesa di chi viva la passione di farsi pane. Darsi in
pasto al popolo. Con la semplicità del padre di famiglia quando dà il piatto di riso
e fagioli a suo figlio: « Prendi e mangia. Il mio lavoro, il mio sudore, la mia vita si
è trasformata in pane ».
Il pane del cielo sull’altare della terra. Ad operare l’impossibile sutura tra
cielo e terra. A legare insieme, come i chicchi di una spiga, gli uomini fratelli.
Pane del cielo sulla terra degli impoveriti. Cosa proverai a vedere le
nostre pance denutrite? O piene di vermi. O piene di rabbia.
Come dire « pane del cielo » a chi non ha pane? Neppure il pane.
« Non di solo pane... ». Gridatelo ai popoli obesi ed opulenti, consumisti
ed inquinatori, razzisti e sterminatori.
« Non temete coloro che uccidono il corpo... ». Avremo un’anima noi,
affamati della terra?
Pane alzato sul mondo, giudizio della storia. Amen.

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NOVA VIDA

Nova vida, 1.9.1986

Nova vida: Vita nuova. Ironia della sorte! Ho cercato qualche cosa di
nuovo in questo villaggio, ma non l’ho trovato.
Appena arrivato, Sonia, mezzo inorridita, mezzo rassegnata, mi racconta
l’ultima novità del villaggio: un uomo trovato morto con un pugnale nel petto. È
successo nel cabarè in fondo alla via senza uscita. La polizia è venuta solo per
togliere il coltello dal cuore della vittima, per requisire l’arma del delitto.
Nessuno sa chi sia, da dove venga il morto, niente. Si sa solo che era un pião
dell’impresa.
Nova vida è una manciata di case, in fila indiana, che ospitano tanta
miseria. Alle loro spalle corre il filo spinato della fazenda. Duecento-trecento
famiglie imprigionate tra il nastro d’asfalto ed i buoi di Zé Mineiro. Neppure lo
spazio per defecare. Ho dovuto aspettare l’imbrunire per passare sotto il filo
spinato e liberarmi dal mal di pancia dietro un ciuffo d’erba, imprecando contro
tutti i buoi del mondo.
Eppure una cosa nuova mi ha riservato questo villaggio dove le cose più
nuove sono le più vecchie del mondo: fame e malattia, analfabetismo e anemia. Il
31 agosto è la festa di São Raimundo Nonato. Raimundo mi ha invitato per la
processione del santo. Ha ricevuto una grazia ed ora deve « pagare la promessa ».
La processione si è snodata dalla sua casa con il quadro del santo in testa. Ho
tentato di mettere un pò di ordine, ma ho desistito subito. Impossibile! Mi sono
incolonnato dietro al gregge disordinato, pregando san Raimundo che non
succedesse un disastro. Tutti alla rinfusa, chi in mezzo alla strada, chi da un lato e

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chi dall’altro lato. Tra petardi e canti la confusione si è protratta per due ore.
L’immagine del popolo, come Cristo lo vedeva, prendeva corpo dentro di
me: « Misereor super turbam » (ho pena di questa moltitudine), perché è un
gregge senza pastore. Qualche bambino veniva travolto. La preoccupazione dei
più piccoli era di tenere accesa la candela, in pieno sole!
Ho passato due ore con il cuore in gola. Quando si è fatto buio, le candele
si erano consumate. E la mia resistenza pure. L’unico a trionfare era « il Santo »,
portato in alto dalla pietà popolare. Quando Dio volle, il mio incubo terminò. Di
nuovo davanti alla casa del signor Raimundo, il miracolato; e lì ho scoperto che la
cerimonia era solo nel suo mezzo. Doveva essere servita la cena per tutti, secondo
l’impegno assunto prima di ricevere la grazia. Ho mangiato insieme a Bernardo (i
piatti erano scarsi), ubriaco fradicio. Mi aveva tenuto per mano durante la
processione. Deve essersi rifugiato all’ombra del padre, per non prenderle. Dopo
la cena riprendeva il culto di ringraziamento con le litanie e la preghiera finale.
All’alba la processione dei miei pensieri non era ancora arrivata a
destinazione. Io so solo invocare litanie di cambiamento, di novità di vita. Il mio
santo è colui che aiuta il popolo a cambiare. Quel gregge disordinato mi è entrato
nell’anima ed ha fatto il terremoto. Un leader non cambierebbe nulla. I
capipopolo non fanno che rallentare il processo popolare. Quale modello offrire a
questo gregge senza pastore?
Questa gente ha bisogno di vedere una realtà popolare capace di
organizzarsi, di gestire la sua storia, di forgiare i suoi destini. Che cosa è una
massa senza coscienza e senza volontà popolari? Le caratteristiche della persona
umana (intelligenza e volontà) devono moltiplicarsi, esaltarsi nella massa. Ed
invece le realtà popolari sono ancora materia amorfa, materiale allo stato greggio.
La storia deve investire in questa direzione. Che nascano esperienze popolari; che
il popolo impari a costruire la sua storia.
Noi stiamo lavorando per favorire tutto ciò che aiuta il popolo a sentirsi
popolo. Quasi tutte le comunità sono impegnate in un « Progetto comunitario »:

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mercatino comunitario, lavoro in comune nei campi, orto ed allevamento in
comune, pozzo comunitario. Un tirocinio, una ginnastica della fraternità per
arrivare, un giorno, sulla soglia della novità, della società nuova che tutti
sognano. Con alti e bassi, in salita e discesa, ma sempre in cammino verso questo
traguardo: essere fratelli nell’uso delle cose, nella gestione comunitaria dei beni.
La più grande sfida della storia.
Anche il mio popolo, piccolo, analfabeta, sfruttato da secoli, zimbello dei
politici incomincia a coniugare i valori della fraternità sociale. Graças a Deus,
come dice il popolo ogni due parole.
Il tutto è incominciato durante la « Campagna della Fraternità » del 1985,
il cui tema era Pão para quem tem fome (pane per chi ha fame). Una domenica
abbiamo riunito le donne più bisognose della parrocchia. All’inizio nessuna di
loro voleva aprire il becco. Divise in gruppi dovevano discutere su questa
domanda: « Qual è la più grande sofferenza del tuo rione? ». Nella riunione
generale hanno messo in comune il loro dolore. Diverse non hanno resistito:
piangevano a dirotto. Si è creato un clima di solidarietà da poterlo toccare con le
mani. Non avevano mai sentito la propria voce in pubblico. Il mettere sullo stesso
piatto le loro lacrime aveva creato una specie di sintonia: essere poveri vuol dire
essere in tanti: « Non saremo mai soli a soffrire... ».
Qualcuno aveva avuto l’ispirazione di fare i conti sul pavimento con il
gesso: se una famiglia va a fare la spesa da sola spende tanto; ma se ci vanno in 10
a comprare all’ingrosso? E cento? Cosa si risparmia in una settimana, in un mese,
in un anno? Dopo un’infinità di dibattiti l’idea si è fatta chiara: l’unica maniera di
difendere il nostro potere di acquisto è costituire il « Mercatino Comunitario ».
Comprare all’ingrosso e rivendere tra le socie. Quel giorno ci è parso di toccare il
cielo con il dito. Si è costituita l’Associazione, le cariche, lo Statuto, le riunioni
periodiche. Un germoglio di organizzazione. E a me faceva l’effetto di un
miracolo.
Dopo qualche mese un passo avanti. Non è sufficiente consumare,

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bisogna produrre qualche cosa; ed è nata l’idea di passare al Mercatino di
produzione: orto, allevamenti di maiali e galline. Ogni giorno, a turno, due o più
socie lavorano insieme in queste iniziative.
Poi i mercatini si sono moltiplicati: uno in città e quattro nell’interno. La
scintilla ha dato luogo all’incendio: gruppi di contadini si sono organizzati in
piantagioni comunitarie, allevamenti comuni, casa per fare la farina di mandioca
gestita insieme ecc. Piccole cose, che per noi sono grandi, perché sono dei saggi
di solidarietà, pratiche concrete di fraternità. L’essenziale è fornire al popolo
esempi di organizzazione e di condivisione. Se i contadini cominciano ad
assaporare i frutti della solidarietà, da quei frutti nasceranno altri semi e dai semi
altri frutti. L’importante è innescare il processo a catena. E, per ora, ci pare di
essere sulla buona strada. Si aprono nuovi percorsi di speranza.

PROCESSIONE PER OTTENERE LA TERRA

Açailàndia, 15.9.1986

Stanchi e delusi di aspettare nei corridoi della promessa Riforma Agraria,


nelle interminabili sale d’attesa dell’INCRA, GETAT, MIRAD (organi
governativi deputati a risolvere i conflitti della terra), i contadini maragnensi
hanno deciso di bussare alla porta del cielo per scuotere almeno i santi. Un modo
nuovo per coinvolgerli nelle loro vicende terrene. Oggi si sono dati
appuntamento nel più famoso santuario della regione, Vargem Grande, ad un
centinaio di chilometri dalla capitale: « Il nostro signor São Raimundo Nonato,
lui ci darà retta... ».
Erano venuti dai villaggi più remoti con tutti i mezzi possibili: a piedi, a

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cavallo, in carrozzella, in camion, in autostop. Tutti con i loro arnesi di lavoro, la
cabassa piena d’acqua (una zucca vuota, che funge da bottiglia per portare
l’acqua nei campi), il cuore stracolmo di fede. Punto d’incontro: una cappella ad
una decina di chilometri dalla cittadina, nel dolce paesaggio delle palmeiras de
babaçù. Il sole scivolava lungo le braccia delle palme e Mons. Pedro Casaldàliga
benediva i pellegrini della prima Processione della terra ». Ogni diocesi,
parrocchia, gruppo era rappresentato da uno striscione: una frase biblica,
invocazioni sacre. La più ricorrente: Terra de Deus, terra de irmãos (Terra di
Dio, terra dei fratelli).
Circa diecimila persone hanno sfilato per più di tre ore, pregando e
cantando: « Dov’è la nostra terra, la terra promessa ai poveri di Dio? ». Una
fiumana eterogenea e variopinta. Uomini e donne di tutte le età. Volti bruciati dal
sole. Una marea di cappelli di paglia, il tipico copricapo dei contadini. Tutti uniti
in una marcia religiosa, affinché Dio «tocchi il cuore dei grandi » (aveva detto un
contadino).
Una marea umana trasportata da un sogno comune: la terra, che Dio ha
promesso al suo popolo. Un popolo in marcia come un’onda mossa dallo Spirito,
dal bisogno di vivere.
Non mi era mai successo di essere immerso in una manifestazione
religiosa di quelle dimensioni. La cornice del pellegrinaggio, l’atmosfera
creatasi, le orazioni, i canti, le invocazioni, tutto dava all’ambiente un soffio
sacrale. Con la stessa devozione i contadini portavano in trionfo i loro santi ed i
loro strumenti di lavoro: zappe, scuri, foices (falci) e cabasse. Il contadino nasce e
vive abbracciato al suo attrezzo. Vi si identifica. « Quante foices hai già
consumato in vita tua? ». E Lorival, le mani mangiate dai calli, comincia fare i
conti con le dita: « Dunque: una foice ben conservata dura da due a tre anni. La
terra mangia il ferro. Io ho 67 anni ed ho incominciato ad impugnarla quando ne
avevo sette ». Abbiamo fatto i conti insieme: deve aver fatto fuori una ventina di

74
foices.
Per noi occidentali è impossibile penetrare nelle vene di questa religiosità
popolare. Per questo popolo la terra è tutto, perché dire terra e dire cibo è la stessa
cosa. Sacri tutti e due. Non è il sudore umano che li consacra? Senza terra si
muore di fame. L’unico lavoro tramandato di padre in figlio è maneggiare la
zappa, la foice, la scure. Quando la secca si fa sentire nel Nordest, piccole
colonne di contadini si muovono per i campi, portando in processione le
immagini dei loro santi, le cabasse d’acqua e le loro speranze. Pregano, cantando
i benditus da chuva (canto litanico per chiedere la pioggia):
De segunda a tarde Maria chegou;
com um copinho d’àgua que Jesus mandou.
Chove, chove chuva para o lavrador.
(Lunedì pomeriggio Maria è arrivata con un bicchierino d’acqua, che
Gesù ha mandato; piove, piove la pioggia per il contadino.)
Nessuno prevedeva tanta gente. Questo dimostra quanto sia sentito il
problema « terra » e come costituisca un grande fenomeno religioso. Per i
contadini non c’è divisione tra cielo e terra, fede e politica, materiale e spirituale.
Vedono le cose come un tutt’uno, come erano all’inizio della creazione: « tutto
era molto buono ». Alla terra e al cibo sono! legate varie tradizioni popolari. Nel
Cearà nel giorno delle Ceneri i ragazzini bussano alla porta di « chi può » e
chiedono o jejun: chi digiuna dà ai poveri il cibo che non ha consumato. Altrove
il venerdì santo, prima del pasto, i genitori chiedono perdono ai figli ed i figli ai
genitori. Chi ha ricevuto una grazia speciale, nel giorno della festa del Santo deve
sdebitarsi, offrendo un buon pranzo a tutti i poveri del vicinato. Per tutto l’anno
viene ingrassato il «porco del santo », « l’anatra della santa », ecc.
Neppure nei grandi santuari d’Europa ho sentito quello che mi ha
trasmesso il santuario a cielo aperto di Vargem Grande. Un’esperienza mistica di
massa. Allo stato greggio, se si vuole, ma « made in Brazil ». Come essere portato

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sulle ali del popolo. Chi, che cosa riesce a calamitare diecimila persone in
condizioni tanto disagiate, sotto il sole cocente?
Nel primo pomeriggio i bar della cittadina avevano esaurito tutte le
bevande. Eppure il popolo insisteva, a piccoli gruppi, sparsi qua e là, pregando,
cantando. Forse questo popolo il santuario ce l’ha dentro il cuore. La devozione ai
suoi santi, « piccoli e perseguitati », ce l’ha innestata nell’anima fin dalla nascita.
Qui si nasce nella devozione a São Francisco das Chagas (delle stigmate), a São
Raimundo Nonato (patrono delle partorienti), a Padre Cicero (canonizzato dai
poveri), a São Isidoro (patrono dei contadini).
Il « padrino » della nostra processione era S ão Raimundo. La sua statua,
vestita di porpora, era il fulcro della marcia. Cosa passerà nella mente del
contadino quando guarda, estatico, il suo protettore? Raimundo era uno strano
commerciante: all’ epoca degli schiavi trafficava per riscattarli e rimetterli in
libertà. Si dice che la passione per l’uomo l’abbia spinto a vendere se stesso per
liberare uno schiavo.
All’ombra del santuario ho visto diversi contadini, in atteggiamento di
preghiera, la mano alzata, gli occhi incollati alla statua del santo, congedarsi da
lui mandandogli baci senza mai voltargli le spalle. L’ espressione del volto
incantata. Sono i momenti d’estasi dei pequeninos. Essi preferiscono i santi
umili, nascosti, poveri e perseguitati, perché assomigliano a loro.
Sull’abside del santuario la figura del Cristo Liberatore si librava su un
trono fatto di cielo, spezzando tra le mani un filo spinato (è il simbolo del
latifondo, della terra prigioniera nelle mani di pochi). Gocce di sangue sospese a
mezz’aria.
Durante la celebrazione in un’urna è stata depositata la terra inzuppata
del sangue degli ultimi caduti per la causa della terra. E la folla ripeteva, come un
tuono, i loro nomi: Padre Josimo... José Machado... Nonatinho... Margarida...
Una litania da spezzare il cuore. Mentre due contadini piantavano nel cortile del
santuario una pianta « a perpetua memoria », il popolo intonava l’Alba della

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libertà:
« Voglio intonare un canto nuovo di allegria al radiar di quel giorno, nel
quale metterò piede nella mia terra... ».
All’uscita veniva distribuito un sacchetto di sementi di riso, come ricordo
della « Prima Processione della terra ». Tutti se lo stringevano al petto come un
tesoro. Pochi semi, poche gocce di fede per seminare, ancora e sempre, la
speranza.

NOI SIAMO I VOSTRI SCHIAVI

Casa parrocchiale, 23.9.1986

Il toyota ha avuto un guasto e sono stato costretto al rientro. La desobriga


(adempimento dei precetti della chiesa) è in pieno svolgimento. Un giorno sì, un
giorno no sono alle prese con 30-40 battesimi, matrimoni, prime comunioni. Ed il
popolo continua a carregar a canga do cão (portare la croce, letteralmente:
portare il giogo del diavolo). La polizia è tornata ai sistemi più repressivi che la
storia del Maranhão ricordi. Entra in massa, armata fino ai denti, crudele.
Percuote chiunque, brucia i campi e le baracche con tutto quello che si trova
dentro. Nella fazenda « União » ottocento contadini avevano preparato nove
chilometri di campi per piantare alle prime piogge. Erano ben organizzati, ma il
governatore è amico intimo del presunto proprietario e li ha fatti buttar fuori
come cani.
Si arriva al punto di consigliare ai contadini di avere pazienza, di

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aspettare dopo le elezioni, per vedere che cosa succederà con il nuovo
governatore. Il rischio è di frustrare le speranze dei piccoli e di fare il gioco di
chi vuol creare una situazione di panico, per dissuadere i contadini dalle
occupazioni.
Uno di loro, disilluso, mi riferiva un detto che corre sulla bocca dei suoi
amici: tu crepa al mattino, che il mio turno è al pomeriggio.
Riguardo le misure economiche del governo si dice: il ricco si morde
dalla rabbia - perché non può più guadagnare come prima - ed il povero muore di
fame. La stragrande maggioranza vive rassegnata: “l’unica cosa da fare è
aggrapparsi a Dio, il quale ha tutto in sovrabbondanza”.
Qualcuno, più sveglio, denuncia la radice di ogni male nella divisione dei
poveri: il ricco ha i soldi. Compra la metà dei poveri ed ordina loro di uccidere
l’altra metà.
È passato di qua un avvocato di ritorno dal comizio elettorale. Mi diceva
costernato che, mentre parlava sul palco, la gente gli allungava dei bigliettini: «
Dottore siamo ancora schiavi » - « Metti fine a questa gente che ci governa».
Secondo lui il Brasile (come tutto il Terzo Mondo) è schiavo del
capitalismo selvaggio. « Per lo meno voi in Europa avete inventato un
capitalismo dal volto più umano; ma noi, qui, siamo i vostri schiavi. È evidente
che qualcuno deve pagare il prezzo del vostro benessere. Ieri lo pagavano i vostri
operai, oggi lo pagano i popoli del Terzo Mondo ». È arrivato a dire: « Se nei
prossimi due-tre anni la situazione non cambia, scoppierà la guerra civile. La
gente non ce la fa più. Incomincia a svegliarsi, a vedere le cose... ».
Ho le mie perplessità. Il sistema ha in mano tutti i mezzi per alienare il
popolo e per dirottare questa valanga di risentimenti e di rabbia, che il
malgoverno alimenta nel tino della miseria.
Le parole dell’avvocato mi hanno punto sul vivo: « Noi siamo i vostri
schiavi... ». Ci ho ruminato parecchio. Mi sono sentito chiamare in causa:
missionario vuol dire «inviato ». « Inviato da chi? » hanno il diritto di chiederci.

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Il sub-mondo degli schiavi, sgabello delle economie opulente, non può
non metterci in questione: quale missione? Come essere missionari, oggi? È
finita l’epoca del missionario con il cappello coloniale e il crocifisso sguainato,
sempre pronto a cacciare in paradiso i poveri negretti. Dopo aver salvato la loro
anima per secoli, oggi ci accorgiamo che hanno un corpo, identico a quello di
Cristo.
Il missionario che sbarca in un paese del Terzo Mondo è attaccato da una
sfida terribile: chi ti manda? Quale pratica religiosa rappresenti? Inviato da chi?
Da popoli fabbricanti di armi e magie consumistiche, commercianti di morte e di
prestiti a interessi impossibili. O il movimento missionario prende le distanze dal
sistema vigente, responsabile di tanti crocifissi; o prende un nuovo corso, oppure
fa il gioco dei crocifissori. O si ha il coraggio del Battista di denunciare i nuovi
faraoni o si rischia di essere insignificanti.
La missione deve riassumere il ruolo di denuncia e profezia. Educare
l’uomo alla mondialità. Formare l’uomo planetario.
Denuncia e profezia: non più a livello individuale, intimistico, ma
pubblico, collettivo. È come società che dobbiamo dichiararci. I dannati hanno
diritto di sapere da che parte stiamo: con loro o contro di loro?
Siamo ad una svolta decisiva: o rifondiamo la civiltà a partire dall’uomo
di Betlemme, quello di Nazaret, quello del Calvario, l’uomo di tutti, l’uomo che
appartiene a tutti, oppure avremo fatto il nostro tempo.
Un gruppo di Vescovi del Perù scrive in una lettera pastorale: « nel nostro
lavoro, spesso, ci chiediamo: come annunciare il Dio della vita a uomini e donne
che, per causa di varie forme di violenza storica e geografica, vivono in
situazione di emergenza permanente».

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I DANNATI DELL’ORO

Serra Pelada, 18.10.1986

Un’altra sirena che attrae il contadino stanco di sperare, è la Serra Pelada


(Montagna nuda). Ci sono stato per rendermi conto di persona. Otto ore di treno
(l’unico che esiste al nord), seduto per terra nel corridoio, in mezzo a facce di
contadini genuini, che corrono dietro al loro sogno. Scivola nella foresta la
«bisciona », portandosi in seno tante storie e un carico di speranza per chi viaggia
verso la terra dell’oro.
Che cosa è rimasto del leggendario « Eldorado » più famoso del Brasile,
la Serra Pelada? Un cratere, un pugno di disperati, molte leggende. Arrivi sul
posto e ti sembra di essere sull’orlo del Vesuvio. Una differenza: per formare
l’imbuto del vulcano ci sono voluti millenni; qui sono bastati pochi anni per
scavare, a mano, millimetro per millimetro, un buco enorme, il « buco dell’oro ».
Nelle ore di punta le talpe umane giungono a ventimila. Lavorano
contemporaneamente: scavano, insaccano, trasportano, triturano, setacciano.
Walter, vecchio lupo di mare, è un veterano del garimpo (luogo dove si scava in
cerca di oro). Analfabeta ed agricoltore, oggi coltiva sogni di pepite, parla di
scisti e falde freatiche: « Per ora ci accontentiamo delle briciole; quando
metteremo le mani sul filone centrale molti si ubriacheranno dal contare tanto
denaro. Qui si impara a sognare con l’oro».
Il garimpo ha prodotto una nuova specie umana; un mondo nel
sub-mondo di chi vive sopravvivendo. La sua storia risale agli inizi degli anni
Ottanta, quando la figlia di Zezinho, andando alla fonte, vide luccicare qualche
cosa tra le anse del torrente. In un batter d’occhio la fazenda di Genésio Ferreira
da Silva fu presa d’assalto. In aprile 500 garimpeiros rovistavano ogni centimetro

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di terreno. In maggio ce n’erano ventimila; nella stessa estate centomila. Nato
come « garimpo de Deus » (« perché si era tutti uniti, una grande famiglia, uno
aiutava l’altro »), si è trasformato in « Serra do martirio », per causa di furti ed
omicidi a catena. L’oro si è sporcato di sangue, di molto sangue.
Un ex-militare (Maggiore Curiò) mandato dal governo, ha tentato di
mettere ordine, istituendo un regime militaresco: alzabandiera quotidiano con
l’inno nazionale, la mano sul cuore; proibita ogni bevanda alcoolica; interdetto
l’accesso alle donne ed a chi non è munito di un documento speciale. Poi venne il
« Sindacato dos garimpeiros » e la Cooperativa. Il sindacato è tra i più forti ed
organizzati del paese. È riuscito a far recedere il decreto presidenziale, che
ordinava la fine del lavoro manuale (troppo pericoloso) e la consegna ad imprese
(ed interessi privati) per sfruttare il materiale con macchinari specializzati. Che
ne sarebbe stato di un milione di persone, che già cominciavano a sentire i
benefici del garimpo? E delle migliaia di contadini del Nordest, derubati delle
loro terre, cui non era rimasta altra speranza se non scavare, insaccare, triturare,
setacciare, « lavare » questo terriccio miracoloso per cavarci fuori un filo di
sopravvivenza? Erano gli anni ’83-’84, quelli della terribile siccità, che flagellava
uomini ed animali, prosciugava pozzi, disseccava gli ultimi semi di speranza di
milioni di abitanti. Da contadini disperati a garimpeiros, pronti a tutto pur di
sopravvivere, scesero in campo aperto e bloccarono l’unica arteria stradale, che
lega il nord al sud. Il decreto fu revocato.
La voce pacata del veterano continua a dipanare la matassa dei misteri: «
Non c’è nulla che tu possa immaginare, che si possa paragonare alla vita del
garimpo ». Gli altoparlanti della Central das comunicaçòes lo dicono a gran
voce: « Serra Pelada, Centro del mondo, paradiso dell’oro! Oggi, 18 ottobre
1986. Cielo sereno. Tutto il garimpo è accessibile ». Si lavora a tutto vapore in
vista delle piogge invernali.
Anche noi siamo sul campo di battaglia. Il formicaio umano, laggiù, è
all’opera dalle cinque del mattino. Un brusio da nido d’api in piena stagione. Il
fondo, le pareti, i sentieri del cratere, tutto è un brulichio di puntini neri, che
vanno e vengono, in doppie file, su e giù per le interminabili scale, ognuno col
suo carico prezioso. E, più ti avvicini, più metti a fuoco l’ immagine di questo
uomo. Qualcuno, dentro, andava ripetendomi: « Se questo è un uomo... se questo
è un uomo... ».
L’ho visto emergere dal buco, infangato fino ai capelli. Dorso nudo.
Sudore e fango mescolati. Il sacco delle illusioni grondante fango lungo le spalle.
Calzoni corti, scarpe da tennis. Quante storie di miseria intrecciate!

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« Qui trovi ogni classe sociale. Perfino un ex-sacerdote. Quel ragazzino lì
avrà 14 anni... Da noi ci sono tre tipi di uomini:
1)i proprietari del barranco (un terreno di sei metri quadrati assegnato
per sorteggio dal sindacato); attualmente sono circa diecimila;
2)os fornecedores: soci che forniscono cibo, materiale, manodopera, in
cambio di una percentuale sull’oro;
3)os saqueiros ou formigas: coloro che portano il sacco dal fondo del
buco e lavorano alla giornata. Il lavoro più ingrato e pericoloso. C’è chi
fa quaranta viaggi al giorno con 30-50 chili sulle spalle, in totale trenta
chilometri di percorso, metà in salita, metà in discesa. La paga è un tanto
al viaggio e varia, secondo il tipo di cascalho (materiale ricco o povero),
da tre a cinque cruzados (un chilo di riso costa 5 cruzados).
Per noi gli uomini si dividono in bamburrados (fortunati) e blefados
(beffati). Si raccontano storie tali sui fortunati, che è meglio non parlarne. C’è da
vergognarsi. L’oro fa perdere la testa. Macchine, aereo personale, alcool e donne.
L’uomo che si allontana da Dio, si perde. Un garimpeiro è capace di spendere, in
una notte, cento milioni di cruzeiros. Requisisce il cabarè e fa quello che vuole.
Ordina a quelle donne di svestirsi; le fa innaffiare di birra e poi ci fa appiccicare
banconote da centomila dalla testa ai piedi. Il gioco consiste nel prendere le
centomila con la bocca, le mani legate dietro la schiena. Chi non ha mai visto
tanto denaro ed arricchisce di colpo, diventa matto. Un Tizio che vendeva la
merenda sull’orlo del buco, guadagnò, di colpo, 480 chili di oro. Si è sentito male.
Il cuore quasi gli scoppia. L’han portato d’urgenza a Belém. Non ne parliamo dei
garimpeiros usciti di qui con la borsa piena di soldi e non sono mai arrivati a
casa... ».
Dappertutto si vede gente china su una pozza d’acqua, bateia alla mano
(piatto concavo di ferro): ci mette una manciata di materiale e la fa ruotare
aggiungendo acqua. Il fango se ne va e la polvere d’oro si deposita sul fondo,
perché è più pesante. Ufficialmente si sono estratti 31.500 chili di oro. « Tieni
presente, che siamo alle briciole, lo scolo. Quando metteremo le mani sul filone
principale, molti impazziranno. C’è già chi comincia a tremare ».
Gli intenditori dicono che il 50% dei proprietari, intasca 1’80% dell’oro
ricavato. A che prezzo? Tubercolosi, malaria, polmonite. « Il sistema contrattuale
di lavoro è illegale. Le formiche non hanno nessun diritto; senza libretto di
lavoro, senza previdenza sociale, senza contratto ». Eppure il contadino del
Nordest, senza terra, preferisce morire nel buco dell’oro, che in fondo al pozzo
della miseria nera della vita dei campi.

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Walter si accalora. Gli occhi neri gli luccicano. Parla quasi con fede: «
Duecento barrancos presto daranno da dieci a venti tonnellate di oro ciascuno.
L’oro ha le sue tracce: scisti bianchicci; si appoggia sul minerale più debole. C’è
un mistero in questo oro. Setacci, setacci e non finisce mai. Si appiccica perfino
alle suole delle scarpe... ». Molti, come lui, sognano ad occhi aperti. Lì sotto, il
brulichio continua a fermentare come il mosto nel tino: una fila va, una fila viene;
una sale, l’altra scende.
« l’oro non finisce mai ».
L’80% delle formiche sono ex-contadini del Maranhão. Espulsi dalle
loro terre, sono approdati su questa zattera di salvezza, come naufraghi. E la
tengono stretta a costo di morire, perché non hanno più nulla da perdere. Come è
successo la settimana scorsa. Un garimpeiro è stato fulminato, perché scavava in
un’area interdetta. Ne è nato un putiferio. La polizia armata di mitra, loro di
pietre, ha dovuto desistere per evitare un macello. In un giorno qui si guadagna
quello che si guadagnerebbe in un mese nei campi.
Sono arrivate intere famiglie: 63.000 persone. Una città da far-west.
Ore venti. Il buio nasconde anche il buco. Nella chiesetta («sempre aperta
per volontà dei garimpeiros ») fratel Abel intona il rosario. Il sangue dei morti è
ancora tiepido.
Su una parete è rimasto il ricordo innocente della festa del papà: un
disegno con « papà, tu vali più di tutto l’oro del mondo! ».
Walter porta a termine il suo commento: « Questa gente è stata troppo
illusa ed umiliata. Li hanno presi per il naso con una Riforma Agraria fantasma.
Han dato loro un pezzetto di terra dove neanche gli animali selvatici
sopravvivono. Ecco perché sabato scorso è scoppiata la loro collera incontenibile.
Bilancio? Due morti e la sede della polizia rasa al suolo. I poliziotti hanno dovuto
darsela a gambe in mutande per non essere riconosciuti, altrimenti li avrebbero
linciati. Il tutto è durato due ore. Poi, tutto normale.
Questa gente non la ferma più nessuno. Va fino in fondo, anche quando
vuol dire morire. Dopo tutto che differenza fa morire di fame o con una pallottola
nella testa? ».
Jaime (14 anni, figlio del garimpeiro Zequinha) mi ha accompagnato
nella cava di suo padre (tutto attorno alla Serra Pelada è un pullulare di «
garimpos » minori come tanti gironi dello stesso inferno). Cammin facendo: «
Padre, presso il filo spinato di quella fazenda è stata trucidata una donna incinta ».
E, poco più avanti: « Vede quella croce? Lì hanno tagliato la gola ad uno

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sconosciuto. Ci sono dei fazendeiros, che si credono i padroni del mondo ». Jaime
non sa spiegare queste cose, ma ci vive dentro. La sua vicina di casa è stata
violentata da un ladro, coltello alla gola. Sua madre, l’altro giorno, mi ha
mostrato un tubetto pieno di polvere d’oro. Quando va a venderlo mette il vestito
peggiore per non dare nell’ occhio. Ciò che mi ha impressionato è che Jaime
raccontava quelle cose con naturalezza, senza ombra di tremito nella voce. Come
vedrà l’umanità?
Quando siamo arrivati nella cava ho visto un’altra faccia dell’inferno
dell’oro: i garimpeiros passano la giornata immersi nel fango. Pantaloncini,
cappellaccio, nella melma fino alla vita. L’acqua viene soffiata con tale
pressione, da trasformare il terriccio in fango, che la pompa manda in un bidone,
dal quale travasa e scende lungo una scala con dei setacci rudimentali. La polvere
d’oro, essendo più pesante, si deposita sul fondo.
Raimundo, 18 anni, i lineamenti infantili, ha già trasformato molta terra
in fango. Fino a ieri coltivava i campi degli altri. Il bisogno l’ha conficcato in
questo fango come un verme. Perfino Jaime preferisce lavorare come i vermi.
Suo padre gli ha trovato un posto in officina, che gli frutta 50 cruzados la
settimana, L’altro giorno ripassando il materiale già scartato, in un’ora ha tirato
insieme mezzo grammo di polvere d’oro. Come si libererà da una prospettiva
tanto promettente? Farà come suo padre: metterà insieme un gruzzolo e comprerà
delle pompe per far lavorare gli altri. Il sub-mondo è pieno di schiavi che
aspettano un padrone.
E nei seminari si parla di Mosè e di faraoni come se fosse una favola.
Quale terra promessa per i popoli del terzo mondo? Le baracche dei garimpeiros
sono di frasche proprio come quelle degli ebrei, millenni orsono. Le condizioni di
vita e di lavoro sono ancora le stesse. Che cosa ha da dire la civiltà del primo
mondo a tutti i Jaime, che vivono nella melma e che raccontano storie di gestanti
sventrate e di sconosciuti sgozzati, con la maggior naturalezza di questo mondo?
Chi li forza a vivere come vermi?
Il bisogno, nel caso di Raimundo, l’avidità, nel caso di Jaime.
Oggi chi non predica la legittima difesa dei poveri rischia di diventare
complice di un sistema violento, che impone ai miseri di crepare di denutrizione e
di vivere nella melma come vermi.

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LA LEZIONE DELL’UBRIACO

Açailandia, 6.11.1986

Aveva ragione quell’amico che mi diceva: « Non è facile scrivere a chi


vive sulla croce ». Mi trovo nella stessa situazione: che dire a coloro che sulla
croce ci stanno da mattina a sera? Quale consiglio dare? Dove trovare le parole di
consolazione per chi vive anestetizzato dal dolore?
L’ultima volta mi è capitato nella casa di José. Deve avere più di 60 anni
ed è alle prese con la morte dell’ultimogenito. È venuto a chiamarmi a
mezzanotte ed era ubriaco fradicio. Non si reggeva in piedi. Ci sono andato solo
per togliermelo dai piedi.
La moglie sembrava svanita. Non so se per il dolore o per il sonno perso o
per la stanchezza di sperare invano. Il neonato (di sette mesi e, per di più,
gemello) non si decideva né per la vita né per la morte. Le manine tanto esili da
sembrare quelle di una bambola; bianco da far paura; la boccuccia perennemente
aperta; gli occhi socchiusi; le braccine alzate come chi chiede pietà. Una scena da
spezzare il cuore.
E José: « Padre, non è meglio affidarlo a Dio? Io non ho soldi. Non posso
portarlo all’ospedale. E poi, a che servirebbe? Posso pretendere dal dottore che
dia la vita a mio figlio? A questo punto, chi può fare qualche cosa per lui? Solo
Dio... solo Dio... ». Nel tono di voce non c’era né rabbia né disperazione. «
Portarlo dal dottore adesso, sarebbe come pretendere da lui un miracolo: che
restituisca la vita a mio figlio ». Da un ubriaco non mi sarei mai aspettato parole
così sagge. Così sagge qui, nel Terzo Mondo, dentro alla casina di fabgo del papà
ubriaco, convinto che solo Dio può fare di questi miracoli, solo a Lui si devono
chiedere di queste cose, non al medico.
Che cosa potevo dire a José, a questo ad alla moltitudine di José che si
dibattono nello stesso dilemma? Che, secondo la morale cattolica, bisogna fare
tutto quello che ci è moralmente possibile per prolungare la vita dei nostri cari?
Citargli il magistero, le encicliche? Per lui è così evidente che, pretendere la vita
dal dottore, sarebbe un imperdonabile affronto all’autore della vita. In quel
momento mi è parso blasfemo pensare il contrario. L’ubriaco mi dava

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l’impressione di essere lucidissimo.
Per la prima, volta in vita mia ho pensato cose atroci. E ne ho avuto
paura. Varrà la pena fare una lettera di raccomandazione per il dottor Walter?
Non sarà meglio riservare questa cartuccia per un altro bambino, che abbia più
probabilità di sopravvivere?
Poi me ne sono vergognato: chi mi dà il potere di decidere se questo o
quel bambino deve vivere? I popoli del primo mondo non stanno decidendo della
sorte dei popoli del Terzo Mondo? Non è nelle loro mani la loro sopravvivenza?
Per un momento ho assaporato l’orrore di sentirmi il primo mondo, che decideva
della vita o della morte di un uomo, di un popolo (in fondo, che cosa cambia?).
Per questo sono stato riconoscente a José quando mi ha tolto dall’imbarazzo: «
Padre: non me la sento, non posso chiedere al dottore quello che è competenza di
Dio soltanto! ».
Ma, per tacitare la coscienza, sono sceso ad un compromesso: « Senti,
José, facciamo così: se tra due-tre giorni il bimbo si riprende, allora tu vai dal mio
medico con questo biglietto. D’accordo? ». Non poteva non essere d’accordo,
perché il poveraccio è sempre d’accordo con chi è più forte di lui. Quale
compromesso potranno inventare i popoli del primo mondo per mettere in pace la
loro coscienza?

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I FORNI BRUCIANO ANCORA

Açailàndia, 17.11.1986

Nel villaggio ho ritrovato Severino. Scombussolato. Gli è morta la


moglie: 36 anni, sette figli. Li ha sistemati presso i nonni. Con lui è rimasta la
molinha di 15 giorni. Abbattuto, non disperato. Ma lo sguardo è profondamente
triste. I due giorni dopo la morte li ha passati in trance con l’aiuto dell’alcool.
Dice che ha una sola scelta: « Andrò a perdermi nel mondo. Dove capita. Adesso
la mia casa è il mondo ». Lo diceva senza rancore contro la vita. Come chi si è
arreso dopo un lungo corpo a corpo.
Donna Bia dava la sua versione: « Era incinta. Ha parlato fino all’ultimo
momento. Gialla da far paura. Quando è arrivato il momento delle doglie è
entrata in coma e non è più tornata indietro ».

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Luiza le chiede: « Emorragia? ». « Quale emorragia se non aveva
neppure una goccia di sangue? Il sangue che le era rimasto l’aveva dato alla sua
creatura. È morta adagio adagio, di anemia, in silenzio. Non si lamentava mai... ».
Sul volto dei vicini si legge l’incertezza: morta o uccisa? Uccisa
dall’incuria, dall’omissione, dalla mancanza di soccorso. O dall’ignavia di tutti?
Me la ricordo benissimo donna Naide. L’ultima volta che mi sono
fermato nella sua casa non sapeva più che cosa fare per rendere gradevole la mia
permanenza. Ho dormito nella cucina, vicino al carbone. La casa era piena di
braccianti stagionali, che stavano battendo il riso. Ed io feci per andarmene in
cerca di un’altra sistemazione. « Non mi faccia questa offesa, Padre. La nostra
casa è povera, ma è come il cuore di una mamma».
Che cosa ricorderò di lei? La capacità di soffrire senza gemere. Le
vittime si assomigliano tutte su questo punto: il silenzio. Vivono in punta di piedi.
Escono di scena senza farsi sentire. Continuano a morire, le vittime. Qualcuno le
spinge nei forni della soluzione finale, che bruciano ancora.
Che cosa è cambiato dai tempi di Hitler? Il suo idolo era la razza ariana, il
nostro il modello di vita occidentale, con la sua cultura bellicista, la sua economia
imperialista, la sua religione « omogeneizzata ». Siamo razzisti e non lo
ammettiamo. Riteniamo che la razza del primo mondo abbia il diritto di dirigere
la storia, pilotare il progresso, ridurre i popoli del sud ad economie di servizio,
manodopera a sotto costo. L’olocausto dei miserabili adotta gas sopraffini per
eseguire il suo compito. Ci fa credere che tutto è secondo la legge, le regole del
gioco: libera concorrenza, più produci, più guadagni, libero mercato, dogma della
proprietà privata, il più forte ha diritto di mangiarsi il più debole. Dopotutto se è
lecito ad un uomo sfruttare un altro uomo, ridurlo ad un fattore di produzione,
perché non deve valere anche tra popolo e popolo?
Forse l’occidente è il più genuino erede della teoria del super-uomo, del
super-popolo. Le patrie dei denutriti non sono esenti da responsabilità. Ma le
proporzioni della tragedia non sono possibili senza il concorso delle altre nazioni.

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TEMPO DI GRAZIE SPECIALI

Açailàndia, 27.11.1986

Non posso non spendere una parola sulle elezioni del 15 novembre. Tutti
dicono che il Brasile non sarà più quello di prima. Le urne hanno rivelato cose
inattese. In Pernambuco è stato eletto governatore quello stesso Miguel Arràes,
che negli anni sessanta i militari avevano strappato a viva forza dal palazzo del
governo. Oggi ci torna sulle spalle del popolo.
Nel Maranhão invece succedono cose incredibili. Per avere una idea: lo
spoglio delle urne non è ancora finito. Ci vorranno altri dieci giorni. Nonostante i
computers. Più di metà dei voti, in bianco o nulli. L’analfabeta è proprio un sotto-
cittadino, perché non sa neppure votare. E, quando saprebbe, è preso per il naso.
Nella nostra città Petronio (ribattezzato dal popolino « Petroboi», cioè «
Pietro-bue », perché è il candidato dei fazendeiros) ha vinto con l’aiuto di 3.000
analfabeti. Una truffa legale. Con la connivenza di scrutatori senza scrupolo ha
fatto in modo che, chi non sapeva leggere, ricevesse una scheda elettorale già
compilata con il suo nome. Tre giorni prima delle elezioni è proibita ogni forma
di propaganda. Petro-boi lanciava l’ultima offensiva: 600 ragazze battezzate «
petronette », setacciavano la città distribuendo la sua propaganda elettorale ed
una maglietta bianca con il suo numero di candidato.
Siamo di fronte al peso di una storia di schiavitù e di dipendenza. Da
sempre il politico è il « Deus ex maquina », che risolve i problemi dei suoi
elettori. Il popolo attende le elezioni come « un tempo di grazie speciali », una
specie di anno sabbatico.
L’ho visto con i miei occhi: tutte le mattine davanti alla casa di Petro-boi
c’era una fila di clienti. E la fila si allungava man mano che si avvicinava il giorno
delle elezioni. Tutti sanno che è dalla parte dei potenti. Ha profuso soldi a fiumi,
dice il popolo, per la propaganda. La sua famiglia capeggia la UDR del luogo.
Due settimane fa ha chiamato la polizia per buttar fuori dei poveracci che
avevano occupato un terreno « ozioso » nella periferia della città. Eppure le urne

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lo dichiarano già vincitore. Chi ha vinto? La corruzione ed il raggiro. O, se si
vuole, una storia secolare di dipendenza.
Durante l’incontro della CPT un economista diceva, senza patemi
d’animo, che il Plano cruzado ha un solo obiettivo: far passare trenta milioni di
brasiliani dalla miseria assoluta a quella relativa. Il giorno dopo, Ciriaco, quasi
con le lacrime agli occhi, mi diceva: « Padre, facciamo qualche cosa insieme. La
Chiesa è una forza. Là in casa non si sente l’odore della carne da alcune settimane
». E lui, presidente del Sindacato rurale, non abita nell’ultimo gradino della
miseria assoluta. C’è gente che rimpiange il tempo dei militari e le cipolle
d’Egitto: « Meglio schiavi a pancia piena, che liberi a pancia vuota ».
Il governo ha congelato i prezzi (non la miseria, dicono le malelingue) e
gli imprenditori si vendicano con la rarefazione dei prodotti di prima necessità.
Gli scaffali dei supermercati sono quasi vuoti. Non si trova da mangiare. Il
braccio di ferro quanto durerà?
Secondo alcuni economisti il congelamento dei prezzi ha innalzato il
potere acquisitivo della classe di basso reddito; la domanda del mercato è
aumentata, ma il parco industriale non è in grado di far fronte alla richiesta.
Per me ha ragione Eduardo, il quale ha fatto una inchiesta tra diversi
amici allevatori di galline ed ha concluso: « Non vale più la pena allevare; il
margine di guadagno è troppo piccolo ». Conclusione: non si trova più un pollo
per mangiare, un pulcino da allevare.
La settimana scorsa la Luiza ha fatto il giro della città e non ha trovato un
uovo per dare da mangiare a degli ospiti inattesi.

NON È PER CASO

Açailàndia, 17.2.1987

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Una suora che vive nella favela mi diceva: « Padre, io sono infermiera
diplomata, e non capisco come fanno a non morire tanti bambini che, pratica-
mente, vivono nella fogna. Non esiste una spiegazione razionale. Sono denutriti,
anemici, pieni di vermi. Deve essere un miracolo... ».
I poveri sono il miracolo del mondo. Questo popolo che vive di briciole,
di gocce di vita è un miracolo continuo. L’ho visto la settimana passata nella
Capoema. Siamo andati senza speranza ed il popolo ha fatto il miracolo di
infonderci fiumi di speranza.
Il viaggio è stato estenuante. Abbiamo attraversato un acquitrino lungo
un chilometro su dei tronchi malmessi. Non so quante volte sono scivolato nella
melma. Non è per la melma, ma per paura di serpenti o altri animali. Un Tizio ci
ha detto che in un giorno ha ucciso sei serpenti. La Luiza era terrorizzata. Ho
perso qualche chilo. La diarrea mi ha attaccato di nuovo. Ma non ti dico la gioia
di attraversare chilometri e chilometri di riso e granoturco, proprio su questa
terra, che fino ad ieri era un latifondo improduttivo!
José Vaqueiro non stava nella pelle, mentre mi mostrava il riso
biondeggiante attorno casa. Si può dire che la sua capanna sbuca, nasce dal riso.
Ha voluto portarmi fino in fondo alla piantagione. Passando vicino al riso lo
sfiorava con la mano quasi accarezzandolo. Per lui il miracolo è lì, in questo mare
dorato di riso, lì dove l’anno scorso c’era foresta pura. Il sudore suo e dei figli è
stato premiato. Una sola venatura di tristezza: « Padre, adesso che abbiamo tanto
abbondanza di riso, granoturco, mandioca non ho il becco di un quattrino per
allevare un maialino ».
Mentre ceniamo, stipuliamo un accordo: « Io ti dò i soldi per comprare il
maialino e tu lo allevi a mezzo. Ti sta bene?». L’ho fatto per non umiliarlo. In
sostanza gli ho fornito un mezzo di produzione e divideremo la produzione a
metà. Il che ritengo molto difficile, perché se si ammalerà uno dei 13 figli, Zé sarà
costretto a vendere l’unica ricchezza che ha in casa: il maiale del Padre!
È difficile aiutare i poveri. Anche per chi ce la mette tutta per non far
pesare la sua storia e la sua cultura. La settimana scorsa, dalla sera al mattino, è
aumentato tutto del venti per cento. Ed il contadino non ha più niente da vendere,
perché il riso l’ha già venduto per pagare i debiti dell’anno scorso.
Come far capire agli occidentali che tutto quello che succede nel Terzo
Mondo non è per caso, non è frutto del destino o della malasorte, ma è il prodotto
di cause ben precise? Che cosa costano le materie prime che si usano nel primo

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mondo? Caffè, soia, zucchero, alluminio, ferro, rame ecc., sono il frutto della
miseria di masse intere di poveracci.
È ora di mobilitarsi. Rifiutare di essere partecipi di questo crimine
internazionale istituzionalizzato. Ci vogliono dei movimenti popolari che, dal
basso, comincino a far pressione sui governi affinché si smetta di « usare » i
popoli della periferia del mondo come cavie, come economie di servizio.
André mi racconta cose incredibili: nella regione canaviera (della canna
da zucchero) lo stato di miseria è ancora peggiore. E a me pare che peggio di così
ci sia solo l’inferno... Un amico venuto da São Paulo mi ha rivelato che nelle
favelas tutto è in affitto. I poveri hanno inventato nuove forme di sopravvivenza,
nuovi modi per ingannare la morte: chi lavora di giorno occupa la casa di notte e
paga per 12 ore; chi lavora di notte paga l’affitto per le altre 12 ore. Nell’affitto è
incluso tutto: l’uso del letto, delle stoviglie, del frigorifero, del vaso da notte.
Tutto è in affitto. Anche il corpo delle ragazzine che, per non morire di fame, si
avviano alla prostituzione in giovane età.
Orlando mi raccontava di aver passato tre giorni senza mangiare. « Che
cosa hai provato? ». - « Ho chiesto a Gesù la grazia di morire ». E Lucia, con
innocente stupore, che chiedeva: « Perché è solo il figlio del povero che si
ammala e crepa? 11 figlio del ricco non muore. Ho avuto dieci figli: sei sono
morti da piccoli. Dio se li è portati via, perché sapeva quello che avrebbero patito
da grandi ».
Forse le chiese conoscono solo i poveri del sistema occidentale, le
vittime di casa, diciamo. Conosciamo la carità a livello di singoli o di gruppi di
bisognosi: alcolizzati, ex-carcerati, sfortunati o traditi dalla sorte. Ma qui si tratta
di migliaia, di milioni di persone condannate, per legge, a vivere di stenti.
Neppure la crocifissione di Cristo, per noi, è tanto raccapricciante (mi perdoni!)
quanto la crocifissione dei condannati della terra, perché là era uno, qui sono
masse intere.
Nel passato i Don Bosco, i Cottolengo, le Madri Terese ecc. hanno saputo
curare le piaghe dell’umanità; ma oggi, davanti a questo cancro sociale, né la
buona volontà né l’iniziativa dei santi né le mezze soluzioni assistenzialiste dello
stato sono una risposta adeguata alle proporzioni del male internazionale. La
SEAC (Segreteria di Azione Comunitaria, ente governativo) sta facendo quello
che faceva la Chiesa: investe una fortuna per ogni tipo di lavoro comunitario a
livello di organizzazione popolare, associazione di rione (bairro), « club delle

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mamme », società senza scopo di lucro ecc.; lo fa con il nostro disinteresse, per
un vero amore all’uomo? No! È una nuova forma, aggiornata ed elegante, per
comprare l’anima (ed il voto) dei miserabili. L’importante è che rimangano
miserabili, altrimenti il potere economico-politico sarebbe compromesso.
Bisogna avere il coraggio di dirlo: se le chiese rimarranno chiuse nei
confini di una mentalità occidentalista, non potranno mai capire il mondo degli
oppressi. Se non si immergeranno nelle loro piaghe, svuotandosi di sé; se non
accoglieranno la loro profezia, liberandosi dei propri schemi assistenzialisti; se
non scenderanno dal piedestallo delle loro teologie e culture autosufficienti, non
solo saranno cieche davanti alle vittime, ma continueranno a fornire ai carnefici il
loro appoggio politico e religioso.
Come avranno la forza di denunciare i popoli-benefattori, che offrono
con una mano doni (« gift of the people of U. S.A. ») e con l’altra armi micidiali?
Perché non ci hanno insegnato che i nemici dell’uomo sono coloro che lo
uccidono in massa con le leggi economiche e finanziarie, con i regimi di miseria,
con la violenza di stato? Che cosa si è detto e che cosa si è omesso di dire per far
sì che i popoli dominati, i vinti ed i soggiogati da un sistema di morte,
accettassero supinamente, in santa rassegnazione, la loro condizione di
non-uomini?
Dom Aloisio Lorscheider (arcivescovo di Fortaleza, capitale della
siccità), ha dichiarato: « Dal 1979 al 1983 abbiamo avuto la siccità; poi due anni
con una pioggia tale che la produzione è andata alla malora. Nel 1986 poca
pioggia. Nel 1987 altra siccità. La struttura stessa dell’agricoltura del Cearà è
stata distrutta, martirizzata dalla secca e dalle inondazioni. Il governo risponde
con il fronte di emergenza (dà un salario minimo alle famiglie iscritte). Ma le
finanze dello stato sono in fallimento. Il problema fondamentale del Nordest è di
tipo politico. Il nordestino non è fannullone, ma sotto-alimentato ».

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CONQUISTE E SCONFITTE IN UMANITÀ

Rio Ipanema, 5.8.1987

Le notizie circa i miracoli della bio-genetica, le ricerche e gli esperimenti


di laboratorio per creare super-uomini, mi hanno raggiunto nella foresta. Ho
viaggiato dalle tre del mattino fino all’una del pomeriggio: otto ore col toyota e
due a cavallo. Per arrivare in un villaggio appeso ad un filo d’acqua, Rio
Ipanema, dove vivono sopravvivendo, una ventina di famiglie.
D’inverno non si circola. Prigionieri della foresta. Isolati, per sei mesi,
dal resto del mondo. A 123 chilometri dalla farmacia, dal dottore, dal mercato,
dalla posta ecc. A quanti chilometri da un minimo di decenza umana per non
essere schiavi del bisogno primario?
Ecco il più grosso conflitto che viviamo da queste parti: i paesi ricchi si
trastullano a passare l’uomo nelle provette di laboratorio e noi, gli schiavi del sud,
siamo condannati a « passare attraverso la vita ». Si pretende di migliorare la

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razza umana, potenziandone, con protesi elettroniche, l’udito, la vista, la
memoria; creare nuove facoltà: leggere il futuro, il pensiero degli altri, parlare
con i trapassati. Tecnologia, biochimica, genetica miniaturizzata: quanti alleati in
un’avventura sovrumana per carpire, ancora una volta, il segreto dell’albero della
vita!
Mentre i manipolatori dell’uomo in camice bianco fanno le loro
conquiste, nei sotterranei della storia registriamo nuove sconfitte in umanità:
entro l’anno duemila avremo un miliardo e trecento milioni di sottoalimentati; 50
milioni di persone - di cui 20 milioni di bambini - muoiono ogni anno per fame; il
30% della popolazione mondiale consuma 1’87,5 per cento di tutte le risorse
della terra.
A che ci servirà una razza umana più intuitiva, con nuove facoltà
sensoriali e parapsichiche, capace di ragionare ed elaborare dati come un cervello
elettronico, se non siamo ancora in grado di salvare l’uomo dalla schiavitù della
denutrizione, dalla morte per diarrea, verminosi, morbillo?
È arrivato il momento di filtrare, nei laboratori della coscienza
occidentale, dati e fatti fino a qualche decennio fa sconosciuti; alimentare i nostri
calcolatori con i nuovi dati della miseria istituzionalizzata. Analizzare,
radiografare la genetica, l’eziologia di quella razza umana condannata ad «
uccidere i figli di fame ».
Il sentiero nella foresta è come una biscia. Sapori ed odori intensissimi.
Mondo incontaminato. Ieri il vento ha mietuto tante vittime tra gli alberi secolari
della foresta. Stanchi di vivere. Ed i bambini nordestini muoiono senza sapere
cos’è la vita. I muli arrancano lungo il sentiero della Serra Azul (Montagna
Azzurra). Ed io mi aggrappo a qualche ragione per sopravvivere. Dov’è l’uomo?
Quale uomo? Quanti pericoli sul sentiero della foresta e sul cammino
dell’umanità! Un giaguaro ha appena attraversato il nostro sentiero. Tanto veloce,

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che solo i miei accompagnatori l’hanno visto.
Nella scalata della « Serra Azul » guardo avanti, aggrappato alla criniera
del mulo: una barriera di verde filtra l’azzurro attraverso le chiome degli ipé, dei
massaranduba, delle sapucaie, dei jatobà.
La marcia nel « sub-mondo » continua. Montagne di non-uomini ci
sbarrano il passo. Già Isaia parlava di razze umane dal cuore di pietra, di volti
induriti come il sasso e di «servi di Jahvé » condannati a vivere per soffrire. E poi
invocava nuove razze, capaci di trasformare spade in aratri, armi in pane.
Isaia è qui, a milioni, a profetizzare meglio di un computer. Il culto
dell’uomo, della sua dignità, della sua libertà, della sua salute, della sua igiene
morale. Con le liturgie della giustizia e della pace. L’uomo senza aggettivi.
L’uomo come è nato nella Serra Azul.
Nel villaggio osservavo i gesti, gli usi e costumi, il modo di porgere e di
camminare di questa umanità. Non ha nulla a che fare con quella occidentale.
Ricordo le donne indigene, che ho fotografato a Montes Altos. Seminude. Ma in
loro non c’è traccia di lussuria, quella lussuria che abbonda sulle copertine
patinate dei rotocalchi occidentali. La stessa persona umana: una provocante,
l’altra trasparente. L’eleganza delle loro danze. Dignità senza confronti. Valori e
capolavori di umanità nascosti nello scrigno della foresta. E gli indios a caccia,
nella selva: la loro simbiosi con la vita della foresta. I loro canti neniosi e
melanconici parlano solo di cervi, di luna, di fiumi puliti, di alberi buoni.
Nostalgie di umanità. Gli indios, in Brasile, erano 5 milioni ed oggi sono ridotti a
duecentomila, relegati (o reclusi) nelle riserve indigene per il pericolo della ci-
viltà dei bianchi.
Celebriamo insieme la vita del villaggio: i nuovi nati, l’amore dei giovani
sigillato sull’altare. Liturgie senza fronzoli, senza incensi. Tutto è ridotto

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all’essenziale: come il vestito; come la casa; come il cibo, riso e fagioli.
Celebriamo l’uomo, presso il falò, sotto le stelle. Per sentirsi più buoni, più
uomini.
Nel viaggio di ritorno, da solo, sul sentiero del giaguaro, ho avuto paura.
Paura davanti alla natura, alla storia, alla civiltà occidentale, che si cerca e non si
trova, che non vuol perdere il suo potere per ritrovarsi. Morire per rinascere.
Come il chicco di riso. Come la foresta. Come la pioggia.

PAGARE LA PROPRIA MORTE

Casa parrocchiale, 1.9.1987

Ho scoperto che c’è una preoccupazione costante nei poveri:non


vogliono crear problemi per i loro cari al momento del trapasso. Ho incontrato la
Domingas nella funeraria (negozio per le casse da morto). « Cosa fai qui? È
morto qualcuno? » - « No. Sono venuta a pagare la cassa da morto per me, per
mio marito, per i figli ». Ed è andata avanti mezz’ora a spiegarmi quello che io
non riuscivo a capire: « Noi poveri siamo diversi dagli altri. Quando moriamo,
per i nostri familiari è il più grande problema, perché non hanno la possibilità di
racimolare, su due piedi, i soldi per il funerale. Così paghiamo a rate ». E mi
mostrava il blocchetto delle rate già pagate e da pagare: venti cruzados al mese.
Ed era raggiante, perché era alla penultima rata.
Le contraddizioni della vita dei poveri: non riescono a pagare la vita che
vivono, sono costretti a pagare la morte. Per Domingas e per tutti gli altri è una
cosa normale.
Donna Amélia mi raccontava che era stata a visitare una malata. Sta per

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morire. Tubercolosi. Ridotta a niente. Ma vuole morire con una camicia bianca a
maniche lunghe. Superfluo voler sapere il perché. Le ho dato due tovaglie
vecchie dell’altare. Serviranno per coprire un altro altare, un altro Calvario.
Con lei c’è una nipotina che ha già imparato a tossire tutto il giorno. E
Amélia: « Ho paura che ha preso la malattia anche lei. Ma chi ha il coraggio di
toglierle, adesso, la piccolina? Le restano pochi giorni... E la nipotina è l’unica
cosa che le è rimasta di questa vita ».
È vero, anche la ragione ha i suoi limiti: toglierle la bambina non sarebbe
ucciderla anzitempo?
I poveri non hanno la nostra cultura intellettuale, ma il loro patrimonio di
valori è molto più ricco del nostro. La miseria crea una rete tale di solidarietà, di
aiuto reciproco, che ti lascia a bocca aperta. Sono gli stratagemmi o i miracoli dei
poveri. La ricchezza, le cose sembrano allontanare gli uomini gli uni dagli altri; la
povertà li cucisce insieme per forza di gravità. L’abbondanza delle cose (nel
primo mondo) non ci fa sentire il bisogno degli altri; nel terzo mondo la scarsezza
dei beni fa valorizzare ed impreziosisce i rapporti umani. Chi ha bisogno esce di
casa, chiede in prestito, allaccia relazioni di amicizia e solidarietà con i vicini. È
per questo che i poveri non hanno bisogno di psichiatra, di psicologo e di terapia
di gruppo.

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IL SOGNO DEI GRANDI

Casa parrocchiale, 10.9.1987

Il 4 settembre il presidente ha annunciato che i tecnici dell’ istituto di


ricerche nucleari di São Paulo hanno messo a punto il processo di arricchimento
di uranio.
Il Ministro della scienza - Renato Archer - è corso ai ripari:
«L’utilizzazione sarà esclusivamente pacifica. Servirà per produrre energia
elettrica di origine nucleare ».
Il Brasile ha firmato il trattato di Tlatelolco con il quale i paesi firmatari
si impegnano a non usare le armi nucleari. Le denuclearizzazione dell’Atlantico
meridionale è stipulata. Ma, entro l’anno prossimo, l’impianto pilota di Ipero
(São Paulo) sarà in grado di produrre uranio arricchito. Per farne che cosa dal
momento che i reattori di Angra dos Reis sono inoperanti e quelli messi in
cantiere da alcuni anni sono stati bloccati per i loro costi esorbitanti?
La stampa nazionale non parla ancora di bomba atomica, ma solleva dei
dubbi sulla segretezza che circonda il programma nucleare.
Il giornale A foiba di São Paulo rivela che la Commissione nazionale
dell’energia nucleare usa dei conti bancari in codice per un giro di affari
internazionali che si aggira sulle centinaia di milioni di dollari. I piccoli sognano
un piatto di riso e fagioli quotidiani ed i grandi sognano la bomba atomica.

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LE NOZZE DI UN MORTO

Casa parrocchiale, 17.9.1987

Luis ha un cancro nella spina dorsale. Dezuita, la moglie, ha delle borse


scure sotto gli occhi, a furia di piangere. Una sua amica, con discrezione, mi ha
riferito il caso pietoso: « Padre, bisogna celebrare il loro matrimonio, altrimenti
non potrà ricevere neppure la pensione. Con sette figli... ».
Dopo la Messa siamo andati nella baracca di Luis, ai margini del
villaggio. L’ho trovato raggomitolato nell’amaca. Già cieco. Dezuita si è
preparata alle nozze con il vestito di tutti i giorni. Non riusciva a trattenere i
singhiozzi. E lui, gli occhi gonfi e ciechi, la consolava: « Mulher, io sono
soddisfatto. Muoio volentieri, perché mi sono sposato nel rito religioso. I miei
figli sono a posto. Tutto quello che succede viene da Dio e Lui è un Padre buono.
Lui sa quello che fa... ». E le lacrime gli scendevano, in silenzio, dagli occhi gonfi
e ciechi.
Una piccola folla ci circondava. Ed io celebravo, con il cuore a pezzi, le
nozze di un morto.
Ci sono situazioni così contraddittorie, situazioni limite, che è come
trovarsi in alto mare senza bussola. Per esempio: non ho mai sentito una madre di
famiglia prendersela con Dio davanti al suo anjinho (neonato) defunto, coperto di
fiori, circondato di candele. Ho notato che le mamme trattano il cadavere con
delicatezza tale, con tali finezze, da dare l’impressione che per loro il figlio sia
vivo. Sembra una strana alleanza tra la vita e la morte. O percezione inconscia
che il figlio passa a miglior vita. Oppure una resa incondizionata di fronte all’ine-
luttabile. O, ancora, il chinarsi di fronte ad una realtà più forte di noi.
C’è qualche cosa che mi sfugge nel volto di queste addolorate che, come
donna Dezuita, hanno il volto lavato da lacrime senza numero. E qui le addolorate

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piangono sugli adulti, non sui bambini. C’è una specie di fede naturale nella vita;
che il bambino innocente muore per vivere. Questo « mettere nelle mani di Dio »
è la lezione del cosmo. Il seme muore per dare la spiga.
Luce D’Eramo mi ha mandato una ninna-nanna norvegese del
Settecento. Le mamme la cantavano come « esequie casalinghe » sulle culle dei
bambini che morivano:
Dormi bambino mio tenebroso, nella culla delle tenebre che tenebrosa ti
dondola nella capanna oscurata!
Alla Morte ti conduca il sonno nel grembo di quattro tavole a dormire
sotto l’erba a riposare sotto la terra ai canti dei marmocchi della Morte tra le mani
delle figlie di Mana!

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È più bella la culla della Morte, è più calmo il giaciglio di Mana, migliori
son le madri della Morte e son più belle le nuore di Mana, la casa della Morte è
spaziosa, è vasta la dimora di Mana.
Augurare al figlio anemico e denutrito di passare dal sonno alle braccia
pietose della morte. Nascere nella culla della morte. Eppure queste donne,
fortificate dal dolore, credono che la vita superi la morte.

AUTODIFESA

Casa parrocchiale, 20.9.1987

Ieri sera la TV annunciava che un terzo delle famiglie brasiliane si trova


in stato di estrema miseria ed un altro terzo in stato di povertà. L’unica soluzione
proposta è quella di importare derrate alimentari (un paese che da solo potrebbe
sfamare il mondo) e abbassare il prezzo dei generi di prima necessità. Eppure è
risaputo che: su 5.200.000 proprietari di terra, 540.000 sono da soli padroni
dell’80% delle terre del Brasile;
42 milioni di ettari di terreno agricolo sono inutilizzati e 240 milioni male
utilizzati;
tra il 1970 ed il 1980, 24 milioni di persone hanno cambiato Stato,
costretti ad emigrare nella propria patria, in cerca di lavoro;
« nel giro di 20 anni, mentre la popolazione è aumentata del 70% (da 80 a
135 milioni), la produzione agricola è aumentata solo del 24%. Per
questa ragione il popolo brasiliano è alla fame » (Iris Rezende, ministro
dell’agricoltura, « Jornal do Brasil », 12.5.1986);
« 80% delle imprese rurali del nostro paese sono di capitale straniero e/o
ad esso consociate » (Jornal do Pais », 31.7.1985);
tra il 1970 ed il 1980 la produzione di fagioli è diminuita dell’11%; la
mandioca del 20,4%; la soia è aumentata del 904,6%; il cacao del 61,9%;
la canna da zucchero dell’86,3%.

102
Oggi tocca ai poveri essere i paria, le vittime della società internazionale.
Ecco perché non si può non dire che questo sistema è costituito nel male. Per
questo abbiamo bisogno di innescare un esame di coscienza civile, riesaminarci a
livello di civiltà. Se produciamo frutti di morte, vuol dire che portiamo dentro di
noi germi di morte. Si può affermare che i poveracci, che scendono in piazza a
rivendicare i loro diritti siano dei ladri, dei ribelli, dei criminali? Eppure l’esercito
li tratta come se lo fossero. Chi infrange l’ordine non è forse chi relega i miseri
nelle favelas, queste immense prigioni della miseria (860.000 favelados a Rio)?
Chi è il vero violento: chi si difende o chi costringe a difendersi? Chi attacca o chi
costringe ad attaccare?
Per amare il fazendeiro che ha buttato sulla strada i nove contadini del
Corrego Novo dopo che già avevano seminato i campi, c’è un solo modo: dirgli
che è un criminale; che è un super-violento; che ha tolto i mezzi di sussistenza a
nove famiglie; che ha attaccato violentemente i loro figli; che lui ha posto le
condizioni, perché crepino di miseria. La miseria istituzionalizzata è un sistema
violento per sua natura. Violente sono le multinazionali; violente sono le leggi di
mercato; violenti sono i popoli del nord con le loro culture e le loro religioni.
Non riesco ad amare indiscriminatamente. Io vedo tutto con gli occhi
degli anemici e dei denutriti; tutto è diverso; tutto ha un altro peso specifico
quando si entra nel mondo degli schiavi. Come faccio a spiegare, per esempio, il
nuovo valore che hanno assunto per me il riso ed i fagioli? Ed i calli dei
contadini? E la vita dei poveri, che sembrano vivere per dispetto alla vita? Per
questo dico che Cristo non può ridursi a fiancheggiatore di sistemi assassini, che
usano le armi della fame e della malattia. Prima di essere il portatore di una
religione, egli è solidale con la nostra sostanza umana. Chi può immaginarsi un
Cristo che va a dire allo schiavo: « Ama il tuo padrone che ti compra e vende
come un sacco di patate »? Un Cristo che va a dire alle masse anemiche: « State
buonini, amate i vostri nemici, fate del bene a chi vi massacra i figli di morbillo,
di salario infimo e di verminosi... »? Cristo ci offre una nuova legge, perché
presuppone una società nella quale ogni uomo sia rispettato come uomo. Cristo
non si contraddice. Difende l’uomo al punto di maledire chi non ne rispetta la
fame e la sete. Ratifica la giustizia in maniera magistrale (parabola del giudizio
universale; Mt. 25). Chi non applica la giustizia si esclude dal piano dell’amore.
L’amore non si può imporre, ma la giustizia sì, perché dalla sua

103
osservanza dipende la vita o la morte di milioni di creature. Il Cristo-uomo non
può essere contro se stesso, contro quella sostanza che lo fa fratello, parente
stretto di ogni carne crocifissa. « Amare il nemico » è una situazione interiore, un
clima del cuore, ma non è applicabile in una società civile ingiusta.
È facoltativo difendersi? Uno ci può rinunciare individualmente; ma
quando sono messe in pericolo le istituzioni, la vita dei suoi concittadini, dei suoi
figli, può forse esimersi? Come cittadino deve fare di tutto per difendere i suoi
simili dalla dittatura della fame; in fondo, la differenza non è molta. Forse siamo
costretti a dire che il primo mondo è colpevole di « società a delinquere » contro i
popoli del terzo mondo.
Ci sono guerre dichiarate e guerre sotterranee; guerre scatenate contro i
miserabili, i dissidenti, gli ultimi: non è una guerra permanente che uccide senza
fine? Sono cinquanta milioni all’anno! Come difendersi? Come usare il diritto di
legittima difesa, che il buon senso ci riconosce? Ci devono pur essere degli
strumenti civili per difendersi dalla dittatura della fame. Se non ce ne sono; se il
regime rivendica il diritto di difendersi anche con le armi, a quale diritto
dovranno ricorrere i perseguitati dalla dittatura della fame? Che mostro è mai
questo regime, che si arroga l’esclusività del ricorso alla forza mentre gli altri
dovrebbero subire e solo subire ogni abuso e sopruso? Una situazione di
ingiustizia imposta ed organizzata mette fuori legge ogni sistema. Uno stato di
guerra tra chi ha e può e chi non ha e non può. Come potranno difendersi i
popoli-bambini dalla guerra commerciale, finanziaria, culturale e politica
ingaggiata contro di loro dai paesi del primo mondo?
Perché tanta paura della violenza quando viene dai poveri, dagli spogliati
vivi? È violenza o legittima difesa? Come difenderci, ditecelo voi, dalla belva
della fame istituzionalizzata, dalla miseria di regime, dai vermi e dalla diarrea di
massa? I poveri sono violenti o sono violentati?

IMPOSSIBILE NON ESSERE SCHIAVI

Rio Bonito, 4.10.1987

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Imbruniva. E donna Rita mi ha invitato a passare la notte sull’ orlo della
foresta. La sua baracca è trasparente come la vita dei poveri. Le pareti sono di pali
tenuti insieme con fibre vegetali. Vive come se fosse vedova. Il marito torna a
casa una volta al mese. Sola, nella foresta, con 11 figli: tre morti ed otto vivi.
Della donna le è rimasto solo l’affetto e la pazienza per i figli. Il corpo si
è fatto mascolino per necessità. Taglia la legna, prepara il terreno per piantare,
maneggia la scure come un uomo. Ogni due minuti ripete: « Dio dà il freddo
secondo la coperta ». Non ha paura né di giaguari né di serpenti: « Solo degli
ubriachi che passano e vogliono sapere dov’è mio marito. Io dico sempre che è
andato a prendere l’acqua nel fiume... Tutte le notti stendo l’amaca sotto la tettoia
e ci metto dentro uno sgabello coperto con un lenzuolo, per far credere che
qualcuno sta dormendo ». Da un momento all’altro si aspetta la notizia che il
marito è rimasto sotto un albero.
Ancora a proposito della situazione della donna. Nel Pequià cercavo una
sistemazione più tranquilla per riposare, perché nella casa vicina ci sarebbe stata
musica a tutto volume e alcool fino all’alba. Maria mi ha proposto la casa della
Cicera, ma ci ha ripensato: « Anche lei ti disturberà, perché sabato e domenica
notte esce ed entra non so quante volte per vedere se i bambini dormono... ». Non
capivo la storia di entrare ed uscire di casa. E la Maria: « Perché qui ci sono
diverse vedove come me, mie amiche. Tutti i fine settimana si divertono con il
primo amico che capita. Ricevono una mancia e tirano avanti. La pensione non
risolve il problema economico. E così si arrangiano. Ho proposto loro una
piantagione comunitaria. C’era solo da andare a raccogliere. Hanno desistito
quasi subito, perché era troppo lontano ». Ed io: « Le mogli del villaggio come
reagiscono? ». « C’è una specie di patto: non possono toccare i mariti. Devono
accontentarsi dei celibi... Le donne aiutano le vedove a questa condizione ».
Cicera, Lenì, Vitória, Marileide ecc. devono ridursi così, se vogliono
dare da mangiare ai loro figli. Ho cercato di carpire al villaggio un giudizio
morale. « Che ci vuoi fare, è la vita »: si limitano a commentare.
Nel terzo mondo gli schiavi sono istituzionalizzati. L’ho visto nella
capanna di Rita, nella baracca della Cicera. Impossibile non essere schiavi. Quale
Dio predicare ai nonuomini? Quale Dio o quale uomo? Evangelizzare o
umanizzare? Il primo processo di evangelizzazione è un processo di
umanizzazione. Ci è lecito predicare agli sfruttati della terra la rassegnazione,

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l’elemosina, l’amore al nemico? E l’ obbedienza civile nei confronti di coloro che
ci massa- , erano con regimi di miseria?
Siamo stati generati nel principio della « forza della persuasione ». Non
sono persuasivi i debiti con l’estero, le leggi di mercato, i dettami del Fondo
Monetario Internazionale? I popoli occidentali sono i fondatori della civiltà della
forza: hanno legalizzato regimi di violenza e la violenza del regime. I nuovi
imperi dissanguano le economie dipendenti e impongono loro, non solo di essere
schiavi, ma di adottare la cultura, la filosofia, la teologia dei padroni.
Da tempo questo problema mi cruccia: perché anche il poveraccio usa,
nei confronti dei suoi simili, i criteri del ricco? Nella Capoema, mi diceva Zé
Rodrigues, tutto sta prendendo fuoco: le campagne per via delle queimadas
(incendi di stoppie) e dei posseiros (chi si appropria della terra per usucapione),
che stanno vendendo la terra. Noi abbiamo tre nemici: i fazendeiros che si sono
introdotti furtivamente; i « piccoli » che vendono la terra e quelli che vendono il
legname. I piccoli fazendeiros sono nemici, perché, come arrivano, incominciano
a « concupire » la terra dei vicini: mostrano denaro; inducono in tentazione. I
poveri che vendono la terra guadagnata col sangue screditano la nostra categoria,
perché danno motivo agli altri di dire: « Vedete? Invadono le terre solo per
rivenderle! Una manica di lazzaroni, che non ne vuol sapere di lavorare... ».
Quelli che vendono il legname sono contro di noi, perché la terra non è stata
ancora misurata, divisa e nessuno sa se quell’albero è nel proprio lotto o in quello
del vicino. Chi approfitta di questa confusione è il madereiro (legnaiolo), che
compra per due soldi e poi porta via tutti i tronchi che vuole.
Una bella notizia: nel Rio Buritì i contadini hanno avuto il coraggio di
buttar giù il filo spinato di un fazendeiro invasore, che, approfittando della loro
buona fede, gli aveva mangiato quasi 500 ettari di terra. Si sono presentati con la
scure ed il fucile ed hanno fatto « il servizio».
Nella riunione della comunità si era insistito sulla necessità dell’
organizzazione. « Qui nella Capoema ci vuole un esempio di unione tra i piccoli
». Poi ho spento la lampada a olio. « Si può camminare nel buio? Se ci alziamo
tutti insieme e ci mettiamo a camminare, nasce una confusione, non è vero? È
quello che succede nella vita dei poveri non organizzati ».
E lì ho atteso le loro proposte:
- dobbiamo lavorare insieme per sentire la forza dell’unione; è meglio

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fare le nostre case vicino, per aiutarci nell’ora della difficoltà;
- perché non facciamo la piantagione comunitaria? Coltivare insieme,
vendere la produzione e comprare all’ingrosso quello che ci serve. Poi
creare un fondo comunitario per le emergenze. I nostri nemici, i grandi,
loro sì che sono uniti tra di loro! E ci sbranano...
Viste da fuori queste cose possono apparire inezie. Per noi sono il viatico,
che ci accompagna in mezzo a tante delusioni, minacce, barcollamenti. Vale la
pena aiutare il povero a conquistare il suo diritto alla vita (un pezzo di terra
incolta) e poi vederlo svendere per due spiccioli? Nella Capoema lo stesso lotto è
già passato per quattro mani: il primo arrivato era un posseiro « legittimo »; il
secondo è stato João das moças il terzo un certo Deusdete; il quarto è Abdias, che
è venuto qui dal Rio Azul in cambio di otto mucche.
Perché certi poveri sono più disposti ad imparare la lezione dei « grandi »
(in fondo, non sono i loro nemici?), che la nostra?
Un esempio. Nel 1985 il « Mercatino delle donne di casa » ha imprestato
ai contadini di qui cento sacchi di riso. Anche Joaquim arrivava là con gli occhi
tristi, magro da far paura; quasi non si sentiva la sua voce; ed usciva piegato sotto
il peso dei sessanta chili di riso. L’anno dopo si è ritenuto che era meglio tagliare
i viveri, per non abituarli a ricevere e per non farne degli eterni dipendenti. Che
cosa è successo? Joaquim si è messo ad imprestare un sacco di riso per riceverne
tre all’epoca del raccolto.
Non lo condanno. Condanno quel sistema inumano che ci circonda e ci
preme da tutti i lati per farci come lui. Il nemico dell’uomo ce lo portiamo dentro:
interesse personale, spirito individualista, egoismo. La legge civile dovrebbe
difenderci da noi stessi, da quel pericolo pubblico che siamo noi quando ci
poniamo di fronte all’altro come concorrente, nemico, ostacolo.
Che peccato che non siamo ancora riusciti a vedere la civiltà dell’uomo.
L’uomo rispettato a tutti i paralleli. L’uomo libero, degno, pulito, sano. L’uomo
amico e fratello.
Beati coloro che hanno fame e sete di nuova umanità, perché un giorno la
storia li sazierà.

107
VIOLENZA DELLA DISPERAZIONE

Açailàndia, 21.10.1987

Giungono notizie allarmanti dalla bassa del Mearim. È la regione più


calda del Maranhão, dove si scontrano frontalmente gli interessi dei grandi e la
resistenza dei piccoli. La scintilla dell’incendio: una fazenda espropriata con
decreto presidenziale è tornata nelle mani del suo presunto proprietario,
attraverso un « normale » processo nella giustizia civile. Una vera beffa, un
insulto a tutti i programmi di Riforma Agraria. (Il ministro non dura in carica più
di sei mesi! L’ultimo, Marcos Freire, aveva tanta buona volontà e, per questo,
secondo alcuni, il suo aereo ha avuto un incidente...).
Il fazendeiro in questione ha avuto il coraggio di prendere in giro le mogli
dei contadini, sbeffeggiandole: « Voglio vedere se i vostri mariti sono maschi o
donnette! ». Prima di andarsene ha promesso di tornare l’indomani per fare «
piazza pulita ». Ci è tornato, sì, ma per l’ultima volta, accolto da una scarica di
fucilate.

108
Non si tratta di casi isolati: Bacabal, Lago da Pedra, Codó, Caxias, Lima
Campos, ecc. In una settimana diversi morti e feriti nella guerra delle campagne.
I vescovi del Maranhao, in una lettera pastorale, parlano di « violenza della
disperazione ». La legittimano, non la legittimano? Non è questa, in fondo, la mia
preoccupazione. A me interessa che siano le vittime a cercare le giustificazioni
del loro agire. Se si sparge la convinzione tra i pequeninos che i loro diritti sono
sacri, allora sì che il Terzo Mondo prende fuoco. Una reazione a catena. E
cadrebbero miti e teorie imbastite per sostenere il sistema di « legittima violenza
».
Ormai è abbastanza comune sentir ripetere il detto popolare: se rimani
l’orco ti mangia, se scappi ti rincorre. Tradotto: non c’è altra via d’uscita se non
buttarsi allo sbaraglio.
I vescovi preannunciano il profilarsi di una guerra civile nelle campagne.
Denunciano una situazione che si è formata proprio per causa degli organi di
governo. Per anni il governo del Maranhao ha venduto (svenduto) le terre
pubbliche a compagnie e ad avventurieri privati; ha favorito ogni forma di ap-
propriazione fraudolenta della terra; ha appoggiato, con incentivi ed esenzioni
fiscali, chi non ne aveva bisogno. Oggi 1’85% delle terre sono nelle mani dei
latifondisti. Essi godono di un’organizzazione paramilitare (UDR - 55 mila
membri in tutto il paese) responsabile, di fatto, di 222 morti nel 1985 e 261 nel
1986, a causa di conflitti di terra.
Il popolo non riesce più ad ottenere nulla, neppure la terra per piantare,
perché i proprietari hanno paura della Riforma Agraria. La forza della
disperazione non può non essere violenta. Perché? Perché si difende da
un’altra violenza. Quella del regime che, con le leggi, impone ai miserabili di
vivere di stenti, ai « senza terra » di farsi schiavi dei loro carnefici. Chi è il vero
responsabile della riscossa dei contadini? Questo regime di violenza
istituzionalizzata.
Come spiegare diversamente i saccheggi a catena del Nordest? Se un
popolo tanto devoto, docile e rassegnato giunge a tanto, è perché è stata passata
ogni misura. La loro situazione di estrema necessità dichiara fuori legge un

109
governo che li condanna a crepare di fame. E che? Pretendiamo che vadano a
chiedere per carità ciò che spetta loro di diritto? E dovrebbero presentarsi dal
commerciante con il rosario in mano, a chiedere « per piacere » qualche briciola
di sopravvivenza? Non è evidente che è il disordine costituito in regime a
spingerli a tanto? Esso è il vero responsabile, che produce, innesca e fa scoppiare
la violenza. La sua violenza istituzionalizzata produce la cosiddetta « violenza dal
basso ». Ci hanno educati a scandalizzarci della legittima difesa dei poveri e ad
applaudire la « violenza di regime ».
In altri tempi la teologia ha elaborato il principio dottrinale « in estrema
necessità tutte le cose diventano comuni ». Ed oggi, che si tratta di popoli interi
del sud che si trovano in estrema necessità, che cosa elaboreremo? In attesa che i
centri incaricati di pensare e di decidere per i popoli prendano provvedimenti, i
nostri vescovi si sono sentiti costretti a ricorrere a questo inconsueto neologismo:
legittima difesa della disperazione. Se tu mi butti giù dall’ultima tavola di
salvezza che mi è rimasta, non ho il diritto di difendermi come posso?
A quale tribunale internazionale appellare affinché i popoli colonizzatori
restituiscano alle colonie la refurtiva, agli schiavi deportati a viva forza la dignità
storica? Chi imporrà ai popoli dominatori il i rispetto del diritto all’auto-sviluppo,
al proprio modello economico, culturale e politico? Quale codice internazionale
tutelerà le « economie-bambine », il potere di contrattazione delle loro materie
prime, il diritto di cittadinanza « alla pari » nel consesso dei popoli?

DELITTI AGGHIACCIANTI

Açailàndia, 10.12.11987

Trascrivo da un bollettino: « La violenza contro la donna raggiunge


proporzioni allarmanti anche ad Imperatriz (Maranhao). Francisca Andrade

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descrive la morte di tre compagne: “La domenica prima di Carnevale hanno
ucciso una menina (letteralmente ragazzina, per dire prostituta) delle nostre nel
collegio brasiliano. Uccisa a bastonate. Il dottore che l’ha esaminata ha trovato un
pezzo di legno nella vagina. L’altra è stata trovata con il collo spezzato, appesa al
palco, in piazza. La polizia ha detto che era ubriaca. La terza è stata sgozzata...».
Delitti agghiaccianti succedono dappertutto. E non cessano di
sconcertarci: perché fino a questo punto? È la miseria, la disperazione che
brutalizza?
E che cosa dovremo dire di questa strage, lenta ma continua, in atto nel
Terzo Mondo? Morire di anemia, di disidratazione, di morbillo, di sfinimento
non fa più notizia. Perché la « strage degli innocenti » del Terzo Mondo sembra
non toccarci? Perché non ci sentiamo complici, conniventi?
Chi non sa, oggi, che due terzi dei nordestini (35 milioni) vivono in stato
di denutrizione? Che il 51% è analfabeta? Che la sua vita media è di 52 anni
(dieci in meno della media nazionale)?
Non ci vuole tanta religione per affermare con un giornale laico: « Il fatto
sociale che potrà cambiare il Brasile potrà essere solo un patto sociale con coloro
che furono e continuano ad essere esclusi dalla partecipazione economica,
culturale e politica, sia nell’ambito della società civile, sia nella sfera dello stato.
E qui abbiamo vari settori di quelle classi, tutti subalterni e perennemente
“subalternizzati”, insieme con una piccola borghesia, che non sa più come
arrabattarsi per sopravvivere. La massa più grande è quella degli “esclusi
permanenti”, costituita di lavoratori liberi e semi-liberi che non hanno mai avuto
né voce né valore nella scena della storia: in senso lato, i miserabili della terra ».
(Florestan Fernandes, in « Folha de São Paulo », 11.3.85).
Che cosa ci manca? Non le parole, ma i fatti. Vedere con i fatti la forza
trasformatrice del vangelo anche nel campo sociale e civile. Verbi politici. Il
quinto vangelo deve essere scritto dal popolo, dai laici, dai popoli del Terzo
Mondo. In nome della religione abbiamo commesso troppe barbarie. Gli ultimi, i
miserabili della terra condannano i nostri cattivi costumi ecologici, nucleari,
consumistici.

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NOTIZIE FRESCHE

Fortaleza (primato della siccità, primato di problemi sociali,


all’avanguardia in piani di emergenza fatti su misura per lasciare le cose come
stanno) ha più funzionari pubblici della grande Parigi!
E non è un’eccezione. Ogni nuovo Governatore, quando prende il potere,
si ritrova in mano questo abacaxì (patata bollente, diremmo noi): licenziare 20-30
mila funzionari pubblici che il suo predecessore ha assunto in massa alla vigilia
delle elezioni, per raccogliere adepti al suo partito.
Tutto il Brasile conosce la « novella dei Marajàs » di Alagoas:
personaggi politici in pensione con cifre astronomiche. È una cosa così
scandalosa che il Governatore si è rifiutato di pagare e la questione è stata portata
in tribunale.

SIAMO TUTTE MARCE

In parcheggio di riposo; Due settimane fa sono stato di nuovo nella Serra


Pelada e quasi svenivo per strada. Il dottore imputa la pressione bassa alla
situazione in cui vivo: « Te la prendi troppo. Somatizzi la miseria dei poveri... ».
Di nuovo nel buco dell’oro. È sempre scioccante vedere come è trattato
l’uomo. La febbre gialla continua a scorrere nelle vene dei garimpeiros e nei
sentieri dei vari gironi. Ma il termometro indica valori inferiori. Il governo sta
rallentando ad arte la corsa dell’oro. I lavori di abbassamento del labbro del
cratere vengono sabotati e rimandati a data indeterminata. Si immagini la rabbia
di chi già pensava di mettere le mani sull’oro. Diverse imprese di Imperatriz e di

112
Açailàndia, che avevano investito tutti i loro risparmi nella Serra, stanno
ritirandosi, salvando il salvabile; João, dell'impresa Cikel, era là anche lui per
chiudere la partita: « solo il 10-15% del capitale investito è rientrato nelle nostre
tasche ». Per anni hanno « sognato con l’oro » ed ora si sono stancati anche di
sognare.
Gli uomini-formica sono diminuiti sensibilmente.
Sono aumentate le « donne facili ». Fratel Abel confidava, amaramente,
che 1’85% delle donne che vivono nella Serra, sono ammalate di malattie
veneree. Qui è la donna che circuisce l’uomo. L’ho visto con i miei occhi. Al bar
(in compagnia di tre amici italiani) siamo stati assediati di attenzioni interessate.
Sandra è arrivata a fare inviti espliciti al più giovane di noi. Erano solo cinque
minuti che ci eravamo seduti davanti a un frullato di frutta tropicale. Una bella
ragazza. Accoglieva ogni cliente mettendogli un braccio al collo e recitando
paroline di benvenuto. Nulla di morboso, all’apparenza. Poi ha aperto il sacco: 17
anni. Si è sposata che ne aveva 13. In agosto le è morto il marito ed un mese dopo
il figlio. «Qui, noi donne, siamo tutte marce ».
Anche Katia, Irene e Sandrelì (inservienti di un altro bar) erano
espansive. Non si stancavano di guardare i miei colleghi. Per loro il mito dello
straniero come « cavaliere azzurro », deve essere ancora una storia vera. In un
mese guadagnano quello che una commessa italiana guadagna in un giorno. E
insistevano: « Perché non ci portate in Italia? ».
Nel garimpo gli uomini sognano con l’oro e le donne con uno straniero
che venga a portarle via dall’inferno.
In fondo al buco ho parlato parecchio con le formiche superstiti. Ne ho
trovate diverse sfiduciate: « La Serra non dà più da vivere ». Resistono solo gli
ostinati. Ogni giorno si porta alla luce un chilo e mezzo di oro. Che cos’è per
trentamila persone che vivono direttamente dell’oro ed altre, dicono un milione,
che ci vivono sopra indirettamente?
Valdemar, seduto in terra, diceva sfiduciato: « Faccio 40 viaggi al giorno,
5 cruzados al viaggio. Non me la sento di andare là dove ci sono le scale, dove

113
pagano meglio. Io trasporto il materiale di qualità inferiore. Quello che guadagno
mi dà a malapena da mangiare ». Un piatto vale da 200 a 250 cruzados. Ci sono
formiche di razza superiore ed altre di razza inferiore. Questo è il gioco della vita.
A rallentare ancor più la corsa all’oro, adesso ci si mettono anche le
piogge invernali. Oggi si lavora solo nei punti rocciosi, legati come salami,
appesi per aria, ognuno nel suo lotto sorteggiato dal Sindacato.
Si scava, si scava e l’oro si fa ostinato come il carattere dei garimpeiros.
Curvi sulla bateia, scrutano il fondo del piatto concavo, alla ricerca della polvere
magica che brilla. Solo l’oro luccica da queste parti. Tutto il resto è opaco come il
« materiale cieco », che non dà oro.
Per quanto tempo ancora resisteranno, insisteranno le formiche dell’oro?
Due settimane dopo questa visita i garimpeiros hanno occupato i binari
della ferrovia del Grande Carajàs. Motivo: far pressione sul governo, perché
provveda i macchinari per abbassare l’orlo del cratere, che minaccia di franare e
fare nuove vittime. Per tutta risposta il governatore del Para ha mandato rinforzi.
La polizia, con mossa a tenaglia, ha bloccato centinaia di garimpeiros sul ponte di
Marabà. Poi ha sganciato i candelotti lacrimogeni. Due morti e decine di dispersi.
Molti non rispondono all’appello. Nella confusione, presi dalla disperazione,
senza via d’uscita si sono gettati dal ponte alto più di ottanta metri. Quando si è
cominciato a parlare di responsabilità, giornali e televisione sono stati messi a
tacere.

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IL REGNO DELLA MISERIA PERENNE

Casa parrocchiale, 20.12.1987

Ho sul gobbo 86 chilometri percorsi su una strada, che della strada ha


solo il nome. Gli sballottamenti mi hanno fatto scendere i reni fino alle calcagna.
Non so più quante volte ci siamo impantanati ed abbiamo dovuto togliere la
sabbia con le mani. Ho aperto una cinquantina di cancelli. Forse non ho
sottolineato abbastanza un particolare: qui si vive sempre in mezzo al filo spinato,
perché è il materiale che si usa per recintare le proprietà. Per questo il ricordo di
Auschwitz mi è perennemente presente. Ci aggiungi delle facce denutrite e puoi
dire: « Auschwitz regna sovrana ».
Sono a pezzi e con la febbre. Per sei ore ho respirato il polverone che la
macchina sollevava. Avrei voluto scattarmi una fotografia per far vedere come ci
si riduce su questa specie di strade. Ma una cosa non voglio tralasciare: scattare il
mio ritratto interiore. Quello che ho provato, quello che mi è passato nell’anima.
Sugli 86 chilometri della strada della polvere, si incontrano solo tre
villaggetti. Il resto è capitn (foraggio) per il bestiame. Animali su animali.
Attraversando questi villaggetti fatti di casupole di paglia e fango, sembra di
attraversare il nulla. Non c’è niente.
Solo bambini. Bambini vestiti di polvere e fango. Il regno della miseria
perenne. Con la mano fuori dal finestrino, salutavo. La maggior parte ricambiava
con un leggero movimento della mano.
Salutavo tutti: il bambino, il vecchio, il giovane. E l’umanità rispondeva
al mio saluto. Dialoghi senza parole. Scambio di gesti di umanità. Esseri mai
incontrati prima, eppure fanno parte della mia umanità ed io della loro. Parentela
stretta. Al di là delle formalità e delle convenienze. Incontrarsi e conoscersi solo
con gli occhi. Un breve cenno della mano. Basta questo per alimentare la
speranza.

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L’unica eredità certa, di padre in figlio, è una vita senza futuro. Nessuna
possibilità di fuga in avanti. Il figlio, prima di nascere, conosce una vita di stenti.
Scrutavo tutti. Per carpire qualche cosa, un messaggio. Sempre gli stessi
lineamenti della rassegnazione. Esseri ignari che la vita è « un’altra cosa ». Forse
è questa idea fissa, che mi ha fatto venire la febbre: quale futuro per chi nasce
nella miseria perenne, ereditaria, come un marchio di maledizione? Uno può
rassegnarsi a vivere in condizioni infime, purché sappia che dopo una, due, tre
generazioni, i figli dei figli assaggeranno il sapore della libertà dal bisogno
primario. Ma non intravedere nulla, è troppo nero...
Non è possibile essere uomini così. Molti sono colpevoli di questo delitto
sociale: condannare altri uomini a vivere da non-uomini.

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LA MIA STELLA

II popolo empobrecido è la mia stella. Quando torno in mezzo ai poveri,


anche se sono stanco, dimentico tutto. È la mia medicina. L’ho constatato nel
Tabocão. Una regione arida. Fa tenerezza vedere questa terra screpolata. E questa
gente che deve fare chilometri con l’asino per prendere l’acqua in pozzi (scavati a
mano) profondi anche 100 metri. In queste circostanze non ho il coraggio di
lavarmi le mani prima del pranzo. Sembra un luogo castigato da Dio.
Questi sono i tempi dei grandi fuochi (queimadas). Fa impressione, di
notte, vedere la terra ardere. Questa grande terra negata ai poveri. È l’epoca in cui
i contadini hanno già abbattuto la foresta ed appiccato il fuoco per preparare il
terreno per la semina. Spesso si viaggia avvolti nel fumo. E la terra, a grandi
estensioni brucia.
E, dopo le queimadas, il paesaggio diventa triste: monconi di alberi
bruciacchiati, residui carbonizzati, cenere dappertutto. Visioni spettrali.
La gente resiste con i denti. Di tanto in tanto qualcuno non ce la fa più e si
ritira. Gruppetti di disperati, qua e là, come gli scampati ad un castigo. Durante la
Messa si commenta la vita dei primi cristiani, « un cuor solo, un’anima sola,

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avevano tutto in comune ». Anche qui i contadini hanno'assunto l’impegno di
lavorare in comune. Un giorno nei campi di uno, un giorno nei campi di un altro.
Lo chiamano troca de dia, scambio di giornata di lavoro.
Io facevo notare una certa contraddizione: come si fa a dire sempre, in
casa, nel lavoro, nelle cose, nel portafoglio: « È mio... è mio... è mio » e poi
arrivare in chiesa e pretendere di dire « Padre nostro... ». Che significato può
avere?
Nel villaggio vicino - Centro dos Pernambucanos - ho incontrato il signor
Antonio: « Come è andato il raccolto? ». Gli si sono illuminati gli occhi:
«Qualche tempo prima del raccolto sono andato nei campi con i miei figli. Mi ha
preso una grande tristezza: il riso era tutto a terra, abbattuto da una tempesta di
vento. E pensavo a Gesù, che risuscitava i morti. Poi, quando siamo andati a
tagliarlo, ho visto il miracolo: le spighe di riso erano morte e Gesù le aveva fatte
alzare. Per me, quello che il vangelo racconta è vero. Padre, l’ho visto con i miei
occhi ». Per Antonio il vangelo è scritto nel campo. Lo sente vivo e vero nelle
spighe di riso risuscitate. Lo vede nello sguardo dei figli quando gli chiedono da
mangiare.

UNA COMETA DI SPERANZA

Açailàndia, 25.12.1987

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Un bambino nasce di nuovo. Non smettono di nascere i bambini che
nascono per morire. Sarà tra loro che nascerà il nostro Gesù Bambino? Insistono
a nascere i « bambini di cera », i bambini nordestini che non indugiano nel
corridoio della vita. Un bambino che nasce: nella favela, nella bidonville, nella
culla della morte.
Una cometa di speranza, bambino che nasci! Il futuro è nelle mani dei
popoli-bambini. Ci lasceremo « istruire » da loro, gli « ultimi »? La speranza
brilla nelle mani disarmate di un bambino. Invincibile il suo sorriso. Nasci,
bambino. Per vivere o per morire. Fa lo stesso. Ma non cessare di nascere, per
carità! Un giorno o l’altro, il mondo ti abbraccerà.
Il Natale che si vive nel sub-mondo, a riso e fagioli, lascia tracce di
esperienze inusitate. Nel villaggio del Corrego Novo ho fatto leggere il vangelo
della nascita alla suora. Ho invitato due bambini e, con una candela in mano,
siamo scesi in mezzo al popolo a cercare il nostro Gesù Bambino. Ho scelto il più
piccolo. L’ho innalzato sul popolo e, in processione, adagio adagio, l’abbiamo
portato sull’altare. È corso un brivido nei presenti. Diversi si stropicciavano gli
occhi. Alzare il bambino sul mondo. Innalzarlo sugli odi e le guerre. Un bambino
in cima al mondo.
Non è lui il più importante là in casa? Chi è che comanda in famiglia, chi
ha più potere? Forse il papà, la mamma? Il bambino piange e bisogna correre: per
dargli da mangiare, da bere, per curarlo. Lui piange e ordina: dammi da mangiare.
Tutti, in famiglia, sono in funzione di lui. Lui muove, motiva, fa entrare in azione
tutti quanti.
Chi ha più potere nel mondo? Un bambino. Senza bambini cosa sarebbe

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il mondo? Un bambino innalzato sul mondo è più forte di un’atomica. Credere
nelle cose piccole: in un seme, un bambino, un popolo-bambino. Credere nelle
cose insignificanti. Credere nell’uomo, specialmente. L’uomo come l’ho visto io
in questi giorni: lo stesso vestito (camicia, pantaloni, scarpe), domenica era
indosso a João Alberto e lunedì lo portava Minervino, perché doveva andare
all’ospedale. Per la prima volta nei suoi sessant’anni. Ha la mano gonfia da
scoppiare e non vuole andare in città. Sul taglio aveva messo del pepe ed ora ha
legato al polso una cordicella bianca con un anello d’oro (imprestato, s’intende).
Ecco la concezione dell’uomo di Minervino: non essere né più né meno
degli altri; essere capaci di mettere lo stesso vestito. Lo stesso vestito di umanità.
Non è forse uguale la carne che ci veste, le esigenze che abbiamo, i sogni e le
aspirazioni che coltiviamo? Non sogniamo tutti un mondo di fratelli, un mondo
dove siano gli innocenti a comandare, i trasparenti a governare i popoli?
Dio sa indossare il nostro vestito di carne. Nato da donna, nato dalla
nostra umanità. Per innalzarlo, anche oggi, sul mondo e sulla storia. Mostrarlo
all’universo: alle stelle, agli atomi, alle miniere, ai mari, alle foreste.
Quando si innalza il bambino sul mondo, si eleva fino al cielo la nostra
umanità. Ed in lui c’è tutta l’umanità: quella del ladro, del criminale, della
prostituta. Celebrare l’uomo. Innalzarlo sulle cose sporche. E credere, come Dio
ha fatto, credere perduta- mente nelle sue risorse di bontà.

ME LA PRENDO CON IL SISTEMA...

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Casa parrocchiale, 12.1.1988

Non è uno dei più grandi e nemmeno dei peggiori proprietari di terra: 400
ettari. Alcides ha 11 fratelli. I genitori festeggeranno le nozze d’oro. I preparativi
fervono. Mi ha mostrato, ingenuamente, il programma: Messa in cattedrale,
rinfresco nel Juçara Club (di prima classe) e poi churrasco (spiedo) nella fazenda.
Venti buoi e birra a volontà, recita il copione. Fotografia di famiglia in tenuta
sportiva, con il vecchio in mezzo, pantaloncini corti, pipa in bocca, pallone tra le
gambe. Le stravaganze dei ricchi sono sempre fantasiose.
Per lui ed i suoi 11 fratelli, tutti fazendeiros e dottori, non c’è il minimo
dubbio che possono fare quello che vogliono delle loro terre, dei loro soldi, dei
loro buoi... Non se li sono guadagnati con il sudore della fronte? Hanno osservato
a puntino le regole del gioco di questa società. Onesti e devoti cittadini della
civiltà del « più produci, più guadagni »; fedelissimi alla regola d’oro della libera
concorrenza; strenui difensori del sacrosanto diritto civile di speculate sugli
operai. Hanno osservato tutte le virtù borghesi in grado eroico. Tutti sanno che
uno dei fratelli, qualche anno fa, ha buttato sulla strada quaranta famiglie che da
anni vivevano nella sua terra. Si era alla vigilia dell’inverno, quando il terreno era
già pronto per piantare... barbarie!

Che loro abbiano questa mentalità è ancora sopportabile. È la società che

189
autorizza i cittadini a fare di queste cose; anzi, premia e canonizza come «
cavaliere del lavoro » chi primeggia nello sfruttamento degli operai, chi « ci sa
fare ». Ma che la Chiesa benedica questa gente, non si può accettare; che presenti
quei « santi genitori » come dei modelli da imitare, questo è troppo.
Dalle parole e dall’atteggiamento di Alcides traspariva che tutto era «
normale »: tutto secondo le regole della bella convenienza. Non posso dire niente
contro di lui. Ma contro i buoi che saranno ingoiati insieme ai fazendeiros della
regione, contro di loro ho tante cose da dire.
Sentirsi tranquilli di fronte ai fratelli che affondano nella miseria. Passare
in mezzo, essere assediati di denutriti e far finta di niente. Anzi, permettersi di
immolare venti buoi solo per cavarsi la voglia di mangiare carne fino alla nausea.
Sotto gli occhi di chi mangia solo « l’odore della carne » (come dice il popolo).
Non me la prendo con questo o con quello, ma con il sistema che
legittima, avalla, giustifica - questo è il colmo! - benedice questi gesti di
disumanità. La Chiesa non ha fatto sua, davanti al mondo, l’opzione per i poveri?
Non ha fatto alleanza con gli oppressi? Non è stata mandata come « agnello in
mezzo ai lupi », « senza bisaccia né calzari »?
Lo vivo come un’ ossessione: abbiamo guastato l’essenza del messaggio.
Ne abbiamo fatto un ibrido, un’indecenza. Non lo dico da me. Sono loro, gli
empobrecidos, che lo urlano attraverso di me: il principale responsabile della loro
miseria è questa religione cara al sistema; che va a braccetto con lui; che lo
benedice. Ordina di pregare per i governanti. Predica l’obbedienza civile ai
popoli- padroni, che strozzano i popoli-servi. Questo tipo di Chiesa fa comodo
anche ai Pinochet, che predicano l’ordine e la sicurezza nazionale. Quale ordine,

189
quale sicurezza per milioni e milioni che nascono con l’unica garanzia di morire
di denutrizione?
Il Cristo, quello uscito dalle viscere dei poveri e degli schiavi, quello che
sa piangere a Soweto, quello che conosce le torture del regime, quello che è
massacrato dagli squadroni della morte o dai vigilantes della UDR, quello parla
chiaro: « Via da me, ingiusti, maledetti al fuoco eterno... ». Se vuoi essere uomo,
vivi la giustizia verso ogni uomo, alla pari: l’uguaglianza economica è il punto di
partenza per ogni altra uguaglianza; se vuoi farti uomo, rinuncia alla causa
dell’ingiustizia, alla ricchezza, perché nasce da meccanismi di sfruttamento, da
ingranaggi di dipendenza.
Cristo non propone un uomo qualunque. La sua novità è l’uomo giusto,
che vive alla pari, rifiutando la ricchezza volontariamente, perché ha scelto
l’uguaglianza con il suo simile. II primo battesimo di ogni uomo che viene al
mondo è la giustizia. Senza giustizia non c’è neppure umanità.
E Dio ce ne ha dato l’esempio per primo. Non si è dato in elemosina. Non
si è fatto benefattore dei poverini, sgabello della sua grandezza. Egli rifiuta tutti i
paternalismi. Si è fatto come noi. Alla pari. Il ricco fa esattamente il contrario: è
colui che si fa diverso dagli altri. I popoli assistiti, beneficati saranno degli eterni
bambini. Chi accenderà in loro la passione, il fuoco sacro della liberazione?
Oggi il mio problema è: come dire ai popoli del terzo mondo di difendersi
dal primo mondo? Come non farsi contagiare dalla cultura del lucro? I poveri
devono imparare a difendersi contro sistemi di morte. Non devono permettere che
si imponga loro di vivere di elemosine umilianti, di briciole assistenzialiste, di
paternalismi ributtanti.

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TI TOLGONO LA VERGOGNA DI FARE IL MALE

Açailàndia, 22.1.1988

L’ultimo regalo del mato (sterpaglia): una ferita che non rimargina. Una
piaga che mi ricorda, nella carne, il dolore del popolo. Dicono si tratti di un
insetto che pizzica e crea una feritina, la quale, a forza di grattare, diventa una
piaga. Il dottore mi ha prescritto delle iniezioni dolorosissime. Se non rimargina
subito, dovrò farne quaranta.
Il dottore ha approfittato della mia presenza per sfogarsi. Lui è un
integro. Detesta i compromessi. Eppure, anche per lui, è questione di
sopravvivenza: o fare la fame con il suo piccolo ospedale nuovo di zecca, o
adattarsi al sistema. Il « Deputato » gli ha parlato fin troppo chiaro: « Se vuoi
ottenere la convenzione con la mutua, devi stare al gioco. E le regole del gioco le
facciamo noi: attenzione alle tue amicizie con certi padri; non scivolare a sinistra;
visita gratuitamente i clienti che ti mando ».
Qui non esiste la politica, ma la politicagem (clientelismo). Chi non
vuole contaminarsi crepa di fame. « Il sistema ti toglie perfino il pudore, la
vergogna di fare il male ». Me ne ha dato un esempio: il sindaco ha
commissionato un portone di ferro ed ha fatto mettere sulla bolla la cifra di venti
milioni, mentre ne ha spesi sei. Ed il fabbro si giustificava così: « Se non lo
facevo io, lo faceva un altro e, magari, per trenta! ». E commentava: « Il brutto è
che in questo modo ti tolgono perfino il dubbio di fare una cosa sbagliata. Quello
che mi tormenta è che questa società, non solo m’impone l’ingiustizia, ma mi

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distrugge la coscienza. Sono costretto a pensare come il sistema. Allevo i figli
iniettando in loro quell’individualismo che odio. Io non posso educarli, perché il
sistema li tira su in un ambiente sociale dove non esiste la coscienza ».
I politici sono in movimento, mendicando voti a destra e a manca. Loro
non si pongono i nostri problemi di coscienza. A loro bastano i voti. Costano così
poco nel Maranhão! Un paio di ciabatte, una camicia, una visita medica gratuita,
togliere un dente, un documento ecc.
Solo una forza morale come la religione potrebbe arginare questa
corruzione, che capovolge perfino i termini della « questione morale ». Siccome
la Chiesa non è riuscita a trasformare la società, da secoli pare aver ammesso che
l’ingiustizia è inevitabile; l’uomo è quello che è; il mondo è sempre stato così! Si
è predicato che più l’uomo soffre di qua, più guadagna meriti di là. La sofferenza
ci fa più simili a Cristo in croce. Il dolore è una prova, una purificazione.
Dove è andata a finire la forza sollevatrice del fuoco, della spada, del
lievito di Cristo che trasforma la massa? Una forza morale potrà mai educare
all’ignavia, all’inerzia?
Se lo stato riconoscesse di essere fuorilegge; se ammettesse il suo torto,
potremmo dire: va bene, è questione di tempo, ma, al più presto, correremo ai
ripari. Niente affatto. Esso si ritiene in diritto di fare quello che fa. E, per di più, si
dichiara in diritto di imporlo legalmente. Tutto quello che fa è in nome della
legge.
Non è obbligo morale rifiutare uno stato, che impone un regime di
miseria, di impoverimento progressivo, di denutrizione a 86 milioni di cittadini?
Se ci uccidesse apertamente sarebbe meglio, perché tutti quanti vedrebbero la sua

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malvagità e preparerebbero, immediatamente, il processo della legittima difesa.
Invece lo stato si presenta come l’unico garante dell’ordine costituito, detentore
insostituibile dello stato di diritto. A lui solo spetta l’esercizio del potere
coercitivo. Autorità suprema ed inappellabile.
Una popolana, moglie di Pedro Teixeira, assassinato nel 1962, deponeva
nel dicembre 1985: « La più grande violenza del nordest è la fame ed è causata
dai latifondisti ».
« Il Brasile è, nell’America Latina, il paese che paga il salario minimo più
basso. Triste primato per una nazione con il maggior territorio, la maggior
popolazione ed il maggior prodotto interno lordo di tutta la regione » (« Journal
do Brasil », 18.1.1987).
Deco è venuto a dirmi che il dottore « tiene prigioniera sua moglie ». Non
capivo. Dopo due giorni di ricovero deve pagare diecimila cruzados. Lui non ha il
becco di un quattrino. Il riso è pronto nei campi, ma le strade sono impraticabili.
Ogni giorno che passa, il conto raddoppia. Gli ho detto di chiedere al dottore in
base a quale legge impone questo pedaggio. E si potrebbe anche parlare di «
sequestro di persona ». L’ho consigliato a difendersi, perché sta subendo una
violenza ingiustificabile.
Quello che succede in alto, si riproduce in basso. Che fare per innescare
un processo contro lo stato, costituito contro l’uomo? Le religioni non tremano
quando predicano l’obbedienza civile ai « disordini costituiti », ai sistemi di
morte, ai regimi di miseria istituzionalizzata?

189
VILA MISERIA

Açailàndia, 3.2.1988

Traduco dal giornale della Capitale O Itnparcial di ieri:


« Il sogno di giorni migliori per la sua numerosa famiglia, appena avesse
ottenuto la casa propria, si rivelò pura illusione per l’elettricista José Ribeiro de
Lima (32 anni). Lui, la moglie Anna e gli otto figli, dopo molto tempo nella lista
di attesa della COHAB (compagnia del governo che costruisce case popolari), si
dibattono in condizioni umilianti nel modulo residenziale più piccolo della Città
Operaia: quello del tipo E “Vila Miseria”, il nome dato ad un quartiere di
mini-case, riflette la realtà del più grande complesso residenziale di san Luis: la
Città Operaia. La mini-casa misura otto metri quadrati: mini-bagno, sala e cucina
nello stesso locale.
Maria Costa do Nascimento: 29 anni, è angustiata, perché non sa come
sistemare i 5 figli. Tutti dormono nel letto matrimoniale. “La situazione di chi
abita qui è proprio miserabile”. La casa è senza porte e finestre; il plastico
provvisorio non resisterà ai temporali dell’ inverno.
La situazione è definita degradante dal funzionario Carlos Eduardo
Santos, 28 anni, con moglie, sei figli e tre cognati; “Di notte sembra di essere in
una prigione. Bisogna fare miracoli per dividersi lo spazio. Un figlio dorme
nell’amaca sulla cucina e gli altri nel guardaroba”.
Abitare in una casa che non obbedisce alle norme stabilite

189
dall’organizzazione dell’ONU per l’abitazione, diventa imbarazzante per
centinaia di famiglie della “Vila Miseria”.
Il meccanico Alfredo M. Castro dice che non esiste un minimo di
intimità. “Oltre la moglie ed il figlio abita con noi la domestica. Si dorme tutti
nell’unica sala, che fa anche da cucina. Quando voglio fare l’amore con mia
moglie devo uscire di casa e nascondermi dietro i cespugli”.
Ogni commento è superfluo.

189
A TERRA DO PAI MEU E DO PAI MOSSO

Casa parrocchiale, 13.2.1988

L’inverno è in ritardo. Tutto fermo, il paesaggio desolante: cenere e


fumo. L’epoca delle grandi queimadas si prolunga oltre il previsto. In sei mesi
solo I due pioggerelle: quella del mango e del cajù. Sono le piogge che portano a
termine la maturazione di questi due frutti.
La campagna, attorno, è ancora tiepida. Ha bruciato per giorni e notti
intere. Grandi roveti ad alimentare la speranza nel domani. Ma, oggi, tutti si sta
male. Il villaggio vive immerso nel fumo. Bruciano gli occhi. La gola rinsecca. Il
bestiame comincia a morire. Non c’è lavoro. Il fuoco ha divorato tutto.
Nel villaggio della Sunil ho visto la gente, le baracche, gli alberi, i campi
in una cortina di fumo. Manca l’acqua perfino in casa. I camion dei madereiros
(commercianti di legname) sollevano un tale polverone, che il villaggio rimane
nascosto come in una nube per alcuni momenti. Sembra di esserci e non esserci
allo stesso tempo. Sensazioni di irrealtà.

190
Ci pensa la fame a riportarci alla realtà. Non dico l’appetito, ma la fame;
sembra la cosa più vera e palpabile, da queste parti. Siamo arrivati dopo l’ora del
pranzo, perché la macchina ha fatto le bizze. Non c’era più niente da mangiare.
Ho letto l’imbarazzo sul volto di donna Necì, che si è messa a cercare, nelle
capanne vicine, qualche rimasuglio di cibo. Dopo un bel pezzo è arrivata con un
piattino di riso bollito. Chiedo un pò di latte per aiutarmi a buttarlo giù. Mangio
come un automa. Sentire il sapore del cibo. Senza voler sentire il gusto di questa
vita miserabile. Ho pranzato da solo. In una baracca spoglia di tutto. « Il povero è
ricco solo di figli ».
All’imbrunire la riunione nel cortile di Tonico al chiar di luna. Una
trentina di volti tirati attorno ad un argomento: ci daranno la terra o non ce la
daranno? Per sette anni queste famiglie hanno « bonificato » la terra dell’impresa,
trasformando la foresta in pascolo, con il solo diritto di piantare riso e granoturco
il primo anno. Adesso stanno negoziando, con il nostro aiuto, per ottenere un
pezzo di terra. Abbiamo accettato ad una condizione: costituire una « Società di
Beneficenza », la quale sarebbe proprietaria dell’immobile al fine di prevenire la
corsa alla vendita della terra. Da diversi mesi stiamo dibattendo con loro i
vantaggi e svantaggi della « terra privata » e della « terra comunitaria ». Loro
l’avevano chiamata, rispettivamente, a terra do Pai meu (la terra di mio Padre) e
a terra do Pai nosso (la terra del Padre nostro).

191
In una riunione erano arrivati a votare. Sulla lavagna c’erano due
riquadri: uno a scacchiera rappresentava la terra privata; l’altro, senza linee
divisorie, quella comunitaria. Siccome la maggioranza è | analfabeta, hanno
votato facendo una lineetta col gesso. Solo tre hanno scelto la terra privata.
Da quel giorno si è cominciato a camminare insieme, per esercitarsi
subito nella pratica fraterna, nell’organizzazione comunitaria, nel lavoro in
regime di mutirão (collettivo), per difendersi, insieme, dai nemici della vita:
denutrizione, egoismo, individualismo, mancanza di potere di acquisto. Con il
ricavato della piantagione comunitaria dell’anno scorso si era riusciti a fondare il
« mercatino comunitario »: comprare all’ingrosso i generi di prima necessità e
rivenderli tra i soci a prezzo di costo. Per il prossimo anno si è deciso che nessuno
lavorerà da solo: «Faremo una grande piantagione comunitaria per scoprire
sempre più i vantaggi del lavoro in comune e per allenarci al rapporto fraterno ».
Il dibattito continua registrando i punti positivi (il lavoro collettivo rende
di più; è meno faticoso; se uno si fa male gli altri lo soccorrono subito); e quelli
negativi (c’è sempre qualche scansafatiche; chi non accetta il coordinatore - a
turno, avevano stabilito - ; mancanza di fiducia negli altri).
Una cosa mi si è fatta più chiara: io sono sospinto da una idea
(l’organizzazione popolare e comunitaria) ed il popolo dal piatto di riso e fagioli
quotidiani. Quando mi hanno offerto quel piattino di riso senza sale, senza olio,
l’idea si è fatta realtà. Mi dicevo: questa non è povertà, ma miseria. E la miseria è
una condanna. Cristo benedice quelli che si fanno poveri, quelli che usano le cose
con giustizia e moderazione, ma maledice coloro che impongono alle moltitudini
il regime della fame, la maledizione della miseria.
Scrutavo i volti che mi circondavano, mentre la terra fumava ancora. La
storia dei poveri è fatta di roveti. In questa regione se non si abbatte la foresta e si

199
brucia tutto si muore di fame, perché non esiste altro modo per produrre riso e
fagioli.
Scruto le pieghe dei volti rinsecchiti dalla fame. Avranno il coraggio di «
credere » nel compagno di viaggio? Credere nella bontà dell’altro. Credere che
ogni uomo porta in sé un alto potenziale di generosità, di disinteresse, di
altruismo. Come far sì che queste scintille diventino incendio?
Io guardo le cose attraverso il filtro dei valori morali e loro attraverso
quello della necessità. E, oggi, si trovano in situazione di emergenza per via della
siccità. Ai figli che hanno fame non si può dare un piatto di belle parole e un
contorno di principi morali. Mi sono visto su di una sponda e loro sull’altra. In
mezzo, l’abisso della miseria. Come uscire dalla necessità immediata?
Dopo molto silenzio è venuta fuori una proposta: il vecchio Milton (un
vicino) ha quattro linee di mandioca; rimbocchiamo le maniche e mettiamoci a
far farina. Si fanno i conti e il piano di lavoro è belle fatto: squadre di 5 uomini
per il trasporto e cottura della pasta di mandioca; le donne pelano le radici ed i
bambini trasportano l’acqua.
Ci lasciamo a notte fonda, negli occhi dei miei amici brilla la speranza.
Uno spiraglio nella notte della miseria.
Sulla via del ritorno la Luiza mi aiuta ad analizzare metodo e contenuto
del nostro lavoro di coscientizzazione. Ha ragione lei: io vado troppo col cuore.
Mi emoziono di fronte ai miseri e vorrei risolvere subito i loro problemi. È
difficile stare al loro passo. Non intenerirsi troppo. « Non è da oggi che il popolo
convive con la miseria. Quando comincia a stringere la cinghia, si dà da fare; ha i
suoi stratagemmi per non crepare. Non puoi pretendere di risolvere tutto al loro
posto... Fare proposte che 1 siano alla loro altezza, altrimenti li fai dipendenti da
te. Se non camminano con le loro gambe, un giorno, senza di te ripiomberanno

199
nel pozzo della miseria. Bisogna che ne escano con i loro mezzi, con le loro
gambe... ».
È bene dirsi queste cose. Anche se possono sembrare crudeli. La
tentazione è sempre di risolvere « dall’alto » e « dal di fuori ». Insegnare ai
naufraghi a salvarsi con i loro mezzi. Una salvezza che non cada dal cielo senza
sforzo e senza concorso, ma una i conquista graduale, senza sbalzi e senza traumi.
Fuori, all’orizzonte, bagliori di fuochi: roveti in fiamme sembrano
toccare il cielo ad intenerire quel Jahvè, che vive con le orecchie tese per
raccogliere i « gemiti ed i clamori degli oppressi». Dentro di me un altro fuoco: il
miserabile è in condizione di scegliere qualche cosa nella vita, o il piatto di riso
quotidiano ha già scelto per lui? Me lo chiedo mentre vado a dormire nella non-
casa del piattino di riso, senza olio, senza sale.

L’ISTINTO DELLA FEDE

Casa parrocchiale, 20.2.1988


Nonostante certe incrostazioni (tradizioni di rassegnazione, miracolismo,
santuari, « promesse », processioni, devozioni di santi, croci e candele) la
religiosità popolare dà la sensazione di una grande carica umana, una riserva di
valori, capace di grandi cose. L’ho visto nell’ultimo incontro di animatori nel
Pequià. La semplicità, la purezza, l’immediatezza di questa gente ti fa dire che ha
l’istinto della fede.
Mai come questa volta si è dato spazio alla Bibbia. Come la bevono! Qui

199
si usa drammatizzare la parola di Dio: loro stessi la ripresentano, la attualizzano
in forma di teatro. La mettono in scena secondo il copione della vita di tutti i
giorni. Una volta hanno rivissuto la scena del Battista: dovevi sentire che
invettive contro i fazendeiros! Delcides, cappellaccio e stivali di cuoio, ci godeva
a fare la parte del padrone, mettendo in ridicolo i suoi atteggiamenti.
La parola di Dio sembra toccare le corde più profonde di questo popolo.
Pare che viva una parentela naturale con il Dio della croce, quello calpestato e
crocifisso, perseguitato e giustiziato. La devozione del Cristo morto è molto più
sentita che quella del Risorto. Il popolo oppresso vive in simbiosi con il Dio
ridotto « ad un verme, un non-uomo », perché questa è la sua condizione di vita.
Un’altra volta hanno drammatizzato la consegna della terra all’uomo da
parte del Creatore; la divisione della terra come avveniva nella Palestina di Mosè;
come si era introdotta l’avidità ed il desiderio di sottrarre la terra ai propri
compagni. A questo punto è apparso il fazendeiro con i suoi pistoleiros: tutti,-
anche quelli che assistevano da spettatori, si sono alzati e si sono scagliati contro
di loro.
Per vivere il Vangelo, per capirci qualche cosa, bisogna mettersi in
posizione evangelica, situarsi evangelicamente. La vera esegesi è mettersi nei
panni, nelle condizioni vissute da Cristo. Chi ci capirà qualcosa delle invettive
contro i ricchi e l’esaltazione dei poveri, se non ha mai assaporato l’indegnità
della miseria? Chi non ha mai avuto fame (che non è l’appetito), non potrà mai
capire la maledizione del giudizio universale. Di questo passo si arriva ad
affermare che i popoli del primo mondo sono in posizione out, in una situazione
che li mette fuori della comprensione del Vangelo. Gesù ha fatto parte di un
popolo oppresso, dipendente, schiavo del potere romano e di quello delle sette del
tempo. Non è morto nel suo letto, ma è stato fatto fuori, su un patibolo destinato

199
ai sovversivi, eliminato dai nemici dell’uomo. I poveri leggono il Vangelo in
modo tutto diverso da quello dei popoli del primo mondo. Lo leggono
attraverso le lacrime ed il sangue; attraverso la loro storia di miseria, che è come
quella che va da Betlemme al Calvario. Chi non è mai passato attraverso una
situazione di crocifissione non potrà mai capire i crocifissi a milioni della miseria
di stato. I sazi, gli obesi, i nauseati del consumismo non potranno mai intendere la
sete di giustizia, la beatitudine di chi piange. Non ci si può accendere per la novità
assoluta di Cristo (vita nuova, nuova legge, pane nuovo, cieli e terra nuovi),
quando non si ha più nulla da desiderare, perché si è provato tutto.
« I ricchi hanno tutto, ma noi abbiamo Cristo... ». Quanta logica
evangelica in queste parole proferite da un contadino analfabeta! Come dire: voi
non avete bisogno di niente; a voi il Cristo non serve, quindi è nostro. Perché
assomiglia più a noi che a voi. Perché tra poi si trova a suo agio, è tra i suoi. I
poveri, come Cristo, sanno ancora entusiasmarsi per la vita, per ogni uomo che
viene al mondo.
Lo si vede ogni volta che in un tugurio nasce un bambino come quello di
Betlemme. Tutti gli sono attorno, tutti Io vogliono tenere in braccio. Anche nella
baracca più misera è accolto con festa, non come una minaccia al già magro
lunario familiare. Il neonato di ogni capanna non attenta alla vita dei suoi simili,
come fa un bambino dei paesi ricchi, che consuma 500 volte di più in risorse
materiali di un bambino del terzo mondo. Bisogna sforzarsi di immaginare: non è
la stessa cosa leggere la Bibbia, recitare il Padre nostro dalla posizione del primo
mondo (il più sfruttatore, inquinatore, consumista, dilapidatore) e da quella del
Terzo Mondo (il più sfruttato, strangolato dalle leggi di mercato, spogliato delle
materie prime, senza potere di contrattazione, cavia e manodopera a sottocosto).
Il Bigode aveva qualche cosa di mistico quando diceva: « Io sono

199
disposto a vedere il mio sangue scorrere pur di vedere i miei compagni salvi dalla
miseria. È solo dando la terra che si mette fine alla i fame. L’ho detto anche al
Ministro: “Io sono un contadino dalla testa calda”. E ho detto agli amici della
Capoema: “Avete venduto la terra e così avete messo fine alla mia vocazione di
coordinatore. Avevo rischiato la mia vita per voi, ma voi mi avete fatto fuori
moralmente ».
Si è sfogato per due ore. Frustrato, deluso, rivoltato. Se ne va nel Piauì «
per non diventare matto ». È nato con la vocazione del condottiero. Quando
incomincia a raccontare questioni di terra passa dal Parà al Maranhão, si accende,
perde la nozione del tempo. Pare che la terra sia un prolungamento del suo essere.
La terra, per lui, è tutto: pane, casa, vita. Sogna ad occhi aperti? Oppure è la voce
di una moltitudine di reietti, di espulsi, di schiavi?
Mi ha consegnato la sua storia, scritta a mano, fitta, come se mi
consegnasse un testamento. E quanta gente, come lui, non ha mai sentito neppure
il sapore della libertà! I punti cardinali della nostra antropologia sono tutti diversi
dai vostri. Noi sentiamo di sopravvivere. Non abbiamo altra scelta. La nostra
scelta? È proprio qui la schiavitù: non siamo neppure in condizione di scegliere.
Altri hanno già scelto per noi: le leggi di mercato, i prezzi delle materie prime, gli
interessi sui prestiti internazionali ecc. Non c’è più nulla da scegliere...
E la favola della libertà continua ad essere raccontata ai popoli-bambini a
tutte le latitudini della miseria. Solo per farli sognare.
Raccolgo alcune parole dal popolo: Lourenço: « In quel tempo ’oppressore
divorava il popolo di Dio. Ma oggi, in Brasile, la schiavitù è aumentata. I ricchi
stanno assoggettando i poveri, spingendoli fuori dalle loro terre. Il contadino che
vende la terra per l’impresa merita un processo. Chi si rattrista va a finire di
intristire sempre più. Il povero triste si distrugge da solo. Se ci lasciamo prendere

199
dalla tristezza, crepiamo prima del tempo ».
Adalgiza: «Il povero vive comprato. Il ricco vive con l’umiliazione del
povero ».
Maria: « Ho sperimentato tutto quello che di più terribile si possa
immaginare ».
Maria de Jesus: « Dio voleva l’uomo a suo servizio, in modo che gli fosse
più facile vivere. Ma l’uomo ha preferito farsi schiavo dell’uomo, del lavoro,
dell’impiego sotto padrone. Anche il povero ha le sue colpe, perché vuole
pensare solo a se stesso ».
« Oggi viviamo tutti divisi. Quando Gesù viveva sulla terra, gli apostoli
andavano sempre con lui. Non c’era la divisione ».

199
IL MIRACOLO DELL’INDUSTRIA

Casa parrocchiale, 25.2.1988


« Stai attento, la bisciona ti schiaccia! », diceva la mamma al bambino
irrequieto. O bichão è il treno che attraversa le foreste dal Para al Maranhão, per
portare al porto di Itaquì (São Luis) il minerale ferroso della più grande miniera
del mondo: 600 anni di estrazione. Una ferrovia di 890 km. costruita in tempo
record. Me lo faceva notare Jair, funzionario della CVRD (Companhia Vale do
Dio Doce): « Metà dei binari sono stati fusi a Volta Redonda (vicino a Rio de
Janeiro) e l’altra metà viene dal Giappone. I binari di fronte a noi sono giapponesi
». Un’altra joint venture, per la quale 18-20 miliardi di tonnellate di minerale
migreranno verso i paesi ricchi, passando sotto il naso dei miserabili.
È in atto un piano faraonico per trasformare il Maranhão in uno stato
industriale. Innumerevoli sono le industrie, che stanno sorgendo un pò dovunque.
Si vuole fare il miracolo di trasformare il contadino in operaio. Da tempo il
capitale transnazionale ha messo gli occhi sul nostro stato per farne un corridoio
di transito delle materie prime destinate all’estero. Nel giro di una decina d’anni
si invertiranno le posizioni: il 70% della popolazione rurale si stabilirà in città ed
il 30% nelle campagne. La stragrande maggioranza di analfabeti assicura una
riserva inesauribile di manodopera non specializzata, a buon mercato, docile e
sottomessa. H capitalismo selvaggio avrà la via libera. L’ordine è garantito.
Le industrie (straniere e dal meridione del Brasile) vengono qui di corsa.
Al sud gli operai sono ben organizzati, inquadrati nei loro sindacati, i quali sono
capaci di bloccare il paese. Al nord? Dio me ne liberi! Il poveraccio, il contadino
sprovveduto, il quale è sempre stato schiavo di qualsiasi autorità ed è stato
indotto a venerarla come un’emanazione divina, pronuncia la parola greve
(sciopero) con orrore.
Già ce ne accorgiamo: diversi villaggi si sono svuotati. Stanco di

138
combattere contro le forze della natura e della società, il contadino si è arreso.
Peggio: si è consegnato. Non ha mai avuto nulla di sicuro: non la dimora, non il
salario, non il piatto di riso e fagioli. Non è una « grazia del cielo » avere un posto
nel santuario dell’industria?
Che cosa comporta la trasformazione del campesinato in operariato? Un
cambiamento radicale della storia, cultura e costumi del popolo. Se è difficile per
una persona istruita adattarsi ad un cambiamento brusco e repentino, che ne sarà
del contadino analfabeta (il 70% nella nostra regione)? Abituato a seguire lo
svolgersi delle stagioni; con quel suo fare le cose al rallentatore, perfino nel modo
di parlare, sarà travolto dalla civiltà delle macchine; sarà costretto a sentirsi un
ingranaggio freddo ed anonimo del grande marchingegno.
Nella civiltà contadina l’uomo era al primo posto; il lavoro era per
l’uomo, non l’uomo per il lavoro; la natura era fatta per essere rispettata, non
strangolata, prostituita all’idolo del lucro ed alle leggi degeneri del capitale; la
produzione era finalizzata al bisogno, non al guadagno a qualsiasi costo.
Ancora oggi si vede che questa gente dà alle cose il loro valore di uso,
non il valore di scambio. Da una civiltà a misura d’uomo, siamo costretti a
passare ad una civiltà a misura della macchina. E que- st’ultima ha le sue
lusinghe. Peggio di una sirena. Lo pensavo mentre un fazendeiro mi decantava i
pregi di un sistema elettronico di irrigazione: « Pensa un pò! Basta un operatore
ed un computer per irrigare 250 ettari di terreno, con tre raccolti all’anno. Le
sementi selezionate ti danno i fagioli in 30 giorni, il riso in novanta, il granoturco
in 100 giorni. Avanzano tre mesi per la lavorazione, concimazione, ecc ». È vero,
la tecnica sa fare miracoli, ma a che prezzo?
La qualità umana del contadino ha qualche cosa di bello. Un patrimonio
umano preservato all’ombra della foresta. Me lo ha dimostrato or ora l’Oliveira,
che è passato di qui a dirmi: « I nostri padri ci hanno insegnato a condividere
tutto: una sigaretta, la caccia, la frutta, qualsiasi cosa. Io lavoravo alle dipendenze
del gato (gerente) e stavo bene. Ma me ne sono andato. Chi sta sopra di noi ci
umilia, ci sfrutta, anche peggio del padrone. Il padrone ci tiene buoni, perché gli
serviamo; ma il gerente... ».
Non dico che i contadini siano degli stinchi di santi. Anche loro sono stati
139
inquinati dalla mentalità borghese, dalla logica del lucro. Costretti dalla
necessità. Per sopravvivere. Sembra, però, che il contatto con la natura li preservi.
Sembra prevalere in loro, per forza d’inerzia, il peso delle buone tradizioni; gli
usi dei nostri padri ci abituavano a condividere. « La terra era libera, di tutti,
nostra. Era impensabile venderla, farsi padroni. Gesù insegnava, ma non si
metteva sopra agli altri ». E Oliveira: « Come faccio a dire il Padre nostro insieme
al gerente, dal momento che lui si ritiene superiore a tutti quanti? ».
Nella regione sono già in fase avanzata due altiforni ed altri quattro
saranno pronti per l’anno prossimo. Conseguenze? Tutti si mettono a far carbone;
il prezzo della terra è alle stelle (i piccoli proprietari sono invogliati a vendere);
ogni anno i forni ingoieranno 80.000 ettari di foresta; si accelera la
desertificazione del suolo, il cambiamento del clima, la degradazione ecologica.
Nel « Corridoio del Progetto Grande Carajas », dove il benessere è solo in
transito, grandi masse umane di flagelados, di contadini senza terra, di diseredati,
sono già in movimento. Il Dipartimento di Stato per i trasporti ha fatto
raddoppiare le strade di accesso alla città. Ed il governo tira un sospiro di
sollievo: il « corridoio » è una provvidenziale valvola di scarico per i contadini
senza terra. La Riforma Agraria ufficiale è fallita prima di nascere. Nel 1986
doveva sistemare 400.000 famiglie senza un palmo di terra; ne ha sistemate, su
tutto il territorio nazionale, solo 16.000. Niente paura! Il capitale transnazionale,
generoso e disinteressato, salverà « la specie contadina » destinata all’estinzione
civile. Industrie inquinanti, processi chimici pericolosi, lavorazioni messe fuori
legge in altri stati, riceveranno asilo politico nelle periferie del mondo. Tutti gli
annunci pubblicitari lo assicurano: « la manodopera è abbondante e a buon
mercato!».

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« NANISMO ALIMENTARE » E CARITÀ

Açailàndia, 1.3.1988

Mons. José Rodrigues (vescovo di Juazeiro - Bahia) ha visitato i suoi


sequestratori in carcere. Poi ha dichiarato: «Non serbo loro rancore, perché so che
molti criminali e prostitute sono vittime della nostra società. Nessun bambino
nasce sequestratore, nessuna bambina nasce prostituta. È la società che li fa così
». È la società che produce i malati di fame, i naufraghi, i disperati.
Altra notizia-brivido: la società produce anche pigmei! Lo rivela la
rivista « Veja » (21.10.1987) titolando « Brasile pigmeo ». « Gli abitanti della
regione della canna da zucchero misurano, in media, cm. 161 gli uomini e cm.
151 le donne. Il dottor Meraldo Zisman, dopo aver esaminato trentamila casi a
Recife (negli ultimi dieci anni), conclude che la maggioranza dei nordestini è
vittima di nanismo alimentare [...]. La ragione è semplice: senza una buona
alimentazione, le madri bisognose partoriscono figli al di sotto del peso normale.
E siccome non sono adeguatamente alimentati, la crescita è lenta e fuori del
normale. Il nordestino ingerisce 1845 calorie al giorno, mentre il normale
fabbisogno sarebbe 3000. Le donne rimangono atrofizzate [...] ed i neonati con il
cranio più piccolo e lesioni irreversibili nel cervello ».
Non siamo tenuti a ricercare il germe patogeno di queste malattie imposte
dalla società? E quando si diffondono e sterminano in grande scala non sono più
semplici malattie, ma si chiamano epidemie.
« Si calcola che, nel giro di cinque anni di siccità, giungerà a dieci milioni
- un genocidio! - il numero delle vittime di questa catastrofe, un numero superiore
a quello di tutti i morti delle guerre ingaggiate nell’intera storia del nostro
emisfero » (« Folha de São Paulo », 3.6.1984).
Non mi spinge il gusto del macabro a spigolare queste notizie. Il fatto è
che per me si tratta di notizie che mi vengono in casa in carne ed ossa. E io non
196
riesco a chiudere gli occhi, il cuore, la coscienza. Non posso non testimoniare,
perché il giudizio sulla storia è in atto. È qui. Come Juracì, a mostrarmi il figlio di
5 anni in coma per denutrizione. Sono fuggiti dal Cearà la settimana scorsa e, nel
frattempo, hanno mangiato due volte. I figli di Juracì sono folle, non eccezioni. Il
bacillo del male affonda le sue .radici nel tessuto sociale. È di natura
internazionale. Per questo non ci è lecito occultare il cadavere. Le fosse comuni
della fame non si chiudono voltando pagina, cambiando canale.
Un volontario di pastorale (Zoé da Cunha) metteva il dito sulla piaga
quando dichiarava ai giornali: « Convincere le donne ad abbandonare la
prostituzione? A che serve quando c’è un sistema montato ad arte per fabbricarne
altre? ».
L’abbiamo già visto ripetutamente: neppure i ponti aerei per l’Etiopia; gli
aiuti umanitari al ritmo della Band Aid; i business della carità; neppure le nuove
befane ed i rimodernati babbi-natale risolvono il problema.
La carità può essere diabolica. Bisogna riesaminare il nostro tipo di
intervento, la nostra pratica della carità. E non è possibile farlo senza tener conto
della geografia della fame, della sua matematica (le proporzioni), delle sue cause.
I regimi godono a mantenere i poveri con il contagocce dell’elemosina. Poveri
loro se mancasse il consenso dell’immensa piattaforma (o zattera?) della miseria!
Ogni volta che faccio la carità vado in crisi. Sto aiutando il sistema a stare
in piedi? Smorzo nei poveri la sete di giustizia, la molla che li porterebbe ad
esigere, con tutti i mezzi possibili, ciò che spetta di diritto? Spegnere la loro fame
è anche spegnere la loro volontà di difendersi da chi gli impone la miseria?
Calmare la fame è procrastinare il giorno del cambiamento radicale; sfamarli
vuol dire mantenerli nello stato di anestesia, che impedisce loro il risveglio
dall’incubo dell’ oppressione. In ultima analisi l’elemosina si risolve in un’arma
contro i poveri che la chiedono e fa il gioco del sistema, il quale ha tutto
l’interesse a produrli e mantenerli. È così facile abbindolarli, manipolarli,
comprare il loro voto! È tragico fare queste considerazioni sulla pancia degli
affamati. Ma lo faccio dopo aver organizzato collette su collette; dopo aver
scocciato tanta gente per dar da mangiare ai senzatetto; e loro hanno scocciato me
per sfamarsi. Non ho risolto niente, perché la carità non può supplire la giustizia;
la buona volontà dei generosi non può coprire l’ omissione dei pubblici poteri, i
quali hanno in mano tutti i mezzi per risolvere con dignità e giustizia questo
«scandalo della fame » (come lo chiamano i Vescovi del Brasile). E così, a
196
malincuore, oggi mi vedo costretto a chiudere il rubinetto dell’elemosina; ho
spiegato loro che è ora di cominciare ad esigere; che l’elemosina è un’emergenza,
un cerotto. Ma non si può mettere un cerotto su un cancro, su un sistema sociale
che istituzionalizza il « regime di elemosina » di milioni di cittadini.
Ed i poveri hanno cominciato a prendere la via della Segreteria per
l’Educazione (dove c’è il deposito dei viveri). Non hanno ottenuto nulla. Un pò
perché erano troppo pochi, un pò perché sembrano stanchi di lottare. I senzatetto
hanno occupato per un mese le scuole, sperando, ogni giorno, una soluzione. Li
hanno denigrati in tutti i modi. Abbindolati, lusingati, minacciati, derisi dalle
autorità: « Quelli non sono che vagabondi! ». Oggi sono sfiniti. Non ce la fanno
più. Ma un gruppetto di donne ha insistito. Erano andate al deposito-viveri con un
bastone nascosto sotto la gonna, decise a buttar giù la porta. È arrivata la polizia
immediatamente. Anche la polizia dalla parte del « disordine costituito »! Stiamo
vedendo che ciò che teneva insieme i senzatetto era il bisogno della casa; come
hanno conquistato un pezzo di terreno, ognuno ha cominciato a pensare a se
stesso, a farsi un riparo. Pare che sia finito l’incantesimo, la solidarietà che li
amalgamava. Lo so, io parlo a mente fredda. Io non sono dentro al bisogno come
loro. Io non so che cosa vuol dire abitare sul « buco », con la baracca che fa
acqua, sospesa tra cielo e terra. L’erosione delle piogge torrenziali ha portato via
una parte del pavimento. Vecchi e bambini sono già caduti nel « buco ». Maria
das Dores, una gestante di 24 anni, è morta con la sua creatura. Abbiamo fatto una
grande processione e un gran baccano; abbiamo messo insieme una
commissione; un gruppo è andato a chiedere udienza al Governatore; che cosa è
cambiato? I poveri si sono stancati perfino di sperare.
La situazione in città è di calamità naturale, di emergenza, per usare la
parola giusta. Il deputato che è passato di qui: « Questa non è una città, ma un
porcile! », diceva mentre cercava di evitare le maleodoranti pozze d’acqua piene
di tutti i germi patogeni che si possono immaginare.
Dalgisa ieri ha sputato vermi lunghi una spanna. Me lo raccontava donna
Ana storcendo la bocca. La persona dei cinquemila cruzeiros di elemosina è
tornata a chiederne altri cinque, per comprare il latte per il bambino. Donna
Lourdes: « Ho 38 anni di sofferenza e 18 figli ». Donna Luzimar: «Lavoro con la
pancia vuota e torno a casa senza sapere che cosa fare ». Donna Maria Gomes: «
Mangio a prestito ».
Ho chiesto a Conceição cosa aveva mangiato ieri (lei ed i suoi sette figli):
« Ci siamo alzati senza nulla in casa, eppure abbiamo pranzato e cenato. Chi sta
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con Dio non cade ». È profondamente teologico quello che ho sentito tante volte
dai poveri: « Noi poveri non abbiamo nulla, ma abbiamo la fede in Dio ».
All’ora di pranzo si sono presentati due bambini: « La mamma ci ha
mandato a dire che il fuoco è pronto, ma non ha nulla da mettere nella pentola ».
Zé, il professore, è venuto a fare un’inchiesta. Ha voluto scendere nel «
buco » e visitare le casine sospese tra cielo e terra. Alcune sono già state ingoiate
dalle piogge torrenziali, altre si sono ripiegate su se stesse e pendono nel vuoto.
Stanche di lottare anche loro. Sembrano scheletri piegati dalla forza del male.
Ha chiesto ad un padre di famiglia (9 figli): « Non hai paura che la
pioggia ti porti via casa e figli nel sonno? ». Alzando le mani al cielo: « Solo Dio,
solo Dio può risolvere! ». Se ne è andato commentando: «Questa gente sembra
brutalizzata dal tanto soffrire ».
Grazie a lui abbiamo coinvolto gli avvocati di « Giustizia e pace». Con
un’interpellanza giudiziaria abbiamo denunciato di omissione in pubblico ufficio
le autorità, responsabilizzandole per la morte di cinque persone e per i danni
materiali di duecento case inabitabili.

L’UOMO È SACRO
Scrivo queste note su un ceppo di legna, in una casa senza porta, senza
finestre, fatta di fango. È una casa questa? Bevo l’acqua del pozzo « che canta »,
per via dei rospi giganti. Difendo il mio piatto di riso e fagioli dall’invasione delle
baratas (scarafaggi). Lo so, i miei non sono che balbettii per vedere un uomo
diverso. Ma è bene tenere presenti le circostanze per poter capire chi si dispera
per l’uomo-schiavo, per il non-uomo. La Genesi dell’uomo è in marcia. Per
pronunciare nuovi « verbi » di libertà e di giustizia.

È notte nella foresta. Scrivo alla luce della lampada a petrolio. Cinque ore
a cavallo, nelle vene di Dio, per incontrarsi con l’autore del meraviglioso mondo
della foresta. Ho visto il Dio della Genesi, delle liane, delle piante rampicanti e di
quelle secolari; il Dio delle dolci palmeiras di acaì, di buritì, di babaçù; il Dio dei
fiori tropicali; il Dio dei profumi intensi come la canfora, l’anajà, il marì, il pequià.
Il Dio del mondo come era quando è uscito dalle sue mani il primo giorno della
creazione.
Qui non è ancora arrivata la mano dell’uomo. Solo quella di Dio risplende.
Arbusti rampicanti, scale di macaco, corde vegetali a disegnare un ricamo vivo in
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controluce. Le piante secolari incutono rispetto. Clima di raccoglimento nel tunnel
verde. Là, in alto, oltre le chiome dei jatobà e degli ipé, qualche macchia di azzurro
filtra il sapore del cielo. Sul fondo valle ci accompagna un filo d’acqua come una
vena aperta. La Genesi è intatta. Con il suo autore. Da millenni una vita
incontaminata. Incontrarsi, faccia a faccia, con Lui. La foresta con i suoi segreti e
le sue confidenze, i suoi misteri e le sue rivelazioni. Genesi viva. Se l’uomo
giungerà a distruggere la foresta, avrà cancellato dalla faccia della terra qualche
cosa della fisionomia di Dio. Come guastare i tratti fisionomici di una persona
cara.
In groppa al mulo, per sentieri scoscesi, dentro e fuori dal torrente. Per
evitare rami e spine bisogna chinarsi sul collo dell’animale. Saltare un tronco che
sbarra il cammino. Quando il sentiero è ostruito, gli accompagnatori mettono mano
al facão (coltellaccio) per aprire un varco.
I viaggi nella foresta lasciano il segno nell’anima e nel corpo. La diarrea
mi ha rubato qualche chilo. L’ameba di nuovo. Ho visitato le capanne sperdute qua
e là, dove tanti poveri cristi tentano di emergere dalla schiavitù del bisogno. Quello
minimo: saziare la fame; bere acqua pulita; crepare al tempo giusto, non
anzitempo. Conoscere il gusto di vivere, almeno... I bambini sembrano decisi a
nascere per morire.
José Vaqueiro (un vecchio che non sa né leggere né scrivere, le mani di
cuoio a furia di abbattere alberi) mi diceva: « Padre, per non uccidere i figli di
fame, mi sono sradicato dalla mia terra e vivo nella foresta con la moglie paralitica
e 13 figli ».
Mi ha impressionato la sua lucidità: « Per non uccidere di fame ». Chi
costringe tutti i José del Terzo Mondo ad uccidere di fame i loro nati? Chi sono i
mandanti di questi crimini? E se la fame è un’arma che uccide (50 milioni di
vittime ogni anno), chi la stringe in pugno?
Nelle piste della foresta non mancano agguati ed imboscate alla cultura e
fede occidentali che mi porto dentro. Mentre nel primo mondo si teorizza, si
spiritualizza tutto quanto, due terzi della umanità vive alla deriva. Altri sentieri
dobbiamo aprirci nelle foreste selvagge del « più produci, più guadagni ». È il
destinatario di ogni messaggio che ci sbarra il passo: quale uomo, quale società?
Cosa andare a dire a chi ce la mette tutta per non affondare nella diarrea? Predicare
loro la salvezza dell’anima e mandare alla malora il loro corpo?
Vita eterna, resurrezione dei morti? « Per carità, ci basta questa vita di
stenti nelle fogne del mondo ». - « Noi siamo già morti prima di morire ». Echi di
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moltitudini di esclusi dalla vita, che fanno tremare la foresta. Senza cittadinanza,
senza peso di gravità sulle bilance del mondo.
E l’Occidente insiste: ordine e progresso: sicurezza nazionale; libera
concorrenza; salvezza soprannaturale, liberazione dal peccato... Liberazione? Da
che cosa se non ci è permesso neppure di essere uomini? I nostri figli uccisi di fame
sono il vostro peccato! Una volta distrutto l’uomo dove appoggeremo il cristiano?
Quanta passione per l’uomo mi hanno iniettato le « donne dolorose », « i bambini
di cera », le donne Rite, che non hanno neppure la forza di impiccarsi tanto sono
deboli!
Viaggiando nella foresta - questo manto verde che respira la vita; questo
vestito fresco che custodisce l’umidità; questo narrare infinito la vita abbondante -
si fa ancora più stridente l’attentato alla vita. Il coro dei dannati ci insegue: noi ci
troviamo sotto il limite di guardia, nella preistoria della dignità umana, in mezzo a
non-uomini, che sopravvivono in non-case. Il primo annuncio, « la lieta novella »
che noi attendiamo è quella che ci fa uomini, almeno. Cristo è, in prima istanza, il
fondatore di una religione o di una antropologia nuova e rivoluzionaria, perché
mette l’uomo al primo posto? Non è per l’uomo (non solo per il cristiano), che ha
perso la testa, si è svuotato di sé ed ha buttato via tutto per comprare questo tesoro?
L’uomo introduce, prepara l’avvento del cristiano, non viceversa. Lottare per la
giustizia, la pace, la libertà, i diritti umani è un esercizio precristiano. Il primo
annuncio cristiano è di natura antropologica: l’uomo innanzitutto; l’uomo
soprattutto. Guai a chi lo usa come « fattore di produzione ». Guai a chi lo
prostituisce, comprandone il sudore della fronte. Prima di proporre una religione
(cammino speciale: « si vis »), Cristo impone la strada maestra: la giustizia: « chi
ha due tuniche, due case, due macchine, due terreni, ecc. ne dia uno a chi non ne ha;
e chi ha eccedenze alimentari, riserve di latte, burro, carne, faccia altrettanto,
perché non sono sue... ». La porta di accesso a Cristo è l’uomo. L’uomo che ha
fame, sete, ecc. Si presenta sulla scena della storia come il Salvatore del mondo,
non come la « soluzione » di una élite, la consolazione delle preghierine e
dell’elemosina. Egli è molto più che il fondatore di una religione. Fonda la civiltà
dell’uomo, fino al punto di identificarvisi: « Ogni cosa fatta al più piccolo dei miei
fratelli (tutti gli sono fratelli in umanità, alcuni anche in religione), l’avrete fatta a
me ». La civiltà è per tutti, una religione per dei volontari.
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Cristo ha rinunciato alla religione come la intendiamo noi, per abbracciare
l’uomo: dal ladrone al pubblicano alla prostituta. E lì ci ha fatto vedere cosa vale
l’uomo per il Padre. Perché avrebbe dato la vita per tutti, per ognuno, se l’uomo
non fosse tutto per Lui? Se l’uomo in quanto uomo, l’uomo nudo della foresta non
fosse la sua causa, la sua passione? Innalza ogni fame e ogni sete. L’uomo è sacro.
Ed il suo stomaco pure. Prima di qualsiasi religione o ragion di stato.
Non mi era ancora successo. La foresta mi ha conficcato nella carne
carrapatos (una specie di ragno che si pianta sotto la pelle e succhia il sangue) e
pulci che si vedono ad occhio nudo. Che prurito terribile! Ho steso tutta la
biancheria al sole; il caldo dovrebbe scottarle (dice il popolo). Condividere la vita
della gente vuol anche dire condividerne le precarie condizioni di igiene; convivere
con cani e gatti, che fanno tutto dentro casa. I pulcini li hai sempre tra i piedi e il
cane dorme sotto l’amaca.
Da quando sono sbarcato sulla terra degli oppressi mi sono messo su
un’altra lunghezza d’onda: la nostra sfida non è credere a Dio (anche gli angeli
ribelli, anche i persecutori ci credono), ma credere all’uomo. Dio l’ha raccolta per
primo. Ci ha creduto fino al punto di farsi uomo: per rivelare le sue infinite
potenzialità di bene; per condividere in tutto la nostra condizione. Per essere alla
pari: dare e ricevere tutto dall’umanità. Compagno di viaggio in questa foresta di
istinti selvaggi. Solidale con la nostra avventura. Un Dio e un uomo al quale
nessuno potrà rinfacciare: « Belle le tue Beatitudini, ma tu non sai cosa significhi
piangere, essere inchiodato sulla croce della miseria, essere perseguitato ». Un Dio
impassibile potrà insegnarci a non temere coloro che ci uccidono il corpo di
anemia e di denutrizione? Come avrebbe potuto pretendere da noi quello che lui
non avrebbe mai tentato di fare? Chiederci di rallegrarci nel pianto, nella
persecuzione, amare i nemici, senza darcene l’esempio?
Ecco l’inaspettata risposta: un bimbo che ha fame sotto una cometa, come
i figli di José Vaqueiro. E questo nato da donna si mette accanto a noi ad Emmaus,
ad Auschwitz, a Hiroshima, in Vietnam. Vive e soffre i nostri tormenti, le
contraddizioni, le angustie ecologiche e le inquietudini nucleari. E poi arriva ad
identificarsi con l’oppresso, l’affamato, il popolo schiavo. Come se dicesse: « In
nome di Dio avete fatto di tutto. Perfino le guerre di religione. State distruggendo
la terra e minando il cielo. Allora io vi dico: se non avete pietà di Dio, avrete
almeno pietà dell’uomo? Potrete infierire su questa carne che è mia e che è vostra?
Non avrete pietà di voi stessi? ». Un Cristo che ci dà l’ esempio per primo: crede
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nell’uomo. Nonostante tutto. Ed ha il coraggio di consegnarsi all’umanità: si è
messo nelle mani della Vergine, di Francesco, di Chiara; ma anche in quelle di
Nerone, Hitler, Pinochet. Non si è identificato con ogni vittima che passa per le
mani del carnefice? « Ero io nel torturato, nel massacrato, ecc. ».
Bisogna ricominciare da capo. Riconciliarsi con l’uomo. Relativizzare
tutto il resto, per assolutizzare il fine della storia: l’uomo. Se Cristo si trovasse su
una zattera alla deriva, quale messaggio offrirebbe ai compagni di sventura? Nel
Terzo Mondo ci troviamo in situazione di emergenza, di calamità sociale, di
naufragio. È questo che ci costringe ad affermare che tutto è relativo di fronte al
bisogno impellente di salvare l’uomo. Dalla violenza istituzionalizzata. Dai popoli
briganti che dissanguano i popoli-bambini e li buttano, mezzi morti, ai margini
della storia.
Riscoprire che ogni uomo è della stessa carne dell’incarnazione. Viene
dalla stessa cava. Salvare l’uomo non è già, in se stesso, un atto di religione, un atto
di culto al suo Creatore, perché mi religa al fratello, mi riconcilia con la mia
vittima? Quale religione? Quella più universale di tutte, quella che ama l’uomo più
di se stessa. Qualunque uomo, frumento o zizzania, perché il Padre non cessa di far
piovere sui giusti e sugli ingiusti.
Riprendere il cammino dell’uomo e scoprire l’universalità di Cristo. È di
tutti, non è un ghetto. Vive nei bruciati vivi sulle piazze di Soweto. Negli esiliati
politici, nei profughi, nei perseguitati dalla carestia naturale e quella procurata,
organizzata per perpetuare la «soluzione finale » dei miseri. Vive nei popoli-
bambini violentati dalle economie giganti. E continua a dire: « Ero io nel
popolo-bambino depredato della sua cultura, spogliato del suo potere di
contrattazione, saccheggiato delle sue materie prime; ero io in loro, nelle
moltitudini condannate a morire di fame nel secolo del consumismo; ero io nelle
masse impoverito, senza lavoro, senza dignità ».
Cristo, per essere significativo ai sub-uomini, non può ridursi ad una
proposta individualistica e spiritualistica; un Salvatore che salva solo
nell’intenzione, in chiesa e nelle preghierine del mattino e della sera; e neppure un
distributore di grazie che aiuta i poverini, si serve delle loro miserie per sentirsi
buono e praticare « la carità in grado eroico ».
Il terzo mondo reclama quel Cristo originale, quello di Betlemme, che sa
marciare sulle piste dei perseguitati; quello che conosce e non si scandalizza
dell’indegnità di chi si vende per fame; quello che sente i tormenti dei ribelli ai
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disordini costituiti e si votano al dovere civile della legittima difesa, per salvare il
loro popolo dalla condanna della miseria. Un Cristo forte e deciso che, prima di
insegnare le orazioni ai popoli denutriti, insegna loro a coniugare nuovi « verbi »:
giustizia e libertà. Un Cristo che esige dai popoli del primo mondo di tagliare
quelle mani e quelle leggi che sottraggono ai popoli del terzo mondo il diritto alla
vita; di cavare quell’occhio che ci impedisce di vedere gli altri come fratelli.
Oppure come nostri simili: non è più che sufficiente?
L’uomo: una religione per Dio. La religione di Dio. Non si è «legato »
(religio da re-ligare) a doppio filo al destino dell’uomo? All’inizio della storia ha
voluto l’uomo simile a sé; nella pienezza del tempo è Lui che si fa simile all’uomo.
Tra queste due teste di ponte si svolge tutta la vicenda umana.
Non l’uomo qualunque, ma l’uomo vittima, l’uomo crocifisso. Il popolo
crocifisso. L’uomo la cui sostanza umana è ridotta ad una figura, come quella del
lino della Veronica: « Non abbiamo volto, né valore. Hanno contato le nostre ossa.
Abbiamo solo delle tracce di umanità, niente altro ».
Il tempo, nella foresta, è relativo. Come la storia di questo popolo, per il
quale tutto è relativo. Il tempo qui si è fermato sulla soglia della creazione. Le
piante secolari non parlano d’altro. Fino a quando? Poco lontano si sentono le
prime motoseghe venute a confondere le note degli uccelli. La foresta era l’ultima
scuola di libertà. Il vento ne canta la canzone tra le chiome immense dei cedri.
L’arara (della famiglia del pappagallo) sfoggia la sua libertà di colori. La foresta
profuma libertà. Il suo fascino è irresistibile.
Il santuario della libertà si fa sempre più ristretto, corto il suo sentiero. Il
tempo si è accorciato. È giunta l’ora di fare i conti con il terzo mondo. Volenti o
nolenti. Il terzo mondo è la nuova dimensione della storia. L’antropologia della
liberazione non è ancora nata. Ed è la cosa più urgente di tutte. La sfida viene dagli
« ultimi »: convertirsi all’uomo.

L’UMANITÀ DI DIO CI INQUIETA


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Açailàndia, 28.3.1988

Al crepuscolo del secondo millennio cristiano le vittime esigono un


bilancio. La prima metà del secolo ventesimo ha inventato due guerre mondiali,
l’esperienza dei campi di concentramento, lo sterminio di Hiroshima e Nagasaki.
La seconda metà ha rivelato i gulag dell’ est, i sotterranei della fame al sud, il
potenziale nucleare del nord capace di distruggere la terra più di 150 volte. Le
scienze vivono la breve primavera dell’ euforia per l’uomo tecnologico. Le
religioni hanno deluso, le ideologie ingannato i più. I frutti dell’uomo elettronico
rischiano di rivoltarsi contro di lui e mettono in rischio le future generazioni. Non
c’è immagine più eloquente dell’uomo moderno, di quella dell’astronauta
galleggiante nel vuoto. Come un relitto alla deriva della storia. Al nord del mondo
ci si vota ad ogni sensazione-limite, al gusto del brivido e dell’apocalittico. Per
dimenticare. Oppure per assuefarsi al peggio, alla fine nucleare. ÀI sud le fosse
comuni della fame aumentano invece di diminuire.
Che cosa rimane sul tappeto? Quali segni di speranza resistono al franare
del tempo?
Sia a nord che a sud c’è qualche cosa che resiste: l’interesse per l’uomo. La
preoccupazione per la salute pubblica dei popoli e dell’ecosistema. Nel primo
mondo dilagano i movimenti che si coagulano attorno alla bandiera dei diritti
umani, del nucleare e dell’ecologico. L’unica forza capace di coadunare è l’uomo:
la sua sopravvivenza; il benessere civile; la formazione planetaria della coscienza;
il futuro delle nuove generazioni; il patrimonio umano; le risorse non rinnovabili;
la sostanza umana. Nel terzo mondo i condannati alla morte innaturale ed
istituzionalizzata per denutrizione mettono in scacco tutto quanto: culture, civiltà,
religioni.
L’interesse della storia mette a fuoco un solo punto: il fenomeno umano.
L’unico punto di convergenza: il pianeta uomo. Come l’ effetto di un naufragio:
abbiamo gettato a mare tutto il resto - la zavorra -, non ci resta che salvare
l’essenziale: l’uomo.
Da più parti si parla del terzo millennio come del millennio dell’uomo
secolare. Una specie di alleanza sull’uomo al di là delle ideologie e delle religioni.
Un’intesa sui valori essenziali come i diritti umani, la giustizia, la pace. Questa
sfida ci costringerà ad alleggerire il «Cristo-teologico » delle culture occidentali e
ci ritroveremo tra le mani un « figlio dell’uomo ». Uno che viaggia con noi sulle
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piste dei popoli perduti, delle masse cadute nelle mani dei popoli briganti; uno che
si perde con noi nel labirinto delle incognite del domani; uno che piange e ride e si
dispera come noi. Se il Cristo vuol essere coerente con la sua missione di Salvatore
del mondo, del cosmo e della storia, deve essere significativo per i popoli depredati
e deve avere qualche cosa da dire ai popoli opulenti, sazi ed annoiati. Che gli
importa del ringiovanimento delle liturgie e dei codici, mentre la sua umanità frana
nella miseria? Forse che è tanto meschino da prendersela con l’« uomo secolare »
che rigetta gli incensi, le candele e le elemosine? Oppure è tanto permaloso da
prendersela, perché i macroproblemi ci inducono a relativizzare gli infallibili e gli
assoluti? Perché rimpicciolire chi era venuto al mondo con l’unica pretesa di essere
utile come il pane, l’uomo di tutti, l’uomo per tutti?
Un semplice uomo non vale più di un tempio?
La nuova ottica della storia è l’antropologia. L’ultimo appuntamento della
storia, forse. L’umanità. La nostra e quella di Cristo. Questa è la lezione degli
ultimi, dei crocifissi della storia. Le loro stigmate sanguinanti ed istituzionalizzate
ci richiamano l’umanità di Dio. E ci inquietano: con tanta dottrina, con tanta
religione, non sappiamo ancora vedere l’umanità denutrita ai margini della storia.
Allora significa che tutte le teologie devono diminuire per far crescere le
antropologie. Lui continua a vivere nell’umanità crocifissa; Lui, con la sua umanità
umiliata ed oppressa, dimenticata nei sotterranei della fame. Come mai tanta
evangelizzazione non ci ha fatto vedere che la carne del popolo calpestato è la
stessa di Lui, il Cristo? Evangelizzare o umanizzare? Avrebbe il Cristo il coraggio
di evangelizzare gli oppressi, i dimenticati, gli esclusi, i « nonuomini »? E poi, il «
non-uomo » non è proprio Lui, il Cristo che annuncia, profetizza e condanna chi
non lo sa riconoscere nel popolo affamato di dignità, assetato di giustizia?
Evangelizzare il denutrito non potrebbe voler dire aver la pretesa di evangelizzare
lo stesso Cristo? Non l’ha detto Lui che vive in loro? Chi avrebbe il coraggio di
evangelizzare il Cristo sulla croce della miseria, della diarrea e dei vermi?
« La ragione? È che noi vogliamo essere più spirituali dello stesso Dio.
Quando ci parla della vita, del corpo, del mondo, noi preferiamo che ci parli dei
segreti dell’aldilà... L’umanità di Dio ci inquieta. Proprio così. L’umanità di Dio.
Una cosa che i primi cristiani scoprirono con paura. Mi correggo. Non è che i
cristiani, dopo essersi consolidati nella fede, abbiano scoperto l’umanità di Dio
come qualche cosa in più di cui parlare, qualche cosa che si poteva aggiungere alle
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loro idee teologiche... La verità è l’inverso. Fu quando capirono che per parlare di
Dio è necessario smettere di parlare di Dio e parlare di un uomo, di un volto, di una
vita... fu allora che si sentirono cristiani.
Dio, per parlare di sé, si è fatto uomo. Parlare di Dio è parlare dell’uomo.
La parola si fece carne. Nostro fratello. Uno di noi. È nato, è vissuto, è morto » (R.
Alves, Credo nella resurrezione della carne, Rio de Janeiro 1982).
Basta risalire la storia: quando Dio ha deciso di amarci ha preso il nostro
volto, si è fatto noi. Da quel momento « ogni cosa fatta al più piccolo dei miei
fratelli è a Me che l’avrete fatta ». Toccare l’uomo è toccare Lui. È qui il potere
eversivo dell’amore, che si fa come la persona amata. O accettiamo di andare a Lui
attraverso l’uomo, o ci precludiamo ogni discorso su di Lui.
L’uomo secolarizzato può essere indifferente al discorso su Dio (teologia),
ma non ad un discorso sull’uomo (antropologia). Perché non può ignorare se
stesso, la sua parentela con ogni carne di figlio d’uomo. E lo Spirito fermenta la
storia dai sotterranei della sostanza umana. È sulla carne degli oppressi che il
Cristo continua a richiamare l’attenzione della storia: « Ecco l’uomo! Ecco come
mi avete ridotto ad Auschwitz, ad Hiroshima, nelle favelas, sulle palafitte, nei
flagellati della secca; ogni cosa fatta al popolo più piccolo ed umiliato, l’avrete
fatta a me ».
I cristiani hanno voluto cristianizzare tutto, incominciando dal Cristo. Se
lo sono appropriato in maniera esclusiva. Cosa manca a tutte le teologie?
Un’antropologia della liberazione. La teologia vale per i cristiani, l’antropologia
per tutti. Cristo - per assurdo! - prima di essere « un cristiano », è un « figlio
dell’uomo ». Appartiene a tutti. È di tutti. La più grossa rivoluzione di tutte le
religioni: mettere al centro l’uomo. Fame e sete, dignità e libertà diventano i
paradigmi dell’universo. O imparare a coniugarli o escludersi dal pianeta umano.
Torna l’interrogativo: Cristo è venuto a fondare una religione particolare o
una nuova civiltà? Una religione riguarda un gruppo di persone, la civiltà abbraccia
il genere umano. Cristo, uomo universale, ha, in prima istanza, una proposta per
ogni uomo (la giustizia: vedi giudizio universale Mt. 25) e, in secondo appello, una
proposta speciale per chi vuole andare oltre («si vis »: l’amore, che « rinuncia
perfino a quello che gli spetta »). Ogni dannato della terra, ogni scomunicato dalla
vita ha il diritto di sentirselo al fianco. Conficcato nella sua carne crocifissa. Perché
Lui è stato crocifisso sulla croce della storia. Ed ogni crocifisso è Lui redivivo.
Il Cristo è ancora lì, in ogni favela, in ogni presepio, in ogni Calvario, che
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aspetta l’uomo per fare alleanza con lui. In favore dell’uomo. Una cosa sola è
necessaria: salvare l’uomo. Tutto il resto ci sarà dato in sovrappiù.

SVILUPPO ED ECOLOGIA

Açailàndia, 20.3.1989

Una tregua per prendere fiato. Un pò di silenzio per puntare gli occhi nel
futuro. Da giorni mi sveglio all’alba e scruto l’orizzonte della storia. Gli echi del
Congresso di Berlino (agosto 1988) sul debito estero, indios, ecologia sono arrivati
fin qui. Ho sognato che stavo facendo un gran sermone sulla sacralità della
materia. Dove mi trovavo? Non lo so se ero in un tempio, su una catena di
montagne o sulle stelle. Avvertivo una cosa così fine, che è paragonabile solo con
la luce. Una specie di compenetrazione con gli atomi fratelli. Ma è ben più
profondo quello che mi vibra dentro. Vivo il pianeta come se fosse l’utero che mi
ha generato, l’essere nel quale il mio io nuota, si agita, respira, applaude la vita, la
piange quando è colpita. Il cosmo non è fuori di me, ma dentro. Scorre nelle mie
vene il ruscello, la soffice luce delle stelle, il profumo delle foreste, i colori, i canti
degli uccelli. Chiedi all’arti- sta che cosa sono per lui i colori, le note, un pezzo di
marmo. Non vive in connubio con quelle «cose materiali »?
I resoconti di Berlino sono impressionanti. Si incomincia a parlare di
ecocidio, olocausto biologico, frenesia di distruzione. Si dice che ogni ora vengono
distrutti mille ettari di foresta. E qualcuno va più a fondo: « I paesi ricchi possono
esportare tranquillamente la loro crisi e finanziare la loro modernizzazione. Il
debito estero sta finanziando la seconda rivoluzione industriale dell'Occidente ».
« Agli organismi finanziari internazionali dovrebbe essere applicata la
norma giuridica internazionale che definisce e condanna il genocidio » (Javier
Mujica). Tutti pagano quello che pochi godono. La banca internazionale si
preoccupa della libertà del denaro, non di quella delle persone. Il Brasile è il quarto
esportatore mondiale di alimenti ed il sesto in denutrizione dei suoi abitanti. Ogni
tre brasiliani, due non hanno il necessario. L’Occidente detiene il modello di
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sviluppo che condiziona economia, finanza e politica di tutti i popoli. E si tratta di
un modello economico predatorio.
Mi sono penetrate dentro le immagini degli indios riuniti ad Altamira (nel
cuore dell’Amazzonia) per difendersi dall’ultima aggressione di stato, che
pretende di inondare 250mila km2 di foresta, con l’esodo forzato di 500mila tra
indios e contadini (si tratta del « Plano 2010» della Eletrobràs, che prevede la
costruzione di 136 centrali idroelettriche con il prestito di 500milioni di dollari
della Banca Mondiale). Armati solo di piume, danze, bastoni rituali, tatuaggi. E
quella sacra coralità che li fa muovere tutti insieme, come un corpo solo che vibra,
canta, danza, invoca qualcuno che li liberi dall’uomo bianco e dalla sua orgia
devastatrice.
Il polmone amazzonico è malato. E gli indios gli danzano attorno con i loro
scongiuri gutturali. Un girotondo ritmato a difesa della vita. L’india Tuira esce dal
cerchio, si avvicina al tavolo delle persone importanti e sbeffeggia con il facão
(coltellaccio) il direttore dell’Eletrobràs (l’Enel brasiliana). L’uomo impietrisce. E
la giovane india continua la sua danza senza copione, accarezzandogli il volto con
la lama fredda del facão. I bianchi vogliono fare della foresta verde una foresta di
ferro (Progetto Carajàs) da esportare al prezzo di 3.500 km2 di foresta abbattuta
all’anno. A questo ritmo entro il 2007 non esisterà più la giungla amazzonica,
bruciata, sventrata, allagata. L’uomo bianco ha tremato davanti a questa umanità
indifesa, decimata, che dà filo da torcere alle più grandi istituzioni finanziarie.
Assisi, Berlino, Altamira: tappe di un pellegrinaggio verso qualche cosa di
nuovo. L’ondata internazionalista è un sintomo di speranza. Per difendere l’ultima
colonia forestale che ci è rimasta: l’Amazzonia. Una moda? A Berlino Jaime da
Silva rispondeva per tutti: « Si tratta della nostra sopravvivenza fisica ed
economica. Noi (brasiliani) dipendiamo dalla preservazione delle foreste. Ma
anche il vostro futuro, qui a Berlino, dipende da questo fatto ».
La partecipazione popolare è stata massiccia. Spente le luci, rifinite le
conclusioni, riposti gli elmetti della polizia, tutto è finito? I movimenti ecologici
non possono fermarsi all’analisi del male, alla dimostrazione in piazza, alla
colomba all’occhiello. Non i si aggiusta l’ecosistema, lasciando le regole del gioco
immutate. Certe leggi di mercato e di libera concorrenza ci portano al collasso
ecologico. Si può pretendere che i paesi del sud del mondo preservino gli ultimi
scampoli di foresta per avere ossigeno a buon mercato, mentre i popoli opulenti
hanno dilapidato le loro risorse naturali ed ora fanno pagare il prezzo del progresso
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ai popoli impoveriti? Moltitudini oppresse sono emerse dalle foreste, dalle favelas,
dalle palafitte, dai nuovi flagelli sociali per fare le loro denuncie. Dalle fogne viene
il grido di allarme delle vittime di un sistema economico internazionale predatorio.
Gli « ultimi » hanno fatto irruzione nella storia per dire che i miserabili della terra
non nascono per generazione spontanea, ma sono il risultato di ingranaggi
economici e politici | ben precisi. Strutture di delitto sociale.
Dal Vietnam alla Palestina, da Medellin a Puebla, da Assisi a Berlino sono
rimbalzati messaggi per un nuovo ordine internazionale a livello economico,
sociale e politico. Il convoglio umano è giunto ad un punto cruciale del suo
cammino. Non ha ascoltato la voce dei poveri e dei loro alleati. Ascolterà il grido
della natura, che incomincia a morire per ecocidio? Essa si immola affinché i suoi
usufruttuari si ravvedano.
Se i difensori del pianeta vogliono essere efficaci, devono incominciare in
casa propria: chiamare in causa le proprie abitudini di consumo, i modelli di
produzione e di inquinamento, la cultura aggressiva e di competizione che li ha
generati. Mettere sotto accusa le fondamenta stesse di una civiltà, che all’idolo del
lucro e dell’interesse personale non cessa di sacrificare popoli-bambini e foreste
innocenti. I banchieri, da soli, non ce la fanno a mettere in opera tanta
devastazione. Il ferro del Carajàs non va a finire nei nostri frigoriferi, macchine,
televisori? Ed i minerali pregiati nelle nostre fabbriche di armi? Ognuno di noi fa
parte, nutre, sostiene questo sistema di morte, questo gusto sadico di sterminio
dell’habitat. ’
Dalla parte di qua dell’oceano si avverte una malcelata rimostranza: «
Avete dato fondo a tutto; ci strozzate con i debiti internazionali e poi pretendete
ossigeno a buon mercato! Come pagheremo se non con le uniche risorse che ci
sono rimaste? ». È un circolo vizioso, che l’Occidente non vuol riconoscere. I suoi
dogmi economici sono infallibili! Ed i poveri si appellano alla sovranità nazionale,
nascondendo la testa sotto la sabbia. Anche qui viene alla luce la fragilità del
sistema internazionale vigente. Non c’è più posto per la mentalità di villaggio, di
quartiere, di patria e stato nazionale. Tutto è interdipendente. Una sola è la patria
dell’umanità: il cosmo, l’universo. Tutto il resto è otre vecchia, vestito logoro. Una
coscienza cosmica vogliamo indossare, tagliata su misura delle stelle, dei mari,
delle miniere. Ecco perché il tessuto internazionale non tiene più. Ed i popoli del
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terzo mondo avvertono che sta arrivando la loro ora. Dicono a chiare lettere che c’è
un nesso di causa ed effetto tra l’orgia consumistica e la loro crescente miseria. I
fatti di Caracas (l’esplosione provocata dalla fame) da queste parti vengono
attribuiti al Fondo Monetario Internazionale. I poveri cominciano a puntare il dito
contro i loro oppressori, finalmente. La Commissione dei diritti umani dell’ONU
ha messo all’ordine del giorno una discussione sulle questioni relative al debito
estero. L’ambasciatore peruviano ha dichiarato che i paesi industrializzati
intendono sfuggire alle loro responsabilità riguardo ai problemi economici dei
paesi in via di sviluppo: « I programmi di aggiustamento economico sono
meramente tecnici e, quindi, trascurano i risultati sociali che possono causare ».
Il primo mondo si dibatte tra problemi di super-produzione, sviluppo senza
limite e una diffusa sensazione di colpevolezza collettiva. Non si apre una rivista
senza trovare articoli sulle favelas, gli squadroni della morte, la devastazione delle
foreste. Nel terzo mondo si affonda sempre più nella miseria istituzionale,
nell’ossido di carbonio, nei rigurgiti nazionalistici. Si vive in attesa di qualche
cosa: arriverà prima il collasso ecologico o quello provocato dai debiti e pagato
con la fame?
I tamburi degli indios continuano a rullare. Non per attaccare, ma per
difendersi. Il facão dell’india Tuira ci sbeffeggia tutti quanti. Essi sanno, meglio di
tanti civilizzati ingordi e predatori, che l’estinzione dell’habitat uccide il suo
usufruttuario: l’uomo. Verso la metà del secolo scorso l’indiano Seattle avvertiva i
funzionari del governo USA: « Dopo alcuni giorni, il moribondo non sente il fetore
del proprio corpo. Continuate pure a contaminare il vostro letto ed una notte
morirete soffocati dai vostri i rifiuti ». Ed un sioux: « La terra non si vende. La terra
è nostra madre. Non si vende la madre. Perché non offrono cento milioni di dollari
al Papa per il Vaticano? ». E gli indios maya perseguitati dall’esercito: « Ci
uccidono perché lavoriamo insieme, mangiamo insieme, viviamo insieme,
sognano insieme ».
Gli indios sono ancora qui, ultimi testimoni di un mondo nel quale le «
cose erano tutte buone », reliquie di una Genesi sempre viva, a dirci che l’uomo
non deve dividere quello che Dio ha unito: lavoro e capitale, atomi ed elettroni,
individuo e società, sviluppo ed ecologia. Si avvicina il quinto centenario della

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scoperta dell’America: della conquista, del genocidio, dell’apocalisse ecologica?
Cosa celebreremo: i vinti o i vincitori?
Non tacciono i tamburi della foresta. Non devono tacere, per carità.
Sempre mi affascinano gli indios. Perché sono diversi da noi. Vorrebbero
continuare ad essere diversi. Resistono nella fortezza verde. Per quanto tempo,
ancora? Non fanno molti discorsi. Danzano e danzano ancora. Attaccano gli imperi
con canti e tamburi, tatuaggi sacri e gesti rituali. Perché cessi l’aggressione di stato,
il latrocinio e la devastazione internazionale del loro habitat.
Figli della foresta condannata a morte per olocausto biologico, danzate
ancora. Per sentirvi vivi. O per ingannare la morte annunciata?
Si dice che le indie Nambiquara si rifiutano di mettere al mondo i figli.
Stanche di lottare contro la deportazione e l’etnocidio, cercano il suicidio della
stirpe non facendo più nascere bambini indios. Il paragone con il suicidio della
natura non è del tutto occasionale, vero?

APPENDICE

CRONISTORIA DEL « PROGETTO »

13.6.1985 - Non posso passare una vita macinando le lacrime dei poveri.
Devo trovare i miei anticorpi. Fino ad ora ho fatto la diagnosi del male. Non c’è
altra via: fornire dei segni positivi, degli esempi concreti in modo che si abbia a
portata di mano un ‘segno’ vivo di nuova umanità.
30.6.1985 - Al massimo curiamo qualche frutto bacato, qualche
ramoscello malato, ma la pianta della società continua ad essere selvatica. Darà
sempre frutti malati, perpetuando il male sine fine dicentes. Che cosa è più urgente:
curare i frutti o creare un semenzaio nuovo? E quando i movimenti popolari
avranno raggiunto un minimo di dignità, che cosa avranno da proporre ai loro
adepti? È necessario aprire nuove piste, anticipare il futuro.
28.7.1985 - Se si continua così le Comunità Ecclesiali di Base (CEBs)
rischiano di svuotarsi. I leaders migliori entrano nei partiti, nel sindacato e ci
abbandonano. È perché non sappiamo offrire loro qualche cosa di meglio?
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10.1.1986 - Nell’incontro dei veterani delle CEBs Justo presidente del
Sindacato) e Mano (consigliere comunale) si chiedono se stanno lavorando per
una società nuova o no. Qual è la funzione delle CEBs? Una scuola, in semenzaio
per trapiantarsi in altri progetti di vita? Non hanno un progetto proprio di società?

23.9.1986 - Si nota un certo raffreddamento nel gruppo del Mercatino


comunitario, l’iniziativa di una cinquantina di socie che comprano all’ingrosso e
rivendono a prezzo di costo per affrontare l’inflazione. La « macelleria
comunitaria » è fallita: tutti volevano la parte migliore e rimaneva invenduta quella
di qualità inferiore. L’allevamento comunitario delle galline è finito, perché non si
trovano più pulcini. Resiste l’orto comune.

Autocritica dell’équipe pastorale: abbiamo favorito questa ginnastica di


educazione alla socialità. Nell’interno sono nati altri 4 mercatini, la porcilaia
comunitaria, i lavori collettivi (roças comunitàrias).
Piccoli saggi di fraternità sociale. Forse noi abbiamo un intento ed il
popolo un altro. Il nostro: educare alla solidarietà in piccole cose, per vedere se
nasce il desiderio per un cambiamento più ampio. Il loro: sopravvivere, difendersi
dalla miseria. Abbiamo aiutato a migliorare, ma non abbiamo acceso in loro la
passione per il cambiamento di vita.
Punti positivi: abbiamo imparato ad uscire di casa; è bello conoscersi,
interessarsi dei problemi degli altri; stiamo imparando a fare le cose insieme;
discutere in gruppo le nostre difficoltà. L’aiuto reciproco, la mutua assistenza
rischia di spegnere, assopire l’orrore per un sistema sociale inumano? Stiamo
preparando alunni eccellenti per l’università della competizione, della libera
concorrenza?
Non affermo nulla. Sto a guardare. Scruto il cielo e la storia. Siamo sempre
dibattuti tra l’incudine ed il martello: da una parte la sopravvivenza del popolo,
dall’altra la ricerca di proposte alternative. Negli incontri con amici riaffiora la
stessa problematica. Da Canindé (incontro nazionale delle CEBs) in poi si fa un
gran parlare di « CEBs, semente di nuova società ».
13.10.1986 - La vita è diventata un viaggio unico. Viaggio nelle vene del
popolo alla ricerca della vita abbondante. Brucio dalla voglia di accorciare le
distanze, bruciare le tappe dell’avvento di una società dove l’uomo sia trattato da
uomo, da nostro figlio, figlio di tutti. Siamo alla saturazione. Molti sono stanchi di
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parlare di unione di popolo, comunità, solidarietà tra i poveri e non vedere quasi
niente. Alcune conquiste (occupazioni di latifondi « oziosi ») rivelano l’altra faccia
del povero (vende la terra; pensa solo a se stesso; non si unisce). L’autocritica ci
costringe ad essere crudeli. Aiutare il misero, va bene. Per farne che cosa? Uno
come noi, uno che accumula, specula, compra e vende sudore umano? Sto
lavorando per il «regno dell’uomo-fratello » o per incrementare il « regno dei
nemici dell’uomo »?
Viviamo in una situazione limite. Ci muoviamo in mezzo a naufraghi che
devono approdare, almeno, alla terra della dignità umana. Dall’altra parte non
possiamo nascondere loro l’ambivalenza delle « cose » che possono affratellarci o
renderci nemici (sia come individui che come popoli). Non siamo qui per insegnare
a diventare borghesi o per ingrossare il numero degli ingiusti, degli egoisti. È
l’uomo del « giudizio universale » che dobbiamo far nascere, quello che sa
misurare il suo bisogno a partire da quello di tutti gli altri.
3.11.1986 - Si sono rifatti vivi alcuni animatori, con i quali, fin dall’anno
scorso, si era incominciato a riunirsi alla ricerca di uno stile di vita più coerente.
Perché essere cristiani solo nell’ora del culto e dell’elemosina? Se Cristo è
Salvatore di tutto l’uomo e di tutte le realtà, non ha qualcosa da dire nel campo del
lavoro, dei beni, della politica, dell’organizzazione sociale, ecc.? Non si può essere
i cristiani della domenica e delle feste comandate! A partire dalle riflessioni sulla
pratica dei primi cristiani, si è profilata l’idea di un progetto di vita, mettendo in
comune i beni. Si è visto che il contadino che lavora da solo è destinato
all’estinzione. Infatti: un disastro, un incidente per strada o sul lavoro (un
serpente), se ti trovi da solo, vai incontro alla morte certa; una malattia, il parto
della moglie, una siccità ti costringono a svendere tutto; il destino dei vecchi è
l’abbandono e la miseria; d) se muori esponi i figli ad essere orfani, la moglie alla
vedovanza. Come premunirsi? Come procurarsi un salvagente, un minimo di
sicurezza per gli infortuni della vita?
gennaio 1987 - Stanco di macinare parole, Isaias prende una decisione: va
ad abitare con altre famiglie disposte ad iniziare un progetto di vita in comune. Si
incomincia a lavorare insieme e a mettere tutto in comune. « Tutto » si riduce a
poche galline e agli strumenti di lavoro. Le riunioni si intensificano anche con altri
gruppi.
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febbraio 1987 - Incontro con trenta famiglie di Campestre. La riflessione
parte dall’esperienza delle occupazioni di terra: Brejo Social, Capoema, fazenda
União. Là i contadini hanno ottenuto la terra. Risultato? Buona parte ha già
venduto; litigi per causa di confine, per il legname, ecc. Chi conosce la situazione
non getta la colpa solo sui contadini, perché è la necessità, la mancanza di
assistenza governativa, le difficoltà (lontananza, mancanza di medicine, scuola,
strada, ecc.), che li inducono a tanto.
Dorival invita a riflettere sui vantaggi della terra in regime di proprietà
privata e quella in regime di proprietà comunitaria. È venuto fuori che il contadino
da solo è un uomo senza futuro. L’unica via d’uscita è il cooperativismo,
l’associazionismo, il comunitarismo. Molti hanno raccontato la loro storia: i loro
antenati sono nati nella miseria ed i figli dei figli sono ancora nella stessa
condizione. Anche chi ha avuto un pezzetto di terra non ha goduto una sorte
migliore. Lo stato non li ha mai presi in considerazione: dimenticati, esclusi.
3.5.1987 - Credo che anche il Brasile si trova di fronte al nodo risolto
altrove con le comuni, i kibbutz, le comunità agricole (Tanzania), i kolchoz. C’è un
elemento comune: la terra esige un lavoro comunitario. Senza l’unione degli sforzi
i nostri contadini sono destinati all’estinzione. Natura, storia, difficoltà quotidiane
ci portano alla stessa conclusione.
maggio 1987 - Cinque famiglie hanno deciso di vivere insieme come
fratelli. Sono stato assorbito dallo Statuto della « Società Beneficente»,
registrazione dal notaio, richieste di aiuto, ricerca di una terra per piantare la
semente del Progetto. Il Progetto può diventare una colomba che porta ramoscelli
d’olivo a tanti gruppi di contadini sfiduciati. Mi rode una preoccupazione: e tutti
quei poveri al di sotto del livello di guardia che vivono in stato di miseria? Non
possono neppure vivere da persone umane, perché vivono solo per soddisfare i
morsi della fame come i cani ed i gatti (scusate, è solo per dare un’idea!).
Incomincio a conoscere i limiti, diciamo così, i difetti dei poveri. Non si è
esaurito il mio entusiasmo per i candidati alla beatitudine. Dai sazi non verrà niente
di nuovo. Gli ultimi sono ancora la nostra speranza. Ma il dilemma rimane:
costruire zattere o modelli di vita alternativi? Essere circondati da naufraghi;
dovere fare qualche cosa e vivere con l’incubo che non è possibile farli come noi.
Come uscire da questi campi minati? Nel Brejo Social siamo stati costretti a fare
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uno strano contratto: voi , ci date sette chili di riso e noi vi diamo un litro di olio; 5
chili per un chilo di zucchero e così via. Perché? Perché se si lascia tutto a credito
non si vede più niente (come è successo nella Capoema). Su 230 famiglie solo 14
hanno accettato di impegnarsi nella porcilaia comunitaria. Come spiegare l’inerzia
dei miseri? Prevenzioni, sfiducia, malelingue, peso d’una storia di schiavitù?
Bisogna infiammare la gente del Progetto per la giustizia universale. Incendiare il
cuore di bontà.
Non esistono formule magiche, piani prefabbricati, soluzioni in scatola. Di
una sola cosa sono certo: che bisogna creare un esempio di vita a livello popolare.
Far vedere che si può vivere in modo diverso, che è possibile, fattibile a livello di
famiglie. Fino ad ora la storia ci ha offerto modelli individuali o di gruppo (santi e
religiosi). Solo una realtà popolare ha il carisma di maneggiare la « materia », il
sociale ed il politico.
Ed il punto di partenza è uno solo: « fare una pentola sola » una panela sò
si dice qui.

12.6.1987 -
Con l’aiuto di tanti amici siamo riusciti ad acquistare un pezzo di terra
promessa. Non avrei mai creduto che la generosità potesse accendere tanti cuori
con la velocità di una miccia, un « blitz della bontà ». Tre soci avevano un pezzo di
terra e l’abbiamo venduto; il ricavato ci consentiva solo metà del denaro
necessario.
Il Vescovo dice che è ora di passare dalla critica sterile a degli esempi
concreti, che aprano una pista nel futuro delle comunità contadine, che sono giunte
al limite della sopportazione. Nel frattempo l’idea si espande. Altri due gruppi di
famiglie (una cinquantina) si riuniscono per ruminare lo stesso proposito, anche se
in maniera più blanda: lavorare in regime collettivo; ogni famiglia ha diritto di
coltivare per sé solo un paio di ettari (orto, frutteto, ecc.); la proprietà della terra è
comunitaria. I contadini, nella loro semplicità, cominciano a dire che ci sono due
tipi di terra: quella del « Pai meu » (mio padre) e quella del « Pai nosso » (del Padre
nostro).

21.6.1987 - Ieri ci siamo trasferiti nella terra del Progetto: che allegria nei
volti dei bambini! Alcuni dei nostri hanno passato la vita da una fazenda all’altra,
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spesso buttati fuori come cani. I figli di Maria chiedevano alla mamma: « Questa è
la terra nella quale riposeremo da vivi e da morti?».
Altri colleghi alle prese con occupazioni di terra si pongono il problema di
sempre: Che cosa proporre ai contadini che adesso hanno in mano un « mezzo di
produzione » tutto per loro? Come usarlo? Come amministrarlo? Come lo usavano,
fino a ieri, i loro nemici?

23.9.1987 - Parlare del Progetto non è facile. Come descrivere un bocciolo.


L’esperienza ci dice di non mettere insieme tipi umani diversi. Il Progetto, si fa
sempre più chiaro, è solo per poveri che rinunciano anche al desiderio di farsi
ricchi, di diventare come i padroni.
Si lavora a pieno ritmo: per preparare il terreno per la semina, i frutteti, le
case, la scuola. Quante cose da fare! Ma la più importante e decisiva è quella di
vivere da fratelli condividendo tutte le cose. Come i primi cristiani: un cuor solo,
un’anima sola. Condividevano le cose secondo la necessità, non l’avidità. E così,
tra loro, non c’era l’indigente.
Anche noi marciamo, piano piano, in questa direzione. Corriamo dietro al
sogno che è di tutta l’umanità. E possiamo dire che oggi tredici famiglie (una
semente) muovono i primi passi.
Ieri ci siamo trasferiti nella terra del Progetto: che allegria nei volti dei
bambini! Alcuni dei nostri hanno passato la vita da una fazenda all’altra, spesso
buttati fuori come cani. I figli di Maria chiedevano alla mamma: « Questa è la terra
nella quale riposeremo da vivi e da morti? ».
Altri colleghi alle prese con occupazioni di terra si pongono il problema di
sempre: Che cosa proporre ai contadini che adesso hanno in mano un « mezzo di
produzione » tutto per loro? Come usarlo? Come amministrarlo? Come lo usavano,
fino a ieri, i loro nemici?

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