Detlef-I. Lauf
Il Libro
Tibetano
dei Morti
Dottrine segrete e mondi trascendenti
PREFAZIONE
Questo non è un libro per animi pavidi. Chi lo ha letto e forse si è smarrito in esso si
ritrova cambiato, o comunque scosso. E` stato esposto alle possenti onde della coscienza
ed è stato profondamente agitato da esse. La stabilità del suo Io vacilla e la linea di
demarcazione fra soggetto ed oggetto si cancella.
L'abissale profondità del pensiero tibetano ha già turbato l'ultima generazione in
Occidente; l'hanno turbata in particolare le strane visioni di A. David-Neel e la traduzione
di W. Y. Evans Wentz di buona parte dei libri tibetani dei morti, molti dei quali
incontreremo in questo volume. Poiché nessuno era in grado di controllarle, molte delle
cosiddette ricerche tibetane erano ormai diventate un biglietto gratuito per le proiezioni
della propria fantasia.
L'importanza di questo libro è dovuta soprattutto al fatto che esso è un lavoro serio ed
approfondito sotto il profilo scientifico (profondità che manca spesso ai rappresentati del
mondo accademico); e risulta inoltre più coinvolgente delle considerazioni pseudooccultistiche e talora fantasiose che spesso vengono spacciate sotto il nome di "Tibet".
Al contrario di molti trattati popolari benché opinabili dal punto di vista scientifico
(vedi "Shangri-La"), questo libro non sembra interessante, originale o esotico al primo
impatto. Tuttavia, mano a mano che lo si legge, si ha sempre più l'impressione di venir
introdotti a una visione della realtà che ci informa non solo sul Tibet ma anche su noi
stessi, su aspetti sconosciuti del nostro Io, che ad un tratto non ci appare più tanto solido e
sicuro.
Questo libro ci insegna soprattutto che quella che abitualmente noi chiamiamo "realtà"
non è che una delle tante possibili realtà e non certo la più importante. Ognuno di noi
possiede infatti il proprio mandala.
Non è difficile trarre profitto da quest'opera, nonostante che il testo dei libri dei morti
risulti astruso, perché Lauf, grazie alle sue enormi conoscenze e alle sue profonde
meditazioni, ha fatto per noi gran parte del lavoro. Ecco un esempio di come un mondo
tanto lontano dal nostro può venir aperto al punto da permetterci di capire valori del tutto
nuovi.
Data la ricchezza contenutistica del materiale, Lauf evita di condurre il lettore noniniziato attraverso l'intricato labirinto dei dettagli. E` un vero sollievo constatare che
l'occhio dell'autore è sempre diretto all'essenziale.
Il prefattore, che ha pure discusso questi temi non moltissimi tibetologici, non ha mai
incontrato un approccio ai testi tibetani altrettanto essenzializzato ed altrettanta capacità
di coglierne il significato rapidamente e fino in fondo.
Di conseguenza, la morte, di cui essi principalmente trattano, ci appare in una luce
completamente diversa; anzi possiamo dire che ci appare completamente illuminata nel
vero senso del termine; per cui la nostra attuale interpretazione medico-ateistico-nichilista
della morte viene non solo messa in discussione ma addirittura demolita.
Lauf ci fa capire come i Libri tibetani dei morti rappresentino un'opera di inestimabile
valore. In essi tutto è sviluppato in modo magistrale, per cui il lettore acquista realmente
una visione nuova delle cose. Sono testi di grande coerenza che insegnano cosa è la morte
ma anche cosa è la vita.
La presente opera, che inizia sviluppando soprattutto il lato metodico, offre poi
un'entusiasmante descrizione di stati di coscienza di solito ignorati. Illustra ad esempio
con grande vivezza l'esperienza postmortale dell'infinito. Lo spirito risulta essere l'essenza
del vuoto dello spazio celeste, un vuoto dietro il quale si intravvede il "positivo".
L'interessantissimo capitolo sulla psiche e la coscienza evidenzia l'universalità di molti
concetti dei libri tibetani dei morti. I confronti con analoghi scritti di altre culture facilitano
la comprensione di molte concezioni e vi si ravvisa l'analogia fra i modi di concepire la
morte. Lauf formula assiomi di una fenomenologia comparata della psiche che nessuno
aveva ancora mai formulato.
Emergono idee dell'umanità antichissime. Troviamo sorprendenti paralleli
nell'Occidente cristiano, per esempio nel concetto di "capacità di operare sull'anima dopo
la morte" di Tommaso d'Aquino, che corrisponde in forte misura al "karma" indiano.
Dato che i Libri tibetani dei morti sono strutturati su simboli archetipici, l'autore non
trova naturalmente difficoltà a mettere in rapporto molti di questi simboli col materiale
ereditario filogenetico di Freud e con gli archetipi di Jung. Anzi, a suo avviso le attuali
teorie psicologiche trovano conferma in molte esperienze segnalate in Tibet, che trapelano
spesso nell'umana esistenza come realtà intuita. Per il Lauf l'intera storia dello spirito è
una prova del fatto che anima e coscienza sono molto di più della mera e transitoria
corporeità.
Particolarmente interessante è infine la sua constatazione che, siccome il mondo altro
non è che coscienza (nell'altro del resto sarebbe accessibile a noi), esiste anche una
coscienza di base, un magazzino di tutte le impressioni, una sorta di oceano che, agitato
dal karma, lascia emergere sempre nuove impressioni. Avviene una contrazione, una
riduzione al puro inconscio, in un'altra dimensione, prima che dalla potenza primordiale
possa sorgere una nuova coscienza? Lauf giustamente non si addentra in speculazioni del
genere perché potrebbero portare alla formazione di idee invece che di realtà. In ogni
caso, già le teorie di un'esistenza trascendente, sono di per sé realtà psichica anche se la
ragione tende a respingerle. La costruzione di mondi trascendenti è già una realtà di cui
val la pena occuparsi.
Concludendo si può dire che il contrasto fra morte e vita viene qui relativizzato come
raramente è stato fatto in Occidente; lo hanno fatto solo grandi mistici, quale era per
esempio Rilke, che ci dice che spesso gli angeli non sanno se si trovano tra i vivi o tra i
morti.
Ora, cosa succederebbe se quest'opera di Lauf venisse tradotta in tibetano? Che effetto
farebbe sul piccolo gruppo degli stessi Tibetani, oggi purtroppo in via di estinzione? Per
essa è prevedibile lo stesso successo che Daisetz T. Suzuki si riprometteva da una
traduzione in giapponese della sua opera inglese sul buddhismo zen: gli irriducibili bonzi,
sarebbero stati costretti a rivedere e a ripensare tutta la loro tradizione, a trasformare tutto
il loro mero sapere in una viva visione della realtà del mondo.
Oggi il Tibet, a causa del materialismo impostogli dalla Cina, che sta rinnegando anche
il proprio passato e quindi anche i propri archetipi, o dall'India, ugualmente
Occidentalizzata, si sta lentamente dissolvendo, sia come realtà geografica che come realtà
antropologica.
Tuttavia questo Tibet continua a vivere in noi, rimane in noi, inestirpabile, come una
grande aspirazione all'eterno mistero, in un'epoca, povera come la nostra, segnata
dall'assoluta mancanza di misteri e dalla smitizzazione. Lauf ci indica una via di
redenzione che salva ciò che è essenziale e che non può essere perso. Il Tibet, lo vediamo,
sta entrando nel bar-do; noi però sappiamo che questo è solo uno stato transitorio e che
nulla di ciò che è essenziale e vero va mai veramente perduto.
Prof. FREDERIC SPIEGELBERG
StanFord University
San Francisco, agosto 1975
INTRODUZIONE
Fra le tradizione segrete del Buddhismo tibetano troviamo in particolare le dottrine che si
occupano dei problemi centrali della esistenza umana, delle vie supreme che portano alla
conoscenza di se stessi e della morte. Di queste tradizioni segrete fanno parte i Libri
tibetani dei morti, che sono stati scoperti e resi noti sostanzialmente dagli "scopritori di
tesori". Il Libro tibetano dei morti possiede una struttura ben definita e molto chiaramente
sviluppata, tuttavia esistono molte altre opere sugli stessi temi, elaborati in modo diverso,
così che invece di un solo Libro dei morti dobbiamo parlare di più Libri tibetani dei Morti.
Il Tibetano considera il problema della morte e di una possibile migrazione nell'aldilà
del cosiddetto stato di bar-do, fino al momento di una nuova incarnazione, un problema
che deve essere risolto, o quanto meno adeguatamente affrontato, già nel corso della vita
terrena. Le visioni delle divinità che appaiono nel bar-do sono il riflesso di esperienze e
processi mentali verificatisi durante la vita, che nello stato più alto di smaterializzazione
operano autonomamente. Questo è il motivo per il quale i Lama che dirigono il rito
funebre esortano ripetutamente il morto a richiamare alla memoria tutti gli insegnamenti
e i significati delle divinità delle visioni, che nella precedente vita terrena avrebbero
dovuto servire da modello e suggerire uno stile di vita spirituale e religioso.
Bisogna essenzialmente mirare a comprendere la natura delle divinità e i loro diversi
significati collegati alla trasformazione della coscienza e a integrarli nel proprio spirito.
Questa operazione ci è però possibile solo con l'esercizio della meditazione, che deve
essere praticata durante questa vita, perché mere speculazioni su un'esistenza migliore
dopo la morti rappresenterebbero solo una pericolosa illusione e una nuova forma di
attaccamento al "sé". Il "bar-do thos-grol", o Libro tibetano dei morti, tratta del trapasso,
delle esperienze del periodo compreso fra la totale liberazione dal corpo e la nuova
incarnazione. Ma tutto ciò - nonostante le esperienze del trapasso siano notevoli nella
psicologia buddhista - può essere descritto nei testi del Libro tibetano dei morti in un
modo straordinariamente convincente, poiché le sue dottrine si rifanno costantemente alla
realtà della vita terrena. Per rappresentare le esperienze del bar-do il Libro tibetano dei
morti ricorre a esperienze autentiche, vissute dalla coscienza nella vita terrena.
Quando il Libro tibetano dei morti è utilizzabile solo se si tiene conto del suo stretto
rapporto con la filosofia buddhista e con lo stile di vita dei buddhisti. Ma siccome
esperienza di vita, conoscenza della realtà e presa di coscienza formano al contempo la
base teorica degli stati trascendenti del bar-do possiamo definire il Libro tibetano dei
morti anche un "libro di vita". Nel bar-do alla psiche dell'individuo defunto è riconosciuto
esattamente il valore che esso aveva raggiunto quando dimorava nel corpo: questa è la
chiara legge del karma.
Poiché sappiamo che non esiste un solo Libro tibetano dei morti ma un intero gruppo
di scritti su questo tema e che per giunta in Tibet esisteva una ricca tradizione dell'ars
moriendi - che si rifà in parte anche ad antiche tradizioni indiane -, abbiamo deciso di
trattare questa tematica in un modo diverso dal solito. Poiché esistono vari testi originali
del bar-do thos-grol e di scritti affini, abbiamo cercato di compiere una sinapsi delle
diverse tradizioni e di individuare i "centri di gravità" di determinati problemi
buddhologici e psicologici sulla natura del bar-do e delle sue visioni. Tale utilizzazione di
varie fonti dovrebbe aiutare a chiarire i problemi, a capire meglio la natura del bar-do
stesso. Delle dottrine segrete tibetane fanno parte le tradizioni della setta bKa' brgyud-pa,
che ha custodito gli insegnamenti del maestro Siddha indiano Naropa.
Per poter interpretare ed apprezzare in tutto il suo valore il Libro tibetano dei Morti
dall'"interno", cioè dal punto di vista tibetano, lo abbiamo confrontato con alcuni testi
delle opere delle sette Shangs-pa, 'Brug-pa e Kam-tshang. Tutto ciò non sarebbe stato
pensabile senza l'aiuto del mio maestro Vairocana Tulku, sedicesima incarnazione di
Vairocana, il grande traduttore del monastero di Ka -thog rdo-rje-gdan nel Tibet orientale,
che mi ha rivelato i segreti del bar-do thos-grol. Oltre che a Lui debbo tutte le
informazioni che mi occorrevano per poter scrivere questo libro ai miei maestri tibetani
nel Ladakh, nel SiSikkim e nel Tuthan, nonchè agli autori di tutti i testi che parlano del
bar-do.
Per rendere più accessibile al mondo spirituale Occidentale le dottrine dei libri tibetani
dei morti abbiamo messo a confronto la problematica della trasformazione dell'anima
successiva alla morte con quella di altre culture. Un'operazione parziale, che però è servita
ad evidenziare parallelismi i quali dimostrano che contenuti e simboli simili non esistono
solo in Asia ma figurano e sono chiaramente riconoscibili sotto altre forme. Infine la
psicologia ci ha fornito la prova che la trattazione dei problemi della vita e della morte
dell'uomo segue ovunque modelli archetipici e forme di espressione che ci permettono di
approfondire ulteriormente il contenuto del Libro tibetano dei morti e le sue dottrine
segrete. Quindi il commento psicologico conclusivo cerca di comprendere dal suo punto
di vista la via che passa attraverso il bar-do con tutti i suoi simboli e le sue visioni, per
confrontarla con forme di manifestazione della coscienza Occidentali. Forse in questo
modo è possibile comprendere meglio esperienze essenziali del Libro tibetano dei molti e
farle nostre. Nel nostro mondo sarà sempre più necessario ricorrere a una sintesi, su un
piano di coscienza più elevato, dalla sapienza orientale e del pensiero Occidentale. E il
presente libro intende dare un piccolo contributo in questo senso.
Le illustrazioni e le opere d'arte qui rappresentate al fine di introdurre nel mondo delle
visioni delle divinità del bar-do provengono dal Tibet, dal Ladakh, dal Sikkim e dal
Bhutan. Parte delle stampe si trova già in Occidente.
In proposito sento il dovere di ringraziare le persone che ci hanno consentito di
riprodurre immagini e documenti di grande rarità, in particolare il professor F.
Spiegelberg per sei illustrazioni del testo e per aver scritto la prefazione di questo libro.
Ma debbo grande riconoscenza a tutti coloro che hanno prestato il loro prezioso aiuto e,
non ultimo, alla casa editrice che si è impegnata senza risparmio per un libro difficile
come il presente.
Il corpo muore, non c'è
dubbio,
quando la vita lo abbandona;
però la vita non muore.
Il reale, l'anima,
è la libertà
Di cui è fatto questo universo.
Chand. Up. VI. II. 3ø
I
LE TRADIZIONI DEI LIBRI TIBETANI DEI MORTI
La purezza dell'anima dipende dalla sua purificazione,
dalla frammentazione e dalla sua entrata in una vita unificata ed integra.
Eckhar: Della Morte
Le dottrine del Libro tibetano dei morti che conducono attraverso le visioni,
profondamente simboliche, dello "stato intermedio" o sfera postmortale, poggiano su
antichissime tradizioni tibetane ed indiane. Parlare solo di un Libro dei morti non sarebbe
corretto perché le tradizioni scritte ci informano che nel Tibet vigeva un sistema di
"conduzione dell'anima" del defunto, molto articolato e molto sviluppato. Le fonti citate
della Bibliografia (v. Appendice VIII, 1, A, B), che sono principalmente dissertazioni sulla
"vita dopo la morte" o sono i cosiddetti "libri dei morti", non sono complete ma
rappresentano solo una parte, uno stralcio dei testi tibetani di questo genere. Qualcosa del
genere è anche l'ormai celeberrimo "Libro tibetano dei morti" edito in Occidente da EvansWentz. In quest'opera, ormai classica, sono riportati, tradotti, solo sette dei diciassette
capitoli del Libro tibetano dei morti originale.
Ci sono però anche opere che, ad esempio, sullo stesso argomento contengono 38 parti,
o altre, molto più brevi, del genere più disparato e di tradizioni diverse (di cui parleremo
più sotto). Una cospicua parte di questi scritti consiste di istruzioni per la pratica dei
rituali e di libri mantrici. Infine va detto che esistono libri che fanno parte di testi rituali
per la lettura nelle cerimonie funebri e che contengono quasi esclusivamente mantra.
Questi mantra sono sillabe mistiche disposte secondo un determinato ordine; sono appelli,
in "cifra", rivolti alle divinità. Nel Buddhismo vajrayana i mantra e la loro corretta
recitazione costituiscono una parte essenziale delle dottrine esoteriche che il maestro ha il
dovere di trasmettere al discepolo, quasi sempre in riti iniziatici segreti. Così anche in
seno ai libri tibetani dei morti abbiamo testi mantrici che contengono l'intero ciclo delle
divinità del bar-do (o stato intermedio). Quindi solo chi conosce quei mantra, sa farne uso
in modo corretto, sa recitarli nella corretta successione e può appellarsi alle corrispondenti
divinità durante la meditazione. Tali testi mantrici sono molto condensati: per esempio
contengono in poche pagine, in forma mantrica abbreviata, l'intero Libro tibetano dei
morti con le sue cento divinità e il loro significato. L'insegnamento e la conoscenza di
questi mantra fanno parte dei segreti e delle particolari circostanze dell'iniziazione
operata dal Guru; poi è compito dell'allievo custodirli allo stesso modo.
Qui è bene far presente subito una particolarità dei testi mantrici che fanno parte del
Libro tibetano dei morti. Esiste un gruppo di testi mantrici in miniatura che il fedele può
portare sempre con sé. Si tratta di libricini pieghevoli, a forma di mandala e stampati su
carta. Il corpo dei caratteri grafici è ridottiissimo. I mandala hanno la forma di fiori di loto
con numerosi petali sui quali sono disposti altri mandala orientati Cosmologicamente.
Questi piccoli scritti o minidiagrammi ripiegati vengono avvolti in un panno e cuciti con
fili di seta di cinque colori, i cinque colori dei buddha (o dei tathagata); poi vengono chiusi
in apposite custodie per amuleti (tib. Ga'u) in metallo, che i Tibetani per lo più portano
appesi collo con un nastro. Questi "amuleti" devono proteggere i loro portatori per tutta
la vita, in tutti i luoghi e nei lunghi pellegrinaggi attraverso il Tibet.
Il segreto sapere delle migrazioni del principio cosciente del defunto fa parte di
un'antichissima eredità culturale tibetana e centroasiatica. Perciò troviamo quelli che
definiamo "Libri dei morti" non solo nella tradizione buddhista del Tibet ma già nella
religione bon, la religione prebuddhista della Terra delle Nevi al di là dell'Himalaya, che
può essere definita la "vera ed antica religione locale del Tibet". Il Buddhismo mahayana e
il buddhismo vajrayana, che è la sua forma tantrica, entreranno nel Tibet solo all'inizio del
VII secolo.
La dottrina della religione tibetano bon, instaurata dal suo quasi mitico fondatore
gshen-rab, rappresenta un sistema molto ampio che abbiamo conosciuto solo di recente.
Ne sappiamo qualcosa solo da pochi anni. Alcuni dei testi della tradizione bon-po giunti
fino a noi vengono pubblicati a ritmo lento, e finora erano accessibili solo agli specialisti.
Perciò quando parliamo dei libri tibetani dei morti o degli scritti ad essi affini, se vogliamo
rispettare l'ordine cronologico dobbiamo menzionare per primi quelli della religione bon,
che probabilmente rispecchiano le più antiche forme tramandate. Probabilmente ne prova
la maggiore antichità anche il fatto che nei pochi testi finora noti, e non ancora tradotti,
non incontriamo tutto quel gran numero di riferimento e di significati cosmologici e
psicologici attribuiti alle divinità delle visioni che troviamo nei testi buddhisti delle
tradizioni tibetana. D'altro canto, però, la tradizione del Bon-po Nispanna - yoga della
linea Shang- Shung della religione bon è ricchissima di contributi filosofici e psicologici al
problema del bar-do, che sono molto simili a quelli della tradizione buddhista. Anche i
testi buddhisti nelle tradizioni dei "libri dei morti" sono basati senza dubbio su
antichissime esperienze della religione tibetana. Le divinità adirate che figurano in essi,
soprattutto le Dakini teriomorfe e le divinità delle quattro porte del mandala che bevono
sangue, non hanno un'origine esclusivamente Buddhista, non sono legate solo ai tantra
indiani, ma risalgono a religioni molto più antiche, a religioni magico-mistiche dell'Asia
centrale. Non è possibile ignorare le analogie, nei simboli, nei rituali e nei contenuti, con le
religioni centroasiatiche e shamaniche. Parleremo ancora di questo problema nel capitolo
riservato allo studio comparato delle religioni (capitolo V). Allo stato delle attuali
conoscenze non è ancora possibile una trattazione esauriente nelle tradizioni dei libri dei
morti. Tuttavia questo libro (Capitolo III C), onde fornire una visione panoramica dei testi
buddhisti, esaminerà brevemente almeno due testi importanti.
Altre esperienze "empiriche" sul problema della morte, che nella tradizione buddhista
dei libri dei morti vengono trattate in parte esaurientemente e in dettaglio, proverrebbero
dallo spazio indiano, dalla tradizione vedica. O meglio, certe descrizioni del trapasso e
della "via postmortale" dell'anima, che India erano bene comune e che erano contenute nel
Veda e nella Upanishad, esistevano da tempo. I loro testi evidenziano in parte notevoli
analogie con quelli degli scritti buddhisti, vedi in particolare la Brihadaranyaka-Upanisad
IV, 44, 1 - 2, l'Aitarega - Aranyaka III, 2, 4, la Satapatha - Brahmana e il pretakalpa di
Garuda - purana.
Ora veniamo ai testi della tradizione buddhista, e precisamente a quelli che possiamo
definire "Libri dei morti". Ma dobbiamo prendere in considerazione anche le opere che
sono state scritte da studiosi, indiani e tibetani, del buddhismo vajrayana, le cui dottrine si
occupano in parte del bar-do. Il bar-do (scr. antarabhava) lo "stato intermedio"
postmortale compreso tra due forme di esistenza, è trattato a fondo soprattutto in tre
gruppi di testi. Il primo gruppo comprende il bar-do thos- grol chen- mo, la "grande
liberazione attraverso l'udito (nello) stato di bar-do", illustrata in opere in più volumi o in
miscellanea di varia composizione di più autori. Il secondo gruppo rivela una notevole
analogia col primo salvo alcune differenze iconografiche. Sono i testi del ciclo delle
divinità naraka - anche esse descritte in libri e rituali ponderosi (tib. Na- rag dongsprugs).
Il terzo gruppo è costituito da testi, provenienti dalla tradizione indiana del guru
Naropa e di sua sorella Niguma, sulle "sei dottrine" di Naropa (tib. Na- ero chos- drug),
due delle quali, quella sul bardo e quella sul 'phoba (=trasferimento della coscienza) sono
importanti per noi.
Infine ci hanno fornito informazioni preziose per il nostro lavoro le dottrine sui vari tipi
di bar-do del grande yogi Mi- la ras- pa (1040-1123) e la ricca letteratura sul bar-do della
tradizione sNying-thig dello studioso tibetano Klong- chen rab- 'byamspa (1308-1363).
Pertanto noi disponiamo di un inesauribile serbatoio di tradizioni tibetane che, tradotte e
corrispondentemente commentate, potrebbero riempiere una dozzina di volumi. Però noi
miriamo a dar vita ad un estratto estremamente poliedrico ma ristretto di tutte queste
opere, a una specie di quadro sinottico delle dottrine tibetane sul bar-do per dare un'idea
generale del problema. Naturalmente ci veniamo a trovare di fronte ad un doppio
assunto. Oltre a affrontare le teorie sul bar-do dobbiamo occuparci dell'intero sistema
filosofico ed etico-religioso del buddismo mahayana, sul quale esse si fondano. Infatti nel
Libro tibetano dei morti troviamo anche un'essenza del buddhismo dalla quale si
sviluppano i mandala delle divinità simboliche che sono in rapporto col bar-do. A tutte le
divinità del bar-do vengono attribuiti uno o più significati che sono in stretta relazione
con l'intero apparato delle dottrine buddhiste.
Li abbiamo confrontati con alcuni testi della religione prebuddhista Bonn che ci hanno
rivelato un mondo di dottrine segrete a noi fino allora sconosciute. Entreremo di nuovo
nel merito dell'origine di questi testi alla fine di questo capitolo.
Il primo gruppo di scritti è legato al nome del noto tantrico e Guru indiano
Padmasambhava, cui viene attribuita la stesura del bar-do thos- grol. Padmasambhava si
recò nel Tibet nell'VIII secolo dopo Cristo (intorno al 750) per diffondervi le dottrine
tantriche del buddhismo mahayana. La forma tantrica del buddhismo mahayana è
conosciuta anche come vayrayana, "veicolo di diamante" (Tib. rDo-rje theg-pa). Come già
menzionato, la compilazione dei libri tibetani dei morti è opera non solo di più autori, ma
anche di più generazioni. Essi dovrebbero aver raggiunto la forma che oggi conosciamo
intorno al XIV - XV secolo. Tale forma porta l'impronta dei cosiddetti "scopritori di tesori"
(tib. Gter- ston), che per secoli hanno influenzato in forte misura la vita spirituale della
setta rNying-ma-pa. Questa setta, conosciuta anche come la "non riformata setta dei
berretti rossi" istituzionalizzò gli insegnamenti del grande Guru Padmasambhava (tib.
MTsho-skyes rdo-rje). Uno dei libri dei morti ci indica la linea spirituale cui si ispirarono
le dottrine sullo stato intermedio postmortale. Ne parlano molti testi tibetani, che però
spesso evidenziano differenze legate alla tradizione personale dell'autore. Nel nostro testo
la tradizione spirituale è definita "Albero genealogico della dottrina nata in India", e più
sotto apprendiamo come "fu accesa la luce della dottrina del Paese delle Nevi (Tibet)".
Il primo Guru è il tantrico Padmasambhava; dopo di lui vengono santaraksita (tib.
Khan- chen zhi - ba - mtsho, 705- 762), il primo abate del grande monastero tibetano di
bSam- yas, e il re Khri - srong lde-btsan (governò il Tibet a Lhasa dal 755 al 797). Ad essi
seguono, nella successione della tradizione che corrisponde al principio indiano della
gerarchia spirituale fra guru e discepoli, i Guru Akasagarbha (tib. Nam- mkha snying-po),
Buddhajnana (tib. Sangs-rgyas ye-shes), rGyal-mchog-dbyangs, Ye - shes mtsho-rgyal.
L'ultima è una delle due importanti discepole del Guru Padmasambhava.
Successivamente appaiono anche altri dotti tibetani dei secoli VIII e IX, cioè 'Brog- mi
dpal- gyi ye - shes, dPal-gyi ye-shes, dPal-gyi seng-ge, Vaicorana di sPa-gor e i 25 Guru
tantrici (tib. rJe-dbang nyer-lnga) che nel IX secolo acquistarono notorietà come Yogi per i
loro poteri soprannaturali.
Un'altra tradizione definisce le dottrine del Libro tibetano dei morti: rivelazione
emanata dal principio Dell'Adibuddha mistico Samatabhadra (tib. Kun- tu bzang-po), che
soggiorno nel sommo stato del dharmakaga (tib. Chos- sku). Da lui essa emana nel corpo
mistico (sambhogakaya) di Vajrasattva, il buddha bianco (tib. rDo - rje sems-dpa'), e poi
nell'incarnazione terrena del guru dGa'' -rab rDo-rje. Dopo di lui vengono il Mahasiddha
indiano Srisimha, il Guru Padmasambhava, la sua discepola tibetana mKhar- chen mtshorgyal, lo studioso e traduttore tibetano Knru rgyal-mtshan e poi il grande scopritore di
tesori tibetano Karma gling- pa (intorno al XIV secolo). Gli "scopritori di tesoli" sono
studiosi tibetani che hanno ritrovato in luoghi segreti alcuni "tesori" (tib. gTer-ma), cioè
certi scritti non - canonici del maismo, che erano stati nascosti da precedenti Guru, e
soprattutto da Padmasambhava. I luoghi in cui erano nascosti (sotto rocce, edifici, stupa
etc.) sono indicati nella biografia di Padmasambhava, che ne profetizzò anche il
ritrovamento. Questi testi non fanno parte delle raccolte buddhiste canoniche tibetano, del
bKa'-'gyur e del bsTan-'gyur, Ma - come la maggior parte dei gTer-ma - sono contenuti
nella grande raccolta di scritti di Rin- chen gter-mdzod della setta rNying ma-pa. Come
vediamo, già nel a tradizione delle dottrine dei libri dei morti ci sono collegamenti
complessi e complicati; e in ogni caso le basi del bar-do thos- grol sono state sviluppate da
più studiosi, i più importanti dei quali sono sicuramente Srisimbha, Padmasambhava,
Vimalamitra, Vairocana e Karma Gling-pa. Il ritrovamento del bar-do thos-grol sul monte
sGam- Po - dar è opera del grande scopritore di tesori rig-'dzin Karma gling-pa. Questi vi
apportò anche sostanziali ampliamenti, per cui oggi l'opera omnia "Kar- gling zhi - khro",
cioè le Divinità pacifiche ed adirate secondo Karma gling- pa, oltre all'intero bar-do thosgrol, contiene anche (in 38 parti) una serie di testi e preghiere rituali di grande importanza
per l'iniziazione ai mandala delle divinità che appaiono nelle visioni. Questi testi sono
particolarmente interessanti ai fini delle nostre considerazioni.
Nelle tradizioni della setta rNying-ma-pa troviamo altre fonti importanti per il bar-do
che non possiamo non menzionare. Un cospicuo gruppo appartiene al ciclo delle divinità
Naraka (tib. Zhi-khro na-rag dong-sprugs), contenute in parte nella famosa raccolta di
scritti "Klong-chen snying-thig" che è stata complitata attingendo all'opera del maestro
tibetano Klong-chen rab-'byams-pa. La letteratura sNying-thig è in generale una fonte
d'informazione ricca per la conoscenza delle dottrine sul bar-do. Sui vari stati di bar-do,
sui segni che preannunciano l'approssimarsi della morte e sulle trasformazioni del
principio cosciente nei sei mondi forniscono informazioni importantissime l'opera "Yeshes bla-ma", lo "bsKyed-rim lha-khrid", lo "Shes-rig rdo-rje rnon-po", l'importante opera
basilare di "Lam-rim ye-shes snying-po", l'opera enciclopedica "Kun-bzang bla-ma'i zhallung", le opere raccolte dello gTer-ston Padma gling-pa, l'opera rituale "rDo-rje theg-pa
sngags-kyi gsosbyong" e il "Mani bka-'bum", che è attribuito al re tibetano Srong-btsan
sgam-po.
Altri contributi, specialmente alle dottrine sul bar-do, li abbiamo nella tradizione delle
"Sei Dottrine di Naropa" (tib. Na-ro chos-drug), che rappresentano un punto centrale
essenziale, in particolare nelle tradizioni della setta bKa-'brgyund-pa del Tibet. Le "Sei
Dottrine di Naropa" nel loro insieme si forniscono notizie che ci aiutano a comprendere le
teorie sul bar-do, sul principio cosciente, sulla dottrina del trikaya e la meditazione sulla
luce, che nel Libro tibetano dei Morti hanno tutte un ruolo importante.
Naropa (visse in India e nel Kashmir; 1016-1100) è il secondo Guru nella tradizione
bKa-brgyud-pa del Tibet. Le "Sei Dottrine" da lui tramandate esistono in due importanti
versioni, una di Naropa stesso, l'altra di sua sorella Niguma (tib. Ni-gu chos-drug). Gli
insegnamenti di Naropa raggiunsero il Tibet per merito di un suo discepolo, il grande
traduttore tibetano Mar-pa di Lhobrag (1012-1097). Mar-pa è il fondatore della setta
bKa'brgyund-pa, della linea della "tradizione orale". Le "Sei Dottrine di Niguma" furono
trasmesse allo studioso tibetano Shangs-pa Khyung-po rnal.'byor (nato nel 1086) dalla
Dakini Sukhasiddhi (discepola di Virupa) in una tradizione che dal suo fondatore ha
preso il nome di setta Shangs-pa. Dal suo fondatore le "Sei Dottrine" furono trasmesse a
Chos-kyi seng-ge, e Shangs- ston rig-pa'i rdo-rje (1234-1309) e agli altri successori.
Ora, cosa sono le "Sei dottrine" di Naropa e di Niguma? Sono dottrine (basate sullo
Yoga e sull'esperienza tantrico-buddhista) sul "calore mistico" (scr. canda, tib. gTum- mo),
sul "corpo illusorio" (scr. mahamaya, tib sGyu - lus), sullo "stato onirico" (scr. svaper
nadarsana, tib. rMi-lam), sulla "Chiara Luce" (scr. abhasvara, tib. Od- gsal), sullo "stato
intermedio (scr. antarabhava, tib. bar-do) e sulla "trasmigrazione cosciente" (scr.
samkranti. tib. pho - ba).
Per i nostri scopi sono importanti soprattutto le ultime tre dottrine, cioè quelle della
"Chiara Luce", del "bar-do" e della "trasmigrazione cosciente"; e abbiamo potuto utilizzare
alcune fonti che ci hanno consentito cospicui ampliamenti dei concetti fondamentali del
bar-do thos- grol. Della teoria della trasmigrazione cosciente fa parte anche una dottrina
spiccatamente esoterica, detta Grong- jug (scr. parakayapraseta), la cui tradizione viva è
cessata nell'XI secolo con la forte del figlio di Mar-pa. Grong- jug significa "rivitalizzazione
del morto" e fa parte del contenuto dell'Arya-Catuspitha-Tantra. Le relative indicazioni,
teoriche e pratiche, sono reperibili nella vasta letteratura sNying-thig. Dal traduttore
tibetano mar-pa le "Sei dottrine" vennero trasmesse al suo grande discepolo, futuro poeta
e Yogi, Mi- la raspa, che è considerato il più importante mistico del Tibet. Sia nei suoi
splendidi "centomila Canti" che nella raccolta dei "Sei Canti" troviamo dettagliate ed
esaurienti descrizioni del bar-do e di tutto ciò che può essere definito stato intermedio.
Qui vengono colmate lacune sulla natura del bar-do che esistono nei testi del Libro
tibetano dei Morti.
Per concludere menzioniamo i testi dei libri dei morti e degli scritti affini della religione
bon (la religione prebuddhista del Tibet) che stiamo esaminando per la prima volta in
questi giorni. Uno è il bar-do thos- grol gsal- sgron chen- mo appartenente alla raccolta
canonica del Bon-po bsTan-gyur (nr. T124); l'altro scritto importante, il na- rag pasggonge rgyal-Po, fa parte della tradizione gTer- ma dei "scopritori di tesori" bon-po, ed è
stato trovato da Or-sgom phug-pa (intorno al XII- XIII secolo). Per completezza abbiamo
consultato anche le dottrine del Bon- Po Nuspanna - Yoga della regione di Shang- Shung,
sui cui testi torneremo più sotto.
Anche nella religione bon esisteva la tradizione esoterica degli "scopritori di tesori"
hanno trovato scritti gt-ma della tradizione bon-po e della tradizione buddhista di
Padmasambhava. Evidentemente allora fra l'antica religione tibetana Bonn e il lamaismo
buddhista del Tibet esistevano rapporti profondi e reciproci scambi. Dal Legs-bshadmdzod, opera che narna la storia della religione bon, apprendiamo che anche in essa le
dottrine sul bar-do conoscevano un'ampia tradizione che è stata raccolta in numerosi testi,
libri rituali e commenti. Come nella tradizione buddhista, anche nella religione bon
troviamo cospicui contributi alle conoscenze sul bar-do, sulle divinità delle visioni e sui
sei mondi Esistenziali in scritti diversi da quelli specificamente conosciuti come Libri dei
morti. Così per esempio le dottrine della tradizione rDzogs-chen della regione di ShangShung integrano le nostre conoscenze sul bar-do. Lo Shang-Shung è la regione del Tibet
Occidentale in cui è nata la cultura spirituale della religione bon. Sulle dottrine del Bon-po
Nispanna - Yoga di questa scuola e su ciò che esse dicono sul bar-do ritorneremo più sotto
quando descriveremo le divinità nella tradizione bon.
II
Nozioni fondamentali
per la conoscenza della vita e conoscenze
sullo stato postmortale e sulla rinascita
1. Vita, karma, morte e rinascita
La vita è solo un'altra morte.
La morte non è la fine, ma l'inizio
della vita.
Fr. Hebbel: Diari
Le parole di Hebbel testè citate rappresentano forse il modo migliore per accedere al
pensiero asiatico in generale e alla dottrina del buddhismo in particolare. Come abbiamo
già fatto presente, i Libri tibetani dei morti cercano non solo di dare una risposta ai
problemi del trapasso e della trasmigrazione nel bar-do, ma presuppongono altresì la
conoscenza dell'intera via della vita e della dottrina buddhista della redenzione e la
travasano nei loro testi sotto forma di compendio.
Ciò, significa, in breve, che la vita, la conoscenza della vita, e un corretto tenore di vita
sono il vero presupposto per l'apprendimento di un corretto trapasso e per la possibilità
di determinare il corso del destino anche dopo la morte. Il Libro tibetano dei morti cerca
di assolvere proprio a questo compito. Anche se qui non possiamo fornire un quadro
completo delle dottrine buddhiste, delle quali parleremo più avanti (nel testo e nelle note
esplicative), possiamo però abbozzare alcuni pensieri che sono parte del "cuore" della
spiritualità buddhista. Infatti è possibile capire il senso e il ruolo degli scritti tibetani sul
bar-do solo partendo da queste basi.
Il Buddhismo considera la vita, in ogni forma esistenziale, un bene intangibile che non
deve essere intenzionalmente consegnato alla sofferenza o addirittura distrutto. Infatti la
vita sotto forma umana è una cosa preziosa ", un bene difficile da raggiungere", che solo
l'uomo, grazie alla sua coscienza pensante e discernente, è realmente in condizione di
governare influenzando gli eventi e le circostanze secondo il proprio criterio e la propria
esperienza. Nelle sue 28 Istruzioni per gli yogi il grande dotto tibetano sGam-Po-pa (10791153) ci fa riflettere sulle seguenti considerazioni - ammonizioni:
"Una volta che si è raggiunto il corpo umano, che è puro e difficilmente raggiungibile,
morire atei sarebbe un vero peccato.
Poiché nel kali yuga (cioè nell'attuale tempo, buio a causa dell'ignoranza) la vita umana
è breve ed incerta, rovinarla agendo in modo insensato sarebbe un vero peccato.
Poiché il proprio spirito ha la stessa natura incontaminata del dharma - kaya, sarebbe
davvero deplorevole lasciarlo impantanare nella palude delle illusioni del mondo".
Quindi il buddhismo riconosce alla vita un valore assolutamente centrale. Di fronte al
problema dell'esistenza terrena e del suo corretto governo il problema dell'origine e della
destinazione della vita umana diventa secondario. Se viene risolto il problema esistenziale
(il problema dell'essere nati come uomini ora e qui), non v'è ragione di temere per il
futuro: le vie della redenzione sono aperte. Buddha ha affrontato la vita e i suoi eventi in
modo pratico, riferendosi alla realtà. Di qui il suo assioma: In fondo l'intera vita non è
altro che sofferenza, non è che l'opposto della libertà e della redenzione. Tra sofferenza,
conoscenza delle sue cause, superamento della sofferenza e liberazione il percorso è
lungo. E` sofferenza essere soggetti agli opposti, mentre si sa che esiste l'assoluto,
indescrivibile ed immortale, che è chiamato nirvana. E` sofferenza "essere separati
dall'amato e essere uniti al non - amato". E` sofferenza provare amore (o desiderio, p.
tanha, Tib. Dod- chags) ed odio (p. dosa, tib. Zhe sdang). Questi strati d'animo sono
entrambi transitori in un mondo transitorio e noi soffriamo per la loro scomparsa o per la
loro comparsa. Ma è sofferenza anche il ciclo di "nascita-vita-morte" in un mondo
esistenziale che è irto da ostacoli e pieno di gioie effimere (scr. samsara, tib. 'Khor-ba).
Finchè soffre, o per le circostanze del mondo o a causa del proprio comportamento,
l'uomo non è libero, è schiavo dell'ignoranza (scr. avidya, tib. GTi - mug). Ma l'ignoranza
è figlia del desiderio, cioè del persistente ancoramento alle cose e agli eventi del mondo,
alla propria personalità intesa in modo erroneo, che identificandosi col transitorio mondo
esistenziale si vincola all'inesorabile ritmo del divenire e del trascorrere. Tutto ciò che
nasce e passa ha un valore relativo, è oggetto di illusioni, delle nostre illusioni che non
sono realizzabili. Legame è l'opposto di libertà. Ogni azione che rende più profondo il
legame è l'ancoramento al samsara allontana l'uomo dalla meta della redenzione, causa
sofferenza e lo induce a compiere azioni che secondo la legge del karma sono cattive o
negative, prive di valore morale.
Invece tutte le azioni che allentano o sciolgono i legami col transitorio mondo
esistenziale portano alla liberazione, inducono a compiere azioni buone e positive che
affrancano dal ciclo del samsara. Il karma, in quanto legge, significa condizionamento
delle nostre azioni e loro ripercussione sul corso presente e futuro della nostra esistenza.
La legge del karma responsabilizza l'uomo, lo rende incondizionatamente responsabile
delle proprie azioni, perché ognuna di esse e persino ogni intenzione ha inevitabilmente
una conseguenza, visibile o invisibile. Secondo la concezione buddhista l'uomo resta
prigioniero del ciclo di nascita e morte finché non vi pone fine la coscienza perfetta. La
rinascita è conseguenza del non ancora raggiunto stato di redenzione. Ogni vita è
conseguenza di un karma che ha formato azioni legate al mondo.
La rinascita non è un evento personale; vale a dire non rinasce la persona che esisteva
nella vita Precedente. Il buddhismo respinge il concetto di anima e di un Io personale che
permane. I presupposti creati dal karma, la spinta energetica in una determinata direzione
sono la base e la causa di una nuova vita nel ciclo delle esistenze da una vita all'altra.
Pertanto la rinascita può aver luogo su un piano di sviluppo inferiore o superiore, con
presupposti migliori o peggiori ai fini della redenzione, a seconda del karma cui le azioni
dell'uomo hanno dato luogo. Quindi è legge ineludibile ed inalterabile della vita che
l'uomo, sempre che in virtù della conoscenza comprenda la portata delle proprie azioni e
quindi il senso della vita, è in grado di strutturare la propria via (che può portare alla
libertà). Lo yogi e mistico tibetano Mi-la ras-pa (1040-1123) parlando nei suoi "Centomila
Canti" dei effetti del karma dice: "Non sai che tutte le sofferenze e i mondi inferiori sono il
risultato delle azioni cattive? Sei certo in grado di capire che se adesso eserciti la virtù con
la prossima morte avrai la pace dello spirito e non conoscerai più la sofferenza.
Le dottrine buddhiste cercano di far capire all'uomo che il male non è rappresentato dal
mondo oggettivo; ma dalla costante identificazione con esso attraverso il desiderio. Se
l'eterna ed assoluta liberazione è commisurata alla meta nel nirvana (che ignora la
sofferenza) tutto ciò che è terreno deve essere definito non - reale. Una realtà che ci appare
in questo modo è soltanto illusoria, perché è transitoria e mutevole. Se lo spirito dell'uomo
si ancora al non -reale e lo considera reale, data la sua non - consistenza farà esperienze
dolorose. Mi-la ras-pa si esprime come segue: Se il pensiero ordinario mette radici
profonde, induce a compiere azioni buone e cattive creando così il bar-do del mondo della
sofferenza nel quale l'uomo non può che provare gioie e dolori.
Anche la vita è uno stato intermedio, lo stato compreso fra la nascita sulla Terra e la
morte. Così un bar-do segue all'altro sia in questo mondo che all'aldilà. Ma come il mondo
materiale è soggetto a transitorietà, così è soggetto a transitorietà l'uomo fisico. Il Libro
tibetano dei morti segue l'antica concezione buddhista della quintuplice funzione della
personalità umana, e nelle sue meditazione costruisce su di essa una psicologia
sistematica che è diventata la struttura di base di tutti i mandala del buddhismo
mahayana. I cinque gruppi (scr. upadanaskandha, tib. Phung-po Inda) della personalità
sono: il corpo quale figura fisica (scr. rupa), il sentimento (scr. vedana), la percezione (scr.
samgna), i moti dell'animo (scr. samskara) e la coscienza (scr. vijnana). Questi cinque
gruppi si influenzano l'un l'altro dando luogo a quella che noi chiamiamo personalità o
che avvertiamo come presenza dell'individuo nel mondo. Tutto ciò è transitorio, e non
l'assoluto a cui si aspira, perché è transitorio tutto ciò che nasce. E` transitorio l'intero
processo vitale, compreso il pensiero quale costante movimento della coscienza.
Nulla è realmente duraturo, tutto è già passato o sta passando. La vita non è statica, è
dinamica, è formata da tanti momenti, da tante condizioni e dagli stati intermedi fra l'una
e l'altra. Riconoscere la transitorietà dell'intero mondo empirico significa riconoscere la
sua non - essenzialità. Si apre così l'accesso all'immutabile, alla realtà dell'immortale, che
si identifica con la conoscenza del perfetto e del liberato. Ma il Buddhismo hayana adottò
molto presto una terminologia capace di far capire meglio il divenire delle immagini e dei
buddha, che, in virtù della concentrazione vengono percepiti sotto forma di visioni; e in
particolare di far capire meglio ciò che avviene dopo la morte.
Il primo concetto è la "vacuità" (scr. sunyata, tib. sTong- panyid), che è la causa prima
ed accomuna il samsara al nirvana. Il mondo empirico in fondo è vuoto perché in esso
nulla ha consistenza ed essenzialità; il nirvana è vuoto perché la sua natura non è né
descrivibile né esattamente definibile. Così il concetto di vacuità, a seconda della sua
posizione esistenziale, ha un valore negativo nel mondo, nella trascendenza un valore
positivo. La scuola del vijna-navada o dello yoga - cara del mahayana indiano
presupponeva come base assoluta del mondo e del nirvana la "coscienza fondamentale" o
coscienza universale (scr. alayavijnana, tib. Kun - gzhi rnam-shes). Incontriamo questa
concezione già nell'Udana: nella coscienza dimora l'universo.
Tutta la sofferenza del vivere nel mondo apparentemente reale è sensazione percepita
dalla coscienza. Ma anche il nirvana, la redenzione totale, è uno stato di coscienza; la
sensazione, percepita dalla nostra coscienza, dell'essenza di dolore, di vacuità e
dell'assenza dei processi mentali. La quiete della coscienza universale, la sua profondità
ed infinità assolute iniziano quando scompaiono i pensieri che abitualmente entrano nella
coscienza, partendo dal mondo empirico, attraverso la percezione. Il raggiungimento di
questo stato è fra gli obiettivi essenziali di tutti gli esercizi di meditazione. Il nirvana è
libertà assoluta dal mondo e dalle manifestazioni (samskara) provenienti
dall'alayavijnana; è samsara ogni passo della coscienza universale in direzione del mondo
fenomenico e quindi anche del mondo dei pensieri, che si levano ad ondate dalla
coscienza universale.
Ora, il karma formatosi nel corso della vita ritorna alla coscienza universale, cade di
nuovo in essa come seme karmicamente o energeticamente caricato (scr. bija), ricade in
quel vasto principio cosciente dal cui centro (causa prima) gli esseri si reincarnano quando
la maturazione del karma esige la nuova manifestazione. Nella nuova incarnazione non
rinasce la persona fisica che esisteva precedentemente, formata dai cinque skanda
(gruppi), rinasce il suo karma, la conseguenza delle sue azioni iniziate e non ancora
completate. Ora questa concezione, in forma maggiormente concretizzata, diventa base
delle dottrine del Libro tibetano dei morti; in esse ciò che sopravvive alla morte fisica è
definito principio cosciente (tib. Yid, scr. citta o manas); e questo ha dal suo karma la forza
di assumere la forma di un "corpo cosciente di materia sottile" (tib. Yid - kyi luss, scr.
manomayakaga). E` questo il corpo (di materia sottile) che nel bar-do è al centro del
processo di trasmigrazione e al quale i monaci che leggono ad alta voce i rituali dei libri
dei Morti cercano di fare da guida. Come vedremo più sotto, questa operazione, che mira
a pilotare il principio cosciente del defunto, è un evento reale: E` come se tra i Lama e il
morto si svolgesse un dialogo.
Solo questa chiarezza fenomenologica ci autorizza a parlare - usando un'espressione
Occidentale - di "conduzione dell'anima" dopo la morte. Menzioniamo qui questo concetto
al solo scopo di evidenziare le possibili affinità con le tecniche che conosciamo in altre
religioni, per le quali è lecito parlare di "conduzione dell'anima".
Aggiungiamo alcune considerazioni sulla vita e la morte e sul possibile
perfezionamento in questo lasso di tempo. La vita presuppone la morte, e dopo la morte
ritorna la vita. Però è possibile ottemperare alla legge dell'individuazione solo in ogni
singolo spazio individuale dell'esistenza fra la vita e la morte, riempiendo la vita di
significato. Nel buddhismo questo perfezionamento consiste nella liberazione dalla
sofferenza realizzando le possibilità dell'esistenza umana ed esercitando le virtù, con le
quali è possibile superare gradualmente il mondo già in questa vita. Quindi la vita
buddhista (e con un diverso orientamento, naturalmente, anche qualche altra autentica via
esoterico-filosofica o religiosa) è del tutto conforme allo sviluppo psichico e alla
maturazione fisica dell'uomo. Una volta che è entrato in questo mondo, e non può farne a
meno perché lo vuole la legge della natura, l'uomo deve poterne uscire. Ebbene, saprà
uscire solo se avrà conosciuto se stesso e il mondo. Se non avrà conosciuto se stesso e il
mondo non saprà compiere l'estremo passo, il passo che porta alla trascendenza, e adesso
si dispererà. Nell'Anguttara Nikaya troviamo scritto:
"Signore, è possibile errando conoscere, vedere, raggiungere la fine del mondo, dove
non esiste nascita né vecchiaia né morte né transistorietà?...
Errando non è mai possibile raggiungere la fine del mondo; tuttavia non esiste
liberazione dalla sofferenza per chi non ha raggiunto la fine del mondo".
Quindi bisogna trovare adesso questa fine del mondo: l'inizio e la fine di tutte le cose,
di tutte le decisioni, del pensiero e delle azioni sono dentro di noi. Vincere, superare la
sofferenza e raggiungere la libertà nel mondo dei mondi significa "raggiungere la fine del
mondo". Quante possibilità contengono, in ogni senso, queste parole! La grande occasione
per essere e per raggiungere la perfezione è la vita sotto forma di esistenza umana. Quindi
è possibile risolvere una serie di problemi esistenziali senza venir sopraffatti dalle
passioni, che sono la causa di ulteriori sofferenze. Un'altra meditazione che consente di
capire il problema della morte ci è suggerita da Buddhaghosa. Chi desidera meditare sulla
morte, sviluppare la contemplazione della morte, deve isolarsi e fare questa profonda
riflessione: "Un giorno arriverà la morte, la forza vitale verrà sconfitta". Tali
considerazioni stimolano l'attenzione, i sentimenti e l'intelligenza del meditante; solo così
viene rimossa l'inibizione nei confronti dell'idea della morte, solo così l'idea della
transitorietà gli diventa familiare, e via via che riflette egli acquista confidenza con l'idea
della sofferenza e della perdita dell'Io.
Perciò chi, grazie a questi esercizi, non è preparato al trapasso, nella sua ultima ora
verrà assalito da "angoscia e timore", cioè cadrà in balia degli ostacoli (prodotti dalla sua
ignoranza di se stesso) che gli impediranno di acquisire una coscienza imperturbata e
liberata. E` la stessa situazione che troviamo descritta nei testi del Libro tibetano dei
morti. Nel bar-do angoscia e timore producono visioni negative, sono responsabili della
comparsa delle divinità adirate rispecchianti le forze karmiche che dominano la vita non redenta fino alla sua ultima ora, fino alla soglia della morte, e provocano grande paura
dell'ignoto. Riflettendo già durante la vita della transitorietà, la sofferenza e la morte si
raggiunge la conoscenza dell'assoluto e del trascendente. Questo è un atteggiamento
assolutamente positivo nei confronti della vita, un atteggiamento che aiuta a
comprendere, apprezzare e perseguire l'essenziale. Pertanto Buddhaghosa constata: "Chi
non riesce a raggiungere l'immortalità già nel corso della vita, però si è sforzato di
raggiungerla, quando si dissolve approda ad un piano esistenziale più felice". Cioè la sua
rinascita avviene su un piano più alto, in condizioni migliori.
Come trapela già da questo antico testo, il problema della condotta postmortale è di
grande rilevanza. Il Libro tibetano dei morti insegna ai defunti a trovare la via attraverso il
bar-do partendo dal presupposto (universalmente accettato nel Tibet) che quello che
rinasce è il principio cosciente. Lo stato della coscienza determinato dal karma dà forma al
corpo cosciente o spirituale (tib. Yid- kyi lus) che passa attraverso tutte le esperienze dei
mondi postmortali, che nell'aldilà si attivano corrispondentemente al suo karma (vedi
anche cap. II, 5). Per il Tibetano è estremamente importante che l'uomo acquisti
consapevolezza ed acquisisca tutte le conoscenze che gli serviranno dopo la morte, che lo
guideranno nel bar-do, già nella vita terrena. Secondo un autorevole testo che fa parte
della tradizione "sNying- thig", fa da guida attraverso il regno intermedio un sestuplice
sapere, costituito dalle seguenti conoscenze:
1 La conoscenza del precedente luogo di nascita o della precedente sfera esistenziale
(tib. sNgon- gyi skye - gnas shes- pa).
2 la conoscenza del trapasso, della trasmigrazione della coscienza e della rinascita (tib.
'Chi - 'pho dang skye ba).
3 la conoscenza dello spirito trascendente (tib. Pha - rol - gyi - sems).
4 la conoscenza di tutti i fenomeni nascosti (che si trovano nella sfera non - visibile (tib.
SKang- ba lkog - tu gyur- ba).
5 Sapere che si vedranno i sei regni esistenziali (delle rinascite) (tib. Rigs- drug - gi
gnas mthong- zhing).
6 la perfetta conoscenza di tutte le capacità redentrici (purificanti) (tib. dBang- Po
-rnams).
E' una serie di sofisticate conoscenze che servono a superare i pericoli del bar-do, a
percorrere la via del bar-do in modo consapevole Permettono al corpo spirituale del
defunto di orientarsi nell'aldilà profittando delle esperienze fatte nel corso della vita. Sono
conoscenze che, per poter essere utili nella vita postmortale, debbono essere state acquisite
durante la vita mortale. Per questo il monaco che legge ad alta voce il Libro dei morti
suggerisce al principio coscienze che erra nel bar-do di ricordare queste conoscenze. Per
capire bene in cosa consiste l'incarnazione e cosa è il triplice piano esistenziale degli
uomini e dei buddha è necessario conoscere la dottrina dei "tre corpi" (scr. trikaga, tib.
sKu -gsum). Senza conoscere questa dottrina, fondamentale per il buddhismo mahayanpa,
non è possibile capire cosa avviene nelle iniziazioni ai mandala delle divinità del Libro
tibetano dei morti.
2 La dottrina del trikaya quale base delle iniziazioni
La vita è categoria delle possibilità
Hebbel: Diari
La dottrina dei "tre corpi" (scr. trikaya, tib. sku-gsum) è una delle basi irrinunciabili del
buddhismo mahayana e una condizione per comprendere la struttura del Libro tibetano
dei morti, nel quale tutte le divinità sono articolate secondo questo principio. Nel loro
insieme i tre corpi comprendono le possibilità dell'essere fra l'esistenza suprema in senso
spirituale e l'esistenza oggettiva nel mondo delle forme figurate. Nella logica del
buddhismo mahayana essi costituiscono una categoria spirituale, quale possibilità di
emanazione dello spirituale e di spiritualizzazione del materiale.
Non è facile illustrare il vero senso dei tre corpi usando forme concettuali Occidentali,
però è possibile comprenderne l'essenza ricorrendo a termini analoghi. Il principio
spirituale, supremo, come ordine cosmico, legge o realtà, compenetra di sé tutto il mondo
empirico dell'essere: sul piano della transitorietà si manifesta sotto forma fisica, come
nirmanakaya, sul piano soprannaturale si manifesta sotto forma trascendente e radiante,
come sambhogakaya; e quale suprema realtà eterna (scr. dharmata) e natura - di - buddha
è sempre presente come dharmakaya.
In sanscrito kaya significa corpo, o meglio significa più figura dell'essere che forma
visibile del corpo. Sta per la dimensione su cui il dharma (la legge) agisce fra trascendenza
ed immanenza. Nell'ambito della realtà assoluta la filosofia yogacara divideva questo
spazio d'azione dello spirito umano nei tre corpi o categorie dell'essere. Vedremo come,
trattandosi in fondo dell'articolazione di un principio spirituale, nei testi dei libri tibetani
dei morti questi concetti vengano applicati in modo molto diverso. Nella Realtà della vita
- per fissare le gerarchie spirituali e rappresentare le ierofanie delle divinità delle visioni
come riflessi della coscienza -e nei culti delle iniziazioni, che riproducono la
trasmigrazione delle anime, il sistema del trikaya è la base alla quale è impossibile poter
rinunciare. Le definizioni seguenti ci aiuteranno a capire meglio la natura e la funzione dei
tre corpi.
Il dharmakaya (tib. Chos- kyi - sku) è l'essenza della dottrina e della realtà, è l'essere
supremo quale verità in sé privo di forma ed invisibile. La sua natura è la vacuità (scr.
sunyata), causa prima di tutti i fenomeni, condizione della molteplicità, dal punto di vista
del Libro tibetano dei morti, la coscienza universale che abbraccia e contiene ogni cosa
(scr. alaya - vijnana, tib. Kun-ghzi rnam-shes). In quanto base, il dharmakaya è il principio
della totalità assoluta, e in rapporto alla pura materia è l'essere dello spirito. La vera
"natura - di - Buddha" e di tutti i Buddha è identica alla natura del dharmakaya. Poiché è
realtà assoluta, il dharmakaya trascende tutte le idee e tutti i concetti, con possiede forma
alcuna. La sua assolutezza è tale che è impossibile descriverla a parole; però possono
darne una idea di rappresentazioni simboliche. In arte sono le rappresentammo
dell'Adibudddha, ad esempio di Rajradhalla (tib. rDo - rje - chang) o di Samatabhadra (tib.
Kun- tu bzang-po), che sono considerati incarnazioni (personificazioni) del dharmakaya.
Torneremo sull'argomento più avanti.
Quindi per il buddhismo mahayana il dharmakaga è l'assoluto da ogni punto di vista:
dal punto di vista religioso è il principio della santità, dal punto di vista filosofico è la
legge ma anche l'essenza suprema e la perfezione; come figura il dharmakaya è il Buddha
perfetto o l'archetipo del Buddha, cioè il Buddha primordiale o Adibuddha (tib- Thog- ma
i sangs rgyas). Così per dharmakaya intendiamo sia la realtà che l'incarnazione nella sua
forma più pura. Il dotto tibetano sGam- Po - pa (conosciuto anche col nome di Dvags- Po
lha - rje), discepolo del grande yogi Mi- la ras- pa nel XII secolo, menziona alcune qualità
del dharmakaya: esso è immutabile, profondo, duratura, unitario, armonioso, puro,
radiante e beatificante. Il dharmakaya è la base di tutte le manifestazioni o emanazioni
della legge, è l'idea suprema e al contempo la possibilità della sua incarnazione.
Nello spazio dell'esperienza spirituale al di là delle immagini e delle percezioni
simboliche, davanti all'occhio spirituale dei bodhi- sattva e dei perfetti, la realtà può essere
conosciuta sotto forma di "corpo della beatitudine" o sambhogakaya (tib. Longs- spyod
rdzogs pa i sku). E` impossibile rendere correttamente nella nostra lingua il significato di
questo concetto, che pure è importantissimo per capire le divinità delle visioni del bar-do.
Il sambhogakaya è chiamato anche "corpo del godimento celeste", della "beatitudine
ultraterrena". Noi potremmo definirlo conoscenza della penetrazione spirituale
dell'assoluto (o natura - di - Buddha, Buddhità). Nel sambhogakaya la realtà si manifesta
sotto forma di entità radianti, quali sono i Bodhisattva e i Buddha della meditazione (scrtathagata, tib. De-bzhin-gsgegs-pa). I Bodhisattva (tib. Byang - chub semsdpa) sono
"essenza dell'illuminazione", esseri illuminati che per perfezionarsi, per acquisire la
"natura di Buddha" hanno attraversato i mondi terreni ed ora risiedono in spazi
trascendenti, nelle dieci dimensioni della spiritualità perfetta, dove partecipano della
beatitudine dei regni puri dei buddha. Durante l'esistenza terrena i Bodhisattva, mossi da
grande compassione per tutti gli esseri viventi, hanno deciso di prodigarsi in loro favore,
di operare affinchè tutti gli esseri (scr. mahakaruna, tib. sNying - rje chen- Po) vengano
redenti e raggiungano lo stato del nirvana.
Si suppone che nelle sfere celesti dei buddha essi continuino ad operare in questo senso
al fine di redimere tutti gli esseri viventi. Ma allo spazio spirituale del sambhogakaya
appartengono soprattutto i Buddha trascendenti, conosciuti come Tathagata o Buddha
della meditazione, che appaiono nella visione trascendente. Sono ritenuti emanazioni
dell'assoluto del dharmakaya e rappresentano determinate forme di sapienza, di
riferimenti psicologici e cosmologici fondamentali, che vengono rappresentate nei
mandali buddhisti, dove formano la componente essenziale delle dottrine meditative
mistiche del mahayana. La realtà ultraterrena del sambhogakaya, quale spazio spirituale
di emanazioni della visione spirituale superiore, rappresenta il presupposto più
importante della natura delle divinità delle visioni del Libro tibetano dei morti.
Nella terza serie di emanazioni l'essenza della realtà sul piano terreno si palesa sotto
forma dei buddha che compaiono nel mondo esistenziale transitorio per compassione
verso gli esseri viventi. Essi assumono un corpo visibile (scr. nirmanakaya, tib. sPrul- pai
sku) e, come tutti gli esseri viventi, sono soggetti al ciclo terreno di nascita - vita - morte. Il
Buddha storica Gautama è ritenuto una manifestazione di questo genere, una
manifestazione materiale della legge. La base del nirmanakaga è il dharmakaga. Motivo
della sua esistenza sul piano terreno è la compassione che i Buddha trascendenti e i
Bodhisattva provano per tutti gli esseri viventi. E` detto tuttavia che, quali annunciatori
della dottrina della redenzione, i Buddha terreni sono personalità particolari che si
distinguono dagli uomini comuni per 32 caratteristiche fisiche e per determinati poteri
soprannaturali (occhio ed udito celesti).
I tre corpi costituiscono la nozione più importante per comprendere l'intero Libro
tibetano dei morti e le sue iniziazioni. Oltre a essere la base delle iniziazioni, di cui
parleremo più sotto, essi rappresentano i tre piani del trapasso, cioè della trasmigrazione
che ha luogo tra due forme esistenziali della vita terrena, nel passaggio attraverso i mondi
trascendenti. Il Libro tibetano dei morti ci illustra il drammatico evento del passaggio
dall'assoluto al suo opposto, dalla suprema esperienza di luce agli abissi più profondi.
Come vedremo più sotto, le visioni del Libero tibetano dei morti ci mostrano l'emanazione
del sacro nel suo triplice aspetto della dottrina del trikaya. Nel buddhismo mahayana
l'essenza della buddhità (o natura - di - buddha) è considerata un simbolo del sacro
(contrapposto al profano). La prima umanazione, che proviene dal Buddha primigenio, è
la manifestazione del sacro nei buddha trascendenti e nei Bodhisattva, sul piano celeste e
sul piano delle visioni del sambhogakaga. La seconda ierofania assume sembianze
terrene, si manifesta nel nirmanakaya sotto forma di Buddha che insegna la redenzione.
Per quanto concerne le divinità del Libro tibetano dei morti si tratta unicamente dei sei
Buddha dei sei regni dell'incarnazione che si manifestano come figure incarnate di
redentori.
Le dottrine del buddhismo mahayana e in particolare del buddhismo tantrico
vajrayana, unendosi a loro volta elettivamente in mistica sintesi con le antiche esperienze
dello yoga indiano e partendo dalla dottrina del trikaya svilupparono uno schema che
dopo non molto fu integrato da un "quarto corpo". Questo "quarto corpo" è la inscindibile
trinità del trikaya, quale unità nella grande esperienza della sua simultaneità (scr. sahaja,
tib. Il han- skyes) o della "grande beatitudine" (scr. mahasukha, tib BDe - ba chen- Po).
Questa esperienza di unità universale, che segue alla purificazione (perfezionamento) dei
"tre corpi", è definita "quarto corpo" o quarto stadio del mahasukhakaya (tib. bDe - chengyi sku), il corpo interno autogeneratosi spontaneamente (scr. svabhavikakaya, tib. Ngobo-nyid-kyi sku), o, quale sahajakaga (tib. Lhan gcig-skyes-pa'i sku), "corpo nato
contemporaneamente". E` il corpo della vera essenza interna (tib. Ngo-bo-nyid) e nei
capitoli che seguono sarà chiamato sempre solo svabhavikakaya. La trinità e l'unico corpo,
quale quarta esperienza dell'inscindibile unità (tib. dByer-med), in quanto finanze di
esperienza spirituale, sono state identificate con determinati centri del corpo umano, che
lo yoga, sul modello del macrocosmo, associa ad un ordine psicofisico e microcosmico.
L'uomo stesso diventa quindi piano operativo delle emanazioni sottili del sacro (o delle
buddhità o natura - di Buddha).
Incontreremo continuamente queste emanazioni del sacro provenienti dal mistero della
natura adamantina dei buddha, del "così è" (tib. De-bzhin-myid) della suprema perfetta
sapienza dei tathagata trascendenti, nelle enunciazioni exoteriche ed esoteriche del Libro
tibetano dei morti, che sono colme di simboli e di riferimenti simbolici. Date le diverse
tradizioni e le diverse scuole da cui provengono le dottrine dei Libri dei Morti non è facile
offrire un quadro anche solo approssimativamente attendibile che accomuni i diversi
sistemi. Il linguaggio dei testi buddhisti del Tibet è un insieme di simboli e significati che
possono essere interpretati in vario modo. Quindi per quanto concerne le iniziazioni
dobbiamo cercare di attenerci a quello schema, fra tanti, che ci sembra più valido.
Già il primo verso del bar-do thos- grol chen- mo (il grande libro della liberazione
grazie alle cose udite nel bar-do) inizia con una suddivisione del ciclo delle divinità nelle
emanazioni contemplate dalla dottrina del trikaya. Dal dharmakaya proviene il buddha
della luminosità incommensurabile, il radioso Buddha amitabha. Nella luce del
sambhogakaya risplendono le divinità pacifiche ed adirate; e come annunciatore incarnato
di queste dottrine appare nel nirmanakaya il tantrico Guru indiano Padmasambhava, che
nei testi dell'antica setta tibetana "dei beretti rossi" è chiamato "Secondo buddha".
Secondo le suole di yoga buddhiste dell'India l'interno dell'uomo è un sistema
cosmologico. Lungo l'asse della colonna vertebrale sono disseminati centri sui quali si
concentra (condensa) l'energia psichica. Noi ci occuperemo dei quattro centri più
importanti, che sono piani operativi della dottrina del trikaya. Secondo molti testi tibetani
nella regione ombelicale, nella regione cardiaca, in quella laringea della gola e in quella
frontale esistono altrettanti centri (cakra, tib. 'Khor- lo) rappresentati ognuno da un fiore
di loto con un diverso numero di petali. Questi quattro cakra sono collegati fra loro da
canali nervosi "di materia sottile". In mezzo alla regione ombelicale (plesso solare) esiste
un loto con 64 petali da cui emana il nimanakaya (tib. sPrul- pa i khor- lo). E` il piano
fisico dello sviluppo delle attività karmiche. Ad esso segue, all'altezza del cuore, un loto a
8 petali, l'janacakra (tib. Ye - shes- kyi jhor- lo o Thuguals- kgi Khor- lo). E` il piano della
realizzazione spirituale nel dharmakaya. Il centro cardiaco è la sede della suprema
esperienza. Nella regione laringea si trova un loto con 16 petali, centro dell'attività del
sambhogakaga (tib. Longs- spyod- kyi Khor- lo). E` il piano della realizzazione spirituale
nel dharmakaya. Il centro cardiaco è la sede della suprema esperienza. Nella regione
laringea si trova un loto con 16 petali, centro dell'attività del sambhogakaga (tib. Longsspyod - kyi Khor- lo). E` il piano verbale dei mantra e delle invocazioni ai buddha
trascendenti. Il loto del centro situato più in alto di tutti ha 32 petali ed è il piano
dell'esperienza dell'intelletto e del pensielo differenziante. E` chiamato centro
dell'esperienza della grande beatitudine dello svabhavikakya (tib. bDe - chen- ggi Khorlo). In seguito a questo sistema aggiungeremo un allo cakra, tuttavia già questa
articolazione in quattro centri offre la base essenziale per lo schema iniziatico del
buddhismo vajrayana, schema contemplato anche dai Libri tibetani dei morti. Sarebbe
comunque riduttivo osservare che nelle iniziazioni i quattro centri possono essere
sensibilizzati anche in senso inverso.
Nel vajrayana ogni rituale comprende l'iniziazione con l'acqua consacrata, che
rappresenta il momento centrale della purificazione rituale e simbolica dell'adepto.
Questo rito porta il nome di abhiseka (tib. dBang-bisognkur) e viene celebrato di
preferenza insieme alle iniziazioni alle conoscenze superiori o ad un sistema dottrinario
superiore. In esso avviene il "conferimento" o "trasferimento di poteri" che permettono al
discepolo (o adepto) di capire da sé determinate dottrine esoteriche e di compiere di
persona determinate azioni rituali. Solo dopo questa iniziazione egli può trasmettere a sua
volta ai suoi successoli gli insegnamenti ricevuti. L'iniziazione tramite l'abhiseka rende il
discepolo responsabilmente delle sue azioni sul piano spirituale.
Ogni trasmissione delle dottrine segrete tibetane dei tantra e delle dottrine superiori
del vajrayana è accompagnata da queste iniziazioni con l'abhiseka. Esse sono il mezzo
rituale delle particolari circostanze finalizzate alla trasmissione dei mantra segreti, dei
testi didattici e delle dottrine complesse, ad esempio di quelle dei libri tibetani dei Morti.
Quando le iniziazioni (consacrazioni cultuali) che forniscono all'adepto tutte le
conoscenze segrete, che gli consentono di comprendere la via delle emanazioni della
"buddhità" (natura - di - Buddha) assoluta, lo coinvolgono e lo responsabilizzano
totalmente. In questo modo l'uomo stesso diventa sede del mistero nel quale si
svilupperanno i piani del trikaya. Nel nostro caso le iniziazioni con l'acqua e con altri
oggetti consacrati di culto servono a far capire il significato delle dottrine del Libro
tibetano dei morti quale evento psichico interno. O, con terminologia puramente
buddhista, tutte le manifestazioni e esperienze delle divinità del Libro tibetano dei morti
sono forme (esistenziali) della coscienza umana riferite alla realtà suprema che si rivela in
vario modo.
A questo serve lo schema delle quattro iniziazione (tib. dBang-bzhi) riferite alla
trasformazione psichica dell'uomo. Esse simboleggiano i quattro stadi di realizzazione
della pura "natura - di - Buddha", che può essere capita e realizzata meglio dopo che i
quattro centri psichici (o cakra) sono stati purificati, cioè liberati dalle macchie
dell'ignoranza, della follia, dell'odio, del desiderio e delle concezioni erronee. Compito
simbolico della quadruplice iniziazione dell'abhiseka è il raggiungimento della purezza
psico- spirituale dell'uomo spirituale e religiose sulla via della redenzione. Ognuna delle
quattro iniziazioni corrisponde ad un centro psichico. Esse vengono impartite secondo la
successione naturale o in senso inverso, quale complementare della consacrazione. Se
seguiamo il percorso qui indicato delle quattro abhiseka individuiamo in modo chiaro
l'origine del sacro nelle emanazioni di quattro fasi che subiranno una trasformazione
interna in virtù della consacrazione. Più sotto, quando parleremo delle emanazioni dei sei
Buddha del bhavacakra, conosceremo una successione in senso opposto delle iniziazioni,
operate dalle 6 sillabe sacre.
La khumbabhiseka (tib. Bum- dbang) serve a purificare il piano fisico, cioè ad eliminare
da esso tutti gli impedimenti e tutte le macchie che sono stati prodotti dalle azioni
karmiche negative. Affinchè ciò si verifichi, l'adepto deve meditare sulla sillaba mantrica
OM, la bianca sillaba radiosa che proviene dalla fronte di Buddha. Allora il suo corpo
profano (tib. Lus) si trasforma, diventa il corpo superiore e santificato (tib. sKu) di una
forma di esistenza più pura. Il guhyabhiseka (tib. gSang- dbang) purifica il discorso
profano liberandolo dagli errori e dall'odio, perché dalla laringe di Buddha esce la sillaba
rossa AH che si annida nel loto del sambhogacakra. Il linguaggio comune diventa parola
sacra, mantra, che è espressione del sambhogakaga.
Durante la prajanabhiseka (tib. Ye - shes- kyi dbang) l'adepto medita sulla sillaba
azzurra HUM, che emana dal cakra del cuore di Buddha e che con la sua luce purifica il
centro del suo cuore, sede dello spirito e del sentimento puri, liberandolo dalle macchie
dell'ignoranza. Così il discepolo raggiunge il vero centro dello spirito puro nel cuore (tib.
Thuguals), che è l'origine del Dharmakaya. La quarta iniziazione è il sahajabhiseka, e la
impartisce la rossa luce della radiosa sillaba mantrica HRIH, che emana dal centro
ombelicale di Buddha, raggiunge il nirmanacakra e purifica l'intera triade di corpo- parola
- mente realizzando l'inscindibile svabhavikakaya.
Così poiché le emanazioni della natura adamantina o essenza del vajra dei tathagata
trascendenti hanno trasformato la sua esistenza terrena in una superiore esistenza
spirituale, lo stato del profano è stato tramutato dalle quattro iniziazioni più importanti
del vajrayana, nello stato superiore del corpo adamantino (scr. vajrakaya, tib. rDo rje 'i
sku). Naturalmente l'intero rito di questa quadruplice iniziazione è molto più complesso;
tuttavia questa breve descrizione può basare a far capire la sostanza dell'abhiseka in
rapporto al bar-do.
Le iniziazioni o la consacrazione attraverso l'abhiseka, oltre a purificare la coscienza
non - illuminata, forniscono all'adepto (come ogni iniziazione) anche conoscenze per la
sua via spirituale. Quindi l'iniziazione è collegata ad un contenuto didattico concreto che
può riguardare singoli aspetti della religione buddhista, ed interi scritti, per esempio un
Tantra.
Negli scritti del Libro tibetano dei morti troviamo una serie di iniziazioni che
riguardano sempre determinati gruppi di aspetti. Durante tutto il rituale, la cui lettura
dura parecchie ore, viene impartita una serie di sistematiche iniziazioni il cui contenuto è
rappresentato detenute varie fasi di conoscenza dovute alle visioni del Libro dei morti.
Queste iniziazioni riguardano, fra l'altro, i cinque errori ed impedimenti (tib. Nyonmongs-Inga), i cinque gruppi (tipi) di personalità dell'uomo (tib. Phung- Po Inga), i cinque
elementi (tib. Byung- ba Inga), e spiegano il significato dei cinque Buddha, degli otto
Bodhisattva, delle emanazioni pacifiche ed adirate. Con l'aiuto del rito illustrano nei
dettagli il profondo significato del mantra a sei sillabe Om ma ni pad me Hum e dei sei
rispettivi Buddha (tib. Thub- pa drug).
Queste conoscente vengono trasmesse sui diversi piani del trikaga; vale a dire per
ciascuna delle tre o quattro fasi questi contenuti vengono espressi in modi diversi, cioè nel
modo volta a volta più adeguato. Ne derivano numerosissimi simboli iniziatici, per cui
contenuti uguali possono venir simboleggiati con un'immagine, un segno, un mudra, un
colore, un elemento o un mantra completamente diversi. Spiegheremo il significato dei
principali gruppi di simboli dei più importanti contenuti religiosi, filosofici e psicologici
nel quarto capitolo.
3 Le sei specie di bar-do ed altri "stati intermedi"
L'essenza dell'eternità è la capacità di
durare, l'essenza del mondo è l'ordine,
l'essenza del tempo è la trasformazione,
e l'essenza della nascita è "vita e morte".
Ermete Trismegisto
La parola chiave per capire il concetto di "vita e morte" e il suo significato in un mondo
che muta in continuazione è bar-do (scr. antarabhava). In tibetano "bar" significa "tra", e
"do" è un "concetto numerico" che indica l'equilibrio fra due termini uguali o l'uguale
misura di due cose, di due pesi, due valori, due numeri o due contenuti. Quindi il bar-do
di cui parla il Libro tibetano dei morti è lo stato fra due stati fra loro uguali, cioè lo "stato
fra due vite" (o forme di esistenza) fisiche o terrene. Pertanto il bar-do è una terza
esistenza, quella che segue alla morte e precede la rinascita dell'uomo.
Però per comprenderle meglio la dinamica è necessario capire ancora meglio questo
concetto. Si tratta di un modo di pensare tipico dell'Asia in generale e del buddhismo in
particolare, cioè del concetto di continuità dell'essere o della vita. Perciò il bar-do, lo stato
intermedio, oltre a designare lo stato postmortale, ha anche altri significati. Come
vedremo più sotto, esistono numerosi stati intermedi; il che porta alla constatazione
buddhista che nella vita, nella conoscenza, in ogni specie di esistenza e forma o materia
non esistono stati definitivi ed immutabili, ma unicamente stati intermedi. L'assoluto si
sottrae ad ogni definizione, è al di sopra di tutti gli Stati e di tutte le trasformazioni. Al di
fuori di esso esiste solo il relativo, cioè il divenente, il divenuto e ciò che diverrà.
La nostra coscienza sa tutto ciò, conosce il mondo empirico, come sa che esiste il nontransitorio, il superiore, atemporale ed immortale. La grande polarità della coscienza
umana si situa nello spazio fra la molteplice evoluzione delle forme di esistenza
transitoria e la continuità dell'essere.
Il buddhismo Mahayana, e in particolare i tantra buddhisti, hanno trasformato questa
nozione in un allo concetto fondamentale, che a nostro avviso ha la stessa portata del
concetto di bar-do: l'accoppiamento dei concetti di samsara e nirvana (tib. 'Khe or- das). Il
samsara il ciclo delle esistenze, di ogni specie di esistenza nel mondo è legata ed ancorata
ad ogni specie di esistenza materiale. E anche l'unione dello spirito con la materia. Tutte
le persone e tutte le materie, compresi i corpi viventi di uomini, animali e piante, sono
transitori e soggetti a sofferenza per la mutevolezza e la transitorietà della loro forma
temporale per al di là di ciò esiste l'immortale regno della redenzione, il totalmente
Diverso, l'incommensurabile Luogo dell'assoluto, che in tutte le religiosi e in tutte le
filosofie è stato definito con i concetti più elevati del linguaggio umano.
Nel buddhismo è il nirvana, nelle dottrine del Libro tibetano dei morti, la meta
dell'illuminazione. Tuttavia l'aldilà non è un aldilà in senso spaziale ma, in quanto
suprema liberazione o redenzione, l'aldilà è una possibilità dell'essere. Più si avvicina alla
liberazione dal mondo transitorio, più l'uomo perfetto si avvicina alla meta
dell'illuminazione e della presenza consapevole e più abbrevia lo stato intermedio fra la
suprema trascendenza e il massimo ancoramento al mondo. I due inscindibili poli
dell'essere (tib. Khor-das) sono il samsara, il mondo delle trasformazioni, e il nirvana, lo
stato della suprema libertà. Questa nozione, specificamente tantrica, dei siddha e dei guru
indiani del vajrayana è molto importante per capire il bar-do, per capire che esso esprime
il dinamismo della vita e del mondo. Il bar-do fa di due stati uno stato solo, crea
continuità tra forme di esistenza che solo la nostra coscienza differenziata tende a tenere
separate.
Ci limiteremo a descrivere solo alcuni dei numerosi tipi di bardo menzionati nei testi
tibetani. Essi ci mostrano che il bar-do è un concetto centrale per la nozione di continuità,
un concetto dinamico che in senso traslato rappresenta lo "stato intermedio" della
costantemente mutevole esistenza. Infatti l'esistenza non conosce stati permanenti. Ogni
minuto ed ogni secondo è un momento nel quale ogni cosa si trova tra il suo passato e il
suo futuro. Benchè esistano molte forme di bar-do, il più importante è il bar-do dell'aldilà,
della sfera compresa fra le due possibili esistenze terrene. Esso rappresenta la grande
occasione della trasmigrazione per forza propria.
Ogni momento è diverso da quello che lo ha preceduto, però è anche il punto di inizio
del momento che segue, il momento che lo indirizza, che fornisce indicazioni alle
condizioni esistenziali che seguono. Un fiume sembra scorrere sempre allo stesso modo,
invece in ogni momento nello stesso punto passa un'acqua diversa. Così vita e morte sono
condizioni dell'unico essere. Se consideriamo lo stato intermedio un momento di
trasformazione, ogni stato intermedio è il momento in cui inizia il trasformazione, il
momento che ci permette di intervenire per strutturare il futuro. E ciò tanto più quanto
più riconosciamo che lo stato intermedio unisce la fine del passato con l'inizio del futuro.
Per quanto riguarda il bar-do di cui parla il Libro tibetano dei morti, ciò significa che nel
regno dell'esistenza postmortale è possibile vivere ed agire senza limiti di tutto. Infatti per
il tibetano la morte non è che una forma di esistenza priva di involucro terreno. Lo si
deduce dalle numerose definizioni del bar-do che troviamo negli scritti tibetani.
Le dottrine del bar-do ci dimostrano che secondo la concezione buddhista anche
l'uomo può partecipare dei triplici piani esistenziali del trikaya. Se i Buddha e i
Bodhisattva vivendo sulla Terra hanno raggiunto la più alta forma esistenziale del
dharmakaga, la loro via deve poter essere anche il sentiero spirituale che, in varie forme di
esperienza, consente di sperimentare le tre specie di assoluto o dharma (legge. Le "Sei
Dottrine" del Siddha indiano Naropa (tib. Na- ero chos- drug) e il Libro tibetano dei morti
contemplano sei specie di stato intermedio, che definiremo brevemente come segue:
1 skye - gnas bar-do Bar-do della sfera esistenziale (luogo di nascita)
2 rMi-lam bar-do Bar-do dello stato onirico
3 bSam-gtan bar-do Bar-do della meditazione
4 'Chi-kha'i bar-do Bar-do dell'esperienza di morte
5 Chos-nyid bar-do Bar-do dell'esperienza della realtà
6 Srid-pa'i bar-do Bardo nella ricerca della rinascita
A IL PRIMO GRUPPO DI TRE BAR-DO
QUALI STATI INTERMEDI PER LA TRASFORMAZIONE
DELLA COSCIENZA NELLA VITA TERRENA
Il primo stato intermedio, in quanto sKye - gnas bar-do, definisce la nascita nella sfera
esistenziale e sta a significare che l'intero percorso che va dalla nascita alla morte
dev'essere considerato uno stato intermedio. Possiamo considerarlo tale perché è solo uno
stato che fa parte della lunga catena delle forme di vita che si susseguono. La vita appare
essere uno stato compreso fra due esperienze di morte, cioè fra un'esperienza che la
precede e un'esperienza che la segue; e lo stato di morte nell'aldilà ritorna sempre fra due
forme di vita nel mondo. Per questo Naropa nel "Khrid- yig" definisce il primo stato
intermedio "bar-do fra nascita e morte" (tib sKye - chi bar-do) e ha tramandato la seguente
definizione: "Quando è vita e non - morte, fra queste (due) c'è lo sKye - chi bar-do". Il
grande Yogi tibetano Mi-la ras-pa insegna che nel bar-do fra vita e morte, durante
l'esistenza terrena, bisogna meditare su entrambe queste due specie di yoga (tib. bskyedrdzogs-rim): sullo yoga dello sviluppo meditativo delle immagini (scr- utpat- tikrama, tib.
bsKyed rimi) e su quello della grande unificazione (scr- sampannakrama, tib. rDzogs-rim).
Queste due tecniche aiutano a capire che tutte le cose sono nate dal fondo della coscienza
e che tutte le immagini e tutte le idee debbono dissolversi nuovamente in essa, nel grande
vuoto. Come vedremo fra poco, questo esercizio rappresenta per lo stato postmortale
l'unica via (l'unico modo giusto) per sfuggire agli ingannevoli pericoli del bar-do. Il bar-do
del sentiero (o della via esistenziale) viene percorso soddisfacentemente (tib. Lam- gyi bardo) se la via della vita terrena viene purificata quindi questi esercizi. Ciò significa,
secondo Mi-la ras-pa, che l'essere umano ha riempito di significato lo stato intermedio sul
piano terreno. Anche nei radicali "Versi iniziali dei sei bar-do" (tib. bar-do i rtsa-tshig) è
precisato che nel bar-do della sfera esistenziale (tib. Bar-do i rtsa - tshig) è precisato che
nel bar-do della sfera esistenziale (tib. skye - gnas bar-do) l'uomo deve dedicarsi alle tre
forme fondamentali di conoscenza attraverso l'ascolto della dottrina, la contemplazione e
la meditazione (tib. Thos bsam sgom gsum).
Il secondo bar-do si identifica con lo stato intermedio della coscienza onirica o con lo
stato onirico (tib. rMi-lam gyi bar-do). Corrispondentemente a quanto tramanda Naropa
nel "Khrid yid", l'uomo si trova nel bar-do dello stato onirico "quando il sonno è apparso e
non è ancora scomparso". Le dottrine tibetane dello stato onirico (tib. rMi - lam) danno
istruzioni, che sono particolarmente importanti dal punto di vista psicologico, sul modo di
controllare ed influenzare durante il sonno e il sogno la continuità della coscienza della
veglia affinché l'uomo anche durante il sogno sia consapevole della vera natura delle
ingannevoli immagini del mondo onirico. L'identificazione con le immagini del mondo
onirico offuscherebbe la coscienza e produrrebbe pertanto ulteriore ignoranza e ulteriore
attaccamento. Così come, grazie ad esercizi di concentrazione, l'uomo riesce a guidare la
propria coscienza, conservandola intatta, attraverso lo stato intermedio del sogno, così
nell'aldilà, saprà guidare la coscienza attraverso lo stato intermedio del sogno, così,
nell'aldilà, saprà guidare la coscienza attraverso il Chos- ntid bar-do (il bar-do
dell'esperienza della realtà). Mi-la ras-pa diceva che nel "rMi-lam bar-do" bisogna
meditare sulla comparsa della Chiara Luce (tib. Od- gsal) e sui corpi ingannevoli. In
questo modo si superano anche nel sogno gli ostacoli causati dall'ignoranza, ostacoli che
non possono più agire nemmeno nello stato di veglia. Così le visioni oniriche, grazie a
determinate pratiche yoga, diventano forme di conoscenza (nozioni) e e lo stato
intermedio del sogno e del sonno si riempie di significato. A margine faccio presente che
per noi è interessante constatare come attraverso la coscienza onirica gli esercizi
contemplati dalle dottrine agiscano con la tecnica dei simboli opposti, una tecnica
conoscitiva polare e dinamica che, in quanto atteggiamento psicologico, è alla base anche
del Libro tibetano dei morti.
Il terzo bar-do è lo stato intermedio durante la meditazione (scr. dhyana, tib. bSamgtan) e il samadhi (tib. Ting-nge- 'dzin), cioè fra lo stato della coscienza concentrata e
quello della visione estatica, nei quali vengono dissolte tutte le immagini e tutte le idee
sbagliate. Anche qui occorre praticare lo yoga dello sviluppo meditativo e della visione
perfetta della unità (tib. bsKyed-rezogs) per illuminare la coscienza sulla forma, pura e
priva di immagini, del dharmakaga. Nel samadhi, il momento culminante della
meditazione, si manifesta la Chiara Luce del radioso dharmakaga. Così vengono dissolte
completamente tutte le immagini ingannevoli e si arriva alla natura pura della coscienza
non-offuscata e liberata. Solo questo yoga porta all'affrancamento della coscienza dalla
potenza dei desideri e delle passioni, dai legami col mondo delle illusioni, affrancamento
che è il presupposto della liberazione nel bar-do postmortale. Perciò possiamo definire i
tre tipi di bar-do fin qui esaminati: piani sui quali nella vita possono avvenire un'avanzata
autorealizzazione e il superamento del mondo. Perciò essi rappresentano le più
importanti e necessarie fasi di preparazione della coscienza alla grande esperienza delle
drammatiche visioni e dei drammatici eventi dell'aldilà, fasi che costituiscono il passaggio
per il rinnovamento della vita nell'esistenza successiva.
B IL SECONDO GRUPPO DI TRE bar-do
QUALI STATI INTERMEDI PER LA CONDUZIONE
DELLA COSCIENZA NELL'ALDILA`
Con questi tre stati intermedi accediamo all'esperienza della coscienza nel mondo
trascendente del bar-do, o stato postmortale, che rivela il mistero della dottrina del
trikaya.
Nel "Khrid- yig" con gli insegnamenti di Naropa i tre stati intermedi del bar-do
postmortale si identificano con la grande esperienza del trikaya: "Nella Chiara Luce (tib.
Od-gsal) del bar-do supremo (o primo) (cioè del 'Chi-kha i bar-do) appare il dharmakaya.
Nel bar-do di mezzo (o secondo, il Chos-nyid bar-do) appare il sambhogakaya; infine
nell'ultimo (lo Srid- pai bar-do) (appare) il nirmanakaya non (ancora) concretizzato".
Il primo bar-do, o 'Chi - kha 'bar-do) Quale stato intermedio del momento del trapasso,
porta davanti all'occhio spirituale della mente la visione della "Chiara Luce" che sale dal
profondo della coscienza. Questa luce chiara e bianca è la suprema esperienza della realtà
del dharmakaya (v. anche cap. II, 5). A questo punto la coscienza incomincia a percepire le
radiazioni dei cinque elementi (che si sviluppano dai mandala del Libro tibetano dei
morti) che diventano luci ed immagini delle divinità, pacifiche ed adirate. Questo è il
radioso regno "celeste" del sambhogakaya o la derivazione del Chos- nyid bar-do quale
esperienza della realtà.
Nel terzo stato intermedio postmortale, lo Srid- pai bar-do, la coscienza incomincia a
scendere, a calarsi nelle concrezioni della materia, le cui forze si uniscono prima della
rinascita e danno luogo alla potenza del nirmanakaga. La coscienza avverte il legame con
le torbide radiazioni emesse dai mondi dell'incarnazione ed appaiono i sei Buddha delle
sfere esistenziali, quale guide incarnate per la conduzione attraverso una delle sei
dimensioni esistenziali o loka (v. per maggiori dettagli cap. III, 5). Anche Naropa parlando
di questi processi dice (Khrid- yig, fol. 46 b): "Quando la sapienza della limpida luce nel
principio spirituale trapassato si è trasformata nella chiara luce della beatitudine e del
vuoto (tib. bDe - stong) ha luogo il primo bar-do. Questo è il dharmakaga nell'esperienza
della morte. Dopo questo, e dopo che il defunto ne ha la certezza appaiono in lui stesso,
come in un'illusione onirica, le immagini divine (o forme, tib. Sku), poi dalla chiara luce
nasce la irradiazione. Si scopre così che la chiara luce nasce da se stessi. Questa
constatazione vien fatta nel momento (giusto), però beatitudine, vuoto e le dimensioni
delle forme divine (cioè i Buddha trascendenti) permangono ininterrottamente".
"Nel secondo bar-do, il bar-do di mezzo (Chos-nyd bar-do) appaiono le vittoriose
forme del sambhogakaga. Più sotto, il testo chiarisce meglio che in questo confronto con le
divinità delle visioni si superano tutti i desideri e la coscienza viene purificata totalmente.
In questo momento per raggiungere lo stato di Sambhogakaga, bisogna pensare agli
ostacoli e alla sofferenza degli esseri nei sei mondi della rinascita approfittando di questo
bar-do dell'esperienza della realtà; così il principio cosciente liberato rimane nei campi
della beatitudine, sul piano dei Bodhisattva, al cospetto del radioso Buddha Amitabha,
che illumina quei regni in quanto Buddha, dell'incommensurabile splendore.
L'ultimo stato intermedio che la coscienza del defunto sperimenta nell'aldilà è lo srid.
pai bar-do, il bar-do della ricerca della nuova esistenza. In esso la coscienza avverte i segni
premonitori della comparsa del nimanakaga. Dalle radiazioni delle torbide luci delle sei
dimensioni emergono, sotto forma di demoni maschi e femmine, tutti gli heruka, e quali
guide attraverso questi mondi demoniaci appaiono davanti all'occhio spirituale del
defunto i sei Buddha del Bhavacakra.
Nei suoi "Centomila Canti" Mi-la ras-pa dice che è possibile raggiungere il
dharmakaga praticando uno yoga di sviluppo ed unificazione (tib. bskeyd-rdzogs) e
mettendo in pratica gli insegnamenti del mahamudra (tib. Phyag-rgya chen-po). Questi
ultimi sono basati sulla dottrina della grande esperienza della "Chiara Luce". Nel bar-do
dell'esperienza della realtà il sambhogakaga, in quanto corpo della beatitudine, si forma in
virtù della conoscenza delle divinità pacifiche ed adirate (tib. Zhi - khro), mentre il
nirmanakaga contraddistingue l'avvento dello Srid- pai bar-do che precede l'inizio della
successiva incarnazione.
La coscienza riconosce le forme del nirmanakaga e le future condizioni dell'essere da
indizi che nel Libro tibetano dei morti e nelle "Sei dottrine" di Naropa sono descritti
dettagliatamente. Per cui il defunto errante nel bar-do può determinare la condizione
della rinascita, orientato dalla forza del suo karma, addirittura mentre si sta incarnando.
Mi-la ras-pa constata che in ogni persona sono presenti tutti e tre i corpi, quali possibilità
immanenti della trasformazione spirituale, solo che la maggior parte delle persone non ne
è consapevole per ignoranza: La chiara luce nel momento del trapasso è il dharmakaya; il
puro bar-do dell'esperienza della realtà è il sambhogakaga; le molteplici nascite sono il
nirmanakaga; e la inscindibile unità del trikaga, il quarto corpo, è lo svabhavikkaya (tib.
Ngo-bo-nyd sku). Essi sono in noi stessi, anche se noi non ne siamo consapevoli".
In un canto le cinque "sorelle della lunga vita" pregavano il grande yogi Mi-la raspa di
insegnar loro la dottrina del bar-do:
Insegnaci, di grazia, cos'è il dharmakaga,
spiegaci il dharmakaga, la chiara luce della morte.
Insegnaci, di grazia, cos'è il sambhogakaga,
spiegaci le ingannevoli forme del puro bar-do.
Insegnaci, di grazia, cos'è il nirmanakaga,
affinché noi nel luogo della nascita ci incarniamo per
propria forza.
Lo Srid-pa i bar-do, in quanto stato intermedio per la decisione del tipo di rinascita, è la
stazione più importante della migrazione postmortale, purché il principio cosciente sia
riuscito a raggiungere il dharmakaga o i campi celesti del sambhogakaga già
precedentemente. Infatti solo pochi riescono ad arrivare direttamente al cospetto della
"Chiara Luce", a raggiungere la liberazione perfetta del dharmakaga. Riescono a
raggiungere questo traguardo solo i perfetti ed esperti conoscitori dello yoga. Nell'ultimo
bar-do il principio cosciente è provvisto di un corpo cosciente percepibile (tib. Yid- kyi
lus) ed avverte gli effetti delle proprie precedenti azioni karmiche sotto forma di visioni
pacifiche e terrorizzanti, arriva davanti al giudice dei morti, dharmaraja, dove le sue
azioni vengono valutate (v. in merito le descrizioni in cap. III, 5). Questa è la ragione per
la quale questo stato intermedio è detto anche bardo del ritrovamento della rinascita
karmicamente condizionata (tib. Srid- pa i las kyi bar-do).
Ora noi abbiamo constatato che la dottrina buddhista del tre corpi ha un'importanza
enorme per la sopravvivenza e per le trasformazioni della coscienza nel bar-do, anch'esso
triplice, dell'aldilà. Quindi l'importanza del bar-do si estende al consapevole
atteggiamento esistenziale, e il mondo dell'aldilà diventa il contraltare karmicamente
conseguente della vita terrena. L'uomo che non ha sufficientemente sciolto i legami del
desiderio che lo tengono ancorato al mondo transitorio già durante la sua vita terrena,
cioè che non dispone di una tecnica o pratica capace di liberare la sua coscienza, non
riuscirà a fronteggiare i pericoli di cui è disseminata la via del bar-do.
Uno dei grandi Libri tibetani dei morti spiega il significato soterologico dell'esperienza
del bar-do dicendo che "tutti gli esseri in quanto tali non possono non conoscere il radioso
dharmakaga della chiara luce della morte" e che "per tutti gli esseri è importante
raggiungere la massima perfezione della preziosa mahamudra (la dottrina del grande
simbolo)". E che "anche se essa non è stata raggiunta, nel bar-do debbono essi essere
consapevoli dello stato di bar-do" per analizzare il corpo dell'unità di bar-do e
mahamudra. In questo modo sarebbe possibile raggiungere il sambhogakaga, cioè uno
spazio trascendente.
Della emanazione del sacro, e precisamente - per quanto ci riguarda - dell'assoluto nel
dharma, che emana in vari gradi di conoscenza nei tre o quattro corpi, abbiamo già
parlato. Le dottrine del bar-do ci dimostrano che si tratta in realtà di due processi, uno
concernente la vita, l'altro la morte. La vita ordinaria si identifica con lo stato intermedio
dello skge - gnas bar-do ed è esistenza incarnata (scr- nirmana, tib. sPrul- sku) nel mondo
fisico. Qui essa è soggetta a sofferenza (p. dukkha, tib. sDug- bsngal). Nello stato di sogno
non si percepisce più il corpo e ci percepiscono gli ingannevoli corpi delle ambigue visioni
oniriche. Fronteggiarle grazie allo yoga porta alla conoscenza del sambhogakaya delle
visioni. Chi per giunta nello stato di veglia pratica la meditazione sul grande vuoto (scrmahasunyata) e sull'unità della coscienza, conosce il dharmakya, puro, privo di immagini,
quale radiazione della Chiara Luce Della illuminazione.
L'esperienza delle trasformazioni nell'aldilà nel triplice bar-do è un processo inverso,
che porta alla nuova incarnazione. Lo spirito smaterializzato (liberato dal corpo) ritrova
lentamente, e precisamente attraverso la sottile forma della Chiara Luce, il mondo delle
visioni, delle figure e delle forme. Nell'ora della morte la coscienza per affrontare nel
modo migliore il passaggio alla fase più importante del bar-do deve essere serena (non sofferente), concentratissima e sommamente presente. In essa le appare, come prima luce,
il dharmakaga. Quindi l'evento spirituale più importante e più intenso è quello che si
svolge nel momento della morte. Nella vita terrena l'uomo si adopera, salendo dal basso
grado della profana ignoranza al vertice della somma conoscenza, per raggiungere il
dharmakaga. E` un processo che può essere descritto benissimo anche usando termini del
linguaggio Occidentale. La vita sulla Terra è un continuo processo di spiritualizzazione, di
realizzazione del principio spirituale dell'uomo. Ora nel bar-do la trasformazione che
avviene durante il passaggio attraverso il mondo dei morti è fin dal primo momento un
processo di continua materializzazione dello spirito fino alla nascita di una nuova forma
terrena quale involucro solido dello spirito. Poi nel bambino inizia nuovamente una lenta
ma continua presa di coscienza che sfocia nella maturità e nel prevalere della coscienza sul
principio fisico.
C IL bar-dO QUALE INSCINDIBILE COLLEGAMENTO DELL'ESSENZIALE
Abbiamo conosciuto, in particolare per quanto riguarda i tre "stati intermedi "del Libro
tibetano dei morti, quei tipi di bar-do che sono in rapporto con la sopravvivenza del
morto nelle sfere trascendenti, supposta dal pensiero tibetano. Essi perciò sono molto
importanti e negli scritti sono illustrati molto dettagliatamente, perché le condizioni della
coscienza errante nel bar-do sono molto più difficile di quelle dell'esistenza terrena. Dal
punto di vista psicologico è interessante chiedersi cosa avviene quando l'uomo, privato
del corpo, abbandona il mondo ed entra nella profondità del conscio e dell'inconscio.
Torneremo su questa problematica nel capitolo VII.
Qui nel manifesto mondo esistenziale esiste la possibilità di condurre una vita
consapevole e di conoscere se stessi confrontandosi col mondo oggettivo, però solo pochi
ne profittano. Questa è la ragione per la quale il Libro tibetano dei morti esorta di
continuo la coscienza errante nel bar-do a non dimenticare ciò che ha appreso nella vita
terrena, perché le cose apprese durante la vita terrena aiutano a percorrere anche la via
trascendente. Il modo migliore per trovare la retta via nel bar-do consiste nel ricordare ciò
che si è appreso e sperimentato nella vita precedente. Si crede infatti che grazie alla pratica
dello yoga la coscienza acquisisca e conservi la capacità di orientarsi anche nelle difficili
condizioni del bar-do.
Come in tutte le dottrine della filosofia buddhista anche qui si fa presente che l'uomo
alla ricerca dell'assoluto non deve fermarsi alle definizioni dualistiche. Mondo e
trascendenza, intesi come concetti statici, presi isolatamente, inducono l'uomo ad optare
per uno dei due, per l'uno o per l'altra. In realtà tutto è relativo, anche i concetti più elevati
hanno in realtà un valore relativo, al punto che da soli non un possono definire il tutto. La
dialettica filosofica del taoismo e i Tantra indiani definiscono l'assoluto un "Né - né"...
Come apprendiamo dalla vasta letteratura dei testi prajnaparamita, anche il grande
vuoto, (scr. sunyata) il concetto centrale del buddhismo mahayana, si sottrae ad ogni
valutazione. Il vuoto non è descrivibile per mezzo di parole né rappresentabile per mezzo
di concetti. E se viene raggiunta una suprema esperienza dell'indescrivibile vuoto,
anch'essa non può essere descritta con la sola interpretazione emozionale della
beatitudine (tib. bDe - ba). Per la mente i processi che avvengono nella coscienza
rimangono fenomeni inesprimibili. Lo stato intermedio fra gli opposti polari per
l'esperienza rimane un mistero indefinibile. Anche qui, come tramanda nei suoi Canti Mila ras- pa, si tratta di bar-do, di stati intermedi:
"Nel bar-do della manifestazione onnicomprensivo e del vuoto non c'è posto per la
visione del transitorio e dell'eterno.
Nel bar-do della beatitudine e del vuoto non c'è posto per la visione di un oggetto.
Nel bar-do fra la parola e il (suo) significato non c'è posto per esercizi di erudizione.
Qui lo stato intermedio fra comunanze inscindibili ed antinomie polari condizionate è
indizio chiarissimo della indivisibilità del tutto. Gli Stati intermedi fra l'apparizione,
popolata di immagini, e il vuoto (tib. sNang- stong gnyis-kgi bar-do), fra beatitudine e
vuoto (tib. bde - stong gnyis-kyi bar-do), e fra parola e il significato della parola (tib(Tshig
don gnyis-kyi bar-do) sono indizio della interiore bivalenza e della incondizionata
equivalenza di due forme di espressione essenziali che, in quanto simbolo, comprendono
l'elemento razionale e quello irrazionale. Vita e vita successiva sono un'unità inscindibile
perché il bar-do le unisce come condizione irrinunciabile. Queste enunciazioni dimostrano
che gli Asiatici sono assolutamente convinti che la vita continua, e ci forniscono preziose
indicazioni per la loro filosofia delle forme simboliche, in Asia tuttora viva ed operante.
Quando il bar-do è l'irrinunciabile anello di congiunzione che tiene insieme due stati
opposti che non sfuggono al raziocinio. Perciò saluto stato trascendente dell'inesplicabile è
uno stato intermedio, un bar-do.
Per finire menzioneremo alcuni degli stati intermedi descritti da Mi-la ras- pa. Durante
lo yoga costruttivo (bsKyed- rim) nella visione di simboli e figure diversi durante il
passaggio dei vari contenuti si ha uno stato intermedio nel quale si vedono i contenuti di
entrambi (tib. lTa-ba' i bar-do); l'esercizio della meditazione conosce un bar-do, detto della
meditazione (tib. sGom-pa' i bar-do), che è lo stato intermedio che non è percezione né
non - percezione; tra l'inizio e la fine degli esercizi religiosi si ha lo stato intermedio della
sacra azione meditativa (tib. SPyod- pa i bar-do); la via che dallo sviluppo della coscienza
porta alla visione unificante dello spirito è lo stato intermedio dell'Utpattikrama e il
Sampannakrama (tib. Lam bskyed- rdzogs kyi bar-do ); quando permane nella
quintessenza delle dottrine spirituali, la coscienza si trova nello gNad - Kyi bar-do;
quando raggiunge il vitale e dinamico rapporto fra i tre livelli dei piani fisico, verbale e
spirituale, la coscienza si trova nel trikaya bar-do; infine, quando arriva al frutto (o
risultato) e al godimento della vita spirituale nella Illuminazione, la coscienza liberata è
nello stato della perfezione, cioè nel bar-do della meta teologica (tib. Bras- bu i bar-do).
A margine è giusto menzionare anche le due tecniche psichiche del trasferimento della
coscienza (scr. samkranti, tib. Pho - ba) e del richiamo in vita di un morto (scr.
parakayapravesa, tib Grong - jug). L'esercizio yoga del trasferimento della coscienza serve
a preparare - mediante esercizi psico-fisici - l'apertura sita nel tutto più alto del corpo, al
vertice del cranio, la fontanella, per consentire alla coscienza di uscire dal corpo senza
difficoltà. Si tratta di una tecnica non del tutto innocua che va eseguita sotto la guida di un
maestro. Per non meno di 14 giorni bisogna praticare la meditazione sul respiro e sulla
sillaba HIG; una volta raggiunto lo scopo non è necessario ripeterla. L'esercizio contempla
la meditazione sulla sillaba Hig e sulla radiosa luce del buddha Anitabha. Quando dalla
fontanella fuoriesce un po' di linfa o di sangue la via d'uscita della coscienza è aperta, e lo
yoga va sospeso. Dimostra l'importanza del bar-do per i Tibetani il fatto che questi esercizi
preparatori non vengono praticati in età senile, ma molto prima. Si viene preparati al
futuro a mente chiara. Ci informa eseurientemente sulla dottrina esoterica del
trasferimento della coscienza Evans- Wentz.
Ancora più segreta era la tradizione indiana del tantrico Naropa o (o Nadapada)
mirante a riportare in vita un morto (scr. parakaya - pravesa.). Dall'India fu introdotta nel
Tibet dallo studioso e traduttore tibetano Mar- pa chos - kyi bol- gros di Lho - brag (nel
Tibet meridionale), che è conosciuto come il guru di Mi- la. Questi la trasmise a suo figlio
Dharma mdo - sde, che però morì all'improvviso per un incidente senza prima averla a
sua volta trasmessa ad alcuno, per cui il vero segreto di questa tecnica è andato perduto.
Troviamo ancora qualche indicazione in alcuni testi, ad esempio nella letteratura "Snying thig". Sembra che questo tipo di yoga contemplasse antiche pratiche sciamaniche capaci di
riportare in vita un morto mediante la respirazione. Comunque se pensiamo alle pratiche
di rianimazione che applica oggi la medicina nei casi necessitanti di un pronto soccorso,
dobbiamo dire che nell'antica India l'attuale tecnica di riattivazione cardiaca era già nota.
Lo yoga è senza dubbio uno dei migliori metodi per agire sulla psiche e sul corpo.
Concludiamo la trattazione del bar-do con una constatazione: nel Tibet, a parte il Libro
dei morti, lo stato intermedio aveva un'importanza centrale. Era il momento non solo di
collegare passato e presente ma anche di strutturare il futuro, di configurarlo
consapevolmente. Dal bar-do inizia la vita che consente di migliorare il proprio futuro; il
bar-do è il piano della sofferenza, del passaggio attraverso le terrificanti visioni del mondo
postmortale con le sue diciotto specie di tormenti infernali. Per chi non si è liberato già nel
corso della vita, lo stato intermedio si tramuta in sofferenza, nelle pene della morte (tib.
'Chi-kha'i bsdug-sngal-gyi bar-do).
4 I simboli della polarita' tantrica,
della trinita', della quaternita' e della pentalita',
dei colori e degli elementi
Ora appaiono le luci dei cinque ordini
che formano l'unità delle quattro sapienze: adoperati per conoscerle.
Libro tibetano dei morti
Affinché le descrizioni che seguono possano darci un'idea chiara delle dottrine e delle
divinità del Libro tibetano dei Morti dobbiamo conoscere prima lo schema dei simboli. Il
buddhismo mahayana e a maggior ragione, naturalmente, il vajrayana (che si rifà ai
Tantra) contemplano una folta schiera di simboli che, per poter capire numerosi momenti
delle pratiche cultiche e meditative, è indispensabile conoscere fin d'ora. Anche il Libro
tibetano dei Morti menziona sia molti di questi simboli, i simboli del linguaggio (quali ad
es. mantra), dei colori, delle divinità, simboli cosmologici e psicologici, sia i numerosi
attributi delle divinità, che ci aiutano a interpretare in modo corretto i vari fenomeni. La
rappresentazione di questi simboli precedente alla trattazione delle singole visioni delle
divinità ci permetterà di constatare che le varie parti dei testi tibetani che trattano le
visioni del bar-do, sono strutturate secondo un principio chiaro e sistematico.
Constateremo come le varie forme simboliche siano fra loro in un rapporto molteplice e
conseguenziale e come a determinati livelli, questi simboli coinvolgano il complesso
pantheon di tutte le divinità del bar-do che, nel quattordicesimo giorno delle visioni,
appaiono tutte insieme in un grande mandala cosmico.
Facciamo subito presente che in questa sede non possiamo trattare tutti i simboli,
nè in generale quelli del vajrayana nè in particolare quelli del Libro tibetano dei Morti.
Forniremo unicamente indicazioni sulla caratteristica struttura gerarchica di una dottrina
iniziatica qual è quella del Libro tibetano dei Morti, che ci aiuteranno a capire l'intera
opera. Nel capitolo III esamineremo più dettagliatamente tutte le divinità in esso descritte
prendendo in considerazione le visioni del bar-do ai singoli livelli simbolici.
Fatto degno di nota, le dottrine del Libro tibetano dei Morti partono dalla
concezione che le trasformazioni che avvengono nel bar-do compreso tra le due forme di
esistenza terrena durano 49 giorni. Tutti i fenomeni che si verificano nel bar-do
avvengono in uno spazio di tempo di sette giorni per sette, cioè secondo il principio della
moltiplicazione dei numeri e dei valori. Via via che la coscienza nel bar-do diventa
consapevole dei propri poteri appaiono le figure e le immagini che secondo il Libro
tibetano dei Morti provengono da essa stessa.
Ora, i simboli che qui ci interessano, più che i vari segni, colori o figure, sono i
numeri e gli aspetti dei mondi divini che appaiono nelle visioni. Il Tibetano ha sempre
avuto tendenza a mettere insieme i concetti, o gruppi di concetti, importanti secondo
valori numerici. Così abbiamo, per esempio "le Tre Divinità della Lunga Vita" o "le
Quattro Beatitudini" dello yoga, i "Cinque Veleni", le "Sei Dottrine" e gli "Otto Segni della
Felicità". Nei testi religiosi tibetani, e in particolare nelle grandi dissertazioni, questi
raggruppamenti che, come certi versi da memorizzare, aiutano a ricordarsi i concetti,
appaiono spesso. Naturalmente nei testi dei Libri dei Morti noi incontriamo di continuo
gli stessi fenomeni, per cui essi ci offrono un'articolazione importante e una visione
panoramica particolarmente significativa.
I numeri che ricorrono con maggiore frequenza negli scritti del Libro tibetano dei
Morti sono il due (la più importante polarità tantrica), che deriva dall'uno; il tre (come
trinità); il quattro come quaternità (o come unità derivante dalla trinità); il cinque come
centratura della quaternità e dell'unione tantrica degli opposti rapporti cosmologici e
psicologici. Nel suo duplice aspetto il cinque porta al dieci. Seguono i simbolici gruppi di
sei, di sette e infine di otto unità. Alcuni di questi simbolici bubbhologici hanno un
significato puramente psicologico. Solo esaminando tutti questi gruppi di simboli
possiamo renderci conto del valore del Libro tibetano dei Morti quale opera
magistralmente condotta di psicologia applicata, che attinge ad antiche esperienze di yoga
e Tantra e che nei libri sul bar-do compendia in un'armonica unità le numerose nozioni
sulla conduzione della coscienza.
Noi qui, naturalmente, ci limiteremo a dare un'idea generale; illustreremo i vari
gruppi di simboli solo in rapporto ai concetti cui essi si informano. Per tutti i necessari
dettagli si rimanda alle spiegazioni fornite nel capitolo III.
A DALL'UNITA' ALLA MOLTEPLICITA'
Come fondatore della dottrina buddhista noi conosciamo il Buddha Gautama o
Sakyamuni. Tuttavia nelle visioni del Libro tibetano dei Morti questa figura storica che ha
trasmesso l'intera base delle conoscenze non ha alcun ruolo. Esso contempla un pantheon
esclusivamente tantrico di divinità legate alla visione spirituale, dove ha un'importanza
centrale soltanto il ruolo del Bodhisattva, quale importante figura redentrice del
mahayana. Noi conosciamo l'ideale figura del Bodhisattva dal buddhismo mahayana la
cui essenza è costituita fondamentalmente dall'operato dei Bodhisattva. Gli esseri
dell'illuminazione, o Bodhisattva, sulla via dell'illuminazione, si trovano fra l'esistenza
terrena e le sfere superiori. Ora il buddhismo vajrayana, detto anche tantrayana per i testi
dei Tantra che attingono alla pratica dello yoga, conosce l'Adibuddha o Buddha
primigenio, che è un simbolo trascendente del dharma, quale principio primo, nelle
sembianze di un Buddha, non storico, ma ipotetico. Da quest'unico Buddha
onnicomprensivo e universale si sviluppa l'intero schema delle divinità, corrispondente al
simbolismo della polarità, essenziale e caratteristico del vajrayana, per cui tutti gli altri
Buddha e tutte le altre divinità appaiono sempre, per principio, con un aspetto duplice.
Chiarisce il concetto lo schema riportato a pagina 70, vedi figura 4. Le dottrine del Libro
dei Morti risultano essere una dinamica rappresentazione polare che rivela l'alto grado dei
riferimenti psicologici. Oltre al Buddha storico troviamo menzionati anche i suoi
predecessori (per esempio Dipamkara-Buddha) e il Buddha che gli succederà, Maitreya
(tib. Byams-pa); nel Libro tibetano dei Morti facciamo la conoscenza dei Buddha
trascendenti o Tathagata, che sono la base dell'intera trasformazione psichica nel bar-do, e
di numerosi Bodhisattva, otto dei quali hanno un'importanza particolare per noi.
B LA DIADE (IL NUMERO DUE) QUALE
ESPRESSIONE DELLA POLARITA'
Nella comparsa delle dottrine del Libro tibetano dei Morti del simbolismo dei Buddha
trascendenti in mistica unione con la loro consorte, troviamo una concezione che è
comune a tutte le tradizioni tantriche del buddhismo. Il tantrismo, che contempla
l'integrazione del principio femminile, è una dottrina che vuole includere anche il
principio opposto. Il Tantra vede nel Buddha un'immagine ideale generata dall'esperienza
meditativa. La "natura di Buddha", quale incarnazione della dottrina, veniva
rappresentata sotto varie forme. I vari tipi di Buddha stanno a indicare i diversi aspetti
della coscienza. In altri termini: certe virtù, caratteristiche meditative, verità psicologiche e
certi livelli di coscienza venivano rappresentati sotto forma di immagini divine, di diversi
tipi di Buddha. Questi Buddha diventarono archetipi del cosmo psichico che si sviluppava
dal pensiero riflettente. Così i Buddha della meditazione (scr. Tathagata, tib. De-bzhin
gshegs-pa) venivano identificati con aspetti parziali (o forme di manifestazione) del
dharma, venivano associati a determinati aspetti spirituali dell'esistenza umana e
venivano disposti nel mandala, nel cerchio sacro la cui struttura unitaria è legata alle leggi
psicologiche dell'individuazione.
Poiché il seguace del buddhismo vajrayana concepisce l'intera vita, lo spirito e il
fisico dell'uomo, e lo stesso cosmo come un piano o spazio comune nel quale può aver
luogo soltanto l'autorealizzazione e liberazione dalla sofferenza della transitorietà, quei
Buddha finirono per diventare immagini della visione interna, da realizzare fin nei
minimi dettagli per mezzo della meditazione. Per questo - fatto degno di nota dal punto
di vista psicologico - in tutti i mandala vengono raggruppati, come quadrato nel cerchio,
proprio questi cinque Buddha trascendenti.
L'emanazione del principio spirituale è una manifestazione dell'essere costituita da
due valori opposti: la potenza statica e la creazione dinamica o, rispettivamente, l'energia
maschile e la energia femminile. Entrambe sono base del processo creativo sui piani fisico
e spirituale. Entrambe sono base del processo creativo sui piani fisico e spirituale. Può
aversi evoluzione solo dall'unità dei due opposti. Le immagini dei Buddha nel duplice
aspetto dell'unione con la Prajna (la corrispondenza femminile) indicano la totalità
dell'esperienza, il suo inizio e la sua fine, nella quale entrambi si autodefiniscono
inseparabili (tib. dbyer-med). Il Buddha rappresenta la via della conoscenza e
dell'illuminazione, la Prajna rappresenta la meta, il punto d'arrivo, la perfetta sapienza. I
due insieme rappresentano il tutto nell'unità o continuità dell'integrazione.
Nei mandala del Libro tibetano dei Morti c'è all'inizio l'Adibuddha; nello yoga
evolutivo (tib. bsKyed-rim) al centro troviamo la visione del duplice aspetto tantrico.
L'adibuddha è rappresentato in unione tantrica con la sua consorte e si identifica con
l'origine di tutte le luci e di tutte le divinità che scaturiscono dall'unità prima.
Il Buddha (la via) e la sua consorte (la meta) sono i due concetti (tib. Thabs-shes)
che consentono di definire sia il processo della meditazione che quello di ogni altra
azione. Ogni azione consapevole ha un fine teleologico, mira a una data azione, fisica o
psichica. Nei Tantra il Buddha è la via o il metodo (scrs, upaya, tib. Thabs) che porta alla
meta della liberazione. Nel nostro contesto via significa esercitare le dottrine buddhiste in
modo che nel bardo esse possano diventare un mezzo di liberazione. La suprema sapienza
è la liberazione che si rende visibile nella "Chiara Luce Primigenia" dell'esperienza di
morte. La meta è "gnosis", cioè l'inscindibile unità di via e meta caratterizzata dalla unità
degli opposti, Buddha e Prajna. La polarità dei Buddha dell'unione mistica tantrica ha due
significati: 1 - E' l'archetipo dell'origine di tutto ciò che nasce dalla indivisibile totalità, e 2
- diventa l'immagine guida spirituale per una nuova integrazione della coscienza che sulla
via della conoscenza discernente dello "yoga riunificante" (tib. rDzogs-rim) supera e
integra tutti gli opposti. Il Tantra insegna la totale abolizione della dualità perché il
pensiero dualistico è la causa della sofferenza prodotta dagli opposti. Mentre la polarità è
la condizione presente dell'essere.
Tutte le divinità del Libro tibetano dei Morti, come della maggior parte dei sistemi
dottrinari del buddhismo tantrico, possono essere raffigurate come unità della polarità.
Nelle fasi inferiori dello yoga buddhista, le divinità vengono rappresentate senza consorte
ed sortano a meditare sui Buddha e sui Bodhisattva. Nelle fasi medie i Buddha e le
divinità delle iniziazioni possono assumere alternativamente l'aspetto maschile o quello
femminile. Nei Tantra superiori e supremi si apprendono i contenuti dottrinari legati al
duplice aspetto di divinità in tantrico amplesso (sul. yuganaddha, tib. Yab-yum). Quindi il
tipo di divinità rappresentata nei mandala corrisponde al grado di conoscenza trasmesso.
Ma nelle visioni del Libro tibetano dei Morti troviamo anche un'altra polarità,
perché oltre ai Buddha figurano anche i Bodhisattva possono avere un aspetto pacifico o
adirato. Sono due modi di manifestarsi della stessa divinità, unita alla sua consorte (che
nel Libro dei Morti hanno un ruolo importante per la trasformazione attraverso il bar-do)
riferiti a due tipi di manifestazione della coscienza dell'uomo: come conoscenza, sapienza
e illuminazione da un lato, come pensiero discernente e razionalità dall'altro.
Sede della sapienza perfetta è il centro cardiaco, il loro del cuore (tib. sNying-ga'i
khor-lo), punto centrale dell'uomo; da qui emanano le visioni delle divinità pacifiche (scr.
santi, tib. Zhi-ba) e dei Buddha. Nello schema delle iniziazioni abbiamo definito il loto del
cuore "piano del dharmakaya". Nel mahauskhacakra (tib. bDe-chen gyi' khor-lo), il cakra
più alto di tutti, sede fisica dell'attività intellettiva, centro della coscienza intellettiva,
appaiono le visioni di Buddha adirati (scr. krodha, tib. Khro-bo) e di tutte le altre divinità
del bar-do. Essi rappresentano il grande antipodo della serenità dell'intelletto che
appaiono finché questo è in dualistica lotta (di pro e contro) con se stesso. Finché non
viene superato il contrasto fra cuore (animo) e intelletto l'attività intellettiva pura (senza
riferimento prototipico) produce pensieri legati al mondo materiale e transitorio del
desiderio. Questa è la forte propensione per la forma terrena (tib. sKu) o, in altri termini,
l'incarnazione dello spirito nella materia. D'altro canto dal cuore, il centro spirituale
dell'uomo, inizia la via che porta alla trascendenza e all'unità della coscienza,
rappresentata dalle cinque luci e sapienze dei Buddha trascendenti.
Ritorneremo su questi temi nel capitolo III, perché il simbolismo della polarità
contempla una serie di rapporti che è necessario chiarire.
C RAGGRUPPAMENTO DI TRE
Il simbolismo più conosciuto nel raggruppamento di tre potrebbe essere per noi la
dottrina dei "tre corpi", che abbiamo già trattato esaurientemente. Nel libro tibetano dei
Morti il simbolismo del trikaya è in stretta connessione con le tre esperienze del bar-do
che abbiamo conosciuto come piani di trasformazione nell'aldilà. Sperimentare la "Chiara
Luce" (tib. 'Od-gsal) nel bar-do dell'esperienza di morte (tib. 'Chikha'i bar-do) significa
sperimentare il dharmakaya puro. Il lungo spazio di tempo di quattordici giorni con
l'apparizione delle divinità pacifiche e adirate nel bar-do della esperienza della realtà (tib.
Chos-dyid bar-do) è la realizzazione di manifestazioni della coscienza nel sambhogakaya.
Infine con lo Srid-pa'i bar-do inizia il nuovo orientamento del corpo cosciente che entra in
un nuovo involucro mortale, nel nirmanakaya.
I testi tibetani menzionano spesso i "tre gioiellli" (tib. dKonmchog gsun = i tre
gioielli preziosi), cui sono associati vari gradi di valore. Nel simbolismo classico del
buddhismo hinayana, la dottrina più antica in assoluto, i "tre gioielli" (scr. triratna) erano
il Buddha, la dottrina (scr. dharma) e la comunità dei discepoli (scr. sangha). Il buddhismo
(tibetano) vajrayana formulò una nuova versione di questa trinità che, riferita ala
trasmissione delle dottrine segrete dei Tantra, acquistava un'importanza ancora maggiore.
Oggi nella religione tibetana essa ha un grosso ruolo. E' la trinità di Lama, Yi-dam e
Dakini, considerati anch'essi manifestazioni dell'unica "natura-di-Buddha", benché a noi
sembrino completamente diversi dai tre gioiellli delle antiche dottrine originarie del
buddhismo. La dottrina segreta viene trasmessa al discepolo da un Guru o Lama in una
lezione accompagnata dal rispettivo rito iniziatorio. La dottrina segreta, per esempio
quella del "Grande Simbolo" (tib. Phyag.rgya chen-po) viene affidata alla custodia di una
divinità protettrice personale (scr. istadevata, tib. Yi-dam), che viene eletta (scelta) dal
discepolo o che è già contemplata nella dottrina. La Dakini è "colei che sa", la sapiente (scr.
vidya) che trasmesse i contenuti della dottrina segreta prestando orecchio alla voce
interiore.
Arriviamo così alla successiva trinità conosciuta, una espressione complessa che
rappresenta i tre diversi processi della coscienza. Le dottrine religiose debbono essere
apprese mediante l'udito (tib. Thos), approfondite attraverso la contemplazione (tib.
bSam) e realizzate tramite la meditazione (tib. sGom). Anche questa triade della
percezione ed elaborazione interna delle impressioni esterne è un aiuto importante per il
principio cosciente nel bar-do, che può riuscire ad affrancarsi proprio grazie a queste
reazioni. Questo triplice esercizio è una delle basi della dottrina buddhista.
Il verso introduttivo del Bar-do thos-grol (il Libro tibetano dei Morti) ci presenta il
trikaya col Buddha Amitabha. Evidentemente la tripartizione delle emanazioni può
avvenire sotto segni completamenti diversi. La teoria cui si ispira è quella dei mandala
buddhisti, che sono alla base di tutte le enunciazioni del Libro tibetano dei Morti. Nella
tradizione dei nostri testi è considerato fondatore del Libro tibetano dei Morti
Padmasambhava, il Guru e tantrico indiano del vajarayana. Viene definito una
emanazione del Buddha Amitabha, e la sua figura ultraterrena nel sambhogakaya è
identica al Bodhisattva Avalokitesvara. Quale trinità tantrica Padmasambhava stesso
forma un triplice aspetto nell'ordine di Lama, Yi-dam e Dakini, come indica la tabella che
segue. In essa riportiamo relazioni diverse del simbolismo del trikaya, che evidenziano la
molteplicità delle apparizioni. I singoli gruppi partono dall'antica trinità buddhista
formatasi con i "tre gioielli" Buddha, Dharma e Sangha.
Per quanto ci riguarda, sono importanti anche altri raggruppamenti di tre, anch'essi
riferiti per lo più al noto schema del trikaya, perché ogni figura formata e visibile può
manifestarsi su tre piani di rappresentazione. Viene in mente in proposito il modello
platonico degli anchetipi o idee, dove abbiamo le idee esterne e pure che rimangono
sempre uguali, poi le idee e le immagini della nostra volontà, formate dal logos, e infine le
opere e forme costituite dalle idee concrete.
Ora, già partendo da questo schema noi possiamo configurare la struttura delle
visioni del bar-do, che amplieremo quando tratteremo i gruppi di cinque (cap. II, E). La
trinità mantrica più importante in tutti i testi sacri e rituali del buddhismo vajrayana è
senza dubbio quella costituita dalle tre sillabe germinali OM AH HUM. Ad esse si ricorre
in quasi tute le recitazioni mantriche. Inoltre sono considerate sillabe mistiche per la
definizione dell'unità del trikaya. Sono al centro delle iniziazioni e costituiscono il punto
d'inizio di numerose meditazioni sui Buddha e sulle virtù e sapienze buddhiste. Trovano
applicazione nelle pratiche rituali, nella visualizzazione delle divinità e nello yoga, e sono
componenti della maggior parte dei mantra. Vengono usate nella consacrazione dei
dipinti tibetani; sul retro delle rappresentazioni dei Buddha, vengono scritte in rosso sotto
i tre centri del capo, della parola e dello spirito. OM rappresenta il corpo consacrato dei
Buddha, AH la parola pura e HUM lo spirito di tutti gli illuminati. In questo consiste la
consacrazione del trikaya dei ritratti religiosi.
La sillaba germinale bianca OM appare in corrispondenza del centro della fronte
come luce del Buddha Vairocana; ad essa si contrappone il nirmanakaya. Il centro della
fronte è anche la sede dell'intelletto attivo e del desiderio (scr. kama, tib. 'Dod-chags), che
si diparte dallo spirito (o mente) e si ancora alle cose terrene. Il primo legame, e quindi la
realizzazione, inizia con una decisione dell'intelletto. Il desiderio è uno dei tre errori
(difetti) fondamentali del comportamento umano (tib. Dug-gsun), causa di tutti gli altri
errori e di tutta la sofferenza. Gli altri due sono l'odio (scr. krodha, tib Zhe-sdang) e
l'ignoranza (scr. moha, tib. gTi-mug). L'odio si manifesta partendo dal centro della parola;
ad esso è associata la sillaba rossa AH, la cui luce mira ad ottenere la simbolica
purificazione di questo centro. Il centro della laringe, sede della parola, è governato dal
Buddha rosso Amitabha. Ma la causa di tutti gli atteggiamenti sbagliati è la fondamentale
ignoranza e non-cosapevolezza delle proprie azioni. Infatti tutti gli errori e tutti i vizi, che
portano fatalmente all'ancoramento al mondo materiale e generano sofferenza,
scaturiscono dall'ignoranza, nascono dalle tenebre in cui è immerso lo spirito. Nella
triplice consacrazione (tib. dBang-gsun) il loto del cuore è associato alla sillaba mantrica
azzurra HUM, luce del Buddha Aksobhya, corrispondente al dharmakaya. Il buddhismo
definisce anche "veleni" i tre errori fondamentali testè menzionati. Sono gli errori
commessi dal corpo, dalla parola e dal pensiero quelli che determinano il karma della vita
e della rinascita.
Le 110 divinità dei mandala che appaiono nel bar-do sono emanazioni dei centri
dell'intelletto dei centri dell'intelletto, della parola e dell'animo (cuore). Questi tre ordini
di divinità hanno lo scopo - come insegnano le dottrine del Libro tibetano dei Morti - di
redimere la coscienza dell'uomo, di elevarla dal regno dell'ignoranza alla luce della
conoscenza, affinché raggiunga il piano della illuminazione, privo di immagini, che si
sperimenta nell'esperienza di morte grazie alla "Chiara Luce". Alcuni dipinti tibetani,
alcune delle immagini per la meditazione degli affreschi dei monasteri o dei rotoli in cui
sono rappresentate tutte le divinità delle visioni, ci offrono uno schema nel quale è
riconoscibile un raggruppamento di tre che corrisponde alla vita iniziatica che si percorre
durante la lettura del Libro tibetano dei Morti. Esso forma tre mandala corrispondenti ai
tre centri psichici dell'uomo che conosciamo dallo yoga. Nel centro della fronte appaiono
le 58 divinità adirate, emanazioni dell'intelletto; nel centro laringeo c'è il mandala delle 5
divinità detentrici della conoscenza (scr. vidyadhara, tib. Rig-'dzin); nel loto del cuore
appaiono le 42 divinità pacifiche, i Buddha e i Bodhisattva nella quintupla radiazione
degli elementi. Tutte queste divinità sono immagini di stati di coscienza e hanno l'aspetto
adirato (scr. krodha) o beato e trasfigurato (scr. santi) della visione pura.
D ALCUNI RAGGRUPPAMENTI DI QUATTRO
Col raggruppamento di quattro simboli o concetti arriviamo già alle immagini spaziali dei
mandala. Qui però dobbiamo ricordare di nuovo i quattro corpi mistici, che abbiamo
conosciuto come la trinità dei trikaya e il sahajakaya nato da essa. A questi quattro corpi
mistici, o campi d'azione dello spirito, sono associate le quattro iniziazioni (tib. dBangbzhi) che incontriamo soprattutto nei rituali tantrici del buddhismo tibetano. Questa
quadruplice iniziazione dovrebbe essere la più importante iniziazione tibetana alle
dottrine del vajrayana; invece i seguaci dell'antica setta non-riformata dei rNying-ma-pa,
che si rifà al Guru Padmasambhava, adottano un sistema che prevede cinque iniziazioni,
corrispondenti ai cinque piani psichici dell'uomo, che hanno un ruolo importante in
particolare nella tradizione del Libro tibetano dei Morti. Approfondiremo l'argomento nel
prossimo capitolo.
Appartiene a un simbolismo quadruplice anche il visvavajra o vajra a forma di
croce, le cui estremità si contrappongono due a due. Il più importante strumento rituale
tibetano è il vajra, o scettro di diamante (tib. rDo-fje), quintessenza della dottrina "chiara
come il diamante" o "uguale al diamante" del vajrayana (tib. rDo-rje theg-pa) contemplata
nei testi del Libro tibetano dei Morti. Essi presentano un condensato di queste dottrine del
vajrayana che armonizza magistralmente elementi della religione buddhista, dello yoga e
di psicologia, che risponde al mondo cosmico delle visioni di tutti gli aspetti della
coscienza umana. Il visvavajra (tib. rDo-rje rgya-dam) ha le quattro estremità rivolte verso
i quattro punti cardinali, perciò rappresenta già la base del simbolismo cosmologico del
buddhismo tibetano e dei mandala. In cosmologia rappresentano i quattro continenti (scr.
catvari-dvipani, tib. gLing-bzhi) che si alzano dalla base di un visvavajra d'oro,
fondamento del cosmo, perciò costituiscono l'orientamento fondamentale di un mondo
mitico-cosmologico. Nel quadrato del mandala i quattro campi triangolari associati ai
quattro punti cardinali e ai quattro elementi sono disposti nello stesso modo. Ritorneremo
sui mandala quando parleremo dei cinque punti cardinali (o regioni cosmiche).
Per quanto concerne la suddivisione in quattro campi del mandala nel Libro
tibetano dei Morti abbiamo un interessante riferimento iconografico (e soprattutto
psicologico) nelle quattro divinità conosciute come i quattro custodi delle porte del
mandala (tib. sGo-ba bzhi) con l'aspetto adirato e con colori cosmici diversi. Come tutte le
divinità del Libro tibetano dei Morti anche i custodi delle porte figurano in coppia,
insieme alle loro consorti; però nel rituale iniziatico i custodi delle porte vengono
presentati in gruppi di quattro, e le loro consorti separatamente. Di solito i quattro custodi
indicano i quattro "problemi ultimi, incommensurabili" (tib. rTag-chad mu-bzhi); mentre
le quattro custodi indicano di solito i "quattro stati divini" (scr. catur-apramanani, tib.
Tshad-med bzhi).
I due gruppi insieme costituiscono i più importanti esercizi di una pratica
meditativa che trascende la propria personalità sotto ogni aspetto, che porta alla corretta
visione dei una data condizione della coscienza e del comportamento umano ad essa
corrispondente. I "quattro problemi ultimi, incommensurabili" vertono sul significato di
nascita e morte, immortalità ed estinzione (della vita), essere e non-essere, mondo
fenomenico e vuoto. Sono in rapporto cl mandala delle divinità demoniache i problemi
che determinano il karma; infatti vengono posti all'inizio delle visioni delle divinità
adirate. Sono in stretta relazione con le quattro note "infinità" (pali, cakkhu-ayatana) sulle
quali occorre meditare per conoscere le grandi dimensioni della coscienza.
L'altro gruppo di quattro viene rapportato per lo più con le quattro custodi delle
porte (tib. sGo-ma bzhi). Sono considerate le qualità e i comportamenti più importanti per
condurre una vita spirituale conforme alla dottrina buddhista. I "quattro stati divini" (pali,
brahma-vihara o apramanani) sono quattro stati perfetti dovuti al consapevole sviluppo
di bontà (scr. maitri), compassione (scr. karuna), partecipazione alla gioia altrui (scr.
mudita) ed equanimità (scr. upeksa). Questi quattro perfetti sviluppi delle verità divine
(tib. Tshad-med bzhi) sono virtù etiche contemplate quindi già nell'antico buddhismo
hinayana. Adesso vengono riferite a immagini icononografiche del Libro tibetano dei
Morti che riguardano questo problema. Altro fatto degno di nota è la suddivisione
quaternaria nella successione delle visioni delle 110 divinità del bardo. Il periodo di 49
giorni dello stato postmortale che termina con la reincarnazione consiste di sette gruppi di
sette giorni. Ebbene in 4 di questi gruppi avviene quanto segue: per 7 giorni appaiono le
divinità pacifiche, per 7 giorni le divinità adirate e per 14 giorni tutte le divinità insieme.
Dietro questa interessante articolazione si nascondono realtà simboliche e psicologiche
diverse.
Nelle iniziazioni tantriche dobbiamo sempre aver presente il processo di
purificazione e consacrazione rituale; infatti anche in questa articolazione quaternaria dei
simboli dell'azione (possiamo definire così i riti) abbiamo di nuovo in sistema (un metodo)
di iniziazione (tib. dBang-bskur) che è perfettamente sintonizzato coi piani psicofisici
dell'uomo. Le "quattro consacrazioni", di cui abbiamo già parlato, rappresentano per noi
la base più importante per la comprensione dei "quattro corpi" che abbiamo localizzato
nei quattro centri o piani psichici evolutivi delle forze spirituali.
Data la materia difficile basata su tradizioni dottrinarie differenti dobbiamo
abituarci all'idea che nel campo delle iniziazioni la varietà è enorme e talora fuorviante.
Esistono alcune centinaia di iniziazioni ai Tantra e ai sistemi dottrinari segreti totalmente
diverse dove probabilmente è diversa la trasmissione da scuola a scuola.
Qui seguiamo lo schema delle quattro iniziazioni ai mandala delle divinità del bardo secondo lo Nges-don- snying-po, un importante Libro dei Morti della tradizione
rNying-ma-pa del Tibet. In esso troviamo le quattro iniziazioni disposte in senso
discendente, cioè l'iniziazione più alta corrisponde allo svabhavikakaya, al centro
ombelicale. Parleremo di nuovo del percorso ascendente o discendente dell'iniziazione
quando tratteremo i sei Buddha e la via che si diparte da sei loka. Nell'iniziazione
quaternaria, e quindi perfetta per il rituale tantrico, viene impartito il khumpabhiseka (tib.
Bum-dbang) per trasformare il corpo profano del nirmanakaya dei Buddha. Col
guhyabhiseka (tib. gSang- dbang) la parola profana diventa pura; col prafinabhiseka si
raggiunge la purezza del dharmakaya nel cuore, e col sahjabhiseka (tib. dByer-med lhanskyes dbang) il centro della persona diventa sahajakaya o corpo della inscindibile totalità
dei quattro piani di una globalità operante sui piani religioso e spirituale.
LE CINQUE DIVINITA' DEI MANDALA
Nella mistica del buddhismo vajrayana la componente più significativa della simbolica
esoterica si articola in cinque elementi (immagini o valori) disposti in modo da formare un
quadrato al centro del quale c'è la "quinta essentia". Questi cinque elementi costitutivi di
una simbolica, che sono fra loro in stretto rapporto reciproco, sono circondati dal sacro
cerchio del mandala. Anche la struttura del cerchio poggia su un simbolismo
pluriarticolato che vuol indicare la via della coscienza e i suoi gradi di realizzazione.
Al centro del mandala, che riproduce un fiore di loto, c'è il quinto punto, che
rappresenta una posizione chiave per la conoscenza dei contenuti del mandala. Nel
buddhismo i mandala sono prodotti totalmente specifici della simbolica religiosa e
filosofica il cui significato è fisso. Se così non fosse, questa logica rigorosa, propria o
interna della struttura del mandala e le dottrine segrete ad essa collegate non sarebbero
trasmissibili, perché perderebbero il loro significato. Richiamiamo l'attenzione su questa
"legge" che è alla base del mandala tibetano perché molti ignorano queste regole e
definiscono impropriamente mandala qualsiasi figura quaternaria o qualsiasi cerchio.
Il centro del mandala si identifica con l'origine di tutti i Buddha e di tutte le divinità
del Libro tibetano dei Morti. A seconda dell'orientamento del processo meditativo il
centro rappresenta l'inizio o la fine dell'osservazione delle visioni. Più sotto descriveremo
dettagliatamente le varie posizioni nel mandala delle divinità e dei rispettivi simboli. Per
quanto riguarda la teoria dei mandala e la dettagliata descrizione e interpretazione dei
loro elementi si rimanda alla corrispondente letteratura.
Nella prima parte del Bar-do thos-grol è trattata l'apparizione dei cinque Tathagata
e degli otto Bodhisattva uniti alle loro consorti o Dakini. Nei mandala con cinque punti
cardinali o regioni cosmiche tutte queste divinità figurano in gruppi di cinque:
simbolismo che ha un significato non solo buddhologico ma anche psicologico. A questa
disposizione complessa, poggiante su una struttura di base fissa, corrispondono i riti
iniziatici e le iniziazioni ormai in rapporto con uno schema ampliato che comprende
cinque o sette centri psichici. E' alla base di tutti i manda uno schema con cinque
Tathagata o Buddha trascendenti (tib. rGyalba rigs-lnga) che insieme alle loro consorti, le
Dakini, inaugurano un simbolismo ricchissimo di riferimenti.
Al centro del mandala vediamo Vairocana, il Buddha bianco del quale emanano, in
direzione delle quattro regioni cosmiche, i quattro Buddha: Aksobhya (azzurro),
Ratnasambhava (giallo), Amitabha (rosso) e Amoghasiddhi (verde).
I cinque Tathagata corrispondono ai cinque skanda (o aggregati) della personalità,
che è al centro dell'analisi buddhista del carattere. I cinque skanda (tib. Phung-po lnga)
sono in rapporto causale con i cinque ostacoli (scr. Klesa, tib. Dug-lnga) della via della
liberazione che la coscienza deve superare per raggiungere l'illuminazione. La via è
simbolicamente rappresentata come una purificazione ad opera dei cinque elementi,
identificati con le cinque Dakini o "sapienze dei buddha" (tib. Yum-chen lnga). I cinque
elementi (tib. Byung-ba lnga) formano le cinque radiazioni o luci dalle quali si sviluppano
i Buddha che provengono dal vuoto. Le cinque luci elementari diventano al contempo i
colori fondamentali delle regioni cosmiche del mandala e degli elementi, ma sono anche le
radiazioni delle cinque sapienze trascendenti, delle sapienze di Buddha (tib. Ye-shes lnga),
che l'uomo deve realizzare (acquisire) per superare i cinque grandi ostacoli, cioè gli errori
commessi.
Già da qui possiamo capire quale ampia simbolica e quale ricca sistematica abbiano
sviluppato le dottrine buddhiste per poter rappresentare i sottili processi sia psichici e
spirituali sia cosmologici. Si riferiscono tutte alla simbolica dei mandala, nei quali gli
aspetti figurano in quadruplice polarità, nei quali cioè figurano l'aspetto pacifico e quello
adirato; l'aspetto maschile e quello femminile. Pertanto i colori dei cinque Buddha
trascendenti che nel bar-do vengono percepiti sul piano del sambhogakaya sono colori
simbolici e sono in rapporto con la cosmologia e con la psicologia del mandala. In altri
termini: i mandala sono riproduzioni microcosmiche dell'universo e al contempo
immagini di un mondo interiore psichico e spirituale nel quale immagini divine si
rispecchiano in determinate immagini simboliche della coscienza.
I cinque Tathagata, quali emanazioni delle cinque sapienze trascendenti, vengono
associati ai rispettivi centri psichici, onde eliminare, mediante appositi esercizi di
meditazione, i cinque veleni o impedimenti che sbarrano la via della liberazione. Infatti la
visione nel bar-do della "Chiara Luce" presuppone la purificazione e lo scioglimento dei
legami rappresentati dai cinque skanda. Sul sentiero luminoso dei cinque Tathagata
attraverso i terrificanti mondi del bar-do fungono da guida le cinque sapienze dei
Buddha.
In uno dei più importanti Libri tibetani Morti, quello della setta dei kNying-ma-pa,
troviamo i cinque Tathagata collegati coi centri psichici. Nei centri del loto tra fronte,
laringe, cuore, ombelico e perineo si trovano le forze spirituali rappresentate dai cinque
Tathagata, che contrastano i cinque ostacoli. Corrispondono a uno schema discendente
(del simbolismo psicofisico tantrico) della
trasformazione dei cinque piani del
comportamento dell'uomo tramite il corpo, la parola, la mente, la azioni meritorie e il
karma. Il quinto centro, il sukhapalacakra (identico al muladharacakra dello yoga) è
localizzato nel perineo. Il suo nome sta a significare che è possibile acquisire una sempre
maggiore conoscenza e raggiungere la trascendenza solo attraverso la sublimazione e il
consapevole superamento dei desideri terreni. Qui è il karma, l'azione, che determina ogni
altra condizione della vita futura; è il karma che determina il tipo di vita futura: la via
attraverso il bar-do e la rinascita. Perciò nel sukhapalacakra troviamo il Buddha
Amoghasiddhi unito alla sapienza del compimento dell'azione. Il nostro testo tibetano
associa al quarto e al quinto centro le apparizioni di altre Dakini e soprattutto del potente
Vajrakumara, che nei mandala del Bar-do thos-grol abitualmente non figurano.
Nel cakra della fronte, sede dell'intelletto, appaiono le visioni delle 58 divinità
terrificanti (che bevono sangue) sovrane dei quattro punti cardinali del cervello. Nel
centro del linguaggio figurano, in unione tantrica con le loro Kadini, le cinque divinità
detentrici del sapere o Vdyadhara. Nel centro del cuore c'è il mandala dei Buddha e dei
Bodhisattva pacifici. Nel centro ombelicale figurano cinque forme della dakini
Vajravarahi. E nel centro più basso di tutti troviamo Vajrakila o Vajrakumara, l'adirata
divinità protettrice che ha in mano il magico pugnale a tre lame cl quale deve eliminare i
tre veleni del mondo delle pulsioni. Poiché non tutti i testi tibetani associano i due cakra
inferiori alle Dakini e a Vajrakumara, nello schema che segue abbiamo tirato una linea
divisoria.
F I SEI REGNI DELL'INCARNAZIONE
Nelle dottrine del Libro tibetano dei Morti troviamo una dettagliata descrizione dei sei
regni dell'incarnazione, che sono definiti "ruota della rinascita" (scr. bhavacakra, tib. Sridpa'i khor-lo). Questo sestuplice mondo si apre al principio cosciente errante nello Srid-pa'i
bar-do, cioè nel bar-do della via discendente in cui la coscienza cerca il luogo della
rinascita. Abbiamo una dettagliata illustrazione dello Srid-pa'i bard-do nella traduzione
del Libro Tibetano dei Morti di Evans-Wentz, opera sulla quale ritorneremo più volte.
Lungo la via discendente dello Srid-pa'i bar-do appaiono le sei luci torbide, che
emergono dal basso, dai regni del sestuplice mondo esistenziale. Queste luci vengono
percepite accanto alle chiare radiazioni cosmiche dei cinque Tathagata, già nei primi
giorni delle visioni del bar-do. Sono considerate luci elementari provenienti dai sei mondi
esistenziali, che bisogna superare per mezzo della conoscenza. Le luci torbide sono
connesse alla comparsa dei sei Buddha del bhavacakra.
Le indicazioni più importanti nei testi del Libro tibetano dei Morti, quelle che
guidano meglio il defunto nel bar-do, sono i consigli che gli suggeriscono di acquisire
conoscenza e autocoscienza. In tutte le fasi del bar-do il defunto viene continuamente
sollecitato ad acquistare conoscenza e coscienza di sè, e gli viene ricordato che la rinascita,
sotto qualsiasi forma, è sempre uno stato transitorio e un luogo di sofferenza nel quale è
difficile raggiungere la redenzione. Si arriva alla liberazione se, nonostante tutte le
tentazioni esercitate dalle ingannevoli immagini delle visioni, che nei testi sono sempre
forme antinomiche dell'intelletto, queste vuote creazioni della propria follia vengono
riconosciute per quelle che sono. Queste immagini si dissolvono e la coscienza raggiunge
lo stato di nirvana nel quale non esistono immagini di sorta. Ogni fuga dalle immagini
terrificanti del bar-do e ogni cedimento alle lusinghe che esercitano certi colori e certe
visioni significano un passo verso l'ambivalenza dei sentimenti negativi, verso l'odio e il
desiderio, un ritorno all'ignoranza, perché le forse opposte del desiderio e dei rifiuto
impediscono la redenzione e l'unità della coscienza nella liberazione. Il corpo cosciente
(tib. Yid-kyi) - che si trasforma nel bar-do per redimere lo spirito - non conosce esitazioni e
di fronte alle visioni resta impassibile e distaccato.
Quando sui diversi piani e negli stadi intermedi della coscienza non viene
raggiunto questo stato, la rinascita è inevitabile. La via del bar-do sfocia nella grande
liberazione (tib. Grollam) o nella grande sofferenza e nella rinascita. Il karma non redento
invia l'errabondo corpo cosciente nei sei mondi, che lo attirano; il suo pensiero dominato
dal desiderio gli fa assumere di nuovo una forma transitoria. I sei regni esistenziali
possono essere definiti forme esistenziali simboliche prodotte dagli errori umani.
Nei vari scritti tibetani questi mondi esistenziali sono illustrati con grande dovizia
di simboli mitologici e psicologici della tradizione buddhista. Ci vengono presentati come
luoghi caratterizzati da comportamenti sommamente unilaterali dell'uomo, imputabili ai
sei errori o impedimenti, e vengono simbolicamente definiti: mondo degli dei, mondo dei
titani, mondo degli uomini, mondo degli animali, mondo degli spettri della fame e mondo
degli esseri infernali.
Quindi i sei regni dell'incarnazione, in una archetipica tipologia psicologica del
carattere dell'uomo, coprono tutto lo spazio che va dalla beatitudine divina ai tormenti
infernali imputabili al comportamento. Gli errori e i modi per sgominarli vengono
rappresentati mediante simboli tantrici che illustrano i valori opposti.
Perciò i sei regni dell'incarnazione sono il mondo nel quale si manifesta
Avalokitesvara ("che guarda in basso con benevolenza"), il grande Bodhisattva della
compassione operante. E' la figura simbolica più forte del buddhismo mahayana e la
quintessenza della dottrina della redenzione, della via che dalla sofferenza porta alla
liberazione. Il Libro tibetano dei Morti definisce Avalokitesavara il salvatore che indica
agli esseri dei sei mondi la via della redenzione. Poiché è animato da grande compassione
(scr. mahakarrunika-avalokitesvara, tib. sPyan-gzigs thugs-rje chen-po) gli vengono
attribuite quattro braccia, o, frequentemente, undici teste e otto braccia. I vari testi
illustrano ampiamente i suoi diversi aspetti e dicono che nei sei mondi dell'incarnazione
questo Bodhisattva assume la forma di sei diversi Buddha (tib. Thub-pa drug). Sono
Buddha che si sono resi visibili incarnandosi nel nirmanakaya partendo dalle sei note
sillabe sacre del grande mantra OM MA NI PAD ME HUM. Per i Tibetani questo mantra
esasillabico è la formula più sacra per invocare Avalokitesvara, il mantra che è in rapporto
diretto coi sei mondi (vedi capitolo III). Nel Mani bka'-bum, un ponderoso testo antico
attribuito a Srong-btsan sgam-po (617-650), il primo re buddhista del Tibet, troviamo
numerose spiegazioni del significato del mantra esasillabico di Avalokitesvara. E'
un'opera che è indispensabile leggere per capire la natura dei sei mondi, nella quale è
detto, fra l'altro, che anche i cinque Tathagata sono da intendersi emanazioni delle sei
sillabe del grande mantra.
Il Mani bka'-bum ci fa capire che Avalokitesvara, il Bodhisattva "esasillabico" (Yi-ge
drug-pa"), è importantissimo perché la sua missione sottolinea ed esalta il contenuto
soteriologico del Libro tibetano dei Morti. Attraverso l'incarnazione nelle sembianze dei
sei Buddha del bhavackra questo Bodhisattva si fa nnunciatore delle "sei virtù della
perfezione" (tib. Pha-rol-phyin drug), delle "sei paramita" che l'uomo deve possedere per
sgominare (contrastare) i fondamentali errori del suo comportamento e raggiungere la
liberazione. Dati i numerosi rapporti che intercorrono fra i sei simboli del grande mantra,
OM MA NI PAD ME HUM, e i sei Buddha dei regni esistenziali, crediamo opportuno
riportare la seguente tabella esplicativa. Altri dettagli su questo importante simbolismo
verranno chiariti nel capitolo III.
G ALTRI RAGGRUPPAMENTI SIMBOLICI
Fa parte del ricco simbolismo ordinato secondo gruppi numerici del buddhismo tantrico
tibetano anche la suddivisione in sette parti della durata del bar-do. Il bar-do postmortale,
cioè il lasso di tempo compreso fra la morte e la rinascita, dura 49 giorni, cioè 7 volte 7
giorni. Le visioni delle divinità del bar-do appaiono per 14 giorni. Nella prima settimana
appaiono per 6 giorni le 42 divinità pacifiche e il settimo giorno le vidyadhara, nella
seconda settimana le 58 divinità terrificanti, cioè le loro corrispondenze di segno opposto
che comprendono le 28 potenti Dakini con la testa di animale (tib. rNal-'byor nyerbrgyad), le quali si manifestano in quattro gruppi di sette divinità ciascuno. La
disposizione di questi gruppi corrisponde all'ordine previsto dalla cosmologia lamaista e
dalla struttura del mandala, base di tutte le emanazioni dei Buddha.
I quattro continenti della cosmologia buddhista (scr. catvari dvipani) hanno otto
piccoli continenti secondari (tib. gLing-'phran brgyad) e quindi come base cosmologica
costituiscono una parte mitologica importante nella descrizione dello Srid-pa'i bar-do, nel
quale il defunto in cerca del luogo di nascita (tib. sKye-gnas) apprende la natura di regioni
del mondo.
Infine appaiono nel bar-do, gli 8 Bodhisattva e le 8 Dakini. Gli otto Bodhisattva
governano le forme di coscienza (scr. astavjnana), le loro Kadini le otto aree delle
dimensioni in contatto con le rispettive forme di coscienza. Le loro corrispondenze di
segno opposto sono le otto keurima e le otto phra-men-ma, che insieme formano un
gruppo di sedici Dakini adirate. Già da questi pochi esempi è facile capire come le
dottrine del Libro tibetano dei Morti abbiano un struttura fissa risultante dall'adozione del
mandala buddhista come modello di tutte le visioni e emanazioni divine che appaiono
nel bar-do.
Sui simboli si potrebbero dire molte altre cose, però i numerosissimi testi tibetani
che commentano il Libro tibetano dei Morti contengono tante di quelle varianti che per
spiegarle finiremmo per rendere meno comprensibile la materia. Nelle rappresentazioni
iconografiche tibetane delle divinità del bar-do balzano all'occhio tantissimo elementi di
cui occorre approfondire il significato per capire l'essenza di queste dottrine. Daremo il
maggior numero possibile di spiegazioni quando descriveremo le immagini; qui ci
limitiamo a fornire un quadro generale del simbolismo cosmologico dei mandala delle
divinità del bar-do. Per il momento prendiamo in considerazione l'orientamento (la
posizione nello spazio), i colori e gli elementi:
Centro
Bianco
Etere
Est
Sud
Ovest Nord
Azzurro
Giallo Rosso Verde
AcquaTerra
Fuoco Aria
Anche tutti gli altri segni (visibili), colori e simboli dei Buddha e delle divinità
hanno un significato quasi sempre molto preciso, fisso. I colori del Buddha, dei
Bodhisattva e delle altre divinità sono in rapporto con le loro posizioni (associazioni
cosmiche) nel mandala o col genere di emanazioni nella gerarchia dei Buddha. I tathagata
sono distinguibili l'uno dall'altro per la diversa cavalcatura. Le altre divinità sono
contraddistinte dagli ornamenti dello stato del sambhogakaya, adottati anche nell'opposto
simbolismo tantrico. I Buddha hanno in capo le corone celesti, le divinità adirate portano
corone di teschi e ornamenti di ossa, che simboleggiano la caducità di tutto ciò che è
terreno. L'aureola che sta dietro i Buddha pacifici seduti su fiori di loto è fatta di raggi la
cui composizione cromatica può essere diversa. Contrasta fortemente con essa l'aureola
fiammeggiante e fumante che sta dietro il capo delle divinità adirate, sedute sul loto in
atteggiamento adirato e che con gesti minacciosi ostentano il loro potere e incutono
terrore. I gesti che compiono con le mani, i mudra (tib. Phyag.rgya), sono tutti diversi, e
gli atteggiamenti che assumono sono atteggiamenti simbolici in rapporto con precisi stati
d'animo (atteggiamenti spirituali) o ben determinate attività. Verranno descritti, per le
singole divinità, nel capitolo III.
Oltre al modo in cui tengono le mani sono importanti gli attributi che esse reggono.
Le divinità pacifiche reggono come attributo (attributo retto con la mano = tib Phyagmeshan) il loto, la ruota della dottrina (scr. cakra), la campana rituale (scr. ghanta), il vajra,
la pietra preziosa (scr. cintamani) o la patra (ciotola delle elemosine). Simboli tantrici
importanti delle divinità adirate sono il laccio (scr. pasa), la spada, la clava, la lancia, la
freccia, l'ascia e soprattutto la calotta cranica usata come ciotola per l'elemosina, detta
kapala, contrapposta alla patra. Il Guru indiano Padmasambhava, ad esempio, viene
rappresentato con diverse sembianze, corrispondenti alle sue diverse emanazioni. In una
di esse figura come secondo Buddha, è chiamato Sakyasimha, e come Buddha ha nella
mano sinistra la patra. Invece in un'altra, nella quale figura come il maestro tantrico della
tradizione tibetana, è avvolto in ampie vesti, nella mano sinistra ha la bianca kapala e
nella mano destra un vajra. Quindi gli attributi sono simboli importanti in quanto
caratterizzano forme di emanazione o stati diversi dei Guru e delle divinità della
tradizione tantrica del buddhismo.
Richiamiamo l'attenzione in particolare sulla dottrina del trikaya, dei tra diversi
stati dei Buddha o delle divinità del mahayana. In ciascuno dei tre piani essi vengono
rappresentati con simboli o colori o fogge diversi. Nel cosiddetto "mandala del
linguaggio" (scr. vacmandala, tib. gSung-gi dkhyil-'khor) le divinità del Libro tibetano dei
Morti sono rappresentate in uno spazio ridottissimo unicamente dalle sillabe mistiche, le
bija (tib. Sa-bon), o da una serie di mantra. Ma conosciamo anche dipinti tibetani con
mandala nei quali la presenza delle divinità del bar-do è indicata soltanto da colori e da
piccoli gruppi di punti colorati. Quindi il Libro tibetano dei Morti con le sue divinità delle
visioni costituisce in seno alla tradizione del buddhismo tibetano un mondo simbolico in
sè concluso e perfetto, di cui le immagini qui rappresentate possono dare un'idea soltanto
parziale.
5 Il rituale funebre quale strumento di conduzione attraverso il bar-do
Il luogo del transito procura fatica, faticosa è la via che vi conduce, e in mezzo
ci sono le acque della morte, che sono inaccessibili!
Gilgamesh 10, II, 24
Il rituale funebre tibetano vero e proprio consiste di una serie di cerimonie, letture rituali e
di diverse iniziazioni, che ampliano notevolmente il contenuto del Libro tibetano dei
Morti. Sia il defunto che i presenti alla cerimonia vengono esortati a partecipare al rito con
grande attenzione. Illustreremo soprattutto le iniziazioni più importanti descritte in due
autorevoli testi contenuti nell'opera omnia "Divinità, pacifiche e adirate, secondo la
tradizione di Karma gling-pa". In realtà nei diversi Libri dei Morti lo svolgimento, o
meglio l'ordine di successione delle iniziazioni risulta spesso molto diverso. Noi
illustreremo il cerimoniale più ricco, quello contenente il maggior numero di rituali e ci
riferiremo ad esso sia per quanto riguarda le descrizioni sia per quanto concerne il
materiale figurativo. Perciò nonostante alcune varianti, che in parte sono chiarite in
Appendice, l'illustrazione risulterà chiara. Nel capitolo III seguiremo esattamente le
istruzioni contenute nelle fonti sopra menzionate, sia per il testo che per le immagini, e
per maggiore chiarezza le descrizioni saranno corredate da tabelle esplicative.
Occorre tener presente, come ho già detto, che i diversi testi dei rituali funebri
consistono di parecchi volumi. Alcuni informano sui processi del bar-do, sulle visioni che
appaiono e sulla migliore tecnica di ricerca del luogo della rinascita. Altri contengono
istruzioni rituali concernenti le offerte sacrificali ai Buddha e alle altre divinità,
l'esorcizzazione dei demoni molesti, le iniziazioni e la conduzione magico-cultica del
defunto.
Fanno parte dei testi rituali destinati unicamente ai Lama che celebrano il rito anche
i voluminosi testi mantrici. La maggior parte dei libri che spiegano quali sono gli oggetti
rituali necessari e in quale modo vanno usati durante le cerimonie comunica le conoscenze
religiose e psicologiche e il rispettivo simbolismo in stretta correlazione con le azioni
rituali. Molte dottrine e molti contenuti simbolici relativi ai rituali vengono descritti con
formule abbreviate nei modi più disparati. Quindi il rituale funebre tibetano comunica
conoscenze esoteriche e pratiche che vengono trasmesse ai partecipanti durante il
suggestivo svolgimento del rito. Alcuni testi risultano comprensibili a chiunque li legga o
ne ascolti la lettura. Il loro contenuto religioso, filosofico-etico e, soprattutto, psicologico è
molto chiaro. Invece molti altri, che fanno parte del Libro tibetano dei Morti, hanno un
carattere esclusivamente rituale e mantrico che al profano risulta oscuro.
Il veicolo, o la "via dei mantra" (scr. mantrayana, tib. sNgags-kyi theg-pa) ha una
natura sommamente esoterica, in quanto qui tutto il sapere è rappresentato soltanto con
sillabe e mantra che occorre memorizzare. Mantra e invocazioni aprono e chiudono il
Libro tibetano dei Morti e spesso introducono e concludono le singole frasi.
Frequentemente solo alcune sillabe di un mantra fanno capire all'iniziato il suo significato
"in cifra" o lo scopo per il quale un dato mantra va usato.
Per capire la vastità di un Libro tibetano dei Morti, per esempio del Bar-do thosgrol chen-mo, in 17 volumi, dei quali Evans-Wentz ha pubblicato alcune parti, basta
pensare che l'intera traduzione di tutte le parti di quest'opera svilupperebbe sicuramente
una portata tripla. Possiamo rendercene conto direttamente leggendo il cerimoniale
funebre o assistendo ad esso. Gli scritti contenuti nel "Kar-gling zhi-kho" vengono letti
ogni giorno per almeno 14 giorni, o per 49 giorni. Nei primi 14 giorni, dedicati all'epifania
delle divinità pacifiche e adirate del bar-do, le letture rituali iniziano intorno alle 6 o alle 7
del mattino e durano circa 4 ore; nel pomeriggio vengono poi praticate per altre 4 ore. Nei
primi 14 giorni è necessario guidare la coscienza del defunto attraverso il bar-do; mentre
nei successivi 14 giorni il celebrante illustra lo Srid-pa'i bar-do, il mondo degli inferi e il
bhavacakra.
L'allestimento dei rituali funebri, la sistemazione sullo "scrigno" delle offerte
sacrificali e l'esecuzione della lettura dei riti richiedono i seguenti preparativi:
Lo "scrigno", o altare domestico che esiste in ogni casa tibetana, viene fornito delle
immagini e degli strumenti necessari per il rituale del bar-do. Oltre alle icone di Buddha e
di altre figure di santi e di divinità del lamaismo, già presenti vengono appesi uno o due
rotoli con immagini (tib. Thang-ka) di divinità pacifiche e adirate. Esistono immagini in
cui esse sono rappresentante insieme, altre che raffigurano solo le 42 divinità pacifiche e
solo le 58 divinità adirate. Se queste immagini non ci sono in casa, le portano i monaci che
sono stati invitati per la lettura. Le cerimonie per i monaci defunti sono ancora più
elaborate; e i rituali funebri per gli abati e i santi importanti prevedono anche le particolari
danze di Mahakala che i Lama eseguono in vesti nere accompagnati dal tamburo. Durante
queste danze vengono invocate determinate emanazioni di Mahakala, la divinità
protettrice tantrica terrificante, o si chiede alle Divinità dei morti Yama di assistere il
defunto sulla via del bar-do.
Ma ritorniamo al rito funebre normale, quello in cui le letture sono dedicate a un
defunto laico. L'altare domestico viene decorato con fiori, davanti alle immagini rituali
vengono collocati ciotole d'acqua, dolci votivi (tib. gTor-ma), incenso e frutta. Inoltre,
possibilmente, oltre le comuni luci già presenti vengono accese 108 lampade votive di
ottone, rame o argento, oppure di pasta (dentro le quali arde del burro). Fanno parte delle
offerte votive anche oggetti simbolici del lamaismo in legno o in ottone (talvolta
d'argento) che vengono allineati davanti alle ciotole coi doni. Sono offerte facoltative, che
si permettono di solito le famiglie più abbienti, simboleggianti le offerte dei cinque sensi
(tib. 'Dod-yon snalnga), gli otto segni salvifici del buddhismo (scr. asta-mangala, tib. bKrashis rtags brgyad), gli otto doni beneauguranti (scr. astadravyaka, tib. rDzas brgyad e i
sette simboli del re-sovrano (scr. saptaratnani, tib. Rin-chen sna bdun). Inoltre è
indispensabile il grande mandala di riso che simboleggia l'offerta ai Buddha di tutti i
tesori di questo mondo transitorio.
Prima di iniziare i rituali, i monaci (almeno due o più) dispongono gli strumenti
rituali sui tavolini davanti ai quali sono seduti. Nel rituale tantrico per le divinità del bardo sono: il vajra (tib. rDo-fje), la campana rituale (tib. Dril-bu), il piccolo tamburo portatile
(scr. damaru, tib. Cang-te'u) fatto di legno (o con ossa di cranio umano) e con le palline
battenti tese su entrambi i lati, la coppia dei piccoli cimbali (tib. Ting-shags), la kapala
tantrica (tib. Thodpa), una ciotola di riso giallo e la brocca rituale per l'acqua consacrata
(tib. Khrus-bum). Questo recipiente ha un significato simbolico particolare per
l'iniziazione alle dottrine delle visioni delle divinità del Libro tibetano dei Morti. In
corrispondenza dell'apertura superiore della brocca, la cannula che pesca nell'acqua da
aspergere termina con una corono (o un ventaglio aperto) di penne di pavone. Per il
rituale funebre a queste pene viene assicurata una piccola immagine dell'Adibuddha
azzurro Samatabhadra (tib. Kuntu bzang-po) con la sua bianca Prajna. Questo Buddha è la
figura più importante del mandala delle divinità del bar-do, è il prototipo di tutte le
manifestazioni della sfera del dharmadhatu, del dharmakaya puro. Infine fanno parte di
ogni rituale del bar-do i "cartoncini" con le immagini delle divinità del Libro tibetano dei
Morti che tiene in mano il monaco celebrante. Con queste immagini egli guida la
coscienza del defunto, e simbolicamente tutti i partecipanti al rituale, attraverso i regni
trascendenti del bar-do. Questi cartoncini (tib. Tsa.ka-li) hanno le dimensioni di mezza
cartolina postale e sono bordati di rosso. Nei singoli gruppi le divinità sono disposte
nell'ordine secondo cui procede il corrispondente Libro dei Morti. Esistono serie diverse
di questi cartoncini, che contengono da 50 a 80 pezzi di essi. Le differenzia il tipo o il
numero delle divinità rappresentate in gruppi in queste piccole immagini o la loro
corrispondenza ai diversi Libri dei Morti. Qualche volta queste miniature sono veri e
propri capolavori di pittura perché in questo spazio ridottissimo vengono rappresentate,
talora nei minimi dettagli, con i colori e tutti gli attributi prescritti, fino a 28 divinità.
Prevedono l'uso di questi cartoncini anche i rituali funebri dell'antica religione tibetana
prebuddhista bon. Anche in essa servono a guidare il defunto che illustreremo più sotto
sono collegate con le esibizioni dei cartoncini che il Lama celebrante solleva in alto in
concomitanza con determinati passi del testo.
Ma senza la presenza del defunto la lettura del Libro dei Morti non può iniziare.
Dopo la sua sepoltura (o cremazione) certo non è più presente come figura fisica, però al
suo posto c'è una immagine, la sByuang-bu (detta anche mTshan-sbyang, Byang-bu o
sByang-gzhi). Di solito è rappresentata da una stampa tibetana, ma può essere anche
un'immagine disegnata da uno dei monaci su un cartoncino bianco.
La parte sicuramente più interessante e più suggestiva del rituale funebre è
costituita dalla consacrazione e dal dialogo col defunto presente in immagine (Byang-bu o
sByang-bu). Il defunto viene ripetutamente invitato a manifestarsi nel mondo
trascendente del bar-do, ad allogarsi nell'immagine preparata per lui per poter partecipare
alle cerimonie e alla sua benedizione. Quindi nel rito la byang-bu si identifica col defunto,
che, quale principale partecipante, inizia simbolicamente il viaggio rituale attraverso i sei
mondi. Alla fine l'immagine viene bruciata per simboleggiare la morte terrena del
decadimento fisico. Su questo rituale ritorneremo più sotto. Qui ci fermiamo alla sua
descrizione generale.
Adesso prendiamo in considerazione il "mandala" delle più sublimi magicoillusorie divinità pacifiche e adirate e la successione generale delle iniziazioni, secondo
una terminata opera che fa parte del Libro tibetano dei Morti. Le divinità, che vengono
definite anche con l'espressione "reverendissima assemblea delle cento divinità pacifiche e
adirate" (tib. Whi-khro dam-pa rigs brgya) di solito sono divise in due gruppi. Nel centro
cardicato (tib. sNying-ga'i khor-lo) in mezzo a un fascio di raggi di luce appaiono le 42
divinità pacifiche; nella "bianca conchiglia" contenente il cervello appaino fra raggi
fiammeggianti le 58 divinità adirate. Ad esse si aggiungono (non in tutte le tradizioni
scritte): nel centro della parola (laringe) (tib. Longs-spyod 'khor-lo) i cinque Vdyadhara
con le loro Dakini (= dieci divinità); nel centro ombelicale (tib: lTe-ba'i khor-lo), secondo la
tradizione degli scritti dello bKa'rdzogs-pa chen-po, le cinque jnana-Dakini (tib. Ye-shes
mkha-'gro lnga); e nel cakra del perineo (tib. gSang-gnas 'Khor-lo) l'adirato (azzurro)
Vajrakila-Heruka con la sua Prajna. Ne risultano per le visioni nel Chos-nyid bar-do (il
bar-do dell'esperienza della realtà), a seconda della tradizione dei diversi testi, tre grandi
mandala delle divinità del bar-do:
1 - Il mandala delle cento divinità pacifiche e adirate
2 - Il mandala delle 110 divinità comprendente i Vidyadhara
3 - Il mandala delle 117 divinità del ciclo del bar-do ampliato.
Quindi sia negli scritti che nei dipinti iconografici che illustrano il Libro tibetano
dei Morti possiamo incontrare tutti e tre questi raggruppamenti. Adesso, presentiamo le
iniziazioni del primo raggruppamento con le cento divinità del mandala del bar-do
concordemente col nostro testo, quali iniziazioni delle divinità (tib. Lha-dbangi, che
serviranno a trasformare tutti i centri psicofisici dell'ordine microcosmico del corpo
umano dallo stato della profana ignoranza nello stato della perfetta saggezza.
Il Lama tibetano usa la brocca con l'acqua consacrata, con le penne di pavone e con
l'immagine dell'Adibuddha Samantabhadra (Yab-Yum) per tutte le iniziazioni. Per prima
cosa solleva la brocca (scr. kalasa) fissando l'immagine del defunti, al quale spiega che
sebbene all'esterno essa abbia l'aspetto di una brocca, in realtà il suo interno è la dimora
della divinità. Poi gli dice: "HUM! nella kalasa del Buddha Samantabhadra (unito) con la
Prajna dimora la divina assemblea delle vittoriose divinità pacifiche e adirate. Possa tu, o
defunto, ricevere l'iniziazione delle divinità mentre vieni consacrato".
Così col Samantabhadra-abhiseka (tib. Kun-bzang yab-yun dbang) inizia la serie
delle tredici iniziazioni importanti, nel corso delle quali viene rivelato tutto ciò che il
defunto deve sapere sulle divinità delle divisioni e sul loro significato nei raggruppamenti
simbolici. Oltre a queste vengono impartite altre iniziazioni, che però qui non descriviamo
per non confondere le idee al lettore. Nella prima iniziazione viene rappresentato
l'immenso Adibuddha Samantabhadra nel dharmakaya, la cui luminosa visione
appartiene al 'Chikha'i bard-do. Perciò questa Adibuddha, un'idea in sè non
rappresentabile del dharmakaya, non fa parte delle visini del Chos-nyid bar-do, del bardo dell'esperienza della realtà. Gli è il mistico padre e mediatore di tutte le divinità del
bar-do. Tutte le altre iniziazioni meno una sono associate al smbhogakaya, cioè alle visioni
del bar-do dell'esperienza della realtà. Seguono: l'iniziazione per i cinque Tathagata o
Buddha trascendenti (tib. Rgs lnga yab lnga'i dbang), intesa a purificare il campo dei
cinque skandha, e l'iniziazione per la conoscenza delle loro cinque consorti (tib. bDe-gshes
yun lhga'i dbang) per purificare le cinque sfere elementari. Seguono le iniziazioni degli
otto Maha-bodhisattva e rispettive Dakini, che servono a purificare le otto funzioni della
coscienza e dei loro campi d'azione. La successiva iniziazione, per la conoscenza dei sei
Buddha che personificano avalokitesvara è l'unica che viene impartita sul piano del
nirmanakaya (tib. sPrul-sku thub-pa drug-gi dbang). Con questa iniziazione vengono
neutralizzati i sei errori che costringono l'uomo a rinascere, a condurre una nuova vita
karmicamente condizionata. Finite le iniziazioni per la conoscenza delle divinità pacifiche,
hanno luogo le due iniziazioni per la conoscenza dei quattro custodi delle porte del
mandala e per le quattro custodi, che servono a raggiungere le "quattro
incommensurabilità" e i "quattro stati divini".
Poi incominciano le iniziazioni per le divinità adirate; la prima è quella per il
potente Mahasri-Heruka (tib. dPal che-mchog) sovrano delle "divinità che bevono sangue"
(tib. Khrag-'thung rab-'byams 'dbang), adiratissima emanazine tantrica dell'Adibuddha
pacifico Samantabhadra. Seguono le iniziazioni per i cinque Buddha-Heruka, le loro
cinque Kakini, le otto Keurinima e le otto Phra-menma, le quattro custodi delle porte con
la testa di animale del secondo mandala (tutte divinità tantriche), che servono a purificare
i luoghi di nascita; e infine quella per le 28 potenti Dakini teriomorfe, che servono a
eliminare le idee sbagliate e i residui di concezioni false e illusorie della coscienza. Per
chiarire questa parte centrale delle iniziazioni importanti riportiamo a pagina 102 una
tabella esplicativa. Si tenga presente che sopra tutte le divinità c'è l'Adibuddha
Samantabhadra nel dharmakaya, quale esperienza della Chiara Luce nel bar-do del
momento della morte.
6 Segni nel passaggio fra i due mondi
e la luce primordiale all'inizio della morte
Quando il sole si inabissa nell'incommensurabile
l'uomo percepisce l'immensità e gli è cara
la notte. Credo che in nessun altro momento
gli sarebbe più facile morire.
W. v. Humboldt
Secondo la logica delle dottrine buddhiste del Libro tibetano dei Morti l'uomo si realizza
al massimo alla fine della vita, cioè nell'ora del trapasso, quando muore ed entra
nell'aldilà. E' una idea che può trovare giustificazione se consideriamo che la fine della
vita si sostanzia nei seguenti due punti: nel grado definitivo e personale di individuazione
psichica e nell'attesa del grande ignoto (che definiamo col concetto di morte). La lettura
dei Libri tibetani dei Morti ci fa pensare che gli Asiatici sappiano qualcosa dell'aldilà. E
anche se si tratta soltanto di speculazioni, la loro realtà è comunque una realtà serena. In
ogni caso nel modo in cui il Tibetano giudica la morte e l'aldilà, che gli fa capire quale
potenza sommamente luminosa di estrema ambivalenza si riveli nel processo di morte, c'è
qualcosa di incredibilmente convincente. Gli eventi vengono descritti con la massima
chiarezza, come se non potessero svolgersi in altro modo. Una cosa è certa: abbiamo a che
fare con una capacità psichica di penetrazione e di precognizione del tutto eccezionale.
Anche se col nostro modo di pensare occidentale moderno definissimo i contenuti
del Libro tibetano dei Morti puro effetto dell'immagine magico-mitica del mondo, un
modo di razionalizzare dotto e raffinatissimo, non spiegheremmo nè risolveremmo il
problema della morte. Accettiamo di buon grado l'illusoria conclusione con cui il pensiero
cerca di gabbare la realtà, però il problema rimane in tutta la sua crudezza e chiarezza, la
stessa con la quale lo affrontano le dottrine del Libro tibetano di Morti. Possiamo
considerare criticamente, mettere in dubbio tutto ciò che può o non può succedere nel bardo: apparizioni, visioni, trasmigrazione, tormenti e sublimazione, paura e redenzione. Ma
delle sottili nozioni (dei Libri dei Morti) sul trapasso e sulla conduzione dell'anima restano
in noi tante di quelle idee concrete e psicologicamente valide che non possiamo esimerci
dal confrontarci con esse. Le parole di Humboldt citate all'inizio, che d'altra parte non
sono affatto l'unica prova, dimostrano fino a che punto - per quanto riguarda le intuizioni
e le reali esperienze sulla morte - gli antichi scritti concordino con le vive testimonianze
del presente. Miti, religioni, storia e biografia personale ci mostrano le intuizioni sul regno
della morte in modelli che concordano; e la loro concordanza indica, anche se non la
dimostra, una realtà psichica. Per questo gli antichi saggi tibetani, che oltre ad essere
eruditi erano anche esperiti, si servivano per rappresentare gli eventi del trapasso, della
morte e dell'entrata nell'aldilà della loro vivissima immaginazione. Le esperienze raccolte
al capezzale dei morenti grazie all'attenta osservazione dell'evento del trapasso, quindi
esperienze dirette, insieme alla dottrina buddhista hanno permesso loro di redigere un
testo sulla morte e sulla vita che sotto il profilo psicologico è straordinariamene coerente.
Come abbiamo già fatto presente, nel momento del trapasso l'uomo deve
conservare la massima lucidità possibile perché quando affronta l'ignota deve poter
disporre di tutta la forza del suo spirito. Nel bar-do ha bisogno di tutte le sue forze per
riacquistare la coscienza della propria presenza sul piano transfisico. Il Libro dei Morti
descrive il processo di morte e l'ingresso nella sfera trascendente del bar-do con dovizia di
particolari. I rispettivi passi sono stati tradotti e commentati da Evans-Wentz. Qui non
ripeteremo tutte le descrizioni, estrapoleremo soltanto i passi che hanno un particolare
interesse dal punto di vista psicologico: il passo che tratta del decadimento dell'organismo
fisico e quello che parla della "Chiara Luce".
Secondo la tradizione delle "Sei Dottrine" del Siddha indiano Naropa e secondo
l'opera Ye-shes bla-ma il processo di morte avviene sotto forma di regressione dei singoli
elementi, nel senso che essi perdono via via la loro funzione vitale quale organizzazione
fisica composita. Dal punto di vista del buddhismo trattasi della separazione e decadenza
dei cinque skanda (tib. Phung-po lnga) per la dissoluzione dei cinque elementi (tib.
'Byung-na lnga). Con la scomparsa delle funzioni esterne in questo mondo esistenziale,
nel più interno della coscienza dell'uomo, sorge attraverso l'esperienza della "Chiara Luce"
l'alba di un mondo transfisico. Si tratta perciò di un processo molto simile a quello
attraverso il quale, all'acme della meditazione, si raggiunge il samdhi. Via via che, grazie
alla concentrazione del pensiero, il mondo esterno scompare, lo spirito ritrova se stesso e
la coscienza pura si autoidentifica e si illumina. Quindi suprema consapevlezza significa
anche illuminazione. Essa è la luce della conoscenza. Questa è la ragione per la quale
abbiamo detto (e lo dice anche il Libro dei Morti) che il raggiungimento del samadhi
durante la vita può essere paragonato alla esperienza della Chiara luce nel bar-do. Se
accettiamo l'ipotesi della Chiara Luce del primo bar-do i paralleli psicologici fra i due
fenomeni sono innegabili.
Descriviamo brevemente ancora una volta ciò che avviene quando si muore
secondo la dottrina dello stato di bar-do di Naropa, secondo la tradizione Karm-tshang
del Tibet.
"Dunque, prima scompare la luce degli occhi e non si distinguono le forme, poi
scompare l'udito e non si percepisce più alcun suono. Si dilegua il gusto e non si
avvertono più i sapori. Infine scompare la sensibilità fisica e scompare il senso del tatto. La
terra (come elemento) si dissolve piano piano nell'acqua (come elemento), e non è più
possibile trattenere l'acqua nel corpo. L'acqua si dissolve lentamente nella coscienza e si
consuma il respiro, quello esterno e quello interno. I segni che nella vita erano percepiti
come esterni, col tempo appaiono uguali a segni interni, i segni esterni appaiono come
lucciole (scintille). Poi i segni esterni appaino come il Sole e quelli interni come la luce di
una candela. Allora i segni esterni agiscono come nell'oscurità. Quando improvvisamente
si raggiunge il quarto grado e si sprofonda nella Chiara Luce i segni esterni appaino
sbiaditi e lontani e i segni interni appaiono come un cielo senza nubi (sereno). A questo
punto, senza l'intervento del pensiero, appare la Chiara Luce che non ha centro né confini.
Possa realizzarsi nel dharmakaya la immutabile Chiara Luce".
Se esaminiamo i tre processi qui rappresentati che si susseguono nell'evento di
morte abbiamo: in primo luogo la dissoluzione fisico-funzionale di tutte le attività dei
sensi fino alla scomparsa della fisicità percepibile; in secondo luogo lo scioglimento dei
legami che tengono uniti gli elementi fra loro (corrispondente alla dissoluzione
fisiologica), in terzo luogo l'illuminazione psichica interna della coscienza post mortem.
Nella seconda fase la terra si dissolve nell'acqua, l'acqua nel fuoco, il fuoco nell'aria e l'aria
nel principio cosciente. E' un ininterrotto processo di smaterializzazione e di evidente
trascendenza, dall'elemento più pesante (la terra) a quello spirituale. nella dissoluzione
degli elementi si eliminano sempre due opposti, finché rimane e si affranca la coscienza
pura libera da ogni legame col mondo materiale. Dissoltisi gli ultimi elementi e scomparso
il loro reciproco influenzamento, la coscienza percepisce la Chiara Luce in uno spazio che
non ha dimensioni e che tutto comprende. La natura di questa esperienza di luce sarà
descritta meglio più sotto.
Per poter tracciare un diagramma chiaro della seconda fase (o fase degli elementi)
bisogna partire dallo schema dei mandala buddhisti, cioè da un quadrato coi cinque
punti cardinali quali sedi degli elementi, che rappresenta il mondo microcosmico
dell'uomo. Ogni triangolo corrisponde a un elemento. Nel processo di morte cadono volta
a volta due triangoli (= due elementi). Rimane il centro, che è la sede della coscienza.
Compiutasi la dissoluzione degli elementi nel processo di morte, inizia la
percezione di infinità della coscienza; la coscienza si libera, si identifica con l'elemento
etere, che è come l'azzurro cielo autunnale e sperimenta la Chiara Luce. Questo primo
stato, che è il più importante, viene definito con tre sinonimi: coscienza, principio eterico e
luce. Gli ultimi due sono concetti o simboli addirittura archetipici dell'elemento "spirito",
non solo in Asia, ma anche nel mondo occidentale.
Anche la terza fase, quella dei segni esterni e interni, comprende cinque momenti.
Analizzando il processo non è difficile capire che quello che si sviluppa all'infinito è lo
spazio interno della coscienza, che quando viene a cessare il cosiddetto mondo esterno la
coscienza entra in un'altra dimensione.
Quindi stando a questa descrizione possiamo dire che per il Tibetano non c'è
dubbio che dopo la morte la coscienza entra in uno stato di infinità che viene identificato
col tutto della trascendenza: come cielo, luce e grande vuoto insieme. Perciò secondo il
mahayana la redenzione è il raggiungimento dello stato di "grande vuoto" o nirvana.
Questo vuoto non è però un concetto negativo, ma un concetto assolutamente positivo:
esso esprime ciò che trascende ogni possibile descrizione. Pertanto la fase del vuoto (di
tutte le dimensioni concettuali) è il regno dell'immortalità nel quale non esiste inizio né
fine. Il passo sotto riportato, che, pur rappresentando in modo molto realistico la desolata
situazione della morte non dimentica di segnalare la grande perfezione, è stato tolto dagli
scritti sul problema della morte secondo la religione tibetano prebuddhista bon:
"(Ancora) al giorno d'oggi i resti terreni vengono abbandonati, e carne e ossa (che
erano) inseparabili, si separano.
Nascita, vecchiaia, malattia e morte sono l'origine di tutte le sofferenze. Dopo la morte
tutto ritorna nelle parti della Terra. Tutto viene divorato da uccelli, cani, volpi, lupi, vermi
e mosche.
Perciò tutta la venerazione religiosa e tutte le fatiche sono inutili. Le ossa diventano come
pietra, la carne diventa terra, il sangue acqua e la cavità aria; e lo spirito è come la natura
del vuoto dello spazio celeste".
Per noi non è molto quanto rimane dopo la morte; per noi il vuoto infinito è un
concetto negativo. Per vedere nel vuoto, nella indescrivibilità dell'infinito sommamente
trascendente, il positivo non descrivibile con parole e concetti, bisogna vedere (conoscere)
la realtà come la vede (conosce) un mistico. L'asiatico invece si sente al sicuro solo nello
spazio senza limiti e senza dimensioni. Il momento della morte è contraddistinto dalla
percezione di una luce che illumina ogni cosa, che (stando a innumerevoli testimonianze
citate nella letteratura) dobbiamo ritenere identico all'evento dell'illuminazione e
consapevolezza perfetta. E' senz'altro particolarmente interessante il fatto che anche
secondo il "Libro dei Morti egiziano", l'entrata nella "piena luce del giorno" inizia
immediatamente dopo la morte.
Nel primo bar-do, nel 'Chi-kha-i bar-do, l'uomo sperimenta per la prima volta per
breve tempo lo stato di "coscienza priva del secondo (principio)", cioè la pura esistenza
della coscienza priva di fisicità. E' uno stato non dimostrabile dal nostro punto di vista ma
soltanto ipotetico. Però sul piano teorico, per afferrare la grande portata di questa
concezione, dobbiamo supporre che esista. Il Libro tibetano dei Morti ha osato fare questo
passo, anzi è andato anche un po' oltre. Dal punto di vista psicologico non abbiamo
elementi concreti per valutare il modo in cui si comporta la coscienza smaterializzata,
nelle forme di conscio e inconscio. Non sappiamo nemmeno se essi sono ancora in
rapporto fra loro, né se esistono ancora. In altre parole, ogni speculazione sull'ignoto che
non tien conto delle prove scientifiche è illecita.
Tuttavia il Libro tibetano dei Morti ci invita a fare un passo avanti. E noi occidentali
raccogliamo questa sfida, sorprendente ma, se vogliamo, logica e giustificata. Ci
avventuriamo cioè, insieme ad esso, nel mondo della psicologia prenatale. E cercando di
capire cosa può avvenire nella coscienza prima della nascita fisica facciamo un passo che
ci avvicina al famoso quesito di un Koan del buddhismo Zen giapponese: "Come era il tuo
volto prima che tu nascessi?". E' stato proprio il buddhismo a sviluppare una ricca
psicologia (soprattutto nell'Abhidharma di Asvaghosa) con descrizioni di numerosi stati
di coscienza che noi occidentali non siamo in grado di definire. La nostra lingua non
possiede le sfumature, la sottigliezza, che occorrono per illustrare l'autorappresentazione
della coscienza. Ma il Tibetano crede di poter definire anche le forme di coscienza che si
manifestano nel periodo successivo alla morte. E nel Libro tibetano dei Morti confluiscono
le diverse tradizioni dell'India, del Tibet e dell'Asia Centrale. Alcune forme di conduzione
dell'anima ricordano i riti sciamanici dell'Asia Centrale; altre divinità e altri simbolismi
sembrano in rapporto con l'antica religione tibetana bon. Trattasi quindi di forme di
coscienza che la nostra mente non è in grado di delineare. Con questo non intendono
assolutamente esprimere un giudizio sulle nostre capacità e sulle nostre prestazioni nel
campo delle scienze dello spirito, voglio soltanto far presente, e lo debbo fare, che il modo
di pensare di noi occidentali è diverso, almeno per quanto concerne determinati concetti
validi per gli orientali. Potremmo anche dire che l'Oriente parte da una base di conoscenza
della realtà psichica che è diversa da quella del mondo occidentale.
Niguma, che era discepola e sorella del noto yogi e siddha indiano Naropa, nella
sua versione delle "Sei Dottrine" (tib. Zab-lam sukha chos grug) scriveva: "Le tenebre
dell'ignoranza vengono illuminate dal sole della Chiara Luce". Il defunto nel bar-do
quando è diventato sapiente, deve essere pronto ad accedere alla conoscenza della realtà
delle visioni. Perciò Niguma ammoniva: "Cerca di percorrere in fretta il sentiero (segreto)
che porta alla grande sfera trascendente, dove nell'eminente sambhogakaya appaiono le
visioni del bar-do". Quindi "il proprio corpo diventa simile a una iridata radiazione di luce
e vuoto di esseri divini; all'esterno un regno celeste, all'interno appaiono tutti gli esseri
divini. Medita su un mantra sublime e sulla Chiara Luce di non-nata realtà".
La Chiara Luce ha un ruolo del tutto fuori dell'ordinario nel simbolismo
dell'esperienza del bar-do: è "il lume proveniente dal vuoto, il lume nel regno del sapere e
la luce della saggezza autooriginata". Quale luce nascente, è un simbolo anchetipico di
numerosi miti sulla nascita del mondo cosciente, è il presupposto di ogni genere di
conoscenza e di espansione della coscienza e caratterizza i processi di formazione della
coscienza spontanei e naturali. Secondo i vari testi dei Libri tibetani dei Morti l'esperienza
della Chiara Luce si identifica con la totale entrata nella luce del dharmakaya, che a sua
volta è la conoscenza grazie alla quale la luce diventa suprema esperienza. Per questo
anche nel buddhismo zen si parla della fulminea illuminazione nel "satori".
I testi tibetani dicono che per raggiungere lo stato del dharmakaya è necessaria una
conoscenza somma e perfetta, cioè una struttura perfettamente luminosa della coscienza.
Se questa conoscenza totale non viene acquisita le parti rimaste sconosciute a causa
dell'ignoranza (scr. avidya) costringono la coscienza a percorrere la via in discesa. Quindi
la morte, prima che l'uomo la sperimenti in tutta la sua portata, è una graduale discesa, un
graduale decadimento delle funzioni fisiche fino alla loro totale scomparsa. Però la morte
vera e propria, è una suprema esperienza di luce che affranca totalmente dalla dolorosa
esistenza terrena. Quindi per il Libro tibetano dei Morti lo stato di morte si accompagna a
un evento estremamente positivo, che acquista un valore ancora maggiore quando la
liberazione viene raggiunta senza un nuovo passaggio attraverso il bar-do.
Quando la "Chiara Luce primordiale" (tib. gZhi'i od-gsal) incontra una coscienza
perfettamente redenta e karmicamente pura entra nel regno immortale, nel "dharmakaya
non-nato". Questo è un esercizio di meditazione importante che dev'essere praticato
concentrandosi sui cinque Buddha. Il quintuplice sentiero di luce di cui parla il Libro dei
Morti è il sentiero delle cinque radiose sapienze dei Tathagata; nel loro insieme essi
formano la quintuplice radiazione iridata, la Chiara Luce primigenia. La meditazione sulla
luce è uno degli esercizi più importanti nelle varie scuole di yoga tibetano. Più forza si
riesce ad assorbire da queste energie psichiche e spirituali durante la vita, maggiore sarà
la capacità di penetrazione e superamento durante il bar-do.
"Quando la Chiara Luce del proprio spirito, che appare inscindibile nella
radiazione e nel vuoto, dimora nei cinque skanda, è l'intramontabile Chiara Luce dei
Buddha non nati e immortali". La comparsa della Chiara Luce nel momento in cui si
acquista consapevolezza dei sottilissimi eventi della coscienza (che nel bar-do viene
percepita come una realtà) ha luogo a sua volta in cinque fasi. Un'opera tibetana che
spiega tutti i significati del bar-do descrive il sorgere della Chiara Luce nascente dal centro
della coscienza come segue:
"Per prima si scorge il balenare della quintuplice radiazione, poi una specie di luna,
in terzo luogo una specie di sole, in quarto luogo come un'alba. E in quanto luogo essa
appare come un cielo senza nuvole".
Mentre la prima Chiara Luce originaria ha la massima intensità e il potere di
dirigere la coscienza verso la liberazione, la seconda luce originaria (tib. 'Od-gsal gnys-pa)
ha minore intensità e maggiore durata, però aiuta anch'essa la coscienza a raggiungere la
liberazione in quanto elimina gli impedimenti karmici minori, prodotti della vita
precedente, che ritardano il processo. Ma se attraverso la sola azione della Chiara Luce il
principio cosciente non riesce a entrare nelle sfere superiori del dharmakaya, appaiono via
via le visioni delle divinità; e giorno dopo giorno si sviluppa prima il grande mandala
delle divinità pacifiche, poi quello delle divinità terrificanti che mettono a prova la
coscienza e la purificano. "La coscienza erra nel bar-do come un cane che si è smarrito", e
in questo stato le divinità col loro ambivalente simbolismo possono contribuire ad
aiutarla; a farla progredire o arretrare, a farle perseguire la conoscenza o a farla fuggire; e
la reazione di fuga la costringe a reincarnarsi. In realtà tutte le reazioni della coscienza alle
varie apparizioni sono processi determinati dal suo karma e dal grado di spiritualità che
l'uomo ha raggiunto nella vita precedente.
Prima di passare alle eroiche divinità pacifiche e adirate e ai loro rispettivi
significati è opportuno parlare ancora una volta della durata dello stato di bar-do
immaginato dai Tibetani nei vari scritti. Come è noto, si suppone che lo stato intermedio
fra due esistenze terrene duri complessivamente 49 giorni, che le apparizioni delle
divinità durino un numero di giorni pari a 7 o a un multiplo di 7. Il corpo cosciente per
formarsi e abbandonare completamente il corpo fisico necessita di 3-4 giorni. Lo Yid-kyi
lus è in grado di compiere i processi del bar-do come se fosse dotato di tutti i sensi
operanti nella vita terrena. Dal quarto all'undicesimo giorno della quintuplice radiazione
luminosa dei Buddha emergono le 42 divinità pacifiche del bar-do, dal dodicesimo al
diciannovesimo giorno emergono dalle fiamme le 58 divinità adirate; e la migrazione
attraverso il bar-do, lo Srid-pa'i bar-do, dura 3 volte 7 giorni, cioè complessivamente 21
giorni. Gli ultimi 7 giorni servono alla ricerca del luogo della rinascita, che avviene
nell'ottavo giorno. Dallo stato di suprema conoscenza nel 'Chi-kha'i bar-do la coscienza
attraversando lentamente i regni delle visioni arretra sempre più fino a precipitare in uno
stato di inconsapevolezza e ignoranza che la costringe a reincarnarsi e a rinascere nel
bhavacakra. Se però i presupposti karmici sono migliori che nell'esistenza precedente,
l'incarnazione può aver luogo sotto auspici migliori, in condizioni più favorevoli per
l'evoluzione della coscienza.
III
IL GRANDE RITUALE DELLE INIZIAZIONI
AI MANDALA DELLE DIVINITA' PACIFICHE E ADIRATE
1 LE DIVINITA' PACIFICHE
L'unico luogo di divinizzazione a noi
accessibile è il cuore umano, vera parte
di questo processo trascendente.
G. R. HEYER
Tutte le visioni del bar-do con cui la coscienza si confronta dopo la morte hanno un
aspetto affascinante e ripugnante. Quali figure numinose hanno un significato fortemente
antinomico, sembrano essere pure e semplici manifestazioni della stessa antinomia. Ma in
questa grande antinomia non rappresentano altro che forme diverse del medesimo
fenomeno, cioè della coscienza umana. Si manifestano con tale veemenza e con tanta
parvenza di realtà psichica che non è possibile ignorarle o tentare di razionalizzarle.
Tuttavia non dobbiamo dimenticare quanto sostiene il Libro tibetano dei Morti,
vale a dire che, nonostante la loro realtà fenomenologica le divinità del bar-do non sono
dei nel senso tradizionale del termine. Non sono associabili né a spazi celesti né a mondi
sotterranei di dimensioni spaziali e non sono figure mitologiche chiamate a svolgere un
compito mitico e soterologico. Inoltre le visioni del bar-do non vanno intese come
emanazioni di un dio o del suo ordine gerarchico. Quindi non sono una teofania, ma una
realtà psichica, un evento archetipico di potenze numinose che, quali immagini della
coscienza, si realizzano nello spazio interno della coscienza umana e vengono proiettate
da questa. Questa è la ragione per la quale vengono definite "false immagini del proprio
spirito", figure illusorie, visioni. Ma anche come tali, pur essendo proiezioni della propria
mente, le divinità delle visioni rappresentano una realtà psichica. Le divinità delle visioni
postmortali sono un evento psichico interno rappresentato da simboli archetipici della
tradizione buddhista, che nei grandi mandala venivano rappresentati come vere e proprie
realtà spirituali. Naturalmente sono archetipi di corrispondenti sapienze, virtù buddhiste,
rapporti cosmologici e psicologici, in particolare i cinque Tathagata, che costituiscono i
cinque skanda o aggregati della personalità umana.
Ma le divinità del bar-do si manifestano anche come risposta al karma, il destino
autoprodottosi e personale dell'individuo. E nel bar-do esse diventano un'immagine della
situazione personale o della condizione soggettiva della coscienza sulla via della rinascita
karmicamente condizionata. Ritorneremo più volte sulla natura delle divinità del bar-do.
La funzione del Libro tibetano dei Morti dev'essere intesa come una risposta, che arriva in
profondità e che tocca il trascendente, a uno dei problemi (e realtà psichiche) più
drammatici dell'uomo, quello della morte e dell'aldilà. Stando così le cose, eventuali
richiami alla mitologia non entrano nell'ottica del Libro tibetano dei Morti, sono
completamente estranei alla sua vera funzione. Le divinità del bar-do non sono
mitologiche, perciò nel pantheon delle divinità del lamaismo occupano una posizione sui
generis; infatti ad esse non viene attribuito alcun valore reale per l'esistenza terrena.
Questo vale in particolare per le divinità adirate, che nelle rappresentazioni del pantheon
sono indicate raramente.
Tutte le divinità del bar-do sono emanazioni di un "ammasso di radiazione e
vuoto", provengono "dallo spazio della natura di se stessi" e si manifestano nella "sfera del
proprio prezioso spirito" dopo che nel bar-do dell'esperienza di morte si è accesa "nello
sconfinato spirito" la chiara luce primigenia. Così, e in modo analogo, suonano nei testi
tibetani le definizioni della natura delle divinità.
Tutte le divinità delle visioni appaiono su un loto, sedute, in piedi, o in movimento
(in atteggiamento mosso, scr. asana). Il loto (scr. padma) simboleggia il rapimento celeste,
l'estasi; non è un trono terreno, è un simbolo dei cakra e del centro della coscienza per
erigere uno spirituale trono celeste alle divinità. Il loto sta a significare che le divinità
hanno superato il samsara, o sono lontane dal mondo della sofferenza. I Buddha e i
Bodhisattva pacifici stanno su un trono formato da un loto e da una luna sul mandala del
cuore; le divinità demoniache adirate stanno su un trono composto da un loto e da un
sole. Le divinità pacifiche emanano radiazioni di cinque colori (i cinque colori
fondamentali); le divinità adirate appaiono in una fiammeggiante aureola di fuoco. Si
tratta di due riferimenti ad antichi simboli dello yoga indiano. Il sole e la luna,
cosmologicamente collegati, rappresentano le divinità e le forze psichiche nell'uomo.
Questa dottrina ha un ruolo importante nella pratica del kundalini-yoga e nei tantra per la
rappresentazione del simbolismo esoterico della polarità.
Esaminiamo per prime le divinità pacifiche: "Nel proprio corpo, nell'interno più
interno della sfera dello spirito esiste una concentrazione della radiazione delle cinque
luci, e dal loro centro appare l'assemblea delle divinità pacifiche".
Si intendono le 42 divinità pacifiche che iniziano col gruppo dei cinque tathagata.
Al di sopra di esse, nel piano più alto, c'è come puro dharmakaya, archetipo e
quintessenza di tutte le altre emanazioni l'adibuddha azzurro, che descriveremo per
primo.
A L'ADIBUDDHA QUALE MITICO CREATORE DEL MANDALA
Quale suprema forma immaginabile dell'originaria visione dello spirito nelle tradizioni
del Libro tibetano dei Morti troviamo l'Adibuddha blu Samantabhadra (tib. Kun-tu
bzang-po), la cui immagine non sarebbe teoricamente rappresentabile. Perciò anche i testi
tibetani che descrivono la natura dell'Adibuddha sono colmi di concetti simbolici e di idee
trascendenti la cui profondità è difficilmente esprimibile. Quale prima materializzazione
del corpo trascendente manifestantesi del dharmakaya l'Adibuddha Samantabhadra viene
ritratto nudo, di colore blu, seduto su un loto. Un antico testo frammentario, che fa parte
degli scritti del Libro tibetano dei Morti, definisce questo Adibuddha "re del sapere e della
conoscenza", "nato spontaneamente dallo spirito" e che ha la sua origine "nella pura sfera
segreta della coscienza universale" (scr. alaya-vijnana, tib. Kun-gzhi rinam-shes). Poi il
testo (un'invocazione) prosegue: "Imploriamo il re della conoscenza e padre (spirituale) di
tutti i Buddha dei tre tempi, non macchiato da passioni, seduto su un loto senza veste
alcuna, che il mudra dell'onniscienza comprendente tutti i Buddha e tutti gli esseri,
signore di tutti i mandala, il sublime Sri-Samantabhadra".
Un altro testo dei Libri tibetani dei Morti descrive la seconda visione
dell'Adibuddha, cioè la pura visione della prima unità tantrica della grande polarità
maschile-femminile, in cui l'Adibuddha è congiunto alla sua Prajna bianca Samantabhadri
(tib. Kun-tu bzang-mo), la grande madre di tutti i Buddha.
"Venerazione all'Adibuddha, corpo di luce inestinguibile, signore di tutti i Buddha
di puro intelletto e sapere, il cui colore è uguale a quello del cielo e che si trova in raccolta
concentrazione nella posizione del loto. Invochiamo il dharmakaya samantabhadra.
Invochiamo la Prajana, madre di tutti i Buddha dei tre tempi, bianca come il cristallo delle
purissime sfere del dharma, congiunta col Buddha in suprema beatitudine, la grande
madre Samatabhadri".
Le invocazioni di questo genere fanno parte delle Sadhana, le scritture che
descrivono le invocazioni ai Buddha e alle divinità che appaiono nelle visioni dei
meditanti. L'Adibuddha Samantabhadra congiunto alla sua Prajana bianca è la figura più
alta nelle visioni del Libro tibetano dei Morti. La tradizione della setta rNying-mapa, che
si richiama al fondatore Padmasambhava, considera questo Adibuddha il principio del
dharmakaya più alto in assoluto.
Incontriamo questo Adibuddha azzurro in quasi tutti i dipinti tibetani che
illustrano il contenuto del Libro tibetano dei Morti: è ritratto nel punto più alto
dell'immagine oppure al centro della stessa. Spesso è provvisto di un'aura di raggi di
cinque colori che partono dal centro e si perdono nelle sfere celesti. Anche la sua Prajna
bianca "origine della nascita di tutti i mandala", viene rappresentata nuda (tib. ma-gos-pa)
e in stretta unione tantrica con Samantabhadra.
Dopo il grande simbolo della prima coppia tantrica che rappresenta l'unione delle
forze antinomiche, appaiono tutte le altre divinità, anch'esse accoppiate. L'Adibuddha
azzurro congiunto alla sua Prajna personifica la via della gnosis tantrica (scr. prajnopaya,
tib Thabs shes), l'abolizione della polarità fra la via (o metodo), rappresentata dal Buddha,
e la meta (il punto d'arrivo), la Prajna, La via è il metodo che porta alla conoscenza; e la
meta è la sapienza o conoscenza di fenomeni e vuoto. L'Adibuddha è rappresentato nudo
perché essendo trascendente non è descrivibile. La sua natura è pura conoscenza o
coscienza universale (scr. alayavijnana, tib. Kun-gzhi rnam-shes); la pura natura della
coscienza è luce, per questo il Buddha ha il colore del cielo, dello spazio celeste, ed è
indifferentemente e dappertutto coscienza. L'uguaglianza del colore ci ricorda la Chiara
Luce del primo bar-do. Quale pura forma del supremo stato di trascendenza del
dharmakaya Samantabhadra non porta nè vesti nè ornamenti celesti nè la corona dei
Buddha del sambhogakaya, che troviamo in tutte le altre divinità del mandala del bar-do.
Prima di illustrare i cinque Tathagata dobbiamo descrivere ancora Vajrasattva (tib.
rDo-rje sems-dpa'), il Buddha bianco chiamato "essenza adamantina", che va inteso come
la prima emanazione dell'Adibuddha nel sambhogakaya. Vajrasattva è il Buddha mistico
delle iniziazioni nei mandala. Anch'esso può venir ritratto solo in un unione tantrica con
la sua Prajna Vajrasattvatmika. Vajrasattva può essere definito una delle più antiche figure
simboliche della "dottrina di diamante" del buddhismo vajrayana. E' la quintessenza della
natura adamantina (del diamante) o della pura natura del sè (scr. svabhava, tib. Ngo-bonyid). anche Vajrasattva è visto (nella sua visione spirituale) nel regno trascendente della
sfera del dharmadhatu. Emanando dal centro del proprio spirito appare, in radiazione e
vuoto, su un trono di loto. E di colore bianco. Con la mano destra davanti al cuore regge il
vajra del sapere e del vuoto (tib. Rig-stong rdo-rje), nella sinistra, posta in grembo, ha la
ghanta (campana) della manifestazione e del vuoto (tib. sNang-stong drilbu). Vajrasattava
porta gli ornamenti celesti del sambhogakaya splendido a vedersi, la corona d'oro a
cinque foglie dei Buddha (tib. dBu-rgyan), vesti bianco-variopinte, colana, bracciali e
cavigliere d'oro. E' seduto su un loto davanti a una grande aureola di raggi che gli
circonda il corpo e la testa. L'aureola o nimbus (scr. prabhamandala) indica la natura
trascendente e luminosa dei Buddha della meditazione del sambhogakaya. Questi Buddha
quindi non sono figure appartenenti al passato o mitiche, ma simbolici archetipi di
determinate dottrine. Sono immagini di saggezza buddhista nell'ordine cosmico
elementare. Sono trascendenti e provengono dalla celeste sfera "interna della propria
coscienza", quali proiezioni dell'immaginazione attiva. Sono proiezioni dell'immenso
spazio interno della coscienza nelle sfere cosmiche di un immaginario spazio celeste.
Perciò questi Buddha non sono dei, ma simboli di determinate sapienze e di determinati
piani di coscienza. Vajrasattva personifica l'insieme di tutti i significati tantrici delle
dottrine del buddhismo vajrayana. Questa è la ragione per la quale in numerose
iniziazioni tibetane viene invocata anzitutto la presenza mistica del Buddha Vajrasattva,
dal cui mantra di 108 sillabe provengono le benedizioni della meditazione trascendentale
per i quattro corpi mistici del microcosmo umano.
B I CINQUE TATHAGATA
O DHYANI-BUDDHA (YAB-YUM)
Al centro di tutte le visioni del bar-do troviamo i cinque Tathagata (tib. rGyal-ba rigs
lnga), detti anche Dhyani-Buddha o Buddha della meditazione, che nel mandala
buddhista formano una prima pentade. Data 'enorme varietà dei loro significati servono
da base per lo sviluppo della maggior parte delle dottrine esoteriche del buddhismo
vajrayana. Secondo le diverse versioni del Libro tibetano dei Morti, che ha una propria
tradizione, sono l'essenza e il fondamento delle enunciazioni sulla natura dell'uomo e
sulla sua struttura psicofisica, e al contempo archetipi per la via spirituale della
trascendenza e della liberazione. La dottrina dei cinque Tathagata contempla sia le
possibilità della purificazione della coscienza nella vita terrena, sia quelle del
raggiungimento della redenzione anche nel bar-do percorrendo il luminoso sentiero delle
saggezze dei Buddha. Il quadrato nel quale compaiono tutti i Buddha è racchiuso dal
cerchio fiammeggiante del mandala. Contiene i cinque punti cardinali, sei dei Buddha, e, a
seconda del suo aspetto, esprime contenuti corrispondenti: fisici (degli elementi),
psicologici, cosmologici, filosofici e meditativi.
Tutti i mandala nascono dalle sillabe "germinali", o bijamantra, delle divinità. Nella
meditazione su questi mantra si forma una radiazione luminosa elementare che dà luogo
all'immagine dei Buddha. Nelle parti del Libro tibetano dei Morti che trattano dei mantra
troviamo per tutte le divinità delle visioni del bar-do le sillabe germinali corrispondenti e i
mantra da essi formatisi, che servono a invocare i Buddha e le divinità adirate. Le nostre
descrizioni di questi cinque Buddha, che seguono la trattazione del simbolismo del
mandala, attingono a sei diversi libri della tradizione tibetana del Libro dei Morti; però
esistono anche altri raggruppamenti, alcuni in contrasto coi nostri. La nostra descrizione
poggia sostanzialmente sui testi tramandati dai dotti Srisimha, Padmasambhava,
Vimalamitra e Karma gling-pa.
C IL BUDDHA VAIROCANA
Al centro della coscienza risplende per prima cosa, in una chiara luce bianca, la sillaba
mantrica om, e da questa nasce il buddha vairocana (tib. rnam-par snag-mezad), che ha il
colore della bianca conchiglia (madreperla). E' seduto su un loto, sopra un trono che ha
per simboli i bianchi leoni. Ha nelle mani la ruota della dottrina (a destra) e la campana
rituale (scr. ghanta). La ruota della dottrina (scr. dharmacakra), che è color oro e ha otto
raggi, simboleggia l'ottuplice sentiero della dottrina buddhista (scr. astamarga). Vairocana
è congiunto in inscindibile unione tantrica (tib. Yab yum) con la sua consorte, la Prajna
Akasadhatvisvari (tib. Nammkha'i dbyings-phyung-ma). La sua Prajna ha il colore della
luna e nelle mani ha gli stessi simboli del Buddha Vairocana. Questo Buddha governa
l'intera sfera della fisicità (scr. rupaskandha), la prima delle cinque componenti della
personalità umana. Meditando su questo Buddha l'uomo terreno e profano si trasforma
in corpo universale dei Buddha. Ma finchè non è redento ed è legato al mondo della
transitorietà, è bloccato; la sua ignoranza (scr. avidya, tib. gTi-mug) gli impedisce di
acquisire conoscenza. Invece il sapere espande la coscienza, la rende vasta come lo spazio
celeste, che è costituito esclusivamente dall'elemento etere, ed è governato da
Akasadhatvisvari, la Prajna del Buddha. Meditando sul sapere globale delle sfere del
dharma del Buddha Vairocana (scr. dharmadhatujnana, tib. Chos-dbyings ye-shes) il
defunto nel bar-do supera tutti gli impedimenti dell'ignoranza. Nel luminoso sentiero
della liberazione il suo corpo cosciente si unisce a Vairocana. Vairocana risplende di luce
azzurra, la luce della coscienza eterica alla quale alcuni scritti lo equiparano.
D IL BUDDHA AKSOBHYA
Uscendo dalla luce azzurro intenso della sillaba mantrica HUM appare a oriente il
Tathagata azzurro Aksobhya, l' "Imperturbabile" (tib. Mi-bskyod-pa o Mi-'khrugs-pa). Ha
nella mano sinistra posta in grembo, lo scettro di diamante, chiamato vajra o, secondo altri
testi, ha nelle due mani il vajra e la ghanta (la campana). Nel Buddhga Aksobhya, che
simboleggia la immodificabilità della pura natura del diamante, sono riuniti (quasi
sempre) due aspetti, quello del Buddha bianco Vajsattva e quello dell'azzurro Aksobhya,
quale Vajrasattva-Aksobhya (tib. rDor-sems mi-bskyod-pa).
Aksobhya è congiunto in inscindibile unità tantrica con la Prajna Locana (tib. Sangrgyas spyan-ma), sovrana dell'elemento acqua (tib. Chu'i khams). Locana ha il colore della
pietra preziosa vaidurya e regge gli stessi simboli del Buddha. Aksobhya è associato al
piano della coscienza (scr. vijnanaskandha), che si realizza nel dharmakaya al centro del
cuore. L'uomo crea mentalmente l'opposto per mezzo dell'odio (scr. dvesa, tib. Zhesdang), che lo priva di ogni possibilità di unirsi ad Aksobhya. L'avversione determina il
grossolano dualismo che distrugge la via della pace dello spirito. Nella meditazione su
Aksobhya il discepolo deve "acquisire la saggezza dello specchio" (tib. Me-long lta-bu'i ye
shes) che gli fa scoprire tutte le antinomie illusorie. Nello specchio della conoscenza gli
opposti rimbalzano su se stessi e scompare ogni ragione di dualismo fra l'accettare e il
rifiutare. Il Buddha Aksobhya emette la bianca luce, limpida come il diamante, il
Vajrasattva.
E IL BUDDHA RATNASAMBHAVA
In una luce d'oro risplende anzitutto la sillaba germinale TRAM, poi da questa origina a
sud il giallo Buddha Ratnasmbhava (tib. Rin-chen 'byung-ldan), che ha nelle mani il
gioiello (scr. ratina) e la ghanta. Il Buddha giallo è congiunto in tantrica unione con la
Prajana giallo Mamaki, che è associata all'elemento terra.
Ratnasambhava rappresenta (fra i campi d'azione dei cinque skandha) il
sentimento (scr. vedanaskandha); e la meditazione su questo Buddha serve a liberarsi del
difetto della superbia, che è frutto dell'egocentrismo (scr. ahamkara, tib. Nga-rgyal).
Questo Buddha simboleggia la "saggezza dell'uguaglianza" (tib. mNyamnyid ye-shes),
perché la legge del dharma ha un "unico sapore" nel quale tutti gli esseri sono uguali. Il
Buddha Ratnasambhava ha la mano destra atteggiata nel gesto del varadamudra, il gesto
di colui che porge la dottrina. Nelle immagini è ritratto sempre giallo, come Sakyamuni, il
Buddha del mondo degli uomini. Il prezioso gioiello che ha in mano ha spesso l'aspetto
del triratna, che simboleggia la trinità di Buddha, Dharma e Sangha (la comunità dei
discepoli).
F IL BUDDHA AMITABHA
Da un raggio di luce rossa appare a occidente nel mandala la sillaba germinale mantrica
HRIH, che serve a invocare il Buddha rosso Amitabha (tib. 'Od-dpag-med o Snang-ba
mtha-yas). Amitabha è il Buddha dall' "incommensurabile splendore". Nei testi è definito
di color rosso rubino o rosso rame. Ha nelle mani il fiore di loto a otto petali e la ghanta. E'
congiunto in tantrica unione mistica con la Prajna Pandara (tib. Gos dkar-mo) che ha il
colore di un cristallo che mette luce rossa. Indossa una veste bianca. Come Amitabha ha
nelle mani il loto e la campana rituale e governa l'elemento fuoco (tib. Me' khams). IL
Buddha Amitabha è associato alla sfera della percezione differenziante (scr.
samjnaskandha) e ha le mani in grembo nel gesto della meditazione (scr. dhyanamudra).
Opposto a lui, c'è il difetto umano della cupidigia (desiderio smodato) (scr. kama, tib.
'Dod-chags) che induce l'uomo a legarsi al doloroso mondo della transitorietà. Per vincere
questo difetto occorre possedere la "saggezza della chiara visione" (tib. Sor-rtogs ye-shes),
che consente di scoprire le cause dei legami karmici. Il Buddha Amitabha è il sovrano del
"Paradiso Occidentale", Sukhavati (tib. bDe-bacan), che le anime redente sperano di
raggiungere.
G IL BUDDHA AMOGHASIDDHI
Completa il mandala il Buddha verde Amoghasiddhi (tib. Don-yod grub-ba). Da na luce
verde appare a nord la sillaba mantrica AH, da cui prende forma il Buddha
Amoghasiddhi seduto su un loto. E' di colore verde radiante come un turchese. Ha nelle
mani il vajra a forma di croce (scr. visvavajra, tib. rDo-rje rgya-gram) e al ghanta. La mano
destra è alzata nel gesto della garanzia di protezione (scr. abhayamudra). Anche
Amoghasiddhi è congiunto in tantrica unione con la sua Prajna Samayatara (tib. Damtshig sgrol-ma). E' anch'essa di color verde e ha nelle mani gli stessi simboli; il suo
elemento è l'aria (tib. rLung-gi-khams). Il Buddha Amoghasiddhi è associato all'ultimo dei
cinque skandha, al campo d'azione dei samskara, i moti della volontà e gli impulsi
d'azione (tib. 'Du-byed). Quale ultimo gruppo nel mandala, essi decidono del destino
dell'uomo, determinano il suo futuro karma nel bar-do e nella successiva incarnazione.
L'uomo si affranca dall'avarizia e dall'invidia (scr. irsya, tib. Phrag-dog) meditando sulle
qualità del Buddha Amoghasiddhi. Consente di sciogliere tutti i legami karmici ancora
esistenti e di eliminarli definitivamente la "sapienza del compimento (karmico) delle
azioni" (tib. Bya-grub ye-shes). Per questo la Prajna di Amoghasiddhi è la dea Tara, che
conduce alla redenzione. Secondo la localizzazione buddhista dei cakra psichici essa è
situata nel centro del compimento delle azioni, di tutte le azioni karmiche (tib. Phrin-las),
o sukhapalacakra.
Così si completa il primo grande mandala delle visioni dei Buddha che sta, in
quintuplice radiazione, davanti all'occhio spirituale della coscienza, alla quale nel bar-do
tutte le divinità si rivelano in cerchi di luce. Naturalmente secondo altri testi e altre
rappresentazioni i Buddha sono disposti in modo diverso. Noi però non crediamo
opportuno menzionarli per non confondere le idee al lettore.
Passiamo ora ai significati dei cinque Tathagata. L'osservazione delle immagini
inizierà sempre dal centro, poi prenderò in considerazione l'est (nelle immagini sempre in
basso) e procedendo in senso orario arriverò al nord, sede del Buddha Amoghasiddhi.
1 Il mandala degli elementi rappresenta i cinque elementi e i quattro punti cardinali
cosmici. E' un'immagine del cosmo come materia e come uomo fisico. Gli elementi sono:
etere (E), acqua (A), terra (T), fuoco (F) e aria (Ar).
2 Il secondo mandala rappresenta i colori di questi elementi e dei Buddha (qualche volta
l'azzurro e il bianco si scambiano i posti), le cinque luci dei Buddha e le loro sillabe
germinali mantriche.
3 Il terzo mandala rappresenta l'uomo profano soggetto alle passioni. Ignoranza e
accecamento producono i "cinque veleni" (tib. Dug lnga), le forze opposte alle sapienze dei
Buddha.
4 In questo mandala vediamo la disposizione di base dei cinque Tathagata. L'Adibuddha
Samantabhadra, quale prima visione, è al disopra di tutti e quindi è fuori del mandala.
Perciò questo mandala è una prima manifestazione della coscienza universale
dell'Adibuddha Samantabhadra nel dharmakaya.
5 Quando l'uomo conosce e realizza le cinque saggezze (tib. Yeshes lnga) dei cinque
Tathagata sperimenta il mandala del sapere (scr. cittamandala). E' il mandala dell'uomo
illuminato e iniziato sul piano superiore della conoscenza. Qui figurano come simboli solo
i concetti del mondo spirituale.
6 Nel mandala dell'operato karmica (scr. karmamandala) debbono essere realizzate le
sapienze dei Buddha nei cinque centri psichici che abbiamo definito dimensioni dei cakra
o "corpi". Quindi questo è il mandala dell'azione, prototipo dell'agire secondo saggezza.
7 Un confronto con l'alchimia occidentale ci rivela come la cosmologia e l'uomo siano
legati ad essa. La disposizione degli elementi corrisponde a quella del mandala buddhista
tibetano. E' un disegno del 1472 della "Offizin Zainer" di Augusta (Augsburg).
H GLI OTTO MAHABODHISATTVA (YAB-YUM)
Con il gruppo degli otto grandi Bodhisattva (scr. Mahabodhisattva, tib. Byang-club semsdpa' chen-po) viene sottoposta a trasformazione nel bar-do un'altra fase degli aspetti
psicologici e fisiologici, quella che rappresenta la componente funzionale del gruppo dei
cinque skandha. Come in ogni simbolismo antinomico del buddhismo tantrico anche gli
otto Mahabodhisattva appaiono accoppiati come coppia di opposti (maschio-femmina)
che si integrano. Gli otto Bodhisattva e le loro otto Dakini formano un gruppo di sedici
divinità che nei mandala figurano quasi sempre insieme ai cinque Buddha perché
simboleggiano gli organi psichici e fisici della percezione e i loro campi d'azione nel
mondo oggettivo. I Bodhisattva governano le otto forme di coscienza (tib. rNam-shes
brgyad), le otto Dakini i rispettivi campi d'azione (tib. rNam-shes yul brgyad). Pertanto
sono chiamati in causa sia il potenziale mondo interno dell'uomo sia il suo mondo esterno,
col quale l'uomo è collegato tramite le otto attività della coscienza. L'eliminazione di tutti
questi legami corrisponde al totale distacco dal mondo materiale e porta alla liberazione.
Nei dipinti che rappresentano le visioni delle divinità gli otto Bodhisattva sono quasi
sempre strettamente collegati coi quattro Buddha dei punti cardinali cosmici del mandala.
A ognuno dei quattro Buddha sono associati due Bodhisattva e le due rispettive Dakini.
Lo schema riportato qui sotto rappresenta il mandala completo, coi cinque Tathagata
(Yab-Yum) e gli otto Bodhisattva (Yab-Yum). I Bodhisattva e le Dakini sono rappresentati
dai quattro cerchietti.
Adesso forniamo un quadro generale degli otto Bodhisattva e delle loro rispettive
consorti. Facciamo presente, comunque, che sia l'ordine di successione qui contemplato,
sia le associazioni dei vari Bodhisattva alle otto forme di coscienza non sono uguali in tutti
i testi. Sono diversi a seconda della diversa tradizione dei Guru. Tuttavia, poiché per
quanto riguarda il simbolismo, nel suo insieme il fatto è poco rilevante; qui prendiamo in
considerazione i dati di un solo testo tibetano.
Gli otto Mahabodhisattva che si manifestano nel bar-do hanno il compito di
modificare le otto forme di coscienza e i rispettivi campi d'azione. Nel buddhismo
mahayana con l'introduzione del concetto del potere dell'illuminazione di fugare le
tenebre dell'ignoranza, del grande ideale del pensiero illuminato (scr. bodhicitta), il
Bodhisattva è diventato l'elemento chiave per la trasformazione dello spirito umano, di
una trasformazione che conduce l'uomo sulla via dell'illuminazione o, quanto meno,
dell'acquisizione di maggiore conoscenza. Nell'accoppiamento delle diverse funzioni della
coscienza ai diversi Bodhisattva; fra i numerosi Bodhisattva sono state scelte le personalità
più grandi. Vale a dire, hanno il compito di modificare le otto diverse forme di coscienza
gli otto Bodhisattva maggiori (Mahabodhisattva).
Il Bodhisattva bianco Ksitigarba ha nelle mani una rossa fronda dell'albero dei
desideri e la ghanta. Ha il compito di purificare la coscienza visiva (scr. caksurvijnnana,
tib. Mi-gi rnam-shes), cioè di liberarla dalla falsa conoscenza delle cose del mondo
oggettivo, affinché scopra l'aspetto ingannevole (scr. maya) di tutte le cose fittizie. La
Dakini del Bodhisattva Ksitigarbha è la dea Lasya, che ha il colore dell'acqua limpida. I
suoi attributi sono lo specchio e la ghanta ed è associata al campo d'azione dell'occhio e di
tutte le cose oggettive. Il Bodhisattva Maitreya (tib. Byams-pa), "che ha il colore delle
nuvole" (giallo-bianco) regge il ramo di nagakesara e la campana (ghanta). Ha il compito
di purificare la coscienza uditiva (scr. srotravijnana, tib. rNa-ba'i rnam shes), affinché
l'orecchio possa percepire la non-effimera voce del dharma. La Dakini di Maitreya è la dea
Purspa "che ha il colore della madreperla" (bianco) e regge il bianco loto e la campana.
Essa libera la coscienza da tutti i pensieri precedentemente formulati e karmicamente
ingannevoli. Il terzo Bodhisattva è Samantabhadra, che ha il "colore del topazio", regge la
spiga e la campana e governa la coscienza delle sensazioni olfattive (scr. ghranavijnana,
tib. sNa-ba'i rnam-shes). La sua partner è la Dakini Mala, che ha nelle mani la ghirlanda di
fiori e la campana, e conduce la coscienza sulla via del pensiero religioso.
Gli attributi del Bodhisattva Akasagarba, di color giallo, sono la spada e la
campana. Akasagarbha governa il campo d'azione della coscienza del gusto (scr.
jghvavijnana, tib. lCe-yi rnam-shes). La sua Dakini è la dea Dhupa, che ha nelle mani un
vaso di essenze odorose e la campana. Il quinto Bodhisattva è il rosso Avalokitesvara, che
ha nella mani un loto a otto petali e la campana ed è associato alla coscienza corporea
(fisica) (scr. Kayavijnana, tib. Lus-kyi rnam-shes). La sua Dakini è la dea Gita, color rosso
corallo, che ha nelle mani il liuto. Ha il compito di purificare tutte le sensazioni sonore con
la musica celeste dei Kinnara; una musica celeste che penetra in tutte le sfere. Il
Bodhisattva Manjusri è color giallo zafferano e ha nelle mani l'azzurro fiore di utpala e la
campana. Le dottrine del mahayana lo definiscono Bodhisattva della conoscenza; qui ha il
compito di purificare la mente (scr. manovijnana, tib. Yid-kyi rnam shes). Finché è
dominato dall'intelletto e dai suoi ingannevoli riflessi il pensiero ordinario non può
acquisire la conoscenza perfetta. La sua consorte è la Dakini rossa Aloka che ha nelle mani
la luce che tutto illumina. Ha il compito di purificare coi chiari raggi della sua luce i
pensieri preservando la mente da ogni attività meramente intellettuale.
Il settimo Bodhisattva, il giallo-rosso Nivaranaviskambhin, appare nella regione
sud-occidentale del mandala col libro della sapienza e la campana. Il libro, quale simbolo
del supremo sapere, e la campana, col suono del vuoto che compenetra di sé ogni cosa,
stanno a significare che questo Bodhisattva è in grado di purificare la coscienza universale
o fondamentale (scr. alayavijnana, tib. Kun-gzhi rnam-shes). Sua Dakini è la verde
Gandha che con l'incenso e la campana fuga tutte le attività intellettuali presenti. L'ottavo
Bodhisattva è Vajrapani (il detentore del vajra), color "verde tormalina", che ha nelle mani
lo scettro di diamante (vajra) e la ghanta. Appare allo scopo di purificare la coscienza
universale, per liberarla da tutte le macchie e gli impedimenti ancora esistenti. La sua
Dakini, la ver-azzura Nrtya, ha nella sua ciotola il cibo celeste. Vuol far gustare la
beatitudine dei redenti.
Questi sono gli otto Mahabodhisattva e le loro consorti. Secondo il testo tibetano
sopra citano, nei vari scritti del Libro tibetano dei Morti troviamo dati differenti sul
simbolismo dei colori, sugli attributi o sulle associazioni alle otto forme di coscienza. Però
entrare maggiormente nel merito di tali differenze, come abbiamo già detto, non è
consigliabile. Incontreremo di nuovo questi Bodhisattva nel loro aspetto negativo, con le
otto Keurima e le otto phra-men-ma'. Esse rappresentano l'esaltazione demoniaca e
violente dell'aspetto di potere che si manifesta nella dimensione dell'intelletto non
redento.
I I SEI BUDDHA
a: I sei Buddha del bhavackra
e il rituale della conduzione
attraverso i sei mondi esistenziali
Con i sei Buddha della cosiddetta "ruota della vita" (scr. bhavacakra, tib. Srid-pa'i khor-lo),
che si manifestano nel sesto giorno delle visioni del bar-do insieme ai cinque Tathagata e
gli otto Mahabodhisattva, siamo arrivati alla parte centrale, rituale e simbolica, del Libro
tibetano dei Morti. Questi sei Buddha sono le uniche figura delle visioni del bar-do che
assumono l'aspetto del nirmanakaya, cioè del corpo dell'incarnazione. Sono i sei Buddha
incarnati (tib. sPrul-sku thub-pa drug), vale a dire le reincarnazioni del grande
Bodhisattva misericordioso Avalokitesvara, che appaiono nello Sri-pa'i bar-do come
figure redentrici. Si manifestano nei sei mondi esistenziali della rinascita karmicamente
condizionata.
Anche la religione prebuddhista bon-po contempla figure molto simili a questi sei
Buddha, chiamati gShen-rab. Secondo le dottrine sul bar-do della religione bon sarebbero
incarnazioni dell'omonimo fondatore della religione stessa.
Anche i sei Buddha vengono illustrati dettagliatamente, con le rispettive immagini,
durante il rituale funebre, affinché il defunto possa apprendere per tempo la ragione per
la quale questi Buddha, incarnazioni del grande Avalokitesvara, appaiono nei sei mondi
esistenziali. Via via che si percorrono i sei mondi vengono spiegati, mediante appositi
cartoncini iniziatici, i vari simboli dei Buddha. Descriveremo più avanti come si svolge il
rituale della simbolica conduzione attraverso il bar-do dell'immagine del defunto (la
sByang-bu) con riferimento ai sei Buddha. I sei Buddha simboleggiano l'eroico
"descensus" di Avalokitesvara nel ciclo del doloroso mondo dal samsara, perciò sono
emanazioni del Bodhisattva che assume queste sei diverse sembianze per indicare alle
rispettive sei forme di coscienza la via che affranca dal perverso ciclo delle rinascite. Lo
fanno servendosi di determinati simboli e attributi. Appaiono nei sei mondi per
annunciare volta a volta una delle sei grandi virtù che conducono al superamento del
corrispondente mondo esistenziale. I sei Buddha insieme rappresentano le sei virtù della
perfezione, che fanno parte dei dieci principi morali dei Bodhisattva.
L'antica opera tibetano Mani bka'-bum, un'opera importante, definisce
Avalokitesvara, in molti versi, "nobile re celeste" (tib. 'Phags-pa nam-mkha'i rgyal-po)
dalle undici teste e dalle mille braccia. In un altro passo la stessa opera lo colloca al centro
del mandala dei sei Buddha quale Bodhisattva della misericordi, la sua emanazione con
quattro braccia. Secondo i testi che spiegano quali sono le meditazioni obbligatorie, è
necessario meditare anzitutto sulla sillaba germinale mantrica HRIH, che risplende al
centro del chakra del cuore, su un loto solare. Da essa origina il bianco purissimo
Bodhisattva Avalokitesvara (tib. sPyan-ras-gzigs) con quattro braccia, seduto su un trono
di loto lunare. Con la prima coppia di mani regge a destra il rosario di 108 grani, a sinistra
il loto a otto petali. Con la seconda coppia di mani, rivolte verso il cuore, compie il gesto
del namaskaramudra. Dall'alto guarda le sei classe di esseri con occhi buoni e
misericordiosi.
Nel disegno di un mandala di Avalokitesvara notiamo le sei emanazioni che
rappresentano i sei Buddha. Il Bodhisattva occupa il centro del loto. I sei petali interni
contengono le sillabe OM MA NI PAD ME HUM della formula mantrica che bisogna
pronunciare per invocare Avalokitesvara. Al contempo le sei sillabe sono associate ai sei
Buddha e ai mondi in cui essi si incarnano. Questi sei mondi formano la "ruota della vita"
del sestuplice mondo della sofferenza nel quale i Buddha annunciano agli esseri la legge
della liberazione dalla sofferenza attraverso la rinascita.
Questi mondi in cui essi si incarnano sono: il mondo degli dei (tib. Lha), il mondo
dei titani o semidei (tib. Lha-ma-yin), il mondo degli uomini (tib. Mi), il mondo degli
animali (tib. Byol-song), il mondo degli spettri della fame o preta (tib. Yi-dvags) e il
mondo degli esseri infernali (tib. dMyal-ba). Si tratta di un'antica classificazione buddhista
presente già nelle dottrine del buddhismo hinayana. Simboleggia i comportamenti
karmicamente negativi che costringono l'uomo a reincarnarsi ripetutamente nel ciclo delle
esistenze. La rinascita nei sei mondi esistenziali, conseguenza dell'ignoranza, è legata alla
dottrina delle dodici dipendenze condizionate (scr. pratityasamutpada), una delle dottrine
buddhiste fondamentali. Appartiene al nucleo delle dottrine sulla ineludibilità del
divenire e della transitorietà. Finché la vita umana - a causa dell'ignoranza e della follia
(illusione), dell'odio e della cupidigia - è legata al mondo transitorio, l'affrancamento dalla
catena delle rinascite nei sei mondi della sofferenza è impossibile. Avalokitesvara si
manifesta nei sei mondi esistenziali nelle sembianze dei sei Buddha per rivelare agli esseri
di tutte e sei le classi questa verità
Nel Mondo degli Dei, la cui celeste esistenza non è eterna, il sovrano di questo
regno è il Buddha bianco brGya-byin (tib. Lha'i thub-pa) che ha in mano il liuto sonante.
Sta a significare che l'orgoglio degli dei per la piacevole esistenza nelle alte sfere non è
lecito, perché il loro soggiorno nei cieli a seguito di azioni karmicamente positive presto o
tardi avrà fine. Simboleggia la loro transitorietà il fatto che il suono del liuto si sta
spegnendo (tib. sGrasnyan). La sillaba germinale mantrica del Mondo degli Dei, A, è
associata al centro della fronte; e la virtù che consente di sgominare la superbia (tib. Ngargyal) è la perfezione della meditazione (scr. dhyana-paramita, tib. bSam-gtan).
Il Mondo dei litigiosi Semidei e Titani è dominato dall'invidia per i frutti dell'albero
del sapere. Sovrano dei Titani (tib. Lha-min thub-pa) è il Buddha verde Thag-bwang-ris,
con l'armatura da cavaliere. Il suo principale attributo è la spada con la quale pone fine
alla lotta scatenata dall'invidia. La sillaba germinale mantrica SU di questo mondo
esistenziale è associata al centro della laringe. Il Buddha verde annuncia ai Titani la
perfezione della disciplina morale (scr. sila-paramita, tib. Tshul-khrims), che consente di
sgominare l'invidia che divide (tib. Phrag-dog).
Nel Mondo degli Uomini appare il Buddha giallo Sakyamuni, che regge la ciotola
delle elemosine e il bastone del pellegrino. Nel mondo di nascita-vecchiaia-morte degli
uomini il Buddha terreno insegna agli uomini a vincere la passione della cupidigia (tib.
'Dodchags) e a perseguire la perfezione che porta alla redenzione (scr. virya-paramita, tib.
brTson-'grus). Il cakra psichico del buddha giallo Sakyamuni, cui appartiene la sillaba
mantrica NRI, è localizzato nel loto del cuore, sede del dharmakaya.
Nel Mondo degli Animali, che vivono nell'ignoranza e nell'ottusità, appare il
Buddha azzurro Seng-ge rab-brtan, che ha nelle mani il libro della sapienza. Insegna agli
animali che per vincere l'ignoranza (tib. gTi-mug) bisogna aspirare alla perfezione della
conoscenza (scr. prajna-paramita, tib. Shes-rab chos). La sillaba mantrica TRI è associata al
Mondo degli Animali e ha sede nel loto del centro ombelicale, origine del Mondo degli
Animali e degli Esseri prigionieri degli Istinti.
Nel Mondo degli Spettri della Fame o Preta (tib. Yi-dvags) eternamente assetati,
dove regnano avidità e avarizia (tib.Ser-sna), Avalokitesvara appare nelle sembianze del
Buddha rosso Kha-'barma. Ha in mano il prezioso vaso col cibo celeste (tib. Rin-chen
sgrom-bu). Il Buddha rosso insegna ai preta a superare la tormentosa avidità che li
costringe a non essere mai sazi perseguendo la perfezione della generosità. Il centro
psichico del Mondo dei Preta, gli insaziabili spiriti eternamente affamati, ha sede nel
perineo; la sua sillaba mantrica è PRE, di colore giallo.
Il mondo esistenziale più basso, mondo dei tormenti più atroci, è l'Inferno, con i
suoi diciotto regni gelidi e infuocati nei quali precipitano gli esseri animati dall'odio (tib.
Zhe-sdang). In questo Inferno il Bodhisattva scende nelle sembianze del Buddha indaco
Dharmaraja (tib. Chos-kyi rgyal-po). Ha nelle mani l'acqua e il fuoco per lenire le
sofferenze causate dal gelo e dal calore rovente. Il simbolico cakra del mondo degli inferi,
cui appartiene la sillaba mantrica DU, ha sede sulle piante dei piedi (tib. rKang-mthil
rtsa'khor). Il Buddha indaco insegna agli abitatori degli inferi a superare i dissidi creati
dall'odio mediante la perfezione della imperturbabilità (scr. ksantiparamita, tib. bZod-pa'i
chos).
Riportiamo il passo di un testo per la meditazione sul grande Bodhisattva
Avalokitesvara che illustra i simbolici rapporti che intercorrono fra le sei sillabe e i mondi
esistenziali:
Dalle invocazioni al Bodhisattva Avalokitesvara
Om mani padme hum! Nel mondo degli Dei è apparsa la sillaba bianca OM per
eliminare la sofferenza, causata dalla superbia, dal divenire,
dalla transitorietà. Possa realizzarsi la vera sapienza della
uguaglianza.
Invochiamo il Signore della grande Misericordia!
Om mani padme hum! Nel mondo dei Titani è apparsa la sillaba verde MA per
eliminare la sofferenza del dissidio causata dall'invidia.
Possa realizzarsi la vera sapienza delle opere.
Invochiamo il Signore della grande Misericordia!
Om mani padme hum! Nel mondo degli Uomini è apparsa la sillaba gialla NI
per eliminare la sofferenza causata dal meschino dubbio.
Possa realizzarsi la vera sapienza autooriginata.
Invochiamo il Signore della grande Misericordia!
Om mani padme hum! Nel Mondo degli Animali è apparsa la sillaba azzurra
PAD per eliminare la sofferenza della bestiale ottusità
causata dall'ignoranza.
Possa realizzarsi la vera sapienza del dharmadhatu.
Invochiamo il Signore della grande Misericordia!
Om mani padme hum! Nel Mondo dei Preta è apparsa la sillaba rossa ME
per eliminare i tormenti della fame e della sete causati
dalle passioni. Possa realizzarsi la vera sapienza della chiara
visione differenziante.
Invochiamo il Signore della grande Misericordia!
Om mani padme hum! Nel Mondo degli Inferi è apparsa la sillaba nero-azzurro
HUM per eliminare i tormenti del gelo e del caldo rovente
causati dall'odio. Possa realizzarsi la vera sapienza dello
specchio.
Invochiamo il Signore della grande Misericordia!
Il Libro tibetano dei Morti si occupa del simbolismo dei sei Buddha e delle loro
funzioni soteriche nei sei mondi esistenziali in un rituale particolare mirante a guidare la
coscienza del defunto. Sotto forma di celebrazione rituale esso rappresenta sia la via del
grande Bodhisattva Avalokitesvara, che appare nei sei regni esistenziali nelle sembianze
dei sei Buddha per insegnare le "perfezioni" (scr. paramita) e le sembianze buddhiste, sia
la simbolica "chiusura delle sei porte della rinascita" (tib. sKye-sgo) ad opera delle sillabe
mantriche OM MA NI PAD ME HUM di Avalokitesvara illuminando il defunto sulla
natura dei sei Buddha quali emanazioni del Bodhisattva. Inoltre illustra ancora una volta
al defunto tutti i significati importanti delle divinità pacifiche e adirate: in particolare, i
significati dei gesti delle mani, e soprattutto degli attributi (tib. Phyag-mtshan) e delle
sapienze dei Buddha. Per questo scopo il celebrante usa diverse serie di cartoncini dipinti,
i Tsa-ka-li, in cui sono raffigurati gli attributi, i simboli e i segni dell'origine spirituale
delle divinità. Per esempi, le due prime serie di simboli del gruppo dei sei Buddha che
sono:
- la serie del Buddha giallo del mondo degli uomini con le seguenti immagini: patra
e bastone del pellegrino, karmakalasa, dharmacakra, Vajrasattva.
- la serie del Buddha bianco del mondo degli dei con le seguenti immagini: liuto,
corona dei Buddha, vajra, kapala su treppiede.
Quindi per la sola rappresentazione simbolica dei sei Buddha, dei loro regni e dei
loro attributi esiste una serie di trenta cartoncini, che durante la cerimonia vengono
mostrati e spiegati all'immagine del defunto. Di conseguenza il rituale funebre diventa nel
suo insieme un evento iniziatico con immagini simboliche legate a contenuti molti precisi;
ma è anche una tecnica meditativa sull'immagine, in quanto i vari contenuti del processo
rituale spiegano il significato dei simboli. Il principio cosciente del defunto, incorporato
nella sByang-bu, viene invitato a concentrarsi su queste immagini e a meditare sui loro
profondi significati. Così si arriva alla purificazione della coscienza.
Al centro del rituale c'è la sByang-bu (o immagine del defunto) per mezzo della
quale il morto viene interpellato, ammonito, guidato e attraverso varie iniziazioni
(abhiseka) dotato di forza spirituale, come se fosse realmente presente e partecipasse
attivamente alla cerimonia. Il Lama ha il compito di mettere il principio cosciente in
condizione di uscire da se stesso e di trovare, col suo aiuto, la via dell'affrancamento dal
samsara. L'officiante assegna all'immagine un posto d'onore, la pone di fronte a sè e la
rende partecipe delle azioni rituali. Il defunto (rappresentato dalla sua immagine)
attraversa simbolicamente tutti i regni dell'incarnazione presi in considerazione come
possibili luoghi della rinascita secondo un ordine di successione ben preciso su una
superficie appositamente allestita. Questa superficie, che rappresenta il piano cosmico dei
sei mondi esistenziali (tib. 'Groba'i khams drug), può avere una forma rettangolare o la
forma di un mandala dei mondi. Nel rettangola, che consiste di una tavola di legno, i
riquadri della serie centrale rappresentano le simboliche sedi dei sei mondi. Anche le altre
due serie sono suddivise in 6 riquadri ciascuna. Nei sei campi di quella superiore vengono
poste piccole ciotole contenenti il riso che viene offerto ai sei Buddha; nei sei campi di
quella inferiore le piccole ciotole contengono dolci di pasta (tib. gTor-ma) ma vengono
offerti agli abitanti dei sei mondi a nome del defunto. Hanno lo scopo di placare gli spiriti
malvagi del mondo degli inferi che tentano di danneggiare l'anima del defunto.
Il rituale inizia con l'esortazione alla coscienza del defunto ad uscire dal suo
isolamento nell'aldilà per entrare nella piccola immagine simbolica, la sByang-bu, il
cartoncino col suo nome (tib. mTshan-sbyang). Il celebrante esorta la coscienza a
concentrarsi al massimo su questa immagine, a ricordare gli insegnamenti e le saggezze
trasmessigli dal suo Guru, ad acquisire le sapienze dei cinque Tathagata e a ricordarsi
della sua divinità protettrice personale (tib.Yi-dam).
La sByang-bu, che viene posta sotto un ombrellino, è il cartoncino col nome del
defunto. Infatti sotto l'immagine è indicato il suo nome. Questo cartoncino simboleggia il
corpo terreno del morto. I gioielli (stilizzati), riconoscibili nell'immagine simboleggiano il
suo spirito, le strisce di seta di cinque cuori che ricadono dall'ombrellino simboleggiano le
cinque componenti (i cinque sensi) della sua personalità. Dopo le invocazioni al defunto
ha luogo la fase culminante del rituale che consiste nell'ammaestramento e nella
conduzione della coscienza. Con l'aiuto della sByang-bu il celebrante fa attraversare al
morte i sei mondi dell'incarnazione.
La meta è la sfera celeste del grande Bodhisattva Avalokitesvara o la perfetta redenzione
nel nirvana.
Il simbolico viaggio della piccola immagine inizia dal primo campo, che
rappresenta le sofferenze del mondo degli inferi causate dall'odio. Il celebrante colloca la
sByang-bu, che rappresenta il defunto, sul riquadro del mondo degli inferi e gli descrive
le sofferenze di questo mondo dell'incarnazione. A questo punto il defunto si trova
simbolicamente nell'inferno. Il Lama gli illustra l'apparizione di Avalokitesvara nelle
sembianze del Buddha Dharmaraja sceso dal mondo degli inferi perché mosso da grande
compassione (scr. mahakaruna). A nome del defunto il Buddha Dharmaraja offre ai
sofferenti fuoco e acqua per alleviare i tormenti causati dal gelo e dal caldo rovente, e la
ciotola di riso. Poi con l'offerta dei gTorma placa i demoniaci abitatori di questa
dimensione affinché l'anima possa abbandonare il regno dei tormenti infernali senza
impedimenti. Questa parte del rito termina con la simbolica chiusura della porta del
mondo degli inferi per mezzo dei mantra, onde impedire la rinascita in questo regno.
Indi il Lama colloca la sByang-bu sul campo dei preta e descrive le sofferenze degli
spiriti eternamente affamati e le cause karmiche delle stesse. Poi, per mezzo della sByangbu conduce il defunto attraverso il mondo degli animali, quello dei titani, quello degli
uomini e quello degli dei. Quando l'immagine è passata attraverso tutte e sei i riquadri e
sono state chiuse tutte e sei le porte della rinascita, il rettangolo, o il mandala dei sei
mondi, viene rimosso. Ormai al defunto è aperta la via del cielo che conduce nella sfera
dell'illuminazione. A questo punto la sByan-bu, l'unico oggetto che lega il defunto al
mondo materiale, non è più necessaria, perciò viene bruciata sull'altare. E il Lama, rivolto
alla fiamma, legge il seguente testo:
"Possa la trinità di corpo, parola e spirito del defunto trasformarsi, col fuoco, nella
sapienza dei tre corpi (tib. sKu gsum); possa il defunto essere liberato dai suoi errori e vizi
capitali e cogliere il frutto del trikaya. Possano i cinque componenti della sua personalità e
i suoi cinque errori capitali trasformarsi, col fuoco, nella sapienza dei cinque corpi (tib.
sKu lnga). Possano i cinque regni elementari essere liberati da ogni macchia e acquisire le
cinque sapienze dei cinque corpi (le cinque sapienze dei Buddha). Possano ignoranza e
peccati trasformarsi, col fuoco, in purissima saggezza. Possa il defunto essere liberato da
tutti gli impedimenti e da tutte le macchie e raggiungere il regno del sublime Buddha
Samantabhadra".
b: I sei Buddha e la grande immagine del regno degli inferi
Un altro momento importante del rituale funebre per la rappresentazione dello Srid-pa'i
bar-do è quello della dettagliata descrizione del mondo degli inferi col suo sovrano
adirato, Dharmafaja (tib. gShin-rje chos-kyi rgal-po). E' un tema al quale gli artisti tibetani
si sono ispirati frequentemente. Lo troviamo rappresentato nei quadri appesi alle pareti
dei monasteri e sui rotoli. Sono immagini che illustrano con grande realismo tutte le
sofferenze dei diciotto inferni gelidi e infuocati. Al centro delle stesse c'è la corte di
giustizia, il tribunale. In esso, prima che venga annunciata la misura della pena, gli
aiutanti del giudice die morti e i defunti che hanno un karma negativo si radunano
davanti al Dharmaraja, e vengono pesate le azioni buone e quelle cattive. Disponiamo di
una bellissima stampa tibetana che tratta questo tema con un'enorme dovizia di
particolari. Tentiamo di descriverla.
Nella parte più alta dell'immagine, nelle regioni celesti, troviamo il regno dei
cinque Tathagata o Buddha della meditazione, raffigurati nelle aureole del loro mondo
trascendente (tib. Zhingkhams). Sempre in alto, a destra e a sinistra, osserviamo quanto
segue: a sinistra, sul monte color rame (tib. Zangs-mdog dpal-gyi ribo) vediamo il palazzo
del Guru Padmasambhava. Il Guru tantrico nella sua versione adirata, cioè nelle
sembianze del Guru bDuddpunt zil-gnon, circondato da un'aureola fiammeggiante, ha
nelle mani il vajra e il pugnale magico; lo accompagnano entrambe le sue discepole: la
dakini Mandarava e la tibetana Ye-shes metshorgyal. A destra, nella celeste regione della
dea Tara, riconosciamo il palazzo di turchese. Anche Tara è accompagnata da due figure,
due Bodhisattva. E' considerata la conduttrice del defunto sulla via della redenzione.
Sotto queste "sfere celesti", che possono apparire nelle visioni dei meditanti, si
estende il Samsara, il sestuplice mondo della dolorosa esistenza terrena, che comprende
l'inferno. Data la sua mitica connessione con la natura e con gli dei il tibetano vedeva gli
eventi importanti riferiti al cosmo. Perciò il mondo degli inferi qui rappresentato ha sede
nel luogo più sacro del Tibet, nel monte Kailasa. Il Kailasa (tib. Gangs-rin-po-che), il
monte sacro agli dei, rappresenta il punto più sacro del Paese delle Nevi. Secondo
un'antica credenza da essa era possibile raggiungere direttamente i mondi celesti. Il
tibetano identifica il Kailasa col Sumeru, il monte cosmico e centrale sotto il quale ha sede
il mondo degli inferi del dio dei morti, Yama. Nella nostra immagine riconosciamo il
Kailasa, al centro del quale c'è uno stupa buddhista. Ai suoi lati vediamo il Manasarovar
(tib. mTsho ma-pham-pa), il lago sacro sulle cui sponde sorgono antichi templi, monasteri
e venerabili mete di pellegrinaggi. Lo stupa col suo ampio nimbus occupa quasi del tutto
il sacro monte. Lo stupa simboleggia la dottrina buddhista, perciò funge da sacrario sin
dai tempi di Buddha. In esso vengono deposte le ceneri dei defunti, specialmente dei
monaci e dei santi. Ai lati del monte e sotto di esso vediamo i sei Buddha dei regni
dell'incarnazione e in mezzo a loro gli esseri viventi in questi regni. Di lato ai Buddha del
mondo degli uomini riconosciamo un sentiero che sale; è il luminoso sentiero della
sapienza che percorrono i defunti redenti per raggiungere la cima del monte Kailasa.
Dall'altra parte, i fianco al Buddha del mondo degli inferi vediamo un sentiero che scende,
è il sentiero del mondo degli inferi (tib. dMyal-bar 'khrig-pa'i lam), lungo il quale i
peccatori precipitano nell'inferno. Nella parte superiore del sentiero che sale, il sentiero
della liberazione (tib. m'Tho-ris thas-lam), vediamo le anime redente, mentre nella sua
parte centrale è riconoscibile la grande nuvola rossa col vento del karma (tib. Las-kyi
rlung-dmar chen) che spazza via e trascina nel baratro infernale tutti gli esseri con un
karma negativo.
Ora passiamo alla descrizione del mondo degli inferi, e in particolare
dell'esperienza che il defunto deve fare in questo mondo, e che presenta numerose
analogie con le descrizioni mitiche di altre culture e di altre religioni. L'illustrazione del
regno degli inferi occupa quasi due terzi dell'immagine. E' il regno dove si subiscono
inesorabilmente gli effetti degli estremi contrasti, il gelo e il fuoco, prodotti - secondo il
pensiero buddhista - dall'odio e dall'ira (scr. dvesa o krodha). Dal punto di vista
psicologico il parallelo è calzante. Ira, odio e avversione creano le più forti scissioni. Ma
provocare scissioni significa anche doverne subire le conseguenze. Perciò questo vizio, o
veleno, è il più deleterio dei "cinque veleni" che costringono il principio cosciente a
reincarnarsi nei sei mondi esistenziali.
Il mondo degli inferi (tib. dMyal-ba) è una fortezza di sofferenze dalla quale è
impossibile evadere, le cui mura, irte di infiniti pericoli possono essere scavalcate solo da
chi abbia già espiato per tutte le sue cattive azioni. Tuttavia per la concezione buddhista,
le pene dell'inferno non sono eterne, sono limitate nel tempo. E il Bodhisattva
Avalokitesvara scende in questo mondo proprio perché col suo intervento può aiutare i
dannati. Nella nostra stampa i confini dell'inferno sono indicati da quattro invalicabili,
aguzzi e spigolosi massicci rocciosi (tib. Shal-ma-ri) che si ergono nelle regioni sudorientali, sud-occidentali, nord-occidentali e nord-orientali. Fra questi quattro monti di
roccia si alzano terra-pieni, altrettanto insormontabili. L'anello più interno è il fuoco; il
secondo è un pantano di sabbie mobili e il terzo pericolo è un esteso campo di coltelli (tib.
sPu-gri bye-thang chen-po). Chi tentasse di attraversarli ne uscirebbe a pezzi. Ma anche
qualora riuscisse a superare questi tre ostacoli incapperebbe nella ingannevole selva di
piante dalle foglie fatte di spade (tib. Ral-gri lo-ma'i nag-tshal) le cui lame affondano
immediatamente nel corpo di chi tenta di attraversarla. Questi quattro ostacoli e i quattro
monti di roccia racchiudono l'inferno che ha sede nel più profondo dell'abisso.
Al centro dell'inferno, in piedi, in un'aureola di fuoco, vediamo il giudice dei morti
Yama Dharmaraja (tib. gSin-rje choskyi rgyalpo). Ha l'aspetto adirato, una chioma
fiammeggiante e in capo una corona di teschi. Dharmaraja ha un terzo occhio, ha nelle
mani la spada fiammeggiante della conoscenza e lo specchio nel quale si riflettono tutte le
azioni, buone e cattive, del defunto. Davanti al giudice dei morti è seduto il più
importante dei "ministri del karma" o "capo del karma" (tib. Las-mkhan) del seguito di
undici aiutanti del dio dei morti. Ha la testa di scimmia (tib. sPre'u mg-can) e regge la
bilancia della giustizia. Ai suoi piedi vediamo altri due aiutanti di Dharmaraja: lo scrivano
Las-mkhan stag-gi mgo-can, che ha la testa di tigre, e l'accusatore Las-mkhan pu-shud
mgo-can, che ha la testa di upupa.
Fra questi vediamo i defunti che debbono giustificarsi davanti al giudice dei morti.
Il Libro tibetano dei Morti ci insegna che per ogni defunto appaiono al cospetto del dio dei
morti due spiriti (noi li definiremmo due aspetti psichici dell'individuo). Sono gli spiriti, o
geni, buono e cattivo, nati insieme all'uomo. Davanti al giudice dei morti appaiono
insieme al defunto. Il "genio bianco nato contemporaneamente" (tib. Lhan-cig skyes-pa'i
lha dkar-po) porta un sacco contenente pietre bianche; il "demone nero nato
contemporaneamente" (tib. Lhan-cig skyes-pa'i' dre nag-po) porta un sacco contenente
pietre nere. Mentre vengono nominate la azioni karmiche del defunto lo spirito bianco
mette sulla bilancia le pietre bianche per le buone azioni, il demone nero quelle nere per le
azioni cattive. Il peso e numero maggiore delle pietre determina la misura della pena.
Cooperano nel valutare il karma individuale del defunto i seguenti tredici aiutanti
demoniaci del dio dei morti Dharmaraja:
1 Srin-po' i mgo-can
Divinità con la testa di demonio
2 Glang-gi mgo-can Divinità con la testa di toro
3 Srin-po'i gdong-can
2a Divinità con la testa di demonio
4 Las.mkhan spre'u
mgo-can
Divinità con testa di tigre
(con la bilancia)
5 Las-mkhan stag-gi mgocan
Divinità con la testa di tigre
(col rotolo della scrittura)
6 Las-mkhan pu-shud
mgo-can
Divinità con la testa di upupa
7 Las-mkhan sdig-mgocan
Divinità con la testa di scorpione
8 Las-mkhan sdig-mgocan
Divinità con la testa di cane
9 Las-mkhan seng-dongcan
Divinità con la testa di leone
10 Las-mkhan phaggdong-can
Divinità con la testa di cinghiale
11 Las-mkhan dommgo-can
Divinità con la testa di orso
12 Las-mkhan dredmgo-can
Divinità con la testa di Furia
13 Las-mkhan sbrulmgo-can
Divinità con la testa di serpente.
Sono gli aiutanti teriomorfi di Yama Dharmaraja che sorvegliano anche le porte del
palazzo del mondo degli inferi, da dove inviano i defunti condannati negli otto inferni
gelidi e negli otto inferni roventi. Gli altri due inferni sono rappresentati sul bordo
inferiore dell'immagine e sui lati. Qui vediamo i defunti racchiusi in un tondo, abitato da
piccoli insetti mordaci e da serpenti, vermi e scorpioni e altri piccoli animali, che
producono danni e sofferenze meno atroci, immersi in un pantano.
Abbiamo descritto così le stazioni più importanti della grande raffigurazione
dell'inferno. Abbiamo visto con quanta minuziosità siano state illustrate le sofferenze cui
il defunto va incontro a causa delle cattive azioni che ha compiuto. Alcune opere tibetane,
per esempio il "Kun-bzang bla-ma'i zhal-lung", descrivono una per una le singole azioni
cattive e il tipo di tortura che il peccatore è costretto a subire. E' particolarmente
interessante constatare come, consciamente o meno, vengono immaginate conseguenze
che corrispondono perfettamente alle varie azioni. L'uomo è consapevole dei propri errori,
e gli autori del Libro tibetano dei Morti hanno immaginato espiazioni simboliche che per
noi sono tutt'altro che ignote, che conosciamo dalle esperienze oniriche. Si tratta di simboli
archetipici - nati dalla consapevolezza (che l'uomo possiede fin dai tempi più antichi)
dell'esistenza della legge di causa ed effetto - il cui rapporto con la realtà delle azioni
umane consente confronti preziosi dal punto di vista psicologico, e che trovano conferma
anche in rappresentazioni appartenenti ad altre culture, alla cultura dell'India, a quella
dell'antica Grecia e a quella dell'antico Egitto.
K I QUATTRO CUSTODI DELLE PORTE
DEL MANDALA (YAB-YUM)
Nel sesto giorno delle visioni delle divinità pacifiche del Libro tibetano dei Morti
appaiono i quattro custodi del mandala. Sono divinità protettrici dall'indole semicollerica
che montano la guardia in corrispondenza delle quattro porte del mandala. Come tutte le
divinità delle visioni del bar-do anche queste appaiono in polarità tantrica con le loro
consorti. Hanno sembianze umane con volto adirato e possiedono il terzo occhio, l'occhio
della conoscenza superiore. Sopra la loro chioma svolazzante troneggia una corona di
cinque teschi. Sorvegliano le quattro regioni cosmiche del mandala e nel medesimo tempo
fanno da guida al principio cosciente nell'aldilà. In corrispondenza della porta orientale
appare il custode bianco, Vijaya (tib. rNam-par rgyal-ba), insieme alla sua Dakini,
Vajarankusi. L'adirato Vjaya ha nelle mani, come simboli, una kapala e una campana; la
sua consorte un uncino di ferro. Il custode della porta orientale appare per purificare la
coscienza fisica, corporea (tip. Lus-kyi rnam-shes) e provvede alla definitiva dissoluzione
fisica degli esseri. Nello stesso tempo è annunciatore di uno dei quattro stati divini (scr.
catur-pramana, tib. Tshad-med bzhi) e rappresenta la virtù della incommensurabile bontà
(scr. mahamaitri, tib. Byams-pa chen-po). Con la comparsa in una rossa visione
fiammeggiante, su un loto, della figura in movimento di Vijaya ha fine la dottrina e il
pensiero della immortalità delle cose e della struttura psichica persona (tib. rTag-par
ltaba).
In corrispondenza della porta meridionale del mandala appare fra rosse fiamme, in
piedi su un trono di loto, l'adirato Yamantaka (tib. gShin-rje gshed-po) di colore giallo,
con la sua Dakini, Vajrapasi. Yamantaka ha nelle mani, come attributi, un laccio e una
campana. Il custode della porta meridionale appare per eliminare le percezioni di tutti e
cinque i sensi del corpo e fa in modo che i "cinque veleni" vengano superati dalle cinque
saggezze. Inoltre annuncia la persistenza nello stato divino della grande compassione (scr.
mahakaruna, tib. sNyin-rje chen-po) e illumina la coscienza del defunto sulla limitatezza
delle cose. Infatti l'accesso al nirvana, che si trova al di là dell'essere e del non-essere, non
è possibile con la sola considerazione dei fenomeni limitati nè con quella degli stati eterni.
Pensare in termini concettuali non può che essere soggettivo e dualistico, perciò non si
traduce in esperienza della realtà assoluta (tib. Don-dam-pa).
In corrispondenza della porta occidentale appare il custode rosso, Hayagriva (tib.
rTa-mgrin rgyal-po), con la sua Dakini, Vajrasrinkala (tib. rDo-rje lcags.sgron-ma).
Hayagriva, che ha una testa di cavallo fra i capelli, regge una catena di ferro (o una clava
intorno alla quale sono avvinghiati dei serpenti) e la campana. Anche la sua partner ha in
mano una catena di ferro. L'adirato Hayagriva appare allo scopo di eliminare tutte le
sensazioni e il sentire e fa in modo che non venga abbandonato il sentiero della
compassione. Questa divinità è in rapporto con la dottrina dell'autoosservazione e della
riflettente visione interna (tib. bDag-tu lta-ba) e annuncia la divina virtù della
partecipazione alla gioia altrui (scr. mudita, tib. dGa'-ba).
Come quarto custode appare in corrispondenza della porta settentrionale del
mandala il verde Amrtakundalin (tib. bDud-rtsi'kyil-ba) con la sua Kadini, Vajraghanta,
anch'essa verde. Amrta-kundalin ha nelle mani il vajra a forma di croce e una campana.
Appare allo scopo di liberare la coscienza da tutte le sensazioni fisiche. Inoltre fa sì che il
principio cosciente raggiunga la trascendenza attraverso la sua illimitata compassione. E
annuncia il divino stato di imperturbabilità (scr. upeksa, tib. bTang-snyoms). Poiché
sorveglia la porta settentrionale, cioè della regione cosmica governata dal Buddha
Amoghasiddhi, simboleggia il compimento di tutte le opere terrene e karmicamente
condizionate. Ma anche le quattro Dakini dei custodi delle porte sono in rapporto con la
dottrina dei segni delle quattro limitatezze, le limitatezze nelle quali può muoversi
unicamente l'esperienza empirica della vita. I quattro limiti delle nostre possibilità fisiche
e mentali sono: nascita e morte (tib. skyed-'gag); immortalità e dissoluzione (tib. rTag.chad); esistenza e non-esistenza (tib. Yod-med); manifestazione e vuoto (tib. sNang-stong).
Abbiamo indicato così alcuni simboli dei rapporti etici e psicologici. Altri testi
danno definizioni ancora più ampie, e in parte diverse, dei significati dei quattro custodi
delle porte. Riportiamo uno schema che aiuta a capire meglio le funzioni di queste
divinità nel mandala.
L I CINQUE SEGRETI VIDYADHARA (YAB-YUM)
Nel settimo giorno delle visioni del bar-do appaiono, ultime divinità del gruppo delle
divinità pacifiche, le cinque "Divinità detentrici del sapere" o Vidyadhara (tib. Rg-'dzin
lnga), che occupano una posizione a parte nel mandala del bar-do. Alcuni testi non le
menzionano. I vidyadhara sono divinità tantriche eroiche (scr. vira, tib. dPa'-bo) e
formano un mandala nel sambhogakayacakra del centro della laringe (tib. Longs-spyod
'khor-lo), cioè nella sede del mistico liuto mantrico, per cui simboleggiano il piano verbale
delle azioni umane spiritualmente purificato. Essendo associate al cakra del centro
laringeo, non appartengono per quanto riguarda la loro origine nè alla sfera delle divinità
adirate del piano mentale (centro della fronte) nè a quello delle divinità pacifiche del
piano spirituale (centro del cuore). La loro posizione nell'ordine di successione delle
iniziazioni è diversa perché non sono collegate a nessuna particolare iniziazione e non
figurano sui cartoncini per il rituale funebre. Tuttavia nei dipinti tibetani che
rappresentano le divinità del bar-do troviamo spesso anche queste cinque divinità
detentrici del sapere.
Il sentiero mantrico del mahayana (tib. sNgags-kyi theg-pa) è una delle vie segrete
della liberazione grazie alla conoscenza del significato dei mantra e alla loro recitazione.
Così i vidyadhara, essendo divinità sul piano mantrico del linguaggio puro (tib. gSung-gi
dkyil'khor), fungono anche da guida sulla via della liberazione prima che inizi il grande
ciclo delle divinità adirate.
Emergendo dalle sfere celesti (tib. mKha-spyod zhing-khams) appare per primo
nella quintuplice luce della "sapienza nata contemporaneamente" e nel centro del loto il
detentore del sapere "Signore del loto della danza" (tib. Padma gar-gyi dbang-phyug), di
colore rosso, in tantrica unione con la Dakini, anch'essa rossa. Come simboli hanno nelle
mani, come tutte le altre divinità detentrici del sapere, la tantrica kapala e il coltello rituale
a forma di falce (tib. Gri-gug). Ad essi seguono: sul petalo orientale del loto il "Detentore
del sapere soggiornante sulla Terra" (tib. Sa-la gnas-pa'i rig'dzin), di colore bianco; sul
petalo meridionale del loto il "Detentore del sapere signore della vita" (tib. Tshe-la dbangba'i rig-'dzin), di colore giallo; sul petalo occidentale il "Detentore del sapere del grande
simbolo" (tib. Lhun-gyi grub-pa'i rig-'dzin), di colore verde. Hanno tutti gli stessi simboli e
sono tutti accompagnati dalle loro Dakini mistiche. Alle visioni di queste cinque divinità
ne seguono molte altre di altre Dakini e di altre divinità protettrici, che però non vanno
più annoverate al vero e proprio mandala delle divinità del bar-do.
2 Le divinità adirate
Ma il male delle anime è l'ignoranza
infatti l'anima che non sa nulla delle
cose esistenti, che non conosce la natura
delle stesse, che non sa cosa è bene, che
è cieca e vittima della passione del corpo,
diventa un malvagio demone, non
conosce se stessa...
Ermete Trismegisto
Il secondo ciclo delle divinità del bar-do inizia, drammatico, nell'ottavo giorno delle
visioni e dura anch'esso sette giorni. Le divinità adirate emergono dal fondo dell'abisso
che sembra aprirsi al principio cosciente. Però questo abisso non deve essere cercato
all'esterno. Infatti, come si legge nel Libro tibetano dei Morti, le divinità adirate sono
emanazioni dell'intelletto e sorgono dalle quattro regioni del proprio cervello (tib. Klad-pa
dung-khang). Sono proiezioni dell'intelletto che tenta di difendersi con forza perché
ignora il modo di affrontare e superare i problemi; per questo le immagini appaiono così
minacciose. Ogni reazione di fuga della coscienza al cospetto delle divinità adirate è un
atto di resa volontaria dell'intelletto. Le divinità adirate sono l'opposto delle divinità
pacifiche del mandala. L'antinomia è rafforzata dal loro aspetto demoniaco. Il principio
cosciente soffre durante lo svolgersi di entrambi i cicli del mandala, sia di quello delle
visioni delle divinità pacifiche, sia di quello delle visioni delle divinità adirate, perché
subisce le conseguenze del dualismo che nasce fra accettazione e rifiuto della sfida. Il
Libro tibetano dei Morti ne parla di continuo. E il Lama rivolgendosi al defunto lo esorta a
esaminare "con chiara coscienza" le immagini delle visioni per poter comprendere la loro
natura illusoria. Deve capire che la liberazione (e redenzione) è dietro e al di là di quelle
apparizioni sublimi e di quelle visioni terrificanti. Perciò pensare che si tratti di divinità e
non di proiezioni del proprio spirito significa rimanere vincolati al mondo materiale e
doversi reincarnare.
Ma il corpo della coscienza del defunto, essendo dotato di tutti i sensi, percepisce
come realtà le divinità terrificanti, le loro figure, le luci, le fiamme torbide e fumose, e le
loro urla minacciose che minacciano l'annientamento. Questo aspetto prevaricante delle
divinità adirate spaventa la coscienza, la fa regredire per cui essa inizia un percorso in
discesa che la porta attraverso i vari piani di impotenza; e man mano che scende, diventa
sempre più inconsapevole e sempre più incapace di liberare se stessa. Abbiamo definito la
via della coscienza nel bar-do "sentiero inverso" perché rappresenta l'inverso dei processi
che si svolgono nella vita terrena. Nel bar-do dell'esperienza di morte, il "'Chi-kha'i bardo", si raggiunge per un attimo la consapevolezza più alta, totale e perfetta, poi inizia il
percorso in discesa attraverso il Chos-nyid bar-do, sul piano del sambhogakaya, che
termina con la reincarnazione della coscienza alla fine dello Srid-pa'i bar-do. Mentre si
reincarna, la coscienza è quasi totalmente priva di consapevolezza. Per questo il Libro
tibetano dei Morti quando descrive le visioni delle divinità adirate e dell'inferno parla
della impotenza della coscienza, del rosso vento impetuoso del karma che travolge,
trascina e caccia gli esseri nel fondo dell'inferno.
Il simbolo del sangue quale elemento vitale, ben conosciuto nei Tantra buddhisti,
acquista un significato negativo quando appaiono le divinità che bevono sangue (tib.
Khrag-'thung khro-bo), cioè che bevono il sangue del defunto con demoniaca forza, come
Furie, per bere il suo sangue dalla kapala, la calotta cranica. Quindi per non lasciarsi
ingannare e coinvolgere dalla loro apparizione nel bar-do l'uomo deve occuparsi di queste
"divinità" già durante la vita.
Come già nelle divinità pacifiche, anche nel mandala delle divinità adirate
troviamo una serie di significati psicologici che oggi nel Libro dei Morti vengono messi in
stretto rapporto con le divinità teriomorfe, senza dubbio molto antiche. Tutte le divinità
del Libro dei Morti, ma soprattutto le emanazioni demonianche, sono figure iniziatiche come nel Libro dei Morti egiziano. Sono tutte legate a un simbolismo riferito alla psiche
dell'uomo e si integrano in un'immagine della psicologia buddhista che si presenta alla
coscienza per mezzo di immagini.
Seguiamo l'ordine di comparsa delle divinità del secondo ciclo come è descritto, per
esempio, nei passi del Libro dei Morti che lo scopritore di tesori tibetano Padma gling-pa
rese noti ai suoi discepoli nel monastero di Kun-bzang-gling, nel Bhutan orientale, l'8
settembre dell'anno dell'uccello, il 1501 dopo Cristo. Anche egli conferma ancora una
volta il significato psicologico delle divinità: "Sede delle divinità, pacifiche e adirate, è il
proprio corpo". Quindi dal potente Mahasri-Heruka (tib. Che-mchog Heruka), l'aspetto
negativo (adirato) dell'Adibuddha Samantabhadra, si sviluppa il gruppo delle cinque
divinità che bevono il sangue per distruggere i cinque errori capitali delle azioni umane
(tib. Khrag-'thung rigs-lnga). Con essi compaiono le cinque Heruka-Dakini, che hanno il
compito di purificare i cinque regni degli elementi (tib. Khams-lnga kro-ti-shva-ri-ma).
Seguono le otto Keurima adirate e le otto 'Phramen-ma con la testa di animale, che hanno
il compito di purificare le otto forme di coscienza e i loro campi d'azione (tib. gNasbrgyad yul-brgyad ke'u-ri bcu drug). Rappresentano l'opposto degli otto Bodhisattva e
delle loro Dakini del mandala delle divinità pacifiche. Poi dalle quattro regioni cosmiche
emergono le quattro custodi teriomorfe delle porte per indicare alla coscienza i suoi
"quattro limiti" (tib. rTag-chad mu-bzhi sgo-ma bzhi). La visione termina con una sfrenata
ridda di furie teriomorfe provenienti, in gruppi di sette Dakini ciascuno, dalle quattro
regioni del cervello, dalla regione orientale, da quella meridionale, da quella occidentale e
da quella settentrionale. Hanno il compito di eliminare tutti gli impedimenti karmici al
fine di liberare l'immaginario della coscienza da tutte le passioni e da tutti i legami. Infatti
il regno della trascendenza è raggiungibile solo su una dimensione priva di immagini.
Va segnalata anche un'altra fondamentale differenza tra le divinità pacifiche e
quelle adirate, che è in rapporto con la fisiologia cosmologica e psicologica dello yoga
tantrico (che ha un ruolo importante nell'immagine dell'uomo universale). Queste
diversità risalgono alle antiche dottrine indiane dello yoga buddhista tramandato dai
siddha. Secondo esse i tra nadi, i canali di materia sottile dell'energia psichica che
attraversano il centro della colonna vertebrale, sono: il nadi dell'energia lunare, il nadi
dell'energia solare e il nadi centrale, l'avadhuti-nadi. L'unificazione o fusione delle due
energie nell'avadhuti-nadi potenzierebbe le facoltà della coscienza e la illuminerebbe. Per
l'uomo profano e ignorante i tre nadi sono le vie dei "tre veleni", cupidigia, odio e illusoria
follia, cioè dei "tre mali dell'esistenza del mondo". Essi impediscono alle divinità di
esercitare il loro influsso; infatti i nadi possono venir purificati unicamente dalla "suprema
verità".
Queste dottrine, diffuse quasi sempre come dottrine segrete in diverse tradizioni, in
particolare nel kundalini-yoga, sono entrate nel Tibet insieme alle "sei dottrine" di Naropa.
Si fonda su di esse anche la concezione della natura illusoria, psichica, delle divinità.
Secondo questa concezione le divinità possono assumere aspetti diversi, conformi allo
stato della coscienza; per cui le divinità pacifiche appaiono avvolte da un'aureola di raggi
che hanno i cinque colori elementari die cinque elementi, e appaiono sempre su un disco
lunare. Ciò significa che la superficie del loto è il disco della luna in posizione orizzontale.
Le divinità eroiche e adirate del bar-do si manifestano invece avvolte da aureole di fuoco e
su un trono di sole, nel quale la superficie del loto è rappresentata dal disco del sole
disposto orizzontalmente. La inscindibile unità dei loro due aspetti, pacifico e adirato,
maschile e femminile, determina la totalità dell'esperienza di realtà nel Chos-nyid bar-do,
vale a dire la constatazione che tutte le figure sono emanazioni della propria coscienza,
che dietro di esse si trova la realtà "vuota" e assoluta.
A IL GRANDE HERUKA
DELL'ADIBUDDHA (YAB-YUM)
Al di sopra del primo mandala dei cinque Buddha-Heruka appare, come figura suprema,
l'Adibuddha Samantabhadra nelle sembianze del potente e terrificante Che-mchog
Heruka (scr. Mahasri-Heruka), coloro bruno rossastro. Il mandala delle grandi divinità
adirate assettate di sangue si trova, su un loto a cinque petali (un centro e quattro petali),
nel centro del cervello. Dal centro del loto, che irradia una luce infuocata, emerge per
primo il grande Che-mchog Heruka, adirato e assetato di sangue che ha tre teste, nove
occhi, sei braccia e quattro gambe. Il suo volto destro è color fumo, quello centrale bianco
e quello sinistro rosso. Con le tre mani destre regge il vajra, il tridente (scr. Khatvanga) e
un tamburo a mano col gambo; nelle mani di sinistra ha una campana, una kapala e un
laccio di budella. Il potente Heruka è congiunto in stretta unione tantrica con la sua
Dakini Krodhesvari, che è in un bianco purissimo.
Anche Che-mchog Heruka è fuori del mandala dei cinque Buddha-Heruka, perché
è l'Adi-Heruka, il sesto Heruka, quello da cui si sviluppa il grande mandala delle divinità
adirate. E' il capostipite di tutte le divinità terrificanti. Molti testi non lo menzionano fra le
visioni postmortali. I testi più noti del Libro tibetano dei Morti iniziano descrivendo il
mandala dei cinque Buddha-Heruka. Quindi il grande Mahasri-Heruka, come
l'Adibuddha Samantabhadra, occupa una posizione a parte fra le divinità.
B I CINQUE BUDDHA-HERUKA ADIRATI (YAB-YUM)
Nell'ottavo giorno (il primo ciclo delle divinità adirate) al centro del loto appare l'Heruka
del Buddha Vairocana nelle sembianze del Buddha-Heruka dPal-chen, color fumo, con la
sua bianca Buddha-Heruka Dakini Krodhesvari. L'Heruka centrale ha tre facce, sei braccia
e quattro gambe. La faccia di destra è bianca, quella centrale color nero-fumo e quella di
sinistra rossa. Nelle mani di destra ha un'ascia col manico lungo, una spada
fiammeggiante e la ruota della dottrina; le mani di sinistra reggono una kapala, un
vomere e una campana. Questo Heruka adirato è una emanazione del Buddha Vairocana
nel suo aspetto terrificante.
Dopo di lui appaiono, uno per giorno, in corrispondenza delle quattro regioni
cosmiche, i cinque Buddha-Heruka emanazioni dei Buddha della meditazione pacifici. Ad
est appare il Vajra-Heruka, Buddha della meditazione pacifici. Ad est appare il VajraHeruka, Buddha della meditazione pacifici. Ad est appare il Vajra-Heruka, Buddha della
meditazione pacifici. Ad est appare il Vajra-Heruka, azzurro cupo, con la Dakini VajraKrodhesvari; a sud il giallo Ratna-Heruka con la sua Dakini Padma-Krodhesvari; e a nord
il verde Karma-Heruka con la sua Kakini Karma-Krodhesvari. Tutti gli Heruka hanno tre
teste, sei braccia e quattro gambe e portano la corona tantrica e la collana di teschi. Questi
cinque Heruka aggrediscono incutendo terrore ai "cinque veleni" o difetti, che hanno le
loro apparentemente inestirpabili radici nell'ignoranza, nell'odio, nella superbia, nelle
passioni e nell'invidia. Nel rituale della "retroversione con le divinità adirate" il celebrante
spiega ripetutamente alla coscienza del defunto che questi Heruka che appaiono
dall'ottavo al dodicesimo giorno non sono che emanazioni dal suo spirito e che essendo
aspetti dei cinque Buddha sono in realtà divinità protettrici. Invita insistentemente il
defunto a integrare queste visioni nella propria coscienza per impedire loro di agire
negativamente sulla psiche. Per il principio cosciente che persiste nella illusione
dell'ignoranza o, con linguaggio psicologico, nella non-consapevolezza, questi Heruka
possono rappresentare un grande pericolo perché non viene riconosciuta la loro natura.
Anche gli adirati Heruka fungono da "guida sul sentiero luminoso delle cinque sapienze"
e come tali vanno intesi, come precedentemente sono stati invocati i cinque Buddha nella
"preghiera di liberazione del bar-do" (tib. Bar-do 'phrang-grol-gyi smon-lam). Se viene
compreso il vero significato degli Heruka il momento di pericolo scompare e la via della
liberazione nel sambhogakaya è aperta.
Una caratteristica particolare dei Buddha-Heruka è rappresentata dal fatto che sono
provvisti di ali, le ali del garuda. Gli Heruka possiedono poteri magici. Hanno la capacità
di sgominare il male, simboleggiata dal mitico uccello garuda, distruttore dei demoniserpenti. Nella maggior parte dei dipinti tibetani che illustrano i contenuti del Libro
tibetano dei Morti gli Heruka sono raffigurati con le ali; in alcuni tuttavia (in numero
minore) figura provvisto di ali solo il Che-mchog Heruka centrale. In molte immagini
tibetane al centro del mandala delle divinità adirate troviamo tutti e sei i Buddha-Heruka.
In altri (in numero minore) sono raggruppati solo i cinque Buddha-Heruka. La diversa
composizione delle divinità nei vari dipinti che trattano i temi del Libro dei Morti è
dovuta spesso alle diversità dei testi cui essi si ispirano.
C LE OTTO KEURIMA
Le otto dee-furie adirate, chiamate Keurima, sono gli aspetti opposti degli otto
Bodhisattiva pacifici del primo ciclo delle divinità del bar-do. Quali Dakini adirate hanno
gli stessi compiti, psicologicamente motivati, dei Bodhisattva, i compiti di purificare la
coscienza, che sono sottolineati dal loro aspetto terrificante dovuto alla potente ira che le
anima (tib. Drag-po). Tale aspetto si rende sempre più necessario se la coscienza cade
preda dell'impotenza e si lascia condizionare dalla paura non avendo riconosciuto la loro
vera natura. Le Keurima vengono definite "Dakini della sapienza delle otto forme di
coscienza" (tib. rNam-shes brgyad-kyi ye-shes mkha'-'gro bzhi). Anche queste Kadini sono
emanazioni delle regioni cosmiche del cervello, e vengono divise in due gruppi: il gruppo
delle Dakini che emergono dai punti cardinali principali (che hanno colori puri): le
"quattro Dakini interne" (tib. Nang-gi mkha'-'gro bzhi); e quello delle Dakini che
emergono dai punti cardinali intermedi, che hanno colori misti: le "quattro Dakini esterne"
(tib. Phyi-yi mkha'-'gro bzhi). Anche qui il cervello è immaginato come un loto a otto
petali. Nella regione cosmica meridionale appare la gialla Tseurima (esattamente: Caurima) che ha nelle mani l'arco e la freccia pronta a scoccare (simbolo tantrico della unità di
via e meta _ Thabs-shes). Nella regione cosmica occidentale appare la rossa Pramoha col
makara-segno della vittoria (che non consente più alcun accesso al samsara). Nella regione
cosmica settentrionale appare la verde (verde scuro) Vaitali (Petali) che regge il vajra della
realtà non-transitoria e una kapala.
Le Dakini del secondo gruppo emergono dalle quattro regioni cosmiche intermedie
del cervello: da sud-est emerge Pukkasi, che estrae le interiora dal luogo della miseria
peccaminosa. Da sud-ovest emerge Ghasmari, nero verdastra, che rimesta col vajra nella
calotta cranica (o beve il sangue dalla kapala come offerta votiva per assolvere al
samsara). Da nord-ovest emerge Candali, color giallo pallido che ha nelle mani un cuore e
un cadavere (sta dilaniando un cadavere, cioè gli stacca la testa che pensa in modo errato).
Infine da nord-est emerge la nero-azzurra Smasani che stacca la testa a un cadavere
torcendogli il collo. Tutte le dee terrificanti compiono movimenti selvaggi che esprimono
minaccia, violenza e distruzione, e sono avvolte dalle divampanti fiamme dell'ira. Ad esse
segue il gruppo delle otto dee teriomorfe, che corrispondono alle Dakini pacifiche dei
Bodhisattva.
D LE OTTO PHRA-MEN-MA
Un secondo gruppo di otto dee terrificanti è quello delle otto divinità teriomorfe Ma-mo o
Phra-men-ma, che governano le otto dimensioni della coscienza (tib. Yul-gyi phra-men
brgyad). Come le otto Keurima, esse si manifestano nel tredicesimo giorno del bar-do e
rappresentano gli aspetti negativi delle otto Dakini dei Bodhisattva del ciclo delle divinità
pacifiche. A differenza delle Keurima, le otto phra-men-ma hanno sembianze umane, con
però la testa di animale. Quattro di esse hanno teste di uccelli, quattro di altri animali.
Queste ultime emergono dai quattro punti cardinali principali; mentre le prime emergono
dai quattro punti cardinali intermedi del loto a otto petali.
A est appare, tra rosse fiamme la dea Simhamukhi (tib. Sengmgo-can), del colore
del fumo. Ha le mani incrociate sul petto e sta divorando un cadavere. A sud appare la
rossa Vyaghramukhi (tib.. sTag-gdong-can) con la gialla testa di tigre dalla sguardo
terrificante. Ha le due mani incrociate e abbassate. A ovest appare la nera Srgalmushi (tib.
Wa-mgo-can) dalla rossa testa di iena (o di volpe). Nella mano destra ha un pugnale, nella
sinistra stringe delle interiora per berne il sangue. A nord appare Svamukhi (tib sPyangmgo-can), color azzurro cupo, dalla grigia testa di lupo. Con entrambe le mani regge un
cadavere che sta divorando. Da sud-est emerge la bianco-giallastra Grdhramukhi (tib.
Bya-rgod-mgo-can) dalla testa di avvoltoio. Con la mano destra estrae le viscere da un
cadavere che regge con la sinistra. Da sud-ovest emerge la dea Kankamukhi (tib. Bya'i
mgo-can), color rosso scuro, con la testa nera dell'uccello della morte e che trasporta sulle
spalle un enorme cadavere. Da nord-ovest emerge la nera Kakamukhi (tib. Bya-rog mgocan). Ha la testa di corvo, nella mano destra ha la spada dalla lama ricurva, nella sinistra
una kapala. A nord-est emerge l'ultima terrificante furia, la dea blu Ulumamudhi (tib. 'Ugpa'i mgo-can) che ha una testa bruna di civetta. Con la mano destra regge un vajra, con la
sinistra una kapala (o una spada). Queste sono le otto divinità demoniache divoratrici di
carne che insieme alle otto divinità bevitrici di sangue dei cinque Heruka provengono
dalle diverse zone del proprio cervello. Non bisogna però aver paura di loro, bisogna
essere consapevoli del fatto che sono emanazioni del proprio pensiero. Tutte le divinità
teriomorfe come pure le otto Keurima hanno intorno ai fianchi una pelle di leopardo e
volteggiano libere nello spazio avvolte da fiamme divampanti. Hanno gli stessi compiti
degli otto Bodhisattva e delle loro Dakini. Il simbolismo delle sedici dee adirate, quali
aspetti negativi dei Bodhisattva, è particolarmente interessante sotto il profilo psicologico
perché nelle otto Phra-men-ma noi troviamo raggruppati gli archetipi mitologici
dell'aspetto negativo della madre e della guida dell'anima che rimandano a strutture
archetipiche della nascita dell'immagine miticamente condizionata.
E LE QUATTRO CUSTODI DELLE PORTE
DEL MANDALA CON LA TESTA DI ANIMALE
Nel quattrodicesimo giorno del bar-do dalle quattro regioni cosmiche del cervello
emergono prima le quattro Kakini con la testa di animale, poi le ventotto Dakini potenti,
anch'esse con la testa di animale. Le quattro custodi delle porte (tib. sGo-ma bzhi o anche
sGo-skyong khro-mo bzhi) assomigliano alle Phra-men-ma. Quanto al loro significato
buddhologico, anch'esse rappresentano le "quattro incommensurabili permanenze" (tib.
Tshad-med-bzhi). Le quattro custodi delle porte sono le quattro comandanti delle ventotto
dee potenti che fanno anche parte del loro gruppo, dove vengono rappresentante di
nuovo. Nel rituale funebre invece, in quanto custodi delle porte del mandala, non
appaiono insieme ad esse. Queste ventotto dee emergono dalle quattro porte in quattro
gruppi di sette dee ciascuno (comprese le custodi) oppure il gruppo a sé delle quattro
custodi viene rappresentato accanto a quattro gruppi di sei dee ciascuno.
Quindi, in corrispondenza della porta orientale, appare la bianca dea rTa-gdongma dalla testa di cavallo. Nella mano destra ha un kapala, nella sinistra un uncino di ferro,
che rappresenta il vajra (tib. rDo-rje lcags.kyu). Quale portatrice di simboli tantrici insegna
la sconfinata compassione (tib. sNying-fje tshadmed). In corrispondenza della porta
meridionale si manifesta la gialla dea Phag-gdong-ma dalla nera testa di cinghiale. Nella
mano destra ha una kapala, nella sinistra un laccio per estrarre il defunto dalla palude del
samsara. Annuncia lo stato celeste della illimitata bontà (tib. Byams-pa tshad-med). In
corrispondenza della porta occidentale del mandala del proprio cervello appare la rossa
dea Senggdong-ma dalla bianca testa di leone. Nella mano destra tiene una kapala, nella
sinistra una catena di ferro. Annuncia lo stato della "illimitata partecipazione alla gioia
altrui" (tib. dGa'-ba tshad-med). In corrispondenza della porta settentrionale del mandala
appare la verde dea sBrul-gdong-ma dalla grigia testa di serpente. Nella mano destra ha la
kapala, nella sinistra la campana il cui suono, smorzandosi, si perde nel vuoto. Annuncia,
come quarto stato delle illimitate permanenze, la "infinita imperturbabilità" (tib. bTangsnyoms tshad-med). Tutte e quattro le custodi delle porte appaiono tra le fiamme con
intorno ai fianchi pelli di tigre.
F LE VENTOTTO POTENTI DEE TERIOMORFE
Nel quattrodicesimo giorno si sviluppa l'anello esterno del mandala delle divinità adirate
con i quattro gruppi di sette dee teriomorfe ciascuno che emergono dalle regioni
cosmiche. La struttura di alcuni dipinti tibetani corrisponde esattamente alle descrizioni
del Libro tibetano dei Morti nella traduzione di Evans-Wentz e a quelle su cui ci siamo
riferiti anche noi. Nel cerchio di mezzo riconosciamo i cinque Buddha-Heruka e il Chemchog Heruka; nel primo anello intorno al centro si trovano le otto Keurima, le otto Phramen-ma e le quattro custodi teriomorfe delle porte. Queste sono le trenta Heruka e
divinità adirate (tib. Heruka drag-po'i lha bcu-sum tham-pa) che nomina il Libro tibetano
dei Morti, mentre non menziona l'Heruka dell'Adibuddha. Seguono nei quattro settori
dell'anello esterno le potenti 28 dee adirate (tib. dBang-phyug nyer-brgyad), dette anche
divoratrici di carne (tib. Sha-za mkha'-'gro). Poi dalle quattro zone del proprio cervello
emergono prima i quattro gruppi di sei Dakini ciascuno, poi le quattro custodi delle porte.
Da est emergono la dea nero fumo Raksasi (srin-mo) con la testa di yak tibetano
(tib. gYag-mgo-ma), con in mano un vajra; la dea color giallo-rossastro Brahmani dalla
testa di serpente (tib. sBrulgdong-ma), con in mano la ruota della dottrina; la dea
neroverdastra Mahadevi con la testa di leopardo (tib. bZigs-mgo-ma), con in mano il
tridente (trisula); l'azzurra Vaisnavi con la testa di mungo (tib. Sre-mong mgo-ma), con in
mano la ruota della dottrina; la rossa Kumari con la testa di orso delle nevi (tib. Dredmgo-ma) con in mano una corta lancia; e infine, la sesta dea del gruppo, la bianca dea
Indrani dalla testa di orso (tib. Dom-mgoma), con in mano delle viscere.
Da sud emergono la gialla dea Vajri dalla testa di pipistrello (tib. Pha-wang mgoma) con in mano il coltello; la rossa Dakini Santi con la testa del drago d'acqua makara
(tib. Chu-srin mgo-ma), con in mano la kalasa (il vaso dell'acqua di vita); la rossa dea
Amrta dalla testa di scorpione (tib. sDing-pa'i mgo-ma), con in mano il loto; la bianca dea
Candra dalla testa di falco (tib. Khra'i mgo-ma), con nella mano destra il vajra; la neroverdastra Dakini Danda dalla testa di volpe (tib. Wa'i mgo-ma), che ha nella mano destra
la clava; e, ultima del gruppo, la dea nero-giallastra Raksasi dalle testa di tigre (tib. sTag-gi
mgo-ma), che ha nella mano sinistra una kapala piena di sangue.
Da ovest emergono la nero-verdastra Za-ba dalla testa di avvoltoio (tib. Bya-rgod
mgo-ma), che ha in mano la clava; la rossa dea d'Ga'-ba dalla testa di cavalo (tib. rTa'i
mgo-ma), che ha nelle mani il tronco di un grosso cadavere; la bianca Dakini Mahabali
dalla testa di garuda (tib. Khyung-gi mgo-ma), con in mano una clava; la rossa dea Rakasi
dalla testa di cane (tib. Khyi'i mgo-ma), con in mano il coltello a forma di vajra; la rossa
Dakini Abhilasi dalla testa di upupa (tib. Pu-shud mgo-ma), che ha nelle mani arco e
freccia pronta a scoccare; e infine la dea color rosso-verdastro Norsrung dalla testa di
cervo (tib. Sha-ba'i mgo-ma), che ha nelle mani una kalasa.
Da nord emergono l'azzurra dea Vayudevi dalla testa di lupo (tib sPyang-ki'i mgoma) con in mano una banderuola; la rossa Dakini Nari dalla testa di stambecco (tib. sKyingyi mgo-ma), con fra i denti un laccio; la rossa dea Vajri dalla testa di cornacchia (tib.
Khva-tva'i mgo-ma), che ha nella mano destra il cadavere di un bambino; la dea nerovedastra sNa-chen dalla testa di elefante (tib. Glang-chen mgo-ma), che ha nelle mani un
grosso cadavere; e infine l'azzurra Varuni dalla testa di serpente (tib. sBrul-gyi mgo-ma),
che regge un laccio intorno al quale sono avvinghiati dei serpenti. Sono apparse finora 24
delle 28 dee potenti. Dopo di esse in corrispondenza delle quattro porte del mandala
appaiono le quattro custodi che completano il mandala delle 58 divinità terrificanti.
Dalle quattro zone del cervello emergono le quattro custodi delle porte, che sono
simili alle dee delle porte del mandala sopra menzionate. Da est emerge la bianca
Vajradakini dalla testa di cuculo (tib. Khu-dbyug mgo-ma), che ha nella mano destra
l'uncino di ferro. Da sud emerge la gialla Dakini dalla testa di antilope con le corna ritorte
(tib. Ra-mgo-ma), con in mano un laccio; da occidente emerge la rossa Dakini dalla testa di
leone (tib. Seng-mgo-ma), con in mano una catena di ferro; da nord emerge la Dakini color
verde scuro dalla testa di serpente (tib sBrul-mgo-ma), con in mano la campana (tib. Drilbu) il cui suono si spegne nel vuoto.
Tutte queste divinità debbono essere considerate emanazioni del proprio cervello:
le 24 divinità pacifiche emanazioni della radianza del dharmakaya, le 58 divinità adirate
emanazioni della radianza del sambhogakaya.
Nell'eventualità che il principio cosciente fugga al cospetto di queste immagini, il
Libro tibetano dei Morti contempla un'altra serie di divinità. In questo caso tutte le
divinità pacifiche assumono forme della divinità protettrice Mahakala, mentre tutte quelle
adirate assumono l'aspetto minaccioso del dio dei morti Dharmaraja (tib. Chos-kyi rgyalpo). Quindi le divinità pacifiche acquistano potenza e rappresentano la difesa ad opera del
sapere e della conoscenza. Mahakala, la potentissima divinità protettrice, esprime collera,
indignazione, però in senso positivo, infatti è chiamata anche Ye-shes mgon-po,
"Protettore della conoscenza e del sapere". Se dopo che le divinità pacifiche hanno assunto
questo aspetto di forza che protegge dall'ignoranza, il defunto non capisce che tutte le
apparizioni del bar-do non sono esterne al suo spirito, ma dentro di esso, tutte le divinità
adirate assumono di colpo l'aspetto di Yama o Dharmaraja, il dio della morte. A questo
punto, poiché il defunto non si è reso conto che tutte le immagini che vede sono forme che
assumono i suoi stessi pensieri, tali proiezioni cessano. Rafforzando i diversi aspetti delle
divinità, il simbolismo tibetano ha trovato un modo (metodo psicologicamente corretto)
per rappresentare con le immagini positive i processi psichici costruttivi dovuti alla
conoscenza che porta alla illuminazione, alla vittoria; con le immagini negative i processi
psichici distruttivi imputabili all'ignoranza, che porta all'insuccesso. Naturalmente sono
idee che hanno un'origine antichissima, che affondano le radici nel mito e che hanno
sempre avuto una loro efficacia, anche nelle religioni importanti come il buddhismo.
Quanto alla migrazione di queste religioni in altri Paesi, va detto che le dottrine
importanti vengono espresse sempre mediante immagini antiche e conosciute, affinché
risultino comprensibili a tutti.
Perciò anche nel Libro tibetano dei Morti si legge che le immagini debbono essere
considerate manifestazioni della propria coscienza. In altri termini il buddhismo, che pure
si serve di visioni realistiche, poi ne invoca la dissoluzione e il superamento perché esse
sono incompatibili con la dottrina della liberazione assoluta del nirvana, che è privo di
immagini e puramente trascendente.
Il Lama o il monaco che dirige il rituale funebre ed esegue la lettura esorta il
defunto, la cui anima/coscienza vaga nel bar-do "come un cane randagio", a valutare
correttamente il proprio "corpo spirituale costituito da ostacoli karmicamente
condizionati" (tib. Bag-chags yid-kyi lus) ricordandogli che questo, benché terrorizzato
dalle minacciose furie, è indistruttibile e rimane immortale nel bar-do (tib. 'Chi rgyu-med).
Infatti, anche se è provvisto di tutti i sensi, è rivo di fisicità ed è costituito da pura
coscienza. Inoltre gli ricorda che egli sa che il suo corpo nel bar-do è in realtà vuoto (tib.
Stong-pa'i rang-gzugs). Già Precedentemente durante la lettura del rituale gli ha più volte
ricordato che tutte le radiose e focose apparizioni delle divinità che si manifestano sul
piano del sambhogakaya e su quello del supremo dharmakaya sono emanazioni del vuoto
infinito. O, secondo la versione della filosofia del buddhismo vijannavada, che tutte le
immagini e tutte le visioni, come pure tutte le cose oggettive, sono emanazioni
dell'incommensurabile alayavijnana, la coscienza universale che ha la capacità di creare
infinite forme. Il karma invece è il vento (così lo definisce il Libro dei Morti) della nuvola
rossa che caccia i defunti nel baratro delle nuove incarnazioni; ma è anche il vento che
muove la superficie dell'oceano della coscienza creando le onde del pensiero e le diecimila
forme create dalla spirito che rendono impossibile una chiara visione della profondità
della coscienza universale.
Così alla fine del passo del Libro dei Morti che illustra le divinità adirate, si legge
che anche le forme distruttrici del dio dei morti Dharmaraja non sono che le vuote
immagini prodotte dal proprio pensiero, non la realtà. Sono vuoto e non possono agire sul
vuoto di un principio cosciente liberato. Quando lo spirito cosciente e le immagini si
compenetrano e si dissolvono, viene raggiunta la massima liberazione, una liberazione
che è impossibile descrivere, nella quale non esiste più la sofferenza prodotta dai
contrasti. Questo significa conoscere la "Chiara Luce", questa è la suprema esperienza di
trascendenza nel bar-do.
G LE CINQUE JNANA-DAKINI
E IL POTENTE VAJRAKUMARA-HERUKA
Alcuni testi sui rituali del Libro tibetano dei Morti aggiungono anche altre divinità, per
cui si ha un mandala ampliato di 117 divinità, pacifiche e adirate, del bar-do. Troviamo
questo mandala ampliato esclusivamente nelle tradizioni delle sette rNyingm-ma-pa e
'Brug-pa del Tibet, del Ladakh e del Bhutan. Le sette divinità aggiunte si trovano nei due
cakra inferiori, nel muladhara-cakra (tib. gSang-gnas dkyil-'khor) e nel manipura-cakra
(tib. lTe-ba'i dkyil'khor). Già nel capitolo II abbiamo spiegato che il cakra del perineo è la
sede della divinità protettrice Vajrakumara o Vajrakila-Heruka. Ma questo cakra è
associato anche all'azione karmica (tib. Phrin-las) e al Buddha Amoghasiddhi. Nei testi sul
bar-do è definito per lo più sukhapala-cakra (tib. BDe-skyong 'khorlo). Qui la potente
divinità protettrice Vajrakila-Heruka vigila sulla sede origine della cupidigia (kama). Fra
questo cakra e il loro del cuore c'è il manipura-cakra, detto nirmanacakra (tib. sPrul-pa'i
'khor-lo). In esso, quale sede del merito karmico (scr. guna) e del Buddha Ratnasambhava,
appaiono le cinque "Dakini della sapienza" (tib. Ye-shes mkha'-'gro lnga).
Queste formano un loto a cinque petali o un esagramma con le cinque sillabe
germinali mantriche BAM, HA, RI, NI, SA. Al centro appare la Buddha-Dakini, bianca; a
est la Vajra-Dakini, azzurra; a sud la Ratina-Dakini, gialla; a ovest la Padma-Dakini, rossa;
e a nord la Karma-Dakini, verde. Sono divinità iniziatiche che nel simbolismo lamaistico
sono conosciute anche come emanazioni della Dakini tantrica Vajravarahi (tib. rDo-rje
phag-mo).
Nell'ultimo loto, il più basso, il sukhapala-cakra, appare Vajrakila o VajrakumaraHeruka, la potente divinità protettrice personale (tib. Yi-dam) color blu scuro. E' una
divinità con tre teste, sei braccia e quattro gambe, in piedi su un loro insieme alla sua
Prajna azzurra. Inoltre Vajrakumara ha le ali del garuda e porta la corona tantrica di
teschi. Nella prima coppia di mani ha un vajra a nove elementi (tib. rDo-rje rtse-dgu) e
una fiamma divampante; nella seconda coppia di mani ha un vajra e un lungo tridente;
con la terza coppia di mani regge il pugnale magico e contemporaneamente abbraccia la
sua Prajna. Il pugnale magico, detto anche vajra-pugnale (scr. vajrakila, tib. rDo-rje phurpa) è nel Tibet uno strumento importante nei riti tantrici. Ha per impugnatura un vajra e
una lama a tre tagli. La stessa divinità prende il nome da esso. Nel corso del rituale il
pugnale viene usato per scacciare e annientare simbolicamente gli esseri ostili e
demoniaci, in particolare gli spiriti-serpenti. Dato il suo significato, secondo il Libro
tibetano dei Morti nel sukhapala-cakra, i tre tagli della sua lama servono ad annientare i
"tre mali fondamentali" o "tre veleni" delle azioni umane che determinano il karma e
legano l'uomo al mondo materiale. I "tre veleni" (tib. Dug gsum) sono: ignoranza, odio e
passioni. Essi condizionano l'esistenza dell'uomo costringendolo a reincarnarsi nei mondi
della sofferenza finché soggiace alla cupidigia. Questa è la ragione per la quale in
corrispondenza del perineo, il cakra più basso di tutti appare una divinità protettrice
adirata, l'azzurra Vajrakumara, che ha il compito di preservare il karma dai tre errori
fondamentali. Esso è l'ultimo delle divinità del pantheon buddhista per le visioni del bardo, che coi loro significati simboleggiano l'intera presenza psichica e fisica dell'uomo.
3 DAI LIBRI DEI MORTI DELL'ANTICA RELIGIONE
TIBETANA PREBUDDHISTA BON
Dopo di che, il tuo cuore è una buia
valle; se non ti adoperi subito per far
nascere la luce esso accende entro di te
il fuoco dell'ira... e tu con la tua nascita
animalesche non puoi raggiungere le porte
del cielo.
J. Bohme: Aurora
Noi non abbiamo ancora una conoscenza completa delle dottrine dell'antica religione
tibetana bon, che nell'altopiano del Tibet era diffusa già prima dell'arrivo del buddhismo
dall'India. Naturalmente occorre fare distinzione fra le varie credenze popolari e la vera e
propria religione bon. Non possiamo infatti dire con sicurezza dove passava la linea di
demarcazione fra esse. Sappiamo solo, anche dalle testimonianze scritte dei re e di antichi
monaci, che, quando nel Tibet entrarono le dottrine buddhiste, a partire dal settimo
secolo, nel Paese esisteva questa religione, i cui seguaci si chiamano bon-po. Le credenze
popolari e le correnti religiose locali partono da concezioni dell'anima e dello spirito
profondamente diverse, basate su una immagine del mondo magico-mitica che annovera
elementi centro- asiatici e sciamanici. E` un contesto pluristratificato di idee eterogenee
sulla natura e la persistenza dell'anima dopo la morte, sulla sua migrazione attraverso i
mondi degli inferi e il suo ritorno nel mondo terreno, che è già diverso dalle dottrine della
religione Bon nella sua attuale concezione. I sistemi dottrinari della religione Bon che
conosciamo oggi, hanno una profondità spirituale, una struttura sistematica e una base
psicologica ed etica tali, che è praticamente impossibile distinguerli da quelli della
religione buddhista.
Però non sappiamo anche nel Tibet, nel corso dei secoli, attraverso una assimilazione
fra buddhismo e religione bon quest'ultima ha subito una trasformazione, ha accolto ed
integrato molte concezioni e classificazioni buddhiste. Per esempio la teoria buddhista del
mandala con la sua cosmologia e il suo noto simbolismo quintuplice è diventata una base
irrinunciabile sia del pantheon bon-po relativi al bar-do thos- grol. Naturalmente la
religione bon ha influenzato a sua fatta il buddhismo tibetano, gli ha trasmesso, per
esempio, il simbolismo dei "Nove Sistemi Dottrinari" (tib. Thegual- pa dgu). A noi qui non
interessa fare un confronto storico e scientifico-religioso (o filosofico) fra queste due
religioni; la problematica in materia è complessa ed ancora allo studio. Però possiamo
occuparsi del Libro tibetano dei morti della religione bon, che evidenza una notevole
analogia con la tradizione buddhista.
Se consideriamo che nell'antica religione tibetana bon esisteva la tradizione dei "gTerma", anche conosciuta nel buddhismo tibetano, e che i "GTer- ma" sono stati trovati dagli
antichi "scopritori di tesori", possiamo risalire a un'epoca molto lontana. L'opera sulle
divinità Naraka dei mondi del bar-do, tramandata dal Bon-po, Gter- ston 'Or-som phug-
pa (XII- XIII secolo), presenta una sorprendente somiglianza coi cicli Naraka degli scritti
buddhisti della classe na- rag dong- sprugs. Anche nei manoscritti più antichi,
probabilmente di 3 - 4 secoli, che ho sotto gli occhi, esiste già una classificazione
sistematica delle divinità del bar-do, nelle emanazioni pacifiche e di quelle adirate, dei sei
mondi esistenziali della rinascita e dei sei Buddha della ruota della vita che, anche se sotto
altro nome, rivelano immediatamente un'affinità con la tradizione buddhista. La presenza
dei principi buddhisti nella religione Bon è particolarmente evidente nel suo simbolismo:
sia in quello dei mandala che in quello, elementare e psicologico, dei cinque skanda, delle
cinque saggezze e dei cinque "veleni", dove essi vengono usati in gran parte per
esprimere addirittura gli stessi concetti. Vien fatto di pensare che entrambi i sistemi
abbiano un'origine extratibetana. Per il buddhismo del resto essa è già stata dimostrata.
Le notizie storiche fanno supporre che la religione bon sia penetrata nel Paese dalla sua
parte Occidentale o forse anche dai paesi al di là dei suoi confini Occidentali (dal Kashmir
fino all'Iran). Anche Agosto Shen- rab myi-bo, il grande fondatore o riorganizzatore della
dottrina bon, sarebbe entrato nel Tibet dall'area Occidentale, dai territori dell'Himalaya
Occidentale.
La sua storicità è nascosta dietro meravigliose leggende, come quella di
Padmasambhava, per il quale però, almeno per i brevi anni della sua permanenza nel
Tibet, possiamo stabilire un ordine cronologico. La dottrina di gShen- rab esercitò un
influsso enorme, presero il suo nome (gShen), che esprime anche il concetto di dottrina,
molte cose e molti stadi di fenomeni religiosi o spirituali.
Ma ritorniamo al Libro tibetano dei morti della religione bon. Non è stato ancora
tradotto, né esistono opere tradotte sull'argomento, però esistono fonti tibetane alle quali
possiamo attingere. Il più conosciuto Libro tibetano dei morti dei bon-po è il Bar-do thosgrol, gsal- sgron chen - mo, un'opera che presenta numerose analogie con la versione
buddhista. Potremmo anche dire che, a parte i diversi simboli e le diverse divinità, che più
che altro differiscono nel commercio e nei nomi e hanno forme individuali, il contenuto
del Libro dei morti dei bon-po è parallelo a quello della tradizione buddhista. Le cose in
realtà non sono semplici come questo parallelismo farebbe pensare. Tuttavia per il lettore,
data la stretta analogia fra le due religioni, è sempre utile tener presente, nelle
rappresentazioni che seguono, lo schema delle visioni buddhiste del bar-do.
Più sotto descriveremo le divinità pacifiche ed adirate contemplate da alcune dottrine
del bar-do della religione bon e il relativo simbolismo, tuttavia non scenderemo nei
particolari. Una trattazione del genere esulerebbe dal quadro del presente libro e, data la
complicata sistematica dei simboli, dei colori, degli attributi e delle principali divinità
della religione bon, potrebbe creare confusione nella mente del lettore.
Possiamo partire da alcuni presupposti fondamentali, che in linea di principio sono
uguali nelle due religioni. Si tratta delle descrizioni del trapasso, del passaggio della
coscienza attraverso gli elementi e delle fasi in cui è suddiviso il bar-do. Anche nella
tradizione bon-po troviamo un Chi- kha i bar-do, il Chos- nyid bardo e lo Srid- pai bardo.
Il numero delle divinità rappresentate nelle visioni è in parte maggiore. La suddivisione in
divinità pacifiche ed adirate con aspetti maschile e femminile, le Dakini, i Buddha e le
divinità e gli Heruka teriomorfi sono concetti del Libro dei Morti che sono affini nelle due
religioni.
A LE DIVINITA` PACIFICHE
All'inizio troviamo anche qui una formula di invocazione triplice: Viene invocato: "Lha bon gshen dang gsum la phyag- tshal lo". Così la suprema Trinità della religione bon
definisce il Libemo dei morti bon-po: "Presso le divinità, la dottrina bon e il fondatore,
gShenrab, io prendo rifugio!" Mentre nel Libro dei morti buddhista origine trascendente
ed assoluta nell'Adibudddha Samantabhadra è la pura sfera del di modo charma, in
quello della religione bon la sua origine è "la sfera a svastica (tib. gYung- drung- gi
dbyings) dell'immutabile bon (tib. bi- gyur Bon-nyid)", dal cui "spazio celeste irradiante la
luce della sapienza" emerge, quale prima figura, Samantabhadra (tib. mNga'-bdag kun-tu
bzang-po), la suprema divinità. Fatto interessante, il Samantabhadra blu è la divinità
suprema sia per la religione bon che per l'antica setta tibetana non riformata dei rNying ma - pa. Samantabhadra è la perfetta incarnazione della realtà bon e comprende tutti e tre
e mondi e i Buddha e gli esseri del mondo. Dalla sfera bon assoluta, che si concretizza nel
Samantabhadra blu sotto forma del vero bon (tib- Bon- sku), splende (nel suo centro
cardiaco) la chiara luce della suprema coscienza della sapienza. Da questa luce emergono,
sviluppando luminosi mandala, tutte le divinità, pacifiche ed adirate (tib. Zhi-khro lhatshogs) del Libro dei morti bon-po, che appaiono per lavare tutte le macchie ed eliminare
tutti gli impedimenti che ostacolano la via del bar-do. Secondo la tradizione sNyan- rgyud
del Bar-do thos- grol emerge per primo dalla radianza e dal vuoto di Dio gShen"Bianca
Luce" (tib- gShen- lha od- dkar) su un prezioso trono di loto fatto di sole e luna. E` bianco
e ha entrambe le mani abbassate, la sinistra in grembo, atteggiate nel dhyanamudra (gesto
della meditazione). E` abbigliato ed ingioiellato come un re perché ha assunto l'aspetto del
sambhogakaya. Dalla più interna essenza spirituale (tib- sems- nyid ngo-bo) del suo
centro cardiaco emana la biancolucente sillaba mantrica A, che è la formula germinale più
importante della religione bon. Questa sillaba dà origine alla quintuplice radiazione delle
luci elementari della sapienza, e da queste prendono forma le divinità pacifiche ed adirate
delle visioni del bar-do. Secondo noi la svastica è un simbolo (tib. GYung- drung)
essenziale della religione bon. E` la croce uncinata orientata verso sinistra che si trova
come emblema sul trono delle divinità, e che il divino fondatore del Bon, gShen- rab myibo, regge con la mano destra come scettro. Anche la dottrina buddhista conosce la
svastica, però in essa è orientata nel senso inverso, verso destra. Nel buddhismo e nella
religione bon troviamo anche altri simboli uguali che si differenziano solo perché nel
buddhismo sono orientati verso destra, nella religione bon verso sinistra.
Questo riguarda anche la simbolica del mandala che per i bon-po va letta nel senso
inverso. Dal centro si passa ad oriente (in basso) e poi si raggiunge il sud (a sinistra)
passando per il nord (a destra). Anche il giro che si compie intorno agli stupa e ad altri
luoghi sacri per la religione bon deve procedere verso sinistra, mentre per il buddhismo
deve procedere verso destra.
Dopo gShen- lha od- dkar, che, quale incarnazione della Luce Bianca, ha dato inizio alle
visioni del bar-do, appare la complessa figura della divinità pacifica rGyal-ba 'dus-pa,
emanazione di Samantabhadra. Si manifesta al centro di un'azzurra sfera celeste, seduto
su un loto sorretto dai seguenti animali simbolici: leone, elefante, cavallo, drago e garuda.
Il drago è associato alle divinità solo nelle immagini bon-po. rGyal- ba dus- pa ha un
corpo bianco che risplende di una luce cristallina. Ha cinque teste e dieci braccia e porta
gli ornamenti del sambhogakaga. Le sue cinque facce sono una bianca, una gialla, una
rossa, una verde e una azzurra. Con la prima coppia di mani regge il sole e la luna; con la
seconda il segno della vittoria e l'arco con la freccia; con la terza la svastica e il laccio; e con
la quarta il cakra e l'uncino di ferro. Le altre due mani sono libere. rGyal- ba dus- pa è il
sovrano del mandala delle divinità pacifiche e nello schema delle emanazioni delle
divinità del bar-do occupa una posizione analoga a quella del Buddha vajrasattva.
Quando assume l'aspetto di divinità adirata rGyal- ba dus- pa assume le sembianze della
potente divinità protettrice dBal-gsas.
Dopo di lui appare sul trono col drago, sopra il loto formato dal sole e dalla luna, la
divinità color indaco Khri bzhi nams- ting (o Khri - bzhi nam bting rig-pa'i lha), che
splende nell'immutabile corpo della propria conoscenza, che è bianco. E` congiunto in
mantrica unità polare con la sua Dakini Thugs-rje byams-ma, conosciuta anche col nome
di Srid- pa i rgyal-mo. Khri-bzhi nams-ting ha quattro facce rivolte verso i quattro punti
cardinali. Con la sua figura indica già la formazione del mandala cosmico da parte dei
cinque bDe -shegs Thugs-kyi lha. E` bianco ed indossa una veste chiara come il cristallo;
nella mano destra ha un cakra, nella sinistra il laccio. Thugs-kyi lha, La divinità
dell'essenza spirituale nel cuore, è congiunta in tantrica unione con la Dakini Nam mkha il
ha - mo, la celeste dea definita anche "Grande Madre della Sapienza" (tib. Shes rab yumchen. Grazie alla comparsa di questa divinità scompare il vizio dell'odio (tib. Zhe-sdang) e
viene annunciata la sapienza del vuoto (tib. sTong- nyid ye - shes).
Nella regione orientale del mandala appare su un trono con l'elefante la divinità sKu - i
lha, associata al piano della fisicità. SKu i al ha è giallo, porta una veste gialla ed è
congiunto in mistica unione con la sua Dakini Sa - yi lha - mo, la dea dell'elemento terra.
Insegna il superamento dell'ignoranza con la sapienza dello specchio (tib. Me long ye shes). Poi nella regione settentrionale del mandala appare, su un loto fatto di sole e luna e
sorretto da un cavallo, Yon- tan, che è verde ed indossa una veste color indaco. E`
congiunto un mistica unione con la Dakini rLung gi lha - mo. Yon- tan lha aiuta a vincere
la superbia e simboleggia la sapienza dell'uguaglianza (tib. mNyam nyid ye - shes). Nella
regione Occidentale del mandala troviamo il rosso Tathagata gSung- gi lha su un trono col
drago. Porta una veste rossa ed è congiunto con la Dakini me i lha - mo, la dea
dell'elemento fuoco. gSung- gi lha è associato al piano della parola pura ed appare per
aiutare il defunto a vincere le passioni, infatti simboleggia la sapienza della Chiara Visione
(tib. Sor- rtogs ye - shes). Nella regione meridionale del mandala appare la quinta divinità,
il quinto Bon-po Tathagata, l'azzurro Phrin- las lha, sul piano del compimento delle azioni
karmiche. Indossa una veste tempestata di pietre preziose ed è congiunto in tantrica
unione con la sua Dakini Chu - yi lha - mo, che governa l'elemento acqua. Phrin- las lha
aiuta a superare l'avarizia e l'invidia e simboleggia la sapienza del compimento delle
azioni karmiche (tib. bya - grupbye - shes).
Il simbolismo dei cinque Tathagata del mandala delle divinità pacifiche degli scritti
bon-po è molto simile a quello dei libri dei morti buddhisti. Anche la dottrina bon
contempla i cinque Tathagata con le loro Dakini, i cinque elementi, i cinque vizi capitali, i
cinque gruppi della personalità (tib. Phung- Po lnga) e le cinque sapienze che, salvo la
sapienza del fuoco, sono identiche alle sapienze buddhiste. Naturalmente anche il
simbolismo dei colori del mandala bon-po delle divinità pacifiche è in fondo uguale a
quello dei mandala buddhisti. Il rapporto con i colori e gli elementi è diverso solo perché
il mandala bon-po si svolge nel senso inverso. Le Dakini dei Tathagata rappresentano i
cinque elementi (tib. Byungba lnga) e hanno lo stesso colore. Non entreremo nel merito di
tutti i dettagli delle divinità del Libro dei Morti della religione bon, in quanto per capire in
che modo si svolgevano le iniziazioni alle visioni del bar-do nell'antica religione tibetana
bon è sufficiente sapere quanto è già stato reso noto. Ma nel rituale funebre bon-po si
usava anche lo stesso tipo di cartoncini iniziatici, gli zhi- khro tsa kali li. Nella religione
bon essi hanno lo stesso nome, sono suddivisi in gruppi e rappresentano tutte le divinità
dei cicli pacifico ed adirato, compresi i loro attributi e i loro simboli.
Dopo il primo mandala si manifestano gli otto Ye - Gshen semsdpa e le loro Dakini, le
Ye - sangs lcam- Yum. Ci ricordano il gruppo degli otto Bodhisattva e rispettive Dakini,
che insieme formano un gruppo di sedici, divinità, del Libro dei morti buddhista. Gli Ye gshen sems- dpa hanno gli stessi compiti dei bodhisattva buddhisti, anch'essi sono
associati alle otto forme di coscienza e rispettive funzioni. Gli Ye gshen sems- dpe con la
loro Dakini sono gli accompagnatori dei cinque Tathagata.
In un altro testo delle tradizione bon-po, che illustra il significato delle sei dimensioni
dell'incarnazione, troviamo anche un'altra interessante informazione sul rapporto fra lo
spirito e i cinque difetti fondamentali legato alla struttura psicofisica del corpo umano.
Secondo questa tesi, dall'incontro fra lo spirito e l'etere nasce l'odio, dall'incontro fra il
respiro (o energia prana) e lo spirito nasce la superbia, dall'incontro fra lo spirito e il calore
nasce l'invidia, dall'unione dello spirito col sangue nascono le passioni e dall'unione dello
spirito con la carne nasce l'ignoranza.
Anche il Libro tibetano dei morti bon-po conosce, come quello buddhista, i sei regni
esistenziali nei quali si può rinascere in conseguenza del karma. Sono: il mondo degli
esseri infernali, il mondo dei preta, il mondo degli animali, quello dei semidei (o titani ),
quello degli dei e quello degli uomini. Nel terrificante mondo degli inferi esiste il Dio dei
morti, lo Yama Khram thogs rgyal - Po. Però in ciascuno di questi sei mondi esistenziali
appare una figura salvifica che insegna la dottrina della liberazione dal dolore. Ogni
esistenza è solo uno stato (intermedio) di passaggio in uno dei sei mondi esistenziali (tib.
Rigs drug bar-do). Per illustrare le sei dimensioni esistenziali appare il maestro stesso,
gShen rab, nelle sembianze dei sei Buddha, sue emanazioni. I sei Buddha della tradizione
bon-po. (tib. Dul- gshen drug) hanno lo stesso aspetto di quelli buddhisti. Sono diversi
solo i colori e gli attributi. Le sei emanazioni di gshen - rab visitano i mondi
dell'incarnazione per liberare gli esseri che vi dimorano dagli errori dei "cinque veleni"
(tib. Dug lng). Quindi hanno lo stesso compito di purificazione morale che il Libro dei
morti buddhista attribuisce al Bodhisattva della grande compassione Avalokitesvara.
Il Buddha bianco Ye - gshen gtsug phud (o il lha - gi gshen- rab) appare nel regno degli
esseri i divini in una luce bianca, emergendo dalla sillaba mantrica A, che nasce dal centro
della fronte. Ye - gshen gtsug-phud insegna agli esseri che dimorano nel transitorio regno
(cielo) degli dei a vIncere tutti e cinque i mali ed ostacoli.
Il Buddha azzurro lCe-rgyal par-ti (o Lha - min gshen rab) appare nel regno dei
bellicosi titani in una luce verde, emergendo dalla sillaba mantrica Su che nasce dal centro
della gola. Il Buddha azzurro insegna a vincere la superbia e l'egoismo. Il Buddha blu
gSang- ba dus- pa (o Mi i gshen- rab) appare nel regno degli uomini in una luce rossa,
emergendo dalla sillaba RNI che nasce dal centro del cuore, per abbattere gli ostacoli
dell'invidia. Il Buddha verde Ti - sangs rang-zhi appare nel mondo degli animali in una
luce azzurra, emergendo dal loto del centro ombelicale, per sgominare l'ignoranza. Il
Buddha bianco Ma - cho ldem drug appare nel regno dei preta, eternamente affamati ed
assetati, in una luce ossa, emergendo dal loto del perineo per spegnere le passioni e le
brame di questi esseri. Il Buddha viola gsang - ba ngang-ring.(tib. dHimalayal- ba i
gshenrab) appare nel sesto mondo, dove dimorano gli esseri sottoposti alle torture
infernali, in una luce color nero fumo, emergendo dal loto della pianta del piede per
eliminare il male dell'odio.
Queste sono le sei emanazioni di gShen- rab che scendono nei mondi della sofferenza a
scopo salvifico.
Come nella tradizione buddhista, anche nella tradizione bon- po Gshen - rab, oltre alle
sei emanazioni, invia nel mandala delle divinità pacifiche i quattro custodi delle porte del
mandala e le loro consorti. Le quattro consorti dei custodi delle porte (tib. Dus bzhi rgyal mo) "le dee dei quattro tempi. Hanno ciascuna uno dei quattro colori dei mandala e hanno
nelle mani attributi diversi. Esse chiudono la serie delle divinità pacifiche dei primi sette
giorni delle visioni del bar-do, che insieme formano un gruppo di almeno 42 divinità.
B LE DIVINITA` ADIRATE
Le emanazioni adirate di Samatabhadra, lo rGyalba dus- pa con cinque teste, i cinque bonpo Tathagata e le altre divinità appaiono nello stesso ordine e nella stessa disposizione
delle divinità pacifiche delle visioni del bar-do. E` lo stesso schema degli aspetti pacifici
del loto del cuore e delle apparizioni adirate del proprio pensiero di cui parla il Libro
tibetano dei Morti buddhista.
Perciò qui menzioneremo schematicamente e brevemente solo le figure più importanti
dei mandala bon descritte nel Bar-do thos- grol e nel Na- rag pang- gong rgyal Po. Una
illustrazione più completa esulerebbe dallo scopo della nostra rappresentazione.
Dalla sfera della realtà bon, che si forma con forza in un grande spazio nel quale
divampano alte fiamme, appare, per primo, dbalgsas rngam- pa khro - rgyal (pronuncia:
Balsengampa - togyal), la suprema divinità terrificante, in mistica unione con la sua
Dakini rngam - mo bde - gro yum. L'adirato dbal-gsas è blu nero, ha nove facce
dall'espressione terrorizzante, diciotto braccia e quattro gambe. Ha nelle mani diversi
attributi ed armi. La sua Dakini è verde - nera dBal- gsas è l'emanazione adirata di rGyalba dus- pa ed incarna l'aspetto kaya nel trikaya.
Segue il potente Khro - bo lha rgod thog- pa, emanazione terrificante del pacifico Khri bzhi nams ting, che ha quattro teste, sul piano adirato dell'aspetto vac (sambhogakaya). E`
blu scuro, ha quattro teste ed otto braccia. La sua Dakini è la dea Srid- pa i rgyal - glo (o
sNang srid kun grags dbang- mo), nero - verdastra, dalle cento teste e mille braccia.
Nell'osservare le divinità adirate della religione bon e quelle del Libri dei morti buddhisti
dobbiamo tener presente che le divinità emanate dal principio cosciente assumono
dimensioni enormi, che sono "diciotto volte più grandi" del monte cosmico Sumeru e di
altre grandezze simboliche. Questo sta a significare che il terrore personificato nelle
divinità minacciose ed avvolte dalle fiamme supera ogni capacità di immaginazione. E`
con questa intensità, in questa misura che nello spazio non - fisico dopo la morte nel bardo vengono percepite le forze che emanano dalle divinità adirate con tante teste, tante
braccia e tante gambe.
Dopo i due terrificanti sovrani delle divinità demoniache il mandala dei cinque
Tathagata - heruka si sviluppa sui piani: citta, kaya, guna, vac e karma. Gli Heruka hanno
tutti e cinque tre teste, sei braccia e quattro gambe e sono congiunti in tantrica unione con
le loro Dakini. Hanno tutti tre occhi e una capigliatura ondeggiante. Nelle mani hanno
armi e strumenti di distruzione di vario genere. Portano collane di serpenti e teschi;
intorno ai fianchi hanno pelli di tigre e di leopardo.
Dopo gli Heruka dei tathagata, che insieme formano un gruppo di sette divinità
adirate, appaiono le emanazioni adirate corrispondenti agli otto ye - gshen sems- dpa e
alle loro Dakini. Sono gli otto Ha - la khro bo e rispettive Dakini (tib. Yum - chen khro mo brgyad). Ad essi seguono i quattro custodi adirati delle porte del mandala con le loro
Dakini. Ed infine appare di nuovo un folto gruppo di figure teriomorfe, le 28 divinità
disposte in quattro gruppi di sette elementi ciascuno, nelle quattro regioni cosmiche (tib.
dpal- mo nyi - shu rtsa brgyad). Questo comunque è solo un quadro generale delle
divinità del bar-do corrispondenti ai raggruppamenti buddhisti del Libro dei morti. I vari
testi bon- po menzionano anche altre divinità, dei cicli pacifico ed adirato, per esempio, le
quattro divinità del karma, che assumono le sembianze del Buddha con una patra in
mano. Non entreremo in ulteriori dettagli in quanto già una rapida scorsa al Libro dei
Morti della religione bon ci permette di constatare la grande affinità fra queste due
religioni tibetane per quanto concerne le visioni postmortali. Passiamo ora a
considerazioni generali comparate.
IV
Psiche e coscienza
La cosa più effimera,
se ci tocca veramente,
risveglia in noi sensazioni
indimenticabili.
Fr. Hebbel: Diari
Chi ha letto i testi del Libro tibetano dei morti si chiederà giustamente: Ma cosa è che
rinasce, la coscienza o l'intera anima? In questo capitolo non ci possiamo nemmeno
avvicinare alla soluzione di questo problema anche perché di anima e coscienza è stata
data un'infinità di definizioni che si integrano e si influenzano reciprocamente. La filosofia
teoretica e le religioni si sono occupate per millenni di questo problema, oggi se ne occupa
la psicologia e domani gli studiosi forniranno nuove conoscente allo scopo di chiarirlo.
Noi qui, in questo capitolo e in quelli che seguono, intendiamo unicamente aiutare il
lettore a capire e porre l'accento sul significato filosofico ed escatologico dei libri tibetani
dei morti illustrando anche il pensiero e le esperienze di altre culture. Ci proponiamo di
facilitarne la comprensione integrando gli enunciati del Libro tibetano dei morti con i
contributi di scritti analoghi. Solo l'occhio della mente di grandi pensatori di altre culture
e il patrimonio di esperienze di altre religioni sui problemi dell'anima, della coscienza,
della vita e della morte, consentono di apprezzare maggiormente un'opera essenziale e
per noi Europei così singolare qual è il Libro tibetano dei morti.
Lo studio comparato dei modi in cui questo problema è stato affrontato, ci fa capire che
il Libro tibetano dei morti è una pregevole opera sul significato della vita, che i suoi
pensieri ci sono molto più vicini di quanto supponessimo perché tratta dell'Essere e nel
Non - essere, di ciò che è realmente Transitorio e di Ciò che Non lo E`. Non intendiamo
esprimere valutazioni inconfutabili, ma abbiamo acquistato una certezza: la certezza che il
Libro tibetano dei morti è una guida di prim'ordine che ha la capacità di aprire le porte
della trascendenza.
Le idee sull'anima e sulla coscienza costituiscono già di per sé un sistema complesso
perché hanno due diverse origini. Secondo quelle derivanti dalla religione popolare,
l'antica religione tibetana bon, esiste un principio animico o un'anima che si è formata
attraverso e col contributo di una triplice funizzazione: La parola Bla esprime il concetto
di anima quale anima individuale, che però è costituita da elementi o parti: una energetica
e una pneumatica. La parte energetica è Sgrog, l'energia vitale; la parte pneumatica, o
anima vitale, è il respiro (scr. prana, tib. dBugs). Sono ancora vive antiche concezioni dei
tempi magico - mitici del Tibet in cui si immagina che l'anima (tib. bla) corra il pericolo di
cadere nelle grinfie dei demoni della malattia, che la possono perfino rapire, per cui è
necessario sottrarla a questi demoni mediante particolari rituali. Questi esseri pericolosi
sono soprattutto i Dre, i Lha, i demoni serpenti (tib. klu) o gli Spiriti Yaksa ed altri.
Con la morte cessa l'attività della forza vitale e dell'energia psichica, per cui l'anima
erra qua e là. Però può sostare per qualche tempo in ogni oggetto, e può essere raggiunta,
attraverso i luoghi in cui sosta, nella preghiera. Questi "oggetti" rappresentano l'origine
degli sByang- bu, i cartoncini con l'immagine del defunto nei quali, secondo il Libro
tibetano dei morti, il defunto può sostare per qualche tempo per ascoltare gli
insegnamenti dei monaci.
Naturalmente a queste antiche idee dell'anima si sono sovrapposte da lungo tempo
quelle del Buddhismo il quale - come si legge nel Libro tibetano dei morti - nega
l'esistenza di un'anima personale. Secondo il buddhismo, quello che sopravvive alla morte
fisica è il principio cosciente (scr. vijnana, tib. rNam - shes) o qualcosa di specificamente
spirituale (tib. Ydid- kyi lus) come corpo spirituale. Compito del Libro dei morti è quello
di tramutare il corpo spirituale gravato da macchie in coscienza pura (purificata) e dotata
di conoscenza (tib. Ye - shes lus o anche rDo - rje lus). Un'altra importantissima
esperienza, di cui abbiamo già parlato, è quella della "Chiara Luce" coscienza percepisce
nel momento stesso della morte. E` un momento estremamente importante dell'esperienza
spirituale. Processi conoscitivi e "illuminazioni" possono trasformare il principio
energetico spirituale (tib. Sems) in saggezza (tib. Ye - shes). La saggezza è un' "alta forma"
pura dello spirito, e in quanto chiara presenza della coscienza, è chiara luce, ha natura
luminosa. Nelle visioni del Libro tibetano dei morti la luminosità delle apparizioni divine
ha un ruolo importante. Tutte le divinità delle visioni scaturiscono da un radiose fascio di
luce di cinque colori. Questa sorgente luminosa è la luce del proprio spirito che la
conoscenza e il sapere tramutano in pura radianza. All'inizio tutte le divinità scaturiscono
dalla medesima luce radiante delle cinque saggezze (tib. Ye - shes - lnga), dalla luce del
proprio spirito e formano una figura. Poiché sono figure divine, emergendo dal profondo
della coscienza universale (tib. Kun- gzhi rnam - shes) si manifestano nei duplici aspetti
del numinoso. In realtà tutte le visioni del bardo sono fittizie. Nascono dal vuoto e
corrispondono ad altrettanti modi di essere, o condizioni della coscienza. Nello spazio
immateriale la coscienza percepisce le varie immagini delle visioni in conformità del
proprio stato, della propria strutturazione karmica. Quindi per il tibetano buddhisa non
esiste un'anima personale errante dopo la morte destinata a reincarnarsi, ma dopo la
morte, la coscienza forma un corpo cosciente e sensibile ed erra attraverso il bar-do
sperimentando le varie fasi della catarsi sotto forma di immagini. La via del bar-do è
determinata dalle azioni karmiche della vita precedente e dalla capacità della coscienza di
giungere a sublimazione e all'onnipresenza. Consentono di arrivare a questa meta lo yoga
tibetano e i vari sistemi di educazione dello spirito, per esempio la dottrina del "grande
simbolo" scr. mahamudra) e le dottrine del Libro tibetano dei morti che compendiano
molte conoscenze.
Ora, mentre il seguace del buddhismo mahayana in India e nel Tibet fino in Cina e in
Giappone parla di trasmigrazione e di illuminazione della coscienza, di liberazione della
coscienza dai legami col mondo terreno apportatore di sofferenza, altri popoli ed altre
culture parlano di trasformazioni dell'anima. Questa spiegazione è una generalizzazione
grossolana della problematica, però nella sostanza è giusta.
Quindi si tratta sempre degli stessi eterni problemi dell'anima, della vita e della morte,
con la differenza che la tematica viene affrontata partendo dal concetto Occidentale di
anima. Però i fenomeni e il significato dell'esistenza e della possibile trasmigrazione dopo
la morte vengono descritti in modo molto simile o uguale. Tra i filosofi greci è Platone a
stabilire paragoni calzanti della struttura dell'anima e tutti gli esempi che daremo più
sotto sono collegabili, su un piano psichico corrispondente, con la problematica
psicologica del Libro tibetano dei morti. Platone paragona l'anima a una coppia di cavalli
che tirano un carro e dice: "Inoltre dei due cavalli uno è buono e di tale natura, l'altro
invece è di origine e natura opposta. Per questo per noi è difficile e faticoso guidarli. Qui
Platone segnala la duplice struttura della psiche di cui parla il Libro tibetano dei morti
quando descrive la natura delle divinità pacifiche ed adirate. Ma il riferimento risulta
ancora più chiaro nel seguente passo di Platone: "Come, non è evidente che nell'anima il
giudizio fa a pugni con la cupidigia, i sentimenti coi desideri, la ragione con la
sconsideratezza e tutte queste cose contrastano fra loro negli uomini inetti?" Per questo
Ermete Trismegisto enuncia: "Ma l'anima dell'uomo è demoniaca e divina". La
constatazione della polarità è dell'antinomia dell'anima e dell'autoesperienza psichica è
patrimonio di tutti. In base a tali enunciazioni si potrebbe istituire una fenomenologia
comparata dell'anima che integrerebbe validamente la psicologia del Libro tibetano dei
morti.
Platone accenna anche ai rapporti fra corpo ed anima da un lato e fra la loro unità e il
mondo dall'altro. Osservazioni molto simili alla nozione buddhista della struttura
fondamentalmente dolorosa dell'esistenza. "Infatti il corpo ci disturba in mille modi...
Genera inquietudine, ci affligge e ci confonde. Sicchè per causa sua non riusciamo a
riconoscere il vero. Perciò è evidente che se vogliamo avere una visione chiara delle cose
dobbiamo staccarci da esso e guardare ad esse direttamente con l'anima". Come vediamo,
non si tratta di un rifiuto del mondo per mera negazione ed unilaterale introversione, ma come sostiene la dottrina buddhista - di salvare un punto di vista superiore che in questo
mondo della sofferenza non è reperibile finchè si è legati ad esso fisicamente e
psichicamente. Sciogliere questi legami significa liberarsi da ogni vincolo. Solo questa
liberazione permette di conoscere la natura non solo delle cose ma anche della
trascendenza.
In fondo, quella che dobbiamo conoscere, quella che abitualmente definiamo una "via
in salita", è una via che conduce verso l'interno; la via che intensificando le facoltà della
coscienza porta alla conoscenza dell'Io, alla autoconoscenza e - in una visione religiosa - al
divino o all'assoluto. Il Libro tibetano dei morti definisce la via dell'ignoranza "il
sentimento in discesa" che porta nel baratro dei tormenti infernali, nelle tenebre e alla
reincarnazione. Mentre definisce la via della conoscenza, compenetrazione ed unione
della coscienza con la meta della liberazione o di uno stato divino. Il mondo asiatico
equipara la conoscenza alla luce e l'ignoranza alle tenebre. Esprime con questi vocaboli i
due stati opposti della coscienza. Nella Chandogya - Upanisad si legge: "Percependo al di
là delle tenebre la luce suprema, la nostra luce, raggiungiamo la radiosa divina sorgente
dell'energia, il sole, luce suprema". In base a questo simbolismo antinomico, la via che
conduce l'anima o la coscienza verso la luce è definita divina, quella della trasformazione
terrena del corpo è definita via della morte e della transitorietà. L'uomo è partecipe sia di
una trascendenza, che lo eleva al di sopra di se stesso, sia di una transitoria esistenza
terrena o - come dice Platone -: "L'anima è uguale al divino e il corpo al mortale".
Quindi presso tutte le culture l'ignoranza è equiparata alle tenebre, la conoscenza alla
luce. E` un simbolismo tipicamente psicologico connaturato a tutte le lingue dei popoli
civilizzati. Infatti acquisizione di luce, o illuminazione, o conoscenza, significa
acquisizione di consapevolezza di eventi precedentemente ignorati, di contenuti
sconosciuti che le religioni indiane definiscono non - scienza o ignoranza. Già nei miti
cosmogonici e teogonici delle culture più antiche troviamo l'antinomico simbolismo di
luce e tenebre all'inizio della creazione, l'antinomia che contrappone la totale non - scienza
alla perfetta conoscenza. Una delle importanti Upanisad indiane definisce la coscienza
come segue: "La cosa che è ancora superiore a questo (universo) non ha forma ed è priva
di pecche. Coloro che lo sanno diventano immortali, mentre gli altri entrano nella
sofferenza (cioè si reincarnano)". Il sapere è definito: via dell'immortalità - una definizione
tipicamente indiana -; mentre l'ignoranza è causa di sofferenze fisiche e psichiche e porta
alla reincarnazione. Finché esiste ignoranza si produce karma, il quale ostacola la via della
liberazione. Nella Svetasvatara - Upanisad è detto inoltre: "Due cose, il sapere e il non sapere, sono allogate nell'immutabile, infinito castello di Brahman, dove sono nascoste. Il
non - sapere è il transitorio (mutevole), il sapere è l'immortale. Però colui che governa il
sapere e il non - sapere è un altro".
Il sapere puro come conoscenza e il sapere intellettuale, quali forme/figure dello
spirito, sono due cose distinte; il tibetano direbbe: il sapere puro è nel cuore, il sapere
intellettuale è nella testa. E` una conoscenza integrata, confermata dalla vita e che governa
la vita. Mentre il sapere intellettuale che forma e configura le cose, è rivolto agli oggetti del
transitorio. Sia le filosofie Occidentali più avanzate sia, per esempio, il grande pensatore
cristiano Nikolaus von Cues, ravvisano strutture del pensiero molto simili, che a loro volta
ci rimandano al problema centrale del sapere e non - sapere, della vita e della morte. "La
beatitudine suprema è la visione spirituale dell'onnipotente stesso, è soddisfacimento del
nostro anelito alla conoscenza. Perciò una ragione che pur sapendo tutto non sa nulla
soffrirà nell'ombra della morte per l'eterna privazione". Si tratta della ricerca delle "nobili
forze che sono nell'anima, di quelle inferiori e di quelle superiori "di cui parla il mistico
Eckehart. Eckehart parla anche della dipendenza della struttura psichica dai cinque sensi,
che corrispondono ai cinque skandha, o componenti della personalità umana, nel
buddhismo. Infatti "in ogni uomo esistono due persone. Una esterna, e questo è l'uomo
della materialità che ha bisogno dei cinque sensi attraverso i quali operano le forze
dell'anima. Una interna, e questo è l'uomo dell'interiorità". Però, nei confronti del mondo
esterno il problema più importante è quello dell'adeguamento psichico ad esso. Giusta via
della realizzazione non può essere né l'orientamento unilaterale verso il mondo esterno né
la "regressio" a una esclusiva interiorità. Anzitutto nei tantra indiani e poi, nel buddhismo,
la filosofia della "via di mezzo scr. madhyamica) di Nagarjuna indica i metodi per
compiere il processo di adeguamento psichico ai due mondi, che dev'essere un
adeguamento consapevole. Infatti secondo la concezione tantrica la redenzione in virtù
della conoscenza della realtà è dunque sia attraverso il corpo che attraverso lo spirito. Vale
a dire deve partecipare al processo di trasformazione e purificazione l'essere umano nella
sua totalità. Chi crede di non essere di questo mondo è soltanto di quello. E chi crede di
trovare la sua salvezza soltanto in questo mondo non conosce tutti i mondi trascendenti
dell'essere. "L'anima diventa pura se viene liberata da una vita che è divisa ed entra in una
vita che è intera, nell'unione". La cosiddetta unione è contemplata da tutte le grandi
dottrine dello yoga indiano, è al centro dell'atiyoga tibetano, delle dottrine del "Grande
Simbolo" (scr. mahamudra) e rappresenta lo stato originario del momento del trapasso
(inizio della morte) nel Chi kha i bardo, dove la luce unica di tutti i Buddha appare alla
coscienza sotto forma di una "Chiara Luce Bianca". Ma anche alla fine del quottardicesimo
giorno delle visioni del bardo il testo che viene letto alla coscienza del defunto dice:
"adesso la luce unificata di tutte le divinità pacifiche ed adirate illumina colui che erra nel
bar-do". Questa unica luce, radiazione della conoscenza pura o coscienza presente nella
sua interezza, segnala simbolicamente la spontanea funzione globale di una struttura
psichica globale che il mistico aveva il dono di poter percepire nella vita. Questa luce non
è una luce oggettiva, non è una sorgente luminosa esterna ma una luce estremamente
soggettiva, un'esperienza interna della coscienza. La Chandogya, Upanisad esprime il
concetto come segue: "Ma solo la luce che dai là del cielo illumina la schiena di tutti, la
schiena di ognuno, nei mondi superiori, nei mondi più alti di tutti, è sicuramente la luce
che è dentro l'uomo" (III, 13, 7).
Gli antichi Egizi consideravano la Terra una valle di lacrime dell'umana sofferenza di
natura transitoria, e la morte l'occasione per progredire, perché grazie ad essa l'individuo
poteva entrare nella "piena luce del giorno". Nel momento in cui l'individuo varca la
soglia della morte Ra, il Dio del sole, illumina coi suoi raggi le tenebre del Regno dei morti
e il morto entra nella piena luce del giorno. Come vediamo, l'analogia col simbolismo
psicologico della "Chiara Luce", che appare nel momento stesso del trapasso (di cui parla
il Libro tibetano dei morti), è strettissima. I presupposti dell'esperienza di luce sono del
tutto diversi, però fenomenologicamente risultano uguali. Un altro passo degli scritti
egiziani sulla morte ci dà la seguente versione: "O misterioso regno del silenzio ... che
forma le figure nel regno di mezzo, lascia udire NN, fà che veda il Sole e si rallegri al
cospetto del grande Dio... fà che io lodi la luce del Sole grazie alla luce del mio occhio".
Ecco l'occhio dell'uomo che, se non fosse solare, non potrebbe vedere il Sole.
Il problema della condotta dell'anima dopo la morte ha sempre occupato i grandi
rappresentanti della filosofia e della religione del mondo occidentale, i quali hanno
espresso pensieri che aiutano a comprendere il concetto indiano di karma. Platone
sostiene che l'anima dell'uomo perfetto è provvista d'ali come un uccello, mentre l'anima
del non - redento è priva di ali. "Quella perfetta ed alata vola nelle sfere superiori e
domina l'intero mondo; mentre quella senza ali erra senza meta finchè incontra qualcosa
di rigido dove si alloga ed assume un corpo terreno...". L'anima alata, è sostenuta dalla
conoscenza e dal sapere perfetto, quella senza ali viene sospinta dalle forze della non conoscenza che la conducono necessariamente alla reincarnazione e ai legami con
l'effimera materia. Successivamente approfondisce il problema anche Tommaso d'Aquino,
che arriva alla seguente categorica conclusione: "E` impossibile che l'anima intelligente sia
transitoria". Per Tommaso l'intelletto è quello che per Eckehart è l'"uomo interiore", e
questo è il "non - transitorio". "E` impossibile" dice Tommaso "che una forma di esistenza
che si autosostiene sia transitoria" perché "l'intelletto si riprende e per sempre l'essere
liberato".
Tommaso d'Aquino si chiede anche quale sia il senso e lo scopo delle facoltà della
psiche, se esse con la morte cessino o possano influenzare la sopravvivenza dell'anima che
si è separata. E trova una risposta che sarà un importantissimo contributo dell'Occidentale
alla comprensione del concetto indiano di karma. Tommaso inizia chiedendosi se
nell'anima separata dal corpo sopravvivano tutte le facoltà psichiche, cioè tutte le sue
potenzialità e disposizioni. Ed arriva alla conclusione: "poiché le facoltà psichiche sono
attributi dell'anima o dell'insieme di anima e corpo, quando il corpo si corrompe
nell'anima rimangono quelle facoltà che hanno la loro dimora in essa. Ma siccome hanno
la loro dimora nell'insieme di anima e corpo, dopo la corruzione del corpo rimangono solo
quelle legate alla capacità di agire". Questo concetto di capacità di azione postmortale
delle facoltà psichiche è molto simile al concetto buddhista di energia karmica, un'energia
formata dalle azioni compiute nella vita che continua ad agire dopo la morte. Secondo la
dottrina indiana del karma, ad esempio, "non rinasce lo stesso individuo", la
reincarnazione non è la prosecuzione della vita precedente. Nasce un'altra vita la cui
qualità dipende in parte dal grado di aggravio karmico formatosi in quella precedente. In
altri termini, il karma diventa condizione strumento che orienta la nuova esistenza.
Tuttavia il nuoto individuo non è costretto a subirne gli effettui passivamente, ma può
modificare la situazione iniziale. Nell'Anguttara-Nikaya Buddha descrive la funzione
generale del karma: "Esistono, cari monaci, l'azione oscura, la cui maturità (meta, finalità)
è oscura; esiste, cari monaci, l'azione luminosa (chiara), la cui maturità è chiara; esiste
l'azione in parte oscura, in parte chiara, la cui maturità è in parte oscura, in parte chiara;
esiste l'azione che non è né oscura né chiara, la cui maturità non è né oscura né chiara:
l'azione che porta alla scomparsa dell'azione operante".
Ci tornano in mente le dottrine del Libro tibetano dei morti che descrivono la via del
principio cosciente attraverso il bar-do e le possibilità della sua reincarnazione karmica, se
prendiamo in considerazione anche altre enunciazioni di Tommaso d'Aquino. Egli infatti
dichiara che il sapere acquisito nel mondo terreno rimane nell'anima separata. Secondo
Tommaso l'anima umana è stata creata per un destino migliore e più alto, e il corpo
terreno, quale struttura materiale dell'anima, è solo uno strumento in Terra per
prepararne la trasformazione. "Quindi, salvo prova contraria, è chiaro che l'anima è unita
al corpo perché quando si occupa delle idee possa capirle; tuttavia dopo la separazione
può avere un'esistenza e un altro comportamento". Ancora più chiara risulta la
predestinazione psichica legata alla sua condotta terrena secondo noi paragonabile al
concetto di karma, se consideriamo l'enunciazione che segue: "L'anima separata dal corpo
conosce certe cose, anche se non nei dettagli, però solo ciò che le è congeniale a causa di
conoscenze pregresse o per affezione..."
In queste importanti citazioni dalla "Summa Teologica Tommaso d'Aquino si
incrociano interi mondi spirituali ed intere epoche della storia del pensiero: dall'antica
Grecia alla mistica cristiana per sono nozioni vicinissime ai pensieri buddhisti sul concetto
di karma. Naturalmente questo modo di risolvere il problema dello stato dell'anima
nell'aldilà solleva problemi che investono la ricerca genetica e in particolare il campo della
psicologia. Fra l'altro sono enunciazioni importantissime anche per la valenza della teoria
degli archetipi di C.C. Jung. Se consideriamo inconfutabili le affermazioni di Tommaso
d'Aquino e quelle indiane sul concetto di karma, troverebbe conferma la teoria degli
archetipi, o meglio essa poggerebbe su una base che giustificherebbe l'esistenza.
Per concludere queste brevi considerazioni che abbiamo estrapolato da un'enorme
massa di materiale esamineremo anche alcuni pensieri del filosofo Jean - Gebser che ha
affrontato di nuovo il problema più antico dell'umanità recentemente. Gebser definisce
giustamente il simbolo cinese yin- yang uno dei simboli più importanti dell'anima, cioè
della sua polarità. E` un simbolo che rappresenta sia l'aspetto solare che quello notturno
dell'anima, sia il luogo luminoso della sua esistenza, sia il suo lato in ombra. E` un
simbolo che può essere riferito tanto allo stato presente quanto allo stato trascendente
dell'anima, come pure alle due condizioni della coscienza che noi definiamo conscio ed
inconscio. A parte questa interpretazione, quale supremo simbolo della polarità lo yinyang rappresenta l'immagine taoista del mondo che concepisce unicamente la comune
complementarità degli opposti.
Gebser vede la dimensione dell'anima in un polo vita - morte di quest'anima, dove fra
le due intercorre un rapporto vitale. Secondo questa concezione vita e morte sono correnti
(direzioni) della stessa energia psichica che non può essere concepita staticamente. Il
principio psichico è eterno, cambia solo il suo modo di essere (il suo stato). Ciascuno dei
due poli è ambivalente, e yin - yang simboleggia anche questo: l'ambivalenza di un polo è
complementare a quella dell'altro.
Nell'aspetto notturno o di morte è già presente il punto di trasformazione dello stato
successivo, inizia già la via che conduce alla vita; e viceversa. Il polo della morte contiene
già il passo che conduce alla vita; e viceversa.
Ci rendiamo conto della dinamica di questa concezione se mettiamo di nuovo in
rapporto tutto ciò con la nostra dissertazione sul bar-do. Il bar-do, lo stato che segue alla
morte, è momento del trasferimento della coscienza (o psiche secondo la concezione
Occidentale), il momento nel quale essa inizia il percorso che porta a una nuova vita.
Quindi secondo le dottrine del Libro tibetano dei morti il momento più importante nella
permanenza dell'esistenza psichica risulta essere il momento della trasformazione nel bardo. Da esso dipendono "vita e morte". Questo è il momento nel quale si decide se la vita si
realizzerà in una "concrezione dello spirituale "(per citare la formulazione di Gebser) o
nella esclusiva condensazione del principio fisico e quindi nell'aumento e prolungamento
della sofferenza sul terreno (karmicamente determinato) della rinascita.
V
Confronti con le idee sulla morte e sugli eventi postmortali di altre culture
Per quanto riguarda la libertà dello spirito, tenete presente inoltre che lo
spirito sarà libero se non sarà legato a tutte le cose nominabili e se queste
non
saranno legate ad esso.
Eckhart: Dell'Autoconoscenza
I contenuti del Libro tibetano dei morti erano importanti per i tibetani ma sono importanti
anche per noi. In essi infatti troviamo un gran numero di antichissimi simboli dell'umanità
chiaramente riconoscibili anche nelle tradizioni di altre culture e di altre religioni. La vera
e propria dottrina di ispirazione buddhista del Libro tibetano dei morti con la sua etica e
la sua psicologia evolutissime appartiene al buddhismo e ai sui adepti. Dietro di essa però
noi ravvisiamo l'antichissima struttura di base di un particolarissimo simbolismo della
morte che affonda le sue radici nelle immagini del mito e della realtà psichica
dell'esperienza di morte. Questo simbolismo che si confronta con i fondamentali problemi
di vita e morte, di aldiquà ed aldilà, di essere e non - essere, di consapevolezza della vita e
probabile non - consapevolezza della morte, che riguardano tutti gli uomini è diffuso in
tutto il mondo. Si tratta di processi primari della psiche umana, di esperienze
fondamentali uguali o simili che, poiché corrispondono alla struttura della psiche
dell'uomo, danno luogo a immagini affini. Alla sfida della morte come esperienza, l'uomo
risponde ovunque in modo simile o uguale, con determinati riti, culti, azioni o
comportamenti miranti ad assicurargli una difesa o a mitigare l'asprezza dell'assunto. Per
contro, col problema della morte, l'uomo per lo più incomincia a riconoscere la propria
responsabilità e la forza psichica di cui ha bisogno per individuare i pericoli di un mondo
sconosciuto o per suffragare le proprie speranze.
I possibili o probabili eventi successivi alla morte sono sempre stati descritti sotto
forma di immagini e rappresentati per mezzo di simboli. Ebbene, se confrontiamo
brevemente fra loro le immagini e le descrizioni dei regni dei morti e dei mondi
trascendenti delle diverse culture scopriamo elementi che sono comuni a tutte e
rappresentano una base empirica archetipica. Da tutte le riflessioni e da tutti gli scritti
sulla morte trapela l'idea di una sopravvivenza dell'anima o di una specie di coscienza. Ed
ovunque si supponga una sopravvivenza della psiche, si immaginano due specie di
sopravvivenza: una nel mondo della luce e della beatitudine, l'altra nel mondo delle
tenebre e della sofferenza. Le strutture più antiche risalgono a pochissimi archetipi
contrapposti; ad esempio cielo ed inferno, mondo divino e regno demoniaco, luce e
tenebre, giorno e notte, ritorno umano ed isolamento spirituale, vita permanente o
anientamento totale. Sul piano di un simbolismo avanzato per quanto concerne questo
problema ci troviamo indifferentemente all'antinomia: uomo - mondo, uomo come essere
provvisto di anima - uomo come involucro mortale. E siamo chiamati a trovare una
risposta all'interrogatativo: fino a che punto l'anima è divina o partecipe della
trascendenza e raggiunge i mondi superiori, e perché questa stessa anima partecipa del
regno dei mortali, nel transitorio mondo materiale. E` un'antinomia primordiale presente
come problema in tutti i miti e in tutte le leggende, in tutti i grandi libri dell'umanità, che
suggerisce sempre nuove soluzioni. Daremo alcuni esempi del modo in cui hanno
interpretato la morte e i mondi trascendenti altri testi non tibetani paragonabili a quelli
tibetani. E` possibile stabilire confronti utili, cioè in grado di aiutarci a capire meglio i
contenuti del Libro tibetano dei morti, solo affrontando problematiche semplici e basilari.
Come abbiamo brevemente fatto presente già nel primo capitolo, la cultura vedica
dell'India ha meditato conoscenze di fondamentale importanza; e non si può escludere
che alcune di esse, in particolare quelle sul trapasso e sulla morte, siano entrate nel
buddhismo e che, almeno in India, esse fossero patrimonio comune.
1 Conoscenze dell'India nelle Upanisad
Di ciò su cui quaggiù regna il dubbio
rendici edotti; facci sapere cosa
avverrà nel grande viaggio.
Kathaka - Up. I, 29
Già nelle Upanisad più antiche, per esempio nella Chandogya- Upanisad e nella
Brihadaranyaka - Upanisad, ma anche nell'Atharva- Veda e nella Aitareya - Aranyaka,
troviamo ampie e dettagliate rappresentazioni dell'evento della morte, dei segni del suo
approssimarsi e delle azioni cultuali che riguardano l'assistenza al defunto e la sepoltura.
Dalle numerosissime fonti indiane estrarremo solo i passi che corrispondono alle
rappresentazioni degli stessi eventi nel Libro tibetano dei morti. E in essi scopriremo una
stretta affinità che si autorizza a supporre che nell'antica India le conoscenze sul trapasso
fossero un patrimonio comune cui attinse anche il buddhismo.
In particolare troviamo una descrizione del trapasso di grande forza espressiva nella
Brihadaranyaka - Upanisad. Essa lo rappresenta in modo molto simile e come è descritto
nel Libro tibetano dei morti: "Quando l'anima viene meno, ed è come se perdesse i sensi,
gli organi vitali si uniscono ad essa, ma essa assorbe questi elementi di forza e si ritira nel
cuore. Poi però non conosce più alcuna figura. Abbiamo quindi per prima cosa la
contrazione e concentrazione delle funzioni fisiologiche del corpo, che via via che cessano
le funzioni esterne, si concentrano su se stesse, e il cuore assurge ad ultima isola
dell'essere terreno. Da questo momento, dopo che è divampato l'ultimo "bagliore" della
forza del cuore, inizia la fuoriuscita della psiche (o coscienza) dal corpo. "Le otto forme di
coscienza - si legge nei testi del buddhismo mahayana - diventano una cosa sola, tutti i
sensi e le loro funzioni sono confinati al centro. Perciò non esiste più alcuna attività
sensoriale o percettiva terrena. Allora la punta del cuore si illumina e, dopo che è
diventata luminosa, l'atman (antico concetto indiano di anima) fuoriesce... esce la vita e
con essa tutti gli organi vitali. L'atman (= anima) è una forma di conoscenza e tutto ciò che
ha a che fare con la conoscenza esce insieme ad essa".
La Chandogya - Upanisad tratta questo tema in modo analogo, ma più brevemente.
Benchè nella descrizione di tali eventi anche il linguaggio sia simbolico e semplice,
l'essenza del problema risulta chiara all'uomo "moderno" dalla mente scientificamente
impostata: "Ma dopo che la sua parola (il discorso) è entrata nel pensiero (manas), che il
suo manas è entrato nel prana (energia respiratoria o vitale), il suo prana nel calore e il suo
calore nella suprema divinità, egli non li riconosce più (i parenti che gli stanno intorno nel
momento del trapasso) sono gli stessi processi che descrive il Libro tibetano dei morti.
Anche in esso scompare prima la conoscenza, poi la coscienza si ritrae poco a poco
dall'ambiente circostante ed entra nell'aldilà. Però secondo la Chandogyia - Upanisad,
l'uomo non sarebbe affatto consapevole del fatto che quando la coscienza entra nell'aldilà
avviene una trasformazione importantissima, anzi essenziale. Infatti usando una poetica
similitudine dice: "Come in questa (unità del miele raccolto dagli impulsi vitali
concentrati) quei succhi non sono affatto diversi dall'albero del quale sono il succo... (così)
anche queste creature, quando (morendo) entrano nell'Essere, non hanno affatto coscienza
che stanno entrano nell'Essere". I testi del Libro tibetano dei morti sottolineano in
continuazione l'importanza della "Chiara Luce ", o meglio del suo significato. Infatti a chi
non comprende tutto il significato della sua comparsa appare ben presto la "chiara luce
secondaria" e poi l'intero pantheon delle divinità delle visioni. Ma ciò significa che ha già
iniziato a percorrere la strada in discesa che la allontana sempre più dalla suprema realtà
del di modo charmakaya, che prima splendeva come Chiara e Pura Luce assoluta.
Parlano dei segni che preannunciano l'avvicinarsi della morte anche diversi antichi testi
indiani del Veda. Descrivono esperienze importanti che potrebbero essere di grande
valore euristico per la psicologia moderna e per la natura dei sogni premonitori, per
esempio. Ne menzioneremo sullo alcune per richiamare l'attenzione anche su un altro
punto importante. Nel Moksadharma fra l'altro si legge: "Muore entro un anno chi,
pendendo la vista, non vede se stesso nell'occhio altrui, se grande sapienza si trasforma in
ignoranza, chi vede la luna screpolata come una ragnatela, se il colore del volto cambia, se
in luogo di odori buoni sente odore di cadavere" (11710-11723).
Per quanto riguarda era responsabilità e il comportamento individuale nella vita - che
esercitano i loro effettui karmici influenzando il genere di trasformazione nell'aldilà - i
testi delle Upanisad esprimono concetti simili a quelli della tradizione buddhista. Sul
problema del carattere dell'uomo, legato al suo karma, la Brihadarankaya - Upanisad dice:
"L'uomo non è allo che cupidigia, la sua intelligenza è governata dalla cupidigia, il suo
agire è governato da essa" (IV, 4. 5). In questi testi la sofferenza nel mondo degli inferi
viene frequentemente attribuita alla insipienza. "Molti inferni si prospettano a chi è
carente di conoscenza" (Moksadharma 7186). Ma questa conoscenza può riguardare sia la
vita terrena sia le speculazioni sull'aldilà. In fondo sotto il profilo psicologico le
descrizioni dei regni dei morti ricalcano situazioni sull'esistenza terrena, solo che vengono
rappresentati con più forza e con un linguaggio più mistico. Ed è giusto che sia così, che
essi vengano illustrati nel modo giusto perché è necessario sottolineare la responsabilità
etica della attuale vita terrena.
Incerta è la sorte nel bar-do benchè siano chiarissime e numerose le indicazioni e le
grandi speculazioni sull'aldilà delle millenaria tradizione scritte dei popoli, anche se sono
sempre solo rappresentazioni ed ammonimenti, possibili immagini dell'Essere sconosciuto
che presi tutti insieme non danno una immagine globale.
"I giorni non ritornano, non ritornano i mesi né le notti, e l'uomo, poiché è insicuro,
finisce per seguire questa via. Il rapporto con mogli e parenti è solo un incontrarsi sulla
via, e non c'è stato mai nessuno che abbia abitato insieme ad essi per l'eternità"
(Moksadharma 11834 - 11846).
In questo contesto riveste grande interesse psicologico la Anugita (460-483), dove sono
descritti i comportamenti sbagliati, quelli che essendo in contrasto col principio vitale ne
decretano la fine. E` una rappresentazione dell'autodistruzione. Nell'Anugita sono
illustrati i fenomeni di regressione, causati da una errata valutazione della vita e del suo
significato, che si manifestano quando l'uomo raggiunge la tarda età senza aver acquisito
le conoscenze sulle cose essenziali della vita. Sono descritti i segni dell'avvicinarsi della
morte anche nella Aitareya - Aranyaka (III, 2. 4) e soprattutto nella Satapatha -Brahmana.
Quest'ultima parla anche della bilancia, un'immagine simbolica della valutazione delle
azioni buone e cattive che già conosciamo dal Libro tibetano dei morti, deve il defunto
viene condotto al cospetto del giudice dei morti, Yamaraja, sovrano del mondo degli
inferi: "La mano destra della "vedi" (focolare) è la bilancia. Le azioni buone sono dentro la
vedi, le azioni cattive sono fuori della vedi. Perciò bisogna starci toccando il bordo destro
della vedi. Cioè in quel mondo stanno (entrambe) su una bilancia. Egli seguirà quelle delle
due - quelle buone o quelle cattive - che tirano di più. Ora, chi sa (queste cose), sale sulla
bilancia già in questo mondo, arriva in quel mondo e supera la prova. Tirano le sue azioni
buone, non quelle cattive" (XI, 2. 7. 33).
Una delle rappresentazioni più ampie e più dettagliate degli eventi, orribili e gioiosi,
che attengono il defunto nell'aldilà è quella del pretakalpa del Garuda - Purana, un testo
induista che risale al primo millennio della nostra era. Si tratta del Libro dei Morti di
tradizione indiana per eccellenza, un'opera che fra le altre cose descrive alcune visioni che
ci ricordano le visioni del Libro tibetano dei morti.
Illustrando il trapasso spiega che quando la coscienza sta per scomparire del tutto, i
rapporti fra soggetto oggetto si dissolvono, per cui gli oggetti si ritraggono dalla realtà e
non possono più essere percepiti. La coscienza abbandona l'anima personale e il mondo
esterno e si dissolve completamente. L'anima è il purusa del morente e ha le dimensioni di
un piccolo uomo alto un pollice. L'anima del malvagio viene portata via dagli sgherri di
Yama, il sovrano degli inferi, mentre le anime buone vengono accompagnate da guide
celesti. Dopo che il morto è stato cremato, dalle offerte sacrificali di riso (scr. pinda) dei
parenti, che per dieci giorni portano ogni giorno il riso per il defunto, il decimo giorno
nasce il corpo - pinda postmortale del defunto, che ha le dimensioni di un piccolo ometto.
E` chiamato anche preta. Il defunto sperimenta le conseguenze del suo karma, buono o
cattivo, sotto questa forma. Le anime malvage raggiungono il fiume Vairatani, che corre
intorno al Regno dei Inferi, fra pene e tormenti: fame, sete e dolori, lo attraversano e
entrano nel regno di Yama, con i suoi inferni gelidi e roventi. Qui il morto depone il
pinda, il suo corpo postmortale, ed acquista un allo corpo: un esile corpo di materia sottile
alto un pollice, lo yatanadeha. Con esso appare al cospetto di Yama, il terrificante Dio dei
morti che ha trentadue braccia e cavalca un bufalo. Ma le orribili torture infernali, che
sono descritte più sotto, hanno il solo scopo di far espiare al defunto i peccati commessi e
di riscattare il proprio karma prima di reincarnarsi sul piano terreno. Le anime dei buoni
ottengono rinascite buone sul piano umano o su quello celeste degli dei.
Non possiamo concludere la serie delle citazioni delle fonti indiane di tradizione
induista senza menzionare quanto meno la importante simbolica del fuoco - Naciketas, di
cui parla la Kath- Upanisad. In quest'opera troviamo il celebre dialogo fra Himalayama, il
sovrano del mondo degli inferi e Naciketas, il giovane figlio di un brahamano. Naciketas,
dopo essersene andato via di casa per indagare sul mistero del mondo degli inferi, capita
nel Regno di Yama; qui cerca di capire in cosa consista la legge del karma e quale sia la
vera destinazione dell'uomo, e scopre che la sua destinazione è la ricerca della verità.
Dopo che Yama si è offerto di esaudire tra suoi desideri a patto che non lo interroghi sulle
cose fondamentali, Naciketas resiste alla tentazione e così acquista il sapere
dell'immortalità, perché si rende conto dell'illusorietà di tutte le cose terrene. Yama, fra
l'altro, conclude il suo discorso dicendo: "esistono due cose nel mondo, una è buona, l'altra
piacevole... Queste due cose incatenano le anime dei morti vincolandole in modo diverso.
Le cose buone le legano alla via della liberazione, alla via che porta alla redenzione e alla
perfezione; quelle piacevoli, che sono illusorie per cui l'uomo illude se stesso, lo
conducono su una via che all'uomo in Terra può sembrare poco pericolosa, ma che invece
nell'aldilà ha conseguenze devastanti".
Abhedananda, forte della sua profonda conoscenza del pensiero indiano, che non teme
di parlare chiaro e che spiega i problemi fondamentali senza ricorrere ai mezzi termini,
delinea l'intera problematica di vita e morte con poche parole chiarissime: "Morte significa
modificazione delle nostre condizioni psichiche, non estinzione del nostro Io. Alcuni
credono che morte significhi annientamento. Invece morte non significa distruzione e
dissoluzione totale, ma trasformazione della nostra vita, che viene riportata ai suoi stati
elementari, cioè venire ed andare. Questo regno è la sfera di nascita e rinascita". Come
molti pensatori indiani e tibetani Abbhedananda in fondo si rifà al simbolismo della luce
interiore che, quale luce della conoscenza, è diventata l'immagine conduttrice
dell'esperienza di vita e di morte: "Cerca la luce interiore e non smettere di cercarla finché
non l'avrai trovata. Quando l'avrai trovata avrai varcato i confini della morte".
2
Confronto tra gli elementi delle religioni
Dell'Iran, della Babilonia e dell'Egitto
e quelli del buddhismo tibetano
Un simbolismo ricorrente in diverse religioni antiche è quello della minacciosa strettoia da
superare, nell'aldilà, per poter percorrere la via che conduce alla salvezza. E` una specie di
bivio per le buone e le cattive azioni dell'uomo, o di scelta preliminare della via celeste o
di quella degli inferi, che il Libro tibetano dei morti descrive come la minacciosa e
terrificante strettoia del bar-do. In esso l'argomento è trattato in un testo a parte intitolato:
"Preghiera per la salvazione dalla strettoia del bar-do (tib. Bar-do i phrang- dol- gyi smonlam) nella quale si chiede ai buddha di liberare il defunto dagli orrori del bar-do e di
guidarlo sul luminoso sentiero della sapienza.
Nella religione zoroastriana dell'antico Iran, la religione di Zarathustra, troviamo la
descrizione della via dei defunti nello Yasht. Subito dopo la morte, l'anima del giusto
rimane con lui ancora per tre giorni e tre notti. Durante la prima notte "l'anima prova una
gioia immensa, pari alla gioia dell'intera notte della vita". Notte della vita perché dopo la
morte l'anima intraprende l'ascesa verso lo sterminato regno della luce, che non ha
confronto con l'esistenza terrena. La decisione la luogo il mattino successivo alla terza
notte. Le anime malvage debbono superare una prova difficilissima; debbono percorrere il
ponte del Cinvat, il ponte del giudice, che sovrasta l'abisso dell'inferno. E` un ponte
strettissimo che diventa sempre più stretto fino a diventare filiforme, simile ad un filo di
seta. Per cui le anime malvage si spaventano e cadono nell'abisso. Invece le anime buone
raggiungono direttamente il Paradiso Goronmana e i suoi immortali santi. Il parsismo
oltre al ponte contempla i demoni accusatori: Mithra, Sraosa e rasnu. Rasnu ha nelle mani
la bilancia della giustizia e pesa le azioni buone e quelle cattive. Conosciamo il simbolo
della bilancia dal giudizio infernale al cospetto di Yamaraja descritto nel Libro tibetano
dei morti.
Le religioni della Babilonia e dell'antica Assur menzionano un simbolo che
incontreremo spesso: il simbolo del profondo scuro ed apparentemente inattraversabile
fiume dell'acqua della morte. Il morto per poter raggiungere il monte del giudizio deve
attraversare il fiume infernale Hubur. L'acqua della morte, a noi già noto dal mondo
mitico, ma anche dalla simbolica psicologica, come acqua della vita ed acqua della morte,
qui rappresenta l'ignota profondità della separazione delle due forme di esistenza (fra vita
e morte). Al di là del fiume Hubur c'è anche il regno della vita, dove appare la dea
Anunnaki o (più tardi) anche Gilgamesh, il giudice dei morti. Queste divinità della morte
sono anche sovrani e custodi della sorgente della vita. E nella religione di Ur è descritto il
viaggio di Gilgamesh traghettato dal nocchiero Urshanabi, che scorta l'eroe attraverso le
acque della morte. Anche qui all'acqua viene attribuito un importante significato
simbolico. Ma siccome vita e morte sono collegate indissolubilmente, l'acqua non
rappresenta solo la morte, ma anche la vita. Assume volta a volta il significato che
corrisponde a una data condizione psichica. L'acqua comunque simboleggia la morte e la
rinascita perché è un elementi che separa e contemporaneamente unisce.
Le tradizioni religiose dell'antico Egitto raccontano - nel Libro dei morti egiziano, che
già conosciamo, e nel Libro delle Due Vie di Amduat - il viaggio del defunto attraverso i
pericolosi regni del Mondo degli Inferi, offrendo spunti per un confronto con le visioni del
Libro tibetano dei morti sotto molti aspetti.
Già in altra sede abbiamo segnalata la sorprendente analogia fra il simbolismo della
luce del Libro tibetano dei morti e quello del Libro dei morti egiziano. In Egitto il defunto
subito dopo il trapasso entra nella "piena luce del giorno" che nel Tibet simboleggia la
conoscenza primaria. L'antico Egitto colloca il mondo dei morti della Terra del sole
all'Occaso; e l'antica via della rinascita, cosmologicamente e miticamente motivata inizia
da Occidente a va verso Oriente attraverso la notte del Sole Sorgente. E` la via del Dio del
Sole, Era. Anche il mondo dei morti egiziano consiste di due opposti regni, il regno delle
sfere celesti e quello delle sfere infernali. Il transito, lungo il quale è appostato il demone serpente Apopis, è la notte. Al di là di esso c'è il Campo dei beati, gli Iaru.
Fra le dottrine del buddhismo tibetano sulla struttura dell'anima e la sua
trasformazione postmortale e quelle antico - egizie esiste una indubbia analogia. Nel
mondo degli inferi il defunto appare come Ba, un essere vivente dotato di corpo e di
anima. I condannati a morte definitiva raggiungono i mondi degli inferi per essere
annientati; i beati sviluppano un "corpo trasfigurato" (detto Ach) ed arrivano in vicinanza
degli dei.
Per poter raggiungere i Campi degli Iaru il defunto deve superare la pericolosa
strettoia del Nilo sotterraneo, dove la barca si arena contro i banchi di sabbia di Apopis.
La barca di Era, il Sole portatore di luce nel mondo sotterraneo, con cui l'anima del
defunto attraversa il Nilo, incappa in numerosi pericoli. Il defunto può superarli se
conosce le formule magiche che deve aver appreso già nella vita precedente. Già qui
abbiamo il concetto del valore determinante del sapere. Solo la conoscenza consente di
superare i pericoli e assicura la rinascita nel regno dei beati. Dopo aver felicemente
superato l'inferno di Sokar già nella quarta ora successiva alla morte, nella quinta ora il
defunto deve superare il lago di fuoco e il banco di sabbia del demone Apopis. Nella
pericolosa settima ora, grazie alla potenza dei più forti scongiuri magici, riesce ad
esorcizzare il demone Apopis e il suo nutrito seguito di serpenti, scorpioni ed altri esseri
immondi.
Nel mondo degli inferi per il defunto è decisiva la conoscenza, acquisita già durante la
vita, di tutti i nomi dei demoni del mondo sotterraneo. Gli serve per poterli rendere
inoffensivi malgrado le corrispondenti formule esorcizzanti. Perciò deve conoscere i
rituali magici per poter attraversare la strettoia del regno intermedio. Solo grazie a queste
conoscenze il defunto può raggiungere l'altra sponda del mondo trascendente. Solo così
riesce ad approdare al Campo degli Iaru. Intorno ad esso scorre l'acqua di vita, e le sue
quindici (o ventuno) porte sono sorvegliate da feroci custodi muniti di coltelli che
montano la guardia al Campo dei Beati. Il Nilo sotterraneo è l'acqua della morte, però
quando il defunto riesce a raggiungere la sponda del regno dei beati diventa un'acqua di
vita, l'acqua che circonda il Campo degli Iaru.
La simbolica delle numerose divinità e demoni teriomorfi contemplati nei testi del
Libro dei morti dell'antico Egitto è paragonabile a quella delle Dakini teriomorfe delle
divinità adirate del Libro tibetano dei morti. I significati, l'origine e lo scopo per il quale
compaiono sono diversi, però le analogie morfologiche sono innegabili. Basta pensare a
Anubis (con la testa di sciacallo), a Chephri, il Dio con la testa di scarabeo, a Thot (con la
testa di ibis), a Hathor con la testa di mucca, a Sechmet con la testa di leone, a Chnum con
la testa di ariete, a Horus che ha la testa di falco o a Selkis, la dea protettrice dei morti, che
ha la testa di scorpione. Sono tutte figure teriomorfe, alcune dotate di un corpo umano e
nel contempo divinità iniziatiche. Come le divinità teriomorfe del Libro tibetano dei morti
possiedono determinati poteri simboleggiati dalla corrispondente testa di animale.
Il Libro tibetano dei morti ci spiega che le terrificanti Dakini teriomorfe sono
emanazioni della mente dell'uomo, del suo intelletto, che hanno il compito di purificare la
coscienza, di liberarla dagli errori commessi dal fallace pensiero. Sono furie adirate che
combattono contro l'ignoranza e l'accecamento. Probabilmente le divinità teriomorfe del
Libro dei morti egiziano che ostacolano il viaggio verso i Campi Eterni hanno una
funzione analoga. Il defunto deve riconoscerle e chiamarle per nome pronunciando una
formula magica. Ed esse perdono la loro pericolosità mano mano che vengono chiamate e
riconosciute per ciò che realmente sono: spettri, fantasmi, immagini illusorie. Anche i testi
mantrici del Libro tibetano dei morti ci insegnano che le divinità debbono essere
interpellate col loro nome ed invocate col mantra ad esse sacro. Solo chi conosce questi
mantra e recita le formule sacre può entrare in contatto con le divinità del bar-do. I mantra
veicolano la magia divina, sono i mediatori delle sapienze dei buddha.
Infine per quanto concerne la simbolica egizia sul mondo sotterraneo nei rispettivi libri
troviamo menzionata anche la bilancia della giustizia, descritta anche qui nelle
rappresentazioni del giudizio del morto. Il grande Osiride tiene giudizio nella grande sala
della giustizia insieme ai 42 servi del Tribunale. Essendo il Dio del Mondo dei inferi,
Osiride siede su un trono circondato dall'acqua della vita. Intorno a lui sono raccolti i suoi
42 servi: Anubis, il Dio dalla testa di sciacallo, e Horus, con la testa di falco, pesano sulla
bilancia della giustizia le azioni dell'anima, mentre Thot, il Dio con la testa di ibis, tiene il
conto, è lo scrivano. E` una scena che assomiglia sorprendentemente alla scena descritta
dal Libro tibetano dei morti: col giudice infernale, Yama, i suoi aiutanti teriomorfi e la
bilancia della giustizia! Però bisogna tener presente che mentre per la dottrina egiziana
nell'aldilà ha luogo la completa resurrezione del morto, per la tradizione buddhista
nell'aldilà si verifica una trasmigrazione della coscienza attraverso varie forme di
esistenza terrena interrotte dallo stato di bar-do.
3 Elementi delle antiche religioni greca,
romana e germanica paragonabili con quelli
del buddhismo tibetano
Anche nella cultura dell'antica Grecia la Terra della Morte, l'Erebo, il Mondo Sotterraneo
si trova nell'estrema parte Occidentale dell'oceano. La vera sede dell'Ade è il buio Erebo
nel quale non entra nemmeno un raggio di sole. Anche qui troviamo diversi fiumi
sotterranei che separano e collegano: lo Stige, l'Acheronte, il Cocito e il Flegetonte, il fiume
di fuoco. L'ingresso dell'Ade è sorvegliato da Cerbero, il cane infernale, l'animale di Aides,
l'antico Dio dei morti. Qui le anime conducono una sconsolata esistenza nell'ombra.
Successivamente, nell'era postomerica, la concezione dell'Ade viene ampliata; l'Ade viene
diviso in Campi Elisi, dimora delle anime buone e Tartaro, dove le anime malvage
subiscono ogni genere di torture. Inoltre le anime di coloro che hanno compiuto in uguale
misura azioni buone ed azioni cattive sostano in uno "stato intermedio", nella anticamera
dell'Ade, sul Prato di Asfodeli. Le anime dei morti non cessano di esistere del tutto ma
conducono un'esistenza nell'ombra: la psiche, più o meno consciamente o inconsciamente,
vive una vita crepuscolare.
La mitologia greca contempla diversi déi dei morti. Oltre a Aides (o Aidoneus)
conosciamo Thanatos, il demone della morte, e Plutone, che tiene il registro dei peccati
delle anime dei morti. Nel Tartaro le tormentano diverse divinità, chiamate spiriti
torturatori del mondo sotterraneo. Sono figure che simboleggiano gli errori dell'anima.
Tisifone è la dea che uccide per vendetta, Aletto è la dea che perseguita instancabilmente,
e Megera la dea crudele dall'aspetto di gorgona. Thanatos, il demone della morte, è vestito
di nero, ha le ali nere e ha in mano un coltello. Le dee persecutrici e i demoni del Partaro ci
ricordano le divinità adirate del Libro tibetano dei morti. Tityos è colui che perseguita gli
opposti; voglia/piacere ed ignavia. Tantalo punisce la superbia e la viltà, Sisifo perseguita
l'incostante intelletto umano e la eterna irrequietezza della coscienza, che si affatica
inutilmente. Issio punisce la cupidigia delle anime, e le Danaidi perseguitano le credenze
insensate e gli sforzi vani. Della schiera di spiriti infernali che tormentano le anime fanno
parte anche le terribili Erinni di Persefone; le Eumenidi, dee del destino: le terrificanti
Chimere; le Arpie dal corpo di uccello; e le Idre dalle molte teste anguicrinite. Quindi il
mondo greco conosce molte tradizioni sui regni trascendenti, però non indaga sulla
struttura dell'anima e non dà un significato alla sua sopravvivenza. Nella religione greca
la morte ha connotazioni essenzialmente negative. Il pensiero evoluzionistico o l'idea della
giusta incarnazione sono esclusi.
Per i Romani valgono le stesse considerazioni. Ci limiteremo a menzionare brevemente
l'Orco (Orcus) e il Dis Pater, sovrano del Regno dei Morti. Le anime separate dai corpi
sono i lemuri (Lemures) o mani (Manes). A loro volta i mani si dividono in anime buone e
luminose, i lari (Lares) ed anime malvage e buie, le larve (Larvae). Il loro inferno è l'Orco,
che corrisponde in sostanza all'Ade dei greci.
Nelle religioni germaniche dei popoli nordici e dei celti ritroviamo l'acqua come
simbolo della morte. I morti vengono portati nella Terra dei morti, detta "Utgard" o,
presso i Celti, "Casa di Donn", attraverso l'acqua. Il Dio dei morti è Odin, con i corvi, o
Thor, il nocchiero che con la sua barca traghetta i morti sul fiume Wimur. Il mondo degli
inferi è conosciuto soprattutto col nome di Hel; su di esso regna Halja, la dea degli inferi.
E` un mondo che sotto molti aspetti può essere paragonato all'inferno: il mondo occulto
del Grande gelo nel buio nord, davanti al quale si estende la tetra spiaggia dei cadaveri,
Nastrandir. Qui approdano i morti dopo aver attraversato il fiume. Nell'antica Inghilterra
le anime dei morti, attraverso il lago del terrore e delle ossa e attraverso la valle della
morte, dovevano finire nel mare, sulle cui sponde era l'abisso dell'inferno. I miti
dell'Inghilterra settentrionale parlano di un ponte filiforme a cavallo del baratro
dell'inferno che porta nel Regno dei morti. La similitudine del ponte quale stretto
passaggio per l'aldilà sembra fosse diffusa dappertutto.
4 Anima e morte presso i manichei e i mandei
Nella religione di Mani domina incontrastato il principio del dualismo, della
inconciliabilità fra luce e tenebre, fra il re della luce nel paradiso e il Satana, Iblis, Kadim,
del profondissimo mondo degli inferi. L'uomo è fatalmente legato alle potenze
demoniache perché una parte della sua luminosa natura è stata fagocitata dal mondo delle
tenebre. La via della vita dell'uomo è caratterizzata dall'incessante desiderio di
riconquistare la parte della sua natura luminosa e pura strappatagli dal Maligno. Nella
morte delle anime, secondo i Manichei, appaiono le "guide ", "Isa", provenienti dal regno
della luce, inviate dal Dio della luce, ed altre figure: con vaso dell'acqua, striscia sulla
fronte, corona e splendente luce. Dal mondo degli inferi il Maligno invia i demoni. Però
vincono i luminosi aiutanti, e l'anima può entrare nel paradiso di luce. Questi luminosi
aiutanti ci ricordano il radioso Buddha amitabha del paradiso Occidentale, che nell'arte
orientale viene rappresentato mentre scende dal cielo, insieme ai suoi aiutanti, per
scortare i fedeli defunti verso Sukhavati, il luminoso paradiso Occidentale.
Il manicheismo considera il problema degli errori dell'uomo in chiave psicologica,
come il Libro tibetano dei morti. Il corpo dell'uomo è il "velenoso mare di fuoco", il
palazzo dei demoni", il "quintuplice fosso del regno delle tenebre" che contiene "le cinque
velenose corti delle tenebre". L'uomo è la "radice ed origine di tutte le male azioni" e la
"porta di tutti gli inferni" perché le parti luminose della sua anima sono "finite nelle fauci
di tutti i demoni". Per questo si ode il lamento delle anime prigioniere, che è conservato in
un rotolo con gli inni dei manichei di Turfan, nell'Asia centrale: "Chi mi salverà da tutto
questo marasma e mi libererà dalle angustie di questo inferno? Chi mi salverà dalle fauci
di tutte queste belve?".
E` chiaramente riconoscibile l'implicazione psicologica della problematica del male
quale modo di essere dell'uomo di cui esso stesso è responsabilmente. I lati in luce e quelli
in ombra sono aspetti della propria anima, che essa sperimenta direttamente. Per noi
rimangono interessanti soprattutto il significativo simbolismo del manicheismo e il
numero "cinque". Infatti nei tathagata che irradiano le cinque luci della sapienza
ravvisiamo, come struttura di base dei mandala, i cinque Buddha luminosi. Il simbolismo
della luce e dei numeri del manicheismo, che era diffusissimo in tutta l'Asia centrale, ci
autorizza a concludere che certe forme di espressione del misticismo tibetano, sia della
tradizione lamaistica che di quella bon-po, sono state influenzate da esso.
Anche nella religione mandeica, c'è già una complicatissima mescolanza di elementi
babilonesi, persiani, ebraici e cristiani, troviamo la concezione dualistica del mondo
luminoso e di quello buio. Tra le infinite sfere di luce del cielo si apre un grande vuoto e
sotto scorre un'acqua nera col mondo sotterraneo. Anche il regno dell'esistenza umana fa
parte del territorio del mondo sotterraneo perché l'uomo ha implicazioni col Male.
L'esistenza terrena con la sua sofferenza e i suoi errori è il mondo delle tenebre. Il re della
luce è la "Grande Vita", e il Mondo delle Tenebre, e quindi anche il Mondo Terreno, è il
Mondo della morte. Pertanto secondo la dottrina di enosh: "Esiste la morte ed esiste la
vita; esistono le tenebre ed esiste la luce; esiste l'errore ed esiste la verità". La via dell'uomo
che vuole sottrarsi alle tenebre (e all'ignoranza) porta alla luce e alla vita. La redenzione
affranca dal mondo esistenziale e porta verso la luce e la vita eterna. I Mandei definiscono
l'abisso in cui dimorano le anime dei peccatori Inferno o "mare della Fine". Sono i "Luoghi
Sorvegliati" da cui è impossibile fuggire, custoditi dalle guardie della Mattarta di Abatur,
e ci sono inferni gelidi e roventi come punizioni. Nella Mattarta di Abatur troviamo la
bilancia della giustizia che serve a pesare il "compenso e le opere". Qui corpo ed anima
prima che raggiungano la luce vengono riuniti. Sono totalmente e definitivamente dannati
solo coloro che "muoiono per la seconda volta", cioè le anime malvage; ad esse, una volta
morte, è negata la rinascita.
5 I concetti di anima, vita e morte
nel pensiero Occidentale
Nelle pagine precedenti mettendo a confronto le dottrine del Libro tibetano dei morti con
quelle di altre religioni abbiamo ravvisato alcuni punti in comune: il simbolismo
antinomico, la problematica della discesa nel mondo delle tenebre e della ascesa verso il
mondo della luce. Indipendentemente dal nome essi attribuito nelle diverse religioni, il
primo mondo è in tutte il regno della sofferenza, il secondo il regno della redenzione e
della beatitudine. Proprio nel Libro tibetano dei morti l'intero edificio dottrinario della
conduzione della coscienza poggia sulla rappresentazione degli opposti estremizzati, che
vengono simboleggiati con particolare veemenza. Tuttavia proprio al buddhismo va il
merito del superamento degli opposti e del dualismo fra mondo celeste e mondo
sotterraneo; infatti, le sue dottrine unificano i due aspetti antitetici rappresentandoli come
immagini dell'essere umano. La entelechia va al di là dei contrari che molte culture
antiche mettono in rapporto con la problematica dell'essere e non - essere. Eraclito la
illustra dicendo: "Anche la natura anela al suo contrario e produce l'armonia partendo da
esso e non dall'uguale" (Frammenti 10).
Il processo mediante il quale la vita si trasforma in morte assomiglia in forte misura a
molti processi di rinuncia che si compiono nella vita; o - come dice Lao tse: "Chi non ha
aspirazioni non subisce perdite". Eckehart, il grande mistico cristiano del medioevo,
richiama ripetutamente l'attenzione su questo problema, che coincide con l'assunto
centrale del buddhismo della sofferenza imputabile all'amor proprio. "Tutto l'amore di
questo mondo è costruito sull'amore per se stessi. Se rinunci all'amore per te stesso ti sarà
facile rinunciare a tutto il mondo". O anche "Se getto via tutto ciò cui sono egoisticamente
attaccato posso accedere alla pura essenza dello spirito". Nel linguaggio di questo mistico
si ravvisa l'immagine antichissima della vittoria della via della luce sul mondo delle
tenebre. E se in questa vita esiste la possibilità di rendersi conto che una forma di
trascendenza o di divino esiste, che da qualche parte esiste un assoluto che non conosce
spaziò né tempo, è logico trasferire queste norme nell'aldilà. Già il confronto con quanto
enunciano le varie grandi religioni ci fa capire che vengono paragonati a forme di
redenzione nella morti gli eccelsi stati terreni di conoscenza e di intuizione mistica.
Conosciamo il concetto buddhista di samadhi, il quale esprime quella forma di unità dello
spirito illuminato dalla luce della conoscenza che si realizza nella meditazione. Ebbene,
nel momento della morte questa luce riappare: è la chiara luce dello spirito in
raccoglimento, questa volta liberato, definitivamente, dal corpo.
Luce quale conoscenza da un lato e tenebre quale ignoranza dall'altro sono una coppia
di simboli archetipica dell'esperienza psichica. Sono forse gli archetipi più antichi
dell'umanità; risalgono al momento nel quale lo spirito nella materia è per la prima volta
consapevole di sé. La mistica cristiana Hildegard von Bingen si chiede: "Io pellegrina!
Dove sono diretta, quale via sto percorrendo? La via dell'errore". Poi constata: "Infatti
questi spiriti malvagi invece della luminosa magnificenza hanno attirato le tenebre". Nelle
visioni di Hildegard troviamo anche suggestive descrizioni degli abissi infernali che
assomigliano a ciò che sperimenta il defunto nel bar-do, quando lungo la via in discesa
incontra le fiammeggianti apparizioni delle divinità adirate. "Le vostre fauci si spalancano
come una voragine. Emanano un fumo acre e focoso... perché inghiottono voracemente le
anime, le adescano con allettanti stimoli e con ampio inganno le trascinano nel luogo dei
tormenti, dove arde il fuoco e si raccoglie l'orribile fumo".
Infine Hildegard nelle sue visioni del mondo postmortale riconosce due specie di esseri
di cui dà un'interpretazione psicologica. Proprio come il Libro tibetano dei Morti li
considera figure prodotte dalle azioni dell'uomo. "Per questo mentre l'anima si separa dal
corpo si manifestano spiriti luminosi e spiriti bui, compagni del suo comportamento,
conformi ai movimenti che ha fatto nella sua dimora. Infatti quando l'anima dell'uomo
abbandona la sua dimora... sono presenti Angeli buoni ed angeli cattivi; sono i testimoni
di tutte le sue azioni...".
Ma anche il Libro tibetano dei morti parla dei "testimoni delle opere" rappresentati
dalle divinità, pacifiche ed adirate, quali forme della propria coscienza. E nell'aldilà, al
cospetto di Yama, il giudice infernale, vengono posti sulla bilancia i testimoni delle opere,
le pietre bianche e le pietre nere. E` una "transgressio" nell'ignoto che ci fa sapere che non
esiste conferma né di un totale annientamento né di un'eterna sopravvivenza. Qui
l'esperienza del trascendente, come già quella della trascendenza, quale conoscenza
esistenziale, diventa un fattore del numinoso la cui realtà è inafferrabile dall'intelletto
comune. Sia l'esperienza di morte, sia ogni pensiero di morte hanno in sé qualcosa di
numinoso che sembra muoversi fra gli estremi opposti di terrore e beatitudine eterna.
Se consideriamo da un lato le luminose figure trasfigurate dei buddha pacifici nella
radiazione elementare, dall'altro i loro aspetti negativi, figure che incutono terrore, ne
deduciamo che gli uni rappresentano il "mysterium fascinans", la quintessenza della
redenzione; sono attraenti e gratificanti. Gli altri, i terrificanti Heruka, rappresentano
l'aspetto numinoso del medesimo nel "mysterium tremendum". Infatti nei testi si legge
che l'uomo si sente nella stessa misura attratto e respinto da queste divinità. Ma sia le une
che le altre sono soltanto funzioni opposte dell'unità in sé con afferrabile, definita Chiara
Luce e "Grande - Vuoto - che tutto comprende". Della natura del numinoso, Rudolf Otto
dice: "esso ha le sue forme selvagge e demoniache... e ha la sua evoluzione nel sottile,
purificato e trasfigurato".
Tutte le visioni del Libro titebano dei morti sono sotto il segno dei dhyanibuddha
pacifici, perciò sono emanazioni di una categoria archetipica di luci cosmiche. La visione
suprema si identifica con i luminosi sentieri delle saggezze dei Buddha, con l'aspetto del
"mysterium fascinans". Splendono nella luce della trasfigurazione delle componenti
psichiche, quale cosmologia spirituale delle cinque sapienze. Queste saggezze
determinano l'esperienza del totalmente diverso definito "sfera della legge universale"
(scr. dharmadhatu), saggezza adamantina o vuoto assoluto (scr. sunyata).
A. Metzger offre un prezioso contributo a questo fondamentale problema del
demoniaco che si manifesta nel mondo degli inferi come tortura e persecuzione ad opera
delle divinità. Secondo Metger la divinità si rivela nel "martyrium" universale. Esprime il
concetto come segue: "Il demoniaco del terreno è il bisogno di divinità (di assoluto), il
bisogno del demoniaco - che nella materia, nell' "ens creatum", è esposto a caotico
smembramento - di un'infinita compatta unità". Al di là di noi o di questo mondo terreno
della sofferenza e degli inscindibili legami che ci ancorano ad esso noi riconosciamo un
assoluto, un luogo nel quale "non esiste venire ed andare" o - come dice Buddha: "Se
questo non-creato e non-divenuto non esistesse non si troverebbe la via per uscire dal
divenuto e dal creato". Ma noi sappiamo che in questo mondo esiste la trascendenza, che
dà segni di sé anche se in questo mondo non è mai stata raggiunta. La vita terrena è un
"martyrium universale", però è solo l'aspetto demoniaco di un Unito Tutto. Un aspetto
non esclude l'altro; e l'uno è sempre la condizione per conoscere l'altro. Metzger dice:
"demoniaco e trascendenza sono legati l'un l'altro inscindibilmente da un rapporto
aprioristico. Sono potenti fattori che si supportano reciprocamente, che costruiscono la
trascendenza del creato".
E` più che logico infatti che l'uomo "che sa" arrivi alla conclusione che le numerose
descrizioni degli stati postmortali, i viaggi nei cieli e negli inferni, rappresentano un modo
simbolico che aiuta a capire mediante immagini e similitudini. L'immagine è uno dei modi
per traslare contenuti inafferrabili dall'intelletto comune soprattutto sul piano magico mistico. Nel Libro tibetano dei morti le divinità vengono esplicitamente rappresentate
come figure che simboleggiano le qualità psichiche della coscienza, mentre nella
tradizione greco - romana troviamo una trasformazione dell'immagine della realtà del
mondo sotterraneo o aldilà. In seguito molti degli spiriti torturatori dell'Ades comparsi
nel periodo postomerico verranno interpretati come forme simboliche del comportamento
umano. Lucrezio nel suo terzo libro constata: "Del resto tutte le favole sulle figure del
mondo sotterraneo sono senza dubbio in rapporto con la vita terrena". Riconosce che in
realtà le figure mitiche, come Tantalo, Sisifo, Tizio, non sono mai esistite, che in realtà "Gli
uomini durante la loro vita vengono colti da una insensata paura degli dei". Lucrezio
mette in rapporto gli eventi del mondo degli inferi con i processi psichici, che il mondo
sotterraneo riproduce sotto forma mitica. "Ma Tizia vive in noi: l'uomo incatenato dai
ceppi dell'amore è sbranato dagli avvoltoi, è roso dalla paura o distrutto dalle pene e da
altre smodate brame da cui è posseduto" (Verso 1000). Secondo Lucrezio anche le
immagini mitiche di Cerbero, delle Furie e dei demoni della Morte del Tartaro
rappresentano stati d'animo, stati psichici causati dalla condotta dell'uomo nella vita.
Quindi Lucrezio è stato uno dei primi scrittori del mondo antico a dare un'interpretazione
psicologica alle immagini d'oltretomba. Non si tratta di punizioni reali, ma delle
sofferenze cui è sottoposta la coscienza di chi ha agito male. "Così lo spirito consapevole
di aver peccato immagini le punizioni, si tormenta... e non vede... ha sa come porre fine a
questi tormenti" (1020). Gli ignoranti non sanno che proprio la vita terrena è il loro
inferno.
Come abbiamo visto, le fonti Occidentali equiparano la sapienza alla libertà e
l'ignoranza alla cattività e alla sofferenza. Sono nozioni fondamentali già contemplate
dalle religioni. Già nella tradizione di Ermete Trismegisto troviamo l'equazione Ignoranza
= sofferenza. "Il male delle anime è l'ignoranza, infatti l'anima che non sa nulla delle cose
esistenti, che non conosce la natura delle stesse, che non sa cosa è il bene, che è cieca e
vittima della passione del corpo, diventa un malvagio demone, non conosce se stessa...".
Come abbiamo visto, questo problema è in stretto rapporto coi principi etici che regolano
la vita dell'uomo e con la struttura dell'aldilà. Si è occupato della questione anche Jacob
Bohme, uno dei mistici più convinti e autoconsapevoli, il quale dichiara esplicitamente
che l'alchimico concetto di polarità risolve il problema del demoniaco e del divino. Riesce
a far convergere opinioni discordanti e, con un'immagine altamente suggestiva, enuncia la
globalità dell'uomo in unità col creato. Egli descrive la natura in sé divisa della psiche
umana esprimendosi come segue: "il tormento più atroce e spaventoso... lo trovi nella
sostanza della nascita (natura) eterna dell'anima e degli eterni inscindibili legami uguale a
tutti i diavoli, fuori della luce di Dio; dentro sta il suo eterno tormento, nel suo interno è
nemica di se stessa...". Bohme parte dal principio che l'intero universo dello spirito, tutte le
aspirazioni dell'uomo, il divino e il demoniaco, sono presenti nella struttura dell'anima
"ab ovo". "Nulla ti è più vicino in questo tempo il cielo, paradiso ed inferno: che ti sono
congeniali e che aspiri a raggiungere. Tu stai su entrambe le porte e hai in te entrambe le
nature". Quindi per Bohme l'uomo porta in sé la sua immagine terrena e celeste, ma al
contempo, la sua indole infernale dalla quale possono nascere con grande facilità le
emanazioni che rappresentano i suoi vizi sotto forma di demoni terrificanti e divinità
minacciose.
Perciò in fondo anche Bohme vede l'esistenza nella problematica archetipica di luce e
tenebre, che noi con linguaggio psicologico abbiamo definito coppia antinomica di
sapienza ed ignoranza. Nei testi filosofici più impegnati, per esempio nella filosofia
Vedanta o nei testi buddhisti, viene offerta un'ampia base a una serie di definizioni
rappresentabili con questa antinomia proprio dall'archetipica distinzione fra Luce e
Tenebre. Il simbolismo che nasce da questa antinomia nel linguaggio di Bohme ci ricorda
le visioni del bar-do del Libro tibetano dei morti. "Perciò il tuo cuore è una oscura valle; se
non ti adoperi subito per la rinascita della luce si accende in te il fuoco dell'ira... e con la
tua nascita (natura) animalesca non puoi raggiungere le porte del cielo". Ma ci ricorda
l'esperienza della "Chiara luce" nel bar-do, che si identifica con la conoscenza della
divinità suprema e della unità dello spirito con Essa, anche il seguente passo di Bohme:
"In origine l'anima starebbe nella vita focosa perché senza la sorgente focosa non esiste lo
spirito, e attraverso la morte esce da essa per propria volontà ... come di sua volontà
attraverso i principi del fuoco cade nell'occhio luminoso di Dio".
Concludendo, ci teniamo a far presente come anche in un'opera eccelsa qual è il Faust
di Goethe si ravvisino indubbi paralleli fra l'esperienza di trasformazione e morte e
redenzione del protagonista e l'esperienza di fuoco, luce e demoniaco che il Libro tibetano
dei morti illustra con una simbolica molto chiara e realistica. Col suo profondo studio
psicologico dell'indole di Faust, Goethe ha costruito un monumento; ci offre l'immagine
classica di una trasformazione che nella tragicità spa di molto l'enunciazione poetica. Alla
fine della seconda parte dell'opera a Faust appaiono le quattro donne grigie; sono le fatali
Eumenidi. Sono i dubbi e i tormenti che si affacciano alla sua anima. I loro nomi sono
mancanza, colpa, pena e bisogno. Come l'uomo che ignora, e perciò è cieco, evita
costantemente di confrontarsi col proprio lato in ombra, si rifiuta di riconoscerlo, così il
vero accecamento è frutto della "preoccupazione". Però ciò che chiude i suoi occhi esterni
può aprire il suo occhio interno.
"La notte sembra penetrare in profondità",
Però all'interno risplende la Chiara Luce (11500)
Ed ora questa luce, che come la "Chiara Luce" primigenia nell'aldilà diventa la stella
che lo guida, lo acceca. "Il nuovo giorno lo abbaglia ancora".
Per cui Faust subisce la trasformazione "elementare", rappresentata in modo analogo al
processo alchemico operato dagli elementi descritti nel Libro tibetano dei morti. Il potere
purificatore dell'elemento fuoco è illustrato come un chiaro linguaggio simbolico.
"Illuminate, amorose fiamme!" (11800) e poi:
"Sacre fiamme!
Colui che esse avvolgono
Si sente beato coi Buoni
nella Vita".
In questa catarsi "elementare" Faust apprende che è necessario staccarsi da tutto ciò che
non fa parte del vero Io interiore. Può comprendere la verità solo chi rinuncia alle cose
esterne e transitorie; solo a lui si aprono nel suo interno gli orizzonti interiori (11745):
"Ciò che non vi appartiene
Dovete abbandonare
Ciò che turba il vostro Essere
Dovete evitare".
Infine Faust mentre sta morendo riconosce la necessità della trasformazione ed aspira a
raggiungerla. Qui i simboli sono armi che servono a purificare la coscienza, gli aspetti più
forti della potenza dello spirito, dell'autodistruzione dell'ingannevole involucro
dell'intelletto, che è sempre il grande ostacolo sulla via dell'integrazione ed unità dello
spirituale.
"Frecce trafiggetemi,
Lance costringetemi,
Clave sfracellatemi,
Fulmini folgoratemi,
Possa volatilizzarsi
Tutto ciò che è effimero... "(11858)
Usando i simboli che ci ricordano la lotta fra la potenza della luce e i demoni delle
tenebre della dottrina manicheo-gnostica, Goethe descrive le radiose emanazioni celesti
che appaiono per aiutare l'anima, mentre il maligno si impenna e si perde nella
maledicente schiera dei demoni. Infatti dopo la morte di il faust, prima che l'anima
abbandoni il suo corpo terreno, assistiamo alla lotta di Mefistofele e della sua satanica
schiera per il possesso della sua anima, che però alla fine viene liberata e condotta nella
luce dalle schiere celesti. Una scena che ci ricorda di nuovo anche le parole di Hildegard
von Bingen: "Infatti nella morte quando l'anima dell'uomo si separa dal corpo sono
presenti Angeli buoni ed angeli cattivi; sono i testimoni di tutte le sue azioni". E la stessa
immagine ci riporta nel Tibet, nel campo d'azione del Libro dei morti, dove i "testimoni
delle opere" sono le divinità, pacifiche ed adirate, del bar-do che appaiono per purificare
la coscienza liberandola definitivamente dagli errori karmici.
Sono innumerevoli le enunciazioni sul senso della vita, sulla trasformazione e sul
significato della morte quale inizio di una nuova vita. Ne abbiamo citate solo alcune,
quanto basta per dimostrare come le dichiarazioni del Libro tibetano dei morti abbiano un
valore non solo locale ma universale. E` un libro sull'esperienza di morte, sulla morte e la
rinascita, che vuol illustrare il significato della vita, che dà alla vita il significato e la
dignità che le competono. Perché è il bivio, il punto dal quale si ha la visione panoramica
del passato e del futuro, il punto nel quale il problema della psiche acquista trascendenza,
una trascendenza che, sebbene non sia conosciuta, viene percepita.
VI
COMMENTO PSICOLOGICO AL BAR-DO THOS- GROL
1 Concetti fondamentali della filosofia
Buddhista ed elementi di psicologia
Anzitutto bisogna farsi un'idea esatta
della natura dell'anima, sia della sua natura
divina che di quella umana, osservando
come agisce e patisce.
Platone: Fedro 245 c.
La psicologia si propone soprattutto di insegnare all'individuo a vivere consapevolmente,
a vivere sapendo che la vita è la grande preparazione spirituale al trapasso, del quale il
Libro tibetano dei morti dice che è il momento più importante della vita dell'uomo. I due
cardini delle dottrine tibetane sono, non senza motivo, il concetto di coscienza e quello di
intelletto, le due manifestazioni della spiritualità i cui alti e bassi rendono la vita ricca e
varia e che formano la base delle visioni del Bar-do. Il Libro tibetano dei morti, a parte i
suoi contenuti religiosi e filosofici, è un'opera squisitamente psicologica, la migliore guida
per la comprensione dei fenomeni psichici, che rappresenta come esperienze postmortali,
le quali in fondo riproducono eventi psichici della vita di ogni giorno. Prima di prendere
in esame i singoli aspetti del Libro tibetano dei morti e le sue varie dottrine,
approfondiremo le principali idee filosofiche del buddhismo mahayana mettendole in
relazione con determinati concetti della psicologia Occidentale. Constateremo così che
alcuni pensieri del mondo asiatico sono non solo di natura autenticamente psicologica ma
hanno anche i loro equivalenti nella nostra psicologia. Infatti i due sistemi, il buddhismo e
la psicologia, hanno in comune una cosa: il metodo analitico. Entrambi analizzano la
coscienza e la struttura psichica dell'uomo.
A LA SOFFERENZA E IL PRINCIPIO
DI DESIDERIO-NON DESIDERIO
Il principio del desiderio-non desiderio, noto alla nostra psicologia come problematica
psichica antinomica, è anche una base della filosofia buddhista alla quale i testi del pali
buddhismo fanno continuo riferimento. Nella religione, quale dottrina della redenzione,
come possibile soluzione del problema a questo principio viene contrapposto il principio
antinomico: sofferenza - nirvana. Per il buddhismo la sofferenza è l'impossibilità della
psiche legata agli istinti e ai desideri di far fronte al proprio bisogno di totale e soprattutto
duraturo appagamento. Sono soggetti a continuo mutamento sia il mondo esterno, sia la
coscienza, sia i rapporti fra la coscienza e il mondo esterno. Per cui l'uomo si trova tra
l'amore e l'odio, o detto altrimenti, fra le tendenze comportamentali unilaterali
dell'accettazione e del rifiuto. Sono i due atteggiamenti della coscienza operanti in senso
opposto in base ai quali l'uomo agisce e si crea un'immagine individuale del mondo.
Accettazione e rifiuto corrispondono all'antinomia appagamento dei desideri e non
appagabilità degli stessi, che è responsabile di una tensione psichica negativa.
L'individuo opera una distinzione fra ciò che gli aggrada, che gli sembra buono e
desiderabile, e ciò che non gli aggrada, che gli sembra cattivo e da evitare. Molti degli
opposti piani funzionali interni della vita istintuale, delle emozioni e dei complessi (sia
rimossi che inconsci), determinano dal profondo dell'inconscio la vita consapevole e le sue
decisioni. La mancanza di consapevolezza di ciò che avviene nella propria psiche
impedisce all'uomo di capire che le realtà della vita da lui evitate e respinte possono
emergere dall'inconscio e levarsi contro di lui sotto forma di potenze demoniache. Per cui
il confronto ha luogo con l'inconscio, con l'ombra, col lato in ombra della personalità che
cerca di farsi strada nella coscienza. Il punto essenziale e decisivo delle dottrine buddhiste
(di tutte le scuole) è sicuramente questo: E` necessario rafforzare, potenziare la coscienza.
Infatti può eliminare i processi inconsci e psicologicamente insani solo una coscienza
potenziata, rafforzata, intensificata, cioè una coscienza capace di elaborarli. Il buddhismo
pone il problema nel nirvana quale meta salvifica solo quando la coscienza ha già
raggiunto un dato grado di adeguamento psichico e di realizzazione, cioè solo su un piano
più alto di conoscenza esistenziale. Ma il nirvana può essere raggiunto solo attraverso il
superamento dei desideri, solo grazie alla liberazione dalle catene che "legano l'uomo al
ciclo del samsara". Per questo anche nel Majjhima - Nikaya si legge: "Fino a che punto
genera sofferenza il mancato appagamento dei desideri! La natura degli esseri è succube
del desiderio. O non fossimo costretti a nascere!". Ma desiderare di non rinascere non
basta per non rinascere. Anzi è responsabile della sofferenza proprio questo desiderio.
Come genera sofferenza il desiderio di non avere preoccupazioni, dispiaceri, dolori, di
non provare disperazione, di non invecchiare, di non ammalarsi e di non morire. Per
cambiare le situazioni non basta desiderarlo. Non genera sofferenza solo l'assenza del
desiderio. Apre le porte del nirvana proprio l'assenza del desiderio - che esclude la
sofferenza. Il nirvana ha inizio con l'illuminazione. La coscienza si illumina e si calma.
B I DUE GRADI DI REDENZIONE
Il problema della redenzione è il problema centrale sia del buddhismo sia di tutte le
grandi religioni, e in qualche misura anche della psicologia Occidentale. Esistono due
specie di redenzione (o liberazione), la redenzione profana (autoredenzione e la
redenzione sacra, che ha una meta trascendente. La redenzione nello spazio profano e
personale corrisponde al risanamento e liberazione all'anima, alla sanità psichica
dell'anima. Il veda la equipara alla conoscenza dell'Io, del purusa interiore, una
conoscenza che è il presupposto di ogni altra forma di redenzione maggiore. L'anima può
raggiungere la redenzione sacra, la sanità psichica assoluta, solo quando è diventata
perfettamente trasparente. Questa redenzione ha sempre carattere trascendente e si
realizza al di là del mondo profano.
Sul piano psichico i due gradi di redenzione solo collegati. La "coerenza" fra meta sacra
e meta profana della redenzione è un fatto psicologico. E` la trascendentizzazione del
significato dell'esistenza, della sua trasposizione nell'infinito (senza tempo ed immortale),
che nell'anima si rappresenta come divinità, Brahman, Dio, luce pura, coscienza
trascendentale pura o nell'immagine delle religioni come nirvana. Anche nel processo
psichico di individuazione l'uomo è chiamato presto o tardi a affrontare i problemi
dell'eternità e di Dio. Quindi nelle religioni è un traguardo salvifico aprioristicamente
dichiarato ciò che avviene o dovrebbe avvenire nella vita psichica, la sua trasformazione e
maturazione. In particolare il buddhismo e le dottrine induiste descrivono psicotecniche
ed atteggiamenti psicologici che sono strettamente collegati coi metodi suggeriti dalle
religioni.
C INSIPIENZA E SAPIENZA
Insipienza significa non - conoscenza di ciò sta dietro le condizioni e dipendenze istintuali
nelle quali vive e soffre il "non illuminato". Sapienza è conoscenza di tutto ciò. Dove esiste
illuminazione, ed illuminazione consapevole, scompaiono gli ostacoli (scr. klesa) dalla via
della liberazione. Per l'asiatico sapere significa possedere le conoscenze che sono utili ai
fini dello sviluppo della coscienza spirituale, che servono a raggiungere la redenzione. Le
altre conoscenze hanno una importanza secondaria e se sono state acquisite unicamente
dall'intelletto, non servono a questo scopo. Inoltre l'asiatico non conosce la divisione fra
coscienza (conscio) ed inconscio che l'Occidente stabilisce spesso con eccessiva
categoricità. Vede la persona umana sotto un aspetto maggiormente unitario. Evidenziano
questo aspetto in particolare determinate dottrine indiane e tibetane - per esempio quello
"stato onirico" (tib. rMi-lam) che è stata tramandata da Naropa e Mar- pa. Essa si propone
il raggiungimento di un ininterrotto continuum di consapevolezza anche durante il sonno
e il sogno. Il rapporto fra i due modi di essere della coscienza è indubbiamente dinamico.
Tuttavia se volessimo delimitare nettamente le rispettive funzioni, usando il linguaggio
della psicologia Occidentale potremmo esprimere il concetto simbolico buddhista di
insipienza - sapienza equiparando l'insipienza all'inconscio e la sapienza al conscio, cioè
equiparando l'antinomia insipienza - sapienza all'antinonomia inconscio - conscio.
Per quanto concerne la insipienza (scr. avidya) potremmo dire pertanto che essa è la
fondamentale non conoscenza di una essenziale componente personale dei processi
psichici e degli eventi spirituali ancora sottratti alla conoscenza consapevole. Ciò che non
sappiamo o non sappiamo ancora, è sottratto alla nostra coscienza o non è ancora apparso
in essa. Ma che tali processi ed eventi spirituali esistono è un dato di fatto, se - come
sappiamo dalla psicologia - esistono complessi, depressioni, regressioni e contenuti
rimossi, "incongruenza" fra il potere psichico individuale e la sua realtà manifesta. E i
contenuti dei sogni ne sono un esempio. Gli psicologi hanno definito in modo chiaro tutti
questi stati di sofferenza causati proprio dall'"insipienza". La psicoanalisi si propone di
scoprire le cause dei vari stati di sofferenza e di renderle note alla coscienza. E` un metodo
psicologico inteso ad abolire la sofferenza e che, quando ha successo, può essere definito
una terapia di autoguarigione: il soggetto si risana da sé grazie all'intervento della sua
coscienza. La coscienza nell'acquisire la conoscenza di contenuti che le erano ignoti
acquista il potere di eliminare le cause della sua sofferenza.
Se prescindendo dalle complesse teorie della struttura dell'inconscio ci occupiamo
unicamente di concetti "afferrabili", un atteggiamento maggiormente dinamicistico ci
consente di equiparare l'insipienza con l'inconscio. Maggiore è il numero dei contenuti
precedentemente conosciuti che la coscienza riesce a trasformare in conoscenze, più
sapere e consapevolezza si concretizza. Nel buddhismo questo è il primo traguardo; il
problema della trascendenza si pone dopo. Maggiore è il numero dei contenuti ignorati
che riescono ad emergere dall'inconscio e a trasformarsi in "conoscenze", più aumenta la
indipendenza dai pericoli di processi sconosciuti, dagli istinti e dalla libido. Questo è il
risultato cui mira la psicologia Occidentale. Perciò possiamo dire tranquillamente che le
due impostazioni, quella orientale e quella Occidentale, si propongono entrambe di
potenziare la coscienza. Si tratta di un metodo, che potremmo definire filosofico, che
prevede la trasformazione dell'insipienza in sapienza o, con linguaggio psicologico,
dell'inconscio in conscio - operata da una coscienza debitamente potenziata, ampliata e
sviluppata. Del resto anche la via filosofica della conoscenza poggia sulle realtà dello
psichico, è una riproduzione della stessa. Va detto infine che si ravvisano strutture
analoghe nel simbolismo delle mitologie, anch'esse fedeli riproduzioni della storia della
coscienza.
D DEL RAPPORTO FRA SPIRITO E CORPO
Il problema dell'ancoramento, manifesto anche se relativo, al mondo terreno creato da
desideri e passioni nei soggetti insipienti tocca ovviamente anche un grosso problema
psicologico che non può essere risolto solo per mezzo di teorie, ma solo mediante un
costante e progressivo adattamento alla realtà. L'uomo per la sua struttura d'insieme e la
sua physis è anzitutto un essere terreno, il cui comportamento è dettato dagli instinti. La
sua fisicità poggia interamente su processi biologici e naturali della vita istintuale comuni
a tutti gli esseri. Eppure soltanto l'uomo, poiché è al con tempo un essere spirituale e
consapevole di sé, ha scoperto anche un altro piano esistenziale, un piano che gli consente
di affrancarsi da tutto ciò che è "naturale". L'uomo è indubbiamente inserito nel ritmo
della natura, ma non è questo il problema. Il problema nasce quando la sua natura
spirituale diventa autarchia ed entra in opposizione con la sua natura materiale. Questo è
il momento critico secondo la dottrina buddhista della sofferenza, momento che essa
definisce "dolore universale". Biologicamente e fisiologicamente noi apparteniamo
irrinunciabilmente al mondo terreno. Ora, la via che porta all'affrancamento dagli opposti
non è quella dell'ascesi totale né quella della totale materialità. Compito dell'uomo è
quello di trovare la giusta via di mezzo tra una forma di vita esclusivamente spirituale e
una forma di vita esclusivamente fisica.
Le varie scuole di pensiero nelle quali il buddhismo si è scisso propongono metodi
diversi per risolvere questo problema. La scuola del buddhismo mahayana e quella del
buddhismo vajrayana hanno sviluppato tecniche intese ad ottenere l'integrazione fra vita
naturale e vita spirituale. La psicologia è impegnata soprattutto nella definizione delle
funzioni della vita istintuale, senza però perdere d'occhio l'aspetto spirituale dell'esistenza
dell'uomo, che non vede più in contrasto con la sua organizzazione fisica. Il principio
dualistico che separa lo spirito dal corpo non ha più credito. Oggi si cerca l'integrazione
dello spirito quale forza che compenetra di sé la natura, e la configura. Il Libro tibetano
dei morti parla dell'antinomia fra coscienza ed intelletto perché l'intelletto separa e
pertanto crea gli opposti.
E KARMA E AUTORESPONSABILITA`
Del problema del karma personale, quale pensiero centrale del buddhismo, abbiamo già
parlato nel secondo capitolo e in altri passi. Adesso lo confronteremo di nuovo col modo
in cui lo tratta la psicologia. Per il buddhismo il karma è l'esperienza personale delle
conseguenze dei propri pensieri, delle proprie intenzioni e delle proprie azioni. E` la
sofferenza causata dagli effettui di atteggiamenti ed azioni precedenti. L'uomo è, per così
dire, il risultato delle sue azioni. L'Occidente comprende, certo, il concetto di karma, però
non valuta a pieno la gravità delle conseguenze che possono avere azioni, intenzioni ed
atteggiamenti sbagliati. Nella vita corrente noi citiamo spesso proverbi tipo: "Tanto va la
gatta al lardo che ci lascia lo zampino", che insegnano come un atteggiamento irrazionale
può avere conseguenze prevedibili. Cioè abbiamo il senso dell'autoresponsabilità, però
non abbiamo capito fino a che punto essa va presa sul serio. Anche il modo di dire: "E`
così semplice da sembrare "incredibile" indica che conosciamo bene la differenza che
passa tra il "credere "e il "sapere", che conosciamo il valore di ciò che è certo, di ciò che si
sa. Altro esempio di conoscenza consapevole ci è dato dalla frase "Tentiamo, più che
andar male non può", che pronunciamo spesso prima di intraprendere una nuova
iniziativa pur essendo matematicamente sicuri del contrario, pur essendo certi che tutto
andrà nel migliore dei modi. In moltissimi casi il nostro pensiero esprime una certezza,
indipendentemente dal tono superficiale dal modo ironico in cui viene esternato.
Abbiamo mille modi di manifestare una certezza. Però non sempre afferriamo tutta la
portata delle conseguenze che possono avere azioni dettate da insipienza, false
conoscenze, false credenze. Cioè non siamo consapevoli fino in fondo delle conseguenze
delle nostre azioni.
Il buddhismo insegna la legge di causa e effetto (per la quale ognuno subisce le
conseguenze delle proprie azioni) e la assolutizza, ne fa una legge valida al di là della vita
unica e individuale, ne fa una legge universale. La teoria buddhista per la quale l'uomo
subisce gli effetti di azioni che non è sempre consapevole di aver compiuto è
comprensibile solo su questo piano, solo in questa luce. Secondo il buddhismo le
sofferenze cui l'uomo è sottoposto nella vita che sta vivendo sono anche le conseguenze di
azioni (rispettive cause) molto più antiche, compiute in una vita precedente. Perciò nella
vita che sta vivendo l'uomo è la somma e il risultato di azioni e decisioni precedenti.
Secondo questa teoria naturalmente anche il futuro sarà positivamente o negativamente
influenzato dalle azioni compiute dall'uomo colla vita presente. Qui non si tratta di
valutazioni morali, ma del rapporto tra comportamento e salvezza dell'individuo. Solo in
questo senso il karma può essere positivo o negativo. Per quanto riguarda la coscienza il
buddhismo parla di popolo karmicasmente positivo e di comportamento karmicamente
negativo; il primo favorisce l'acquisizione di conoscenza e la liberazione, il secondo è
causa di insipienza e di dipendenza.
Anche psicologia applicata, che sviluppa metodi terapeutici, dà alla vita umana un
significato globale, ispirandosi in particolare a C. G. Jung, che nella sua "psicologia
complessa" pone al centro l'uomo intero, integrale; a L. Szondi, che "analizza il destino"; e
specialmente a Il. Binswanger, M. Boss e G. Condrau della "Scuola che analizza
l'esistenza". In tutti ha un grosso ruolo la storicità dell'uomo, che risale all'"archetipo"
(Jung), alla "scelta ereditariamente condizionata (Szondi) e alla "totalità dell'esistenza".
Si sottopongono a psicoterapia prevalentemente le persone affette da nevrosi, ansia e
depressioni, che non sono più padrone di se stesse poiché la loro sofferenza, avendo
sequestrato gran parte delle forze della loro coscienza, limita in forte misura la loro libertà
d'azione. Ne deriva che sono in continuo conflitto coi propri complessi, i quali ostacolano
la loro realizzazione spirituale. Alcuni sanno persino che continueranno a ripetere sempre
gli stessi errori. Infatti questi stati patologici sono caratterizzati dalla incapicità di questi
pazienti di modificare la situazione con le proprie forze, la loro incapacità di evitare di
commettere sempre gli stessi errori dipende sia da insipienza sia dall'insufficiente
adattamento alla struttura naturale della vita, fisica e psichica, che accompagna certi
complessi, per cui la psiche si squilibra.
A tutto ciò si sovrappone un secondo strato - diverso da persona a persona, costituito
dalle idee fisse legate alle pulsioni, dai complessi profondamente radicati (per cui il
paziente ha costantemente una visione distorta della realtà), dalle complesse
modificazioni e limitazioni delle sue facoltà istintuali - il quale impedisce al soggetto di
acquisire conoscenza, di conoscere la realtà per quella che è, di agire con obiettività e di
conoscere se stesso. Di conseguenza egli non è in grado di agire consapevolmente.
Ebbene, la psicoterapia si propone precisamente di "sciogliere" questi legami, di liberare il
paziente dai suoi complessi affinché possa conoscere se stesso e il mondo che lo circonda
per quello che realmente è. Noi parliamo di espansione della coscienza perché la coscienza
viene liberata; parliamo di maggiore consapevolezza perché l'ignoto diventa noto.
Anche la psicologia Occidentale mira a rendere il soggetto responsabile dei suoi
pensieri e delle sue azioni, cioè autoresponsabile. Quindi la terapia psicologica, poiché si
propone di restituire al paziente la sua totale capacità di azione, è chiaramente in linea del
pensiero buddhista. Il primo a scoprire l'importanza delle informazioni che possono dare
le immagini oniriche è stato - e non è un caso Sigmund Freud. A chi non crede che le
proprie azioni influenzino la propria vita psichica (tanto personale quanto gelosamente
tutelata) la psicologia dei sogni e delle frustrazioni può dimostrare il contrario. Quindi
compito centrale della psicologia è quello di indicare al soggetto la via da seguire per
acquisire autoresponsabilità. Ecco dunque che tra i metodi che applicano gli psicologi e le
tecniche suggerite dai buddhisti è ravvisabile una sorprendente concordanza. Li
illustreremo di nuovo quando parleremo dalla simbolica del Libro tibetano dei morti.
Seguono entrambi la via analitica, eliminano entrambi tutti i fenomeni (psichicamente
condizionati) risalenti a cause che sono state seppellite e dislocate, appartenenti ad un
piano più profondo. Per entrambi si tratta di rendere trasparente il nucleo energetico della
psiche, vero centro della coscienza, affinché possa svilupparsi una capacità d'azione
autonoma e libera.
F ALAYAVINJNANA E STRUTTURE ARCHETIPICHE
Un altro concetto della filosofia del buddhismo mahayana, già trattato nel secondo
capitolo, è quello della coscienza universale o di base, che il buddhismo definisce
"coscienza serbatoio" (scr. alayavijnana, tib. Kun- gzhi rnam-shes). La traduzione letterale
dell'espressione tibetana ci fa capire che per alayavijnana si intende la "coscienza di tutte
le cause" responsabili dei pensieri e di tutte le altre attività spirituali (mentali). In
particolare la filosofia yogacara o la Scuola delle "dottrine sulla coscienza" (scr.
vijnanavada) sostengono che tutte le cose, quali oggetti, tutte le immagini e tutti i
fenomeni che conosciamo non sono allo che spirito e coscienza. Vale a dire, noi
conosciamo le cose come tali, nella loro molteplicità e individualità, solo quando esse
diventano contenuto della coscienza. Presupposto del processo conoscitivo è la coscienza.
Mentre tutto ciò che non fa parte della coscienza, non è presente in essa, è inesistente. In
conclusione: l'intero momento oggettivo non è che coscienza perché presupposto della sua
conoscenza è la coscienza. Secondo la teoria idealistica vijnanavada, l'imprenscindibile
base ed essenza della realtà, suo indispensabile presupposto, è lo spirito (o coscienza
pura). Perciò lo spirito è l'assoluto, il vuoto che tutto compenetra di sé o "nirvana", perché
senza di esso nulla può essere pensato.
Secondo la stessa teoria nell'uomo questa coscienza serbatoio si compone di due livelli
che si differenziano solo per la loro funzione: come causa prima (statica e materna) e come
attività. La causa prima, o l'inesauribile potenza di tutto ciò che è in fieri, è l'alayavijnana.
La sua forma attiva operante è la coscienza pensante che si rigenera e si trasforma in
continuazione (scr- manovijnana, tib. Yid- kyi rnam shes). I testi buddhisti descrivono
l'alayavijnana immagine di un vasto oceano che simboleggia la pienezza e globalità di
tutte le acque. Quindi la coscienza universale è il serbatoio di tutte le impressioni
trasmesse alla coscienza dai sensi e dal pensiero differenziante. Ma tutti gli atti del
pensiero - coscienza differenziante producono effetti karmici, che si imprimono nella
causa prima, dove possono giungere nuovamente a "maturazione" sotto forma di nuovi
processi mentali. Anche il pensiero è determinato dalla legge del karma; però è un'attività
della coscienza che precede il compimento delle azioni. Ma è karma anche il "vento"
dell'energia cosciente prodotto dalla persona e condizionato dalle sue azioni, che soffia
sulla superficie dell'oceano della coscienza universale. Questa si increspa in mille onde e
genera pensieri ed associazioni di idee che emergono dal profondo della coscienza
serbatoio. Il pensiero (o coscientizzazione) è l'interrotto processo di moltiplicazione di
contenuti immanenti alla coscienza che diventano oggetto. Il karma, la situazione
individuale della persona prodotta dalle varie cause, fa emergere dalla coscienza
individuale immagini, idee e nozioni che erano ignote o ignorate perché contenute tutte,
come semi karmici, nella potenza universale della coscienza universale. Nella latenza
della coscienza ogni immagine individuale ed ogni pensiero, anche se non ancora
differenziato, è già archetipico.
Non è certo un caso ma una realtà, un fatto importantissimo per la storia della
coscienza, che in Occidente si sia ragionato in modo analogo fin dall'antichità. Il primo a
formulare una teoria delle idee è stato Platone, che definisce le idee "eterni archetipi
mentali (spirituali)", immagini mentali eterne ed immutabili, presenti come modelli delle
cose sia nell'individuo sia al di là di esso, sul piano prenatale. Per Platone le idee sono il
vero "reale" e soprattutto l'archetipo, del quale le idee manifeste partecipano solo
condizionatamente perché sono un'espressione limitata e parziale del tutto delle idee.
Tramite Socrate, Plotino e il medioevo la teoria delle idee attraversa tutta la storia dello
spirito dell'Occidente, anche se con qualche variante. Forse la ritroviamo, opportunamente
traslata, nella psicologia, la quale afferma che nella coscienza dell'uomo opera un
invisibile archetipo che agendo da profondità sconosciute influenza il suo comportamento
in modo caratteristico.
S. Freud esaminando certi contenuti onirici arcaici e che ricorrono costantemente è stato
il primo a rendersi conto che nei sogni esiste un materiale "lifogenetico" evidentemente
"ereditario" che rispecchia contenuti e funzioni della coscienza precedenti a quelli della
vita personale. Per C. G. Jung e la sua scuola non c'è alcun dubbio: nella coscienza
dell'uomo si manifestano modelli preformati, gli archetipi; che sono dominanti strutturali
dell'inconscio collettivo. Jung vede in essi una definizione energetica della psiche, punti
preformati di cristallizzazione nell'inconscio, che diventano "archetipi" solo quando la
coscienza prende atto della loro presenza. Però non possiamo dire che gli archetipi sono
presenti nell'inconscio come tali; infatti in esso esistono solo potenze strutturate che si
rendono riconoscibili come archetipi in determinate condizioni. Jung le definisce come
"autoillustrazioni degli istinti" perché si identificano con le funzioni sicuramente
primordiali degli istinti naturali.
Quando entrano nella coscienza gli archetipi fanno proprio il carattere tipico della
coscienza "differenziante", che divide, e quindi acquistano una doppia valenza e un
significato ambivalente. Ebbene il sistematico simbolismo antinomico del Libro tibetano
dei morti, che poggia su simboli archetipici, va inteso tenendo presente questa funzione.
Ma quelli che noi conosciamo come "archetipi "ricevono la loro invisibile "preimpronta"
energetica nell'inconscio, del quale sono una dominante strutturale, o una struttura
primordiale, che può essere definita anche "predisposizione istintuale". In biologia (nel
campo della psicologia degli animali) tali strutture sono conosciute come coordinate
ereditarie, come fattoli che scatenano comportamenti ben determinati, sempre uguali. Per
quanto riguarda gli archetipi della psicologia junghiana il biologo A Portmann ritiene
determinante nella psicologia degli animali la "conoscenza di un mai - percepito da parte
di una struttura centrale ereditata". Secondo Portmann scatenano funzioni tipiche alla
superficie di un comportamento visibile determinanti "fattori scatenanti". Questi fattori a
loro volta consentono di ipotizzare la presenza di funzioni archetipiche che preformano i
comportamenti dell'esistenza in atto. Abbiamo accennato a questi problemi della
psicologia solo per dimostrare che il problema di una coscienza primordiale, e quindi
della trasmissibilità dei contenuti della coscienza, è reale e ha sempre stimolato l'uomo a
chiarire il fenomeno. Il concetto buddhista di alaya vijnana è una prima rappresentazione
asiatica della problematica, che sul piano filosofico presenta qualche affinità con la
dottrina delle idee di Platone. Oggi la psicologia si interroga di nuovo sulla permanenza
delle esperienze umane che sarebbero conservate in un inconscio collettivo dalla struttura
archetipica.
2 Aspetti psicologici del libro dei morti tibetano
Sono molte le persone che nel momento
della morte non solo sono rimaste al di
sotto delle loro possibilità, ma
soprattutto hanno dimostrato di ignorare
cose che già mentre erano in vita erano
state rese note da altre persone.
C. G. Jung: Ricordi
Secondo la filosofia buddhista del Libro tibetano dei morti le divinità delle visioni
possono appire come realtà e al contempo come immagini illusorie. In altri termini, esse
sono da un lato realtà, dall'altro ingannevoli immagini prodotte dalla psiche. I due aspetti
sono giustificati entrambi e non si escludono fra loro. Secondo la filosofia buddhista non
esistono dei, cioè entità assolute. Infatti la loro esistenza è limitata, quanto meno al tempo
in cui gli uomini li riconoscono come tali. Però il Libro dei morti ricorre a figure divine, ai
buddha trascendenti, per esprimere certe caratteristiche spirituali o psichiche (divinità
pacifiche) e quelle ad esse opposte (divinità adirate), che si identificano con gli aspetti
dell'azione e reazione. Ma al di là e al di sopra di tutte le immagini e di tutti i simboli il
buddhismo pone il nirvana, lo stato di liberazione e redenzione in cui non esistono
immagini, che perciò definisce anche "grande vuoto". In questo vuoto che compenetra di
sé tutte le cose, simbolo verbale della non - descrivibilità priva di attributi di uno stato di
trascendenza, le figure della realtà e dell'apparenza, essendo relative, si dissolvono,
perché qui, alla meta "non è più raggiungibile nulla" che sia rappresentabile.
In quanto realtà i Buddha e i Bodhisattva della meditazione aiutano a comprendere i
contenuti filosofici e religiosi delle dottrine buddhiste. Poiché per i seguaci del mahayana
sono le grandi immagini che ci giuidano sulla via spirituale, simboleggiata dai Buddha
trascendenti, essi si identificano coi contenuti etici della dottrina. Come Dhyanibuddha
essi indicano la via che conduce alla suprema consapevolezza, alla realizzazione
metafisica dell'esistenza. Però il Libro dei morti ci insegna che i Buddha sono soltanto
forme visibili della pura natura interiore della coscienza, che sono solo manifestazioni
della luminosa natura dell'uomo da sempre presenti in lui.
Si giunge così al secondo livello, il livello della constatazione psicologica che tutte le
figure, tutte le visioni e tutti gli archetipi sono manifestazioni della propria coscienza. Noi
ci accorgiamo che sono proiezioni della nostra coscienza perché rappresentano
(riproducono) contenuti presenti nel suo profondo.
Allo stesso modo le proiezioni delle divinità delle visioni sono logiche deduzioni tratte
dalla filosofia mahayana, che, dandone un'interpretazione psicologica, insegna al
contempo che tutte le immagini, tutte le forme e tutti i pensieri vanno intesi come
manifestazioni o prodotti della coscienza. Quelli che sul piano della realtà sono modelli di
realtà spirituali, sul piano psicologico sono proiezioni (contenuti sotto forma di immagini)
della coscienza e figure simboliche che rappresentano processi psichici di fenomeni
concreti di trasformazione della coscienza. Quindi sono reali finché poggiano sulla realtà e
sulla sua rappresentazione come contenuto spirituale; però appena simboleggiano
qualcosa debbono essere interpretate in senso psicologico. Uno è l'aspetto filosofico, l'altro
l'aspetto psicologico; entrambi sono espressione di quell'unica realtà che è la coscienza
umana. Ciò che sul piano esclusivamente filosofico della metafisica buddhista, qui
rappresentata da immagini sommamente numinose, veniva motivato metafisicamente,
viene rappresentato sul piano psichico delle proiezioni della coscienza come una realtà
psichica e perfino metapsichica. Psichica poiché si constata infatti che le divinità delle
visioni sono simboli dello spirito che corrispondono al simbolismo archetipico dei
processi immanenti alla coscienza. Viene costruita una realtà metapsichica in quanto
l'intero processo esistenziale della vita conscia ed inconscia viene dislocato al di là della
vita terrena, cioè trasferito nella trascendenza. Vale a dire, il principio psichico sopravvive
alla propria dimensione umana come proiezione e come postulato.
Quindi le dottrine sulla coscienza della filosofia yogacara, cui vanno essenzialmente
annoverate quelle del libro tibetano dei morti, suppongono che la coscienza karmicamente
gravata persista superando di gran lunga il tempo di vita dell'esistenza terrena
dell'individuo. Secondo esse la coscienza continua ad esistere finchè esiste la forza del
karma personale. Ora i Buddha possono rappresentare la meta, il punto d'arrivo, la
grande perfezione, o anche, in quanto immagini, in quanto coscienza raffigurata, tappe
sulla via della liberazione. Sono due tipi di conoscenza, due piani della prassi spirituale.
Ma l'ultima meta è per la filosofia del buddhismo mahayana il vuoto, il "così è", la pura
natura di Buddha o la natura adamantina trasparente come il cristallo della coscienza
umana, dalla intensità inimmaginabile, che l'intelletto comune non può afferrare. E`
sempre presente, però dev'essere trovata. Per questo uno dei quesiti del buddhismo zen
suona: Perché vuoi andare a cercare il Buddha col Buddha? E` come voler cercare il fuoco
col fuoco. L'autoconoscenza è uno spontaneo processo di sincronicità fra conscio ed
inconscio, fra intelletto o coscienza pensante e causa prima o alayavijnana. Qui tutte le
immagini e tutte le visioni si estinguono di colpo, scompaiono all'istante come folgorate; le
distrugge immediatamente (come un corto circuito) la pura conoscenza o illuminazione.
Questo è lo stato della "Chiara Luce" di cui parla il Libro tibetano dei morti, il solo stato
nel quale la stessa luce viene percepita dharmakaya. Per questo Il Libro tebetano dei morti
può annunciare prima la realtà filosofica dei buddha e della loro dottrina e dopo, quando
queste sono state capite, aggiungere che essi sono soltanto immagini ingannevoli ed
illusioni della propria coscienza perché il mondo interiore nella sua purezza non ha
bisogno di immagini della forma esterna.
L'uomo per trovare e realizzare a pieno la propria individualità può seguire la via
salvifica delle religioni, la via delle conoscenze spirituali e della liberazione ad opera della
filosofia e dell'etica, o applicare le tecniche e i metodi dello yoga e della psicologia. In
realtà sono tre vie solo apparentemente diverse perché ognuna di esse è una "copia"
perfetta o un simbolo dell'entelechia dello psichico dell'essere terreno e delle sue
possibilità trascendenti. In tutte e tre si ravvisa la stessa aspirazione alla
spiritualizzazione, la stessa ricerca della conoscenza di contenuti metafisici ed irrazionali,
lo stesso riferimento a quel puro "divino" che si manifesta già in questa vita.
Se consideriamo le diverse versioni della realtà della psiche constatiamo che i punti di
riferimento di una teoria dell'anima sono diversi, ma il ricchissimo patrimonio di simboli
(creato dall'esperienza per primordiale dell'uomo) è valido sorprendentemente per tutte:
dalla via dell'anima e del corpo spirituale e delle forze vitali dell'antico Egitto, che
conduce al Regno di Osiris, ai campi degli Iaru, alle trasformazioni ai vagabondaggi
dell'essenza animica purusa nel Pretakalpa del Garuda - Purana, all'angusto sentiero che
deve attraversare nel bar-do il "corpo cosciente" del tibetano defunto, la via attraverso
l'aldilà è descritta con immagini archetipiche e con simboli sorprendentemente
concordanti. E` riconoscibile la fenomenologia di una potenza di espressione psichica
collettiva che non può che risalire a simboli sempre (più o meno) simili perché archetipici.
Qui si ravvisa la legge per la quale la coscienza la coscienza risponde alla problematica
ontologica dell'essere e dello sperare dell'uomo mediante reazioni archetipicamente
condizionate.
Dietro tutte queste diverse descrizioni di un'anima provvista di forma o di una
coscienza dalla struttura tura amorfa, si trova la comune e collettiva causa di intuizioni
psichiche, o forse anche di esperienze reali. Tracciare una linea divisoria fra le due è
impossibile. Però il Libro tibetano dei morti ha illuminato quanto meno il campo oscuro
che sta in mezzo. Adesso sappiamo che tante situazioni psichiche della vita dell'uomo,
tante angosce e frustrazioni del sogno e della realtà, le frustrazioni delle grandi tensioni e
dei grossi conflitti psichici, possono produrre immagini di tensione, demonicità, distacco e
trascendenza, sofferenze molto simili a quelle dei mendi postmortali di cui parlano tutti i
libri di sapienza dell'umanità. Ecco perché troviamo descrizioni analoghe nell'Antico
Testamento, nelle scritture ebraiche, nelle tradizioni egizie, greche, indiane o per
l'appunto tibetane.
E` solo una proiezione, un'autoraffigurazione dell'originaria paura della morte, il bardo, il doloroso stato intermedio tra due forme di vita in cui la coscienza deve prendere
decisioni? Uno psicoanalista non avrebbe dubbi, lo definirebbe senz'altro così. Ma è
davvero questa la risposta agli interrogativi che l'uomo si pone da millenni? Sì e no.
Anche il Libro tibetano dei morti del resto dà una risposta ambivalente, che permette una
valutazione filosofica e una psicologica, un pronunciamento relativizzante e uno
assolutizzante. Da qui il vuoto, che è un concetto al di là dei concetti. O non si tratta
piuttosto di un'esperienza trascendente che si affaccia all'esistenza come una realtà intuita.
E` un interrogativo sul quale ritorneremo. L'esistenza della metafisica, che ci trasferisce al
di là della realtà materiale e fisica, non può essere dimostrata, né empiricamente né
scientificamente. Ma se è così, allora è impossibile anche stabilire la sua dimensione. Vale
a dire, la sua dimensione non può essere limitata da misure fisiche. Anche gli eventi
metapsichici (se partiamo da una psiche legata all'individuo che sopravvive all'individuo
come essere unico), perdono per noi la loro dimensione e le misure di una psicologia
riferita unicamente all'aldiquà. Se sappiamo troppo poco già della psiche dell'uomo, della
vera dimensione di una coscienza, come facciamo a immaginare (con quel poco che
sappiamo) i mondi del bar-do? Occorre fondare una nuova disciplina: una fenomenologia
degli stati possibili e delle possibili speculazioni. Esiste anche una quantità di prove, tutta
la storia dello spirito è una testimonianza, dimostra che anima e coscienza sono più che
unica e transitoria fisicità. Con tutto il materiale che abbiamo a disposizione: i numerosi
scritti sulle esperienze e le speculazioni sull'aldilà, e i Libri dei morti con le loro
"categoriche" enunciazioni, potremmo istituire una nuova disciplina, una "fenomenologia
delle esperienze ultraterrene", suffragata dalle "certezze" enunciate. Invece, finchè viviamo
in questo mondo, quel mondo non può che rimanere un mistero. Ma anche rimanendo
tale, i contenuti del Libro tibetano dei morti rappresentano un incredibile fundus di una
prestazione psichica che aiuta a far luce sul fenomeno vita - anima - divinità.
Il Bar-do thos- grol, il Libro tibetano dei morti in tutte le sue varianti ed
indipendentemente dalle connotazioni religiose, si offre a noi come un'opera didattica,
come un testo sul comportamento della coscienza dell'uomo dopo la morte che descrive
gli eventi come proiezioni psichiche di una coscienza che nell'aldilà reagisce esattamente
come reagisce sul piano terreno. Il Libro tibetano dei morti è soprattutto un libro di vita,
sulla vita, perché le conoscenze che bisogna possedere per superare le prove del Bar-do
debbono essere acquisite già durante la vita terrena. E` la base della condotta di vita
buddhista e la guida spirituale che conduce il defunto attraverso il bar-do. Senza questa
base il Libro tibetano dei morti sarebbe un libro sull'aldilà e non parlerebbe un linguaggio
traducibile nel linguaggio del pensiero razionale. Invece l'opera rituale riferita al Libro dei
morti è strutturata in un altro modo. Comprende, sì, i contenuti essenziali del Libro dei
morti e della sua filosofia, ma si dilunga soprattutto nella descrizione delle pratiche da
seguire nei riti funebri, nelle consacrazioni, nelle iniziazioni, nelle cerimonie sacrificali e
nelle preghiere, che rappresentano un'importante integrazione della parte dogmatica vera
e propria.
Nella dottrina buddhista del trikaya, che offre la base per comprendere le
trasformazioni nel bar-do, sono riconoscibili tre fasi di manifestazione della coscienza. La
manifestazione più alta, il grado supremo dell'essere puro, è quella della coscienza
irradiante, quale Chiara Luce che illumina se stessa nello stato di modo charmakaga. E
coscienza in sé e perciò viene equiparata al grande vuoto che consente la totale pienezza
dello spirito. Ecco perché lo stato del di modo charmakaga è simbolicamente
rappresentato dall'adibuddha Samantabhadra nudo e di colore blu scuro. Il blu scuro è il
colore della coscienza potente, pura, dell'intelletto assorto nella meditazione; e "nudo,
senza veste" equivale a "senza attributi", o "dalle qualità che è impossibile descrivere".
Nello stato di dharmakaya la coscienza pura è allo stato nascente, è nella condizione che
precede il divenire della creazione, la nascita dei contenuti della coscienza. La sua potenza
è intatta e "non divisa".
Quando compare una "controparte", cioè una meta oggettiva, inizia un processo di
autoindividuazione, inizia l'attività cosciente e ha luogo un'emanazione di coscienza nei
diversi livelli. La simbolica controparte nel Libro Tibetano dei morti è la consorte dei
buddha, la Prajna o Dakini. Il suo inscindibile congiungimento (unio mystica) col Buddha
simboleggia l'inizio di tutti i mandala, di tutte le strutture psichiche e dell'insieme di tutti i
simboli del buddhismo mahayana.
Un secondo piano di coscienza è il regno (delle visioni) delle figure trascendenti visibili
che si manifesta nel sambhogakaga, il piano della visione celeste e divina. Dal punto di
vista del corpo fisico terreno il sambhogakaya, lo stato di estasi della coscienza, è una
proiezione "estatica" vissuta nello spazio più interno della coscienza o, attraverso la
visione, nello spazio più esterno. Le tecniche di meditazione del buddhismo vajrayana
prescrivono per lo più due vie di realizzazione psichica. Una esterna, che è la
visualizzazione e la immaginazione attiva di simboli, mantra ed immagini di divinità che
proiezioni di vario genere riempiono il significato, vale a dire l'immagine, che si conosce
nella proiezione esterna, unendosi alla coscienza grazie a tecniche a hoc, porta
all'esperienza "estatica". Una interna, che, quale evento complementare nel centro della
coscienza non influenzato dal mondo esterno, è una consapevole irtroversione finalizzata
che porta all'evento "instatico", anch'esso "visionario" realizzantesi sull'orizzonte interno
della coscienza. La psicotecnica tantrico - buddhista si propone il congiungimento delle
immagini visionate all'interno con quelle visionate all'esterno della coscienza, cioè la
realizzazione dell'unità fra immanenza e trascendenza degli eventi visionati. Questo piano
corrisponde al sambhogakaya, al "corpo della beatitudine spirituale", alla visione
dell'immagine di Dio . Quale rappresentazione del numinoso nel suo più alto rapporto
antinomico, assume gli aspetti del redento e del demoniaco, che sono forme in cui la
coscienza si manifesta a seconda del suo stato.
Nel terzo livello, il livello umano, la coscienza è nel nirmanakaga, incarnata
nell'involucro mortale. Nella filosofia buddhista è il luogo della sofferenza; qui la
coscienza apprende la natura della transitorietà, della quale essa stessa è partecipe. Qui la
psiche è legata alla forma transitoria e soffre per insoddisfazione: è combattuta tra lo
spirito e la materia, fra la vita naturale - biologica e lo spirito costantemente in evoluzione
che si espande per rendersi libero ed indipendente. Tuttavia la vita umana, il periodo che
la coscienza trascorre nel corpo terreno, pretraccia una via che inizia nella
inconsapevolezza e poi giunge a una matura e in parte somma consapevolezza che è in
grado di sottrarsi alla forma terrena. Dopo essersi incarnata, la coscienza inizia a
percorrere una via in salita, la via che porta alla individuazione e - come si legge nel Libro
tibetano dei morti - raggiunge il vertice nel momento della morte. Dopo di che inizia un
percorso in discesa, il sentiero che porta alla reincarnazione. Dalla coscienza "liberata" al
cospetto del dharmakaya attraverso lo stato del sambhogakaya si ritorna alla
inconsapevolezza, all'arresto dell'attività spirituale, che precede l'inizio della nuova vita.
Queste tre fasi corrispondono rispettivamente al-Chi-kha i bar-do, al Chos- New nyid bardo e allo Sridpa i bardo. Dalla quasi totale non-consapevolezza l'uomo si evolve fino a
raggiungere la piena "Luce del Giorno", la piena consapevolezza, fino a diventare pura
presenza cosciente nel momento del trapasso, quando entra nel bardo. Il libro tibetano dei
morti definisce la via che porta alla successiva incarnazione "sentiero in discesa" perché la
coscienza, via via che si avvicina all'involucro mortale nel quale si incarnerà, perde
sempre più forza. Secondo la teoria buddhista, minori sono i gravami karmici nel bar-do,
migliori sono le prospettive di una definitiva liberazione degli esseri.
Come abbiamo già fatto presente, il Libro tibetano ulteriori Morti è una "camera del
tesoro" del simbolismo psicologico, è un libro che, come pochi libri di sapienza del mondo
antico, contempla una conseguente applicazione dei simboli archetipici. Ricorderemo
ancora una volta alcune di queste strutture archetipiche. Nella suddivisione primaria
troviamo il pregnante simbolismo della intensissima luce e quella degli abissi fumanti e
fiammeggianti immersi nel buio più profondo dei mondi degli inferi: l'estrema
contrapposizione di luce e tenebre o, in senso traslato, di suprema conoscenza e totale
ignoranza. Tutti i Buddha della meditazione appaiono circondati dalle radiose luci delle
saggezze, nei colori cosmici che caratterizzano l'illuminazione dello spirito ad opera del
sapere spirituale. Se ora confrontiamo il simbolismo delle fiamme dello Spirito Santo che
apparvero sopra le teste dei discepoli nella festa di Pentecoste, abbiamo anche qui
l'immagine archetipica della nascita della Luce, della illuminazione dello spirito che
annuncia una nuova coscienza.
Il bar-do dell'esperienza della realtà mostra la struttura immaginaria, ingannevole e
fallace delle figure divine che emergono agli orizzonti del proprio spirito come
manifestazioni della coscienza. Più a lungo dura questa fase del bar-do, cioè la
illuminazione della coscienza, più potenti si fanno le forze contrarie; le figure demoniache
che salgono dalle ignote profondità debolmente rischiarate dalle torbide luci dei sei Loka.
Sono le luci dell'intelligenza che si sta spegnendo perché offuscata dai mondi ancorati agli
istinti. Le divinità terrificanti che si oppongono alla conoscenza della realtà sono gli
Heruka, l'aspetto negativo delle divinità pacifiche, che assumono una forma
fiammeggiante quando l'intelletto dell'uomo si separa dalle radici della coscienza. E`
interessante il simbolismo archetipico delle divinità teriomorte che sul sentiero in discesa,
verso la fine delle visioni, annunciano la moltiplicazione del potere distruttivo della
Grande Madre. Torneremo sull'argomento più sotto.
A nostro avviso la comparsa delle divinità, pacifiche ed adirate, che, nonostante tutta la
loro varietà, vanno intese unicamente come aspetti e versioni del numinoso, ha un
significato straordinario sotto il profilo religioso-psicologico. Oltre a essere nell'altro che
immagini e "manifestazioni" della coscienza, esse esprimono la presenza del divino, che
nella psiche può assumere forme diverse. Il buddhismo non contempla alcun rapporto
con un Dio, o creatore personale, però contempla un allo supremo ideale: la natura del
divino. Lo dimostrano, per esempio, "i quattro stati divini" (scr. catur- apramanani) del
discepolo della dottrina buddhista, che sono uguali alle virtù di Brahma. Per il Libro
tibetano dei morti i Buddha e i Bodhisattva sono "divinità" detentrici di significati
metafisici che appaiono sulla via della illuminazione quali simboli della trasformazione.
Non sono dei nel vero senso del termine, come non lo sono nel buddhismo delle religioni
indiane. Anche se nel pantheon hanno il loro posto fisso in una delle regioni cosmiche, per
la filosofia e l'estetica buddhista essi non hanno alcun significato. Quindi i Buddha sono
divinità che simboleggiano sapienze e virtù buddhiste.
La loro comparsa nella simbolica del Libro tibetano dei Morti corrisponde alla struttura
archetipica dei contenuti numinosi della coscienza, in quanto la natura della divinità,
inafferabile dall'intelletto, può manifestarsi in due modi. R. Otto identifica i due aspetti
del numinoso col mysterium fascinans e col mysterium tremendum. Queste archetipiche
manifestazioni del divino corrispondono in qualche modo alle visioni del bar-do descritte
nel Libro dei morti. A seconda dello stato della coscienza malgrado le sapienze divine
appaiono come Buddha pacifici dall'aspetto allettante ed edificante, librati in sfere celesti,
del mysterium tremendum che incutono terrore. Il Libro tibetano dei morti fa presente in
continuazione che il Buddha - Heruka terrificante altro non è che l'Adibuddha
Samantabhadra, la controimmagine adirata della suprema visione pacifica. Queste grandi
immagini antitetiche appaiono solo quando nella prima "Chiara Luce" non è stato
raggiunto l'assoluto, il dharmakaya, la luce pura, la totale liberazione della coscienza.
Noi avevamo già interpretato tutte le divinità del bar-do come uno schema organico e
conseguente di contenuti e riferimenti psicologici. Ora la traduzione degli scritti tibetani
con l'interpretazione della simbolica buddhista non lascia dubbi: ci insegna che
effettivamente le divinità pacifiche ed adirate rappresentano elementi strutturali di organi
e riferimenti psichici. Secondo la classificazione tantrica tutte le divinità sono sempre
collegate con gli aspetti della polarità che autointegra, che può esprimersi nella coppia
maschile, femminile e in quella pacifica - adirata. Abbiamo definito "sui generis" la
comparsa delle divinità teriomorfe, che, poiché sono chiamate Dakini, evidentemente
sono di genere femminile. Esse appaiono prima come divinità demoniache antropomorfe,
e queste sono le otto Keurima; poi come divinità teriontropomorfe, e sono le otto Phra men- ma; ed infine nelle sembianze delle ventotto potenti divinità con la testa di animale,
e queste sono le divinità che iniziano al mistero dell'autodissoluzione totale che precede
l'inizio della nuova vita.
Queste dee evidenziano in modo chiaro i vari aspetti dell'aspetto negativo, distruttivo,
dell'archetipo della Grande Madre, e al contempo l'aspetto animalesche del lato in ombra
della psiche umana. Con gli attributi indiani e tibetani della simbolica cimiteriale, le dee
con la testa di animale rappresentano l'aspetto dell'annientamento. Le dee con la testa di
serpente, di tigre, di leopardo, di cane, di volpe, di cornacchia e di avvoltoio mostrano la
funzione distruttiva delle ultime visioni del bar-do, che hanno il compito di eliminare gli
ultimi residui del pensiero fallace e di un mondo illusorio. E` l'aspetto femminile che porta
l'annientamento. Le 28 dee appaiono in corrispondenza delle "quattro regioni cosmiche"
del proprio cervello per compiere la catarsi definitiva della coscienza, per liberarla di tutti
gli ultimi contenuti della falsa identificazione. In molti dipinti tibetani che rappresentano i
contenuti del Libro dei Morti, le divinità terrificanti sono collegate con la simbolica di
annientamento dei cimiteri, però stranamente figurano quasi sempre con simboli della
lunga vita, aggiunti successivamente.
Dunque anche qui è conservata la struttura polare della funzione antinomica
archetipica. Il simbolismo, nonostante l'annientamento, annuncia la sopravvivenza della
coscienza sotto le nuove forme di un'esistenza transmigrata. Infine le divinità pacifiche e
adirate nel loro insieme esprimono anche la globalità della psiche umana, la cui
profondità si manifesta sempre con simboli ambivalenti. L'archetipo si mostra sempre con
varie immagini e contenuti: è una sua funzione fondamentale e una sua caratteristica. Non
esiste un'unica immagine di un archetipo; esistono sempre e solo più immagini; ed ogni
aspetto riproduce un solo lato dell'archetipo. Le forze dell'animo nel centro del cuore e
quelle dell'intelletto formano un'unità funzionale che permette un'integrazione dinamica
degli opposti. Lo evidenzia con tutta chiarezza in bel dipinto tibetano della tavola 4, dove
Buddha Vajrasattva unisce i due mandala (quello delle divinità pacifiche e quello delle
divinità adirate) nel centro della fronte. Ciò prova che le divinità cono proiezioni della
coscienza dell'uomo, contrastanti ma essenziale una cosa sola: Vajrasattva, la natura
dell'essere adamantino. Questa è la natura - di - Buddha, la coscienza pura o il "grande
vuoto".
Infine il Libro tibetano dei morti è una "camera del tesoro" dei mandala che, come
sappiamo, sono i più importanti simboli unificanti della psicologia. I mandala dei cinque
Tathagata e degli Heruka (loro controimmagini) rispecchiano la polarità dell'aspetto
numinoso nello spazio della somma unificazione psichica, dove tutte le immagini
antitetiche presenti nella psiche costituiscono di nuovo l'unità. Questa prestrutturazione
data nel mandala da simboli chiari e precisi per l'esercizio dell'attività conoscitiva pratica,
si trova nel quadrato (che esprime gli elementi e le strutture spirituali) e nel cerchio (che
esprime l'unità cosmica e collegante del psichico). Nel cerchio e nel quadrato l'uomo
profano e l'uomo sacro si uniscono nel simbolo dell'unità spirituale. La vita terrena, cui
viene dato un significato trascendente e metafisico, viene trasferita in un ordine cosmico e
sacro. La universalità e globalità derivante dall'individuazione di un'esistenza umana
consapevole viene rappresentata in un mondo cosmico e divino dai riferimento psicologici
dove un fiammeggiante cerchio di luce di cinque colori avvolge il quadro. E` la coscienza
splendente nei suoi cinque elementi che avvolge una "sfera celeste" e comprende il livello
in cui si manifestano i simboli divini. Quando anche i mandala buddhisti sono immagini
di visioni e non ancora realtà ultime; ma, quali strutture archetipiche della quaternità,
simboleggiano i regni dell'assoluto, della grande luce del di modo charmakaya - una
struttura tuttavia che, come base, rende possibili tutte le forme che nascono
dall'indescrivibile vuoto.
Per lo psicologo i due grandi mandala del Libro tibetano dei morti rappresentano un
doppio quaternio sui cui piani figurano le manifestazioni del numinoso e quelle della
coscienza, secondo l'ordine psicologico e cosmologico. Ogni ordine ha un assetto polare,
cioè il simbolismo della complementarità degli aspetti maschile e femminile della
coscienza. Ognuno degli ordini, con i simboli totalitari ed unificanti, porta un livello del
numinoso, il livello che ne riflette l'aspetto pacifico e quello che ne riflette l'aspetto
terrificante. Sono entrambi campi d'azione e dimensioni della coscienza, e nel bar-do
debbono essere illuminati dalla luce della conoscenza. Solo dopo può aver luogo sul piano
della coscienza la liberazione ad opera della visione (tib. mThong- grol), che trascende lo
stato del figurato e del simbolico per raggiungere la realtà priva di immagini.
I processi conoscitivi che travalicano la morte fisica sono fra le condizioni poste dai
creatori del Libro tibetano dei morti. Evidentemente per essi la sopravvivenza della
coscienza era una realtà. A noi restano poche possibilità di avanzare nel regno dell'ignoto,
nonostante anche la nostra psicologia attribuisca un indubbio valore all'intuizione, al
presentimento, alle visioni oniriche che si avverano e ai fenomeni di sincronismo, che
confermano l'esistenza di altre dimensioni psichiche già note.
In psicologia analitica a partire da C. G. Jung conosciamo l'espressione "funzione
trascendente", un concetto che nel processo di individuazione psichica consente la sintesi
fra conscio ed inconscio grazie alla formazione di simboli unificanti. Siamo in possesso di
conoscenze sulla natura del creativo, il quale - come tutti gli atti consapevoli - può aver
luogo sempre solo con la partecipazione all'inconscio di un potenziale a noi noto. In esso
tuttavia riconosciamo la partecipazione delle funzioni vitali consapevoli ad un inconscio
molto più complesso, delle cui dimensioni non abbiamo idea. Fino a che punto l'ignoto
abisso della nostra limitata consapevolezza potrebbe continuare ad operare al di là
dell'esistenza fisica? O nell'aldilà, prima che dal seno della Potenza Primigenia nasca una
nuova consapevolezza, avviene una contrazione sistolica, una riduzione al puro
inconscio? Meglio rinunciare alle speculazioni; servono solo a incatenarci a idee invece
che a realtà.
Come abbiamo già fatto presente, i Libri dei morti dei Tibetani, dei indiani e degli egizi,
i miti dell'eterno ritorno dell'uomo, i numerosi canti e preghiere che esprimono la
speranza in una vita migliore in un altro mondo e nella redenzione dell'anima, teorizzano
un'esistenza ultraterrena, formulano una teoria. Ora, per noi essi sono realtà in senso
filosofico e psicologico solo se chiamiamo la teoria che essi avanzano col suo nome, solo se
la definiamo tale iscrivendola in una mitica immagine tradizionale, sia pure suffragandola
con le acquisizioni della psicologia. Ma per noi essi sono realtà anche quando e se li
contestiamo con tutte le arti della ratio. Già la costruzione di mondi trascendenti, per
soggettivi che siano, è una realtà che non possiamo ignorare perché riguarda la nostra
coscienza. Quindi vale la pena occuparsene, quanto meno per propria utilità, a vantaggio
della propria anima in "questo nostro mondo". Ed anche se le prove, gli elementi di cui
disponiamo non sono sufficienti, non consentono una rappresentazione degli eventi e
delle forme di esistenza della psiche nell'aldilà, si tratta pur sempre di una ricca messe di
concetti filosofici e psicologici che ha il suo valore in questo mondo.
Troppi problemi rimangono aperti e conservano il loro segreto, qualunque sia la
risposta che cerchiamo, filosofica o psicologica. Anche il Libro tibetano dei morti è
"cresciuto" lentamente, i suoi autori hanno dovuto prima indagare e ricercare per poi
spiegare la condotta della coscienza nell'aldilà, o meglio il suo significato, in un testo che
ha connotazioni didattiche. Il comportamento dell'uomo nel bar-do deve ottemperare alle
leggi dell'entelechia, tuttavia l'uomo vuole realizzarsi già in questa vita, vuol raggiungere
già nella vita terrena il massimo grado di autoindividuazione e di coscientizzazione. Il
Libro tibetano dei Morti vuol aiutare l'uomo vivo a capire il significato del bar-do e della
nuova vita che inizia dopo i 49 giorni del bar-do, e servire da guida al defunto attraverso il
bar-do stesso. Gli autori del Bar-do thos- grol parlano dell'aldilà con la sicurezza di chi è
convinto della sua esistenza. Alla domanda: Cosa succede dopo il trapasso? Si può
rispondere solo con similitudini simboliche, che però aiutano a capire la sostanza del
problema. Chiudiamo il capitolo citando ancora una volta uno dei grandi libri di sapienza
dell'antica India, la Chandogya - Upanisad (8. 1. 6): "Perciò chi si separa da qui senza aver
conosciuto l'anima e quei veri desideri, vivrà in tutti i mondi una vita senza libertà;
mentre chi si separa da qui dopo aver conosciuto l'anima e quei veri desideri vivrà in tutti
i mondi una vita libera".