Anatomy and Physiology 6th Edition Gunstream Test Bank

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Anatomy and Physiology 6th Edition

Gunstream Test Bank


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Anatomy and Physiology 6th Edition Gunstream Test Bank

Chapter 01 - Introduction to the Human Body

Chapter 01
Introduction to the Human Body

Multiple Choice Questions

1. The term used to describe something pertaining to the internal organs is


A. visceral.
B. proximal.
C. peripheral.
D. deep.

Bloom's Level: 1. Remember


HAPS Objective: A4.2. Describe the location of body structures, using appropriate directional terminology.
Learning Objective: 01.04 Use directional terms to describe the location of body parts.
Section 01.03
Topic: Directional terms

2. The term peripheral refers to a structure that is


A. toward the abdominal surface.
B. away from the body surface.
C. away from the center of the body.
D. to the left of the midline.

Bloom's Level: 1. Remember


HAPS Objective: A4.1. List and define the major directional terms used in anatomy.
Learning Objective: 01.04 Use directional terms to describe the location of body parts.
Section 01.03
Topic: Directional terms

1-1
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Chapter 01 - Introduction to the Human Body

3. The chin is ________ to the mouth, and the knee is ________ to the ankle.
A. anterior; distal
B. inferior; distal
C. superior; proximal
D. inferior; proximal

Bloom's Level: 2. Understand


HAPS Objective: A4.1. List and define the major directional terms used in anatomy.
Learning Objective: 01.04 Use directional terms to describe the location of body parts.
Section 01.03
Topic: Directional terms

4. The integumentary system contains


A. bones, ligaments, and cartilage.
B. hormone producing glands.
C. brain, spinal cord, and nerves.
D. skin, hair, nails, and associated glands.

Bloom's Level: 1. Remember


HAPS Objective: A7.1. List the organ systems of the human body and their major components.
Learning Objective: 01.03 List the major organs and functions for each organ system.
Section 01.02
Topic: Survey of body systems

5. A tissue is
A. an organ with specific functions.
B. organs grouped together.
C. the structural and functional units of the body.
D. a group of cells that perform similar functions.

Bloom's Level: 1. Remember


HAPS Objective: A6.1. Describe, in order from simplest to most complex,the major levels of organization in the human organism.
Learning Objective: 01.02 Describe the levels of organization in the human body.
Section 01.02
Topic: Levels of organization

1-2
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Chapter 01 - Introduction to the Human Body

6. The lowest level of organization in the body is the ________ level.


A. organ
B. tissue
C. chemical
D. cellular

Bloom's Level: 1. Remember


HAPS Objective: A6.1. Describe, in order from simplest to most complex,the major levels of organization in the human organism.
Learning Objective: 01.02 Describe the levels of organization in the human body.
Section 01.02
Topic: Levels of organization

7.

A(n) ________ consists of a group of tissues working together to perform specific functions.

A. organ
B. organelle
C. molecule
D. tissue

Bloom's Level: 1. Remember


HAPS Objective: A6.1. Describe, in order from simplest to most complex,the major levels of organization in the human organism.
Learning Objective: 01.02 Describe the levels of organization in the human body.
Section 01.02
Topic: Levels of organization

8. The simplest structures in which the processes of life occur are


A. organs.
B. tissues.
C. molecules.
D. cells.

Bloom's Level: 1. Remember


HAPS Objective: A6.1. Describe, in order from simplest to most complex,the major levels of organization in the human organism.
Learning Objective: 01.02 Describe the levels of organization in the human body.
Section 01.02
Topic: Levels of organization

1-3
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negli anni, abbiamo riandato insieme tante cose di quell’età in cui tutto era
sorriso.
Poi l’ho riveduta il domani, e so di rivederla e di parlarle ancora.
E non è un sogno (perchè in certi momenti m’assale proprio il dubbio di
aver sognato), così ieri ancora sono penetrato nel boschetto, ho appoggiato
il fucile ad un tronco, mi sono curvato nell’erbe alte e selvatiche, fissato lo
sguardo allo svolto del viale d’olmi, che dal suo giardino mette capo al
boschetto, al nostro boschetto: all’ora consueta l’ho veduta comparire nella
sua veste chiara a piccole rose, bella, elegante, coi piedi nelle margherite,
spiccante sul fondo verde degli alberi, nella piena luce, nella pien’aria, tal
quale l’ho ancora negli occhi, come l’avrò sempre, campassi cento anni.
Ha promesso di ritornare. Non oggi, ma domani la vedrò ancora apparire
così: avanzare prima lenta lenta, poi studiare il passo, affrettarlo, e sul volto
chino, disegnarsi un sorriso e diffondersi un rossore di soavissima
allegrezza ed io come ieri, come ierl’altro, come il primo giorno, non oserò
muovermi, respirare, batter le ciglia, trepidante di vederla dileguar come un
sogno...
6 marzo 1842.
Ho trovato questi fogli stamane rimaneggiando le mie carte.

Sono vecchio, vicino al fine... non vorrei lasciare indietro nulla d’inutile...
Avevo già bruciate tante lettere, tante carte, quando ho trovato queste. Le ho
gettate nel fuoco col resto,... mi è cresciuto subito in gola un singhiozzo e le
ho riprese.
Poi ho riletto attentamente.
Da molti anni ritirato, non più attore, ma spettatore della vita, al riparo
oramai da tutto ciò che inebbria e che illude, triste, misantropo come un
vecchio moralista, non avrei creduto più che la lettura di poche frasi da
tanto tempo sepolte, potessero suscitare in me tal tempesta. Ho rimosso le
ceneri, cercato nel cuore tutti i ricordi sopiti, li ho evocati e mi sono gettato
indietro con loro nel passato, ora da essi accarezzato, ora atrocemente
ferito, sorridendo, piangendo, smaniando come un giovane.
Ogni attività deve calmar l’anima; così mi parve di potermi sbarazzare di
tutte queste idee, di tutti questi rimpianti scrivendoli... Trovare conforto ai
pensieri dolorosi esprimendoli, aggiungendo invece di distrurre, compiendo
ora quello che avevo incominciato a tanta distanza di tempo.
È un’ultim’eco della gioventù lontana tanto, o non piuttosto un’idea di
vecchio rimbambito?
Vi è poco ad aggiungere a quei fatti, se non avrò la forza di finire, lascierò
così queste pagine, come saranno, abbandonate al loro destino. Il mio
esempio sarà forse utile a qualcuno.
Il mio esempio?....
Mancano gli esempi nel passato, nel presente? Mancheranno nell’avvenire?
Chi seguisse, per esempio, sol nei giornali la storia di certi amori, notasse le
ferite, le morti... a capo d’un anno avrebbe, sommando, un campo di
battaglia, un mare di lacrime e di sangue.
Così vorrei gettare un grido lontanissimo nel futuro ed avvertire i figli di
mio figlio, i miei lontani nipoti, di risparmiare alla loro vecchiaia certi
terribili rimpianti.
Esaminando freddamente la condotta di chi spia, osserva, attende l’ora per
torre ad un altro la moglie; pensando a tutto quello ch’ei fa per trionfar del
dovere, anche all’infuori delle leggi morali e religiose, nasce in cuore il
disprezzo.
Eppure la mia passione era come una religione che divinizzava l’essere
amato; composta d’abnegazione e d’entusiasmo avrebbe accettato
qualunque sacrificio... Mi pareva che l’anima mia si fosse scelta una
compagna fin dalla fanciullezza,... che malgrado gli ostacoli Elena
m’appartenesse per un diritto naturale, potente, superiore ad ogni legge, ad
ogni umana convenzione.

· · · · · · · · · · · · · · · ·

L’ultima domenica del mese di agosto, Elena doveva venire al boschetto,


alle tre, come nei giorni precedenti.
Ero arrivato molto prima dell’ora fissata, il tempo mi pareva lungo
nell’aspettare.
Dal punto in cui mi trovavo potevo scorgere, oltre al viale, la porta del
cortile che metteva nella piccola via verso il paese. Vidi aprirsi la porta ed
uscire le persone di servizio di Miniuti, allegre, in frotta, vestite a festa. Mi
ricordai, che ad una borgata vicina, al Verneto, si celebrava San
Bartolomeo; costoro dovevano aver avuto licenza d’andarvi. Se Miniuti era
uscito a caccia come al solito, Elena era certo sola in casa... Guardai
l’orologio, segnava le due e mezzo appena.
Aveva piovuto nei tre giorni innanzi, da tre giorni non l’avevo veduta, e mi
frenavo a stento, impiegando tutte le forze della ragione, della prudenza, per
non spingermi fino alla casa. Mi aggiravo pel bosco e sentivo nell’aria
satura di elettricità l’avvicinarsi d’un temporale.
Saliva dall’orizzonte, al di sopra degli alberi, un gruppo di nuvoloni
cenerognoli, le foglie dei pioppi spiccavan tremolando, come piastrelle
d’argento, sul fondo già scuro del cielo.
Ritornai sempre più concitato al solito posto.
Mentre scoccavano al campanile della parrocchia le tre, la vidi arrivare
frettolosa, stesi le braccia allontanando il fogliame per aprirle il passo fino
al mio petto,... poi lasciai le fronde, che si rinchiusero avvolgendoci.
L’avevo finalmente tra le braccia, le mormoravo colle labbra nel collo,
quanto sentivo in cuore da tre lunghi giorni.
Un soffio minaccioso passò sibilando fra gli alberi, i nuvoloni grigi
comparvero nell’alto, cacciando davanti uno sciame di nuvolette
bianchiccie, disperse, scarmigliate come brani di cencio sfilacciati; poi
guizzò un lampo, seguì subito uno scroscio di tuono, sentii sul viso una
goccia, una sulla mano, altre mille crepitar sul fogliame.
Elena si sciolse e si affrettò verso casa.
Laggiù le imposte sbattevano, la banderuola del comignolo girava
cigolando furiosa, gli alti alberi del giardino, disperatamente contorti,
s’inchinavano sino sul tetto.
Io seguitai Elena... non mi pareva di doverla lasciare... nessuno poteva
essere tornato ancora. L’uragano, scoppiato quasi all’improvviso, doveva
aver costretti quelli che erano fuor di casa a cercar ricovero nel riparo più
vicino.
La pioggia portata dal vento, cessò mentre si attraversava il viale, ma
ricominciò quando giungemmo alla porta ed allora le goccie presero a
scendere violente, filate come freccie d’acciaio.
Elena aprì l’uscio ed entrò.
Non ebbi tempo, a pensare, a riflettere, ad esitare, mi trovai travolto
dall’uragano, curvato, spinto al di là della soglia, una folata rabbiosa,
all’aprirsi della porta, scese rombando giù per la scala, e la rinchiuse su di
noi con fracasso.

Quando tornai verso Polonghera i nuvoloni neri sparivano all’orizzonte, il


cielo in alto era terso, azzurro, con una sfumatura d’arco baleno.
Il vento correva sui cespugli, sfiorando, inchinando le erbe e gli steli,
rendeva ora cupo, ora chiaro e lucente il verde dei prati, staccava dai rami
fronzuti le goccie d’acqua, che traversate dai raggi radenti, brillavano in
aria come diamanti.
Mi ricordo di tutto.
Mi ricordo che affondavo nei solchi, sentivo l’acqua penetrarmi negli
stivali, che l’aria freschissima e profumata mi accarezzava il viso, e la
respiravo con ebbrezza... il passato con le sue amarezze era lontano, spariva
indietro all’orizzonte coi biechi nuvoloni, l’avvenire era davanti come un
gran velo color di rosa, ben teso, senza pieghe, e mi pareva di non aver che
a stendere la mano e sollevarlo pian piano badando solo a non squarciarlo
brutalmente.
Quando giunsi all’albergo, le stelle si accendevano in alto, in fondo il
Monviso spiccava ancora netto sulla tinta ranciata che andava morendo; una
gran pace pioveva dal cielo e si allargava sul villaggio e sulla pianura, ad
ora ad ora più sfumati, più perduti nell’aria che si andava oscurando.
Montai alla cameretta, trovai imbandita la cena, accese sul tavolo due
candele.
Posato nell’angolo vicino al canterano il fucile, sedetti a tavola ed aprii per
abitudine contratta un libro. Ma perduta tosto ogni coscienza dell’azione,
cominciai a riandare la benedetta storia del cuore.
Rivedevo così le vicende tutte della giornata: la partenza al mattino nel
timore di non trovarla neppur quel giorno, le ore d’aspettativa angosciose, il
momento ineffabile della sua apparizione... il temporale... poi la camera a
pian terreno... la pioggia che scrosciava al di fuori, che si frangeva sui vetri
in lucide lacrime, infine,... i ricordi ardenti che mi bruciavano il sangue.
Aveva trovato sulla spalla un lungo filo lucente, un capello nerissimo, lo
avevo avvolto al dito, e vi posavo con frenesia le labbra.
In faccia, fuori della finestra aperta, i rami d’un pero poveri di foglie,
staccavano sul cielo come zampe d’un ragno fantastico, colossale.
All’improvviso là, di mezzo a quei rami uscì uno strido vicino, acuto,
malaugurato, che mi scosse, mi ruppe brutalmente il filo delle idee, mi gettò
un freddo nelle ossa.
M’alzai, venni alla finestra e battei con forza le palme, credendo così di
cacciar l’uccello di sinistro augurio.
Vidi la civetta scuoter l’ali, camminar di fianco lungo il ramo, perdersi tra le
foglie, e ripetere subito il grido maledetto.
Allora andai all’angolo fra il muro ed il canterano e presi il fucile: toccando
l’acciarino m’avvidi che era scarico, stesi nell’ombra la mano al chiodo ove
solevo appendere il carniere, nel quale avevo polvere, piombo, tutto
l’occorrente.
Il carniere non v’era.
Guardai sul letto, cercai sul canterano, sul tavolo, per le sedie, volli
raccapezzarmi se l’avessi consegnato all’ostiere entrando con selvaggina
uccisa nel giorno.
No, quel giorno non avevo sparato...
Scesi la scala per entrare a pianterreno.
Sulla soglia una luce terribile mi abbagliò, mi rischiarò la mente.
Lo vidi, Dio Eterno! in quel momento il mio carniere,... lo vidi a Murello,
nella sala a pian terreno, nella casa del Miniuti!
Mi parve che il cervello dovesse scoppiare sotto l’urto del sangue che vi
affluì.
Ebbi subito la visione chiara, netta, terribile della scena che doveva
succedere in quel punto. Miniuti al suo ritorno aveva trovato il carniere... vi
aveva frugato, letto il mio nome, i miei connotati sulla permissione di porto
d’armi,... indovinava sull’atto, scopriva tutto, si avventava contro Elena
ruggendo, e lei si smarriva, non poteva negare, schermirsi, non sapeva
fuggire.
Li vedevo, li sentivo, la visione diventava realtà fino all’allucinazione, alla
pazzia.
Saltai nel cortile, sfondai d’un urto l’uscio della scuderia, senza pensare ad
aprirlo, gettai in fretta, in furia gli arnesi sul cavallo, e balzato in sella, lo
lanciai di carriera sul viale che mette alla strada di Murello.
Volavo come nel sogno, nell’incubo; non potevo ragionare, nè formar
progetti.
Arrivare... portarla via, salvarla...
Mi pareva di sentir una voce lontana che mi chiamava là nell’oscurità, dalla
parte di Murello, e allora volevo cacciar come un grido altissimo perchè si
difendesse, fuggisse, mi aspettasse. Poi mi vedevo Elena davanti, pallida,
straziata, morente, che mi tendeva le braccia perchè la prendessi, la salvassi,
e stringevo rabbiosamente le ginocchia e mi curvavo in sella, scosso dal
capo alle piante da un gran tremito, col sudore che mi gocciolava sulla
fronte, mi rigava le gote, mi offuscava la vista.
Ad un punto mi fermai di scatto, sentivo gorgogliar l’acqua a sinistra,
discernevo a destra un piccolo edificio chiaro.
Avevo sbagliato strada! Al santuario di Polonghera invece di torre a destra
verso Murello, avevo svoltato a sinistra, mi trovavo tra la capella di San
Giacomo ed il ponte sulla Macra, ad un trar di schioppo da Racconigi.
Mi serrai coi pugni le tempia, mi parve di impazzire.
La strada da Racconigi a Murello mi si apriva davanti: erano tre nuove
miglia; serrai tra le gambe il cavallo, come se avessi voluto soffocarlo, gli
urlai all’orecchio le più strane e insensate parole, le più violenti
imprecazioni, e ricominciai ad andar come il vento all’impazzata...
Ad uno svolto fui per dar di cozzo in una vettura che arrivava, essa pure,
precipitosa e senza lanterne.
Il mio cavallo schivò da sè, e la oltrepassai.
Sull’istante il scivolar rapidissimo di quel legno, a quell’ora, nell’oscurità,
nel mistero, mi insospettì: Lei forse... trascinata lontano! bisognava saper
chi vi era... Voltai bruscamente il cavallo, la luna liberandosi in quel punto
dalle nubi che la velavano, batteva in pieno sulla strada: la vettura volava,
diminuiva nella distanza.
In un baleno le fui di fianco, mi curvai, cacciai il capo sotto il mantice...
E non ricordo più; mi par d’aver udito in un ringhio di rabbia, pronunziato il
mio nome, intravvisto un viso d’uomo sconvolto, un braccio agitarsi,
stendersi furiosamente contro il mio petto, un tuono, un lampo poi più nulla.
Seppi di poi che un carrettiere, alla luce livida dell’alba, mi vide steso in
traverso alla strada. Costui mi portò ad una cascina, e corse in tutta fretta a
cercar un vecchio chirurgo militare ritirato a Racconigi, molto abile nel
curare le ferite prodotte dal piombo. Egli estrasse la palla che m’era
scivolata sotto le carni del petto senza penetrar nella cavità, e dopo due
mesi entrato in convalescenza, camminavo, parlavo, ma ero come un uomo
che si sveglia da un lungo sonno, e stenta credere alla realtà degli oggetti
che gli cadono sott’occhio.
Poco si parlò a quei giorni dell’avvenimento, nessuno lo conobbe nei suoi
particolari veri ed esatti; — il Journal de Turin et de la 27me Division de
l’Empire français, gazzetta ufficiale del Piemonte, non ne fece pur parola,
— altri giornali parlarono d’un attacco di briganti, nel circondario di
Savigliano, e aggiunsero che, sebbene il famoso Mayno, sedicente
imperatore delle Alpi e re di Marengo, fosse stato ucciso fin dal 12 aprile
1806, e la sua banda distrutta, certi dipartimenti erano tuttavia infestati;
insistevano perciò sulla necessità delle ricerche, l’aumento delle taglie, ecc.
Ma in breve più nessuno s’occupò di quel fatto, le emozioni politiche ed
avvenimenti di terribile e capitale importanza assorbivano in quei giorni
l’attenzione del publico.
Il sangue altrove scorreva a flutti.
Tornai a Torino, ma l’animo non mi resse di restarvi; vagai nelle città vicine
senza scopo, finchè un giorno trovandomi ad Ivrea, presi d’un tratto una
vettura di posta per Aosta, traversai il San Bernardo, discesi a Martigny, e
per Ginevra e Bourg andai a Parigi.
Un mese dopo il mio arrivo presi servizio; speravo trovar potente
distrazione nel terribile avvicendarsi degli avvenimenti, o eterno riposo
nello spaventevole spreco di umane esistenze di quegli anni.
Fui ferito in Ispagna e guarii: in Russia ove andai sottotenente in un
reggimento di cacciatori a cavallo del corpo di Oudinot, lasciai due dita
sulle nevi, e ritornai in Piemonte coi capelli che ne avevano preso il
candore.

Un giorno questa casa, la cui soglia avevo già varcata una volta,... divenne
la mia.
Vi abitai sempre ed ho disposto di chiudervi gli occhi.
Nelle sue mura ancora per molti anni rapide apparizioni mi turbarono
l’animo, gettandomi agli occhi una forma, alle labbra un nome, nel cuore un
bisogno sconfinato, una smania terribile di riveder Elena, di amarla ancora.
Per molto tempo cercai la notte, l’ombra, il silenzio, i sentieri, i luoghi
solitarii, serrandomi ai muri, alle siepi, come un ladro, un mendicante.
Poi la calma della campagna cangiò i rimpianti in una melanconia dolce e
tranquilla, gli anni si aggiunsero agli anni; contrassi un debito di
riconoscenza verso un’angelica creatura che mi curò in una malattia che
doveva uccidermi, debito che mi fu dolce soddisfare, consacrai la mia vita a
chi l’aveva salvata, e ringrazio Iddio della felicità che mi accordò in
seguito.
Ora non ho più nulla a domandare alla vita; essa non è più davanti, ma
dietro di me; nessuna illusione mi nasconde la realtà, lasciandomi apparire
ancora orizzonti lontani... il termine è vicino, posso contare i giorni che mi
rimangono, un po’ di terra sul capo, et en voila pour jamais.
Miniuti non l’ho rivisto più mai, d’Elena non ho forza scriver più.
Avrei potuto bruciar quei fogli e sperdere fino l’ultimo atomo delle loro
ceneri, ma non avrei potuto annientare che struggendo il cervello, il
rimpianto angoscioso, il rimorso d’essere stato la causa diretta della fine
atrocissima di una persona per la quale avrei data la vita senza esitare.
Poichè tutto è lontano, tutto sparisce nel passato irrevocabile, sparirà con
me anche quest’ultimo spaventoso ricordo...
Il sole si alzò splendido il domani; Mario, Rocco ed io, entrammo in caccia
senza contrattempi.
I cani lavorarono a dovere, i colpi si succedettero fruttuosi.
Alle otto si fece colazione appiè d’un gelso; pane, cacio, rhum nell’acqua.
Poi si ricominciò sotto il sole in tutta la sua forza, un sole tremendo, che
cadeva a piombo sul capo, e si nuotò così tutta la mattina, colle guancie
aggrinzite e gli occhi serrati, in un mare di delizia.
Bisognava pure divertirsi fino a sera.
Infine quando i cani ebbero penzolante fuor delle fauci tutta la lingua di cui
potevano disporre, quando si sdraiarono all’ombra, si allungarono nei fossi
col ventre nel fango, ci accordammo anche noi, esseri ragionevoli ed
indipendenti, la facoltà di stenderci al riparo dai raggi.
Il calore ci assopì, il sole girando, penetrò tra le fronde, ornò i nostri abiti di
cerchielli dorati, venne a bruciarci il viso, a colorarci sgradevolmente di
rosso le palpebre chiuse.
Le formiche, sagaci ed industriose, s’introdussero nei praticabili, si
dispersero sulle nostre persone alla scoperta di nuovi mondi a loro
sconosciuti.
Infine a sera lontani da casa parecchie miglia, ci incamminammo per
tornare, l’uno dietro all’altro nel sentiero fra le canape altissime ed i grani
turchi rigogliosi.
Io camminavo primo, poi Mario, poi il vecchio Rocco che cantava la sua
vecchia Complainte sulla diminuzione della selvaggina.
— Quando c’era il distretto, cari signori, quando i boschi venivano fino al
Rifreddo, Cr...o! che tempi! Lepri grosse come asinelli, con certe testaccie
quadre, e orecchie di due palmi, frotte di fagiani grassi come capponi che
passeggiavano nei sentieri, come tante confraternite di frati.
Si veniva all’agguato tutte le sere, sul limite del distretto. Eravamo sei o
sette, tutti lestofanti che non dico altro, ogni tanto pan... pan..., ed al
chiudere dei conti erano, sei, sette, otto lepri di meno nei boschi di Sua
Maestà.
Ma non si dormiva. Allora i dragoni non scherzavano, c’era un rigore
d’inferno, un lepre ferito al di qua, saltava il fosso a dar i tratti al di là e non
si poteva pigliarlo.
— Così, disse Mario, il confine non lo hai passato mai Rocco?
— Cioè, ecco... io qualche volta... ma c’erano altri che passavano, anche
tutte le sere. Pietro l’Ollaro, che è vivo ancora, sordo come le pentole che
fabbrica, era già tal quale... Tutte le sere così, stava un po’ al di qua,
gironzava, s’impazientava, poi, vlan... eccolo dall’altra e si perdeva nel
folto.
Passavano dieci minuti, pan...: si vedeva curvo, curvo, piccolo la metà,
arrivar come il vento col fagiano od il lepre nel dorso della giubba. A
correre non c’era chi lo cogliesse, neppure Beppo Gallo, che pure correva
bene anche lui... Tutto detto, fu colto presso Racconigi, in pien distretto,
sfuggì sotto al naso delle guardie che lo videro come vedo lor signori. Volò
quei tre miglia, giunse in paese, si fece veder nella via maestra così presto
che potè provar... Come si dice?...
— Provar l’alibi.
— Ecco precisamente, potè provar quello che dice lei. L’anticristo era
Filipotto; le brache come due sacchi,..... vi nascondeva i fagiani uccisi, uno
schioppo rugginoso, colla canna legata da due giri di spago; lo lasciava nei
cespugli la notte..... Pigliava poi fuoco quando si ricordava. Ma tant’è, a
casa senza aver fatto il suo colpo non tornava mai.

Del resto lui il difetto dell’arma lo conosceva; tanto è vero che quando
attaccata briga al gioco col Paschetta, volle freddarlo; andò a farsi prestare
un altro fucile..... trovò quel cane che glielo imprestò, e così uccise in quella
notte, buia come l’inferno, il suo miglior amico in cambio del Paschetta. Se
avesse adoperato il suo fucile, chissà, forse non avrebbe sparato...
— Mi ricordo, disse Mario, di quell’omicidio, io era piccino assai.....
rammento di aver veduta la pozza di sangue davanti al caffè.
— E Filipotto, non l’hanno arrestato?
— Potevano arrestare il vento i carabinieri! era più facile... Egli passò in
Francia nei zuavi o nei turcos... restò in Crimea alla presa di Malakoff.
E si andava ascoltando quel vecchio tutto abbandonato ai ricordi, che
accorgendosi della nostra attenzione, cercava nelle sue memorie quello che
potesse, secondo lui, interessarci.
La sera era scura, il cielo tutto coperto di nubi, la luna ne illuminava di
tanto in tanto un lembo vivamente, poi appariva annebbiata, nuotante in un
bagno di luce gialla, gettava un raggio pallido sulla terra e tornava a celarsi
lungamente.
Ad un punto il terreno dinanzi a noi sprofondava improvvisamente; il
sentiero girava sul margine di una fossa, irregolarmente scavata. Vi
giungemmo in un momento di fitta oscurità, io, che camminavo pel primo
nel sentiero, non vidi il precipizio e rotolai con gran fracasso fino in fondo,
trascinando meco una valanga di ghiaia e di terra smossa che m’entrò nelle
tasche, nelle scarpe, nel collo. I miei compagni si precipitarono a rialzarmi,
si accesero fiammiferi, si constatarono i danni. Il fucile era intatto, io
leggermente contuso e graffiato. Più paura che male.
Quando fummo di nuovo in cammino sulla buona via, domandai al vecchio
qual fosse l’utilità di quel precipizio, e perchè si lasciasse sussistere.
— La vede, quei del paese lo sanno che c’è; forestieri non ne passano mai...
Ma è vero quello che dice lei, poichè non serve a nulla dovrebbe essere
spianata da anni.
Un tempo,... eh! ma andiamo indietro molto, era lo scavo d’una fornace.
Si fermò, rinnovò il tabacco nella pipa, cangiò di spalla il fucile, si raccolse
un momento e ripigliò:
— Mi fa sempre un certo effetto a raccontarlo, eppure giacchè vedo che
s’interessano alle cose vecchie, là successe un fatto da far rizzar i capelli.
Mio padre, buon’anima, teneva questa fornace, molti, ma molti anni or
sono, la bagatella forse di settantaquattro o settantacinque anni fa. Una sera
che era solo sentì sul tardi fermarsi una carrozza sulla strada di Racconigi.
(È là a duecento passi e vi saremo a momenti). Egli non ci pose mente,
aveva la fornace che divampava come l’inferno, Dio ce ne scampi, e badava
ai mattoni che cuocevano. Quand’ecco comparir sul sentiero un signore alto
alto, vestito come un marchese, ma con un viso che metteva paura. Aveva
con sè una donna, una signora che pareva, come si dice, una tortora negli
artigli di un nibbio. Era giovane, la signora, giovane e bella, pallida che non
pareva più di questo mondo, aveva gli occhi fissi ed andava, diceva mio
padre, come una persona che dorma e vada in volta bell’e dormendo.
Il signore disse brusco brusco a mio padre che portasse del vino, che alla
signora era venuto male in carrozza.
Mio padre entrò a cercar il vino, nella sua capanna, tutto rimescolato, chè
quella poverina gli faceva pietà. Era al buio, non ci vedeva, badava a battere
la pietra, che allora non c’erano i fiammiferi come adesso.
Dalla porta aperta, sentiva che parlavano; lui ringhiava come un mastino,
poi udì due parole di lei... una voce fioca come morisse.
Non capiva quel che dicessero.
Ad un tratto uno strillo... che gli fe’ cader di mano tutto l’ordigno.
Saltò fuori.
L’uomo spariva nell’ombra... solo; mio padre corse alla bocca infuocata...
I capelli, cari signori, si rizzavano così quando raccontava... come se avesse
ancor negli occhi quello che aveva veduto.
Per terra c’era uno scialle da dama di alto rango. Mio padre lo portò a
Racconigi, lo vendette e coi denari fece dir tante messe per l’anima di
quella poveretta...
Mario mi strinse fortemente il braccio, guardandomi fisso, io accennai di sì
col capo, ero come lui convinto che Elena aveva finito così.

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