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Hard Real Time Computing Systems (The


International Series in Engineering and
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invocando la donna, e, tra le insistenze e la minacciata violenza degli
uni e la resistenza degli altri, si accende una rissa in cui un littore,
Cornelio, viene ucciso e donde lo stesso Rubrio esce ferito [358]. La
voce e l'ira del tumulto viene il giorno appresso portata in piazza, e
Verre, assalito in casa da una folla furibonda, che minaccia di metter
tutto a ferro e fuoco, deve la sua salvezza soltanto all'interposizione
de' cittadini romani, che erano colà per i loro commerci [359]. E parte,
rinunziando anche per ora a chiedere la punizione dell'offesa fatta
alla sua autorità ed alla sua persona [360]; ma la vendetta non
scende meno sicura nè meno rapida sul capo di Filodamo e del
figliuolo. Cn. Dolabella lascia la sua provincia di Cilicia e l'esercito e
la guerra per accorrere in Asia ed indurre C. Nerone, esitante, a
punire l'uccisione avvenuta nella sua giurisdizione, e da un tribunale
composto di Dolabella, de' suoi prefetti e tribuni, dello stesso Verre e
di creditori di Greci sempre ligi a' legati; Filodamo e il suo figliuolo
passano nelle mani del carnefice sul fòro di Laodicea [361], dando a
tutta l'Asia spettacolo più della vendetta, che della giustizia romana.
Il brigantino di Mileto.

Pur troppo gli Asiatici erano costretti a vederne d'ogni colore. Verre
passa per Mileto, ne tratta con alterigia i magistrati, e, mentre si fa
ospitare lautamente, li maltratta e taglieggia la città con la richiesta
di un contributo di lana; poi, partendo, chiede una nave che gli serva
di scorta sino a Myndo, e, subito, con T umiltà di chi serve, gli è dato
un brigantino ben allestito, ben armato, scelto tra i dieci che Mileto
aveva a servizio della stessa repubblica. Ma il magistrato della
repubblica è anche più infido del mare: soldati e marinai tornano, ma
a piedi; il vascello non più; venduto a L. Magio e L. Fannio, dichiarati
poi nemici di Roma, esso va in corsa da Sinope a Dianium, dalla
Spagna al Mar Nero!
E guai a muoverne pure lamento! Lettere di Dolabella arrivano e
impongono che non se ne parli, che se ne cancelli la traccia dagli atti
pubblici, che tutto insomma torni nel buio [362].
Verre tutore.
Ma Verre andava omai a vele spiegate ed era la fortuna che gli
gonfiava la vela. C. Malleolo, il questore, viene ucciso ed è una
doppia eredità che tocca a Verre, la proquestura, che Cn. Dolabella
gli affida, e la tutela del figliuolo dell'ucciso: doppia eredità; chè
anche la tutela può, in certi casi e con certe persone, valere come
un'eredità.
Qui, a dir di Cicerone, sarebbero cominciate quelle esimie baratterie
nelle compre del frumento a un prezzo designato dalla stessa legge
che ne ordinava l'acquisto (emptum, imperatum), e nelle riscossioni
fatte in luogo del frumento da fornire al pretore ed al suo seguito
(aestimatum), che poi in Sicilia assunsero così larghe proporzioni. Nè
si tratta di tentativi tanto timidi, se fu poi addebitato un profitto di
tre milioni di sesterzî a Dolabella per frumento, cuoi, sacchi, panni,
che avrebbe dovuto prendere e non prese, avendone in cambio
danaro [363].
E il tutore del pupillo valeva quanto il pubblico amministratore. C.
Malleolo, uomo senza scrupoli, per affermazione dello stesso
Cicerone faceva il paio con Verre ed era ricco di masserizie, di servi,
di crediti verso le città. In tutto questo panno ora Verre avrebbe
tagliato a suo agio, senza discrezione: de' vini, che quegli aveva in
gran copia, pensò a rifornire le sue cantine; tutte le argenterie, gli
schiavi, o che si raccomandassero per la bellezza dell'aspetto o per
particolari attitudini, li prese per sè ed i crediti li fece a poco a poco
sfumare tra le sue mani. Egli avrebbe esatto due milioni e
cinquecentomila sesterzi, ma di dare i conti non se ne parlava;
messo alle strette dalla madre e dall'ava del pupillo, perchè dicesse
almeno quanto aveva portato, parlò di un milione, poi, per uno
scambietto di cui non possiamo comprendere nulla, come nulla
mostrava di comprenderne Cicerone, con una dolosa cancellatura, il
milione si trovò ridotto a seicentomila sesterzi, che apparivano dati al
servo Crysogono ed accreditati al pupillo Malleolo, senza che
nemmeno si fossero integralmente versati [364].
Verre e Dolabella in giudizio.
Quelli della provincia erano i giorni della gazzarra; ma, mentre il
lampo dell'oro e lo strepito de' tripudî rendeva il governatore ebbro,
e come un ebbro sicuro di sè stesso, quelle lagrime di manomessi, di
spogliati, di violate talvolta si addensavano lontano, a Roma, per
iscoppiare loro, sul capo, al ritorno. Era il fuoco del purgatorio non
acceso, oltre la vita, da una trascendente giustizia divina; ma qui in
terra, e non dalla pietà verso i provinciali, ma dall'invidia, dall'avidità
delusa, dall'ira di parte, dall'ambizione, da tutto il vento delle
passioni insomma, che vi soffiava dentro, facendo di quei giudizî una
fiamma da tregenda. Un M. Scauro della famiglia degli Aurelî [365],
più probabilmente che di quella degli Emilî [366], è forse quello stesso
che Cicerone poco innanzi nomina come questore in Asia [367] e che
colà poteva avere avuto notizia de' fatti, giovane d'anni ma astuto e
corrivo alla vendetta, si faceva nell'anno 78 accusatore di Dolabella,
chiedendogli conto del suo governo di Cilicia.
Quanta parte nel malgoverno aveva avuta Dolabella? quanta ne
aveva avuta Verre?
Cicerone tendenziosamente ne vorrebbe addossare tutta a questo la
soma, facendone quasi il solo responsabile degli stessi fatti, di cui
Dolabella riportò condanna: un'esagerazione, comoda certamente a'
bisogni della causa, ma manifesta sì per la diversa posizione de' due
e sì per le stesse parole di Cicerone, quando fa intervenire Dolabella
a metter la polvere sugli atti di Verre od a sperderne la traccia [368] e
quando egli stesso, per induzione, arriva a concludere che se
Dolabella ne fu l'autore, Verre ne fu l'esecutore materiale [369]. È
chiaro in ogni modo che se il governo della provincia avea dovuto
farne due amici e la concordia era sopravvissuta anche alla
spartizione della preda, ora nel giudizio l'istinto della propria
conservazione dovea farne due avversarî; e M. Scauro, intento
sopratutto a colpire Dolabella, trasse naturalmente partito da questa
posizione di cose, anche senza quell'anticipato e perverso accordo,
che forse può essere una posteriore induzione di Cicerone [370].
Cicerone fa colpa anche a Verre di non aver resi i suoi conti prima
della condanna di Dolabella; eppure nulla vi era di più giusto. La
responsabilità anche amministrativa di Verre e la sincerità de' suoi
conti dipendevano direttamente dal grado di responsabilità di
Dolabella e dalla provata verità delle sue attestazioni in giudizio; era
impossibile parlare di resoconto, mentre si disputava se Dolabella
avesse oppur no ricevuto, e se Verre gli avesse dati cinquecento
trentacinque mila sesterzî, e se alla sua volta Verre avesse ricevuto
altri duecento trenta duemila sesterzî non riportati ne' suoi registri, e
di frumento un altro milione ed ottocentomila sesterzî parimenti non
riportati. Può darsi benissimo che ne' suoi registri Verre avesse
trascurato d'iscrivere i crediti verso Q. e Cn. Postumio Curzio e che
avesse pure in Atene versato nelle mani di P. Tadio quattro milioni di
sesterzî [371]: in ogni modo da quel processo, donde correva rischio
di riuscire come un accusato, ne uscì immune. Fu a proposito di
questo giudizio che Verre dovette trattenersi in Roma tre giorni [372],
la sola dimora da lui fatta in città dopo l'esercizio della sua questura,
a quanto almeno dice Cicerone; e, se ciò è vero, questa sua breve
fermata e la lunga assenza valgono anche a togliere credito a'
maneggi che Cicerone gli attribuisce nella causa di Dolabella.
La pretura di Verre.

Dove fu e che cosa fece, dopo ciò, per più che tre anni? Poichè era
questo il tempo in cui la parte mariana, rifatta ardita dalla morte di
Silla, faceva una nuova levata di scudi in Italia e maggiore anche e
più fortunata nella penisola iberica; è probabile che Verre non restò
inoperoso e contribuì a sostenere le sorti della parte aristocratica di
cui era un campione. È notevole che Cicerone per questo triennio e
più non gl'imputa niente di determinato, e, benchè dica che la
cronaca cittadina non cessa di occuparsi di lui e non per festeggiarlo,
non è improbabile ritenere che, durante la sua lontananza, gli echi di
fatti suoi non commendevoli, che aveano potuto ripercuotersi nel
processo di Dolabella, si andarono spegnendo, e con essi, come per
chi è lontano suole appunto avvenire, molte ire e rancori.
Quando Verre tornò a Roma nel 679 (75 a. C.), vi tornò per essere
elevato ad una delle più alte cariche dello Stato, a quella che, se
poteva essere seconda in importanza ad un'altra, poteva in dignità
ritenersi non seconda ad alcuna. Verre divenne pretore. Fu tutta
opera della corruzione elettorale e di nient'altro che della corruzione?
Cicerone lo dice nella forma più esplicita e tale che non ammette
repliche. Trecentomila sesterzî distribuirono per suo conto i divisores
ed ottantamila n'ebbe l'accusatore perchè recedesse dall'accusa [373].
Certamente il credere alla corruzione non è fare ingiuria nè all'uomo,
nè a' tempi; l'uno e gli altri anzi lo suggeriscono; ma non bisogna
neppure dimenticare che un uomo come Verre, duro, inesorabile
ostinato e senza soverchi scrupoli, era per la parte in cui militava, e
lo mostrò, uno strumento non trascurabile, ed il potere della parte
aristocratica, allora prevalente, va pure tenuto in conto. Comunque
ciò fosse, quando il suo nome uscì trionfante dal voto dei comizî, egli
dovè sentire tutto l'orgoglio e la gioia di chi è salito così alto che non
ha se non da tendere la mano per afferrare il supremo fastigio del
potere. Anche la sorte lo favoriva; egli era pretore urbano [374].
Strumento ed artefice al tempo stesso della legge, egli si assideva
oggi in Roma come l'arbitro della giustizia civile; e, tra un anno,
l'aspettava la provincia, dove, questa volta, con autorità
incontestata, e se dio voglia, con migliore fortuna avrebbe compiuta
quello che aveva fatta ed anche quello che forse non aveva fatto
Dolabella.
Ma dunque, o Cicerone, è un pirata che si accampa nel fòro di
Roma? [375].
Il pretore -- occorre appena rammentarlo -- non era semplicemente
l'esecutore della legge, stretto dalla parola di essa in determinati
confini ed a spiegare l'opera sua soltanto caso per caso. Fra gli
elementi che concorrono all'esplicazione della coscienza e della vita
giuridica romana, il pretore è l'elemento più vivo ed operoso, e il suo
editto è lo spirito innovatore che svolge le istituzioni e le leggi
antiche e le adatta alle nuove condizioni di vita; deriva da' nuovi
rapporti economici e sociali le nuove norme giuridiche e segue
assiduamente Roma in questo allargamento progressivo della sua
sfera di azione ed in questa graduale fusione della civiltà cittadina
con la civiltà universale. Quanto più vasto il compito adunque, tanto
più facilmente irto di pericoli, fecondo di errori; ed il rimedio a tutto
non era in una espressa disposizione di legge, ma piuttosto nella
natura transitoria del provvedimento, nel divieto al suo adempimento
opposto da un magistrato di potere uguale o maggiore, nel limite
sopratutto che ciascuno dovea sapere imporre a sè stesso. Ancora
un freno di meno: l'editto non era il programma del candidato, che
diveniva legge poi per l'eletto; ma uno schema, neppure
rigorosamente obbligatorio, del pretore designato ad entrare in
funzione. Che cosa non dovea prestarsi a divenire un tale ufficio
nella Roma del settimo secolo, divenuta il mercato del mondo, in
quella gara intemperante di ambizioni, d'interessi, di cupidigie, e
come doveva essere ben saldo sulla sua sedia curule il pretore per
resistere a quel cozzo, e quante volte vi restava saldo? E che cosa ne
fece Verre? Che pagina scrisse egli in questa storia sì gloriosa, se
guardata a grandi tratti, della pretura romana? L'opinione di Cicerone
è risaputa: la pagina che Verre vi scrisse, fu quale l'avidità potea
suggerire, la malafede dettare, e l'insipienza scrivere. Designato
pretore non fece che tessere tutta una rete piena di viluppi per
tenderla poi ne' giorni dell'uffizio: tale è il suo editto. Non è
nemmeno la manifestazione di uno o di un altro concetto giuridico;
è, così, un ingegno messo insieme per prede predestinate. E
Cicerone, al giorno del giudizio, ne strappa via alcuni nodi e alcune
maglie per agitarli innanzi a' giudici e al popolo, onde tutti li vedano,
tutti concepiscano il resto.
L'eredità di P. Annio.

P. Annio Asello è morto, che era ancor pretore C. Sacerdote, il


predecessore di Verre: non avea che una figliuola e la legge Voconia,
rogata secondo la data più probabile [376] novantaquattro anni
innanzi, nel 585 (169 a. C.) dal tribuno Voconio, favente Catone,
avrebbe potuto toglierle o limitarle il diritto ereditario; ma egli non
era censito ed il diritto ereditario della figliuola così resta salvo. Pure
così non pare a Verre. Giacchè vi è un L. Annio, erede secondo
chiamato, a quanto dice Cicerone, Verre lo fa venire a sè, si accorda
con lui, ed ecco introdotta nell'editto una regola interpretativa della
legge Voconia, e con effetto retroattivo per giunta, per cui la figliuola
di P. Annio vien dichiarata incapace di succedere al padre e l'eredità
si devolve a L. Annio [377].
L'eredità di P. Trebonio.

P. Trebonio muore lasciando varî eredi, tra i quali un suo liberto e,


poichè suo fratello A. Trebonio è proscritto e non può essere suo
erede, impone agli eredi istituiti di giurare che farebbero in modo di
far arrivare ad A. Trebonio almeno la metà di ciascuna porzione
ereditaria. Gli eredi, consapevoli della legge Cornelia che interdiceva
qualsiasi aiuto al proscritto, vanno da Verre, mostrano l'impossibilità
legale del giuramento e sono immessi nel possesso dell'eredità: più
ingenuo il liberto presta il suo giuramento e ne è escluso [378].
Ancora. Muore durante la pretura del predecessore di Verre, di C.
Sacerdote, C. Sulpicio
L'eredità di Sulpicio Olympo.

Olympo ed istituisce suo erede M. Ottavio Ligure, uomo di posizione


molto elevata per nome, qualità personali ed opulenza. M. Ottavio
Ligure era stato già immesso nel possesso dell'eredità dal pretore C.
Sacerdote, quando l'anno appresso, sotto la pretura di Verre, la
figliuola del patrono di Olympo si fa a chiedere la sesta parte della
sua eredità. Nell'assenza di M. Ottavio, il fratello Lucio, e con lui altri
amici e parenti, cercano tutelare il suo interesse: L. Gellio ne assume
il patrocinio, sopravviene in fine lo stesso M. Ottavio e cerca far
intendere a Verre le sue ragioni e che il suo editto non può avere
effetto retroattivo e via; ma Verre gli fa intendere alla sua volta,
senza ambagi, che non è questione di argomenti giuridici e
disquisizioni legali, è soltanto questione di quattrini [379].
Cicerone dice di poter evocare seicento sentenze almeno, che hanno
in sè stesse l'impronta della corruzione [380]. Si trattava di una realtà
o di una amplificazione? Non è punto difficile propendere per questa
seconda opinione.
Che che ne dica Cicerone, i tre casi innanzi esposti, che sono i tre
esempi addotti da Cicerone, non sono tali da far dire che Verre
uscisse assolutamente fuori della legalità, decidendo come decise.
Verre e la lex Voconia.

Noi non possiamo dire di conoscere veramente bene la legge


Voconia, giacchè le notizie, che su di essa ci sono pervenute, sono in
parte incomplete, e in parte contraddittorie [381]. Due tratti dello
stesso Cicerone, che si riferiscono ad essa [382], se a qualcuno sono
sembrati atti ad essere conciliati [383], ad altri sono sembrati
assolutamente repugnanti. E discordanti sono ancora sembrati un
luogo di Gaio [384], ed un altro di Cicerone [385], che si riferiscono
non alle regole dell'eredità, ma a quelle de' legati, imposte dalla
legge Voconia.
Stando alla relazione che l'epitome liviana (l. c.) dà della legge
Voconia, il procedimento di Verre sarebbe stato affatto conforme al
precetto legislativo; giacchè il divieto di istituire erede una donna
sarebbe stato generale e non limitato a' cittadini aventi un censo
maggiore di centomila assi. Ma forse potrà ritenersi che l'epitome,
per lo stesso sforzo di essere compendiosa, sia riescita monca; e sia.
Sia dunque il divieto limitato come Gaio [386] vuole a' testatori aventi
un censo superiore a centomila assi. Di che cosa Cicerone fa colpa a
Verre? Non già di avere escluso a torto dalla successione di P. Annio
la figliuola perchè unica; bensì di averla esclusa a torto, perchè suo
padre non era censito. Anche qui l'uso della parola «censito» ha
generati alcuni equivoci sulla legge Voconia; quasi che per Cicerone,
essa si riferisse a tutti i censiti, non a quelli della prima classe
soltanto. Il concetto di Cicerone non è questo: egli intende dire
semplicemente che P. Annio, se fosse stato censito, sarebbe stato
annoverato nella prima classe; ma egli non era stato censito. E
perchè non era stato censito? Nessuno ce ne dice categoricamente
la ragione; ma, rammentando le fasi cui andò soggetta la censura
dopo Silla, che, se non l'abolì di dritto, l'abolì di fatto [387],
intenderemo facilmente che P. Annio, il quale forse appunto in quel
giro d'anni avrebbe dovuto essere censito, non fu iscritto per la
mancata redazione delle nuove liste. Ciò posto, nell'applicazione
della legge Voconia, doveva aversi riguardo al vecchio censo od alle
nuove mutate condizioni di fatto? È chiaro che il diritto pretorio
specialmente, che aveva uno scopo eminentemente pratico, dovea
attenersi a questa seconda norma; e a questa si attenne Verre. Che
P. Annio fosse un uomo facoltoso, risulta da tutto il complesso della
narrazione di Cicerone, e questa, cui si è accennato, è la maniera più
probabile di spiegare come egli non fosse compreso nel censo. E nel
caso suo doveano trovarsi anche più e più altri; e la legge Voconia
sarebbe stata praticamente elusa, anche più che non si tentasse di
fare con altri mezzi [388]; onde il provvedimento di Verre, anche
volendo disputare sulla sua legalità, era in ogni modo giusto.
Ed allora sembra che non vi fosse nemmeno ragione di parlare di un
effetto retroattivo arbitrariamente dato da Verre alla norma da lui
stabilita. Anzi tutto il divieto della retroattività non fu mai così
assoluto, specialmente nella sua pratica applicazione [389], come si
potrebbe credere; e sopratutto, quando si poteva trattare di norme
di ordine pubblico, nel novero delle quali bisogna far entrare la legge
Voconia. Per giunta poi, qui non si trattava di una nuova legge, ma
di una interpretazione di una legge già esistente e di un suo
adattamento alle innovate condizioni dello Stato; e non si vede
quindi sino a qual punto si potesse parlare di effetto retroattivo e di
violazione di diritti quesiti.
Verre e la lex Cornelia de proscriptis.

Che se poi si guarda alla condotta di Verre nell'altro caso, nella


successione di P. Trebonio, la sua giustificazione è più che mai
evidente. Se infatti la lex Cornelia de proscriptis [390] vietava
qualunque aiuto a' proscritti, ne confiscava tutti i beni e li rendeva
perfino incapaci di ereditare nelle successioni legittime; il testamento
di P. Trebonio offendeva direttamente quella legge. Che doveva fare
Verre in tal caso? Per quella norma giuridica appresso anche più
recisamente prevalsa, per cui la condizione illecita negli atti di ultima
volontà non gl'invalida, ma ne resta invece invalidata, l'eredità bene
ricadeva a quegli eredi che, consapevoli della legge, non giurando,
mostravano di non osservare la condizione apposta al lascito; e Verre
gl'immise senz'altro nel possesso dell'eredità. Quanto al liberto,
Cicerone stesso riconosce, che, col suo giuramento, se fece atto di
ossequio alla volontà del suo patrono, fece del pari cosa contraria
alla legge; soltanto sembra intenda che Verre avrebbe del pari
dovuto immetterlo nel possesso ereditario, curando poi con
un'azione indipendente di sottoporlo alla pena conveniente e privarlo
anche dell'eredità per la violata disposizione di legge. Ma, se anche
tutto questo lungo rigiro poteva rispondere al rigoroso schematismo
della procedura ed alla lettera delle leggi, era nell'indole del diritto
pretorio di giungere allo stesso risultato per via più spedita, e non di
altro poteva farsi colpa a Verre.
Verre e il diritto successorio de' patroni.

Che dire del caso di M. Ottavio Ligure? La condotta di Verre a quel


proposito trova la sua spiegazione e la sua giustificazione nelle
vicende legislative del diritto ereditario de' patroni verso i liberti.
Quel diritto, il più importante, si può dire, di tutti quelli competenti a'
patroni, dopo la introduzione della più ampia libertà di testare, di cui,
come ogni altro cittadino, si avvalevano i liberti, finiva per essere
illusoria. L'equità pretoria, che anche in questo caso interveniva per
sovvenire alla deficienza della legge, a questa iniquitas anzi, dice
Gaio; per mezzo della bonorum possessio, assicurava il diritto del
patrono, garentendogli, in mancanza di figli naturali la metà de' beni
del liberto [391]. La regola seguita da Verre fa parte di tutto questo
indirizzo della giurisprudenza pretoria, che regolò questo argomento,
specialmente sino alle leggi introdotte sotto Augusto. Nè potea
costituire un ostacolo il possesso dell'eredità già ottenuto da M.
Ottavio sotto C. Sacerdote, sia perchè la bonorum possessio,
specialmente nel suo periodo più antico, ebbe un carattere
temporaneo e mirò a costituire uno stato di fatto; sia perchè la
figliuola del patrono di C. Sulpicio Olympo, che si faceva ora a
domandare da M. Ottavio la sesta parte dell'eredità, non potea
essere stata pregiudicata da quel fatto, cui era rimasta estranea, e
poteva, da varî punti di vista, ripetere da M. Ottavio, successore di C.
Sulpicio, tutto ciò che le toccava.
L'altro tratto dell'editto [392] riguardante la validità del testamento e
la trasmissione dell'eredità, consente l'esame anche meno, se si
considera che in un punto è d'incerta lezione [393].
La giustizia di Verre.

Guardando specialmente a' casi precedenti, appare quanto fosse


esagerato ed anche ingiusto il biasimo di Cicerone; e, messo invece
l'editto in rapporto con tutta l'evoluzione della coscienza giuridica
romana e delle sue forme, non appare che Verre si fosse veramente
allontanato dall'una e dalle altre. Nè depone veramente contro di lui
il fatto che alcuni di quei precetti da esso introdotti nell'editto urbano
scomparvero dal provinciale [394], giacchè e l'esperienza fatta e le
diverse condizioni di vita potettero suggerire il mutamento.
Ciò intanto non vuol punto dire che Verre fosse il modello de' giudici
e che, nel campo pratico specialmente, la giustizia trovasse ne' suoi
pronunziati la migliore espressione.
Uomo di partito, eletto co' voti e con l'appoggio di un partito contro
di un altro, egli non trovava modo di scordarsene nell'amministrare
la giustizia. A lui, campione della parte aristocratica, quei liberti, que'
plebei e tutti in fine gli avversarî doveano parere gente da potersi
impunemente mettere fuori della legge, conculcare, taglieggiare
anche all'occasione. I nomi di quelli che si dicono lesi da lui durante
la sua pretura, Annio [395], Junio [396], Ottavio fors'anche, sono nomi
di plebei, e plebei erano pure con poche eccezioni i Minucii, che
aveano dati già tribuni alla plebe [397]. Trebonio era un cavaliere ed
era un proscritto. Pare che la sua pretura ebbe questo carattere
prevalentemente partigiano, tanto che L. Pisone [398] suo collega
nella pretura dovette più volte colla sua interposizione impedire
l'esecuzione de' suoi atti. Q. Opimio tribuno della plebe, menato in
giudizio innanzi a Verre, o che, nella gestione del suo officio, avesse
semplicemente detto, come vuole Cicerone, qualche cosa contro il
volere di qualche nobile, o che davvero avesse interposto il suo veto
contro la legge Cornelia; dopo una causa di tre ore semplicemente,
ne uscì privo de' suoi beni, di ogni avere, di ogni grado [399].
Ma non soltanto per passione politica pare che traviasse Verre: l'oro
che tutto poteva e tutto faceva, a' suoi tempi come o un po' più che
in certi altri, riesciva a tirarsi dietro a sghimbescio la sua giustizia.
Almeno, salvo il valore delle loro testimonianze, erano in parecchi ad
attestarlo in giudizio, anche per questo periodo [400].
Chelidone.

Sopratutto poi a' varî fonti di diritto conosciuti sin qui se ne era
aggiunto un altro: Chelidone. Col crescere della raffinatezza e del
lusso, Roma era invasa pure da una folla di quelle etère che già in
Grecia avevano tenuto lo scettro; e la Grecia vinta signoreggiava il
conquistatore anche con le deboli e delicate mani di queste sue
donne. Esperte di tutte le arti di piacere, colte anche qualche volta,
piene di capricci e di bizzarrie, strano impasto di tenerezza e di
malizia, quali ci appaiono specialmente nei poeti del secolo che
finisce e di quello che incomincia; esse erano fatte per abbagliare,
attirare e conquistare i conquistatori del mondo, e, in tempo di
prosperante arbitrio e di crescenti poteri personali, portare più che
mai il coefficiente dell'alcova nell'alchimia della politica
contemporanea. In una di queste amabili panie era andato ad
invischiarsi Verre. Lei si chiamava, o si faceva chiamare Chelidone:
rondine; un nome, specialmente per l'epoca quasi sentimentale, il
nome dell'uccello commisto alla triste favola di Tereo, dell'uccello
cantato da Anacreonte, un nome bello e sonoro che aveva in sè
come un'eco indistinta di risorgenti primavere e d'autunni morenti, di
lunghe lontananze e di fedeli ritorni. Lui, n'era preso, pare, alla follia,
e la piccola mano che regge col freno il pretore, reggerà anche la
pretura ed i giudizî [401].
O litiganti, a che affollare la casa del giureconsulto ed impetrare il
parere di Scevola e l'opera dell'avvocato? Benchè sia la via diretta,
nondimeno è la più lunga e spesso non vi conduce in porto. La
chiave della pretura e del cuore del pretore è nelle mani di
Chelidone; e nella sua casa s'agitano e si decretano le sorti
d'ognuno. La sua casa è gremita, come non mai casa di
giureconsulto, ed ella si asside, sibilla del nuovo oracolo; chi chiede
di essere messo in possesso, chi di non esserne espulso, chi di
essere posto al coverto da un giudizio che non vuole, chi
l'attribuzione delle cose contese e chi numera quattrini e chi suggella
scritture [402]. È la casa dell'etèra o l'aula della giustizia? L'una cosa e
l'altra, che tendevano -- e forse non allora soltanto -- a divenire una
cosa. E l'oro che affluisce colà, ora e poi, per una via o per un'altra,
pure va a finire in mano di Verre! Anche morendo due anni appresso
(72 a. C.) Chelidone è provvida tanto da pensare a che il gaudio
dell'erede renda meno amare le lagrime dell'amante [403]. Chelidone
infatti morì sotto il consolato di Cn. Lentulo e L. Gellio [404].
La manutenzione de' pubblici edificî.

Nè in quella pretura, sembra, mancavano a Verre ed a Chelidone


l'occasione di rimestare e brogliare. La mancanza di censori faceva sì
che gli appalti della manutenzione di pubblici edifici entrassero tra le
incombenze de' consoli o de' pretori ad essi sostituiti, e qui anche
più, od anche più palesemente, a quanto dice Cicerone [405], Verre si
creò un largo campo di azione.
L. Ottavio e C. Aurelio consoli nel 75 a. C. [406] e con essi i pretori C.
Sacerdote e M. Caesio non avevano potuto farsi dare la consegna
degli edificî sacri, la cui manutenzione aveano dato in appalto, e con
apposito senatusconsulto l'incarico di esaurire tale compito venne
dato a' pretori C. Verre e P. Celio [407]. A dire di Cicerone, Verre ne
fece di tali e tante nel disimpegno di questo suo ufficio, che la voce
ne correva in città, e ad attestarlo non facevano nemmeno difetto
testimoni anche della sua parentela. Pure ve n'era uno, che, per le
sue particolarità e pel suo carattere manifesto, faceva sì che tutti gli
altri impallidissero a suo confronto; una cosa non da sentirsi
soltanto, ma da vedersi ogni giorno e da tutti.
P. Junio, un uomo della plebe, avea preso in appalto sotto il
consolato di L. Silla e Q. Metello nell'anno 80 a C. [408] la
manutenzione del tempio di Castore, il celebre tempio votato,
secondo la tradizione, nella battaglia al lago Regillo e dedicato sedici
anni dopo [409]; ed è probabile che non prendesse quell'appalto per
la prima volta, anzi l'avesse già avuto da cinque anni innanzi sotto la
censura di L. Marcio e M. Perpenna [410]. Morto prima di dare la
consegna, lasciò un figliuolo minore in tutela di L. Habonio o
Rabonio [411], di P. Tizio o Tettio [412] e M. Marcello. La grandezza e
la magnificenza del tempio potevano fare sperare a Verre di trovare
pingui lucri dall'approvazione di quell'appalto, e con tali auspicî Verre
si appresta a farla; ma, il pretesto?
Il tetto bellamente ornato, tutte le cose nuove e tenute in ordine non
erano fatte per offrirlo. Verre è in imbarazzo e con lui quei bracchi,
che, per suo stesso detto, numerosi gli erano intorno, quasi a
scovare la preda; nulla promette ad essi neppure il loro fiuto, e un di
loro, levando in alto il naso, in aria di sconforto: Nulla, dice, o Verre;
nulla, nulla, fuorchè se vuoi chiedere che le colonne sieno messe a
perpendicolo. A perpendicolo? È un modo di dire, e, a sentir
Cicerone, Verre non lo comprende nemmeno; ma, quando gli viene
chiarito, il motto diventa per lui una trovata, ed ha già il capo in
mano per volgere la cosa in suo profitto. Ma appaltatore pel nuovo
quinquennio è quello stesso Habonio, tutore del pupillo Junio. La
cosa dunque gli sfuggirà di mano? Verre non si arrende per così
poco, e dopo breve tratto di tempo, avendo a consiglieri la paura e la
speranza, Habonio è già dalla sua ed anch'egli vuole le colonne a
perpendicolo. La casa di Junio è messa in agitazione; gli zii C. Mustio
e M. Junio, il tutore P. Tizio, messi in trambusto, vanno a prendere
consiglio dall'altro tutore M. Marcello e costui va egli stesso da Verre
per distornare il male minacciato: tutto inutilmente. Dunque non vi è
via di uscita? Forse ve n'è una: sotto la pretura di Verre quel che non
può Marcello, può Chelidone; e C. Mustio, M. Iunio, P. Tizio vanno,
nuovo pellegrinaggio, da Chelidone. C. Mustio è l'oratore de' nuovi
legati, e Chelidone, per quella che ella è, li accoglie, si direbbe,
onestamente, ed onestamente li congeda. Verre non ama soltanto
Chelidone; ama l'oro e Chelidone; e assai guadagno spera avere da
quest'affare, nè sa acconciarsi a rinunziarvi. Si torna allora da
Habonio: l'opera può costare quarantamila sesterzi, non più; si
pattuisce per duecentomila. Ma neppur di questo Verre è contento;
egli dunque darà l'opera in appalto, e senz'altro la mette in appalto,
senza indire il giorno e senza avvisi, durante gli stessi giuochi
romani, nel fòro ornato per quella solennità. Pure i tutori vi
accorrono: M. Junio, lo zio, alza il dito, chiedendo per sè l'appalto. La
preda sfuggirà dunque di nuovo a Verre? No, sinchè non gli verrà
meno un espediente; e d'espedienti egli non è a corto così
facilmente. Verre si perde d'animo per un momento, ma poi si
riprende, ed una clausola che vieta al pupillo di concorrere
all'appalto ha tutto rimediato. Si tratta di un'aggiunta già fatta da
tempo, o immediatamente per quel caso? Pare fatta
immediatamente. Inoltre, ad escludere ogni altro, si fissa
all'esecuzione dell'opera un termine brevissimo, dagl'idi di Settembre
alle calende di Decembre. Così l'opera, che M. Junio volea compiere
per 400.000 sesterzî, viene data ad Habonio per 560.000. Ma, in
compenso, Verre tiene alla regolarità del contratto; abbonda in
cautele, è provvido e previdente. Non si tratta che di scomporre le
colonne e ricomporne le parti con maggiore regolarità; non vi è
dunque materiale vecchio da scartare, nè nuovo da adoperare; tutto
consiste nella mano d'opera e nell'impalcatura; in ogni modo Verre
prevede ogni danno, che l'appaltatura possa arrecare e gliene
impone il risarcimento; gli prescrive di eseguire regolarmente l'opera
in ogni sua parte, gli attribuisce infine il materiale di scarto e, tra
l'una cosa e l'altra, non dimentica di disporre che il prezzo dell'opera
appaltata venga pagato prontamente; dimentica bensì di esigere poi
il compimento dell'opera e collaudarla. In cambio ha una mezza
resipiscenza, che gli fa condonare a Giunio 110.000 sesterzi su
560.000.
La sortitio iuniana.

Così Verre regolava gli appalti, e a chi creda scorgervi qualche


inverosimiglianza -- nè io oserei asserire che non ve ne sieno -- si
deve rispondere, riferendosi a Cicerone [413] come l'Ariosto a Turpino.
E di questa pretura urbana altro non ci dice Cicerone, solo, egli
maestro di sottintesi e di reticenze, sotto la forma della preterizione,
lancia, come la freccia del Parto, l'ultima accusa; una gherminella di
Verre per riversare, allontanandola da sè, su C. Junio tutta la colpa
delle corruzioni avvenute nel processo Oppianico. È un'accusa che
Cicerone ripeterà anche alcuni anni dopo, difendendo A.
Cluenzio [414]. Ma contro la sua affermazione stava il giudicato da cui
era stato condannato C. Junio; perchè i giudici non aveano creduto a
costui ma a Verre, e, non trovando confermato dagli atti di Verre il
sorteggio de' giudici di Oppianico, aveano ritenuto irregolare il
sorteggio e colpevole di corruzione C. Junio. Del resto Cicerone non
v'insiste; la gestione della pretura era per lui come un utile
preambolo per meglio potersi domandare: Che cosa farà fuori d'Italia
costui, se tale si è mostrato nello stesso fòro romano? e quale sarà
con i provinciali, chi tale è stato con i cittadini? [415].
Ed un preambolo si può dire fosse per lo stesso Verre la pretura
urbana. Già sin dal primo entrare in ufficio la provincia dovea
allettarlo con le seduzioni del futuro, e, come più l'anno procedeva,
l'isola da' molti armenti e da' floridi campi e dalle piazze fastose
doveva attirarlo con il fascino della terra promessa. L'anno 73
spuntava ben auspicato per C. Verre.
In Sicilia risorgono forse tutte le speranze, le aspettative, le illusioni,
i timori che un mutamento di padrone suol destare.
O terra di Aceste, è un altro lontano nipote di Enea che viene a
renderti il guiderdone dell'ospitalità data all'antenato, e si appresta a
scrivere nella tua storia secolare una dolorosa pagina, che non è la
prima e, purtroppo, non sarà l'ultima.
VI.
QUASI IN PRAEDAM

Verre e i suoi accoliti in Sicilia.

E con quanti bracchi, o fondo del popolo romano, il tuo padrone


manda in caccia il suo ministro! Sono e saranno con lui il
figliuolo [416], il genero [417], i legati, tra cui Q. Tadio suo
parente [418] e P. Cervio [419], i questori T. Vezio [420] fratello di suo
cognato, P. Cesezio [421], Postumio [422]; ma non tutti sono buoni
bracchi e ad ogni conto sono pochi. Egli ha perciò la sua coorte,
l'aruspice Volusio, il medico Cornelio [423], il liberto Timarchide, suo
ministro [424] Cornificio lo scriba [425]; ed, a coadiuvarlo ancora,
intorno a lui, come per un misterioso richiamo, si aggruppano altre
umane arpie, quali venute d'Italia, quali attratte presso al
governatore da ogni punto della Sicilia: Nevio Turpione, uomo
corrotto e violento [426], Volcazio, cavaliere romano [427], Valenzio,
interprete, non della lingua greca soltanto, ma della rapacità del
pretore [428]; Claudio il cinico, bruno e da' crespi capelli [429],
Theomnasto siracusano [430]; Escrione e Cleomene i due mariti
indulgenti [431], Atidio [432], Jerone e Tlepolemo, i due cani di
Cibyra [433], Carpinazio, preposto all'azienda de' pubblicani in
Sicilia [434], Papirio Potamone [435]; e con questi tutta un'altra schiera
di liberti, servi fuggitivi, aruspici, medici, prefetti, banditori,
littori [436], che andavano da Apronio [437], uno stratega della
corruzione, la mente e il braccio di Verre, a L. Sestio [438], il
carnefice, la mano passiva, che colpiva inesorabilmente.
Non mancano veramente i bracchi a Verre per iscoprire la preda e
per impadronirsene, e poi egli ha già tutto un piano prestabilito: il
suo fine odorato l'ha già da Roma messo sulle tracce, ed egli sa già
di là dove metter le mani [439]. E non perde tempo.
L'eredità di Apollodoro Laphirone. L'eredità di Sosippo e Philocrate.

Apollodoro Laphirone è morto ed ha lasciato erede il figliuolo di


Dione di Halaesa con l'obbligo di porre alcune statue nel fòro, e con
la minaccia di una multa a favore di Venere Erycina, se ciò non
faccia. L'eredità si è devoluta sotto C. Sacerdote, la condizione è
adempiuta, e l'erede gode in pace la ricca eredità. Ma Verre è
appena giunto a Messana, la città complice, la ricettatrice delle sue
ruberie [440] e il giorno stesso in cui vi giunge [441] (proprio il giorno
stesso?) fa chiamare Dione, uomo primario, fatto poi da Metello
cittadino romano, e gli dice di voler giudicare dell'eredità pervenuta
al figliuolo di lui. Giudicare di che, se non vi è ombra di dubbio o di
contesa? Ma Venere è la dea del gioco, e, se la sorte aiuti, qualcosa
ne uscirà. Il tempio del monte Eryce ha un magistrato, che ne può
rivendicare i diritti, uno de' questori; pure chi si presenta a
rivendicarli è quel Nevio Turpione che sappiamo. La causa si fa, e
Dione vince la causa, ma perde la lite. Venere non ottiene la multa;
ma un milione di sesterzî dalle mani di Dione passa in quelle di
Verre, e branchi di cavalli ed argento lavorato e tappeti dalla sua
casa passano ad ornare quella del pretore [442]. Venere in verità, non
ha campione più disinteressato di Verre. Due fratelli di Agyrrium,
Sosippo e Philocrate [443], hanno avuta per testamento dal padre
l'eredità sotto condizione di pagare una multa a Venere, se in un
certo luogo si faccia una certa cosa. Nel ventesimo anno, dopo che
tanti pretori, tanti questori e tanti calunniatori v'erano stati in Sicilia,
viene loro mossa la causa; e quattrocentomila sesterzî dati a Volcazio
fanno loro vincere la causa; ma la vittoria loro è più nefasta di quella
di Pirro [444].
I metodi giudiziarî di Verre.
Tutto l'ampio e, si può dire, infinito potere che è nel diritto di
giudicare e ch'è la condizione della conservazione di ogni avere e di
ogni diritto, Verre l'usava, a quanto dice Cicerone, in maniera da
raggiungere l'effetto opposto, determinando in forma equivoca la
questione della causa, storcendo l'ordine de' giudizî, violando le
giurisdizioni e le competenze.
Con la divisione della procedura in iure e in iudicio, in questa
seconda fase del giudizio non si faceva che applicare e trarre alle sue
conseguènze concrete una premessa posta dal magistrato. Perciò,
malgrado l'apparenza contraria, il destino della causa era in mano di
costui, e il iudex poteva divenire in mano sua il materiale strumento
del suo volere. A sentire Cicerone, Verre poneva i giudici del fatto
alle prese con questioni del genere di queste [445]: «Se pare che il
fondo capenate, intorno a cui verte la lite, appartenga, secondo il
diritto quiritario, a P. Servilio, nè tal fondo verrà reso a Q. Catulo --
fa che gli sia reso [446]»; oppure: «Se non accetta ciò che tu dici di
dovergli, menalo in giudizio; se agisce per ottenere quel che
pretende, menalo in carcere [447]». Riesce evidente che con questi
responsi sibillini, anzi con queste trappole, non v'era alcuno che
potesse sfuggire ad una voluta condanna, nè il iudex, fosse stato un
uomo comunque si voglia dotto e ligio al dovere, poteva evitare di
compiere una madornale ingiustizia.
Similmente tutte le leggi riflettenti l'ordinamento giudiziario in Sicilia
e l'autorità chiamata a giudicare ne' vari casi di controversie sorte tra
Siciliani e Siciliani o tra privati e città, o tra Siciliani e cittadini
romani, o tra agricoltori e decumani od in altri casi ancora, erano,
come Cicerone vuole [448], completamente eluse da Verre, mercè
una pena comminata nel suo editto a chi indebitamente si attribuisse
la funzione di giudicare. Una tale minaccia, pendente, come la spada
di Damocle, su chiunque si accingesse a giudicare, facea sì che, pur
restando ferme astrattamente le norme di rito giudiziario, in realtà
tutto si facea a posta di Verre; giacchè o il giudice designato cedeva
il campo, o giudicava, ma senza libertà di coscienza. E, nella
massima parte de' casi, il posto che avrebbero dovuto avere giudici
tratti dal conventus e dai negotiatores, lo prendeva la coorte, e qual
coorte! di Verre.
La violazione di queste forme era della massima conseguenza,
perchè la loro eliminazione, specie se fatta a disegno, privava di ogni
garanzia i litiganti; e Cicerone tende appunto a dimostrare con varî
esempi i fatti ed il motivo di essi.
L'eredità di Eraclio Siracusano.

Eraclio siracusano [449], già ricco del suo, ha da un altro parente,


anch'esso di nome Eraclio, un'eredità di circa tre milioni di sesterzi e
con essi una casa ben fornita di stoviglie di argento e di tappeti e di
schiavi. La cosa è, come dire, l'avvenimento del giorno e tutti ne
parlano. Verre non solo lo sa per sentita dire, ma vi è chi richiama la
sua attenzione e gli fa vedere l'agevolezza di entrare come coerede
dell'erede. Cleomene ed Escrione, i due mariti compiacenti,
Theomnasto, Dionisodoro, gli stanno all'orecchio; Eraclio è vecchio,
poco svelto; di protettori altri non ha che Marcello, e Marcello è a
Roma: che più? Pel testamento egli ha l'obbligo di ergere statue
nella palestra, e, se anche egli ve l'abbia poste, ciò può esser tal
rampino da tirar appresso l'eredità ed il resto. E Verre non se lo
lascia dire la terza volta; la cosa gli piace e, detto fatto, i palestriti
indicono ad Eraclio la causa. Viene il giorno assegnato, ma Eraclio
invoca il beneficio del termine che gli viene dalla legge Rupilia e che
gli concede trenta giorni. Verre si rassegna, ma dopo i trenta giorni
la causa di Eraclio ricomparisce con precedenza su tutte le altre,
rinviata per l'occasione: e si è già al sorteggio; almeno Verre fa le
viste di farlo. Se non che gli attori in giudizio chiedono che scelga
egli cinque giudici da quelle città che convengono a quel fòro pe'
giudizi. Eraclio, ed i suoi avvocati con lui, chiedono che si faccia il
sorteggio, quale la legge Rupilia vuole; ma invano: cinque giudici
sono scelti a piacere, senza sorteggio, senza facoltà di ricusazione,
senza alcuna norma prestabilita, e la causa è rinviata al giorno
appresso. Che scampo resta ormai ad Eraclio? Nessuno fuori che
quello de' deboli, la fuga. Solo la sua contumacia potea riuscirgli di
qualche aiuto, rendendo più odiosa la grave condanna,
l'assegnazione non legale de' giudici e il resto, e quella notte stessa
Eraclio lascia Syracusae. Il giorno del giudizio è venuto, e, poichè è
giorno di raccolta, questa volta Verre si è levato di buon mattino per
metter mano alla messe. Eraclio è assente? Che importa? ed incita i
giudici a condannarlo, ma questi stessi, un po' più peritosi di lui,
ottengono che si rimetta la cosa all'ora decima; poi lo stesso Verre
ha qualche esitazione, e, ritornando su' suoi passi, scarta i cinque
giudici scelti e, ritornando alla legge Rupilia, trae a sorte tre giudici.
Ma è tutta una lustra; in fatto, questi han l'ordine di condannare e
condannano. E quale condanna! Non solo Eraclio perde l'eredità di
tre milioni, ma quello che il testatore, indipendentemente dal
testamento, gli aveva dato prima di morire; persino quello che gli era
venuto dal padre. La sua casa è addirittura messa a sacco, e
l'argento scolpito, i vasi corinti, i tappeti, il meglio degli schiavi
prendono la via della casa di Verre. E quando i Siracusani rendono
conto in Senato di questi beni di Eraclio e si svolge la lista delle tazze
d'argento, delle anfore, de' tappeti, degli schiavi dati a Verre, un
senso di segreto dolore serpe tra gli uditori: pur si contengono. Ma
quando in un sol capo fu detto che per ordine di Verre si erano dati
trecentomila sesterzi, il malcontento, appena contenuto, proruppe in
modo che Verre, sgomento, non seppe far di meglio che riversare la
colpa sul genero, il quale alla sua volta e con isdegno, respinse
l'accusa, e poco appresso lasciò il suocero e la Sicilia. In ogni modo
Verre credette uscire d'impaccio, e, quel che è più, i trecentomila
sesterzî, usciti così dalla porta, rientrarono per la finestra.
L'eredità di Epicrate.

E l'esempio, com'era da attendere, faceva scuola. Muore un parente


d'Epicrate [450], il maggior proprietario di Bidi, ed ecco i nemici suoi
già pronti a rinnovare con lui il giuoco così ben riuscito con Eraclio.
Ottantamila sesterzi sono versati a Volcazio, come prezzo degli
accordi presi col pretore, e i palestriti di Bidi, al modo stesso di quelli
di Syracusae, son pronti ad intentare la causa. Ad uguale attacco
uguale difesa; ma Epicrate è più pronto di Eraclio, e fugge a Reggio
prima ancora d'esser tratto in giudizio, così che sventa quasi con la
sua fuga la trama che gli era stata tesa. I suoi avversarî, i palestriti,
rischiano questa volta di fare come i pifferi di montagna e lo
seguitano a Reggio per patteggiare con lui ed uscire almeno senza
danno dall'impresa abortita. Se non che Epicrate si sente al sicuro e
li respinge e non li ascolta. Il caso va di bocca in bocca e se ne parla
tanto che Verre è obbligato ad occuparsene direttamente ed a far
rendere da Volcazio a' Bidini la mancia pagata. Ma anche questa
volta si trattava di una lustra: infatti non solo non allontana da sè
Volcazio, il corrotto, e non punisce i corruttori; ma fa in modo che la
causa si rinnovi in altro modo e con sorte anche peggiore. I Bidini
chiedono di nuovo l'eredità, poichè sanno che Verre farà dritto alla
domanda anche contro l'assente, i procuratori di Epicrate chiedono
che la causa si svolga secondo le leggi patrie, o secondo la legge
Rupilia. Nell'imbarazzo della risposta gli avversarî dicono dolosa la
fuga di Epicrate e chiedono di essere immessi nel possesso de' beni;
ma, come ottenere tutto ciò, se gli amici di lui, che non doveva nulla
ad alcuno, sono là pronti a dare ogni più ampia malleveria? Allora,
come pensiero rampolla da pensiero, in quella nuova contesa
dell'agnello e del lupo, viene fuori un altro addebito, quasi che
Epicrate avesse falsificato atti pubblici. Gli amici di lui resistono
ancora, chiedono che la causa non venga fatta contro l'assente;
invocano le leggi patrie, e quando si accorgono che è vana ogni
resistenza o difesa, abbandonano la causa e Verre immette i Bidini in
possesso de' beni di Epicrate; non solo di quelli di cui era contesa,
ma de' suoi propri che ascendevano ad un milione e cinquecentomila
sesterzî. E di questo genere di ricatti giudiziarî Cicerone non ne
addebita a Verre uno o due soltanto: per estorquere denaro (100000
o 400000 sesterzi?) ad Eraclio di Centoripae [451], rescinde giudicati,
gl'interdice l'accesso al senato e ad ogni luogo pubblico, lo mette a
dirittura fuori della legge; proclamando altamente che non punirebbe
qualunque violenza a lui fatta, e ad ogni domanda farebbe diritto che
venisse proposta contro di lui.
Veramente, a quanto dice Cicerone, i giudicati aveano per Verre un
valore molto relativo.
La condanna di Sopatro di Halycia
Sopatro di Halycia [452], già giudicato da C. Sacerdote, veniva ora
chiamato nuovamente in giudizio capitale innanzi a Verre per la
stessa accusa da cui era stato assolto. Sicura gli pareva la cosa; pure
Timarchide sa circonvenirlo e carpirgli ottantamila sesterzî; ma, dopo
un po' di tempo, gli sembrano pochi, e la causa è rinviata, ed intanto
egli torna per avere altro danaro. Il giudice si metteva all'incanto, ed
i suoi avversari erano disposti a pagare di più. Gli amici sconsigliano
Eraclio dal dare di più; con maggiore impulso ancora lo sconsiglia il
suo modesto stato di fortuna; egli dunque tien duro; infine vi sono
de' giudici a Syracusae! E v'erano proprio i giudici, che l'avevano
assolto la prima volta. Ma è ingenuo far questi calcoli con Verre.
Quando l'udienza sta per aprirsi ed i giudici convengono numerosi, e
tra essi quelli sperati da Sopatro; Verre ordina a M. Petilio, cavaliere
romano, di attendere alle cause private, ed una obbiezione di Petilio
è occasione per fare allontanare tutti gli altri e far restare Verre solo
a giudicare con la sua banda.
Q. Minucio, cavaliere romano, difensore di Sopatro, ha per un
momento ancora l'illusione che la causa venga rinviata; e, quando
n'è disilluso, abbandona l'udienza. Verre cerca trattenerlo; è in furia
poichè non vi riesce, ed esita; quando una parolina, susurrata al suo
orecchio da Timarchide, lo rimette in carreggiata, e si riprende, e fa
sfilare a tamburo battente i testimoni e chiude il dibattimento e
condanna.
Che quando poi, alla speranza del lucro, si aggiungevano l'ira, il
dispetto, l'amor proprio offeso; allora i giudizî sotto Verre
assumevano una forma anche peggiore; come fu il caso di
Stenio [453].
Il caso di Stenio da Thermae.

Stenio di Thermae era, a quanto dice Cicerone, uno degli uomini più
ragguardevoli che allora contasse la Sicilia. Onorato di tutte le
cariche pubbliche del suo paese, le aveva esercitate assai
onorevolmente; avea con munificenza singolare ornata la sua città,
ottenendone da essa pubblici attestati, ed aveva saputo acquistare
considerazione ed amicizia presso i principali uomini che al suo
tempo fossero a Roma, da C. Mario a Cn. Pompeo. Amante, come
tanti Siciliani, delle opere d'arte, sia per soddisfare questa tendenza,
assai viva in paesi di coltura greca, che per compire con maggior
splendore i suoi doveri di ospitalità verso tanti ospiti illustri, avea
ornata con la maggior magnificenza la sua casa della più elegante
suppellettile di bronzo di Delo e di Corinto, di pitture, di vasellame
d'argento; tutte cose messe insieme sin dall'adolescenza, mentre era
in Asia. Tra gli ospiti di Stenio fu anche Verre, e mai non ne partì,
senza che qualcosa, mancante dalla casa ospitale, attestasse la sua
venuta. Pure Stenio sopportava tutto, con rassegnazione, e in
silenzio. Ma all'uomo, che così tranquillamente avea tollerato il danno
proprio, vennero meno rassegnazione e pazienza, quando Verre volle
mettere le mani su di alcune opere d'arte, che avevano già
appartenuto ad Himera e che Scipione Africano, dopo la conquista di
Cartagine, avea donato a Thermae, città vicina della distrutta
Himera. Erano molte statue di bronzo, figure muliebri, una statua di
Stesicoro, una capretta così bella che avrebbe fatto impressione
anche ad un Romano non educato al gusto di queste cose. Verre le
desiderava ardentemente, ed ardentemente la cittadinanza teneva a
conservarle, come cose che si connettevano alle tradizioni cittadine,
alla memoria di Scipione, e costituivano quanto di più caro e più
prezioso avesse il paese. Stenio si fece il coraggioso interprete del
sentimento de' suoi concittadini, e si oppose e rese vano il desiderio
di Verre. Per costui fu come una dichiarazione di guerra. Lascia la
casa di Stenio per andare a quella de' nemici suoi, che, come suole
accadere, perciò stesso l'invitavano. Egli non ha che l'imbarazzo della
scelta; andrà da Agatino o da Doroteo, suo genero? La bella
Callidama, sua moglie, fa dare la preferenza a quest'ultimo; e
l'intervallo di una sola notte lo avea già fatto tale, che si sarebbe
detto avesse tutto comune con Doroteo, ed Agatino fosse come un
suo parente ed affine. E la sua buona fortuna non lo placa; lo incita
anzi di più alla vendetta contro Stenio. I suoi nemici stessi non sanno
escogitare nulla contro di lui; ma Verre gl'incita e li aiuta ad
imbastire uno de' soliti processi per falsificazione di atti pubblici.
Stenio, per la condizione autonoma di Thermae, per la legge Rupilia,
chiede che la causa venga trattata secondo le leggi termitane. Verre
fa il sordo e, per tutta risposta, indice la causa per l'ora nona.
È inverno, e il mare è più infido che mai; pure a Stenio il mare pare
meno infido e meno malsicuro di Verre, e si commette al mare per
cercare a Roma un aiuto contro il suo persecutore. Intanto Verre,
che all'ora nona puntualmente lo aspetta e non lo vede, va in furia,
cerca da per tutto per iscovarlo; lascia il fòro alla terza ora della
notte per tornarvi il domani e condannarlo in contumacia, per
falsificazioni di atti pubblici, a pagare cinquantamila sesterzî al
tempio di Venere del monte Eryce. Ancora alcuni anni dopo, Cicerone
vi vedeva un Cupido d'argento, consacrato da' beni di Stenio, quasi a
rappresentare plasticamente il segreto della sua condanna. Ma non
basta; nè Verre si tien pago: in pubblico, dal suo seggio, fa sapere a
tutti, che se qualcuno vorrà accusarlo di delitto capitale, egli
procederà contro Stenio, comunque assente. Pure lo stesso Agatino
non si presta a ciò, e, per trovare chi lo faccia, bisogna ricorrere ad
un tale Pacilio, un pezzente ed uno sciocco. Vien fatto precetto a
Stenio di trovarsi fra trenta giorni per le calende di Decembre, a
Syracusae. Ma Stenio a Roma non perde tempo, e si muove e si
agita tanto, che i consoli Gn. Lentulo e L. Gellio (s'era nel 72 av. C.)
[454] fanno una mozione, perchè il Senato stabilisca che nelle
provincie non sia lecito sottoporre a causa capitale gli assenti. Si
stava già per decider questo, e dichiarar nullo ogni giudizio che
contro tale regola si fosse fatto a danno di Stenio, quando il padre di
Verre, con pianti e con l'aiuto di ostruzionisti, riesce a rimandare la
cosa, poi la mette a dirittura in tacere, promettendo di far sì che il
figliuolo non dia corso alla causa. Se non che nulla ponno presso
Verre le preghiere di suo padre, nulla i pericoli, onde lo minacciano
gli stessi suoi atti; le calende di Decembre vengono, ed egli cita
l'accusato. Non risponde Stenio, e non risponde, chi sa per qual
caso, neppure l'accusatore; nondimeno Verre va avanti. V'è bisogno
di un patrocinatore? Gli assegna uno de' suoi satelliti, un Claudio,
figliuolo di Claudio, della tribù Palatina, probabilmente un liberto,
nimicissimo di Stenio, e così lo condanna.
Con tutto ciò la sua ira può dilaniare i beni, non raggiungere la
persona di Stenio; giacchè Cicerone, ospite ed amico di Stenio,
ottiene da' tribuni della plebe, che egli possa rimanere in Roma al
sicuro, malgrado l'editto che non permetteva di restare in Roma a
condannati per delitto capitale.
E questi erano i delitti più perspicui compiuti da Verre
nell'amministrare la giustizia: ma accanto ad essi molti altri non si
accennavano neppure, per la stessa moltitudine loro [455].
L'ingerenza nelle elezioni de' magistrati locali.

La funzione giudiziaria era un modo per estorquere danaro; ma non


era il solo. L'esercizio del diritto elettorale, che in Roma era un
cospicuo mezzo di lucro, divenne tale anche in provincia in mano di
Verre; e, per far meglio, anche dove non gli competeva, se
l'arrogava arbitrariamente. Così avvenne dell'elezione de' senatori,
sottratta a' suffragi popolari, resa indipendente da tutte le limitazioni
di età, di censo e da ogni altra condizione personale, che le leggi,
conservate a' Siciliani o date dal governo di Roma, imponevano [456].
In Halaesa, dove per le leggi date da Appio Claudio Pulcher, non si
potea essere senatore che a trenta anni, per danaro furono creati
senatori fanciulli di sei, di sette, di dieci anni, ed ogni altro che
volle [457]. Ad Agrigentum ed Heraclea, dove al senato doveano
avere parte, in proporzioni uguali, i vecchi cittadini ed i nuovi coloni,
per prezzo ne fu confusa la proporzione, covrendo indifferentemente
con gli uni i posti serbati agli altri [458].
Dove al suo volere si opponevano difficoltà d'ordine naturale,
disposizioni recise di legge, se non si determinava a violarle
apertamente, le girava riducendo la legge ad un giochetto, tenendo
un metodo tutto gesuitico; e così, salvando capra e cavoli, si trovava
all'altra riva.
I sacerdoti.

Si trattava di dare il sacerdozio di Giove in Syracusae a Theomnasto,


suo familiare, contro la legge che limitava la elezione de' candidati a
tre schiatte e dava l'ultima scelta alla sorte? Si faceva, con un abuso,
introdurre Theomnasto fra i tre, e poi, perchè la sorte non lo
tradisse, si metteva nell'urna, tre volte, il solo suo nome [459].
I censori.

A Cephaloedium, l'elezione del sommo sacerdote avveniva in un


mese determinato e, per le particolari condizioni locali, quell'onore
spettava ad un tale Erodoto. Perchè invece l'ottenesse un tale
Artemone Climachia, sarebbe stato, con l'introduzione di un mese e
mezzo intercalare, turbato l'ordine de' mesi in tal modo, che Erodoto
non potè giungere a tempo da Roma, e rimase, nella maniera più
strana, deluso nella sua aspettativa [460]. Ma il peggio avvenne nella
creazione de' censori. Quell'ufficio era tenuto in gran conto per le
grandi conseguenze pratiche che venivano dalla redazione del censo;
e l'elezione di essi, fatta città per città, da' rispettivi concittadini,
costituiva una garanzia di non piccola importanza. Verre ne avocò a
sè la nomina e pose ognuno di que' posti all'incanto. A trattare la
cosa non v'era forse persona più adatta di Timarchide, di lui, che
aveva un fiuto finissimo, che in Sicilia conosceva uomini e cose e
sapeva trar partito dalle amicizie, dalle inimicizie, dall'avidità, dalle
debolezze umane, e, servendo Verre, dominava e Verre e la Sicilia.
Egli teneva questo mercato a Syracusae nella stessa casa del
pretore, e poche volte, forse, alcun mercato fu tanto ricco come
quello, onde uscivano in quell'anno i centotrenta censori della Sicilia;
la quale finì per pagarne a dovizia le spese; perchè il censo fu quale
da siffatti censori poteva attendersi, e quale loro conveniva che fosse
per rifarsi ad usura della compera della carica [461].
Inoltre, quasi che tutto ciò non bastasse, ognuno de' censori fu
obbligato a contribuire trecento danari per rendere onore di statue a
Verre; e con quest'altro pretesto sarebbero stati estorti, nella
maniera più aperta, altri trentotto mila denari [462].
Le statue.

Questa delle statue era un'altra delle ubbie di Verre. In parte era
vanità, quella stessa vanità, che gli aveva fatto sostituire le feste,
designate col suo nome «Verria», a quelle già esistenti in onore di
Marcello e che prendevano nome da costui «Marcellia» [463]. Egli ne
avea fatta mettere una, dorata, nella Curia di Syracusae [464], e
un'altra innanzi al tempio di Serapide [465], un'altra equestre, a
Roma, innanzi al tempio di Vulcano [466]; altre erano state dedicate
dalla rappresentanza comune delle città siciliane [467]; altre ancora
ne erano state erette a Tauromenium [468], Tyndaris [469], a
Leontini [470], a Centoripae [471] e altrove, con gli epiteti più
altosonanti di patrono, di soter perfino, quasi che i Siciliani avessero
bisogno di chiedere alla loro propria lingua un vocabolo
appropriato [472]. A Syracusae ne erano state fatte anche al padre ed
al figliuolo [473]. Ma non era tutta e sola vanità, era almeno vanità e
qualcos'altro. Cicerone pretendeva provare che, col pretesto delle
statue, Verre avesse estorti dalla Sicilia circa due milioni di
sesterzî [474]; da' soli Centoripini avea tratto a tal fine duecento mila
sesterzî [475]. La sola Syracusae era stata costretta a contribuire
tante volte: per le statue da porsi nel fòro, per quelle da erigersi in
Roma, per quella che elevavano gli agricoltori, per quella che offriva
la Sicilia collettivamente [476]. Contribuzioni simili avevano fatto
Halaesa, Catina, Tyndaris, Henha, Herbita, Agyrium, Netum,
Segesta, per tacere di tante altre [477], e con esse gli agricoltori ed i
negotiatores di Syracusae di Agrigentum, di Panhormus, di
Lilybaeum [478]. E, per assicurare meglio il profitto, l'esecuzione delle
statue veniva appaltata allo stesso Timarchide [479].
La cosa era proceduta a tal punto che i Siciliani dovettero fare una
petizione ridicola in apparenza, pratica in fondo; dovettero chiedere
cioè «che non fosse loro permesso di promettere statue ad alcun
magistrato, se prima non avesse lasciato il paese [480].»
Le esportazioni abusive.

La più gran parte intanto, di ciò che Verre espilava in Sicilia, non era
destinata a rimanere quivi, ed occorreva pagare il cinque per cento
di dazio sulla roba esportata. Verre volle esimersi dal pagamento di
questi diritti, e tale sua condotta provocò qualche dissenso tra lui e i
pubblicani. Dal solo porto di Syracusae esportò in pochi mesi
quattrocento anfore di miele, molti panni maltesi, cinquanta letti per
triclinî, una grande quantità di candelabri, per un valore di un
milione e duecento mila sesterzî; e L. Canuleio, rappresentante della
società in quel porto, che mal sapeva rassegnarsi alla perdita di
sessantamila sesterzî di dazio, non seppe fare a meno di scriverne a'
suoi, mandandone vivo lamento [481]. Ma il dissenso fu presto
appianato. L. Carpinazio, che sopraintendeva agli appalti di Sicilia, da
vero pubblicano, pensò che, come suole avvenire in questi casi,
perdere qualche cosa col pretore, potesse essere anche un buon
affare per sè e per la società stessa; e non solo largheggiò col
pretore, ma anzi divenne il compagno indivisibile e familiare di lui,
un altro Timarchide insomma, e si costituì suo banchiere. Era egli
che poneva a frutto i capitali del governatore; inoltre in tutti quei
loschi affari, in cui occorreva sborso di danaro ed i poveri ricattati
non l'avevano pronto, egli era sempre disposto ad anticiparlo, e poi
lo accreditava a Verre, al suo scriba, a Timarchide [482].
L'amministrazione frumentaria. Verre e la lex Hieronica.

Ma di tutte queste cose si poteva dire che fossero appena delle


riprese per Verre; cose messe a profitto qua e là, e secondo
l'occasione si dava. Il vero campo, in cui Verre mieteva con tutta la
larghezza, era il tributo della Sicilia, nelle varie sue forme, che, per la
sua opulenza e per la sua ricorrenza costante, offriva la mèsse più
ubertosa a' suoi lucri.
A tale scopo, prima di ogni altra cosa, Verre cercò mettere da parte
la legge Hieronica, se non con l'abrogarla apertamente,
coll'aggiungere varie clausole al suo editto e con l'eluderla nel campo
pratico. Anzi fece in modo che il decumano poteva trovarsi in una
condizione privilegiata, mettendosi senz'altro in possesso della
quantità di frumento che a sè credeva dovuta e lasciando
all'agricoltore il compito di farsi attore in giudizio e ripetere quanto
gli fosse stato tolto contro ragione. Tanto l'agricoltore era obbligato a
dare al decumano, quanto costui diceva che gli fosse dovuto a titolo
di decima [483]. Con tali innovazioni, tra le altre cose, anche l'onere
della prova ricadeva sull'agricoltore, e, sotto ogni rapporto, la sua
posizione diveniva meno favorevole. Seguiva a questa, è vero,
un'altra disposizione, per la quale, a giudizio finito, il decumano
doveva restituire otto volte quello che arbitrariamente avesse preso,
e l'agricoltore quattro volte quello che ingiustamente avesse negato
di dare [484]. Ma queste sanzioni legali, dice Cicerone, divenivano
un'irrisione, perchè i giudici e i recuperatores non erano presi,
secondo la legge, dal conventus [485], bensì dalla coorte di Verre, ed
erano satelliti di costui, complici de' complici suoi. E infatti, a dire di
Cicerone, non solo nessuno di questi giudizî era stato mai risoluto a
favore di qualche agricoltore, ma non v'era stato neppure uno che
ne avesse tentata la sorte [486]. E l'editto proseguiva per questa via,
arricchendosi di altre clausole, quali ironiche, quasi, per gli
agricoltori, quali fatte per rendere ancora più difficile la loro
posizione. Si promettevano per esempio i recuperatores, ma solo nel
caso che l'uno e l'altro de' litiganti li volessero [487]; e l'uno de'
litiganti, che solitamente avrebbe dovuto essere Apronio, certamente
non li voleva. S'imponeva agli agricoltori di fare la dichiarazione
dell'estensione di campi da essi coltivati, per trar motivo di altre
molestie dalla inosservanza o dalla pretesa violazione di questa parte
dell'editto [488]. Si dava facoltà al decumano di scegliersi la sede del
giudizio, obbligando l'agricoltore a dare, dove quello volesse, sicurtà
di comparire in giudizio [489]; e, per gente aliena dalle controversie,
trattenuta dal genere stesso delle sue occupazioni nella propria città,
può immaginarsi quanto ciò riescisse molesto. Quasi che non fosse
stato già abbastanza aver concesso al decumano di impossessarsi
della quantità che a lui piaceva; si ordinava al magistrato siculo di
mettere in esecuzione questo privilegio, già accordato al
decumano [490]. Altre volte si trattava di aggiunte escogitate per una
particolare persona, per un caso particolare, per togliere ogni via di
scampo, che la legge o l'editto avesse ancora potuto lasciare. Tale
per esempio era stata la disposizione che metteva la scelta del luogo
del giudizio nelle mani del decumano; tali furono quelle sulla
rimozione e sul trasporto del frumento al mare. Un cavaliere romano
Q. Septicio -- i Siciliani erano per necessità più ossequenti -- non
volea saperne di venire a patti con i decumani: opportunamente

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