Hard Real Time Computing Systems (The International Series in Engineering and Computer Science) Book PDF Download All Versions
Hard Real Time Computing Systems (The International Series in Engineering and Computer Science) Book PDF Download All Versions
Hard Real Time Computing Systems (The International Series in Engineering and Computer Science) Book PDF Download All Versions
com
OR CLICK BUTTON
DOWLOAD NOW
More products digital (pdf, epub, mobi) instant
download maybe you interests ...
https://ebookgrade.com/product/real-time-embedded-systems-
optimization-synthesis-and-networking/
https://ebookgrade.com/product/real-time-embedded-systems-open-
source-operating-systems-perspective/
https://ebookgrade.com/product/embedded-systems-real-time-
interfacing-to-arm-cortex/
https://ebookgrade.com/product/logic-in-computer-science-
modelling-and-reasoning-about-systems-2e/
Advances in Intelligent Systems Computer Science and
Digital Economics 9
https://ebookgrade.com/product/advances-in-intelligent-systems-
computer-science-and-digital-economics-9/
https://ebookgrade.com/product/azure-data-engineering-real-time-
streaming-and-batch-analytics-meap-v08/
https://ebookgrade.com/product/real-time-shadows/
https://ebookgrade.com/product/location-based-information-
systems-developing-real-time-tracking-applications/
Another random document with
no related content on Scribd:
invocando la donna, e, tra le insistenze e la minacciata violenza degli
uni e la resistenza degli altri, si accende una rissa in cui un littore,
Cornelio, viene ucciso e donde lo stesso Rubrio esce ferito [358]. La
voce e l'ira del tumulto viene il giorno appresso portata in piazza, e
Verre, assalito in casa da una folla furibonda, che minaccia di metter
tutto a ferro e fuoco, deve la sua salvezza soltanto all'interposizione
de' cittadini romani, che erano colà per i loro commerci [359]. E parte,
rinunziando anche per ora a chiedere la punizione dell'offesa fatta
alla sua autorità ed alla sua persona [360]; ma la vendetta non
scende meno sicura nè meno rapida sul capo di Filodamo e del
figliuolo. Cn. Dolabella lascia la sua provincia di Cilicia e l'esercito e
la guerra per accorrere in Asia ed indurre C. Nerone, esitante, a
punire l'uccisione avvenuta nella sua giurisdizione, e da un tribunale
composto di Dolabella, de' suoi prefetti e tribuni, dello stesso Verre e
di creditori di Greci sempre ligi a' legati; Filodamo e il suo figliuolo
passano nelle mani del carnefice sul fòro di Laodicea [361], dando a
tutta l'Asia spettacolo più della vendetta, che della giustizia romana.
Il brigantino di Mileto.
Pur troppo gli Asiatici erano costretti a vederne d'ogni colore. Verre
passa per Mileto, ne tratta con alterigia i magistrati, e, mentre si fa
ospitare lautamente, li maltratta e taglieggia la città con la richiesta
di un contributo di lana; poi, partendo, chiede una nave che gli serva
di scorta sino a Myndo, e, subito, con T umiltà di chi serve, gli è dato
un brigantino ben allestito, ben armato, scelto tra i dieci che Mileto
aveva a servizio della stessa repubblica. Ma il magistrato della
repubblica è anche più infido del mare: soldati e marinai tornano, ma
a piedi; il vascello non più; venduto a L. Magio e L. Fannio, dichiarati
poi nemici di Roma, esso va in corsa da Sinope a Dianium, dalla
Spagna al Mar Nero!
E guai a muoverne pure lamento! Lettere di Dolabella arrivano e
impongono che non se ne parli, che se ne cancelli la traccia dagli atti
pubblici, che tutto insomma torni nel buio [362].
Verre tutore.
Ma Verre andava omai a vele spiegate ed era la fortuna che gli
gonfiava la vela. C. Malleolo, il questore, viene ucciso ed è una
doppia eredità che tocca a Verre, la proquestura, che Cn. Dolabella
gli affida, e la tutela del figliuolo dell'ucciso: doppia eredità; chè
anche la tutela può, in certi casi e con certe persone, valere come
un'eredità.
Qui, a dir di Cicerone, sarebbero cominciate quelle esimie baratterie
nelle compre del frumento a un prezzo designato dalla stessa legge
che ne ordinava l'acquisto (emptum, imperatum), e nelle riscossioni
fatte in luogo del frumento da fornire al pretore ed al suo seguito
(aestimatum), che poi in Sicilia assunsero così larghe proporzioni. Nè
si tratta di tentativi tanto timidi, se fu poi addebitato un profitto di
tre milioni di sesterzî a Dolabella per frumento, cuoi, sacchi, panni,
che avrebbe dovuto prendere e non prese, avendone in cambio
danaro [363].
E il tutore del pupillo valeva quanto il pubblico amministratore. C.
Malleolo, uomo senza scrupoli, per affermazione dello stesso
Cicerone faceva il paio con Verre ed era ricco di masserizie, di servi,
di crediti verso le città. In tutto questo panno ora Verre avrebbe
tagliato a suo agio, senza discrezione: de' vini, che quegli aveva in
gran copia, pensò a rifornire le sue cantine; tutte le argenterie, gli
schiavi, o che si raccomandassero per la bellezza dell'aspetto o per
particolari attitudini, li prese per sè ed i crediti li fece a poco a poco
sfumare tra le sue mani. Egli avrebbe esatto due milioni e
cinquecentomila sesterzi, ma di dare i conti non se ne parlava;
messo alle strette dalla madre e dall'ava del pupillo, perchè dicesse
almeno quanto aveva portato, parlò di un milione, poi, per uno
scambietto di cui non possiamo comprendere nulla, come nulla
mostrava di comprenderne Cicerone, con una dolosa cancellatura, il
milione si trovò ridotto a seicentomila sesterzi, che apparivano dati al
servo Crysogono ed accreditati al pupillo Malleolo, senza che
nemmeno si fossero integralmente versati [364].
Verre e Dolabella in giudizio.
Quelli della provincia erano i giorni della gazzarra; ma, mentre il
lampo dell'oro e lo strepito de' tripudî rendeva il governatore ebbro,
e come un ebbro sicuro di sè stesso, quelle lagrime di manomessi, di
spogliati, di violate talvolta si addensavano lontano, a Roma, per
iscoppiare loro, sul capo, al ritorno. Era il fuoco del purgatorio non
acceso, oltre la vita, da una trascendente giustizia divina; ma qui in
terra, e non dalla pietà verso i provinciali, ma dall'invidia, dall'avidità
delusa, dall'ira di parte, dall'ambizione, da tutto il vento delle
passioni insomma, che vi soffiava dentro, facendo di quei giudizî una
fiamma da tregenda. Un M. Scauro della famiglia degli Aurelî [365],
più probabilmente che di quella degli Emilî [366], è forse quello stesso
che Cicerone poco innanzi nomina come questore in Asia [367] e che
colà poteva avere avuto notizia de' fatti, giovane d'anni ma astuto e
corrivo alla vendetta, si faceva nell'anno 78 accusatore di Dolabella,
chiedendogli conto del suo governo di Cilicia.
Quanta parte nel malgoverno aveva avuta Dolabella? quanta ne
aveva avuta Verre?
Cicerone tendenziosamente ne vorrebbe addossare tutta a questo la
soma, facendone quasi il solo responsabile degli stessi fatti, di cui
Dolabella riportò condanna: un'esagerazione, comoda certamente a'
bisogni della causa, ma manifesta sì per la diversa posizione de' due
e sì per le stesse parole di Cicerone, quando fa intervenire Dolabella
a metter la polvere sugli atti di Verre od a sperderne la traccia [368] e
quando egli stesso, per induzione, arriva a concludere che se
Dolabella ne fu l'autore, Verre ne fu l'esecutore materiale [369]. È
chiaro in ogni modo che se il governo della provincia avea dovuto
farne due amici e la concordia era sopravvissuta anche alla
spartizione della preda, ora nel giudizio l'istinto della propria
conservazione dovea farne due avversarî; e M. Scauro, intento
sopratutto a colpire Dolabella, trasse naturalmente partito da questa
posizione di cose, anche senza quell'anticipato e perverso accordo,
che forse può essere una posteriore induzione di Cicerone [370].
Cicerone fa colpa anche a Verre di non aver resi i suoi conti prima
della condanna di Dolabella; eppure nulla vi era di più giusto. La
responsabilità anche amministrativa di Verre e la sincerità de' suoi
conti dipendevano direttamente dal grado di responsabilità di
Dolabella e dalla provata verità delle sue attestazioni in giudizio; era
impossibile parlare di resoconto, mentre si disputava se Dolabella
avesse oppur no ricevuto, e se Verre gli avesse dati cinquecento
trentacinque mila sesterzî, e se alla sua volta Verre avesse ricevuto
altri duecento trenta duemila sesterzî non riportati ne' suoi registri, e
di frumento un altro milione ed ottocentomila sesterzî parimenti non
riportati. Può darsi benissimo che ne' suoi registri Verre avesse
trascurato d'iscrivere i crediti verso Q. e Cn. Postumio Curzio e che
avesse pure in Atene versato nelle mani di P. Tadio quattro milioni di
sesterzî [371]: in ogni modo da quel processo, donde correva rischio
di riuscire come un accusato, ne uscì immune. Fu a proposito di
questo giudizio che Verre dovette trattenersi in Roma tre giorni [372],
la sola dimora da lui fatta in città dopo l'esercizio della sua questura,
a quanto almeno dice Cicerone; e, se ciò è vero, questa sua breve
fermata e la lunga assenza valgono anche a togliere credito a'
maneggi che Cicerone gli attribuisce nella causa di Dolabella.
La pretura di Verre.
Dove fu e che cosa fece, dopo ciò, per più che tre anni? Poichè era
questo il tempo in cui la parte mariana, rifatta ardita dalla morte di
Silla, faceva una nuova levata di scudi in Italia e maggiore anche e
più fortunata nella penisola iberica; è probabile che Verre non restò
inoperoso e contribuì a sostenere le sorti della parte aristocratica di
cui era un campione. È notevole che Cicerone per questo triennio e
più non gl'imputa niente di determinato, e, benchè dica che la
cronaca cittadina non cessa di occuparsi di lui e non per festeggiarlo,
non è improbabile ritenere che, durante la sua lontananza, gli echi di
fatti suoi non commendevoli, che aveano potuto ripercuotersi nel
processo di Dolabella, si andarono spegnendo, e con essi, come per
chi è lontano suole appunto avvenire, molte ire e rancori.
Quando Verre tornò a Roma nel 679 (75 a. C.), vi tornò per essere
elevato ad una delle più alte cariche dello Stato, a quella che, se
poteva essere seconda in importanza ad un'altra, poteva in dignità
ritenersi non seconda ad alcuna. Verre divenne pretore. Fu tutta
opera della corruzione elettorale e di nient'altro che della corruzione?
Cicerone lo dice nella forma più esplicita e tale che non ammette
repliche. Trecentomila sesterzî distribuirono per suo conto i divisores
ed ottantamila n'ebbe l'accusatore perchè recedesse dall'accusa [373].
Certamente il credere alla corruzione non è fare ingiuria nè all'uomo,
nè a' tempi; l'uno e gli altri anzi lo suggeriscono; ma non bisogna
neppure dimenticare che un uomo come Verre, duro, inesorabile
ostinato e senza soverchi scrupoli, era per la parte in cui militava, e
lo mostrò, uno strumento non trascurabile, ed il potere della parte
aristocratica, allora prevalente, va pure tenuto in conto. Comunque
ciò fosse, quando il suo nome uscì trionfante dal voto dei comizî, egli
dovè sentire tutto l'orgoglio e la gioia di chi è salito così alto che non
ha se non da tendere la mano per afferrare il supremo fastigio del
potere. Anche la sorte lo favoriva; egli era pretore urbano [374].
Strumento ed artefice al tempo stesso della legge, egli si assideva
oggi in Roma come l'arbitro della giustizia civile; e, tra un anno,
l'aspettava la provincia, dove, questa volta, con autorità
incontestata, e se dio voglia, con migliore fortuna avrebbe compiuta
quello che aveva fatta ed anche quello che forse non aveva fatto
Dolabella.
Ma dunque, o Cicerone, è un pirata che si accampa nel fòro di
Roma? [375].
Il pretore -- occorre appena rammentarlo -- non era semplicemente
l'esecutore della legge, stretto dalla parola di essa in determinati
confini ed a spiegare l'opera sua soltanto caso per caso. Fra gli
elementi che concorrono all'esplicazione della coscienza e della vita
giuridica romana, il pretore è l'elemento più vivo ed operoso, e il suo
editto è lo spirito innovatore che svolge le istituzioni e le leggi
antiche e le adatta alle nuove condizioni di vita; deriva da' nuovi
rapporti economici e sociali le nuove norme giuridiche e segue
assiduamente Roma in questo allargamento progressivo della sua
sfera di azione ed in questa graduale fusione della civiltà cittadina
con la civiltà universale. Quanto più vasto il compito adunque, tanto
più facilmente irto di pericoli, fecondo di errori; ed il rimedio a tutto
non era in una espressa disposizione di legge, ma piuttosto nella
natura transitoria del provvedimento, nel divieto al suo adempimento
opposto da un magistrato di potere uguale o maggiore, nel limite
sopratutto che ciascuno dovea sapere imporre a sè stesso. Ancora
un freno di meno: l'editto non era il programma del candidato, che
diveniva legge poi per l'eletto; ma uno schema, neppure
rigorosamente obbligatorio, del pretore designato ad entrare in
funzione. Che cosa non dovea prestarsi a divenire un tale ufficio
nella Roma del settimo secolo, divenuta il mercato del mondo, in
quella gara intemperante di ambizioni, d'interessi, di cupidigie, e
come doveva essere ben saldo sulla sua sedia curule il pretore per
resistere a quel cozzo, e quante volte vi restava saldo? E che cosa ne
fece Verre? Che pagina scrisse egli in questa storia sì gloriosa, se
guardata a grandi tratti, della pretura romana? L'opinione di Cicerone
è risaputa: la pagina che Verre vi scrisse, fu quale l'avidità potea
suggerire, la malafede dettare, e l'insipienza scrivere. Designato
pretore non fece che tessere tutta una rete piena di viluppi per
tenderla poi ne' giorni dell'uffizio: tale è il suo editto. Non è
nemmeno la manifestazione di uno o di un altro concetto giuridico;
è, così, un ingegno messo insieme per prede predestinate. E
Cicerone, al giorno del giudizio, ne strappa via alcuni nodi e alcune
maglie per agitarli innanzi a' giudici e al popolo, onde tutti li vedano,
tutti concepiscano il resto.
L'eredità di P. Annio.
Sopratutto poi a' varî fonti di diritto conosciuti sin qui se ne era
aggiunto un altro: Chelidone. Col crescere della raffinatezza e del
lusso, Roma era invasa pure da una folla di quelle etère che già in
Grecia avevano tenuto lo scettro; e la Grecia vinta signoreggiava il
conquistatore anche con le deboli e delicate mani di queste sue
donne. Esperte di tutte le arti di piacere, colte anche qualche volta,
piene di capricci e di bizzarrie, strano impasto di tenerezza e di
malizia, quali ci appaiono specialmente nei poeti del secolo che
finisce e di quello che incomincia; esse erano fatte per abbagliare,
attirare e conquistare i conquistatori del mondo, e, in tempo di
prosperante arbitrio e di crescenti poteri personali, portare più che
mai il coefficiente dell'alcova nell'alchimia della politica
contemporanea. In una di queste amabili panie era andato ad
invischiarsi Verre. Lei si chiamava, o si faceva chiamare Chelidone:
rondine; un nome, specialmente per l'epoca quasi sentimentale, il
nome dell'uccello commisto alla triste favola di Tereo, dell'uccello
cantato da Anacreonte, un nome bello e sonoro che aveva in sè
come un'eco indistinta di risorgenti primavere e d'autunni morenti, di
lunghe lontananze e di fedeli ritorni. Lui, n'era preso, pare, alla follia,
e la piccola mano che regge col freno il pretore, reggerà anche la
pretura ed i giudizî [401].
O litiganti, a che affollare la casa del giureconsulto ed impetrare il
parere di Scevola e l'opera dell'avvocato? Benchè sia la via diretta,
nondimeno è la più lunga e spesso non vi conduce in porto. La
chiave della pretura e del cuore del pretore è nelle mani di
Chelidone; e nella sua casa s'agitano e si decretano le sorti
d'ognuno. La sua casa è gremita, come non mai casa di
giureconsulto, ed ella si asside, sibilla del nuovo oracolo; chi chiede
di essere messo in possesso, chi di non esserne espulso, chi di
essere posto al coverto da un giudizio che non vuole, chi
l'attribuzione delle cose contese e chi numera quattrini e chi suggella
scritture [402]. È la casa dell'etèra o l'aula della giustizia? L'una cosa e
l'altra, che tendevano -- e forse non allora soltanto -- a divenire una
cosa. E l'oro che affluisce colà, ora e poi, per una via o per un'altra,
pure va a finire in mano di Verre! Anche morendo due anni appresso
(72 a. C.) Chelidone è provvida tanto da pensare a che il gaudio
dell'erede renda meno amare le lagrime dell'amante [403]. Chelidone
infatti morì sotto il consolato di Cn. Lentulo e L. Gellio [404].
La manutenzione de' pubblici edificî.
Stenio di Thermae era, a quanto dice Cicerone, uno degli uomini più
ragguardevoli che allora contasse la Sicilia. Onorato di tutte le
cariche pubbliche del suo paese, le aveva esercitate assai
onorevolmente; avea con munificenza singolare ornata la sua città,
ottenendone da essa pubblici attestati, ed aveva saputo acquistare
considerazione ed amicizia presso i principali uomini che al suo
tempo fossero a Roma, da C. Mario a Cn. Pompeo. Amante, come
tanti Siciliani, delle opere d'arte, sia per soddisfare questa tendenza,
assai viva in paesi di coltura greca, che per compire con maggior
splendore i suoi doveri di ospitalità verso tanti ospiti illustri, avea
ornata con la maggior magnificenza la sua casa della più elegante
suppellettile di bronzo di Delo e di Corinto, di pitture, di vasellame
d'argento; tutte cose messe insieme sin dall'adolescenza, mentre era
in Asia. Tra gli ospiti di Stenio fu anche Verre, e mai non ne partì,
senza che qualcosa, mancante dalla casa ospitale, attestasse la sua
venuta. Pure Stenio sopportava tutto, con rassegnazione, e in
silenzio. Ma all'uomo, che così tranquillamente avea tollerato il danno
proprio, vennero meno rassegnazione e pazienza, quando Verre volle
mettere le mani su di alcune opere d'arte, che avevano già
appartenuto ad Himera e che Scipione Africano, dopo la conquista di
Cartagine, avea donato a Thermae, città vicina della distrutta
Himera. Erano molte statue di bronzo, figure muliebri, una statua di
Stesicoro, una capretta così bella che avrebbe fatto impressione
anche ad un Romano non educato al gusto di queste cose. Verre le
desiderava ardentemente, ed ardentemente la cittadinanza teneva a
conservarle, come cose che si connettevano alle tradizioni cittadine,
alla memoria di Scipione, e costituivano quanto di più caro e più
prezioso avesse il paese. Stenio si fece il coraggioso interprete del
sentimento de' suoi concittadini, e si oppose e rese vano il desiderio
di Verre. Per costui fu come una dichiarazione di guerra. Lascia la
casa di Stenio per andare a quella de' nemici suoi, che, come suole
accadere, perciò stesso l'invitavano. Egli non ha che l'imbarazzo della
scelta; andrà da Agatino o da Doroteo, suo genero? La bella
Callidama, sua moglie, fa dare la preferenza a quest'ultimo; e
l'intervallo di una sola notte lo avea già fatto tale, che si sarebbe
detto avesse tutto comune con Doroteo, ed Agatino fosse come un
suo parente ed affine. E la sua buona fortuna non lo placa; lo incita
anzi di più alla vendetta contro Stenio. I suoi nemici stessi non sanno
escogitare nulla contro di lui; ma Verre gl'incita e li aiuta ad
imbastire uno de' soliti processi per falsificazione di atti pubblici.
Stenio, per la condizione autonoma di Thermae, per la legge Rupilia,
chiede che la causa venga trattata secondo le leggi termitane. Verre
fa il sordo e, per tutta risposta, indice la causa per l'ora nona.
È inverno, e il mare è più infido che mai; pure a Stenio il mare pare
meno infido e meno malsicuro di Verre, e si commette al mare per
cercare a Roma un aiuto contro il suo persecutore. Intanto Verre,
che all'ora nona puntualmente lo aspetta e non lo vede, va in furia,
cerca da per tutto per iscovarlo; lascia il fòro alla terza ora della
notte per tornarvi il domani e condannarlo in contumacia, per
falsificazioni di atti pubblici, a pagare cinquantamila sesterzî al
tempio di Venere del monte Eryce. Ancora alcuni anni dopo, Cicerone
vi vedeva un Cupido d'argento, consacrato da' beni di Stenio, quasi a
rappresentare plasticamente il segreto della sua condanna. Ma non
basta; nè Verre si tien pago: in pubblico, dal suo seggio, fa sapere a
tutti, che se qualcuno vorrà accusarlo di delitto capitale, egli
procederà contro Stenio, comunque assente. Pure lo stesso Agatino
non si presta a ciò, e, per trovare chi lo faccia, bisogna ricorrere ad
un tale Pacilio, un pezzente ed uno sciocco. Vien fatto precetto a
Stenio di trovarsi fra trenta giorni per le calende di Decembre, a
Syracusae. Ma Stenio a Roma non perde tempo, e si muove e si
agita tanto, che i consoli Gn. Lentulo e L. Gellio (s'era nel 72 av. C.)
[454] fanno una mozione, perchè il Senato stabilisca che nelle
provincie non sia lecito sottoporre a causa capitale gli assenti. Si
stava già per decider questo, e dichiarar nullo ogni giudizio che
contro tale regola si fosse fatto a danno di Stenio, quando il padre di
Verre, con pianti e con l'aiuto di ostruzionisti, riesce a rimandare la
cosa, poi la mette a dirittura in tacere, promettendo di far sì che il
figliuolo non dia corso alla causa. Se non che nulla ponno presso
Verre le preghiere di suo padre, nulla i pericoli, onde lo minacciano
gli stessi suoi atti; le calende di Decembre vengono, ed egli cita
l'accusato. Non risponde Stenio, e non risponde, chi sa per qual
caso, neppure l'accusatore; nondimeno Verre va avanti. V'è bisogno
di un patrocinatore? Gli assegna uno de' suoi satelliti, un Claudio,
figliuolo di Claudio, della tribù Palatina, probabilmente un liberto,
nimicissimo di Stenio, e così lo condanna.
Con tutto ciò la sua ira può dilaniare i beni, non raggiungere la
persona di Stenio; giacchè Cicerone, ospite ed amico di Stenio,
ottiene da' tribuni della plebe, che egli possa rimanere in Roma al
sicuro, malgrado l'editto che non permetteva di restare in Roma a
condannati per delitto capitale.
E questi erano i delitti più perspicui compiuti da Verre
nell'amministrare la giustizia: ma accanto ad essi molti altri non si
accennavano neppure, per la stessa moltitudine loro [455].
L'ingerenza nelle elezioni de' magistrati locali.
Questa delle statue era un'altra delle ubbie di Verre. In parte era
vanità, quella stessa vanità, che gli aveva fatto sostituire le feste,
designate col suo nome «Verria», a quelle già esistenti in onore di
Marcello e che prendevano nome da costui «Marcellia» [463]. Egli ne
avea fatta mettere una, dorata, nella Curia di Syracusae [464], e
un'altra innanzi al tempio di Serapide [465], un'altra equestre, a
Roma, innanzi al tempio di Vulcano [466]; altre erano state dedicate
dalla rappresentanza comune delle città siciliane [467]; altre ancora
ne erano state erette a Tauromenium [468], Tyndaris [469], a
Leontini [470], a Centoripae [471] e altrove, con gli epiteti più
altosonanti di patrono, di soter perfino, quasi che i Siciliani avessero
bisogno di chiedere alla loro propria lingua un vocabolo
appropriato [472]. A Syracusae ne erano state fatte anche al padre ed
al figliuolo [473]. Ma non era tutta e sola vanità, era almeno vanità e
qualcos'altro. Cicerone pretendeva provare che, col pretesto delle
statue, Verre avesse estorti dalla Sicilia circa due milioni di
sesterzî [474]; da' soli Centoripini avea tratto a tal fine duecento mila
sesterzî [475]. La sola Syracusae era stata costretta a contribuire
tante volte: per le statue da porsi nel fòro, per quelle da erigersi in
Roma, per quella che elevavano gli agricoltori, per quella che offriva
la Sicilia collettivamente [476]. Contribuzioni simili avevano fatto
Halaesa, Catina, Tyndaris, Henha, Herbita, Agyrium, Netum,
Segesta, per tacere di tante altre [477], e con esse gli agricoltori ed i
negotiatores di Syracusae di Agrigentum, di Panhormus, di
Lilybaeum [478]. E, per assicurare meglio il profitto, l'esecuzione delle
statue veniva appaltata allo stesso Timarchide [479].
La cosa era proceduta a tal punto che i Siciliani dovettero fare una
petizione ridicola in apparenza, pratica in fondo; dovettero chiedere
cioè «che non fosse loro permesso di promettere statue ad alcun
magistrato, se prima non avesse lasciato il paese [480].»
Le esportazioni abusive.
La più gran parte intanto, di ciò che Verre espilava in Sicilia, non era
destinata a rimanere quivi, ed occorreva pagare il cinque per cento
di dazio sulla roba esportata. Verre volle esimersi dal pagamento di
questi diritti, e tale sua condotta provocò qualche dissenso tra lui e i
pubblicani. Dal solo porto di Syracusae esportò in pochi mesi
quattrocento anfore di miele, molti panni maltesi, cinquanta letti per
triclinî, una grande quantità di candelabri, per un valore di un
milione e duecento mila sesterzî; e L. Canuleio, rappresentante della
società in quel porto, che mal sapeva rassegnarsi alla perdita di
sessantamila sesterzî di dazio, non seppe fare a meno di scriverne a'
suoi, mandandone vivo lamento [481]. Ma il dissenso fu presto
appianato. L. Carpinazio, che sopraintendeva agli appalti di Sicilia, da
vero pubblicano, pensò che, come suole avvenire in questi casi,
perdere qualche cosa col pretore, potesse essere anche un buon
affare per sè e per la società stessa; e non solo largheggiò col
pretore, ma anzi divenne il compagno indivisibile e familiare di lui,
un altro Timarchide insomma, e si costituì suo banchiere. Era egli
che poneva a frutto i capitali del governatore; inoltre in tutti quei
loschi affari, in cui occorreva sborso di danaro ed i poveri ricattati
non l'avevano pronto, egli era sempre disposto ad anticiparlo, e poi
lo accreditava a Verre, al suo scriba, a Timarchide [482].
L'amministrazione frumentaria. Verre e la lex Hieronica.