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Dammi solo una ragione (prima di perdere tutto)
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Dammi solo una ragione (prima di perdere tutto)
E-book648 pagine9 ore

Dammi solo una ragione (prima di perdere tutto)

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Info su questo ebook

Il secondo capitolo della storia di Madeleine e Daniel, dopo “Dimmi che ne vale la pena”.
  
 «Potrai campare cento anni, Daniel, ma ricordati che non raggiungerai mai il suo livello, la sua eleganza o la sua dolcezza. Lei è speciale. Tu no. E un giorno lei sarà costretta a scegliere. Lo sai questo, vero? Non potrà avere entrambe le cose. La famiglia, o te»

 «Perché persino l'impossibile è facile quando abbiamo l'un l'altro»

Daniel, grazie all’ingegnere Gal Monticello – padre della fidanzata Madeleine –, è uscito dal riformatorio di Manchester ed è a Torino, presso la loro famiglia.
In Italia, però, il ragazzo non ha vita facile visto che l’ingegnere lo detesta. Lo ritiene inadatto alla figlia per molti motivi, ignorando il fatto che nell’animo squarciato di Daniel si annidano ferite molto profonde, ferite che il giovane è intenzionato a tenere segrete. Certi squarci, però, non possono restare rinchiusi per sempre e presto, dopo l’incontro con una persona, il suo triste passato viene prepotentemente alla luce ed è un dolore che potrebbe essere devastante per tutti.
Daniel, inoltre, conosce Thomas, il miglior amico di Madeleine, si scontra con altri membri della famiglia Gal Monticello e, infine, rischia di tornare in riformatorio in seguito ad alcune gravi azioni, considerato anche il fatto che è bravo a farsi odiare sia da Matthew che dall’intransigente nonno Michele, patriarca di famiglia.
Fortunatamente il ragazzo ha dalla sua parte non solo Madeleine, ma anche Emma che lo tratta come un figlio, fino a che...
E Madeleine è combattuta fra la famiglia, l’amicizia con Thomas e l’amore per Daniel e quando lui dovrà tornare in Inghilterra per il processo, e scoprire quale sarà la condanna, le cose non vanno come erano state previste dall’avvocato.
Madeleine gli starà sempre vicino, nonostante tutto, fino a quando, in famiglia, succederà qualcosa di molto grave e lei si ritroverà di fronte all’inevitabile bivio e a una scelta impossibile da fare.
Daniel e Madeleine avranno ancora speranza?

La trilogia #MGMSeries è così composta:

Prima che sia buio #1
Prima che il tempo si porti via noi #2

Dimmi che ne vale la pena #3
Dammi solo una ragione #4
Dimmi che mi bacerai ancora #5

... #6 ... coming soon
LinguaItaliano
Data di uscita9 feb 2017
ISBN9788826018782
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    Anteprima del libro

    Dammi solo una ragione (prima di perdere tutto) - Marilena Tealdi

    Marilena Tealdi (Autore), Lovely Covers (Illustratore)

    Dammi solo una ragione

    prima di perdere tutto

    UUID: 38a188f2-ef14-11e6-bd96-0f7870795abd

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Copyright © Edizione originale 2017

    di Marilena Tealdi

    Tutti i diritti riservati

    Questo libro è opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto

    dell'immaginazione dell'autrice o utilizzati in modo fittizio.

    Qualsiasi somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, vive o defunte, è puramente

    casuale.

    Front Cover: Lovely Covers Graphic Design

    (un ringraziamento speciale a: Ale Romànce)

    https://www.facebook.com/Lovely-Covers-Graphic-Design-1584690885190883/

    Foto: Fotolia

    Come sempre,

    dedicato a mio fratello Armando. Mi manchi.

    E a Erik, che sopporta. Ti amo.

    E a te,

    che ci credi ancora.

    Nonostante il vento.

    PROLOGO

    "Perché persino l'impossibile è facile,

    quando abbiamo l'un l'altro"

    Daniel Matthews

    Manchester, Inghilterra.

    Gennaio.

    Daniel.

    Gli occhi scuri di Syd mi stanno fissando, cattivi. È crudele con me, e io non posso difendermi. È spietato: la sua anima è stata risucchiata tutta dentro al buco nero che ha nel cuore.

    Stringe le mani a pugno, il cobra che ha tatuato sul braccio vibra, come se fosse vivo. Io mi sfioro la gola, tocco il disegno intricato che lui mi ha fatto imprimere sulla pelle qualche giorno fa. Mi ha fatto male questo tatuaggio. Syd mi ha detto che è per far capire alla gente da dove provengo e per farmi avere un assaggio di tutto l’immenso dolore che mi procurerà la vita.

    Per adesso, il dolore che provo è solo lui a darmelo.

    Syd parla, la sua voce è arrochita dalle troppe sigarette. Mi dice di collaborare, di farlo per il bene della nostra famiglia ma io so che sta mentendo. A lui di questa famiglia non importa nulla. È solo di se stesso che gli importa.

    Nostra madre mi ha lasciato da solo con lui, incurante del mio miserabile destino.

    Scuoto la testa, i capelli a oscillarmi sugli occhi. Syd, purtroppo per me, sa essere convincente. Vorrebbe picchiarmi sul volto, ma per ora non lo fa: non vuole lasciarmi segni troppo visibili. Non vuole sciupare la mia faccia pulita, quella che le donne adorano.

    Syd ghigna nella penombra della camera, con uno spintone mi getta sul letto. Mi dice di crescere.

    Ho freddo e ho male allo stomaco.

    Il cuore mi batte a velocità triplicata, devo respirare a fondo per cercare di farlo tornare a battere a ritmi più normali.

    Sento il profumo dolciastro di quella donna arrivare sin qui. È in cucina, a fare dei commenti volgari su di me, insieme al suo compagno, il socio in affari di Syd.

    E io qua, che sento tutto, che mi impongo di essere propositivo e mi dico che non è poi così male, poteva andarmi peggio – anche se credo che presto il peggio arriverà, e prima mi convinco di questo e prima lo accetto – e che devo farmene una ragione, perché non ho alternative.

    Lei entra in camera, mi saluta con voce come caramello, un caramello che provoca solo carie, poi parla a Syd. Lui mi dà un’ultima occhiata piena di disprezzo, poi se ne torna in cucina con gli altri, a bere vodka e a fumarsi le canne.

    E quella femmina non perde tempo, mi ordina di spogliarmi poi mi viene addosso; io mi vergogno, non sono mai stato nudo di fronte a una donna, e lei è gentile solo per finta. Non mi coccola, non mi fa sentire al sicuro. Dice solo parole d’apprezzamento ai miei occhi e parole volgari sulle mie parti basse. Sono rigido perché il mio cervello non collabora con il mio inguine. Si lecca il rossetto, mi accarezza quel giusto poi mi fa sentire le lunghe unghie sul petto e sullo stomaco, mi graffia come se volesse marchiare il territorio; mi struscia addosso la carne umida.

    Mi passa la mano fra i capelli, mi dice di farle delle cose mentre miagola ancora sul colore stupendo dei miei occhi e sulla mia pelle liscia di ragazzo.

    E io non posso fare altro che darmi da fare, anche se mi fa schifo e, mentre lo faccio, penso a una principessa con il viso di un angelo che presto arriverà per portarmi via da tutto questo orrore che mi è franato addosso.

    Ho solo quindici anni, e questa è la prima volta che faccio sesso.

    Mi sveglio di soprassalto.

    Forse è stato proprio il battito forsennato del mio cuore a svegliarmi. Sono sudato, e spaventato.

    Mi guardo attorno. Sono solo.

    Sono nello stesso letto su cui, spesso, decine di donne mi hanno usato, violentato, e avvolto dalle stesse lenzuola che hanno assistito a quegli abusi, anche se il tempo, per adesso, pare cambiato.

    Ho sognato, di nuovo per la centesima volta, una di quelle violenze.

    Una donna che stupra un ragazzino di quindici anni.

    È possibile? Purtroppo sì…

    Se mi concentro per bene riesco perfino a sentire sulla punta delle mie dita porzioni di pelle che non avrei mai voluto toccare, bocche umide che cercano le mie labbra bagnate dalle lacrime. Mi sale la bile in gola, evito di pensarci.

    Altrimenti non ne esco vivo.

    È una fredda mattina di gennaio, e sono da poco suonate le sei. Alle sette e mezza devo essere al bar, per aprirlo e iniziare a preparare i primi caffè e i primi cappuccini della giornata.

    E ogni giorno spero sia quello giusto. Quello perfetto per incontrare il mio futuro.

    E, come ogni mattina, appena apro i miei maledetti occhi da un’inquietante iride color viola, la prima cosa che mi chiedo è se sarà proprio oggi, il mio giorno migliore.

    ***

    Sono quasi le sei di pomeriggio e ho appena chiuso il bar.

    Ho lavorato tutto il giorno, mi sono destreggiato fra caffè, cappuccini e fra le sgridate – bonarie, per fortuna – di Katy, la mia principale, senza aver mai smesso di pensare alla bella ragazza per metà italiana, e con l’elegante parlata inglese tipica di Londra, che oggi è entrata qui quasi per caso. E che ho fatto infuriare.

    È stato divertente.

    E lei è così bella, con quegli occhioni azzurri innocenti e i capelli come una cascata d’oro puro, come una vera principessa delle favole. E Madeleine sono sicuro che lo è. È la principessa dei miei sogni, quella che invoco ogni notte e ogni giorno perché venga a darmi la forza e il coraggio di sopportare tutta la tortura che mi è stata imposta.

    È passato troppo tempo.

    Sono quattordici giorni che non vedo più Madeleine. Forse dormivo e lei è stata solo un sogno. La principessa di questa mia disillusa realtà è stata solamente il frutto della mia immaginazione.

    E quindi so bene che non la incontrerò più.

    Come la principessa che invoco nei miei sogni, anche lei mi ha lasciato da solo, alla fine.

    Lo so: potrei andare al campus dell’università e andare io a cercarla alla facoltà di Archeologia, dove mi ha detto che studia.

    E poi?

    Se lei non è tornata al bar per vedermi, è perché non ha alcun interesse verso di me.

    E andare al campus per fare che cosa? Lei mi incrocerebbe e farebbe finta di non conoscermi. Ne sono più che certo.

    Sono un pezzente, un morto di fame senza una sterlina bucata nelle tasche, e lei lo ha capito.

    E io resterei lì impalato come un cretino, guardandola mentre mi passa accanto, ignorandomi, magari abbracciata al più figo della scuola, magari ridendo del sottoscritto.

    No, non riuscirei a reggere quell’umiliazione. Sarebbe troppo anche per me.

    A casa, poi, la sorpresa che mi aspetta è la degna ciliegina di merda.

    C’è mio fratello Syd. Era sparito. È ritornato.

    Ubriaco, strafottente, cattivo. Sfoggia un tatuaggio nuovo sul torace: una luna sanguinante; non mi chiedo quanto abbia pagato quel disegno, né dove abbia preso i soldi per farselo fare. Syd è perennemente in bolletta e sono sempre io, in ogni senso, a pagare i suoi debiti.

    Cerco di ignorarlo; come al solito, dice solo stronzate. Dice che ha un problema che il suo caro fratellino potrebbe risolvere e che, se tengo alla mia pellaccia di diciassettenne, devo aiutarlo.

    Semplicemente, c’è da portare una macchina, che il caro Syd ha preso in prestito da qualcuno, da un posto a un altro.

    Solo questo.

    Salire sull’auto, metterla in moto, guidare fino a destinazione, parcheggiarla in un cortile e andar via.

    Peccato che io non voglio farlo.

    Peccato che Syd sa essere molto convincente.

    E per fare questo fottuto lavoro ho dovuto chiedere a Katy un giorno di permesso – lei me l’ha accordato con un mugugno – e io ho dovuto prendere quella macchina del cazzo e guidarla – nonostante sia minorenne e che sia quindi sprovvisto di patente – fino a un garage a Crumpsall, da un tossico amico di Syd.

    Ho preso un autobus per tornare a casa.

    E, a casa, mio fratello mi sta aspettando, stravaccato sul divanetto in cucina.

    – Hai visto, Dani? È stato facile. – Syd ghigna alzandosi dal divano sdrucito; finisce la vodka, lancia la bottiglia contro al muro, a pochi centimetri da me – reprimo un sobbalzo – e mi viene vicinissimo. Passa una mano sudaticcia a scompigliarmi i capelli, che porto lunghi sulla faccia per far sì che i miei orribili occhi si notino il meno possibile, si ferma sulla nuca, mi afferra un lungo ciuffo per tenermi immobile la testa.

    – Che cazzo di occhi viola… Sei solo una troia, Dani, ricordalo. Se voglio posso sbatterti sulla strada quando mi pare. – Sento arrivare alle narici il suo alito pregno d’alcool scadente e sigarette.

    Mi lascia andare malamente facendo un sorriso cattivo e guardandomi con disgusto il polso che mi ha fratturato di recente – è ancora fasciato – e se ne va.

    E io ringrazio un Dio a cui non credo, considerato come mi vanno le cose, che Syd se ne sia andato senza usarmi ancora come giocattolo per una delle sue amichette, senza darmi un pugno sul viso, o un calcio sulla milza con uno dei suoi maledetti stivali in pelle di serpente.

    Capitolo 1

    Riformatorio di Manchester, Inghilterra.

    Marzo.

    Daniel.

    Sono rinchiuso in questo fottuto riformatorio da due giorni appena, ma mi sembrano già mille.

    Qui dentro fa schifo, fa tutto schifo, e i bulletti non si contano.

    L’unica cosa positiva di questa situazione del cazzo è che, quando la polizia – l’altro ieri – ha fatto irruzione in casa, arrestandomi insieme a Syd e a Misha, ha evitato che il mio carissimo fratellino mi ficcasse una fottuta spada piena di eroina dritta nel braccio, per farmi sballare e darmi in pasto alla sua amica tossica e ninfomane.

    Se i piedipiatti non fossero arrivati, ora di me…

    Non voglio pensarci.

    Mi rifiuto di farlo.

    Adesso sono con una guardia che mi strattona per un gomito e mi fa avanzare lungo un corridoio con molte finestre. Mi sta accompagnando dall’avvocato d’ufficio che la Corte mi ha assegnato.

    Là fuori c’è un sole abbacinante e non mi pare neppure di essere a Manchester, in marzo.

    È una splendida giornata.

    Chissà se lo sarà anche per me.

    La guardia non attende i miei comodi – mi sono attardato un poco di fronte a una finestra, a fissare inebetito questo cielo azzurro smalto – e con fare sbrigativo mi porta in uno stanzone mal illuminato, che odora di chiuso e di sudore. E di umanità fallita.

    Mi toglie senza alcuna gentilezza le manette, e io mi massaggio i polsi leggermente dolenti – ho la pelle arrossata –, poi mi fa sedere con un colpetto sulla schiena su una panca a un tavolo istoriato con parole e scritte piuttosto oscene.

    La guardia ora non mi considera più; silenziosa, va via.

    Cerco di non guardare i graffiti sconci su questo tavolo malmesso, mentre aspetto l’avvocato che sarà di sicuro uno stronzo a cui, del sottoscritto, frega un emerito cazzo.

    Sarà un residuo bellico, un topo d’ufficio ormai svogliato e senza più motivazioni per il mestiere di avvocato.

    Se ne sbatterà i coglioni di uno come me. Farà il minimo indispensabile, giusto per la pagnotta; intanto lui questa sera tornerà nel suo mega villone, magari a Cheshire, in mezzo a prati, boschi e soldi.

    Magari il suo vicino di casa è un calciatore dello United, e questa sera griglieranno hamburger insieme, con un birra ghiacciata fra le mani e una splendida ragazza che si aggira nei pressi di una piscina a forma di fagiolo.

    Niente di più facile.

    Mentre io qui in questo buco puzzolente a cercare di capire come fare per tentare di sopravvivere, adesso che ho perso anche la mia dolce Madeleine, perché lei in realtà è sposata e io sono solo un idiota.

    L’avvocato arriva.

    Non è un vecchio lardoso, anzi. È giovanile, snello.

    Sembra un fottuto istruttore di tennis, e non un avvocato d’ufficio.

    È alto, castano, i capelli hanno un bel taglio e il vestito che indossa odora di roba di lusso. Camicia immacolata e cravatta a strisce grigio e azzurre.

    Porta degli occhiali da vista in metallo sottile, ha il volto serio ma… amichevole. Mi lancia uno sguardo incoraggiante, si siede di fronte a me e posa la cartella di cuoio che ha con sé sul tavolo. La apre con fare preciso e sicuro mentre io gli fisso la fede che brilla all’anulare sinistro.

    Poi, cauto come una bestia selvatica, rialzo gli occhi al suo viso.

    L’avvocato mi sta osservando attento; mi scruta.

    Ignora il colore dei miei fottuti occhi.

    Un punto all’avvocato.

    Poi mi sorride cordiale e si tocca la guancia, che ha rasata alla perfezione. – Ti fa male? – mi chiede, guardando il taglio che un bulletto stronzo e impasticcato mi ha procurato con un pugno a tradimento in sala mensa. Facendomi saltare il pranzo.

    L’avvocato ha una parlata curiosa. Non è sicuramente un accento britannico, il suo.

    Scuoto piano la testa, restando sulle mie e non accennando a un cazzo di sorriso per quell’interessamento inaspettato alla mia faccia tumefatta e l’avvocato prosegue, professionale:

    – Buongiorno, Daniel. Sono l’avvocato Jean-Marie Montpellier.

    Parla un ottimo inglese con un bella inflessione francese, direi a giudicare dal nome.

    – È francese? – gli chiedo, stringendo nervoso le mani che ho appoggiate sulle ginocchia.

    – Sì.

    – E che cazzo ci fa un avvocato francese in un riformatorio di Manchester?

    – Il mio lavoro. Dunque…

    – Perché un riformatorio in Inghilterra ha avvocati d’ufficio francesi? A Parigi delinquenti da patrocinare non ne avete? – Parlo da strafottente. Lo so, sono stronzo. Ma starò sicuramente sui coglioni a questo qui, costretto a restare in questo luogo spocchioso a difendere – di sicuro controvoglia – un diciassettenne arrestato per presunto spaccio di droga insieme al suo cazzo di fratello tossico e a una troia da due soldi, la settimana prima di Pasqua per giunta. Anziché essere, per esempio, in uno splendido chalet sulle Alpi, pronto per farsi una bella sciata insieme alla moglie figa e a due marmocchi ben pettinati e perfettamente educati.

    L’avvocato continua a guardarmi pacato e non fa una piega ai miei modi di fare da stronzetto.

    – I delinquenti di Parigi non sono competenza mia, e comunque non sono un avvocato d’ufficio. – dice serio, tirando fuori dalla cartella un fascio di fogli ben rilegati.

    Alt, alt, alt.

    Qui c’è qualcosa di sbagliato.

    – Lei è un avvocato privato? – Annuisce e io faccio una risata nervosa, mi cerco il piercing sul labbro. È assente perché le guardie me lo hanno fatto levare – insieme a quello che ho sulla lingua – prima di ficcarmi al buio. Mi gratto nervoso sopra alla tuta blu del riformatorio; è fatta di cartavetro e credo di essermi preso pure i pidocchi. Come minimo.

    Mi passo una mano fra i capelli, ma sono così lisci che mi tornano subito in faccia, coprendomi i miei fottuti occhi che sbatto un paio di volte prima di parlare affannato: – Guardi che c’è uno scambio di persona, allora. Io non possiedo un soldo, non ho una sterlina bucata nelle tasche. Non mi posso permettere un avvocato privato! – mi agito sulla panca.

    Ho male allo stomaco.

    Adesso questo tizio si renderà conto che non è me che deve rappresentare in tribunale, che c’è stato uno sbaglio e mi mollerà qui da solo, con i miei pidocchi e il fottuto terrore di tornare di là, dove un ragazzotto col pugno facile, e che l’astinenza da amfetamina avrà reso ancora più cattivo, mi farà a polpette, perché è qui da più tempo e ha già la sua cricca di stronzi leccaculo.

    Ecco quello che mi succederà, cazzo.

    Voglio alzarmi e andarmene, e anticipare la mia fine, ma ho le gambe come di gelatina.

    L’avvocato mi guarda con occhi sereni dietro le lenti degli occhiali. Sorride un poco.

    – Non sto parlando con… – sfoglia il fascicolo che ha messo davanti a sé. – Matthews, Daniel, nato a Liverpool il sette agosto…

    – Sì, sono io. Ma che cazzo ci fa un avvocato di Parigi qui per me?

    – Io non vivo a Parigi, comunque. Io vivo a Torino. La conosci, questa città?

    Spalanco la bocca. È la città di Madeleine.

    La mia piccola, dolce principessa che mi manca da morire.

    La mia piccola principessa che non è mia…

    Ma non è l’avvocato l’uomo che Madeleine stava abbracciando l’altra sera, quando l’ho vista in strada, di fronte all’appartamento di Castlefield. Chi diavolo era il tizio che abbracciava affettuosamente la mia Madeleine?

    Che cosa sta succedendo, come ha fatto Madeleine a sapere che sono finito nei pasticci? Ora sarà già a casa sua, in Italia. A Torino, appunto. Ignorando le mie sorti… E invece no. Sa.

    L’avvocato prosegue, asciutto: – Daniel, la tua situazione è grave ma non gravissima. Ho sfogliato il tuo fascicolo, i test che ti hanno fatto. Sei pulito. Non ti hanno trovato alcuna droga in corpo, e neppure dell’alcool, e questo è molto importante. Inoltre, questo è il tuo primo arresto e le accuse potrebbero cadere perché non c’è nulla di concreto contro di te. È tuo fratello lo spacciatore. Forse dovrai scontare delle ore di servizio utili alla comunità, ma questo lo capiremo più avanti.

    – E quindi ora che cosa ne sarà di me? – parlo senza voce. Preoccupato per il mio merdoso futuro.

    L’avvocato è sereno. – Ora verrai affidato a qualcuno.

    – A qualcuno chi? In che senso?

    – Dunque… Tua madre, – legge ancora dei fogli, mi guarda, – Roxana Matthews è irreperibile. Giusto?

    – Sì.

    – Quindi, essendo tu minorenne e privo di familiari che si possano prendere cura di te, dovresti andare presso una casa famiglia, in attesa di qualcuno che ti prenda in affidamento.

    – E mio fratello?

    – Non sei più sotto alla sua potestà. L’ha persa appena è stato arrestato.

    – Ma a lui cosa succederà, ora?

    L’avvocato sfoglia altre carte.

    – Tuo fratello è maggiorenne, era in libertà vigilata e non l’ha rispettata. È accusato di detenzione di sostanze illegali di Classe B. Rischia molto, dai cinque ai quattordici anni di carcere, più una multa da quantificare. Ma tuo fratello non è affar mio. Io sono qui per te.

    – Come ha fatto Madeleine a sapere che sono finito qui dentro?

    L’avvocato mi guarda, ma ignora la mia domanda. Prosegue: – Dicevo, la Corte ora dovrà trovare una famiglia che si prenda cura di te.

    – E se non la si trova? Chi cazzo lo vuole un adolescente mezzo delinquente, in casa? – rido nervoso, sull’orlo di un pianto isterico come una femminuccia mestruata.

    – La famiglia c’è già, Daniel. Il padre di Madeleine si è preso l’incarico di farti da tutore.

    – Cosa?

    – Sì. Se sei d’accordo, devi firmare qui.

    – E poi?

    – E poi te ne andrai in Italia con lui, in attesa del processo. Poi si vedrà.

    – Il padre… di Madeleine?

    – Sì. L’ingegnere Gal Monticello.

    Gal Monticello? È il cognome che ho letto sulla dispensa universitaria di Madeleine, l’altro ieri. Quando, leggendola, ho creduto che lei fosse sposata, perché il cognome che mi ha detto quando ci siamo conosciuti era differente.

    Sono ancora spaventato e dubbioso. Tutto ciò mi pare incredibile.

    – Sul serio? Madeleine non è sposata?

    L’avvocato mi guarda perplesso: – Cosa? – sorride un poco.

    – Madeleine. È sposata?

    – No.

    – E dov’è il trucco?

    – Nessun trucco. Stai tranquillo, Daniel. È tutto a posto, fidati. Ok? – Annuisco piano, e all’avvocato si allarga il sorriso, a darmi ulteriore fiducia. – Bene. Suppongo tu voglia firmare… – e mi sporge l’elegante stilografica nera che tiene in mano, insieme ai fogli.

    Li firmo tutti in un istante. Non posso perdere più di quello che ho già perso, giusto?

    – Perfetto. – dice poi sbrigativo, radunando le carte. – Ora tu vai pure a ritirare le tue cose, rimettiti i tuoi vestiti mentre io vado a concludere alcune pratiche. Aspettami all’uscita, la guardia ti dirà dove.

    Si alza, mi dà la mano e sparisce.

    Io sono ancora incredulo e scioccato mentre la guardia mi consegna nello spogliatoio una busta di plastica trasparente contenente le mie poche cose.

    Mi tolgo in fretta l’orrenda tuta blu del riformatorio e mi rimetto i miei vestiti. I jeans strappati alle ginocchia, gli anfibi consumati, recuperati in una Onlus, e la maglietta nera dei Clash con sopra il testo di Police on my back.

    Che assurda coincidenza. Fra tutte le magliette che posseggo – e tutte originali: me le ha lasciate mio padre, prima di morire – proprio questa ho scelto di indossare, poco prima di venire arrestato.

    Non ho giubbotto. La polizia non ha aspettato che mi sistemassi, prima di mettermi le manette ai polsi.

    Fortuna che sono abituato a girare in maglietta pure in pieno inverno.

    Ho iniziato a indossare solo più t-shirt dall’estate scorsa, per non nascondere il tatuaggio sul braccio che Julia, una mia cara amica, mi ha regalato poco prima che partisse per l’America con il fidanzato.

    Dalla busta poi prendo il portafoglio – all’interno ci sono solamente una banconota da cinque sterline e un preservativo – e le chiavi dell’appartamento a Castlefield, quello dell’amica di Madeleine dove la mia principessa abita temporaneamente.

    La mia principessa mi ha dato una copia di queste chiavi da poco, e mi sono emozionato un casino quando me le ha messe in mano – anche per la prova di fiducia nei miei confronti.

    Le ha attaccate a un portachiavi smaltato a forma di chitarra elettrica perché io suono la chitarra e la mia principessa ama sentirmi cantare e suonare. E mi piace pensare che queste chiavi me le abbia regalate come se fossimo conviventi…

    Sulle labbra mi spunta un sorriso poco opportuno visto il luogo dove mi trovo – presto non più, ed è tutto merito della mia dolce fanciulla – mentre metto le chiavi in tasca, insieme al portafoglio.

    Poi dalla busta prendo il telefono; voglio chiamare Madeleine, ma voglio andarmene di qui al più presto.

    Mi si stringe il cuore a vedere sullo schermo le innumerevoli chiamate che mi ha fatto ieri sera, quando non sono più andato da lei, per via dell’equivoco che c’è stato. Equivoco che ho fabbricato nella mia testa bacata tutto da solo, perché l’ho creduta sposata.

    Che grandissimo idiota, vero? Per difendermi posso dire che le persone che mi avrebbero dovuto proteggere e prendersi cura di me, da quando mio padre è morto, mi hanno – invece – preso sempre e solo a ceffoni e ho creduto che anche Madeleine fosse salita sul carrozzone Prendiamo Daniel per il culo e sfruttiamolo.

    Come ho potuto essere così stupido e pensare che Madeleine mi avesse mentito e sfruttato per tutto il tempo? Come ho potuto non avere fiducia in lei?

    Sono sul serio un coglione.

    La chiamerò dopo, appena esco da questo buco.

    Metto via il telefono, anch’esso in tasca, e infine prendo dalla busta i miei piercing. L’anellino e la sfera di metallo lucido.

    Li guardo perplesso; sono indeciso se metterli oppure no – forse non è il caso –, ma poi decido di sì.

    Io sono questo, e se al padre di Madeleine non va, meglio che lo sappia subito e mi possa mollare di nuovo in questa topaia.

    Ho il labbro un po’ gonfio, fatico ma alla fine riesco a rimettermi l’anello. Sento la carne pulsare, cerco di ignorare il sottile dolore che percepisco attorno alla cicatrice.

    Alla lingua tribolo di meno, e sentire la sferetta sbattere contro ai miei denti, e che Madeleine ha leccato e titillato all’infinito, facendomi impazzire di gioia e desiderio, è confortante.

    Mi struscio la lingua sull’anello al labbro, a bagnare la ferita e a cercare di lenire la fastidiosa secchezza che sento in bocca. Ancora incredulo.

    Schizzo in corridoio, dove c’è la guardia che mi aspetta; mi porta in una squallida sala d’aspetto, scialba e puzzolente.

    C’è un uomo, alla finestra. Mi dà le spalle.

    Perfino visto da dietro percepisco molto bene l’aura di ricchezza e potere che gli aleggia intorno.

    È alto e muscoloso, armonico e molto snello. Sembra un nuotatore. Ha i capelli biondo scuro, corti. Una giacca di ottima fattura, pantaloni eleganti e scarpe sobrie e scure.

    Ha le mani dietro alla schiena, strette a pugno.

    Ho il cuore in piena accelerazione.

    La guardia dice forte il mio nome e se ne va, e l’uomo si gira.

    Cazzo. È l’uomo che Madeleine stava abbracciando, l’altra sera in strada. Sono scioccato. Quell’uomo non è il marito, dunque. Deve essere il padre. L’ingegnere. Il tanto adorato daddy.

    Il londinese.

    Quel tizio che ora mi sta guardando come se volesse strapparmi il cuore dal petto, tritarlo fine e mangiarselo in insalata, quello è l’Irreprensibile padre di Madeleine?

    Oh, oh… Cazzo.

    Se gli sguardi potessero uccidere, io sarei stecchito all’istante. Da un incredibile azzurro aereo – come gli occhi dolci di Madeleine – le iridi di quell’uomo diventano presto plumbee. La tempesta sta arrivando, pronta ad abbattersi.

    Tutta su di me.

    E poi succede tutto così in fretta.

    L’uomo mi si avventa contro, mi afferra lo scollo della maglietta e mi sbatte al muro (e per un secondo rivedo Syd che mi sbatacchia per picchiarmi) e feroce mi urla addosso:

    – Criminale, io ti spacco la faccia, come cazzo ha fatto mia figlia a interessarsi a una nullità così, sei solo un miserabile, una creatura abbietta – e mi travolge con tutte queste urla, strattonandomi e facendomi anche male.

    Vorrei proteggermi il viso, ma l’ingegnere mi scuote e ringhia, è molto più forte di me, e io ho il terrore che mi scorre nelle vene. Ho gli occhi serrati.

    L’avvocato arriva, me lo leva di dosso: – Matthew, basta, accidenti! È solo un ragazzo, non lo vedi com’è spaventato? Lascialo, che è minorenne. E siamo in un riformatorio.

    L’uomo si stacca da me, mi lascia andare malamente e mi guarda feroce, con l’avvocato che gli tiene pacato una mano sul petto.

    L’ingegnere stringe le mani a pugno.

    Ha gli occhi blu scuro, adesso. Quasi neri.

    Respira veloce.

    Mi guarda palesemente ripugnato la ferita sulla guancia, il piercing al labbro e il tatuaggio che ho sulla gola. Mi osserva schifato i capelli spettinati sulla fronte, poi mi guarda gli occhi.

    È sconvolto, a vedere il colore delle mie iridi? Me ne sbatto.

    Mi lancia ancora un’occhiata stracolma di disprezzo, infine gira i tacchi e se ne va.

    L’avvocato mi mette gentile una mano sulla spalla, mi chiede se sto bene. Annuisco, lui sorride mesto e si incammina. Lo seguo.

    Fuori l’atmosfera è incredibilmente tersa. Il sole ha una calore tale che non immaginavo nemmeno. In cielo non c’è una nuvola, e l’aria mi sembra persino profumata, talmente sono contento d’esser qui, ora, libero.

    L’avvocato ha detto che andrò in Italia insieme al padre di Madeleine… Il mio tutore. E questo significa anche che fra poche ore riabbraccerò la mia dolce principessa.

    Se sopravvivo a suo padre, ovvio.

    Non mi sembra vero. È tutto troppo bello, per essere reale… Non riesco a crederci che non ci sia il trucco!

    Cerco di non pensare ai trabocchetti e mi godo il momento. Non posso fare altrimenti.

    Non ho scelta, se non quella di seguire l’avvocato e il furiosissimo padre di Madeleine, che si vede che sta facendo una fatica incredibile per non sbranarmi.

    È una giornata magnifica, sotto molti punti di vista, e il calore che percepisco sulla mia pelle bianca mi riscuote e mi nutre. Il cielo è così incredibile, sembra mi stia dando il suo personale bentornato alla vita.

    Respiro.

    A pochi metri da noi, nel piazzale adiacente all’entrata del riformatorio, c’è una elegante berlina nera e lucida. Ne scende un autista, rapido apre una portiera posteriore. Il padre di Madeleine lo ignora e si siede davanti.

    L’avvocato mi invita a salire; faccio un timido cenno a mo’ di saluto all’autista e salgo su quella bella macchina che profuma di cuoio e di nuovo.

    L’autista parte. Il padre di Madeleine guarda fisso la strada, l’avvocato mi chiede ancora se sto bene, annuisco senza parlare, poi in macchina scende un silenzio imbarazzante.

    Sprofondo nel sedile, guardo fuori dal finestrino la periferia della mia città fatta d’acciaio e mattoni rossi. Non c’è molto traffico, e la macchina sfreccia veloce sulla superstrada.

    Trillo dell’iPhone.

    Lo afferro. È Madeleine.

    Sto per rispondere quando il padre di Madeleine tuona, guardandomi sbieco:

    – È mia figlia?

    – S… sì.

    – Passami il telefono. – e allunga autoritario una mano.

    Glielo do.

    Lui risponde, brusco. Capisco solo Madeleine perché parla in italiano tutto il tempo.

    L’avvocato non dice nulla, è anche lui preso a fissare dinnanzi a sé, e io torno a chiudermi nel mio silenzio.

    Il telefono non mi torna indietro. Il padre di Madeleine se lo ficca autoritario nella tasca interna della giacca, facendo come se io non esistessi.

    Sospiro.

    Arriviamo all’aeroporto.

    Non ho mai volato in vita mia e, nonostante la strizza che l’ingegnere mi procura, sono piuttosto emozionato. Ma l’autista non si ferma nei pressi della zona con su scritto Partenze, con il gran via vai di automobili, taxi e gente con carrelli colmi di valigie, bimbetti urlanti e studenti affannati, ma prosegue, prende una lunga strada asfaltata e costeggiata da alte reti con del filo spinato in cima.

    Ci fermiamo a una guardiola, di fronte a un cancello chiuso; il padre di Madeleine parla con un uomo, sembra che sappiano già tutto – il tizio nella guardiola mi guarda sprezzante –, l’avvocato porge dei fogli, il cancello si apre e l’autista riparte in silenzio.

    Si ferma in uno spiazzo poco lontano, di fronte a un grosso aereo color crema con su scritto sulla fusoliera "Madeleine Charlton-Scott Foundation" in sottili ed eleganti caratteri rossi.

    Resto a bocca spalancata.

    Ha tutta l’aria di essere un fottuto aereo privato.

    Il padre di Madeleine scende dalla macchina, senza neppure salutare l’autista, e sale rapido la scaletta dell’aereo, dando appena un’occhiata all’inserviente che vi è accanto.

    Io invece saluto garbato l’autista, anche l’avvocato lo fa, e scendiamo dalla berlina.

    L’avvocato mi indica la scaletta; gentile mi appoggia una mano sulla schiena, con fare rassicurante.

    Saluto con un cenno del capo l’inserviente – addosso ha vestiti con il logo dell’aeroporto – e salgo i gradini di quella scala grigia pensando che non può sul serio essere vero, quello che mi sta capitando. Mi sembra di essere su set di uno di quegli scherzi televisivi.

    Il Tribunale dei Minorenni Britannico avrà un tale senso dell’umorismo?

    Titubante, faccio un passo verso l’interno dell’aereo, anche se sono ancora un po’ spaventato; mi guardo attorno: è tutto così bello, ed elegante...

    Profuma di buono, e tutto è soffice attorno a me; una raffinata moquette color champagne avvolge ogni cosa, fa frusciare i miei passi e le suole pesanti dei miei anfibi. Dei piccoli scaffali bassi lungo una parete sono in un caldo legno color miele.

    L’avvocato mi indica un posto e io mi siedo su una morbida poltrona di cuoio beige, accanto al finestrino. Lui mi siede vicino, mi parla affabile cercando di mettermi a mio agio, chiedendomi se questo è il mio primo volo, se ho fame o sete.

    Io, anche se ho una fame e una sete del diavolo, rispondo un mezzo no all’avvocato, sono intimidito, e il padre di Madeleine ci interrompe:

    – Cazzo, Jean, smettila di essere gentile con quel teppista. È solo un criminale. – È sprezzante. Il suo inglese è più elegante del mio. Fottuto londinese…

    Mi lancia un’occhiata carica d’odio con quegli occhi incredibili.

    Da come li guarda, invece, credo che lui i miei li odi.

    La sua poltrona è rivolta a me. Forse ha scelto di proposito quel posto lì; per scrutarmi meglio.

    – Matthieu, – dice l’avvocato, e mi fa sorridere il nome in francese di quell’uomo che se potesse mi getterebbe giù dall’aereo, – per favore. Sii gentile.

    – Per favore un cazzo. Teppista criminale…

    – Matthieu…

    Il padre di Madeleine sbuffa. Maneggia nelle tasche della giacca, prende una sigaretta e se la ficca in bocca.

    – Non vorrai fumare! – esclama l’avvocato.

    Mi fa piacere perché parla in inglese; come a non volermi escludere dalla conversazione.

    Il padre di Madeleine fa una smorfia.

    – Che cazzo. Certo che no. Mi rilassa tenerla in bocca. – poi guarda me: – Mi spiace, criminale, non ho coca. Te lo faresti un bel tiro, vero?

    – Io non mi faccio, signore.

    – Però ti piacerebbe, eh? Teppista del cazzo. – Si alza e sparisce oltre la tenda crema di fronte a me; credo celi la cabina di comando.

    L’avvocato mi guarda.

    – È preoccupato per sua figlia. Porta pazienza…

    Lo so, lo avevo immaginato.

    Se avessi una figlia – specie una figlia bella e speciale come Madeleine – che si vede con un tizio come me, e lo conosco solamente perché vado a tirarlo fuori dal riformatorio, io a quello lì spezzerei le gambe come minimo.

    L’ingegnere torna, seguito da una bellissima hostess; lei è gentile con me: paziente mi spiega come allacciare la cintura, poi ci illustra le procedure di sicurezza. Infine l’aereo si muove lungo la pista, e decolliamo.

    Wow. È fantastico!

    Guardo affascinato la terra staccarsi e allontanarsi, e presto la Gran Bretagna è solo più una macchia indefinita e verdastra, e tutto attorno a noi ci sono solo più il cielo azzurro e le nuvole bianche.

    L’hostess ritorna; ha fra le mani un vassoio con una brocca piena d’acqua, che distribuisce in eleganti bicchieri colmi di ghiaccio, poi ci serve un sostanzioso spuntino. Ho una fame assurda, è quasi un giorno intero che non metto qualcosa nello stomaco – al riformatorio, il cazzone strafatto mi ha pestato in sala mensa, facendo cadere per terra il mio piatto di riso bollito mentre questa mattina, su dell’altro riso, credo ci abbia pisciato sopra – e mi sbafo in un lampo i panini bianchi, il salmone affumicato – caspita, se è buono – e la frittata verde che la signorina gentile mi ha messo davanti agli occhi.

    L’avvocato mi osserva.

    – È la prima volta che assaggi il salmone affumicato? – mi chiede cordiale con la ricercata cadenza francese.

    Annuisco, ho la bocca piena. Gli starò facendo pena perché mi dà anche il suo cibo. Muto, lo ringrazio con un sorriso. Il padre di Madeleine, invece, si nutre solo di caffeina e non la smette di fissarmi.

    Ora, sfamato e sistemato, mi concentro sul volo. Vorrei dormire, forse lo faccio, non so.

    So solo che non vedo l’ora di rivedere la mia dolce principessa.

    Capitolo 2

    Madeleine.

    Sono in mezzo al cortile di casa, allacciata a mia madre da almeno tre quarti d’ora. Sono appena ritornata da Manchester.

    La mia splendida mamma mi sta tenendo fra le sue braccia rasserenanti; mi culla, mi sussurra parole confortanti dicendomi che tutto andrà per il meglio e io finalmente mi libero e piango.

    Mamma continua a rassicurarmi, dandomi tanti baci sulla testa e dicendomi di stare tranquilla.

    Daniel è con papà; è al sicuro. Anche se, quando ho chiamato il mio ragazzo per avere notizie – non ne posso più di aspettare –, al telefono ha risposto daddy. E non mi ha fatto parlare con lui, caspita.

    Prevedo il peggio.

    – Lo strapazzerà… – mormoro a mami, guardandola negli occhi.

    – È probabile, – ride lei, lieve, – ma lo sai com’è fatto, tuo padre. Guai a toccargli la sua bambina. Lo strapazzerà, ma non gli farà nulla. C’è Jean-Marie con loro. E poi ho proibito a tuo padre di toccare quel ragazzo.

    E ora è scesa la sera e io sono seduta sulle scale in pietra del patio e che mi danno una vista perfetta sul cortile illuminato dai lampioncini, ad aspettare Daniel.

    Poco fa ho chiamato la sua amica, Anya, per aggiornarla; lei era già al market, al lavoro, ed è stata più che sollevata nel sapere che Daniel è fuori dallo schifoso riformatorio e sta per arrivare qui. L’ho sentita piangere, poi si è ripresa e mi ha detto che lo dirà lei a Gina, la signora che si occupa sporadicamente di Daniel, per avvertire sia Katy, la proprietaria del bar dove lui lavora di giorno, sia Alfred, il proprietario della griglieria dove invece Daniel lavora due sere a settimana.

    Anche se all’inizio l’ho odiata tantissimo per come mi ha giudicata e trattata, e per come mi ha fatto credere che Casper, il suo bambino di tre anni, fosse figlio di Daniel – e invece è di quel delinquente di Syd –, non smetterò mai di provare del riconoscimento verso di lei. Se non mi fosse venuta a cercare all’università, questa mattina – oh, Dio, ma è stato solo stamattina? Mi pare sia passato molto più tempo! – io sarei partita per le vacanze pasquali ignara della sorte di Daniel e lui sarebbe restato in quel posto orrendo, senza più chiamarmi, credendomi addirittura sposata perché ha letto il mio vero cognome su una dispensa, mentre io gli avevo detto che mi chiamavo Bertello (temevo che a sentire Gal Monticello mi cercasse su Google, e scoprisse così quanto è ricca la mia famiglia), e lo avrei perso per sempre.

    Sospiro, guardo il telefono e poi ancora il cortile. I minuti mi pare non passino mai, mentre attendo l’arrivo di papà e di Daniel.

    Daniel.

    Il volo è stato bello – a parte le occhiate assassine dell’ingegnere verso il povero sottoscritto – e atterriamo a Torino che è ormai sera; ad aspettarci sulla pista, a qualche metro lontana, c’è una macchina lussuosissima – una Porsche blu, bassa ed enorme – anch’essa con autista. Ma se l’uomo che guidava l’auto a Manchester era un tizio mingherlino, questo qui, invece… è un gigante.

    Completamente vestito di nero, molto elegante, ha il cranio lucido come una palla da bowling, un pizzetto chiaro molto curato e mani come badili. Occhi piccoli, marroni.

    Mi scruta.

    Se l’ingegnere dice una sola parola, questo tizio mi fa a polpette.

    Deglutisco, e lui – incredibilmente – mi sorride un poco.

    E, come successo in Inghilterra, salgo insieme all’avvocato sui sedili posteriori dell’elegante vettura, mentre l’ingegnere, che chiama l’autista per nome – Tony –, si siede sul sedile anteriore.

    Il viaggio è ancora silenzioso. Non c’è musica, non ci sono parole.

    Mi tormento le mani, non riesco a star fermo sul sedile. Vorrei concentrarmi sulla città di Torino ma non riesco a staccare gli occhi dalla strada, chiedendomi come faccia ‘sta gente a guidare in questo modo errato.

    Mi viene in mente che nel resto dell’Europa la guida consona è a destra…

    È la prima volta che lascio la mia adorata Isola.

    L’ingegnere prende il telefono, il proprio, non il mio che ha ancora in ostaggio, e incomincia a fare un sacco di telefonate, ignorandoci tutti quanti.

    Ma quanto è spocchioso e arrogante da uno a mille? Parla in una lingua che non conosco, forse è tedesco, pare incazzato. Mi sa che questo tizio è incazzato per il novantanove percento del suo tempo.

    Lo scruto, facendo attenzione a non farmi beccare da lui; i suoi occhi da lupo mi mettono addosso una paura fottuta. Inoltre il padre di Madeleine ha quella tipica sicurezza e quell’arroganza che solo i soldi – tantissimi nel suo caso, mi pare d’aver capito – ti possono dare. Ancora al telefono, sta parlando asciutto e sbrigativo; non aspetta le repliche del suo interlocutore e mi pare stia dando ordini a destra e a sinistra.

    Secondo la mia migliore amica Anya, il padre di Madeleine è un direttore di banca, o qualcosa del genere.

    A vederlo ora, il piglio che ha, vedere questa fottuta macchina, l’aereo, l’autista, l’avvocato, credo che il padre di Madeleine non sia un semplice direttore di banca.

    Mi sa che lui, la banca, la possiede direttamente.

    Cazzo.

    ‘Sta gente è stracarica di soldi…

    Madeleine è miliardaria? Mi sale un groppo in gola.

    La mia piccola principessa.

    Che si è presa cura di me.

    Ora l’auto attraversa una Torino illuminata dai lampioni e piuttosto trafficata. Palazzi antichi e negozi scintillanti.

    Costeggiamo un fiume tranquillo, un viale alberato. C’è gente che corre e mi sembra quasi di essere a Manchester, in alcuni tratti. Anche noi abbiamo un fiume, l’Irwell, e anche da noi la gente piace corrervi accanto. Pensare alla mia città mi rassicura un poco.

    Presto, però, lasciamo il centro pieno di auto parcheggiate e pedoni indaffarati e prendiamo una signorile strada in salita, costeggiata da aiuole curate e siepi perfette e, da come le intravedo oltre le alte cancellate massicce e muri a proteggerle, case enormi come ci sono in certi film di Hollywood – e che solo i mega multi miliardari si possono permettere.

    Ci fermiamo di fronte a uno di questi giganteschi cancelli, è grigio scuro, e lo oltrepassiamo dopo che si è aperto silenzioso; attraversiamo un parco verdissimo, pieno di alberi, cespugli, fiori e lampioni che sprigionano ovunque una calda luce soffusa.

    E infine sbuchiamo in un cortile enorme, lastricato in pietra, di fronte a una casa allucinante, illuminata a giorno come il parco.

    È un villone che pare senza fine. Color crema, con delicati decori lungo la facciata principale, è pieno di terrazzi, finestre, torrette. Un patio in legno e mattoni e piante in vaso ovunque, manco fossimo in un vivaio.

    E lì, in piedi su una scalinata di pietra, c’è la fanciulla più bella del mondo che sta guardando l’auto in una trepidante attesa. Mi batte forte il cuore.

    Madeleine.

    Finalmente scorgo la Panamera blu di daddy, c’è il caro Tony alla guida, e scatto in piedi come una molla, così rapida che per poco non scivolo dal gradino. Mi do una rapida sistemata alla gonna e alla camicetta, mi passo una mano fra i capelli.

    L’auto si ferma nei pressi del glicine; le portiere si aprono.

    Prima scende papà, è serio, poi zio Jean e infine Daniel.

    È così… fragile.

    È smarrito mentre guarda a bocca spalancata la villa e tutto quello che la circonda.

    Infine posa i magnifici occhi viola su di me.

    È straziante.

    E io corro verso di lui e mi fiondo fra le sue braccia.

    E, per la prima volta in assoluto, ho dato la precedenza a qualcun altro rispetto a mio padre. Lo so, è tremendo da parte mia ma ora ho solo bisogno di sentire le calde braccia del mio Daniel attorno al mio corpo, sentire il suo respiro sul mio collo e il battito confortante del suo cuore.

    Siamo così, allacciati e una cosa sola, e sento che tutto sta ritornando a posto; ascolto il suo respiro, mi faccio accarezzare le guance dai suoi morbidi capelli scuri e assaporo le sue braccia attorno a me, a darmi protezione, e infine riesco – riluttante – a staccarmi da lui, giusto quel poco per guardargli il bel volto che mi è mancato così tanto.

    – Daniel. Il tuo viso… – mormoro a vedere la ferita che ha sulla guancia; Daniel scuote la testa e i capelli oscillano sugli occhi lavanda, che sono ancora pieni di spavento e incredulità; con un sospiro sommesso distolgo lo sguardo dal viso affaticato del mio ragazzo e lo poso su mio padre, restando ancora abbracciata a Daniel.

    – Grazie, papà.

    Lui è sfuggente, silenzioso; mi dà uno sguardo appena. Ha gli occhi blu scuro.

    Ignora completamente Daniel, e questo mi fa male. È così che andranno le cose?

    – Accompagnalo alla casetta in piscina. – dice piatto, e fa per salire nuovamente in macchina.

    – Daddy, vai via? A quest’ora? – Mi sciolgo dal calore confortante di Daniel e mi accosto a mio padre. Vorrei sfiorargli un braccio, ma non mi oso farlo. È assurdo. Lui è mio padre, il mio daddy, il mio migliore amico. Non dovrei avere così timore di lui, adesso. Ma il labbro mi trema ugualmente, così tanto che sono costretta a morsicarlo per non scoppiare in un pianto inopportuno.

    Papà è chiaramente affranto. Abbassa le palpebre, le ciglia chiare a celargli gli occhi che sono lo specchio dei miei. – Sì. Riaccompagno Jean-Marie a casa e poi torno in ufficio: ho lasciato un lavoro in sospeso. Ci vediamo più tardi. Voi cenate pure. – Sale in auto, e chiude con un colpo secco la portiera.

    Daniel è abbattuto. Guarda per terra, toccandosi la nuca.

    – Scusami, Madeleine.

    Cerco di rialzargli il viso per fissarlo negli occhi. – Non ti preoccupare… È incazzato con me.

    Zio Jean viene accanto a noi, mi mette affettuoso una mano sulla spalla, mi sorride paterno. Lo abbraccio.

    – Grazie, zio. – Nonostante io abbia portato in grembo per poco più di un mese la creatura che sarebbe diventata suo nipote, la mia negligenza dell’estate scorsa, continuo a chiamarlo zio.

    Quel bimbo non è mai nato perché ho avuto un aborto spontaneo che mi ha quasi distrutto.

    E Daniel non sa nulla di tutto questo. Mi crede addirittura vergine.

    Zio è serio ma tranquillo e ora chissà cosa pensa su di me, su questa situazione. Ad aver tirato fuori dalla galera il mio ragazzo, contando che suo figlio Thomas è – molto probabilmente – ancora innamorato di me.

    Zio Jean mi dice di restare serena. Mi dà un bacio sulla guancia.

    – Passerà, a tuo padre. Lo conosco, non terrà il muso alla sua dolce principessa molto a lungo.

    – L’ho deluso. Ho deluso anche te, zio.

    – No, stai tranquilla. Ora fai riposare Daniel; in effetti tuo padre non lo ha trattato con i guanti. E vedrai che ne verremo fuori.

    – Ok. Salutami zia Monica e… Thomas.

    – Certo, tesoro. Noi domani partiremo per la Borgogna, ma rientreremo lunedì di Pasquetta, penso. Se hai bisogno però non farti scrupoli e chiamami pure, d’accordo?

    – Grazie, zio.

    – Ciao, Madeleine. Arrivederci Daniel. – gli dà la mano e Daniel la stringe.

    – Grazie, avvocato.

    Jean risale sull’auto con daddy, questa riparte veloce e in fretta sparisce. Daniel e io ci abbracciamo ancora, da soli in mezzo al cortile e non mi sembra neppure vero che ora lui è qui, a casa mia, che me lo sto stringendo fra le braccia e io sia fra le sue. Entrambi, al sicuro.

    – Daniel, ero così spaventata! Mi sei mancato tantissimo, avevo paura di non vederti più… – Guardo nuovamente la ferita che ha sul

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