Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

A partire da $11.99/mese al termine del periodo di prova. Annulla quando vuoi.

La Divina Commedia
La Divina Commedia
La Divina Commedia
E-book570 pagine6 ore

La Divina Commedia

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

La Comedìa, conosciuta soprattutto come Commedia o Divina Commedia è un poema di Dante Alighieri, scritto in terzine incatenate di versi endecasillabi, in lingua volgare fiorentina. Composta secondo i critici tra il 1304 e il 1321, anni del suo esilio in Lunigiana e Romagna, la Commedia è l'opera più celebre di Dante, nonché una delle più importanti testimonianze della civiltà medievale; conosciuta e studiata in tutto il mondo, è ritenuta la più grande opera della letteratura di tutti i tempi.
 
LinguaItaliano
Data di uscita18 ott 2017
ISBN9788826098098
Autore

Dante Alighieri

Dante Alighieri (Florencia, 1265 – Rávena, 1321), político, diplomático y poeta. En 1302 tuvo que exiliarse de su patria y ciudad natal, y a partir de entonces se vio obligado a procurarse moradas y protectores provisionales, razón por la cual mantener el prestigio que le había procurado su Vida nueva (c. 1294) era de vital importancia. La Comedia, en la que trabajó hasta el final de su vida, fue la consecuencia de ese propósito, y con los siglos se convirtió en una de las obras fundamentales de la literatura europea. Además de su obra poética, Dante escribió tratados políticos, filosóficos y literarios, como Convivio, De vulgari eloquentiao y De Monarchia.

Autori correlati

Correlato a La Divina Commedia

Ebook correlati

Poesia per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su La Divina Commedia

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La Divina Commedia - Dante Alighieri

    mondiale.

    Parte 1

    Inferno

    Canto I

    [Incomincia la Comedia di Dante Alleghieri di Fiorenza, ne la quale tratta de le pene e punimenti de' vizi e de' meriti e premi de le virtù. Comincia il canto primo de la prima parte la quale si chiama Inferno, nel qual l'auttore fa proemio a tutta l'opera.]

    Nel mezzo del cammin di nostra vita

    mi ritrovai per una selva oscura,

    ché la diritta via era smarrita.

    Ahi quanto a dir qual era è cosa dura

    esta selva selvaggia e aspra e forte

    che nel pensier rinova la paura!

    Tant' è amara che poco è più morte;

    ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,

    dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.

    Io non so ben ridir com' i' v'intrai,

    tant' era pien di sonno a quel punto

    che la verace via abbandonai.

    Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto,

    là dove terminava quella valle

    che m'avea di paura il cor compunto,

    guardai in alto e vidi le sue spalle

    vestite già de' raggi del pianeta

    che mena dritto altrui per ogne calle.

    Allor fu la paura un poco queta,

    che nel lago del cor m'era durata

    la notte ch'i' passai con tanta pieta.

    E come quei che con lena affannata,

    uscito fuor del pelago a la riva,

    si volge a l'acqua perigliosa e guata,

    così l'animo mio, ch'ancor fuggiva,

    si volse a retro a rimirar lo passo

    che non lasciò già mai persona viva.

    Poi ch'èi posato un poco il corpo lasso,

    ripresi via per la piaggia diserta,

    sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso.

    Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,

    una lonza leggiera e presta molto,

    che di pel macolato era coverta;

    e non mi si partia dinanzi al volto,

    anzi 'mpediva tanto il mio cammino,

    ch'i' fui per ritornar più volte vòlto.

    Temp' era dal principio del mattino,

    e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle

    ch'eran con lui quando l'amor divino

    mosse di prima quelle cose belle;

    sì ch'a bene sperar m'era cagione

    di quella fiera a la gaetta pelle

    l'ora del tempo e la dolce stagione;

    ma non sì che paura non mi desse

    la vista che m'apparve d'un leone.

    Questi parea che contra me venisse

    con la test' alta e con rabbiosa fame,

    sì che parea che l'aere ne tremesse.

    Ed una lupa, che di tutte brame

    sembiava carca ne la sua magrezza,

    e molte genti fé già viver grame,

    questa mi porse tanto di gravezza

    con la paura ch'uscia di sua vista,

    ch'io perdei la speranza de l'altezza.

    E qual è quei che volontieri acquista,

    e giugne 'l tempo che perder lo face,

    che 'n tutti suoi pensier piange e s'attrista;

    tal mi fece la bestia sanza pace,

    che, venendomi 'ncontro, a poco a poco

    mi ripigneva là dove 'l sol tace.

    Mentre ch'i' rovinava in basso loco,

    dinanzi a li occhi mi si fu offerto

    chi per lungo silenzio parea fioco.

    Quando vidi costui nel gran diserto,

    «Miserere di me», gridai a lui,

    «qual che tu sii, od ombra od omo certo!».

    Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,

    e li parenti miei furon lombardi,

    mantoani per patrïa ambedui.

    Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,

    e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto

    nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.

    Poeta fui, e cantai di quel giusto

    figliuol d'Anchise che venne di Troia,

    poi che 'l superbo Ilïón fu combusto.

    Ma tu perché ritorni a tanta noia?

    perché non sali il dilettoso monte

    ch'è principio e cagion di tutta gioia?».

    «Or se' tu quel Virgilio e quella fonte

    che spandi di parlar sì largo fiume?»,

    rispuos' io lui con vergognosa fronte.

    «O de li altri poeti onore e lume,

    vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore

    che m'ha fatto cercar lo tuo volume.

    Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore,

    tu se' solo colui da cu' io tolsi

    lo bello stilo che m'ha fatto onore.

    Vedi la bestia per cu' io mi volsi;

    aiutami da lei, famoso saggio,

    ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi».

    «A te convien tenere altro vïaggio»,

    rispuose, poi che lagrimar mi vide,

    «se vuo' campar d'esto loco selvaggio;

    ché questa bestia, per la qual tu gride,

    non lascia altrui passar per la sua via,

    ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;

    e ha natura sì malvagia e ria,

    che mai non empie la bramosa voglia,

    e dopo 'l pasto ha più fame che pria.

    Molti son li animali a cui s'ammoglia,

    e più saranno ancora, infin che 'l veltro

    verrà, che la farà morir con doglia.

    Questi non ciberà terra né peltro,

    ma sapïenza, amore e virtute,

    e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

    Di quella umile Italia fia salute

    per cui morì la vergine Cammilla,

    Eurialo e Turno e Niso di ferute.

    Questi la caccerà per ogne villa,

    fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno,

    là onde 'nvidia prima dipartilla.

    Ond' io per lo tuo me' penso e discerno

    che tu mi segui, e io sarò tua guida,

    e trarrotti di qui per loco etterno;

    ove udirai le disperate strida,

    vedrai li antichi spiriti dolenti,

    ch'a la seconda morte ciascun grida;

    e vederai color che son contenti

    nel foco, perché speran di venire

    quando che sia a le beate genti.

    A le quai poi se tu vorrai salire,

    anima fia a ciò più di me degna:

    con lei ti lascerò nel mio partire;

    ché quello imperador che là sù regna,

    perch' i' fu' ribellante a la sua legge,

    non vuol che 'n sua città per me si vegna.

    In tutte parti impera e quivi regge;

    quivi è la sua città e l'alto seggio:

    oh felice colui cu' ivi elegge!».

    E io a lui: «Poeta, io ti richeggio

    per quello Dio che tu non conoscesti,

    a ciò ch'io fugga questo male e peggio,

    che tu mi meni là dov' or dicesti,

    sì ch'io veggia la porta di san Pietro

    e color cui tu fai cotanto mesti».

    Allor si mosse, e io li tenni dietro.

    Canto II

    [Canto secondo de la prima parte ne la quale fa proemio a la prima cantica cioè a la prima parte di questo libro solamente, e in questo canto tratta l'auttore come trovò Virgilio, il quale il fece sicuro del cammino per le tre donne che di lui aveano cura ne la corte del cielo.]

    Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno

    toglieva li animai che sono in terra

    da le fatiche loro; e io sol uno

    m'apparecchiava a sostener la guerra

    sì del cammino e sì de la pietate,

    che ritrarrà la mente che non erra.

    O muse, o alto ingegno, or m'aiutate;

    o mente che scrivesti ciò ch'io vidi,

    qui si parrà la tua nobilitate.

    Io cominciai: «Poeta che mi guidi,

    guarda la mia virtù s'ell' è possente,

    prima ch'a l'alto passo tu mi fidi.

    Tu dici che di Silvïo il parente,

    corruttibile ancora, ad immortale

    secolo andò, e fu sensibilmente.

    Però, se l'avversario d'ogne male

    cortese i fu, pensando l'alto effetto

    ch'uscir dovea di lui, e 'l chi e 'l quale

    non pare indegno ad omo d'intelletto;

    ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero

    ne l'empireo ciel per padre eletto:

    la quale e 'l quale, a voler dir lo vero,

    fu stabilita per lo loco santo

    u' siede il successor del maggior Piero.

    Per quest' andata onde li dai tu vanto,

    intese cose che furon cagione

    di sua vittoria e del papale ammanto.

    Andovvi poi lo Vas d'elezïone,

    per recarne conforto a quella fede

    ch'è principio a la via di salvazione.

    Ma io, perché venirvi? o chi 'l concede?

    Io non Enëa, io non Paulo sono;

    me degno a ciò né io né altri 'l crede.

    Per che, se del venire io m'abbandono,

    temo che la venuta non sia folle.

    Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono».

    E qual è quei che disvuol ciò che volle

    e per novi pensier cangia proposta,

    sì che dal cominciar tutto si tolle,

    tal mi fec' ïo 'n quella oscura costa,

    perché, pensando, consumai la 'mpresa

    che fu nel cominciar cotanto tosta.

    «S'i' ho ben la parola tua intesa»,

    rispuose del magnanimo quell' ombra,

    «l'anima tua è da viltade offesa;

    la qual molte fïate l'omo ingombra

    sì che d'onrata impresa lo rivolve,

    come falso veder bestia quand' ombra.

    Da questa tema acciò che tu ti solve,

    dirotti perch' io venni e quel ch'io 'ntesi

    nel primo punto che di te mi dolve.

    Io era tra color che son sospesi,

    e donna mi chiamò beata e bella,

    tal che di comandare io la richiesi.

    Lucevan li occhi suoi più che la stella;

    e cominciommi a dir soave e piana,

    con angelica voce, in sua favella:

    "O anima cortese mantoana,

    di cui la fama ancor nel mondo dura,

    e durerà quanto 'l mondo lontana,

    l'amico mio, e non de la ventura,

    ne la diserta piaggia è impedito

    sì nel cammin, che vòlt' è per paura;

    e temo che non sia già sì smarrito,

    ch'io mi sia tardi al soccorso levata,

    per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito.

    Or movi, e con la tua parola ornata

    e con ciò c'ha mestieri al suo campare,

    l'aiuta sì ch'i' ne sia consolata.

    I' son Beatrice che ti faccio andare;

    vegno del loco ove tornar disio;

    amor mi mosse, che mi fa parlare.

    Quando sarò dinanzi al segnor mio,

    di te mi loderò sovente a lui".

    Tacette allora, e poi comincia' io:

    "O donna di virtù sola per cui

    l'umana spezie eccede ogne contento

    di quel ciel c'ha minor li cerchi sui,

    tanto m'aggrada il tuo comandamento,

    che l'ubidir, se già fosse, m'è tardi;

    più non t'è uo' ch'aprirmi il tuo talento.

    Ma dimmi la cagion che non ti guardi

    de lo scender qua giuso in questo centro

    de l'ampio loco ove tornar tu ardi".

    "Da che tu vuo' saver cotanto a dentro,

    dirotti brievemente", mi rispuose,

    "perch' i' non temo di venir qua entro.

    Temer si dee di sole quelle cose

    c'hanno potenza di fare altrui male;

    de l'altre no, ché non son paurose.

    I' son fatta da Dio, sua mercé, tale,

    che la vostra miseria non mi tange,

    né fiamma d'esto 'ncendio non m'assale.

    Donna è gentil nel ciel che si compiange

    di questo 'mpedimento ov' io ti mando,

    sì che duro giudicio là sù frange.

    Questa chiese Lucia in suo dimando

    e disse: - Or ha bisogno il tuo fedele

    di te, e io a te lo raccomando -.

    Lucia, nimica di ciascun crudele,

    si mosse, e venne al loco dov' i' era,

    che mi sedea con l'antica Rachele.

    Disse: - Beatrice, loda di Dio vera,

    ché non soccorri quei che t'amò tanto,

    ch'uscì per te de la volgare schiera?

    Non odi tu la pieta del suo pianto,

    non vedi tu la morte che 'l combatte

    su la fiumana ove 'l mar non ha vanto? -.

    Al mondo non fur mai persone ratte

    a far lor pro o a fuggir lor danno,

    com' io, dopo cotai parole fatte,

    venni qua giù del mio beato scanno,

    fidandomi del tuo parlare onesto,

    ch'onora te e quei ch'udito l'hanno".

    Poscia che m'ebbe ragionato questo,

    li occhi lucenti lagrimando volse,

    per che mi fece del venir più presto.

    E venni a te così com' ella volse:

    d'inanzi a quella fiera ti levai

    che del bel monte il corto andar ti tolse.

    Dunque: che è? perché, perché restai,

    perché tanta viltà nel core allette,

    perché ardire e franchezza non hai,

    poscia che tai tre donne benedette

    curan di te ne la corte del cielo,

    e 'l mio parlar tanto ben ti promette?».

    Quali fioretti dal notturno gelo

    chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca,

    si drizzan tutti aperti in loro stelo,

    tal mi fec' io di mia virtude stanca,

    e tanto buono ardire al cor mi corse,

    ch'i' cominciai come persona franca:

    «Oh pietosa colei che mi soccorse!

    e te cortese ch'ubidisti tosto

    a le vere parole che ti porse!

    Tu m'hai con disiderio il cor disposto

    sì al venir con le parole tue,

    ch'i' son tornato nel primo proposto.

    Or va, ch'un sol volere è d'ambedue:

    tu duca, tu segnore e tu maestro».

    Così li dissi; e poi che mosso fue,

    intrai per lo cammino alto e silvestro.

    Canto III

    [Canto terzo, nel quale tratta de la porta e de l'entrata de l'inferno e del fiume d'Acheronte, de la pena di coloro che vissero sanza opere di fama degne, e come il demonio Caron li trae in sua nave e come elli parlò a l'auttore; e tocca qui questo vizio ne la persona di papa Cilestino.]

    'Per me si va ne la città dolente,

    per me si va ne l'etterno dolore,

    per me si va tra la perduta gente.

    Giustizia mosse il mio alto fattore;

    fecemi la divina podestate,

    la somma sapïenza e 'l primo amore.

    Dinanzi a me non fuor cose create

    se non etterne, e io etterno duro.

    Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate'.

    Queste parole di colore oscuro

    vid' ïo scritte al sommo d'una porta;

    per ch'io: «Maestro, il senso lor m'è duro».

    Ed elli a me, come persona accorta:

    «Qui si convien lasciare ogne sospetto;

    ogne viltà convien che qui sia morta.

    Noi siam venuti al loco ov' i' t'ho detto

    che tu vedrai le genti dolorose

    c'hanno perduto il ben de l'intelletto».

    E poi che la sua mano a la mia puose

    con lieto volto, ond' io mi confortai,

    mi mise dentro a le segrete cose.

    Quivi sospiri, pianti e alti guai

    risonavan per l'aere sanza stelle,

    per ch'io al cominciar ne lagrimai.

    Diverse lingue, orribili favelle,

    parole di dolore, accenti d'ira,

    voci alte e fioche, e suon di man con elle

    facevano un tumulto, il qual s'aggira

    sempre in quell' aura sanza tempo tinta,

    come la rena quando turbo spira.

    E io ch'avea d'error la testa cinta,

    dissi: «Maestro, che è quel ch'i' odo?

    e che gent' è che par nel duol sì vinta?».

    Ed elli a me: «Questo misero modo

    tegnon l'anime triste di coloro

    che visser sanza 'nfamia e sanza lodo.

    Mischiate sono a quel cattivo coro

    de li angeli che non furon ribelli

    né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.

    Caccianli i ciel per non esser men belli,

    né lo profondo inferno li riceve,

    ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli».

    E io: «Maestro, che è tanto greve

    a lor che lamentar li fa sì forte?».

    Rispuose: «Dicerolti molto breve.

    Questi non hanno speranza di morte,

    e la lor cieca vita è tanto bassa,

    che 'nvidïosi son d'ogne altra sorte.

    Fama di loro il mondo esser non lassa;

    misericordia e giustizia li sdegna:

    non ragioniam di lor, ma guarda e passa».

    E io, che riguardai, vidi una 'nsegna

    che girando correva tanto ratta,

    che d'ogne posa mi parea indegna;

    e dietro le venìa sì lunga tratta

    di gente, ch'i' non averei creduto

    che morte tanta n'avesse disfatta.

    Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto,

    vidi e conobbi l'ombra di colui

    che fece per viltade il gran rifiuto.

    Incontanente intesi e certo fui

    che questa era la setta d'i cattivi,

    a Dio spiacenti e a' nemici sui.

    Questi sciaurati, che mai non fur vivi,

    erano ignudi e stimolati molto

    da mosconi e da vespe ch'eran ivi.

    Elle rigavan lor di sangue il volto,

    che, mischiato di lagrime, a' lor piedi

    da fastidiosi vermi era ricolto.

    E poi ch'a riguardar oltre mi diedi,

    vidi genti a la riva d'un gran fiume;

    per ch'io dissi: «Maestro, or mi concedi

    ch'i' sappia quali sono, e qual costume

    le fa di trapassar parer sì pronte,

    com' i' discerno per lo fioco lume».

    Ed elli a me: «Le cose ti fier conte

    quando noi fermerem li nostri passi

    su la trista riviera d'Acheronte».

    Allor con li occhi vergognosi e bassi,

    temendo no 'l mio dir li fosse grave,

    infino al fiume del parlar mi trassi.

    Ed ecco verso noi venir per nave

    un vecchio, bianco per antico pelo,

    gridando: «Guai a voi, anime prave!

    Non isperate mai veder lo cielo:

    i' vegno per menarvi a l'altra riva

    ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo.

    E tu che se' costì, anima viva,

    pàrtiti da cotesti che son morti».

    Ma poi che vide ch'io non mi partiva,

    disse: «Per altra via, per altri porti

    verrai a piaggia, non qui, per passare:

    più lieve legno convien che ti porti».

    E 'l duca lui: «Caron, non ti crucciare:

    vuolsi così colà dove si puote

    ciò che si vuole, e più non dimandare».

    Quinci fuor quete le lanose gote

    al nocchier de la livida palude,

    che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote.

    Ma quell' anime, ch'eran lasse e nude,

    cangiar colore e dibattero i denti,

    ratto che 'nteser le parole crude.

    Bestemmiavano Dio e lor parenti,

    l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme

    di lor semenza e di lor nascimenti.

    Poi si ritrasser tutte quante insieme,

    forte piangendo, a la riva malvagia

    ch'attende ciascun uom che Dio non teme.

    Caron dimonio, con occhi di bragia

    loro accennando, tutte le raccoglie;

    batte col remo qualunque s'adagia.

    Come d'autunno si levan le foglie

    l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo

    vede a la terra tutte le sue spoglie,

    similemente il mal seme d'Adamo

    gittansi di quel lito ad una ad una,

    per cenni come augel per suo richiamo.

    Così sen vanno su per l'onda bruna,

    e avanti che sien di là discese,

    anche di qua nuova schiera s'auna.

    «Figliuol mio», disse 'l maestro cortese,

    «quelli che muoion ne l'ira di Dio

    tutti convegnon qui d'ogne paese;

    e pronti sono a trapassar lo rio,

    ché la divina giustizia li sprona,

    sì che la tema si volve in disio.

    Quinci non passa mai anima buona;

    e però, se Caron di te si lagna,

    ben puoi sapere omai che 'l suo dir suona».

    Finito questo, la buia campagna

    tremò sì forte, che de lo spavento

    la mente di sudore ancor mi bagna.

    La terra lagrimosa diede vento,

    che balenò una luce vermiglia

    la qual mi vinse ciascun sentimento;

    e caddi come l'uom cui sonno piglia.

    Canto IV

    [Canto quarto, nel quale mostra del primo cerchio de l'inferno, luogo detto Limbo, e quivi tratta de la pena de' non battezzati e de' valenti uomini, li quali moriron innanzi l'avvenimento di Gesù Cristo e non conobbero debitamente Idio; e come Iesù Cristo trasse di questo luogo molte anime.]

    Ruppemi l'alto sonno ne la testa

    un greve truono, sì ch'io mi riscossi

    come persona ch'è per forza desta;

    e l'occhio riposato intorno mossi,

    dritto levato, e fiso riguardai

    per conoscer lo loco dov' io fossi.

    Vero è che 'n su la proda mi trovai

    de la valle d'abisso dolorosa

    che 'ntrono accoglie d'infiniti guai.

    Oscura e profonda era e nebulosa

    tanto che, per ficcar lo viso a fondo,

    io non vi discernea alcuna cosa.

    «Or discendiam qua giù nel cieco mondo»,

    cominciò il poeta tutto smorto.

    «Io sarò primo, e tu sarai secondo».

    E io, che del color mi fui accorto,

    dissi: «Come verrò, se tu paventi

    che suoli al mio dubbiare esser conforto?».

    Ed elli a me: «L'angoscia de le genti

    che son qua giù, nel viso mi dipigne

    quella pietà che tu per tema senti.

    Andiam, ché la via lunga ne sospigne».

    Così si mise e così mi fé intrare

    nel primo cerchio che l'abisso cigne.

    Quivi, secondo che per ascoltare,

    non avea pianto mai che di sospiri

    che l'aura etterna facevan tremare;

    ciò avvenia di duol sanza martìri,

    ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi,

    d'infanti e di femmine e di viri.

    Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi

    che spiriti son questi che tu vedi?

    Or vo' che sappi, innanzi che più andi,

    ch'ei non peccaro; e s'elli hanno mercedi,

    non basta, perché non ebber battesmo,

    ch'è porta de la fede che tu credi;

    e s'e' furon dinanzi al cristianesmo,

    non adorar debitamente a Dio:

    e di questi cotai son io medesmo.

    Per tai difetti, non per altro rio,

    semo perduti, e sol di tanto offesi

    che sanza speme vivemo in disio».

    Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi,

    però che gente di molto valore

    conobbi che 'n quel limbo eran sospesi.

    «Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore»,

    comincia' io per volere esser certo

    di quella fede che vince ogne errore:

    «uscicci mai alcuno, o per suo merto

    o per altrui, che poi fosse beato?».

    E quei che 'ntese il mio parlar coverto,

    rispuose: «Io era nuovo in questo stato,

    quando ci vidi venire un possente,

    con segno di vittoria coronato.

    Trasseci l'ombra del primo parente,

    d'Abèl suo figlio e quella di Noè,

    di Moïsè legista e ubidente;

    Abraàm patrïarca e Davìd re,

    Israèl con lo padre e co' suoi nati

    e con Rachele, per cui tanto fé,

    e altri molti, e feceli beati.

    E vo' che sappi che, dinanzi ad essi,

    spiriti umani non eran salvati».

    Non lasciavam l'andar perch' ei dicessi,

    ma passavam la selva tuttavia,

    la selva, dico, di spiriti spessi.

    Non era lunga ancor la nostra via

    di qua dal sonno, quand' io vidi un foco

    ch'emisperio di tenebre vincia.

    Di lungi n'eravamo ancora un poco,

    ma non sì ch'io non discernessi in parte

    ch'orrevol gente possedea quel loco.

    «O tu ch'onori scïenzïa e arte,

    questi chi son c'hanno cotanta onranza,

    che dal modo de li altri li diparte?».

    E quelli a me: «L'onrata nominanza

    che di lor suona sù ne la tua vita,

    grazïa acquista in ciel che sì li avanza».

    Intanto voce fu per me udita:

    «Onorate l'altissimo poeta;

    l'ombra sua torna, ch'era dipartita».

    Poi che la voce fu restata e queta,

    vidi quattro grand' ombre a noi venire:

    sembianz' avevan né trista né lieta.

    Lo buon maestro cominciò a dire:

    «Mira colui con quella spada in mano,

    che vien dinanzi ai tre sì come sire:

    quelli è Omero poeta sovrano;

    l'altro è Orazio satiro che vene;

    Ovidio è 'l terzo, e l'ultimo Lucano.

    Però che ciascun meco si convene

    nel nome che sonò la voce sola,

    fannomi onore, e di ciò fanno bene».

    Così vid' i' adunar la bella scola

    di quel segnor de l'altissimo canto

    che sovra li altri com' aquila vola.

    Da ch'ebber ragionato insieme alquanto,

    volsersi a me con salutevol cenno,

    e 'l mio maestro sorrise di tanto;

    e più d'onore ancora assai mi fenno,

    ch'e' sì mi fecer de la loro schiera,

    sì ch'io fui sesto tra cotanto senno.

    Così andammo infino a la lumera,

    parlando cose che 'l tacere è bello,

    sì com' era 'l parlar colà dov' era.

    Venimmo al piè d'un nobile castello,

    sette volte cerchiato d'alte mura,

    difeso intorno d'un bel fiumicello.

    Questo passammo come terra dura;

    per sette porte intrai con questi savi:

    giugnemmo in prato di fresca verdura.

    Genti v'eran con occhi tardi e gravi,

    di grande autorità ne' lor sembianti:

    parlavan rado, con voci soavi.

    Traemmoci così da l'un de' canti,

    in loco aperto, luminoso e alto,

    sì che veder si potien tutti quanti.

    Colà diritto, sovra 'l verde smalto,

    mi fuor mostrati li spiriti magni,

    che del vedere in me stesso m'essalto.

    I' vidi Eletra con molti compagni,

    tra ' quai conobbi Ettòr ed Enea,

    Cesare armato con li occhi grifagni.

    Vidi Cammilla e la Pantasilea;

    da l'altra parte vidi 'l re Latino

    che con Lavina sua figlia sedea.

    Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,

    Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;

    e solo, in parte, vidi 'l Saladino.

    Poi ch'innalzai un poco più le ciglia,

    vidi 'l maestro di color che sanno

    seder tra filosofica famiglia.

    Tutti lo miran, tutti onor li fanno:

    quivi vid' ïo Socrate e Platone,

    che 'nnanzi a li altri più presso li stanno;

    Democrito che 'l mondo a caso pone,

    Dïogenès, Anassagora e Tale,

    Empedoclès, Eraclito e Zenone;

    e vidi il buono accoglitor del quale,

    Dïascoride dico; e vidi Orfeo,

    Tulïo e Lino e Seneca morale;

    Euclide geomètra e Tolomeo,

    Ipocràte, Avicenna e Galïeno,

    Averoìs, che 'l gran comento feo.

    Io non posso ritrar di tutti a pieno,

    però che sì mi caccia il lungo tema,

    che molte volte al fatto il dir vien meno.

    La sesta compagnia in due si scema:

    per altra via mi mena il savio duca,

    fuor de la queta, ne l'aura che trema.

    E vegno in parte ove non è che luca.

    Canto V

    [Canto quinto, nel quale mostra del secondo cerchio de l'inferno, e tratta de la pena del vizio de la lussuria ne la persona di più famosi gentili uomini.]

    Così discesi del cerchio primaio

    giù nel secondo, che men loco cinghia

    e tanto più dolor, che punge a guaio.

    Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:

    essamina le colpe ne l'intrata;

    giudica e manda secondo ch'avvinghia.

    Dico che quando l'anima mal nata

    li vien dinanzi, tutta si confessa;

    e quel conoscitor de le peccata

    vede qual loco d'inferno è da essa;

    cignesi con la coda tante volte

    quantunque gradi vuol che giù sia messa.

    Sempre dinanzi a lui ne stanno molte:

    vanno a vicenda ciascuna al giudizio,

    dicono e odono e poi son giù volte.

    «O tu che vieni al doloroso ospizio»,

    disse Minòs a me quando mi vide,

    lasciando l'atto di cotanto offizio,

    «guarda com' entri e di cui tu ti fide;

    non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!».

    E 'l duca mio a lui: «Perché pur gride?

    Non impedir lo suo fatale andare:

    vuolsi così colà dove si puote

    ciò che si vuole, e più non dimandare».

    Or incomincian le dolenti note

    a farmisi sentire; or son venuto

    là dove molto pianto mi percuote.

    Io venni in loco d'ogne luce muto,

    che mugghia come fa mar per tempesta,

    se da contrari venti è combattuto.

    La bufera infernal, che mai non resta,

    mena li spirti con la sua rapina;

    voltando e percotendo li molesta.

    Quando giungon davanti a la ruina,

    quivi le strida, il compianto, il lamento;

    bestemmian quivi la virtù divina.

    Intesi ch'a così fatto tormento

    enno dannati i peccator carnali,

    che la ragion sommettono al talento.

    E come li stornei ne portan l'ali

    nel freddo tempo, a schiera larga e piena,

    così quel fiato li spiriti mali

    di qua, di là, di giù, di sù li mena;

    nulla speranza li conforta mai,

    non che di posa, ma di minor pena.

    E come i gru van cantando lor lai,

    faccendo in aere di sé lunga riga,

    così vid' io venir, traendo guai,

    ombre portate da la detta briga;

    per ch'i' dissi: «Maestro, chi son quelle

    genti che l'aura nera sì gastiga?».

    «La prima di color di cui novelle

    tu vuo' saper», mi disse quelli allotta,

    «fu imperadrice di molte favelle.

    A vizio di lussuria fu sì rotta,

    che libito fé licito in sua legge,

    per tòrre il biasmo in che era condotta.

    Ell' è Semiramìs, di cui si legge

    che succedette a Nino e fu sua sposa:

    tenne la terra che 'l Soldan corregge.

    L'altra è colei che s'ancise amorosa,

    e ruppe fede al cener di Sicheo;

    poi è Cleopatràs lussurïosa.

    Elena vedi, per cui tanto reo

    tempo si volse, e vedi 'l grande Achille,

    che con amore al fine combatteo.

    Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille

    ombre mostrommi e nominommi a dito,

    ch'amor di nostra vita dipartille.

    Poscia ch'io ebbi 'l mio dottore udito

    nomar le donne antiche e ' cavalieri,

    pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.

    I' cominciai: «Poeta, volontieri

    parlerei a quei due che 'nsieme vanno,

    e paion sì al vento esser leggieri».

    Ed elli a me: «Vedrai quando saranno

    più presso a noi; e tu allor li priega

    per quello amor che i mena, ed ei verranno».

    Sì tosto come il vento a noi li piega,

    mossi la voce: «O anime affannate,

    venite a noi parlar, s'altri nol niega!».

    Quali colombe dal disio chiamate

    con l'ali alzate e ferme al dolce nido

    vegnon per l'aere, dal voler portate;

    cotali uscir de la schiera ov' è Dido,

    a noi venendo per l'aere maligno,

    sì forte fu l'affettüoso grido.

    «O animal grazïoso e benigno

    che visitando vai per l'aere perso

    noi che tignemmo il mondo di sanguigno,

    se fosse amico il re de l'universo,

    noi pregheremmo lui de la tua pace,

    poi c'hai pietà del nostro mal perverso.

    Di quel che udire e che parlar vi piace,

    noi udiremo e parleremo a voi,

    mentre che 'l vento, come fa, ci tace.

    Siede la terra dove nata fui

    su la marina dove 'l Po discende

    per aver pace co' seguaci sui.

    Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,

    prese costui de la bella persona

    che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.

    Amor, ch'a nullo amato amar perdona,

    mi prese del costui piacer sì forte,

    che, come vedi, ancor non m'abbandona.

    Amor condusse noi ad una morte.

    Caina attende chi a vita ci spense».

    Queste parole da lor ci fuor porte.

    Quand' io intesi quell' anime offense,

    china' il viso, e tanto il tenni basso,

    fin che 'l poeta mi disse: «Che pense?».

    Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,

    quanti dolci pensier, quanto disio

    menò costoro al doloroso passo!».

    Poi mi rivolsi a loro e parla' io,

    e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri

    a lagrimar mi fanno tristo e pio.

    Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri,

    a che e come concedette amore

    che conosceste i dubbiosi disiri?».

    E quella a me: «Nessun maggior dolore

    che ricordarsi del tempo felice

    ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore.

    Ma s'a conoscer la prima radice

    del nostro amor tu hai cotanto affetto,

    dirò come colui che piange e dice.

    Noi leggiavamo un giorno per diletto

    di Lancialotto come amor lo strinse;

    soli eravamo e sanza alcun sospetto.

    Per più fïate li occhi ci sospinse

    quella lettura, e scolorocci il viso;

    ma solo un punto fu quel che ci vinse.

    Quando leggemmo il disïato riso

    esser basciato da cotanto amante,

    questi, che mai da me non fia diviso,

    la bocca mi basciò tutto tremante.

    Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:

    quel giorno più non vi leggemmo avante».

    Mentre che l'uno spirto questo disse,

    l'altro piangëa; sì che di pietade

    io venni men così com' io morisse.

    E caddi come corpo morto cade.

    Canto VI

    [Canto sesto, nel quale mostra del terzo cerchio de l'inferno e tratta del punimento del vizio de la gola, e massimamente in persona d'un fiorentino chiamato Ciacco; in confusione di tutt'i buffoni tratta del dimonio Cerbero e narra in forma di predicere più cose a divenire a la città di Fiorenza.]

    Al tornar de la mente, che si chiuse

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1