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Poemi conviviali
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E-book171 pagine1 ora

Poemi conviviali

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Info su questo ebook

Giovanni Pascoli ebbe un'infanzia estremamente dolorosa: suo padre fu misteriosamente assassinato quando Giovanni aveva appena dodici anni e sua madre morì l’anno successivo. Cinque suoi fratelli morirono più tardi. Studiò all'Università di Bologna sotto il grande poeta Giosuè Carducci. Nel 1879, quando aveva ventitré fu arrestato e imprigionato per alcuni mesi per aver predicato l'anarchia politica. Dopo la sua prigionia, portò i fratelli più piccoli a vivere con lui e dal 1882 iniziò la carriera di insegnante, prima nelle scuole secondarie e poi in varie università italiane, come professore di letteratura greca, latina e italiana. La prima opera letteraria di Pascoli fu un grande successo, Myricae del 1891, un volume di testi musicali brevi, delicati, ispirati alla natura e ai temi domestici, e che riflettevano i disordini psicologici dei suoi anni da studente. Un certo allentamento del tumulto interiore è evidente nel suo secondo volume, di solito considerato il migliore, Canti di Castelvecchio del 1903, una raccolta di commoventi evocazioni della sua triste infanzia e celebrazioni della natura e della vita familiare. I volumi successivi includono poemi di ispirazione classica e più formale e due raccolte influenzate da Virgilio, dall'opera di Carducci e dai simbolisti francesi: Primi poemetti e Nuovi poemetti.
LinguaItaliano
Data di uscita27 nov 2019
ISBN9788835338420
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    Anteprima del libro

    Poemi conviviali - Giovanni Pascoli

    Arcadia(

    ¹). Io sono (...) un arcade. La mia, oltre che finzione sarebbe anche sdolcinatura e mascolinatura, destinata a produrre, se non si castiga a tempo, gli effetti più deleteri nell'organismo nazionale. Consimili, chiedo io, a quelli che ha prodotti nel Giappone la contemplazione ingenua degli uccelli e dei fiori? la predilezione per la piccola casa e il piccolo orto e il semplice e puro tatami? Sciocchi! Io non credo troppo nell'efficacia della poesia, e poco spero in quella della mia; ma se un'efficacia ha da essere, sarà di conforto e di esaltazione e di perseveranza e di serenità. Sarà di forza; perché forza ci ho messo, non avendo nel mio essere, semplificato dalla sventura, se non forza, da metterci; forza di poca vista, bensì, e di poco suono, perché, senza gale e senza fanfare, è non altro che forza.

    Dunque, nemmeno allora io era chiuso in un «giardino solitario», sebbene fossi molto segregato e lontano e oscuro. Quando mi chiamaste tra quelle «energie militanti» tu e Gabriele d'Annunzio.

    O mio fratello, minore e maggiore, Gabriele!

    Già sette anni prima Gabriele aveva scritto, intorno ad alcuni miei sonetti, parole di gran lode. Già entrando nella mia Romagna, a cavallo, col suo reggimento, cantava (e lo diceva al pubblico italiano) certi miei versi:

    Romagna solatìa, dolce paese!

    Il giovinetto, pieno di grazia e di gloria, si rivolgeva ogni momento dalla sua via fiorita e luminosa, per trarre dall'ombra e dal deserto e dal silenzio e, sì, dalla sua tristezza, il fratello maggiore e minore. Io nella irrequietezza della vita, ho potuto talvolta dimenticare quel gesto gentile del fanciullo prodigioso; ma ci sono tornato su, sempre, ammirando e amando. Ci torno su, ora, più che mai grato, ora che raccolgo e a te, o Adolfo, re del Convito, consacro questi poemi, dei quali i primi comparvero nel Convito e piacquero a lui. Piaceranno agli altri? Giova sperare. O avranno la sorte d'un altro mio scritto conviviale, della Minerva Oscura, che poi generò altri due volumi, Sotto il Velame e La Mirabile Visione, e ancora una Prolusione al Paradiso, e altri ancora ne creerà? Non mi dorrebbe troppo se questi Poemi avessero la sorte di quei volumi. Essi furono derisi e depressi, oltraggiati e calunniati, ma vivranno. Io morrò; quelli no. Così credo, così so: la mia tomba non sarà silenziosa. Il Genio di nostra gente Dante, la additerà ai suoi figli.

    Prima di quel giorno, che verrà tanto prima per me, che per te, e per Gabriele, non vorremo finire il Convito, facendo l'ultimo de dodici libri? Narreremo in esso ciò che sperammo e ciò che sognammo, e ciò che seminammo e ciò che mietemmo, e ciò che lasciamo e ciò che abbandoniamo. O Adolfo, tu sarai (non parlo di Gabriele, ché egli s'è beato) più lieto o men triste di me! Sai perché? Il perché è in questo tuo libro. Leggi «I VECCHI DI CEO». Tutti e due lasciano la vita assai sereni: ma uno più, l'altro meno. Questi non ha in casa, come messe della sua vita, se non qualche corona istmia o nemea, d'appio secco e d'appio verde (oh! secco ormai anche questo!). L'altro, e ha di codeste ghirlande, e ha figli dei figli. Tu sei quest'ultimo, o Adolfo; tu sei Panthide che ebbe il dono dalle Chariti!

    Pisa, 30 giugno del 1904.

    Giovanni Pascoli

    SOLON

    Triste il convito senza canto, come

    tempio senza votivo oro di doni;

    ché questo è bello: attendere al cantore

    che nella voce ha l'eco dell'Ignoto.

    Oh! nulla, io dico, è bello più, che udire

    un buon cantore, placidi, seduti

    l'un presso l'altro, avanti mense piene

    di pani biondi e di fumanti carni,

    mentre il fanciullo dal cratere attinge

    vino, e lo porta e versa nelle coppe;

    e dire in tanto grazïosi detti,

    mentre la cetra inalza il suo sacro inno;

    o dell'auleta querulo, che piange,

    godere, poi che ti si muta in cuore

    il suo dolore in tua felicità.

    - Solon, dicesti un giorno tu: Beato

    chi ama, chi cavalli ha solidunghi,

    cani da preda, un ospite lontano.

    Ora te né lontano ospite giova

    né, già vecchio, i bei cani né cavalli

    di solid'unghia, né l'amore, o savio.

    Te la coppa ora giova: ora tu lodi

    più vecchio il vino e più novello il canto.

    E novelle al Pireo, con la bonaccia

    prima e co' primi stormi, due canzoni

    oltremarine giunsero. Le reca

    una donna d'Eresso - Apri: rispose;

    alla rondine, o Phoco, apri la porta. -

    Erano le Anthesterïe: s'apriva

    il fumeo doglio e si saggiava il vino.

    Entrò, col lume della primavera

    e con l'alito salso dell'Egeo,

    la cantatrice. Ella sapea due canti:

    l'uno, d'amore, l'altro era di morte.

    Entrò pensosa; e Phoco le porgeva

    uno sgabello d'auree borchie ornato

    ed una coppa. Ella sedé, reggendo

    la risonante pèctide; ne strinse

    tacita intorno ai còllabi le corde;

    tentò le corde fremebonde, e disse:

    Splende al plenilunïo l'orto; il melo

    trema appena d'un tremolio d'argento...

    Nei lontani monti color di cielo

    sibila il vento.

    Mugghia il vento, strepita tra le forre,

    su le quercie gettasi... Il mio non sembra

    che un tremore, ma è l'amore, e corre,

    spossa le membra!

    M'è lontano dalle ricciute chiome,

    quanto il sole; sì, ma mi giunge al cuore,

    come il sole: bello, ma bello come

    sole che muore.

    Dileguare! e altro non voglio: voglio

    farmi chiarità che da lui si effonda.

    Scoglio estremo della gran luce, scoglio

    su la grande onda,

    dolce è da te scendere dove è pace:

    scende il sole nell'infinito mare;

    trema e scende la chiarità seguace

    crepuscolare.

    La Morte è questa! il vecchio esclamò. Questo,

    ella rispose, è, ospite, l'Amore.

    Tentò le corde fremebonde, e disse:

    Togli il pianto. È colpa! Sei del poeta

    nella casa, tu. Chi dirà che fui?

    Piangi il morto atleta: beltà d'atleta

    muore con lui.

    Muore la virtù dell'eroe che il cocchio

    spinge urlando tra le nemiche schiere;

    muore il seno, sì, di Rhodòpi, l'occhio

    del timoniere;

    ma non muore il canto che tra il tintinno

    della pèctide apre il candor dell'ale.

    E il poeta fin che non muoia l'inno,

    vive, immortale,

    poi che l'inno (diano le rosee dita

    pace al peplo, a noi non s'addice il lutto)

    è la nostra forza e beltà, la vita,

    l'anima, tutto!

    E chi voglia me rivedere, tocchi

    queste corde, canti un mio canto: in quella,

    tutta rose rimireranno gli occhi

    Saffo la bella.

    Questo era il canto della Morte; e il vecchio

    Solon qui disse: Ch'io l'impari, e muoia.

    IL CIECO DI CHIO

    O Deliàs, o gracile rampollo

    di palma, ai piedi sorto su del Cyntho,

    alla corrente del canoro Inopo;

    figlia di Palma; di qual dono io mai

    posso bearti il giovanetto cuore?

    Ché all'invito de' giovani scotendo

    gl'indifferenti riccioli del capo,

    gioia t'hai fatto del vegliardo grigio

    cui poter falla e desiderio avanza.

    E lui su le tue lievi orme adducevi

    all'opaca radura ed al giaciglio

    delle stridule foglie, in mezzo ai pini

    sonanti un fresco brulichìo di pioggia

    presso la salsa musica del mare.

    Né già la bianca tua beltà celasti

    a gli occhi della sua memore mano:

    non vista ad altri, che a lui cieco e, forse,

    al solitario tacito alcïone.

    O Deliàs, e già finì la gara

    de' tunicati Iàoni: già tace

    il vostro coro, grande meraviglia,

    in cui nessuna di te meglio scosse

    i procellosi crotali d'argento.

    Ed il nocchiero su la nave nera

    l'albero drizza, ed in su trae le pietre,

    le gravi pietre su cui dondolando

    dorme la nave nel loquace porto.

    Ora un nocchiero addimandai: Nocchiero,

    vago per l'onde come smergo ombroso,

    dài ch'alla nave il pio cantore ascenda?

    cieco uomo, e vive nella scabra Chio.

    Così te veda un ospite all'approdo.

    Tanto io gli dissi. Egli assentì; ché grande

    è del cantore, ben che nudo e cieco,

    la grazia in uno ardor di venti, in una

    ai cuori alati ritrosia di calma.

    E di qual dono, o Deliàs, partendo,

    né so per dove, su la nave nera,

    posso bearti il giovanetto cuore?

    Ché non possiedo, fuor della bisaccia

    lacera, nulla, e dell'eburnea cetra.

    E il canto, industre che pur sia, non m'offre

    se non un colmo calice ed un tocco

    di pingue verro e, terminato il canto,

    una lunga nel cuore eco di gioia.

    Io cieco vo lungo l'alterna voce

    del grigio mare; sotto un pino io dormo,

    dai pomi avari: se non se talora

    m'annunzïò, per luoghi soli, stalle

    di mandrïani un subito latrato;

    o, mentre erravo tra la neve e il vento,

    la vampa da un aperto uscio improvvisa

    nella sua casa mi svelò la donna

    che fila nel chiaror del focolare.

    Pur non

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