Rime: Prefazione e commenti di Giacomo Leopardi
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Questa edizione integrale delle Rime, completa di note e indice analitico navigabile, presenta la prefazione di Giacomo Leopardi e i suoi commenti alle poesie del genio trecentesco.
Francesco Petrarca
Francesco Petrarca wird 1304 als Sohn eines Notars in Arezzo geboren. Nach juristischen Studien läßt er sich 1326 in Avignon zum Priester weihen. Seinem unsteten Leben, das von vielen Wohnortwechseln und Reisen geprägt ist, entspricht ein vielgestaltiges Werk.Petrarcas Hauptaugenmerk gilt der Wiederentdeckung antiker Autoren. Um 1338 entsteht das Epos Africa, das sich mit der römischen Geschichte und den Punischen Kriegen beschäftigt und für welches Petrarca drei Jahre später den ihm zu Ehren wieder eingeführten römischen Dichterlorbeer erhält. Aber auch der Einsatz der italienischen Volkssprache in den berühmt gewordenen Canzonen an Laura zeigen sein Werk am Übergang von mittelalterlicher Tradition zur neuzeitlichen Literatur. Auf der Flucht vor der Pest geht Petrarca 1362 nach Venedig, wo 1367 Über seine und vieler anderer Unwissenheit entsteht. Der Text zeigt Petrarcas christlichen Humanismus, mit dem er sich gegen die aristotelisch ausgerichtete Scholastik wendet. Die von ihm gebrandmarkte Unwissenheit der anderen ist die der Materialisten, die nicht zur Erkenntnis des Göttlichen vordringen. Zentral ist jedoch ein Wissen, das der Rettung der Seele dienen soll.Petrarca stirbt im hohen Alter von 70 Jahren in Arquà.
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Rime - Francesco Petrarca
RIME
Francesco Petrarca
Prefazione e commenti di Giacomo Leopardi
© 2018 Sinapsi Editore
INDICE
FRANCESCO PETRARCA AI POSTERI
PREFAZIONE DI GIACOMO LEOPARDI
RIME
NOTE
FRANCESCO PETRARCA AI POSTERI.
Come che molto sia da dubitare, che un nome oscuro e meschino a grande distanza di luoghi e di tempi possa pervenire, darsi potrebbe il caso che a voi di me giungesse qualche sentore, e che vi prendesse alcuna vaghezza di conoscere qual’uomo io mi fossi, qual sorte si avessero le opere mie,¹ spezialmente quelle di cui la memoria ed il povero nome avesse infino a voi tramandato la fama. Quanto alla prima delle due cose saran diversi i pareri; chè suol ciascuno nel parlare d’altrui meglio che al vero, al proprio avviso attenersi, nè la lode e l’infamia hanno legge che le governi. Mortale omiciattolo io fui, siccome voi siete: di stirpe grande no, ma non vile. Della famiglia mia² dirò come Cesare Augusto diceva della sua, ch’ella fu antica. Non malvagia nè invereconda ebbi dalla natura sortita l’indole, cui nocque per altro il contagio del mal costume. Trassemi l’adolescenza in inganno: m’ebbe vinto la giovinezza: mi corresse la vecchiaia, facendomi esperto di ciò che molto innanzi aveva imparato, giovinezza e piaceri non essere che vanità: o a meglio dire, mi corresse il supremo moderatore di tutti i tempi e di tutte l’età, che i miseri mortali lascia talora da insano orgoglio aggirare nelle vie dell’errore, perchè, sebben tardi, una volta si ravveggano e si convertano. Fui della persona in gioventù non troppo robusto, ma destro ed agile assai. Bello no, ma tale che sul fior degli anni poteva piacere; di bel colore tra il bianco e il bruno, d’occhi vivaci e di vista che si serbò per lungo tempo acutissima, ma dopo l’anno sessantesimo venutami meno, mi costrinse a malincuore a ricorrere agli occhiali. Sanissimo per tutta la vita, la vecchiaia coll’ordinario stuolo de’ suoi malanni mi sopraffece. Da genitori di onesta condizione, e per vero dire venuti già da mediocre a povero stato, e cacciati da Firenze patria loro in esilio, nacqui in Arezzo sull’aurora del lunedì 20 luglio dell’anno 1304 a contare dal dì, che Cristo nascendo segnava l’epoca di questa ultima nostra età.³ Fui delle ricchezze solenne dispregiatore, non perchè bello non mi paresse il possederle, ma sì perchè abborrii dai travagli e dalle cure che son di quelle compagne inseparabili. Avverso alle lautezze dei banchetti mantenni di tenue vitto e di volgari cibi la vita più lietamente, che tra le leccornie e le ghiottonerie, non soglion fare i successori di Apicio. Quelli che han nome di sontuosi conviti e dir si dovrebbono crapule a temperanza e a costumatezza avverse e nemiche, io sempre ebbi in odio, e parvemi penoso a un tempo ed inutile e il farne altrui, e l’accettarne invito. Ma nulla ebbi di più caro del convivare cogli amici: il loro arrivo fu sempre una festa per me: e il non avere compagno a tavola mi spiacque sempre. Dalla ostentazione costantemente mi tenni lontano, non solo perchè cattiva in sè stessa e contraria all’umiltà: ma perchè affannosa e nemica riesce al vivere riposato e tranquillo. D’altri amori non mi accesi che di un solo nella mia giovinezza: e quello onesto a un tempo e ardentissimo, del quale più lungo ancora che non fu sarebbe stato il travaglio, se l’ardore che già cominciava a venir meno, acerba ma opportuna la morte non avesse estinto.⁴ De’ voluttuosi piaceri ben vorrei dirmi al tutto inesperto; ma poichè questo senza mentire al vero io non posso, mi terrò contento ad affermare, che quantunque il calore della età e del temperamento me ne dessero fortissimo stimolo, pur dal fondo dell’anima ne conobbi e n’esecrai la bassezza. Giunto però ai quarant’anni o in su quel torno, benchè pieno tuttavia di fuoco e di vigore, non solamente la pratica, ma la memoria pur anco ne abbandonai, e fui com’uomo che a donna mai non si fosse avvicinato. E ben di questo al mio Dio le maggiori grazie che io sappia rendo e professo, noverando fra le cose più felici della mia vita, l’essermi potuto sano ancora e robusto da quella umiliante soggezione al tutto affrancare. Ma d’altro si parli. Conobbi in altri la superbia, in me stesso non mai, e stato sempre dappoco, mi tenni pur da meno di quello che fui. Feci per ira talvolta male a me stesso; ad altri non mai. Delle onorevoli amicizie avidissimo, ne fui cultore sempre fedele; e certo di dire il vero, me ne piaccio e vanto. Sdegnoso, irritabile, dimenticai facilmente le ingiurie, de’ beneficii la memoria mai non deposi. Per familiarità di principi, di monarchi, di grandi fui talmente avventurato da destarne in molti l’invidia. Ma, sventura comune a chi invecchia, toccò a me pure soventi volte pianger la perdita de’ miei più cari. I più grandi monarchi dell’età mia m’ebbero in grazia, e fecero a gara per trarmi a loro, nè so perchè. Questo so che alcuni di loro parevan piuttosto essere favoriti della mia, che non favorirmi della loro dimestichezza: sì che dell’alto loro grado io molti vantaggi, ma nessun fastidio giammai ebbi ritratto. Tanto peraltro in me fu forte l’amore della mia libertà, che da chiunque di loro avesse nome di avversarla mi tenni studiosamente lontano. Retto e aggiustato meglio che non acuto ebbi l’ingegno, acconcio ad ogni buona disciplina, ma alla morale filosofia e all’arte poetica massimamente disposto. Questa però coll’andar degli anni posi in disparte, tutto piacendomi delle sacre lettere, nelle quali trovai riposte dolcezze tenute a vile insino allora, nè degli studi poetici ad altro che a ricreamento dell’animo più mi occupai. Piacquemi sopra ogni altro lo studio dell’antichità: dappoichè la presente età nostra ebbi io sempre per tal modo in fastidio, che s’egli non fosse l’amore de’ miei cari, in tutt’altro tempo da questo esser nato io vorrei, del quale cerco a tutt’uomo di farmi dimentico, e vivo coll’animo in mezzo agli antichi. Perchè degli storici io presi grande diletto, non senza provar disgusto delle loro contraddizioni, attenendomi a quella fra le contrarie sentenze, cui o la maggiore verosimiglianza, o l’autorità dello scrittore conciliasse più fede. All’eloquio mio detter lode di chiaro e di efficace; a me parve sempre debole e oscuro. Nel familiare consorzio degli amici, mai non posi mio studio a parere eloquente: nè so persuadermi che tanto Cesare Augusto ve ne ponesse. Ma dove il luogo, il subbietto, o gli uditori me ne parvero meritevoli, feci ogni mio potere per riuscirvi: se poi mi venisse fatto di conseguirlo, non io lo so, e sta il giudicarne a quelli che mi ascoltarono. E così potessi affidarmi di aver vissuto bene, come poco m’importerebbe di aver bene parlato: vana è la gloria che dalla sola eleganza delle parole si procaccia. Or ecco come del tempo della mia vita in parte la fortuna, ed in parte la mia volontà abbiano disposto. Il primo e non intero anno dopo la nascita si passò per me in Arezzo dove venni alla luce; i sei seguenti trascorsi in un paterno podere presso l’Ancisa a quattordici miglia di Firenze: richiamata la madre mia dall’esilio, n’andai per un anno a Pisa, e fu per me l’ottavo: il nono e gli altri che vennero appresso scorsero nella Gallia transalpina, sulla sinistra riva del Rodano, ciò è a dire in Avignone, ove il romano Pontefice in turpe esilio da lungo tempo trattiene la Chiesa di Cristo. Parve, or sono pochi anni passati, averla Urbano Quinto alla sua sede restituita: ma ne svanì al tutto la speranza, e quel che è peggio, svanì mentr’egli ancora viveva, sì che pentito ei si parve del bene che aveva fatto. Poco più ch’egli avesse vissuto, udito avrebbe per certo le mie rampogne, chè già la penna avea fra le dita, quando la gloriosa impresa abbandonando, improvvisamente la vita gli venne meno. Infelice ch’ei fu! Come bello per lui sarebbe stato il morire innanzi all’ara di Pietro ov’è la sua sede! Se dopo lui colà rimasti si fossero i suoi successori, tutta era sua la gloria di quel felice ritorno: se ripartivano quelli, tanto maggiore si pareva il suo merito quanto più grande la colpa loro si sarebbe chiarita. Ma lasciamo questo già lungo e intempestivo lamento. Ivi pertanto sulla riva di quel fiume da continui venti battuta trascorsi dapprima la puerizia sotto l’impero de’ genitori, e poscia sotto quello delle mie vanità la giovinezza.⁵ Ma fu più volte ed a lungo quella mia dimora interrotta. Conciossiachè per quattro anni interi io di quel tempo mi trattenni a Carpentras, piccola città posta a levante di Avignone e ad essa vicina: e in queste due imparai di grammatica, di dialettica e di rettorica tanto quanto in quell’età può impararsi, e nelle scuole d’ordinario s’insegna: tanto poco cioè, quanto tu, lettor mio, intendi bene. Di là mi mossi per Mompellieri, ove intrapresi, e per quattro anni continuai lo studio delle leggi: passato quindi a Bologna, vi stetti altri tre anni, e tutto ebbi percorso il corpo del diritto civile, dando di me, siccome molti stimavano, speranze grandissime, se quella carriera avessi continuato. Ma come appena dalla paterna autorità io fui prosciolto, abbandonai quello studio, non perchè veneranda non mi paresse l’autorità delle leggi, le quali tenni io sempre in onore, e strettamente siccome sono congiunte alle romane antichità, offrivano alla mia mente subbietto di dilettevole applicazione; ma sì perchè nell’usarne la malizia degli uomini le deturpa, ed io sdegnai di apparare un’arte che disonestamente mai non avrei voluto, nè onestamente, senza tirarmi addosso la taccia di baggèo, avrei potuto esercitare.⁶ A ventidue anni pertanto io mi ridussi a casa mia, chè così chiamo per forza di quell’abitudine che si converte in natura, l’esiglio di Avignone, a cui fui tratto sul termine della mia fanciullezza.
Ivi per fama era io già conosciuto, e grandi personaggi cominciavano a dimostrarsi dell’amicizia mia desiderosi. Se a questo ora io ripenso, ingenuamente confesso di non intenderne il perchè, e meco stesso ne fo quelle meraviglie che allora non ne faceva, perchè la presunzione propria di quella età me d’ogni onore degnissimo a me medesimo rappresentava. Vollero sopra tutti conoscermi i Colonnesi; illustre nobilissima famiglia che lo splendore della Romana Curia colla sua presenza allora accresceva, e a sè chiamatomi, di così fatte onorevoli accoglienze mi furon cortesi che forse nemmen al presente, ma di quel tempo certamente per nessun titolo io meritava: e quell’illustre e impareggiabile uomo che fu Giacomo Colonna vescovo allora di Lombez, cui per virtù non credo potersi uomo al mondo paragonare, seco mi condusse in Guascogna alle falde de’ Pirenei, ove nella compagnia del signore e de’ familiari di lui passai divinamente l’estate in tale giocondità di vita, che rammentar non la posso senza sospirarne per desiderio. Di là tornato m’acconciai col Cardinale Giovanni Colonna suo germano fratello, e vissi con lui per anni molti, come s’ei fosse a me non signore, ma padre, anzi non padre, ma fratello amoroso, o per meglio dire, come se stato fosse egli un altro me stesso, e la casa sua casa mia. Di quel tempo mi prese giovanile vaghezza di viaggiare per Francia e per Lamagna, e sebbene pretendessi altre cause perchè i miei superiori il partire mi consentissero, in verità non per altro io mi moveva che per saziare la smania di veder cose nuove. Vidi dapprima in quel viaggio Parigi, e assai mi piacque l’esaminar da me stesso quanto di vero o di favoloso intorno a quella città mi venne udito. Di là tornato, mossi per Roma, che sin dall’infanzia fu meta per me di desiderio ardentissimo. Appresi allora a venerare quel magnanimo capo della famiglia che fu Stefano Colonna, uomo in virtù a qual tu voglia degli antichi eroi non punto secondo, che m’ebbe caro per guisa da riguardarmi non altramente che se fossi stato un de’ suoi figli. E durò fino all’estremo de’ giorni suoi costante e inalterabile per me l’affetto e l’amore di quell’egregio: in me per lui dura tuttora, nè verrà meno che colla vita. Compiuto quel viaggio, e sentendo che per lo abborrimento in me innato al vivere delle città il soggiorno noiosissimo di Avignone mi si rendeva impossibile a tollerare, cercai d’un qualche appartato ricetto ove potessi, quasi in sicuro porto ricoverarmi, e a quindici miglia dalla città mi venne trovata la piccolissima, ma solitaria ed amena valle che Chiusa si chiama, ove regina di tutte le fonti scaturisce la Sorga. Allettato dalla bellezza del luogo, vi trasportai i miei libri e vi fissai la dimora. E lungo sarebbe il dire quante e quali cose in tanti anni ivi io facessi. Per dirlo in poche parole, tutti gli opuscoli miei, se non per intero composti, furono cominciati, o per lo meno orditi in quel luogo; e furon tanti, che a questa età mi danno ancora da fare. Conciossiachè come delle membra, così dell’ingegno io fui meglio destro che forte, e quindi avvenne che molte cose con alacrità intraprese lasciai per istanchezza in abbandono. Ivi la solinga natura del luogo m’indusse a scrivere la Bucolica di pastorale argomento, e i due libri della vita solitaria che diressi a Filippo, grande sempre dell’animo, ma Vescovo allora della piccola Cavaillon, ora Cardinale amplissimo, e Vescovo di Sabina, solo dei vecchi amici che mi rimanga, e che non episcopalmente come Ambrosio amava Agostino, ma con fraterna predilezione m’ebbe amato sempre, e m’ama pur tuttavia. E fra quei monti errando a sollazzo in un venerdì della settimana santa, sursemi nella mente, e forte vi si apprese, il pensiero di dettare un poema intorno a quel primo Scipione Africano il cui nome, meravigliando il rammento, fin dalla fanciullezza m’ebbe preso di singolare amore; e trasportato da interno impeto misi tantosto con grande ardore mano a quell’opera, che poi distratto da mille cure lasciai interrotta, e che dal subbietto Africa intitolata, non so per quale sua o mia ventura prima che alcuno la conoscesse, destò di sè tanto amoroso desiderio. Ivi in un giorno stesso, mirabile a dirsi, mi giunser lettere del Senato Romano, e del Cancelliere dell’Università Parigina, con le quali a ricevere la poetica corona quegli a Roma, questi a Parigi facevami invito. Preso da giovanile baldanza, e degno veramente io stimandomi dell’onore, onde degno siffatti uomini mi reputavano, nè al merito mio, ma solamente al giudizio di quelli ponendo mente, stetti alcun poco infra due, pensando quale di quegli inviti seguire si convenisse. E chiestone consiglio al Cardinale Giovanni Colonna cui mi trovava così vicino, che alla lettera da me scrittagli in sulla sera ebbi la dimane in sull’ora di terza prontissima la risposta, m’attenni al suo parere, che fu di preferire ad ogni altra la veneranda autorità di Roma: siccome ne fan testimonio le due lettere che su questo proposito gli scrissi, e ancora conservo. Andai dunque, e sebbene, secondo il giovanile costume, di me stesso io portassi giudizio assai favorevole, sentii vergogna di starmene al solo giudizio mio, o di coloro che invitato mi avevano, perocchè si potesse tener per certo che di sì grande onore non mi avrebbero fatto offerta, se di riceverlo degno non mi avessero tenuto. E mi risolsi a passare per Napoli: e venni in presenza di quel grandissimo Monarca, e filosofo, che fu Roberto, più per la sua dottrina, che non per la corona regale famoso e celebrato, unico re che alle scienze ed alla virtù s’avessero amico i tempi nostri, da lui chiedendo che qual giudizio convenevole gli sembrasse di me, tal ei proferisse. Or io meravigliando rammento, e se tu saperlo potessi meraviglieresti, lettore, le onorevoli accoglienze, e le dimostrazioni di amore, ond’egli fummi cortese: nè può ridirsi quanto l’animo gli godesse nel sentire del venir mio la cagione: chè da un lato ammirò la giovanile mia fidanza, pensò dall’altro non poca gloria dall’onore, che io chiedeva, tornare a lui stesso, cui solo fra tutti i mortali aveva io giudicato capace a sentenziare di me. Poichè di mille svariate cose ebbe meco ragionato, io gli feci vedere il mio poema dell’Africa, e tanto gli piacque, che come singolare favore mi pregò che volessi a lui intitolarlo: nè poteva io, nè certamente voleva alla onorevole dimanda non consentire. E per quello che fu lo scopo del mio viaggio prefisse egli un giorno nel quale continuo mi esaminò dal mezzodì fino alla sera. E perchè alla materia che fra le mani cresceva il tempo venne meno, seguitò a fare il medesimo nei due giorni appresso: e messo così per tre giorni il mio povero ingegno alle prove, nell’ultimo degno di ricever la laurea mi giudicò. La quale in Napoli ei mi esibiva, e con preghiere facevami forza perchè l’accettassi: ma più che il venerando desiderio di quel gran re valse sull’animo mio l’amor di Roma. Ed egli, visto che dal proposito rimuovere non mi poteva, mi fece da’ suoi regali messi, e dalle sue lettere accompagnare al Senato, nelle quali rese di me le più onorifiche e gloriose testimonianze. Giusto allora a molti e a me spezialmente si parve quel regale giudizio: oggi la mia non meno che la sentenza di lui, e di quanti altri vi convenivano io disapprovo, e condanno. Più che dal vero egli lasciò guidarsi dall’amicizia e dal favore onde gli parve la giovinezza mia meritevole. Or come che indegno io ne fossi, da giudizio tanto autorevole aiutato e promosso, in mezzo al plauso dei Romani che alla solenne pompa assisterono, rozzo ancora ed ignorante qual’era, cinsi la chioma del poetico alloro; siccome da varie mie lettere in verso e in prosa più minutamente narrato si manifesta. Non di scienza alcuna, ma ben di trista invidia fummi feconda quella corona: nè vo’ di questo parlare chè troppo l’argomento trarrebbemi per le lunghe. Partito da Roma, mi ridussi a Parma, ed ivi dimorai qualche tempo in compagnia dei signori di Correggio a me d’ogni favore liberalissimi, ed in tutto egregii ma sventuratamente tra loro discordi: che di quella città facevano allora sì buon governo da non credere che mai per lo passato ne avesse, o sia per averne nel tempo avvenire un che l’agguagli. Memore dell’onore allora allor conferitomi, e studioso di dimostrare, che di quello io non fossi al tutto immeritevole, mentre a diporto un giorno, volto il cammino verso la montagna, m’aggirava sulle sponde dell’Enza ai confini di Reggio per entro la Selva Piana, sentii risvegliarmisi all’aspetto di quei luoghi nella mente il pensiero dell’interrotto mio poema sull’Africa, e come dentro dettavami l’estro rinfocolato, scrissi in quel giorno di molti versi; poscia tornato a Parma nella tranquilla ed appartata dimora, che più tardi comperata fu mia, tanto intorno a quello di buona voglia mi affaticai, che con celerità, onde in me dura tuttavia la meraviglia, l’ebbi in poco di tempo condotto a fine. Di colà feci ritorno alla mia transalpina solitudine, e rividi la bella fonte di Sorga, lasciandomi dietro le spalle trentaquattro anni di vita, e meco, la Dio mercè, portando l’amore e la stima ad ogni mio merito superiore di quanti, nel lungo soggiorno di Padova e di Verona, avea conosciuti. Molti anni più tardi per solo merito della fama fui preso a ben volere da un personaggio di tanto rara bontà, che nessuno per certo fra quanti furono in Italia signori, potrebbe con esso lui venire a confronto. Fu questi Giacomo giuniore di Carrara, il quale e per messi e per lettere mandate ne’ vari luoghi d’Italia od oltr’Alpe, quando io colà dimorava, mai non si stancò di pregarmi per anni ed anni che andassi a lui, e mi piacesse farmigli amico: ond’è che quantunque dai grandi della terra non sperassi mai nulla, risolsi alfine di presentarmigli per vedere a che fossero per riuscire le istanze di un uomo sì grande, e a me sconosciuto. E tardi assai mi mossi e venni a Padova, ove da quell’eccelso non qual si suole fra gli uomini, ma qual cred’io s’usa tra i beati nel cielo, m’ebbi accoglienza di tanto gaudio, di tanto amore, di tenerezza tanta ripiena, che non potendo a parole far che altri l’intenda, miglior partito stimo il tacerne. Di tante altre cose dirò quest’una, che sapendo com’io fin dall’infanzia dato mi fossi al chiericato, per legarmi più strettamente non tanto a sè, quanto alla sua città, mi fece conferire un canonicato di Padova. E certamente se più a lungo a lui fosse durata la vita, il mio continuo viaggiare, e cangiar di dimora avrei cessato. Ahi! però che tutto passa quaggiù in poco d’ora: e se cosa al gusto si offra che sappia alquanto di dolce, aspèttati di trovare nell’ultimo boccone l’amaro. Non erano ancora due anni passati che a me, alla patria ed al mondo, cui donato l’aveva, Iddio lo ritolse, perchè (non m’illude l’amore) tutti n’eravamo indegni. E quantunque il suo figlio e successore illustre anch’egli e prudentissimo le paterne vestigia calcando, di amorevolezza e di onoranza abbiami sempre dato manifestissime prove, perduto lui, che spezialmente in ragion dell’età più meco si conveniva, mi fu impossibile il rimanermi, e feci in Francia ritorno non tanto per lo desiderio di rivedere le cose già mille volte vedute, quanto per cercare, secondo che soglion gl’infermi, mutandomi di luogo, alla noia un conforto.⁷
PREFAZIONE DI GIACOMO LEOPARDI.
Pubblicato questo Comento l’anno 1826 in Milano, alcuni l’accusarono d’inutilità, dicendo che il Petrarca è chiaro da sè medesimo. Questi tali è credibile che non comperino Petrarchi con comenti, e però a loro non è dovuta alcuna risposta. Altri gli diedero lode di esattissima brevità, altri lo biasimarono di secchezza, altri di superflua prolissità. Molti stranieri mi ringraziarono, non senza maraviglia di poter leggere un Poeta italiano coi medesimi sussidii che si hanno per leggere i latini e i greci. L’edizione di Milano fu venduta prestamente. Più ristampe ne sono state fatte in questi dieci anni; nessuna con saputa mia: tanto che ritengono insino agli errori della prima stampa. Richiesto di giovare, se potessi, all’edizione presente, pongo qui avanti alcune poche avvertenze.
In primo luogo questo Comento, che io chiamo più volentieri Interpretazione, si diversifica tanto dagli altri comenti che abbiamo sopra il Petrarca, quanto si assomiglia a quelli che gli antichi Greci e Latini fecero sopra gli autori loro. Per lo più non è altro che una traduzione dei versi o delle parole del Poeta in una prosa semplice e chiara quanto io ho saputo farla. Ogni volta che ad intendere il testo sono necessarie notizie storiche o mitologiche, si porgono brevemente. Non è passata in silenzio nessuna difficoltà della quale io mi sia accorto; e dovunque io non ho inteso, ho confessato espressamente di non intendere, acciocchè il lettore, non intendendo, non si credesse nè più ignorante nè meno acuto dell’interprete, come tutti gli altri comentatori vogliono che egli si tenga in tali occasioni. Quelli che mi riprendono di troppa abbondanza, non nell’esposizione di ciascun luogo o di ciascun vocabolo, ma nella quantità dei vocaboli e luoghi che io spiego, hanno ragione, se considerano questo Comento come fatto per loro: ma se lo considerano come fatto per tutti, anche per le donne, e, occorrendo, per li bambini, e finalmente per gli stranieri, non mi debbono biasimare di aver procurata a questi ogni comodità senza alcuno incomodo degli altri, i quali non sono mai sforzati di voltare gli occhi al Comento nei luoghi che intendono; e con sì piccolo dispendio di carta e d’inchiostro, che qui in Napoli, dove nel 1828, ristampando questa Interpretazione, vollero, come dissero elegantemente, spogliarla della sua superflua prolissità, appena di dieci o quindici piccolissime paginette lo poterono accorciare. Che se spesso m’avviene di dichiarare una stessa voce o maniera più e più volte, s’ha a considerare, fra l’altre cose, che il Petrarca non è di quegli scrittori che si leggono dal principio alla fine seguitamente, ma qua e là, per lo più a salti e senz’ordine; onde è conveniente che il lettore abbia a ciascun luogo tutto ciò che gli bisogna per intenderlo, e non sia costretto di andare alla ventura pescando in tutto il Comento le dichiarazioni che gli occorrono.
Quanto al testo, ho seguitato alla cieca quello del professore Marsand, oggi usato universalmente; non che esso sia nè che io lo creda netto di lezioni false. Ma l’assunto del Marsand, come mi diceva egli stesso in Milano, non fu altro che di rappresentare fedelmente le tre edizioni antiche da lui citate nel suo proemio e giudicate ottime, lasciando altrui la critica di sì fatto testo; parte, si può dire, intatta, non solo nel Petrarca, ma in tutti gli autori nostri antichi, quantunque, così necessaria in questi come nei greci e nei latini. Ma non era della natura della mia interpretazioncella l’entrare in questo campo. Forse lo tenterò alcun giorno in un Saggio di emendazioni critiche delle Rime del Petrarca, la materia del quale ho da più anni in serbo; e forse, in compagnia di molti altri miei disegni, anche questo se ne andrà col vento. Ancora l’ordine dei componimenti del Petrarca sarebbe corretto in molta parte; e, quello che è più, la forza intima, e la propria e viva natura loro, credo che verrebbero in una luce e che apparirebbero in un aspetto nuovo, se potessi scrivere la storia dell’amore del Petrarca conforme al concetto della medesima che ho nella mente: la quale storia, narrata dal poeta nelle sue Rime, non è stata fin qui da nessuno intesa nè conosciuta, come pare a me che ella si possa intendere e conoscere, adoperando a questo effetto non altra scienza che quella delle passioni e dei costumi degli uomini e delle donne. E tale storia, così scritta come io vorrei, stimo che sarebbe non meno piacevole a leggere, e più utile che un romanzo.
In una cosa si discostano l’edizione di Milano e la presente da quelle del Marsand; cioè nella punteggiatura; la quale io medesimo, colla maggiore diligenza che mi fu possibile, volli fare del tutto nuova. Opera assai tediosa a fare, ma che può essere quasi un altro comento: perchè infiniti sono i luoghi del Petrarca e degli altri antichi, che punteggiati scarsamente o soverchiamente o male, appena si possono intendere, e punteggiati avvedutamente e con misura, diventano chiarissimi.
In questa nuova edizione ho cercato che fossero corretti gli errori tipografici della prima, ch’io aveva segnati accuratamente già da gran tempo, e che il Comento fosse migliorato con parecchie mutazioni ed aggiunte ch’io aveva in ordine. La lontananza e l’angustia del tempo non mi hanno consentito di più. Se avessi potuto a bell’agio rivedere il Comento dall’un capo all’altro, e paragonarlo col testo, avrei fatto molte altre innovazioni: e certamente avrei scancellata ogni parola che io per baldanza giovanile lasciai scorrere, poco riverente verso il Petrarca; la stima del quale di giorno in giorno, non ostante i suoi mancamenti che tutti sanno, cresce in me tanto, quanto ella scema in qualche imbrattatore di fogli che non mi degno di nominare. Anche avrei fatto uso della scelta, assai ricca, di annotazioni sopra il Petrarca pubblicata poco dopo la prima edizione di questo Comento in Padova dal signor Carrer; opera che io non ho veduta, ma che stimo degna di menzione a rispetto sì del nome del compilatore, e sì di avere udito molto commendarla. Il Comento che i Borghi e compagni aggiunsero al Petrarca che stamparono nel 1827 in Firenze, non è altro che una storpiatura del presente.
GIACOMO LEOPARDI.
Napoli, 1836.
Parte Prima
SONETTI E CANZONI IN VITA DI MADONNA LAURA.
SONETTO I.
Chiede compassione del suo stato, e confessa pentito la vanità del suo amore.
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
Di quei sospiri ond’io nudriva il core
In sul mio primo giovenile errore,
Quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono;
Del vario stile in ch’io piango e ragiono
Fra le vane speranze e ’l van dolore,
Ove sia chi per prova intenda amore,
Spero trovar pietà, non che perdono.
Ma ben veggi’or sì come al popol tutto
Favola fui gran tempo: onde sovente
Di me medesmo meco mi vergogno:
E del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,
E ’l pentirsi, e ’l conoscer chiaramente
Che quanto piace al mondo è breve sogno.
Verso 1. Voi. O voi. Vocativo. In rime sparse. In vari e brevi componimenti poetici. – Il suono. L’espressione. E ci fa intendere che quanto può dirci a parole non è altro che un suono verso di quello che provò egli dentro di sè. [A.] || 2. Onde. Dei quali. Coi quali. || 3. Nel tempo degli inganni della mia gioventù. || 4. Quand’era. Quand’io era. || 5. In che. In cui. || 7. Per prova. Per esperienza. Intenda. Conosca. || 8. Pietà non che perdono. Non solamente perdono, ma anche compassione. Questa quartina s’intenderà più facilmente leggendola così: «Ove sia chi per prova intenda amore, Spero trovar pietà, non che perdono, Del vario stile» col resto. || 9-10. Sì come. Che. Al popol tutto Favola fui gran tempo. Per lungo tempo fui materia di discorso e di riso alla gente. || 11. Meco. Fra me.
SONETTO II.
Forte contro tante insidie d’Amore, non potè difendersi da quest’ultima.
Per far una leggiadra sua vendetta,
E punire in un dì ben mille offese,
Celatamente Amor l’arco riprese,
Come uom ch’a nuocer luogo e tempo aspetta.
Era la mia virtute al cor ristretta,
Per far ivi e negli occhi sue difese,
Quando ’l colpo mortal là giù discese,
Ove solea spuntarsi ogni saetta.
Però turbata nel primiero assalto,
Non ebbe tanto nè vigor nè spazio
Che potesse al bisogno prender l’arme,
Ovvero al poggio faticoso ed alto
Ritrarmi accortamente da lo strazio,
Dal qual oggi vorrebbe e non può aitarme.
Verso 2. Offese. Fatte ad Amore dal Poeta, resistendogli e disprezzandolo. || 3. Celatamente. Di nascosto. || 4. Com’uom che. Come fa chi. || 5. Virtute. Forza. || 6. Far sue difese. Difendersi. || 7. Là giù. Nel cuore. || 8. Dove ogni assalto di Amore soleva riuscir vano. – Spuntarsi. Perder la punta. [A.] || 9. Però. Perchè amore aveva ripreso l’arco e tratto il suo colpo di nascosto, o come fa chi, volendo nuocere altrui, aspetta luogo e tempo opportuno. Turbata. La detta mia virtù, cioè la mia forza. Nel primiero assalto. Fin sul principio dell’assalto. || 10. Non ebbe tanto vigore nè tanto tempo. || 11. Potesse. La mia virtù. Al bisogno. Come richiedeva il bisogno. || 12. Al poggio faticoso ed alto. Al monte, alla ròcca, della virtù o della ragione o cosa simile. || 13. Ritrarmi. Il verbo ritrarre qui è attivo, e dipendente dalla parola potesse, che sta nell’undecimo verso. || 14. Aitarme. Aiutarmi.
SONETTO III.
Giudica Amor vile, che lo ferì in un giorno da non doverne sospettare.
Era il giorno ch’al Sol si scoloraro
Per la pietà del suo Fattore i rai,
Quand’i’ fui preso, e non me ne guardai,
Chè i be’ vostri occhi, Donna, mi legaro.
Tempo non mi parea da far riparo
Contra colpi d’Amor: però n’andai
Secur, senza sospetto; onde i miei guai
Nel comune dolor s’incominciaro.
Trovommi Amor del tutto disarmato,
Ed aperta la via per gli occhi al core,
Che di lagrime son fatti uscio e varco.
Però, al mio parer, non gli fu onore
Ferir me di saetta in quello stato,
E a voi armata non mostrar pur l’arco.
Verso 1. Il giorno ch’al Sol. Il giorno nel quale al sole. Intende l’anniversario della morte di Cristo. || 2. Per la pietà del suo Fattore. Per la compassione che il sole sentiva del suo creatore. || 4. Chè. Poichè. || 5-6. Essendo quel giorno santo e lugubre, non mi pareva tempo da temere assalti di Amore, e da starne in guardia. || 7. Secur. Sicuro. – Qui sta nel significato primitivo ed etimologico, sine cura. [A.] || 8. Nel comune dolor. Dei Cristiani per la ricordanza della morte di Cristo. || 9. Del tutto. Affatto. || 10. Ed aperta. E trovò aperta. || 11. Che. I quali occhi. Son fatti. Sono divenuti. || 12. Ma secondo me non gli fece onore, non fu cosa da vantarsene. || 13. In quello stato. Così disarmato e sprovvisto come io era. || 14. Armata. – Di pudicizia. [Z.] – Non mostrar pur. Nè pur mostrare.
SONETTO IV.
Innamorato di Laura, trae argomento di lodarla dal luogo stesso dov’ella nacque.
Quel ch’infinita provvidenza ed arte
Mostrò nel suo mirabil magistero;
Che criò questo e quell’altro emispero,
E mansueto più Giove che Marte;
Venendo in terra a illuminar le carte
Ch’avean molti anni già celato il vero,
Tolse Giovanni da la rete e Piero,
E nel regno del Ciel fece lor parte.
Di sè, nascendo, a Roma non fe grazia,
A Giudea sì: tanto sovr’ogni stato
Umiltate esaltar sempre gli piacque.
Ed or di picciol borgo un Sol n’à dato
Tal, che Natura e ’l luogo si ringrazia
Onde sì bella donna al mondo nacque.
Verso 1. Quel. Colui, cioè Dio. || 2. Nel suo mirabil magistero. Nella sua maravigliosa opera della creazione del mondo. || 3. Criò. Creò. Questo e quell’altro emispero. L’uno e l’altro emisfero. || 4. E diede al pianeta detto Giove più benigni influssi che a quello di Marte. Opinione antica. – A questa traduzione letterale potevasi aggiungere che il poeta con questo esempio di Giove e di Marte volle dire in generale: Dio, fonte di tutte le varie virtù (influssi) che sono (o si crederono essere) ne’ pianeti. [A.] || 5. A illuminar le carte. A rischiarar le scritture sacre. A svelare il senso delle scritture sacre. || 8. E diede loro parte nel regno del cielo, cioè li fece partecipi del regno del cielo. || 9. Non fece a Roma la grazia di nascer quivi. || 10-11. Sovr’ogni stato Umiltate esaltar. Innalzare gli umili sopra ogni condizione umana. || 12-14. Ed ora da una picciola Terra ci ha fatto nascere un sole tale, che gli uomini ringraziano la Natura e il luogo che hanno prodotto sì bella donna, cioè Laura.
SONETTO V.
Col nome stesso di Laura va ingegnosamente formando l’elogio di lei.
Quand’io movo i sospiri a chiamar voi,
E ’l nome che nel cor mi scrisse Amore,
LAUdando s’incomincia udir di fore
Il suon de’ primi dolci accenti suoi.
Vostro stato REal che ’ncontro poi,
Raddoppia a l’alta impresa il mio valore:
Ma, TAci, grida il fin, chè farle onore
È d’altri omeri soma che da’ tuoi.
Così LAUdare e REverire insegna
La voce stessa, pur ch’altri vi chiami,
O d’ogni reverenza ed onor degna:
Se non che forse Apollo si disdegna
Ch’a parlar de’ suoi sempre verdi rami
Lingua mortal presuntuosa vegna.
Verso 2. E ’l nome. Ed a chiamare, cioè a profferire, il nome. || 3-4. Il suono delle prime lettere di questo nome (cioè di Laureta, che oggi si direbbe Lauretta o pur Loreta) s’incomincia a udire fuori delle labbra lodando, cioè non è altro che il suono della prima sillaba di laudare; e però dice il Poeta che chi proferisce il nome della sua donna, la incomincia a lodare col suono stesso delle prime lettere di tal nome. || 5. La vostra condizione REgia che trovo poi, cioè nella seconda sillaba della voce Laureta. || 6. A l’alta impresa. All’impresa di lodarvi. || 7-14. Ma la ultima sillaba della voce Laureta, cioè ta, grida TAci, perciocchè a lodarla si ricercano ben altre forze che non sono le tue. Per tanto, o donna degna di somma riverenza e di somma lode, il suono medesimo del vostro nome, purchè uno vi nomini, insegna a lodarvi e a riverirvi (la prima sillaba a LAUdarvi, e la seconda a REverirvi): ma forse Apollo si sdegna che una lingua mortale presuntuosa venga, cioè si metta, a parlare del lauro (che è la pianta di Apollo, e che, secondo la consuetudine del Poeta, significa Laura); e da ciò nasce che l’ultima sillaba del vostro nome comanda di tacere.
SONETTO VI.
Viva immagine del suo amore ardente, e della onestà costante di Laura.
Sì traviato è ’l folle mio desio
A seguitar costei che ’n fuga è volta,
E de’ lacci d’Amor leggiera e sciolta
Vola dinanzi al lento correr mio;
Che, quanto richiamando più l’invio
Per la secura strada, men m’ascolta;
Nè mi vale spronarlo o dargli volta,
Ch’Amor per sua natura il fa restio.
E poi che ’l fren per forza a sè raccoglie,
I’ mi rimango in signoria di lui,
Che mal mio grado a morte mi trasporta,
Sol per venire al Lauro onde si coglie
Acerbo frutto, che le piaghe altrui,
Gustando, affligge più, che non conforta.
Verso 1. Sì traviato. Il mio desiderio è portato sì fattamente fuori del dritto cammino, fuor della giusta via. [A.] || 2. Che ’n fuga è volta. Che si è data a fuggire, che fugge. || 3. E de’ lacci. Si noti l’elissi di questa locuzione, come se dicesse: Laura vola perchè non amando come amo io lei è leggera (non porta il peso) e sciolta (non ha l’impaccio) de’ lacci d’amore. [A.] || 5-6. Che quanto più, richiamandolo, procuro di rimetterlo in sulla strada sicura, tanto meno mi ascolta. || 7. Vale. Giova. Dargli volta. Tirarlo colla briglia per voltarlo indietro. Qui l’autore rappresenta il suo folle desio sotto la figura di un cavallo. || 8. Chè. Poichè. Seguitando la metafora del cavallo, dice molto acconciamente che l’amore per sua natura lo fa restìo. || 9. E quando ha pigliato per forza il freno tra i denti. || 10. In Signoria. In potere. Di lui. Del mio folle desio. || 11. Mal mio grado. A mio malgrado. || 12. Al lauro. A Laura. || 14. Gustando. Maniera tolta dai Latini. Vuol dire: quando è gustato.
SONETTO VII.
Conosce di esser incatenato più forte che augello tolto alla sua libertà.
A piè de’ colli ove la bella vesta
Prese de le terrene membra pria
La Donna, che colui ch’a te ne ’nvia
Spesso dal sonno lagrimando desta,
Libere in pace passavam per questa
Vita mortal, ch’ogni animal desia,
Senza sospetto di trovar fra via
Cosa ch’al nostro andar fosse molesta.
Ma del misero stato ove noi semo
Condotte da la vita altra serena,
Un sol conforto, e de la morte, avemo:
Chè vendetta è di lui, ch’a ciò ne mena:
Lo qual in forza altrui, presso a l’estremo,
Riman legato con maggior catena.
In questo Sonetto s’introducono a parlare certe bestioline prese ne’ contorni della terra di Laura e mandate dal poeta a regalare a un amico.
Verso 1-14. Noi passavamo libere e in pace per questa vita caduca che ogni animale desidera, cioè vivevamo in libertà e in pace, senza timore d’insidie nè di sciagure, appiè dei colli dove prese la bella veste delle membra terrene, cioè dove nacque, colei che spesso desta dal sonno quello che ci manda a te in dono (cioè il Poeta), e lo desta addolorato e piangente. Abbiamo un solo conforto sì di questo misero stato in cui siamo venute da quell’altra vita libera e dolce, e sì della morte vicina: e questo conforto si è l’essere vendicate di colui che è cagione della nostra calamità (cioè del Poeta); il quale si trova in mano altrui (cioè di Laura), vicino all’estremo di sua vita e in cattività più dura che la nostra. || 12. Vendetta è di lui ec. Maniera affatto latina. [A.]
SONETTO VIII.
Cerca com’essendo Laura un Sole, ei non abbia a sentirne tutta la forza.
Quando il pianeta che distingue l’ore,
Ad albergar col Tauro si ritorna,
Cade virtù da l’infiammate corna
Che veste il mondo di novel colore:
E non pur quel che s’apre a noi di fore,
Le rive e i colli, di fioretti adorna,
Ma dentro, dove giammai non s’aggiorna,
Gravido fa di sè ’l terrestro umore;
Onde tal frutto e simile si colga.
Così costei, ch’è tra le donne un Sole,
In me, movendo de’ begli occhi i rai,
Cria d’amor pensieri, atti e parole.
Ma come ch’ella gli governi o volga,
Primavera per me pur non è mai.
Verso 3. Virtù. Quanti begli usi di questa parola presso gli antichi! Qui è efficacia [A.] || 1-4. Quando il pianeta che serve alla divisione e alla misura del tempo, cioè il sole, ritorna nella costellazione del toro (il che accade passata la metà di aprile), piove dalle corna del detto toro, infiammato dal sole, una virtù, cioè calore e luce, che veste la terra di color nuovo, cioè di nuove erbe e foglie e di nuovi fiori. || 5-6. E non solo adorna di fioretti quella parte della terra che sta esposta agli occhi, voglio dire le campagne e i colli. || 7. Ma oltre di ciò, sotterra, in luoghi dove non si fa mai giorno; cioè non entra mai la luce del giorno. Qui, come spesso, il verbo aggiornarsi è impersonale. || 8. Gravido fa ec. è il vere tument terræ di Virg. – *Terrestro. Terrestre.* || 9. Tal frutto. Qual è questo che io vi mando. Mandava il Poeta, come si crede, insieme con questo Sonetto, alcuni tartufi a un amico. E simile. Ed altri simili. || 11-12. Movendo i begli occhi, genera in me pensieri, opere e parole amorose. || 13. Come che. Comunque. In qualunque modo. Gli. Li. Questo pronome si riferisce ai rai de’ begli occhi. || Nondimeno non è mai primavera per me. Cioè, benchè gli occhi di Laura facciano in me questi effetti, o vero, benchè il sole faccia primavera nella terra, tuttavia gli occhi di Laura non fanno mai primavera in me.
BALLATA I.
Accortasi Laura dell’amore di lui, gli si fece tosto più severa che prima.
Lassare il velo o per Sole o per ombra,
Donna, non vi vid’io,
Poi che ’n me conosceste il gran desio
Ch’ogni altra voglia d’entro al cor mi sgombra.
Mentr’io portava i be’pensier celati
C’ànno la mente desïando morta,
Vidivi di pietate ornare il volto;
Ma poi ch’Amor di me vi fece accorta,
Furo i biondi capelli allor velati,
E l’amoroso sguardo in sè raccolto.
Quel ch’i’ più desiava in voi, m’è tolto:
Sì mi governa il velo,
Che per mia morte ed al caldo ed al gelo,
De’ be’ vostri occhi il dolce lume adombra.
Verso 1. Lassare. Lasciare. Deporre. || 3. Poi che. Dopo che. || 4. D’entro al cor mi sgombra. Mi scaccia dal cuore. || 5. I be’ pensier. I miei pensieri di amore verso di voi. || 6. Che hanno col gran desiderio uccisa la mente mia, cioè annullato le mie facoltà mentali. || 7. Vidi nel vostro volto qualche segno di compassione verso di me. || 8. Ma dopo che Amore, che era in me, vi ebbe dato segno di quello che io pensava. || 10. In sè. In sè stesso. || 11. Quel ch’i’ più desiava in voi. Cioè la vista degli occhi vostri. || 12-14. Così mi tratta quel velo che, per mia pena mortale, adombra sì al caldo e sì al gelo, cioè a tutte l’ore, il dolce lume dei vostri begli occhi.
SONETTO IX.
Spera nel tempo, che, rendendo Laura men bella, gliela renderà più pietosa.
Se la mia vita da l’aspro tormento
Si può tanto schermire e dagli affanni,
Ch’i’ veggia, per virtù degli ultimi anni,
Donna, de’ be’ vostri occhi il lume spento,
E i cape’ d’oro fin farsi d’argento,
E lassar le ghirlande e i verdi panni,
E ’l viso scolorir che ne’ miei danni
A lamentar mi fa pauroso e lento;
Pur mi darà tanta baldanza Amore,
Ch’i’vi discovrirò, de’ miei martiri
Qua’ sono stati gli anni e i giorni e l’ore.
E se ’l tempo è contrario ai be’ desiri,
Non fia ch’almen non giunga al mio dolore
Alcun soccorso di tardi sospiri.
Verso 3. Virtù. Per effetto. [A.] || 1-4. Se la mia vita potrà reggere al tormento e agli affanni di amore, tanto che io vi vegga giunta in età provetta, e spento per virtù di questa il lume, cioè lo splendore dei vostri occhi. || 5. I cape’ d’oro fin. I capelli d’oro fino, cioè puro. Farsi. Divenire. || 6. E lassar. E voi lasciare. I verdi panni. Le vesti di color gaio. Le vesti da giovane. || 7-8. E scolorirsi quel viso che ora m’infonde tanta timidità, che ne’ miei mali appena ardisco di lamentarmi. || 9. Pur. Alla fine. Baldanza. Ardire. Coraggio. || 10. Discovrirò. Discoprirò. Manifesterò. Narrerò. || 11. Qua’. Quali. || 12-14. E sebbene allora il tempo, cioè la nostra età provetta, sarà contrario ai bei desiderii, cioè all’amore; almeno il dolor mio sarà un poco alleggerito da qualche vostro tardo sospiro. Non fia significa Non sarà, Non avverrà, Non potrà essere.
SONETTO X.
È lieto e contento che l’amore di Laura il sollevi al Bene sommo.
Quando fra l’altre donne ad ora ad ora
Amor vien nel bel viso di costei;
Quanto ciascuna è men bella di lei,
Tanto cresce il desio che m’innamora.
I’ benedico il loco e ’l tempo e l’ora
Che sì alto miraron gli occhi miei,
E dico: Anima, assai ringraziar dei
Che fosti a tanto onor degnata allora.
Da lei ti vien l’amoroso pensiero
Che, mentre il segui, al sommo Ben t’invia,
Poco prezzando quel ch’ogni uom desia:
Da lei vien l’animosa leggiadria
Ch’al Ciel ti scorge per destro sentiero,
Sì ch’i’ vo già de la speranza altiero.
Versi 1-2. Quando Amore nel bel viso di costei viene ad ora ad ora tra le altre donne. Cioè, quando costei viene tra le altre donne, e però ci viene Amore, che abita nel suo bel viso. Ad ora ad ora vuol dire di quando in quando. || 6. Sì alto. Cioè sì nobile oggetto. || 7. Ringraziar. Ringraziare il Cielo o la Fortuna. Dei. Devi. || 8. A tanto onor degnata. Fatta degna di tanto onore. Graziata di tanto onore. || 10. Mentre. Finchè.
BALLATA II.
Lontano, non la vedrà che col pensiero; e però invita gli occhi a saziarsene.
Occhi miei lassi, mentre ch’io vi gira
Nel bel viso di quella che v’à morti,
Pregovi, siate accorti;
Chè già vi sfida Amore; ond’io sospiro.
Morte può chiuder sola a’ miei pensieri
L’amoroso cammin che li conduce
Al dolce porto de la lor salute.
Ma puossi a voi celar la vostra luce
Per meno obbietto; perchè meno interi
Siete formati, e di minor virtute.
Però dolenti, anzi che sian venute
L’ore del pianto, che son già vicine,
Prendete or a la fine
Breve conforto a sì lungo martiro.
Verso 1. Lassi. Miseri, o vero, stanchi dal piangere. || 2. V’à morti. Vi ha spenti. || 3. Siate accorti. Cioè, studiatevi di bearvi in quella vista quanto più potete. Il Poeta era per doversi partire dalla sua Laura. || 4. Chè. Perocchè. Vi sfida. A reggere al dolore della lontananza. || 5-10. I miei pensieri non possono essere impediti di giungere a Laura, se non dalla morte; cioè, nulla, se non solamente la morte, mi può tôrre la facoltà di pensare a Laura; ma ben può un obbietto, cioè un ostacolo, minore della morte, nascondere a voi, occhi miei, la vostra luce, cioè privarvi di Laura; perchè voi siete per natura meno perfetti che i pensieri, e forniti di minor potenza. || 11. Dolenti. Infelici. Vocativo.* Anzi che. Prima che. || 12. L’ore del pianto. Cioè l’ore della lontananza. – Che vi sarà cagione di piangere. [A.] || 13. Alla fine. Per l’ultima volta avanti la partenza. || 14. Un breve ristoro che vi aiuti a poter poi sostenere un dolore sì lungo.
SONETTO XI.
Irresoluto nel dilungarsi da Laura, descrive i vari affetti da cui è agitato.
Io mi rivolgo indietro a ciascun passo
Col corpo stanco, ch’a gran pena porto;
E prendo allor del vostro aere conforto,
Che ’l fa gir oltra, dicendo: Oimè lasso.
Poi ripensando al dolce ben ch’io lasso
Al cammin lungo ed al mio viver corto,
Fermo le piante sbigottito e smorto,
E gli occhi in terra lagrimando abbasso.
Talor m’assale in mezzo a’ tristi pianti
Un dubbio, come posson queste membra
Da lo spirito lor viver lontane.
Ma rispondemi Amor: Non ti rimembra
Che questo è privilegio degli amanti,
Sciolti da tutte qualitati umane?
Il Poeta componeva questo Sonetto nel tempo di un suo viaggio col quale si allontanava da Laura.
Verso 3. Conforto. Usato qui precisamente come nell’ultimo verso della ballata precedente; e questo è anco il significato vero della parola. – Aggiugnimento di forza per qualche operazione dello spirito avvenire. [A.] || 3-4. E respirando dell’aria che viene dalla parte dove voi siete, prendo un poco di ristoro, confortato dal quale, il mio corpo va innanzi, dicendo: Misero me. || 5. Lasso. Lascio. || 7. Fermo le piante. Fermo il passo. || 10. Un dubbio, come posson. Un dubbio; e il dubbio è questo: come possono. || 11. Da lo spirito lor. Ch’è Laura. || 12. Non ti rimembra. Non ti sovviene. || 13. Questo. Cioè di poter vivere col corpo lontano dal suo spirito.
SONETTO XII.
Ansioso cerca da per tutto chi gli presenti
le vere sembianze di Laura.
Movesi ’l vecchierel canuto e bianco
Del dolce loco ov’à sua età fornita,
E da la famigliuola sbigottita,
Che vede il caro padre venir manco:
Indi traendo poi l’antico fianco
Per l’estreme giornate di sua vita,
Quanto più può col buon voler s’aita,
Rotto dagli anni e dal cammino stanco.
E viene a Roma, seguendo ’l desio,
Per mirar la sembianza di colui
Ch’ancor là su nel Ciel vedere spera.
Così, lasso, talor vo cercando io,
Donna, quant’è possibile, in altrui
La desïata vostra forma vera.
Verso 2. Del. Dal. Ov’ha sua età fornita. Dove ha passato la sua vita che è presso alla fine. || 4. Venir manco. Venir meno, cioè andar languendo, mancando, per la vecchiezza. || 5. Indi. Di là. || 6. Per le. Nelle. || 7. Col buon voler ec. Cioè trae dal suo buon volere quella forza che il corpo non ha; e la coscienza della sua buona intenzione lo aiuta a vincere la debolezza degli anni e la lunghezza del cammino. [A.] – S’aita. S’aiuta. || 8. E dal cammino stanco. E stanco dal cammino. || 9. Seguendo ’l desio. Menato dal suo desiderio. || 10. La sembianza. L’immagine. Chiama immagine di Cristo il papa. – *Intendi piuttosto la Veronica, di che parla Dante nel 31 del Par., ossia il sudario in cui vedesi l’effigie del Redentore; chè nessuno ha mai creduto che il papa abbia la sembianza di Cristo. Oltrechè chi avesse voluto vedere il papa a tempo del Petrarca, non a Roma avrebbe dovuto portarsi, ma ad Avignone.* || 11. Ancor. Riferito a tempo futuro. Di nuovo. || 13. In altrui. In altri.
SONETTO XIII.
Quale sia il suo stato quando Laura gli è presente, e quando da lui si diparte.
Piovonmi amare lagrime dal viso,
Con un vento angoscioso di sospiri,
Quando in voi adivien che gli occhi giri,
Per cui sola dal mondo i’ son diviso.
Vero è che ’l dolce mansueto riso
Pur acqueta gli ardenti miei desiri,
E mi sottragge al foco de’ martiri,
Mentr’io sono a mirarvi intento e fiso:
Ma gli spiriti miei s’agghiaccian poi
Ch’i’ veggio, al dipartir, gli atti soavi
Torcer da me le mie fatali stelle.
Largata al fin con l’amorose chiavi
L’anima esce del cor per seguir voi;
E con molto pensiero indi si svelle.
Verso 3. Quando avviene che io giri, cioè volga, gli occhi in voi, cioè a voi. || 6. Pur. A poco a poco. || 8. Mentre. Finchè. || 9-11. Ma il cuore e il sangue mi si agghiacciano quando, nel separarci l’uno dall’altro, io veggo che le mie stelle, cioè gli occhi vostri, che per me sono fatali, cioè hanno influssi simili a quei delle stelle del cielo, ritirano da me i loro atti soavi: o vero, che voi con atti soavi licenziandovi, ritirate da me gli occhi vostri. || 12. Largata. Dischiusa. Con l’amorose chiavi. Colle chiavi d’amore. || 14. Si stacca da voi, e non senza molto pensiero di voi, ritorna in me. – Nella prima quartina il P. dice: piango, quando vi vedo. Nella seconda: la dolcezza del mirarvi rimedia al pianto. Nella prima terzina: torno in doglia, partendo voi da me. Nell’ultima: un’estasi amorosa rimedia al dolore. [P.]
SONETTO XIV.
Per poter meno amarla, fugge, ma inutilmente, dalla vista del suo bel volto.
Quand’io son tutto vôlto in quella parte
Ove ’l bel viso di Madonna luce;
E m’è rimasta nel pensier la luce
Che m’arde e strugge dentro a parte a parte;
I’, che temo del cor che mi si parte,
E veggio presso il fin della mia luce,
Vommene in guisa d’orbo senza luce,
Che non sa ’ve si vada, e pur si parte.
Così davanti ai colpi della Morte
Fuggo; ma non sì ratto che ’l desio
Meco non venga, come venir sole.
Tacito vo; chè le parole morte
Farian pianger la gente; ed i’ desio
Che le lagrime mie si spargan sole.
Verso 1. Vôlto. Rivolto col corpo e col pensiero, dopo essermi trovato con Laura. In. Verso. || 2. Luce. Risplende. || 3. La luce. Del viso di Laura. – Il verso tutto intero significa: E mi dura nella memoria l’imagine del volto rilucente di Laura. [A.] || 4. A parte a parte. Tutto quanto. || 5. Io, che temo a cagione del cuore che mi si divide, mi si spezza. || 6. E veggio presso. E veggo esser vicino. Luce. Vita. || 11. Sole. Suole. || 12. Che. Perchè. Parole morte. Parole disperate. Parole di dolore mortale. || 14. Sole. Senza compagnia di lagrime d’altri.
SONETTO XV.
Rassomiglia sè stesso alla farfalla, che è arsa da quel lume che sì la diletta.
Sono animali al mondo di sì altera
Vista, che ’ncontro al Sol pur si difende;
Altri, però che ’l gran lume gli offende,
Non escon fuor se non verso la sera;
Ed altri, col desio folle, che spera
Gioir forse nel foco perchè splende,
Provan l’altra virtù, quella che ’ncende.
Lasso,