Problemi di Diritto Penale Canonico
Di Fabio Bellia
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Problemi di Diritto Penale Canonico - Fabio Bellia
BIBLIOGRAFIA
INTRODUZIONE
Il lavoro quì presentato è stato pensato e svolto allo scopo di chiarire a me stesso ed ai lettori i dubbi che nel proprio cammino di fede e di vita ecclesiale vengono inevitabilmente posti riguardo il rapporto fra la propria coscienza individuale e quella della Chiesa, fra il nostro soggettivo sensus fidei e quello presentato dal Magistero.
Questo contributo costituisce sia un punto di partenza per studi ulteriori, che un punto di arrivo di un cammino di ricerca. L’argomento proposto riguarda uno studio di carattere teologico-giuridico che conseguentemente richiede la collaborazione di entrambe le discipline. Però, secondo la lezione di Don Marino Mosconi, da cui ho tratto feconda ispirazione, la disciplina fondamentale a cui bisogna riferirsi è quella canonistica; quando ci si riferirà logicamente al diritto penale canonico, lo si farà in forte connessione alla normativa relativa alla Funzione d’Insegnare
. Un aspetto importante di questo lavoro è che la sua natura giuridica è realizzata in chiave comparatistica ed è formato da un’introduzione e quattro capitoli:
l’introduzione delinea lo scopo del lavoro, la sua divisione, i lavori precedenti a cui si fa riferimento e in ultimo i ringraziamenti che ritengo di dover fare a chi direttamente ed indirettamente a chi ha collaborato con me allo scopo di permettermi la realizzazione di questo lavoro. Il primo capitolo si compone di otto parti e tratta problematiche generali riguardanti il Magistero ecclesiastico ed espone la sintesi dei rapporti fra Magistero e teologia attraverso i secoli, finendo per introdurre il rapporto tra Magistero e diritto.
Inoltre esamina in generale i rapporti giuridici tra il Magistero e il Popolo di Dio e approfondisce le sue caratteristiche giuridiche ed il rapporto fra Magistero e teologia delineato in precedenza.
Il secondo descrive la tutela del Magistero nel Codice del 1917 in chiave comparatistica col nuovo Codice. Viene delineata la normativa relativa alla censura e la proibizione dei libri che all’epoca aveva una rilevanza molto più ampia di oggi, si accenna alla normativa circa l’insegnamento infallibile della Chiesa e si delinea la legislazione riguardante la protezione giuridico penale dell’autenticità della fede. Si tratta poi delle nuove - rispetto all’epoca precedente - caratteristiche della normativa penalistica del codice non perdendo mai di vista l’oggetto della tesi ed riferendosi di tanti in tanto al nuovo codice , la tesi come detto prima è svolta in chiave comparatistica.
Il terzo affronta la storia della tutela del Magistero negli anni precedenti alla
nuova Codificazione. Questo studio è molto importante, poiché spesso in ampi settori della chiesa si parte dal presupposto che ciò che non è dogmatizzato può non essere creduto in quanto non rientra nel Magistero infallibile della Chiesa, dunque la sua protezione potrebbe al limite rientrare nell’ambito del Magistero non infallibile, ma quando si ha un Magistero infallibile e non infallibile viene appunto trattato in questo capitolo.
Il quarto tratta della tutela del Magistero nel Codice di Diritto Canonico del 1983 effettuando a volte utili comparazioni col codice precedente ed elenca le caratteristiche generali del Diritto Penale nella Chiesa cattolica di rito latino e dei diritti e dei doveri della persona nell’ordinamento canonico non perdendo mai di vista l’oggetto della tesi relativamente alla libertà di contestazione dello stesso si descrive la normativa concernente la protezione del Magistero non infallibile delineandone aspetti specifici, e si discute anche del problema importante nel codice di rito latino, relativo al canone 1399. Inoltre nella parte finale si effettua un breve confronto con la visione del Magistero secondo il nuovo Codice di Diritto Orientale, fatto questo che da alla tesi anche una caratteristica ecumenica. A coronamento del lavoro si ha una conclusione.
I fondamenti bibliografici di questa tesi, sono costituiti da una ricca serie di opere, il più importante di tutti i fondamenti bibliografici è l’opera di Don Marino Mosconi sulla tutela penale del Magistero autentico non infallibile che a mio parere costituisce un validissimo studio in materia. Altre opere importanti sono state quelle sul diritto nel mistero della Chiesa, edite dalla Pontificia Università Lateranense, gli studi effettuati in onore di Pio Fedele, lo studio della sanzione dell’esperienza giuridica del professor D’Agostino, lo studio di M. Falco importante circa il Codice del 1917, i lavori di Ghirlanda, Hervada, Dalla Torre. Tenuto conto la natura comparatistica dell’opera come detto precedentemente, sono anche state studiate e citate la famosissima opera dei cristiani ortodossi P. Evdokimov, sull’ortodossia e l’importante e famosa opera di J. Meyendorff, sulla teologia bizantina.
Importante è anche stata l’opera di Monsignor Philips sulla Costituzione Dogmatica, importanti sono anche stati i lavori sull’attuale diritto penale canonico di Calabrese, Sanchis e del mio professore e relatore principale Z. Suchecki. Importanti anche sono stati gli articoli di F. Coccopalmiero, di Composta, V. De Paolis, G. Di Mattia, C.J. Errazuriz M.. Tutte queste opere potranno essere trovate di seguito citate in nota e nella bibliografia. Professore.
E’ importante dire che il lavoro svolto potrebbe per la sua complessità apparire a volte confuso, ma così non è, la sua complessità è data solo dalla delicata natura del problema e ad una attenta lettura, necessaria specialmente quando si effettua una comparazione tra i due codici di diritto latino, si può constatare chiaramente la costante aderenza di ogni parte della tesi al suo oggetto. D’altra parte la tesi ha un corretto apparato bibliografico e la stessa bibliografia più che esaustiva potrà chiarire eventuali dubbi. Il lavoro svolto può essere considerato quindi più che eccellente e degno conseguentemente della massima considerazione.
CAPITOLO I
IL PROBLEMA DELLA TUTELA DEL MAGISTERO ECCLESIASTICO
Nel corso della storia della Chiesa, uno dei problemi che fra tutti ha angustiato la vita della società ecclesiale è stato quello del significato e quindi dell’importanza del diritto-dovere, del Collegio Episcopale, in unità col Vescovo di Roma e del Vescovo di Roma, indipendentemente dal resto del predetto Collegio di giudicare in virtù di un’Autorità conferita da Dio su questioni attinenti alla Fede e alla Morale con le sue inevitabili conseguenze per la protezione della Salus Animarum dei credenti¹ . Fin dalle origini della Chiesa fu importante difendere l’unità della stessa, tenendo conto che la sua ortoprassi non poteva disgiungersi dalla sua ortodossia, basando tutto sulla Parola di Gesù trasmessa oralmente, per iscritto e approfondita come dallo stesso Cristo preannunciato tramite l’invio dello Spirito Santo² .
Oggetto del Magistero, ma più esattamente dell’intero munus docendi della Chiesa è il depositum fidei (cfr. can. 747)³ . La maniera con cui la Dei Verbum⁴ ha proposto la dottrina sulla divina rivelazione e sulla sua trasmissione non lascia immutati i profili pratici della custodia e della comunicazione del depositum. Il concetto stesso di custodia è ricco di armoniche che più facilmente si legano a una concezione di rivelazione che immediatamente la colleghi alla dottrina della fede. Il «Magistero» infatti, comunque si tracci la storia del termine e del tema è funzione relativa alla dottrina della fede: la fede in quanto tale, infatti, nella sua caratteristica di fondamento permanente della vita cristiana, è custodita e alimentata anche dagli altri munera ecclesiali. E di dottrina, con puntuale coerenza e in continuità con i Concili Vaticani I e II, parlano infatti i cann.749 (ter) e 752.
La questione certo non è nuova. I neotestamentaristi notano tra l’età apostolica e quella subapostolica un incremento di attenzione alla sana dottrina (15 volte didaskalia nelle tre lettere «pastorali» contro 6 in tutto il resto del NT). Questo segnala per esempio che sarebbe scorretto confrontare senza sfumature la situazione tardiva (che è ancora la nostra) con quella sorgiva della rivelazione. Anche il «deposito» (3 volte nel NT, sempre con il verbo «custodire»: 1Tm 6, 20; 2Tm 1, 12.14) è termine che appartiene al medesimo contesto ed esprime la medesima esigenza. La fedeltà a un luogo inconfondibile del passato (Gesù Cristo) chiede modalità di attualizzazione proprie, che non dipendono solo dalle categorie concettuali e dalle modalità espressive delle diverse culture.
In subordine a questa considerazione generalissima, almeno tre problemi riguardanti l’oggetto del munus docendi possono essere messi in evidenza⁵ .
Il primo riguarda le verità cosiddette «da ritenere» (nella precisa distinzione di questo verbo da «credere»). Il CIC solo vi accenna riprendendo dai concili
Vaticani I e II il termine «tenendam» (ter nel can. 749). Il ritenere in ogni caso è incluso nel credere, cosicché le verità credendae sono incluse nelle tenendae. Il problema delle verità «da ritenere», che l’istruzione Mysterium Ecclesiae della S. Congregazione per la Dottrina della Fede⁶ definiva in termini molto generali e formali come «ea, sine quibus hoc depositum rite nequit custodiri et exponi»⁷ , sta precisamente nel complesso rapporto tra la loro formulazione e il deposito della fede. Molti degli esempi classici trasmessi nella teologia fondamentale dei manuali (e che non bisognerà perdere di vista, perché avevano delle motivazioni, da ricomprendere ma reali) difficilmente possono esibire proprio quella forma della «dottrina» che è inseparabile dal Magistero infallibile. I fatti storici che la teologia fondamentale chiamava «dogmatici», fatti storici (o proposte culturali?) quali la sanità delle persone che vengono canonizzate, norme o prassi quali le leggi e consuetudini universali della chiesa, i principi necessariamente implicati nelle quali – finemente si diceva – non possono contenere errore, sono altrettante forme non dottrinali che la teologia classica (che pur sapeva elaborare dizioni accurate come «doctrina tenenda») includeva nella problematica dell’infallibilità.
Un secondo problema è quello della fede detta nelle lingue della storia. Già l’istruzione Mysterium ecclesiae a questo proposito recepiva il principio della perfettibilità delle dottrine infallibilmente proposte, a motivo di un possibile miglioramento degli strumenti culturali e linguistici della loro enunciazione.
Il problema generale che emerge potrebbe essere detto così: se il dogma e in genere l’insegnamento del Magistero viene riconosciuto coinvolto nel gioco della storicità del linguaggio e delle successive reinterpretazioni, da cui nessuna formula vivente può scappare, come va intesa la sua qualità normativa rispetto alla trasmissione del deposito? Come va inteso il suo primato tra le forme di questa trasmissione, tra le forme della parola della fede nella Chiesa? Quel primato, tanto per ritornare al libro III del CIC, che sembra giustificare la collocazione di questi canoni, in apertura del libro.
Un terzo problema riguarda la fede come lettura della storia. Qui la novità del CIC 1983 è data dal can. 747 § 2: «È compito della Chiesa annunciare sempre e dovunque i principi morali anche circa l’ordine sociale, e così pure pronunciare il giudizio su qualsiasi realtà umana, in quanto (quatenus) lo esigono i diritti fondamentali della persona umana o la salvezza delle anime»⁸ .
È noto il dibattito sulla natura di questo compito del Magistero, che insiste sulla più radicale capacità del popolo di Dio (l’Ecclesia del can. 747, sino a prova in contrario) di interpretare la storia alla luce dei segni dello Spirito⁹ .
Quanto alla distinzione tra «Magistero solenne della Chiesa» e «Magistero ordinario e universale», essa non implica differenza di autorità e di vincolo, ma solo di forma. Per questo, mentre è praticamente impossibile far valere questa distinzione in rapporto al Magistero infallibile del Papa, essa risulta limpida a proposito del Collegio dei Vescovi. Si tratta delle due formalità descritte dalla Lumen Gentium¹⁰ e riprese in ordine inverso nel can. 749 § 2. Tra il Magistero dei Vescovi che «per orbem dispersi» insegnano ciascuno nella e alla propria Chiesa la medesima dottrina di fede e quello dei medesimi Vescovi radunati in Concilio, che si esprimono con un atto comune di Magistero verso l’«Ecclesia universa» la differenza è sofficemente indicata dal Vaticano II col dire che nel Concilio Ecumenico l’enunciazione infallibile della dottrina di Cristo «manifestius habetur»¹¹ .
Di fronte a questa formulazione il dettato del can. 750, che introduce in forma molto stringata e probabilmente brachilogica la voce del Popolo di Dio, presenta tratti di qualche novità, e sembra esigere un uso puntuale di quel criterio di interpretazione del CIC che è il riferimento all’autorità del Vaticano II. Dice infatti il canone: «[…] ut divinitus revelata proponuntur sive ab Ecclesiae magisterio solemni, sive ab eius magisterio ordinario et universali, quod quidem communi adhaesione christifidelium sub ductu sacri magisterii manifestatur». Bisogna, mi pare, almeno cercar di capire che cosa significhino quattro elementi non ovvi di quest’ultima frase: «quod quidem»; «adhaesio»; «sub ductu»; «manifestatur». «Sub ductu» probabilmente è l’elemento più chiaro. Parlando del «soprannaturale senso della fede del Popolo di Dio», il n. 12 della Lumen Gentium¹² presenta questo popolo precisamente «sub ductu sacri magisterii». I commentatori chiariscono trattarsi della guida che il Magistero dei Pastori offre all’intera Chiesa in modo abituale: essa entra nella definizione stessa del Popolo di Dio, che non si dà se non così strutturato da prevedere l’autorevole funzione docente dei successori degli Apostoli. Fanno parte di questa guida abituale senza esserne necessariamente implicati in ognuno dei casi previsti dal n. 12 gli autorevoli interventi attuali del Magistero che definisce una dottrina. Ad essi corrisponde quell’«assensus Ecclesiae» di cui parla il n. 25 per dire che esso, grazie all’assistenza dello Spirito Santo, non può mai mancare («numquam deesse potest»: non solo «licet», evidentemente) di fronte alle definizioni del Magistero. Di questo «assensus Ecclesiae» il Concilio parla in visibile dialettica rispetto al «consensus» che notoriamente non è richiesto per la validità delle definizioni, sia papali sia, per estensione, collegiali, la cui validità è «ex sese». Se nel caso di un assenso a definizioni già valide «ex sese» il ductus Magisterii è evidente, non però solo a questa fattispecie si riferisce il Concilio quando parla dell’infallibilità del sensus fidei del Popolo di Dio.
Il Magistero si vuole anzitutto come funzione pastorale¹³ . Dire che cosa questo significhi non è così semplice come raccogliere allusivi luoghi comuni sul tema. Diversi parametri concorrono a definire nel linguaggio ecclesiastico corrente e nella problematica più seria l’indole pastorale del Magistero. Escludendo che l’aggettivo alluda banalmente all’immagine di un Magistero poco esigente o accondiscendente a sconti e compromessi, mentre certamente implica l’impegno a evitare e positivamente a superare complicazioni inutili all’ascolto del Vangelo e nelle indicazioni per aderire ad esso secondo verità, rimane un ventaglio non indifferente di significati.
Da un lato il Magistero è detto «pastorale» in riferimento alla lettura del concreto storico nell’area dell’agire della Chiesa nella storia, come dell’agire morale e in specie sociale (cfr. can. 747 § 2). D’altro lato attraverso l’aggettivo può e vuol essere data evidenza ai destinatari del Magistero stesso, anche qui sotto più profili: quello della situazione concreta, socioculturale o religiosa e morale dei destinatari stessi, e quello della loro collocazione entro un contesto ecclesiale o entro l’universale vocazione alla Chiesa. Da quest’ultimo punto di vista, cioè in riferimento alle coordinate ecclesiali della destinazione del Magistero come munus «pastorale» l’aggettivo si ricollega direttamente all’immagine che presenta come «pastori», cioè come responsabili dell’insieme della missione e della comunione ecclesiale i soggetti del Magistero stesso.
Ma certo non è stata estranea dal dibattito in specie degli anni del Vaticano Il anche una dialettica tra «dottrinalità» e «pastoralit໹⁴ del Magistero: dialettica che deve essere risolta nel senso di una non contrapposizione; e che tuttavia segnala l’esigenza che il Magistero nel suo esercizio e nelle sue forme prenda atto della rinnovata consapevolezza dell’irriducibilità della Rivelazione ai termini di una dottrinalità astratta.
Di quanto a questo proposito riguarda l’oggetto del Magistero ho detto già più sopra. Rimane però da svolgere il confronto, rilevante nell’impianto del CIC, tra il Magistero di cui parlano questi canoni introduttivi e le altre forme del munus docendi delle quali devono occuparsi le relazioni successive. Entro la figura stessa della dottrina della fede, della quale ho detto, veramente all’insegnamento autentico nella forma del dogma spetta il primo posto in riferimento al quale debbano valutarsi le altre forme, o le cose sono più complesse o diverse? Si noti: non è qui in discussione il primo posto degli Apostoli (e dei loro successori) rispetto a profeti, dottori, ecc., e ai loro «successori» (se così se ne può parlare, come qualcuno ne parla). Non si tratta della sempre strana (e presumibilmente poco evangelica) questione della graduatoria dei carismi, ma di un ordine interno delle forme del loro esercizio. La predicazione missionaria per un motivo, quella liturgica per un altro, non sono teologicamente prevalenti rispetto all’attività del Magistero nel senso stretto abitualmente inteso nel lessico della teologia fondamentale e dei documenti ecclesiastici? Non a caso la Lumen Gentium¹⁵ presenta i Vescovi nell’ordine come «fidei praecones» e «doctores authentici», salvo poi svolgere la descrizione di questa funzione di dottori autentici con quattro verbi posti non a caso in questo ordine: «fidem […] praedicant», «illustrant», «fructificare faciunt», «errores […] arcent».
Anche in vista della discussione… dei rapporti tra funzione del Magistero e funzione della teologia¹⁶ , se quest’ultima è chiamata a custodire il proprio compito apparentemente ovvio ma difficilissimo da definire in modo rigoroso, anche il Magistero potrà definirsi meglio e dire il senso costruttivo della propria priorità logica se si collocherà in subordine rispetto alle funzioni della predicazione missionaria e liturgica, e vorrei dire al loro interno. Il primato del cherigma rispetto al dogma è essenziale per comprendere per quale motivo il carisma del Magistero non sia proporzionato, come quello teologico, alle ragioni che sa esibire, all’ermeneutica dei testi della Rivelazione e alla sistematica dei temi cristiani