Grilli e sangiovese
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Saranno la sua improvvisa scomparsa e una serie di omicidi a favorire l’incontro tra Livia e Cristina che, sino ad allora, si erano studiate a distanza. Con le due donne dovrà fare i conti anche il commissario Ronchi contenendo il loro desiderio di collaborare. In un susseguirsi di eventi, compreso un originale invito a una cena esclusiva a base di grilli e Sangiovese, traffici illeciti di cantaridi e angiomi sulle natiche, il commissario Ronchi, con l'aiuto e, a volte, l'intralcio di Livia e Cristina, forse troverà la casella per ogni tassello.
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Anteprima del libro
Grilli e sangiovese - Paola Casadei
investiga"
Capitolo 1. Lunedì
Se ne stava in terrazzo assaporando lo scampolo di estate, senza nessun impegno, se non quello di inseguire pensieri balzani. Consumava le ferie osservando il viavai dei vicini, chi entrava e chi usciva... Come una vecchia zitella, pensò malevola. «Come Grace Kelly» si rispose ad alta voce. «Il Terrazzo sul Cortile.»
L'idea di scoprire qualcosa di particolare, losco o curioso, comodamente da casa propria, la intrigava. Non necessariamente un omicidio, non era neppure carino auspicare la morte di un vicino per appagare la sua sete di mistero; certo era che un'ombra dietro una tapparella o un grido nella notte avrebbero movimentato quel fine agosto un po’ noioso. Avesse avuto prima questa pruriginosa attitudine sarebbe certamente stata testimone di una relazione clandestina. Lo aveva saputo dal parrucchiere sotto casa: nel condominio di fronte si era consumato un tradimento con tanto di abbandono del tetto coniugale!
I dati erano questi: l'anziano vedovo del primo piano disponeva di badante polacca, gran fisico, chioma bionda fluente, occhi blu, abbronzatura perenne... In poche parole strafica. E anche se i termini con cui veniva definita, tra i vapori di una tinta e il soffio caldo di un asciugacapelli, erano decisamente poco eleganti, strafica lo rimaneva.
Al terzo piano lui: il cantante. L'aveva sentito cantare – come tutti del resto – per varie estati consecutive, repertorio limitato e ripetitivo; per dirla schietta non ricordava di aver mai ascoltato nulla di diverso da Questo piccolo grande amore.
Ma, potenza della musica, a quanto pare la polacca – che le malelingue dicevano incapace di intendere e parlare più di quattro parole di italiano ̶ aveva apprezzato e gli era caduta tra le braccia. Di lui Cristina non era in grado di dare descrizioni, non l'aveva mai inquadrato prima del fattaccio, ovviamente perché avvenuto prima della fase «hitchcockiana» e ora lo vedeva solo di sfuggita dentro l'auto quando aspettava la bellona sotto casa. Infine lei, la vittima: la moglie. La solidarietà femminile imporrebbe ora un prodigarsi in complimenti alla ricerca di qualche elemento che la valorizzasse un po’, ma la donnina, certamente bella dentro, fuori risultava svantaggiata al confronto con l’amante del marito.
In conclusione, non sapeva con che modi e in che tempi avesse fatto fagotto, ma ora il fedifrago bastardo attendeva sotto casa la strafica e se la sbaciucchiava impunemente quando saliva in macchina. Nessuna pietà per la vittima: neppure la decenza di aspettare qualche metro più avanti...
Cristina teneva d'occhio con apprensione le sue finestre, sempre con le tapparelle abbassate, ma i gerani non sfiorivano, per cui aveva ancora attività vitali.
Chissà, si chiese, se la signora Baldini dall'appartamento attiguo, sempre in terrazzo, annaffiatoio alla mano, a ogni cenno di movimento dei vicini, si era accorta di qualcosa. Mah! Magari Rodolfo, il parrucchiere, ne sapeva di più... avrebbe approfondito alla prossima piega.
Quella sera, comunque, non aveva rilevato nulla di interessante: tre cani a passeggio coi loro padroni, due mamme che rientravano stanche coi bimbi semi-addormentati in braccio, due scapoli con birre e pizza. Nulla di meno significativo e interessante.
Le note di un pianoforte spezzarono il corso dei suoi pensieri. Colpo di scena: vuoi vedere che il fedifrago pentito è tornato all'ovile? E ha pure cambiato repertorio, pensò, mentre le note di un brano classico riempivano la serata. Alzò lo sguardo fino al parapetto dell'attico, la signora Baldini, uscì sul terrazzo, la vide e la salutò.
«È l'Africana!» le sussurrò, come si può sussurrare da un terrazzo dirimpettaio all'altro, indicando vistosamente col dito il piano di sopra con l'aria compiaciuta di chi ne sa. Cristina annuì sperando, non senza imbarazzo, che le note del pianoforte avessero impedito all'Africana di sentire.
Sorrise ripensando a quando, un mesetto prima, la «signorina» Zaira, che stava sul suo stesso pianerottolo, molto intima della Baldini, l'aveva intercettata al ritorno dal lavoro.
«Ha saputo?» le aveva detto la donna con fare cospiratorio.
«Cosa?»
«Hanno affittato l'attico di fronte!»
«Bene...»
«A una coppia senza figli che viene dall'Africa!» aveva detto tutto di un fiato con l'evidente intento di destare scalpore. «Sono africani bianchi!» aveva aggiunto come a mettere la ciliegina sulla torta di quella appetitosa notizia.
A chiarire le cose ci aveva pensato come sempre Rodolfo, eletto portavoce ufficiale della Baldini, cliente fissa il sabato pomeriggio dai tempi dell'apertura del salone.
«Ma che africana e africana, la signora e il marito sono italianissimi» disse mentre lavorava di spazzola per lisciare i capelli di Cristina. L'Africa, le disse, non era che l'ultimo dei paesi in cui la signora aveva vissuto. Il marito lavorava per un'importante rivista scientifica che da anni seguiva le ricerche di un tale che sosteneva che gli insetti fossero la risorsa del futuro e che si potessero impiegare dalla cosmesi alla medicina, per non parlare poi dell'impiego in cucina.
«Te capì, Zaira! Il progresso è nel bigarone!» disse Rodolfo.
«E come ci sono finiti qui?» domandò ancora Cristina.
«Ci sono nati qui, o almeno lui. Sono stati via oltre quindici anni, ma lei si è un po' stufata, così hanno deciso di tornare, per adesso solo lei, poi più avanti verrà anche suo marito. Non so altro, per ora...» incalzò il parrucchiere mentre Zaira, mortificata per l’equivoco, taceva in un angolo.
L’indiscreta vecchietta che, mai impalmata, viveva sola, tempo libero ne aveva e lo occupava volentieri a raccogliere informazioni utili al pettegolezzo che passava prontamente alla Baldini. L’abitudine a travisarne i contenuti la rendeva però poco attendibile, se pur spassosa.
Per tutti comunque l'ultima arrivata era diventata l'Africana.
La melodia si era fatta più serrata, Cristina tornò al presente per ascoltare meglio. Accidenti, se la cavava proprio bene, era chiaro che non fosse una dilettante. Quella donna si faceva sempre più interessante, ed era pure bella. L'aveva vista appena da lontano, ma ne aveva intuito la bellezza: non troppo alta, capelli lunghi chiari, fisico asciutto ben modellato, portamento elegante... Praticamente la mia fotocopia! si disse sarcastica dandosi due pacche sulle cosce. Arriva dall'Africa, suona come una concertista di successo, farà sesso con il sosia di George Clooney e io qui, a farmi uccidere dalle zanzare, ridotta come la signorina Zaira a sbirciare i vicini!
Si era fatto tardi, andò a letto pensando che quella sera però una cosa in comune l'avrebbero avuta: entrambe avrebbero dormito sole.
Mentre Cristina abbassava la tapparella qualcun altro ebbe un pensiero per lei: «Finalmente si è tolta dai coglioni, muoviamoci!».
Capitolo 2. Martedì
La quotidiana delicatezza del signor Fabbri nel chiudere il portone arrivò puntuale, seguì la tosse di Maltoni dal piano di sopra. L'edilizia degli anni '60 non investiva certo nell'isolamento sonoro. Cristina non aveva bisogno di guardare l'orologio per sapere che non erano ancora le otto. A completare il quadro del vicinato, per non farsi mancare niente, c’era poi Moira, l'estetista, che dal terzo piano scendeva le scale coi tacchi che battevano nervosamente i gradini, sempre di corsa. Lei, infatti, era secca come un chiodo, una di quelle donne che avrebbero fatto la fame pur di non apparire in disordine, d'altronde ne andava anche della sua immagine professionale!
Ma con Cristina si era rassegnata. Dopo mesi di: «Devi tenerci a te!» con lo sguardo da bilancia elettronica e l'implicito invito a mettersi a dieta, senza risultati, ormai si limitava ai saluti di rito.
Zaira, nell'appartamento accanto, azionò l'aspirapolvere.
«Ma nessuno va in ferie in questa casa?» gridò spazientita Cristina.
A quel punto, rimanere a letto era del tutto insensato. Avrebbe fatto colazione al parco.
Uscì giusto in tempo per vedere il retro di un’auto dei carabinieri scendere dal marciapiede di fronte e partire. Passando in bicicletta, notò, pochi metri più avanti, un gruppetto di persone che parlava animatamente davanti al Salone Rodolfo.
Il parco era quasi deserto, la condizione in cui lo amava di più. Sorseggiò il caffè godendo della pace del mattino.
Una notifica sul cellulare attirò la sua attenzione: un'altra foto di qualche conoscente in luoghi esotici e accattivanti. Lei, invece, tornata single (di nuovo!) da poco e con due figli appena laureati e non ancora indipendenti economicamente, aveva scelto di sovvenzionare le loro vacanze rimanendo a casa.
L'irritazione maggiore nasceva dall'ostentazione di coppie sorridenti, «Felici e Abbronzati», manco fossero i testimonial di un doposole. Sembrava che intorno a lei tutte fossero arrivate alla menopausa con lo stesso uomo conosciuto al menarca. Cristina aveva sì sposato il primo amore della sua vita, ma, cammin facendo, questo aveva deciso di prendere altre strade.
Così, dopo diversi anni di struggimento, Cristina si era ributtata in pista vivendo storie più o meno lunghe, di intensità e consistenza variabili; finalmente le era parso di poter tornare a far sul serio, ma si accorse di aver trovato un altro motore truccato.
Alla soglia dei cinquanta, gli ultimi dei quali passati con un uomo così geloso da aver annullato totalmente la sua vita sociale, si ritrovava a dover riallacciare rapporti con le vecchie amicizie nel periodo dell'anno meno indicato.
«Io sudo sola!» disse mettendo il cellulare in borsa.
In effetti il caldo cominciava a essere fastidioso, era ora di rientrare. Davanti al salone non c’era più nessuno. La colpì il cartello in bellavista: «Torno domani».
Pensando a quanto fosse strana la cosa controllò se ci fosse posta in buchetta prima di salire in casa.
«E questo da dove viene?»
Un cellulare, di un modello che rasentava il reperto archeologico, era dentro la sua buchetta delle lettere. Stava cercando risposte che giustificassero il ritrovamento, quando Zaira si palesò sul pianerottolo.
«Lo ha saputo?»
«Il salone di Rodolfo è chiuso» rispose Cristina lasciando l'anziana di stucco.
«Chi glielo ha detto?»
Si guardò intorno con fare circospetto, si protese verso la vicina e quasi bisbigliando disse: «L'ho saputo!».
In cambio, ricevette un'occhiata tra il torvo e il confuso.
«Tranquilla, Zaira, nessuno le sta rubando il mestiere. Ho visto del trambusto quando sono uscita e ora, parcheggiando, ho notato il negozio chiuso.»
«Sì, sì, Rodolfo si è sentito poco bene, ha fatto sapere da una sua amica che riapre domani. Io però chiedevo se ha saputo cosa è successo nel palazzo della Baldini.»
«Che è successo dalla Baldini?»
«Ci sono andati i ladri! Hanno trovato il portone d’ingresso scassinato con il piede di un maiale.»
«Cosa?»
«Lo hanno detto i carabinieri, cosa crede!» disse alzando il tono della voce.
Cristina rimase un attimo perplessa. «Ah! Piede di porco, Zaira, non di maiale, di porco! È un pezzo di ferro.»
«Maiale, porco, è sempre lo stesso animale.»
«Va be’... ma sono entrati in qualche appartamento?»
«Sembra di no, forse sono stati disturbati... A proposito, vedo che ha trovato il telefono» indicò l'apparecchio che Cristina aveva ancora tra le mani. «Dica grazie che l'ho trovato io, se no faceva le gambe!»
«L'ha messo lei nella mia buchetta?»
«Certamente.»
«Ma non è mio!»
«Ah no? Era vicino alla sua porta stamattina, pensavo l'avesse perso. Di chi sarà allora?»
«Proviamo a chiamare un numero della rubrica e chiediamo a chi risponde chi è il proprietario.»
Aprì il menù.
«Ah, be’, c'è solo il numero di un certo Alberto» premette il tasto per far partire la chiamata. Rimase un momento in ascolto, poi riguardò il cellulare dubbiosa.
«Be’?» fece Zaira.
«A quanto pare la SIM non è attiva...»
«Magari è in ferie, si sveglia più tardi.»
«Possibile!» rispose Cristina che non aveva voglia di addentrarsi in spiegazioni. Prese il suo cellulare dalla borsa e digitò il numero. Il display si illuminò, il nome «Alberto» in primo piano. Per qualche frazione di secondo la donna fissò il telefono senza capire.
«Oh, porca...» pigiò ripetutamente sul tasto per interrompere la chiamata confidando di non aver ancora preso la linea.
«Che succede?» chiese la vicina che aveva seguito il suo fare convulso senza capire.
«Lasciamola dormire un altro po’. Sicuramente sarà di una cliente di Moira, più tardi riprovo e le faccio sapere. Ora se non le spiace vado a farmi una doccia.»
Le servì più di un attimo per riprendersi dalla sorpresa.
Se li era ritrovati addosso mentre entrava in garage, non aveva neppure capito quanti fossero... Due? Tre? Un pugno allo stomaco, due ginocchiate all’inguine. Dal dolore si piegò in avanti, col respiro mozzato. Uno, il più grosso, gli aveva girato un braccio dietro la schiena, pensò che glielo avrebbero spezzato tanto faceva male.
«Il portafogli è nella tasca dietro dei pantaloni, ci sono cento euro, prendeteveli» disse con un fil di voce.
Ignorarono il suo invito: «Ti credi furbo, vero?».
«Io... Aah!» il dolore lancinante all’arto gli impedì di proseguire.
L’uomo gli si avvicinò all’orecchio: «Ascoltami bene, ti stai prendendo troppe libertà! Hai capito?».
Rodolfo sentiva il fiato sul collo.
«Rimani concentrato sul tuo lavoro, nel tuo bel negozietto, e non andare in giro a far cazzate! Capito, stronzo?»
Rodolfo, a cui uscivano solo lamenti, annuì ripetutamente.
Lo scaraventarono a terra e, come erano arrivati, se ne andarono.
Si era spaventato a morte, non era mai stato un attaccabrighe, non aveva mai fatto a cazzotti neppure da ragazzino. Non capiva: di che cazzate parlavano? Era certo di non aver mai lasciato tracce di certe faccende, quanto all’ultimo lavoretto... a chi poteva importare? Tanto da prenderlo a botte, poi... Ma come avevano fatto a beccarlo?
Gli doleva tutto, pensò di aver bisogno di un medico, ma era terrorizzato all’idea di parlare con qualcuno di quello che gli era successo. Non era comunque in condizioni di recarsi al lavoro. Tirò fuori il cellulare. «Ciao! Non dire niente. Devi farmi un favore, vai subito in negozio, metti un biglietto, scrivi che sto male, che ho la febbre. Inventati qualcosa. Scusati, di’ che torno domani. Poi appena puoi vieni a casa mia. Ti devo parlare.»
«Ma che succede? C’è qualcosa che non va?»
«Ne parliamo dopo» e riattaccò.
Congedata Zaira, Cristina si sedette al tavolo della cucina.
Non sentiva l’ex marito al telefono da secoli, non si era resa conto di aver digitato il suo numero. Era frastornata e confusa.
«Questa poi...»
Riprese a esaminare il telefonino. Un vecchio modello basico, poche ed essenziali funzioni, non c’era modo di sbagliare, che ci fosse solo un numero era una certezza. Tornò al menù e selezionò la voce messaggi, le comparve una lunga sequenza di SMS, sempre e solo a suo marito. La cosa curiosa era la data, quei messaggi risalivano a quasi vent’anni prima, quando il suo matrimonio era ancora in piedi... o forse su un piede solo.
«Scusa se non sono venuta ieri sera!» diceva il primo messaggio inviato dal cellulare che aveva tra le mani. E poi: «Perché ti ostini a non rispondere?».
«Non è che mi ostino» rispondeva il marito «è che non sono la persona giusta! Comunque piacere, io sono Alberto. Bye.»
«Bella figura... Spero di non averti importunato Alberto, io sono Sara. Buona serata.»
«Nessun disturbo Sara, buona serata anche a te».
Sara... Sara... Non le diceva nulla quel nome. Continuò a leggere.
«Buongiorno Alberto, spero che il tuo cielo oggi sia azzurro come il mio.»
Ma guarda questa! Pensa tu se una deve irretire così uno sconosciuto al telefono.
Scorse il display, gli SMS si facevano via via più serrati e numerosi nella giornata.
Erano passati velocemente dai saluti cordiali al chiamarsi «Musa ispiratrice», «intrigante ammaliatrice» e «adulatore», «fine conoscitore dell’animo femminile».
Con nonchalance si erano buttati in descrizioni di «lingue che danzavano, si rincorrevano e duellavano nei meandri di un giardino fiorito», di «corpi avvinghiati e inarcati a cercarsi su una barca cullata dalle onde del mare», per finire in un’apoteosi di «grida di gabbiani che coprivano la voce del loro piacere...»
«Hai capito il fedifrago!»
La linea Hot di Harmony avrebbe pagato soldoni per «lenzuola di raso pronte a rinfrescare la pelle che brucia di desiderio», mica il cotonaccio che metteva lei nel letto, quello che a fine amplesso rimane addosso appiccicaticcio!
L’ultimo messaggio era di Alberto: «Ciao Sara, regina dei miei sensi. Riusciamo a sentirci al telefono? Vorrei provare il piacere della tua voce».
Il tutto si era svolto in una settimana o poco più, del seguito di quella storia non c’era traccia, ma il preludio lasciava pochi dubbi sul come potesse essersi conclusa.
Era davvero improbabile che quel cellulare fosse finito per caso tra le sue mani; a parte le tante considerazioni possibili sul contenuto di quei messaggi, rimaneva un fatto: questa Sara, o chi per lei, dopo quasi vent’anni dall’epoca in cui il bollente scambio avveniva, si era presa la briga di farglielo sapere. E se le aveva lasciato il cellulare sulla porta non doveva certo essere troppo lontana. Perché proprio ora? Aveva con Alberto sporadici contatti telefonici ed erano passati anni dall’ultima volta che lo aveva incontrato. Supponeva che i figli avessero qualche informazione in più, ma, per tacito accordo, il padre non era argomento di conversazione tra loro da tanto.
Non ne veniva a capo. Era inoltre infastidita dal suo stesso turbamento, ci aveva messo anni per riattaccare tutti i pezzetti della sua vita che quella separazione aveva mandato in frantumi. Scoprire che, mentre lei lottava con le unghie e con i denti per salvare il suo matrimonio, suo marito si faceva masturbazioni mentali, e magari non solo, leggendo SMS di una sconosciuta, non la lasciava indifferente neppure se tutto apparteneva ormai al passato.
Batteva nervosamente il cellulare sul tavolo mentre una ridda di pensieri le affollava la mente stordendola, poi uno si fece più prepotente degli altri.
Si alzò e prese la borsa. Uno sguardo dallo spioncino prima di uscire – non avrebbe potuto sostenere un’altra conversazione con Zaira su zamponi branditi a scassinare porte – e sgattaiolò fuori.
Scese di corsa chiudendo le porte con cautela per non farsi sentire.
Salì in macchina.
Rientrò dopo meno di un’ora con una nuova SIM in tasca.
Davanti alla drogheria di Gino, si ricordò di non aver più nulla in frigorifero e decise di prendere qualcosa per la cena. L’Africana era già dentro. Vederla distolse la mente di Cristina dai pensieri che la perseguitavano. Stava acquistando formaggi e salumi, constatò che avevano gli stessi gusti, ma non lo stesso metabolismo. Era la prima volta che la vedeva da vicino e le sue impressioni furono confermate, indubbiamente era molto bella.
Quando la donna ebbe pagato si girò per andarsene, Cristina le offrì un largo sorriso.
«Buongiorno.»
L’altra, che pareva apparecchiata come la patrona il giorno della processione, la squadrò dalla testa ai piedi soffermandosi, anche se solo per un attimo, sugli avanzi di smalto scrostato sulle sue unghie.
«Buongiorno» rispose senza sorridere e senza fermarsi.
Se aveva avuto anche solo una vaga idea di far amicizia con quella donna, ogni speranza si spense.
Cristina comprò quel che doveva e filò a casa.
Quel giorno Livia era proprio maldisposta.
Aveva caldo, Carlo era ancora assente e si annoiava a morte. Le aveva promesso che sarebbe stato solo per poche settimane, invece l’aveva lasciata ad affrontare il peso del trasloco da sola e di rientrare ancora non ne parlava.
In agosto si lavora bene, le aveva sempre detto. Sceglieva di fare le ferie quando tutti erano già tornati al lavoro e di solito organizzavano un viaggio tra i mesi di settembre e novembre.
Per Livia questo era il mese di agosto più caldo e noioso degli ultimi anni. Prima aveva il suo giro di amiche qua e là, una vita sociale piena, e lei e Carlo vivevano insieme. Ma da quando l’aveva portata a un paio di chilometri dai luoghi in cui era nato e cresciuto era sparito.
La routine di Livia in quel mese caldo e afoso era davvero insopportabile.
Ormai aveva smesso di dare concerti. A volte componeva. Ora poi stava per pubblicare un libro di tecnica per imparare il pianoforte giocando, adatto anche ai principianti meno giovani.
L’attico le piaceva: stando nel salone, seduta al pianoforte, non le sembrava di essere in un condominio, non vedeva le finestre di fronte, non pensava ai piani sotto di lei. Cercava di rispettare gli orari di silenzio per non infastidire i condomini ed evitare lamentele, ma suonava sempre alcune ore ogni giorno. La cosa che le mancava di più in questa casa, in questo quartiere, in questa città erano le amiche. Era sempre stato facile approcciare le altre donne nei paesi in cui Carlo l’aveva portata, club di bridge, mostre, musei. Qui, invece, non aveva lo stimolo di sorridere per fare nuove conoscenze. Oggi, dal droghiere, aveva perfino risposto con molta freddezza a quella donna che incontrava spesso quando usciva da casa. Chissà perché poi? Lei le piaceva più delle altre.
Faceva congetture sul suo futuro e sull’insolito comportamento di Carlo, chiedendosi se affittare l’attico non fosse un compromesso per assecondarla quando si era reso conto che lei non sopportava più la permanenza a Ouagadougo, o piuttosto per sentirsi più libero.
Una lacrimuccia voleva farsi strada e schizzare fuori, ma non la lasciò passare. Si versò un bicchiere di vino bianco gelato. Da anni era il suo bicchiere preferito, quello da sola, al momento dell’aperitivo. Bach, il cane, la guardò e agitò la coda sperando che fosse l’ora della passeggiata.
Appoggiò il bicchiere quasi vuoto, suonò un Notturno di Chopin poi all’improvviso chiuse il pianoforte e decise di uscire. Controllò davanti allo specchio dell’ingresso se tutto fosse in ordine
«Andiamo, Bach» lui non se lo fece ripetere.
Il telefono squillò mentre stava rientrando. Corse all’apparecchio. «Pronto? Pronto, Carlo, sei tu?»
Niente. Maledette linee!
Entrò in cucina. Si versò un bicchiere di vino rosso, un Pinotage del 2011, mangiando qualcosa.
Si sentiva agitata: dopo quella chiamata, più niente. Quel silenzio non era da suo marito. Carlo si preoccupava sempre della sua serenità, anche se non della sua felicità. Nell’ultimo anno viaggiava circa tre settimane al mese, tornava, rientrava a casa il tempo di fare il cambio valigia, la portava a cena fuori, ridevano, parlavano, facevano l’amore tutte le sere come se si conoscessero da pochi mesi, poi ripartiva. Ma da quando era arrivata in Italia, del suo rientro non aveva più parlato.
Uscì di nuovo: si era dimenticata la carne del cane. Al ritorno chiamò l’ascensore, quindi entrò e, quando la porta si stava per chiudere, vide una persona che si affrettava. Era un giovane uomo di colore con le borse della spesa.
«Prego, venga» disse affabile.
Salirono, lui la guardava. Lei sostenne lo sguardo e gli sorrise.
«È nuova qui?»
«Sì, sono arrivata da poco più di un mese. E lei abita qui da molto?»
L’uomo esitò un attimo. «Ho un’amica al terzo piano, non abito proprio qui.»
Livia lo guardò con attenzione: un uomo intrigante e affascinante.
«La sento spesso suonare. È davvero un piacere ascoltarla.»
«Grazie, lei è molto gentile.»
Arrivato al piano, l’uomo uscì. All’attico, raccogliendo le borse della spesa, Livia si rese conto dello scambio.
Le pesche all’interno non erano certo la cena per il suo Bach.
Scese velocemente le scale sino al terzo piano nello stesso momento in cui il giovane usciva di casa con la sua busta in mano e scoppiarono a ridere.
«Non ci siamo presentati» disse tendendo la mano. «Sono Livia, piacere.»
«Issam, piacere mio» rispose stringendola con energia.
In quel preciso momento la Baldini scese le scale. La chiacchiera è assicurata, pensò Livia premendo di nuovo il bottone per salire a casa. Me la immagino, adesso andrà dritta da quella di fronte a raccontare chissà quale fantasia.
Livia ripensò al loro primo incontro: la donna era sul pianerottolo dell’attico proprio mentre stava uscendo col cane. Chissà da quanto tempo stava fuori dalla sua porta per aspettare il momento in cui lei e Bach sarebbero usciti per la passeggiata quotidiana.
«Oh, signora, è lei la nuova inquilina dell’attico?» le aveva detto. «Che piacere, mi chiamo Luisa. Se ha bisogno di qualcosa non si faccia scrupoli, abito al quarto piano, proprio qua sotto.»
Luisa le aveva fatto un sacco di domande, da dove venivano, che lavoro faceva il marito, se avevano figli... mentre parlava cercava di mettere il naso dentro casa, sbirciava con l’occhio lungo, ma aveva potuto vedere solo un salone grande, luminoso, con un pavimento lucidissimo. La buona educazione di Livia le aveva permesso di estorcerle più risposte di quanto avrebbe desiderato darle. Era stato Bach a mettere fine a quell’indesiderato interrogatorio iniziando a ringhiare, così si erano salutate.
Ora, Luisa Baldini attraversava la strada con passo da mezzofondista, suonò un campanello e sparì dietro il portone. Livia la vide mentre abbassava la tapparella della grande finestra nell’intento di ombreggiare maggiormente la stanza.
Nell’appartamento di fronte, invece, sulle ombre si faceva luce.
«Zaira, sapessi quel che ho visto, se te lo dico non ci credi. L’Africana si è già fatta l’amico!»
«Di’ su, ma cosa dici? Va’ là che non ci credo neanche se lo vedo coi miei occhi.»
«Mo se te lo dico io, che l’ho visto proprio coi miei occhi.»
«Ma cos’avrai mai visto?»
«Ero lì che passavo dalle scale tranquilla – avevo steso due panni – e cosa trovo? Quella braghira con uno e gli tiene la mano, con un sorriso largo così, tutta una moina come se fossero appena stati a... be’, non farmelo dire, va’ là.»
«Mo cosa mi dici! Ma a casa di chi? Di lei?»
«No, erano in un altro piano. Forse per non farsi scoprire. Invece io? Li ho beccati subito! E non ti ho detto la più bella: è un negro!»
«Ma non è possibile! Negro negro?!»
«Nero come il carbone» rimarcò Luisa.
«Ma non sarà mica quello che si vede ogni tanto entrare da voi?»
«Proprio lui! Che poi, adesso che mi ci fai pensare, sono arrivati nel condominio praticamente nello stesso periodo... e io lui lo vedo solo la sera.»
«Ma allora se lo è portato dietro dall’Africa! Ma fata roba! Ma sarà vero che è sposata? ’Sto marito non si è ancora visto... Domani vado da Rodolfo per farmi il colore, voglio proprio chiedere se sa niente...»
«Comunque si capiva che ne aveva della nascosta... sempre vestita da boutique... il mio povero babbo lo diceva sempre: La donna che cambia spesso il vestito cambia spesso anche il marito
.»
Capitolo 3. Mercoledì.
L’afa aveva tenuto sveglia Cristina fin quasi alle quattro, così quando aprì gli occhi