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101 perché sulla storia dell'Abruzzo che non puoi non sapere
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E-book438 pagine4 ore

101 perché sulla storia dell'Abruzzo che non puoi non sapere

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Info su questo ebook

Dall’autrice di 101 cose da fare in Abruzzo almeno una volta nella vita

Situato al centro dell’Italia, in una posizione di confine, strategicamente delicata, l’Abruzzo è stato conteso da romani, goti, longobardi, saraceni, normanni, angioini, aragonesi, francesi, austriaci… Ci troviamo dunque davanti a una regione che ha molto da raccontare e ha già vinto la sfida più importante: riuscire a conservare una sua identità ben distinta, quell’abruzzesità del cuore mantenutasi immutata persino in quanti si sono allontanati da tempo dai loro luoghi d’origine. Epiche dinastie, eroici episodi di resistenza, mitiche gesta di santi e briganti, parabole artistiche, colpi di scena, creazioni culinarie da guinness, avvistamenti e contatti extraterrestri: emergono di continuo sorprese e rivelazioni seguendo dalla preistoria al postmoderno la lunga avventura di una terra le cui provincie si rivelano ancora ai giorni nostri ben caratterizzate.

Con un approccio lontano tanto da quello di un testo scolastico quanto da un’erudita monografia, questo libro prova a ripercorrerne la Storia in un’innovativa modalità, affiancandola alla geografia, al folklore, al mito, all’antropologia, alle curiosità di un’attualità divenuta cosmopolita. Per dimostrare quanto l’Abruzzo di oggi sia ancora figlio dell’Abruzzo di ieri.

Ecco alcuni dei 101 perché più curiosi:

Perché la Madama s’innamorò dei suoi feudi?

Perché Mazzini si ritrovò ospite in un convento?

Perché l’interessamento di Carlo Magno è passato alla Storia?

Perché il lago di Scanno è magico tuttora?

Perché Chieti ha una triplice anima?

Perché il culto di Ercole ebbe un grande successo?

Perché la Scuola di Posillipo parlò abruzzese?

Perché gli alieni si scontrarono sui cieli aprutini?

Perché Pescara è legata alla nona arte?

Perché il più leggendario tesoro non è stato ancora scoperto?

Perché non di sola politica vive l’uomo?

Perché l’Abruzzo ebbe il suo Garibaldi?

Perché nel Nuovo Millennio la conca resta un evergreen?

Luisa Gasbarri

saggista, sceneggiatrice, studiosa del pensiero gender e docente di creative writing, ha inaugurato nel 2005 il genere noir shocking con il romanzo L’istinto innaturale. Autrice di racconti apparsi in volume per diverse case editrici, ha curato lei stessa antologie di narrativa dedicate a scrittori contemporanei. Con la Newton Compton ha pubblicato con successo nel 2010 il manuale 101 cose da fare in Abruzzo almeno una volta nella vita. Dialoga costantemente con i lettori dalle pagine del mensile «La Dolce Vita», che ospita da anni la sua rubrica, Scritto sul Kuore.
LinguaItaliano
Data di uscita6 nov 2014
ISBN9788854173583
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    101 perché sulla storia dell'Abruzzo che non puoi non sapere - Luisa Gasbarri

    es

    275

    Prima edizione ebook: novembre 2014

    © 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-7358-3

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Luisa Gasbarri

    101 perché sulla storia dell'Abruzzo che non puoi non sapere

    omino

    Newton Compton editori

    A mia sorella Carla, mia prima, paziente lettrice, per avermi sempre sostenuta con il suo affetto e la sua saggezza, nelle mie avventure letterarie e nella vita.

    Un grazie speciale ad Alessandra Penna, per l’incoraggiamento e la disponibilità dimostratimi nella realizzazione di questo libro.

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    Introduzione

    Raccontare l’Abruzzo in 101 perché.

    Una sfida insolita. Non facile.

    L’Abruzzo è un fitto intreccio di leggende, personaggi, accadimenti singolari ed eventi di snodo che ebbero a volte il potere di modificare la storia dell’Italia intera, varcando addirittura i confini nazionali.

    Non tutti conoscono a fondo questa regione sfaccettata e metamorfica.

    Talora ci si accontenta del sapere consolidato, di qualche luogo comune: Abruzzo patria mitica di pastori e transumanza secolare; Abruzzo cuore verde d’Europa tra parchi e riserve ricche di fauna e flora rare; Abruzzo ginepraio di scandali politici sontuosi e irrisolti; Abruzzo terra che trema, e travolge, con le sue fondamenta ancora divelte sotto un cielo pulsante d’azzurro…

    Eppure quanti risvolti impensati, quanti retroscena sconosciuti, dietro la sua storia millenaria che si dipana dal Paleolitico – qui ben rappresentato, tra le altre cose, da quell’unicum che fu l’Uomo del Fucino – agli ultimi movimentati decenni, che hanno visto le sue radici ibridarsi nel nome di una delle icone pop più rappresentative del Postmoderno!

    Curiosità imperdibili si celano tra i meandri delle età più disparate, dall’epoca romana a quella medievale, fino a giungere all’oggi, in un susseguirsi di dinastie regnanti, eroici episodi di resistenza, mitiche gesta di santi e briganti, parabole artistiche, colpi di scena, creazioni culinarie da Guinness, avvistamenti e contatti extraterrestri.

    Nel precedente 101 cose da fare in Abruzzo almeno una volta nella vita ho già delineato la geografia del fare, e sono grata a tutti coloro che hanno apprezzato il libro contribuendo a farlo girare per il mondo, perché l’Abruzzo non è solo una regione dell’Italia, bensì una categoria dello spirito, un’inclinazione dell’indole, e chi è nato qui o vi ha vissuto gran parte della vita, come me, forse intuisce di cosa si tratta: pure quando ci si trasferisce altrove o si diventa cittadini cosmopoliti, l’abruzzesità del cuore, per qualche misteriosa ragione, si conserva immutata.

    Spero affiori anche in questo nuovo volume che vede protagonista la storia, e il cui obiettivo non è tanto la ricostruzione erudita, quanto piuttosto il tentativo di restituire un po’ del passato attraverso le sue atmosfere, la sua vivificante relazione con il presente, il suo rapporto con i luoghi, in un incontro quanto più possibile accattivante e diretto.

    Penso inoltre a chi può ormai conoscere diversi aspetti di tale storia: scrivere un testo del genere provando a offrire spunti originali ai molti abruzzesi orgogliosi della loro terra, spesso dunque assai ben informati, è ciò che rende ben delicata la sfida, e in parte detta l’equilibrio e la rotta.

    Più si racconta, del resto, più ci si accorge che tutto non può comunque essere raccontato.

    Si immagini allora un moderno divertissement da flâneur, come si sarebbe detto un tempo, ovvero una passeggiata trasversale e divagante, in cui lo stato d’animo si predispone alle sorprese che solo l’andare a zonzo attraverso i secoli può offrire. Perché i percorsi che più seducono, sono fatalmente sempre i più imprevedibili.

    Provincia de L’Aquila

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    1. Perché L’Aquila ha perso l’anima?

    Una parte dell’umanità è attratta dalla scabrosità. Dall’imprevedibilità delle superfici irregolari. Dai rovesciamenti. Predilige le storie storte, non allineate. Predilige i segreti, l’aura che si portano dietro.

    E la storia de L’Aquila oggi è una di esse: benché la si celi, è incapace di pacificare. Immaginate qualcuno uscire dalla vostra anima arredata di tutto punto e spegnere la luce lasciando la porta aperta, e che dalla fessura entri una corrente gelida. Cosa si fa avvertendo il brivido dentro?

    La censura più grande è scambiare i segni.

    Se qualcosa non si riesce proprio a cancellare, basta prenderne un pezzo alla volta e farlo diventare parte di qualcos’altro. Naturalmente ogni pezzo sganciato dal contesto originario assume significati nuovi, spesso opposti. Ma in guerra e in amore tutto è lecito, e la storia è fatta più di guerre che di amori. Così l’aquila, che era stata il glorioso emblema dell’Impero romano, finì per ritrovarsi insieme alla croce uncinata sulle divise delle ss. Accadde perché se ne smarrì il senso simbolico: nessuno ricordava che d’aquila erano state in origine le ali di Iside e Lilith…

    Alla città che per eccellenza all’aquila è consacrata, è accaduto lo stesso.

    Un pezzo alla volta è stato preso e semplicemente spostato altrove. Non ci si è preoccupati che diventasse parte di qualcos’altro. E il risultato è che ora nessuno si sente più parte di niente. Dal punto di vista edile, non c’è stata alcuna ricostruzione, ogni cosa è ancora fatiscente, esibisce un ritmo sincopato di squarci e concentrazioni materiche informi. Le New Town non hanno sostituito il centro storico: sono state erette in un altrove ai margini, lontano e anonimo, dove un freddo piatto e impersonale taglia l’anima e fa sentire più impotente e malinconica la popolazione degli sfollati.

    Non riconoscersi nei luoghi rende stranieri. E a L’Aquila si è ormai tutti stranieri.

    La città è indicata ancora su carte geografiche, guide turistiche. Si incontrano i cartelli, i segnali stradali. In realtà al suo posto c’è un’assenza, non scabra bensì scabrosa, perché una città è soprattutto spirito, atmosfera, collettività. E, su tutto, appartenenza. Dirottata in massa verso gli anelli periferici di nudo cemento, la gente stenta adesso a riconoscersi, non ha punti di rifermento, i vicini di un tempo sono dispersi tra i neutri palazzi nuovi, la familiarità dei quartieri disgregata.

    Quando lo spirito evapora, a poco serve la luce al neon fasulla e senza grazia dei centri commerciali. I pub, i negozi antichi, le passeggiate sotto i portici sono una nostalgia dolorosa. Se esci la sera e vai nel cuore della città, il silenzio ti azzanna, ti strangola dentro. Eppure nessuno lo dice. La disperazione è quanto si smette di raccontare più in fretta. Perché la gente qui s’ammala nel cuore ora. Il silenzio è troppo profondo, sterile, quando camminando senti distintamente il rimbombo dei tuoi passi, percepisci lucidamente il buio.

    Ci sono persone sedotte da ciò che è scabro, è vero. Persone che destinano laici pellegrinaggi alla volta di fabbriche dismesse, di sbilenchi capannoni industriali, o di stazioni dove i treni non si fermano più. Ci sono angoli dove lo squallore inebria, assume una sua cifra poetica impensata. Del resto l’irreversibilità impressa sulle cose ben rispecchia il fatalismo delle donne. Non è però lo stesso passare tra le macerie, tra i muri tenuti su a forza dietro le reti di metallo contenitive, davanti agli occhi divelti delle voragini.

    Una fabbrica abbandonata è carica di suggestioni, è ancora intrisa di luce: è stata la vita a consumarla, poi l’ha solo scavalcata per procedere oltre.

    È il motivo per cui a Roma ti abitui a muoverti tra i relitti di un mondo che non c’è più. È un mondo di cui non avverti la ferita dilatata dalla perdita; la cicatrizzazione è perfetta.

    Solo la piaga aperta dalla privazione improvvisa non diventa mai cicatrice. E le macerie sono impregnate di un buio acido che non va più via: non riesce a ravvivarle il sole, non riesce ad addolcirle la luna. Erano case vive un giorno, ma la brutalità vistosa con cui hanno smesso di esserlo, ora balza addosso oscena: il fatalismo che porta a comprendere la ciclicità della vita non trascende in saggezza lunare qui, semmai si ripiega nella rassegnazione cupa che è dei capolinea o dei disastri ferroviari.

    Così segnata, L’Aquila è una città ancor più misteriosa. La fondò Federico ii, l’imperatore ambiguo, lo stupor mundi che sfidò la Chiesa. E vi soggiornò il papa più imbarazzante della storia, quel Celestino v che trafficava coi Templari. L’Aquila ha avuto dunque una storia illustre, e questa storia era la sua anima, ma il passato ha valore finché converge sul presente di cui siamo parte. E il presente qui oggi si muove non grazie alla politica delle promesse inevase che si consuma altrove e non sblocca fondi, o ambiguamente li fa sparire, ma ad opera delle donne – le donne non terremotate ma terre-mutate, si badi bene – che hanno fatto risuonare il grido delle sorelle d’Onna per tutt’Italia.

    Tale solidarietà ritrovata, simile a una rete di Penelope che ha congiunto le donne aquilane alle altre donne d’Abruzzo e del mondo, attraverso iniziative, incontri, progetti, è l’unica ricostruzione reale che si sia compiuta davvero, guidando l’energia femminile alla riscoperta del sé, trasformando il dramma in un risveglio dalle molteplici diramazioni, il mutismo in rinnovata voglia di canto. Di canto corale.

    Cinque anni dopo il terremoto che ha colpito una delle città più belle d’Italia, la storia è ancora interrotta, il conto dei giorni raggelato: è stata annunciata la rinascita, ma rinascita non c’è stata.

    Quando nell’anima una porta rimane aperta, stride imperiosa sui cardini.

    Pur oliandola quotidianamente, le aquilane TerreMutate oggi fanno stridere forte quella porta. Dall’inizio del mondo, è concesso proprio alle donne il paradossale privilegio di lenire il dolore, accarezzando superfici scabre come antri di sibilla, e al tempo stesso di mantenerlo vivo tramandandosi l’un l’altra la storia storta che nessuno vuol ricordare.

    Quel rovesciamento per cui solo dalla caduta si prende slancio per il volo.

    E dalla distruzione il coraggio di rimettere in sesto la vita.

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    2. Perché gli aquilani invidiano gli abitanti del Cairo?

    L’Aquila prende il suo nome da Acquilis o Acculi o forse Acculae, per l’abbondanza delle sorgenti che vi si trovavano. Va da sé che un nome del genere la destinò a divenire città imperiale per antonomasia, dal momento che l’uccello simbolo dell’antica Roma spiccava sul suo stemma quanto su quello degli Hohenstaufen e a progettarla pare sia stato proprio Federico ii, che fu infatti l’ultimo imperatore d’Occidente.

    Nonostante volesse illudersi del contrario, che l’impero fosse agli sgoccioli ne ebbe sentore anche Dante, che non smise mai d’interessarsi dell’argomento e che per l’impero palesava un debole dichiarato benché, inflessibile al suo solito, non si astenesse dal mettere all’occorrenza Federico tra le fiamme dell’inferno insieme agli eretici.

    La casata degli Svevi sfornò, a ogni modo, gli ultimi sovrani convinti della legittimità della loro posizione regale. Il Sacro romano impero – ossimorico già nel nome dal momento che l’Impero romano originale si era caratterizzato come sacro sotto l’egida del cristianesimo solo per un secolo o poco più prima di scomparire – non sopravvisse loro. In seguito di impero propriamente non si potrà più parlare: a fare la storia saranno gli Stati nazionali, e i fantomatici tentativi di restaurarlo aggregando questi ultimi come tessere di un puzzle, si prospetteranno più alla stregua di epigoni casuali e di facciata che quali realizzazioni politiche davvero credibili o durature a livello internazionale (si pensi ai roboanti exploit di Carlo v o di Napoleone).

    Se nel Basso Medioevo il capoluogo abruzzese si definisce dunque Aquila tout court, occorre tuttavia seguirne gli interessanti sviluppi toponomastici fino in fondo.

    L’oscillazione storica più significativa si registrò quando la città divenne Aquila degli Abruzzi (dopo l’Unità d’Italia e fino al 1939), determinando i confini d’azione dell’Aquila succitata attraverso il complemento di specificazione.

    Quando l’utilizzo del complemento venne meno, il nome della città seguì quindi un cammino esattamente inverso rispetto a quello di altre note località (vedi Il Cairo, la Mecca, L’Avana). Esse devono infatti l’articolo all’influsso della tradizione popolare, che se ne appropriò con affettiva possessività linguistica, o all’etimologia, come quelle provenienti dall’arabo, per cui dell’iniziale tautologica particella – nel loro caso scritta perciò indifferentemente con la lettera minuscola – potrebbero al limite fare a meno. La tendenza attuale è orientata a farla addirittura scomparire: nell’era del messaggino il superfluo va eliminato, le parole si riducono a segni solitari (x al posto di per) o all’essenziale, con contrazioni che richiamano l’arcaico uso biblico ebraico di annotare le sole consonanti, e allora ben venga spazzar via articoli, avverbi e norme ortografiche standard!

    Si dà il caso che esistano però in Italia due singolari eccezioni: La Spezia e L’Aquila, appunto. Entrambe vogliono non solo l’articolo ufficiale, ma che sia scritto con la maiuscola, e non si tratta d’un capriccio letterario: lo stabiliscono due decreti legislativi risalenti agli anni Trenta a salvaguardia dell’identità dei due luoghi (e la disposizione amministrativa riguardante la città d’Abruzzo, sottraendole la pole position nell’elenco delle province, ben provocò i suoi malumori).

    Si sfiora dunque l’attentato linguistico, o se non altro la mancanza di rispetto, scrivendo «vado all’Aquila», «vengo dall’Aquila», «mi trovo all’Aquila» come lo sarebbe dire «vivo a Spezia»: persino «abito a Avana ma preferisco Cairo» sarebbe più accettabile, visto che il primo toponimo vuole l’articolo solo per abbreviazione del lungo nome originale e il secondo per mera conservazione dell’al arabo, che nella variante anglosassone si omette per esempio tranquillamente.

    Nessun americano direbbe del resto «parto per Angeles», per cui mantenere la versione corretta e scrivere «arrivo da L’Aquila» non è solo un omaggio rivolto all’ortografia ma alla lingua italiana tutta.

    E poiché una città chiamata Aquila in Italia non c’è, il toponimo del capoluogo d’Abruzzo richiederebbe davanti a sé solo preposizioni semplici, con buona pace del nostro uso disinvolto di quelle articolate, cui paradossalmente non si sottrae neppure lo stesso decreto del 1939 quando scrive «Provincia dell’Aquila».

    L’uso delle parole è importante: salvaguardarne i significanti è preservarne la storia, però è anche la basilare garanzia perché esse mantengano immutati i loro significati.

    Naturalmente si sa che la lingua tende a evolvere spesso in direzione delle lezioni errate che, a forza di moltiplicarsi nella maggioranza di parlanti e scriventi, e dai più quindi ormai inavvertite, s’impongono grazie alla forza della consuetudine.

    Capitò lo stesso al volgare, all’inizio solo un latino strapazzato dalle abitudini colloquiali del volgo che si configurò però alla lunga come una lingua nuova, il nostro italiano.

    Tuttavia se deragliano le parole deragliano i sensi, i valori, ed è perciò abbastanza sconcertante che il luogo un tempo sovrano nell’elaborazione e preservazione del sapere, sia tra i primi ad aver abdicato: l’ateneo locale, a onta del suo essere il più antico della regione, ha preferito la versione vulgata e si fregia oggi della dicitura Università degli studi dell’Aquila, immortalata a chiare lettere in alto lungo l’entrata.

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    3. Perché le discendenti di Lucy avrebbero trovato compagnia nel Fucino?

    Il contributo dell’Abruzzo alla ricostruzione della Preistoria in Italia è a tal punto significativo che addirittura tre periodi prendono il nome da sue località celebri per i ritrovamenti in esse avvenuti: la cultura Bertoniana, da Montebello di Bertona (pe), è relativa al Paleolitico superiore, quella di Ripoli, da Ripoli (te), riguarda il Neolitico, mentre quella di Ortucchio, da Ortucchio (aq), l’Età del Bronzo.

    Tra i 14.000 e i 10.000 anni fa sulle rive del lago del Fucino – la cui bonifica, congiungendo gli sforzi di Cesare a quelli di Mussolini, attraversò i secoli e divenne leggendaria – viveva un gruppo di nostri antenati particolarmente fortunati, i cui resti ci hanno permesso di ricostruire la vita dell’Abruzzo più remoto.

    La vicinanza a fonti d’acqua, nel nostro caso al lago, rappresentava infatti una possibilità di sopravvivenza tra le migliori, garantendo cibo, risorse e mitigando anche il clima, come ben sanno i turisti che ancora oggi amano campeggiare nei pressi dei grandi laghi abruzzesi.

    Per l’Uomo del Fucino il lago divenne addirittura motivo di pigrizia: in zona si protrassero più che altrove le attività di raccolta e di caccia spontanea, visto che la vita degli stessi animali era regolata dalla presenza del lago, e dunque era quasi superflua una soluzione meglio organizzata quale stava diventando altrove l’agricoltura. Nella notte dei tempi le tende e i camper non erano ancora stati inventati, ci si accontentava di caverne e anfratti naturali imprigionati tra le rocce, e qui, per la gioia dei paleontologi, preziosi reperti sono stati rinvenuti in grotte dai nomi che sarebbero piaciuti ad Alì Babà e i quaranta ladroni: La Cava, La Punta, Maritza, dei Porci (i quaranta ladroni non potevano che possedere un’inclinazione all’edonismo…). Ironia a parte, nel leggere le descrizioni dei frammenti ossei ritrovati, tanto indifferenti non si rimane: scopriamo che l’Uomo del Fucino aveva fronte bassa, arcate sopraorbitarie assai pronunciate, mandibole piuttosto alte, cranio allungato dalle ossa spesse, denti imponenti dai molari ipertrofici, mastoide notevole. Insomma un esemplare ben carrozzato si direbbe oggi, o se non altro fornito al punto giusto d’imperiosi attributi virili.

    Ero rimasta alle ossicine dell’australopiteca Lucy con cui avevo familiarizzato fin dai tempi del sussidiario, e Lucy era mingherlina, faceva quasi tenerezza: benché fosse vissuta circa tre milioni e mezzo d’anni fa, immaginare che suoi presunti discendenti si fossero evoluti con tale protervia, attraverso sì appariscenti, per quanto millenarie, mutazioni, un po’ mi preoccupava.

    Nella battaglia per la sopravvivenza Lucy era stata vinta: la madre dell’umanità, come alcuni amano definirla, forse proprio per la sua delicatezza era rimasta al di qua della soglia dell’homo, per sempre fragile, poco adatta alle condizioni estreme del mondo, simile a un’apparizione, a un’ipotesi genetica lasciata sfumare. La direzione vincente era stata quella della forza, del grugno prognato, delle ganasce mastodontiche, espressione di animalità convinta e feroce. Gli uomini del Fucino infatti sembravano ben più aggressivi e prepotenti di lei, inquietava anche la loro altezza, sorprendentemente simile alla nostra, 170 centimetri contro i 107 della piccola Lucy. Per non dire che la mancanza di alcune parti del corpo, notata dai paleontologi sui siti dei ritrovamenti, pareva alludere a scenari più truculenti che csi: piedi mozzati, arti innaturalmente piegati, vertebre e teste rimosse, sostituite da pietre…

    A pensarci la Preistoria ha un suo oscuro fascino: tutto un susseguirsi di ominidi impegnati a passare da un continente all’altro, un surclassarsi di razze, sviluppi e arresti e selezioni biologiche a ripetizione, sconquassi climatici, predoni e predati ovunque. Nell’area mediterranea l’Uomo di Neanderthal sostituì per esempio l’Homo erectus e s’impose come unico abitante per più di 40.000 anni, per venir poi rimpiazzato a sua volta dall’Uomo di Cro-Magnon.

    In tale bailamme l’Uomo del Fucino si destreggiò con inconsueta furbizia: seppe miscelare le caratteristiche del tipo cromagnoniano con quelle del tipo neandertaliano, anticipando con squisita tempestività la tendenza al trasformismo dell’italiano medio.

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    4. Perché Giulio Cesare mostrò qui la sua lungimiranza?

    Il lago del Fucino, nel cuore della Marsica, era per grandezza il terzo lago della penisola, tanto che Strabone lo aveva paragonato a un piccolo Mediterraneo.

    La vegetazione fioriva rigogliosa all’intorno se è vero che la popolazione dei Marsi era rinomata per la conoscenza delle piante da cui venivano estratti succhi prodigiosi per guarire ferite, curare malattie e distillare elisir. Ma quando queste terre furono conquistate dai romani, un genio ambizioso come Giulio Cesare provò a osservare il lago con lo spirito pratico che contraddistingueva il suo popolo, maturando l’audace disegno di prosciugarlo attraverso la costruzione di un emissario che facesse defluire le acque. In questo modo si sarebbero ottenuti vasti territori fertili da destinare soprattutto alla coltivazione del grano, prodotto che Roma era costretta a importare dalla Sicilia, dall’Egitto, dalla Spagna… con eccessivo dispendio di risorse.

    Forse a fare la differenza tra gli individui è proprio la capacità di guardare oltre il presente immaginando il futuro in modo grandioso: una tiepida fantasia non asseconda grandi disegni e senza grandi disegni non s’incide sulla realtà in modo radicale. Giulio Cesare partoriva dunque sempre idee esagerate: riscrivere le leggi unificando il codice, unire il litorale tirrenico a quello adriatico, aprire un’immensa biblioteca popolare, bonificare paludi sterminate, tagliare istmi… La lungimiranza progettuale non sempre però si accompagna alla lungimiranza sul piano personale, ed egli cadde vittima dell’invidia dei cospiratori, dotati assai meno di lui d’immaginazione, visto il modo ordinario in cui decisero di toglierlo di mezzo impedendogli di mettersi alla prova in tali straordinari progetti.

    Le buone idee, tuttavia, spesso sopravvivono agli uomini che le elaborano, così, se Augusto evitò di farsi coinvolgere considerando pazza la prospettiva d’intraprendere una simile opera, e Tiberio e Caligola furono forse troppo pazzi per conto loro da perdere tempo anche solo a pensarci, Claudio proseguì nell’intento realizzando l’emissario in undici anni d’indefesso lavoro ottenuto con l’impiego di migliaia di schiavi. Il raggiunto traguardo venne celebrato nel 52 d.C. con una sfarzosa naumachia, la rappresentazione di una battaglia navale che si svolse, racconta Svetonio, sulle acque del lago. Purtroppo per un errore nel calcolo del livellamento, quando l’acqua fu fatta defluire nella galleria di 5653 metri che era stata tanto faticosamente scavata, ci si rese conto che il lago non si sarebbe svuotato affatto. Agrippina non si lasciò ovviamente sfuggire l’occasione e accusò Tiberio Narciso, il liberto di fiducia di suo marito che aveva presieduto alla realizzazione dell’opera, di essersi arricchito con i fondi destinati all’appalto: evidentemente appropriarsi indebitamente di denaro pubblico in Italia andava già di moda nel i secolo!

    In seguito, nonostante interventi sporadici, la situazione si mantenne pressoché invariata.

    Soltanto nel 1854 – quando si ripresero i lavori grazie all’impegno del banchiere Alessandro Torlonia, poi giustamente insignito del titolo di Principe del Fucino, che vi profuse tutto se stesso facendosi carico di coinvolgere maestranze di specialisti, carpentieri, tagliapietre, geometri, provenienti anche dalla Francia – il progetto fu infine condotto a compimento.

    Va anche considerato che, pur non essendoci prove di un reale condizionamento climatico da parte delle acque del lago, il Fucino causava inondazioni e si presentava talvolta più simile a una palude, con tutti i danni conseguenti per gli abitanti della zona (la stessa etimologia del suo nome andrebbe ricondotta, pare, alla melma del luogo).

    La nuova galleria che venne scavata fu rivestita in parte con mattoni in parte con pietra, entrambi delle qualità migliori.

    Le acque cominciarono a defluire nel 1862: nel 1876 il prosciugamento poteva dirsi terminato. Degli oltre 16.000 ettari di terreno coltivati, 2500 furono concessi agli abitanti e ai comuni rivieraschi, i rimanenti restarono di proprietà del Principe Torlonia e furono divisi in 497 appezzamenti di circa 25 ettari l’uno.

    La storia del Fucino non si arresta naturalmente qui: l’emigrazione verso l’Eldorado agricolo cominciò subito, insieme al malcontento per la gestione delle terre che intensificò col tempo le lotte contadine, la cui battuta d’arresto si ebbe solo per il terribile terremoto del 1915; poi arrivò il boom economico, l’industrializzazione.

    Va almeno ricordato l’eccidio di Celano del 30 aprile 1950, episodio storico non ancora chiarito in tutti i suoi aspetti, durante il quale due braccianti rimasero uccisi a seguito dei colpi d’arma da fuoco sparati sui lavoratori riuniti in piazza per le proteste di uno dei tanti scioperi alla rovescia che in quegli anni turbolenti infiammavano l’Abruzzo, e che in questo caso esasperò il teso braccio di ferro col nuovo Principe Torlonia.

    Oggi oltre al grano, nell’area si coltivano patate, barbabietole, carote, radicchio; nelle propaggini marginali anche viti e alberi da frutto. Data l’esigenza di diversificare le colture che ora si registra nel settore agricolo, una delle ultime intuizioni è stata quella di investire nella produzione di bulbi da fiore e fiori di lago.

    Tuttavia, scorrendo con lo sguardo i colori dei campi nella vasta pianura del Fucino, il pensiero torna ancora al grande uomo politico romano. Forse, contemplando questi luoghi più di venti secoli dopo, Cesare si sarebbe compiaciuto del fatto che in fondo una grande idea conta più del tempo che si impiega a realizzarla.

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    5. Perché il segno celeste di Costantino va cercato in Abruzzo?

    Eusebio di Cesarea narra nella sua Vita di Costantino un segreto confidatogli dall’imperatore in persona: intorno a mezzogiorno, mentre stava andando a Roma per combattere Massenzio, Costantino vide percorrere il cielo da un movimento di luci inspiegabile e miracoloso e apparire luminosissima la scritta che opportunamente tradotta dal

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