L'ultima battaglia dei pirati
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Un neonato con una strana escrescenza sul petto a forma di cuore viene trovato in una chiesa semi-sommersa e viene adottato da un nobile del luogo. Prende il nome di Casimiro Gravina Palagonia, ma il suo tutore Exquemelin insiste a chiamarlo misteriosamente Camargorey. Cresce in fretta il trovatello, fino a diventare un comandante della Marina maltese. Durante un’incursione incontra sulla sua strada il temibile Jodd Spenlow, a capo di una masnada di mercenari assassini, che, durante il combattimento, gli trancia di netto una gamba. Ma il giovane Camargorey non si dà per vinto: con la sua gamba d’avorio intarsiato, guida un piccolo gruppo di gregari – Exquemelin, il falcone da riporto Felipe e Mamàn Flor, piratessa creola strappata al patibolo – fino a Sante Marie, un isolotto del Madagascar, dove fonda la libera comunità di Forte Misson.
Comincia così un’epica sfida tra Camargorey e Spenlow lungo le rotte degli oceani, tra le carceri di Londra, i postriboli di Port Royale, isole sconosciute e bui angiporti, tremendi pericoli e straordinari tesori, fino alla scoperta di un inconfessabile segreto…
L'avventurosa storia del pirata dalla gamba d'avorio
Lungo le rotte degli oceani, tra sanguinarie battaglie, amori travolgenti e straordinari tesori
I personaggi del libro:
Camargorey
Affascinante e coraggioso, sempre in lotta con l’eterno nemico Jodd Spenlow, il diavolo di tutti i mari
Jodd Spenlow
Corsaro senza scrupoli, sfregiato, semina il terrore per mare e sulla terraferma con il suo manipolo di feroci mercenari
Miranda
Leggiadra sirena, veglia sul comandante Camargorey seguendo il suo misterioso e bizzarro destino
Paolo Sciortino
Giornalista professionista, ha lavorato per agenzie di stampa, quotidiani, radio e testate online, occupandosi di cronaca, politica, cultura e costume. Ha scritto canzoni, sceneggiature, storie di città, testi per il teatro, per l’arte contemporanea e per la pubblicità. Con la Newton Compton ha già pubblicato Misteri, crimini e storie insolite di Milano.
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Anteprima del libro
L'ultima battaglia dei pirati - Paolo Sciortino
PROLOGO
«Addì, quattro del mese di marzo dell’anno di grazia 1684.
La colonia di mitili bivalvi, annotata non oltre una quindicina di giorni orsono, appare vistosamente riprodotta, ancorché…».
Il dotto Exquemelin – medico e scienziato viaggiante, chirurgo di bordo e notista storico – aveva già accumulato interi scaffali di taccuini e calepini fitti di disegni e descrizioni naturalistiche di ogni sorta, senza dire della pubblicazione di una famosa Storia dei bucanieri delle Antille, frutto letterario di non poco talento ricavato da osservazioni diaristiche negli angoli più remoti dell’orbe terracqueo. Ma provava un irrinunciabile diletto nella contemplazione dei più piccoli fenomeni del Creato.
Anche su quel tratto di costa siciliana, lasciata Palermo verso oriente, sotto l’ombra del Mongerbino – dove lo scienziato aveva trovato asilo presso una nobile famiglia locale come medico, mentore e tutore – egli non perdeva occasione per arricchire la sua personale enciclopedia.
«…Ancorché la bramosia pescosa della popolazione litoranea trovi gran piacere gastronomico in queste cosiddette, nell’idioma locale, cuozze
, e ne faccia strame a ogni…».
Exquemelin si interruppe all’improvviso, quando, lasciando saettare uno sguardo distratto oltre gli occhialini a pince nez che gli aveva regalato un ottico olandese, suo connazionale, travisò una bambina seduta sullo scoglio di fianco alla piccola chiesa eretta sulla secca di Aspra, che pareva sorgesse dalla marina.
L’alba lasciava sospettare ancora una volta un’altra rotazione ben riuscita. Pochi pescatori, però, dal porticciolo oltre la chiesa, credevano nella giornata e, perciò, armavano mal volentieri le loro lance da pesca. Dallo scoglio dov’era seduta la bambina proveniva un canto dolcissimo e mai udito da orecchio umano, una nenia angelica intonata al ritmo delle piccole onde dell’aurora.
Exquemelin ripose il calepino e il lapis a carboncino nella sacca di cuoio incrostata dalla salsedine di tutti i mari e si avviò, lambendo con gli orli del suo caffetano il pelo dell’acqua, verso la misteriosa apparizione, e confidando nei suoi santi ché lo proteggessero dalle insidie degli scogli piatti ricoperti di alghe scivolose.
Lo scienziato aveva abbondantemente passato i quarant’anni, non era più l’agile e incosciente ricercatore di un tempo, ma il piede marino, senza dubbio, lo aveva. A pochi passi dalla bambina, che stava sempre di schiena e a testa bassa, nascosta da lunghissimi capelli neri e fluidi, Exquemelin perse l’equilibrio e bestemmiò scompostamente affondando il deretano in un osculo di pietra vischiosa, che a ogni risacca pareva addentato da un enorme calamaro capovolto. La bambina smise di cantare, si voltò lentamente mostrando il suo viso, avvolto in una prodigiosa capigliatura.
Di lei, Exquemelin, pur dalla sua specola imbarazzante, indovinava un’età superiore a quella stimata da lontano: una ragazzina già formata, anche se della bambina le fattezze conservavano una memoria freschissima.
Senza dire una parola, la giovane creatura si mosse con elegante disinvoltura, quasi levitando sulle pareti sdraiate della battigia pietrosa, verso l’uomo intrappolato a pelo d’acqua.
Anche il cerusico aveva smorzato la sequenza oscena di imprecazioni seguita alla sua caduta e osservava con la controllata inquietudine degli uomini di scienza l’avanzata della misteriosa ragazzina.
Exquemelin annotava mentalmente e con disciplina esaminatrice: "Lunga chioma nero brillante, riflessi di cobalto, occhi cangianti e magnetici come gemme sottomarine, indecifrabili tatuaggi su tutto il corpo, simili ai segni copiati dall’antico diario di bordo di un conquistador, che aveva fatto la traversata delle Ande e visto dalla cima della cordigliera vastissimi tracciati stradali sugli altopiani, con forme logiche ma inspiegabili".
Inoltre la ragazzina era vestita, sebbene molto poco, in una foggia che in quelle contrade l’avrebbe esposta alla lapidazione immediata: le gambe erano nude quasi fino all’inguine, stretto in un gonnellino aderente e sfrangiato, che pareva di pelle animale. La parte superiore del corpo era ricoperta solo da una nobilissima livrea azzurra, ricamata in oro, come quelle dei principini capetingi ritratti nelle corti che in gioventù Exquemelin aveva avuto modo di visitare.
«Chi sei tu, in nome di Dio?», grugnì lo scienziato, sempre sospeso a gambe aperte sulla bocca di roccia che lo sorreggeva.
«Il mio nome è Miranda», rispose la ragazza con una voce che sembrava provenire dalla sacca amniotica da cui nascono gli dèi. Un gorgheggio del Paradiso.
«E da dove vieni, nel Sacro Nome dei santi?».
Miranda paralizzò Exquemelin con uno sguardo che lo morse come una torpedine, poi la ragazza si fece più avanti e gli allungò una mano. Con una mossa da danzatrice e la forza di un carpentiere, lo stappò dall’imbuto di scoglio dove si era ficcato. Lo scienziato fu all’impiedi in un istante, e Miranda lo condusse all’interno della piccola chiesa. In un fonte battesimale in pietra di tufo, asciutto e foderato con reti da pesca, vagiva un neonato.
«Santi tuoni!», esclamò Exquemelin.
L’uomo, in uno stato prossimo alla catatonia, che invano cercava di combattere con la ragione scientifica, assistette a qualcosa che nemmeno un chirurgo abituato a sezionare crani umani da vivi si sarebbe mai aspettato di vedere. Il piccolo aveva il cuore in rilievo al centro del petto, che si dilatava e restringeva al ritmo del suo respiro. E ai piedi del lavacro vi era un’arma spaventosa: una pistola a canna dritta dal calibro inaudito, un piccolo obice che si poteva reggere solo a due mani.
«Potenze in Terra!», riuscì a sibilare Exquemelin.
Un’impercettibile espressione di dolore costrinse la curva perfetta degli occhi di Miranda a una smorfia triste, ma subito riconquistò la sua beffarda fissità e guardò lo scienziato, intorpidendolo ancora una volta.
Gli disse qualcosa che a lui sembrò di comprendere, riguardo al posto da dove era venuta, e dove sarebbe tornata, anche se i suoni che uscirono dall’ugola della ragazzina parevano le note di un’adunata di angeli.
Al termine del suo inno, Miranda raccomandò a Exquemelin di prendersi cura del bambino e della sua arma. Lo fece con la grazia perentoria e assoluta di un ordine proveniente da un mondo superiore.
Si voltò accompagnata da un’onda anomala di capelli che deliziarono le narici dello scienziato e il corpo del bambino, tra refoli di ambra e di alghe. Un’essenza da sogno per ogni cosmetista, che si mischiò allo zefiro e all’aroma delle prime zagare che salutavano la Terra con l’incedere della primavera.
Miranda svanì in un tuffo spumeggiante, riemerse a molte braccia dalla riva e impennò l’intero tronco al di sopra dell’orizzonte. A mezza figura, stava eretta in una leggera schiuma, sullo sfondo dell’abside rustico della chiesa affiorante dalla marea. La creatura si lasciò inghiottire lentamente dal mare, come il bompresso di una nave che affonda. L’ultima cosa che Exquemelin vide, proprio nello stesso punto in cui scomparve Miranda, fu la sua coda striata di onice e turchese, simile a quella di un maccarello, che si agitava in segno di saluto.
1. sicilia
«Addì, ventidue novembre dell’anno di grazia 1696.
Rileviamo con sorpresa che le talee di pale di fichi d’india piantate prima dell’estate hanno germinato, pur in mancanza totale di irrorazione artificiale, ancorché…».
Exquemelin dettava con la nuova passione del botanico le sue scoperte, mentre i molti componenti della famiglia dei principi di Gravina Palagonia prendevano l’ultimo sole della stagione. E di quell’ultimo giorno della loro esistenza dorata.
Lo scienziato era accompagnato nei suoi rilievi botanici dal giovane illegittimo. Il principe Bernardo aveva imposto al bambino il nome di Casimiro, e gli aveva concesso il blasone di marchese. Ma aveva completamente affidato al buon medico le cure della sua educazione, anche se il ragazzo aveva regalato non poche soddisfazioni al patrigno, soprattutto in occasione delle battute di caccia col falcone. Il piccolo dimostrava un lignaggio naturale nel cavalcare e nell’addomesticare i rapaci. Ma Casimiro era altrettanto interessato ai misteri della scienza e della filosofia, tanto che si prestava volentieri a raccogliere sul calepino del maestro le sue osservazioni.
I due si trovavano nelle limonaie costeggiate dalla vegetazione grassa delle vaste pertinenze del palazzo, fatto costruire dal principe alle falde del monte Catalfano, in contrada Baharìa, dopo una sedizione di viceré palermitani guidata da un viceré riottoso.
«…Ancorché?…», fece Casimiro al precettore, ansioso di proseguire l’analisi.
«…Ancorché, ragazzo mio, la fame atavica dei villici che abitano nei pressi del tuo casato non li costringa, quasi ogni giorno, a razziare le mie piantagioni ai primi frutti, dannati farabutti. Ma la fame è una tollerabile nemica della scienza, mio buono. Non trascrivere queste ultime note», concluse lo scienziato, mai dimenticando di dovere essere anche un buon esempio per il giovane principe elettivo, poiché la famiglia adottiva non era del tutto equilibrata in materia di etica sociale.
Tutto il sangue nobile dei Gravina Palagonia, quarto ramo cadetto, animava la vita del bel giardino all’italiana dell’esedra sul fronte posteriore della villa. La principessa madre sgranava un rosario d’avorio, debito devozionale dell’ultima novena; rampolli di ogni età marachellavano sulla ghiaia e sulle aiole coltivate a gerani, mentre le balie sollevavano le loro sottane alle caviglie, per stare appresso agli eredi, scalmanati dopo le ore di studio alla spinetta, ai cembali e ai volumi di grammatica; il principe Bernardo compulsava al telescopio le prime stelle del tramonto.
Il dirupo retrostante la cinta di ponente, al di là della piccola cappella decorata a rose e croci templari, si rannuvolò in un tafferuglio di polvere e latrati, un boato di zoccoli e grida invase come una valanga infernale il giardino, un gruppo di dodici uomini a cavallo si riversò a schiera compatta nella quiete secolare del palazzo.
Ogni cosa o persona fosse a portata di spada o di garretti fu spazzata via senza pietà.
Dei giardinieri che attendevano alle siepi – i primi a essere travolti dal mucchio – non restarono che fattezze deformate e mutilate; i bambini che si erano avventurati al limitare dell’esedra furono trucidati e calpestati, alcuni tagliati a metà dalla furia degli spadoni, altri, con lo sterno sfondato dalle picche degli assalitori, furono trascinati come trofei fino alle file di donne sedute e paralizzate dal terrore sotto le verande. Nonne, zie e nutrici furono violentate da una mezza dozzina di incursori smontati dai cavalli. Mentre le povere femmine si accasciavano sui tendoni di lino imporporati di sangue, il vecchio principe tentò una fuga dagli scaloni di servizio, ma fu inchiodato a un arazzo da una lancia pesante sei libbre, con una lama che avrebbe tagliato una quercia come un tronco di sapone.
Ogni cosa vivente era morta. Anche le mosche e le api avevano abbandonato l’ambiente.
La polvere e le grida cessarono lentamente, avvolte da un velo di caligine dopo un’eruzione violenta.
Gli autori della strage erano ancora in schiera, ma non più a cavallo, e se ne distinguevano fogge e posture. Erano uomini terribili: non vestivano una vera e propria uniforme, ma tutti indossavano mantelli e gualdrappe o soggoli neri come nubi di pece. Sotto i cappellacci piumati portavano orrende maschere da commedia, scure come lava, oppure avevano crani tatuati con grandi segni geometrici come quelli degli antropofagi polinesiani. Erano armati con grandi scimitarre affilate e pesanti, portavano sulla schiena archibugi con ogive da cannoni.
Erano gli Harlequins, setta mercenaria di assassini invasati, devoti di un culto demoniaco.
Al comando di quella banda efferata di apostoli di Satana vi era un uomo che parlava una lingua dura e fredda, che pareva uscire dalle bocche dell’Inferno.
«Trovate i sopravvissuti e uccideteli tutti. Sosteremo in questa bella dimora per i nostri rituali. Parola di Jodd Spenlow, questo è un luogo ideale. Useremo tutti i cadaveri», disse colui che senza dubbio aveva l’aspetto del capo, apparendo dal fondo del giardino e facendosi largo tra i corpi maciullati con calci rabbiosi.
Il drappello degli Harlequins si sparpagliò sullo scalone d’onore e discese come una fila di grossi scarafaggi tra i filari di limoni e ulivi.
«Resta con la tua bella testolina ben al riparo, ragazzo», sussurrò Exquemelin.
«Chi sono, maestro?»
«Sono quelle canaglie degli Harlequins. Bave maledette vomitate dall’Inferno».
«Che vogliono da noi, maestro?»
«Ho il sospetto che abbiano scelto questo luogo per le loro cerimonie nere, figliolo. Stai zitto e fermo».
Uno spadone lanciò un riflesso abbagliante negli occhi del ragazzo, che scattò al di sopra delle grasse pale acuminate dei fichi d’india. Casimiro stava per cominciare una corsa forsennata ma la lama piombò sotto al suo ginocchio sinistro, troncandogli l’arto inferiore di netto.
Il giovane si accasciò a terra gemendo come un puledro scannato.
Sopra di lui, tra i barbagli del delirio provocato dal dolore, scorse la spaventosa figura di Spenlow, che alzava la spada per ucciderlo.
«Sei finito, piccola cimice».
Ma mentre Spenlow indugiava gustando l’esito della sua caccia, incuriosito dal piccolo cuore che affiorava dal petto ansimante di Casimiro, da un pozzo in pietra a secco emerse una rapidissima salvatrice.
«Miranda!?», esclamò Exquemelin, distraendo ulteriormente Spenlow.
«Vediamo che cosa sai fare con una donna, buffone», lo provocò lei, con la voce di una tromba marina, eretta sul cono di pietra, le mani sui fianchi e i capelli ondeggianti come piante subacquee nella corrente.
Era la stessa di dodici anni prima, notò Exquemelin, sembrava ancora una coetanea di Casimiro. Curiosa resistenza alla crescita ha questa impressionante creatura…
, congetturò lo scienziato, mentre Spenlow si avventava sulla ragazza con un grido da sauro preistorico.
Lei lo aspettò senza muoversi e, quando le fu addosso, si rituffò nel pozzo, portandosi appresso la massa nera dell’Harlequin.
Il maestro trasse il ragazzo sulle spalle e lo trascinò alle cripte del casato, poco distanti dal fianco meridionale della villa, dove trovò con sicurezza il passaggio sotterraneo che conduceva alla strada litoranea.
C’erano cavalli pronti alla fuga e, dopo avere stretto alla meglio la ferita di Casimiro con alcune pezze imbevute in acqua e salgemma, lo caricò sul dorso di uno degli animali e si diede a percorrere il cunicolo buio che portava alla marina.
Erano due miglia scavate a oltre cinque braccia sotto terra, a ogni novanta passi circa Exquemelin si fermava ad accendere una delle torce predisposte sul percorso. Il ragazzo rantolava e tremava, il cavallo incespicava e nitriva nervoso. Quando raggiunsero l’apertura a mare, c’era Miranda ad attenderli.
«Ben arrivati, uomini».
«Svelta, ragazza, dobbiamo rimettere in sesto il giovane principe», ansimò Exquemelin.
Miranda afferrò pietosamente l’arto amputato e staccò una punta di scheggia da un relitto imbiancato che trovò sulla rena. Sotto lo sguardo ammirato dello scienziato, agganciò la protesi alla gamba monca, intonando una specie di preghiera in una lingua che sembrava fatta di alfabeti iperuranici.
Exquemelin non chiese ragioni, ma soggiunse:
«Be’, dovrà essere sostituita, al dipresso della crescita».
«Una volta rimarginata per bene, potrai adempiere al compito con gli strumenti della tua scienza, ora dobbiamo fare in fretta», spiegò Miranda.
«Già, semplice», confermò Exquemelin.
«Devo andare», sentenziò Miranda.
«Tornerai?»
«Ora vado dalle mie compagne, nelle dolci acque della Camargue», disse carezzando la fronte del ragazzo.
E si inabissò, salutando i due con un guizzo della sua coda screziata.
2. MALTA
«Addì, dieci aprile dell’anno di grazia 1702.
Il giovane Camargorey riprende vigore dopo l’intervento di sostituzione e applicazione della nuova protesi sull’arto ingiuriato. L’elemento artificiale è di particolare pregio e robustezza, considero infatti definitivo il trapianto, avendo il paziente raggiunto la piena maturità di crescita fisiologica. Si tratta di un sostegno in avorio fatto appositamente istoriare da incisori siciliani con saghe di paladini. Il lavoro è molto soddisfacente e non mancherà di offrire al suo portatore occasioni di sincera ammirazione, del tutto adatte al suo lignaggio. La domanda di arruolamento dell’ottimo Camargorey nei ranghi ufficiali della Marina maltese è stata finalmente accolta e sigillata dal Gran Maestro dell’Ordine, Don Ramon Perellos y Roccaful. Presto il garzone servirà le cause del bene sotto le insegne della croce a otto punte,