Forse non tutti sanno che in Italia...
Di Isa Grassano
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Info su questo ebook
«Italia, Italia! Di terra bella e uguale non ce n’è». Come si può dar torto a Mino Reitano che ha celebrato l’unicità del Belpaese in una delle sue più famose canzoni. L’Italia è bella in ogni angolo, è la patria della storia e della cultura, il regno dell’arte e delle tradizioni. Il cuore dell’artigianato e della gastronomia. Ma accanto a ciò che è noto, visto, vissuto, ogni regione nasconde qualcosa di insolito, curioso, misterioso, al di fuori dei percorsi standard e dei luoghi convenzionali. Qualcosa che affascina per la sua peculiarità e quindi da osservare con uno sguardo attento, da apprezzare attraverso le piccole cose, le persone, gli aneddoti. Questo libro è un viaggio da Nord a Sud attraverso lo stivale, che vi conquisterà, incuriosirà e stupirà svelando tutto quello che “forse non sapevate”, “forse non vi aspettate di trovare” e che, invece, finirete per amare.
Forse non tutti sanno che in Italia...
...A Imperia esiste la dimora del più grande clown della storia
...L’orologio della torre di Lucca ha ancora il meccanismo di carica manuale
...Si parla ancora l’“arbëreshe” a San Costantino Albanese (PZ)
...Solo una torre guarda tutte le altre a Carovigno (BR)
...A Milano c’è ancora la vigna di Leonardo da Vinci
...La città felsinea (Bologna) deve la sua ricchezza all’acqua
...Esiste lo Spielberg dell’Irpinia a Montefusco (AV)
...A Catania si deve girare con lo sguardo all’insù
Isa Grassano
è giornalista professionista freelance. Collabora con numerose riviste, tra cui «I Viaggi» e «il Venerdì» di «la Repubblica», «Cosmopolitan», «Gioia», «Marco Polo», «Viaggi del Gusto Magazine», «Elle».
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Anteprima del libro
Forse non tutti sanno che in Italia... - Isa Grassano
LIGURIA
immagineGenova, Porta Pila.
immagineLa Cattedrale di San Lorenzo a Genova.
…IN LUNIGIANA PASSÒ DANTE (LA SPEZIA)
«Non rispondendo egli parola alcuna, ma continuando con insistenza a guardare la struttura del convento, di nuovo gli chiesi che cosa cercasse o volesse sapere. Allora egli, guardati tutti attorno gli altri monaci che erano con me, disse: pace. Per cui io più e più arsi dal desiderio di sapere di lui, e lo trassi in disparte dagli altri; e avuto poi con lui un dialogo, compresi chi era. Sebbene non lo avessi mai visto prima di quel giorno, la sua fama era giunta fino a me già da parecchio tempo». Così Frate Ilaro, humilis monacus de Corvo, in una lettera (del 1315 circa) al condottiero ghibellino Uguccione della Faggiuola, signore di Pisa, racconta il suo stupore per la presenza di Dante Alighieri al monastero di Santa Croce, detto del Corvo, a Bocca di Magra, frazione del comune di Ameglia. Si racconta che il Sommo Poeta era diretto ad partes ultamontane
quando decise di fare una sosta in questo convento sulla collina sopra Bocca di Magra, da cui si gode di una spettacolare vista sul porto di Lerici. Dopo uno scambio di parole con il frate, che gli manifesta grande ammirazione, Dante gli consegna i primi otto canti autografi dell’Inferno, pregandolo di inviarli appunto a Uguccione dopo averli corredati di qualche nota. Curioso scoprire che la prima stesura dell’opera fosse in esametri latini. Dante riferisce l’incipit e spiega al frate la sua scelta linguistica: ha preferito poi il volgare, vista la scarsa considerazione di cui godevano i grandi poeti latini. C’è chi giudica la lettera una pura invenzione, chi invece ne difende l’autenticità. Di sicuro si sa che il Boccaccio ne venne a conoscenza e la riporta nel Trattatello in laude di Dante.
Secondo gli studiosi, tra cui Mirco Manuguerra, esperto dantista e direttore del Centro Lunigianese di Studi Danteschi (clsd), che ha sede proprio presso il monastero del Corvo, non si può escludere che Dante sia stato effettivamente a Santa Croce, dal momento che questi luoghi, insieme ad altri in Lunigiana, sono stati molto frequentati dal grande esule. Siamo in un lembo di terra sospeso sul confine di tre regioni, tra i monti e il mare, che sa di Liguria ma anche di Emilia e un poco di Toscana. Colpisce la bellezza del luogo: lo sguardo in un solo colpo d’occhio abbraccia il mare e le montagne. La pianura si fonde armoniosamente con il profilo delle vette di Pania della Croce e del Monte Tambura, due cime tra le più massicce della catena delle Alpi Apuane, che si stagliano energiche sullo sfondo. Alpi che Dante cita nell’Inferno, nel Canto xx (46-51): «Aronta è quei ch’al ventre gli s’atterga, / che ne’ monti di Luni, dove ronca / lo Carrarese che di sotto alberga, / ebbe tra’ bianchi marmi la spelonca / per sua dimora, onde a guardar le stelle /e ’l mar non li era la veduta tronca».
immagineUn panorama del porto di La Spezia.
L’accecante luminosità dei rilievi diventa ancora più forte a contrasto con il blu cobalto della piccola insenatura marina che va ad accogliere le acque placide della foce della Magra: fiume che viene chiamato rigorosamente al femminile, citato anche nel Paradiso, nel Canto ix (89-90), come confine storico tra Liguria e Toscana: «…Macra, che per cammin corto / parte lo Genovese dal Toscano». Tutto intorno, un immenso parco ottocentesco avvolto dal silenzio: selvaggio e aspro in un versante, agreste in un altro, ameno in prossimità del litorale frastagliato. I ruderi di un antico monastero emergono dal folto di enormi alberi secolari, soprattutto lecci i cui rami scuri stagliati contro l’azzurro del cielo creano volumi e complicate trame, e svelano una piccola cappella in stile romanico. Al suo interno un magnifico crocifisso ligneo, caratterizzato da tratti bizantini, risalente all’anno Mille (da cui l’intero sito ha preso il nome di Santa Croce). La leggenda vuole che la Santa Croce giunse, per un evento miracoloso, sulle rive di Luni, antica colonia romana che dà il nome alla Lunigiana storica. La particolarità? Si differenzia da altri crocifissi perché non esprime la sofferenza del Cristo ma il suo trionfo.
Fuori dalla chiesa spicca un busto di Dante, posto nel 1865 e poi sfregiato sul mento. Si dice che sia per via di un colpo di pistola sparato da un soldato tedesco durante la seconda guerra mondiale, in segno di oltraggio. Un’altra delle tante storie su Dante che qui circolano.
Sono storie fantastiche che vi investiranno, come aliti di vento, prima ancora che mettiate piede in queste terre.
E la fantasia popolare si spinge ancora oltre: in un luogo recondito e inaccessibile del castello di Trebiano, tra le colline della Val di Magra (a una decina di chilometri), sarebbe nascosto il manoscritto della Divina Commedia, da tutti sempre cercato e mai trovato.
A poca distanza, a Sarzana, avvenne uno tra gli avvenimenti storici più noti. Era il 6 ottobre del 1306, quando di prima mattina, nell’antica piazza della Calcandola oggi dedicata a Matteotti (non sono pochi quanti ritengono che dovrebbe essere intitolata a Dante), Alighieri incontrò Franceschino Malaspina, marchese di Mulazzo. Si ricordi che il ramo imperiale dei marchesi Malaspina – chiamati dello Spino Secco
– è il destinatario dell’Elogio insuperabile del Poeta nel Canto viii del Purgatorio. Il motivo dell’incontro fu il lascito di una procura che permetterà a Dante, soltanto poche ore dopo, di concludere nel Palazzo dei Vescovi, in Castelnuovo Magra, il trattato che avrebbe finalmente sancito la pace tra il ghibellinismo malaspiniano e la curia lunense (le pergamene originali degli Atti della Pace si trovano presso l’Archivio di Stato di La Spezia). Un’epigrafe, opera di Achille Pellizzari, posta sulla facciata cinquecentesca del Palazzo Comunale, sigilla questo passaggio: Orma di Dante non si cancella
.
info
www.comune.ameglia.sp.it
…A IMPERIA ESISTE LA DIMORA DEL PIÙ GRANDE CLOWN DELLA STORIA
«Un sorriso ben recitato può sostituire una lunga frase. Basta un unico movimento per scatenare l’entusiasmo». Lo ripeteva spesso Adrien Wettach, in arte Grock, il più grande clown di tutti i tempi, ma anche giocoliere, equilibrista, musicista e molto altro. E l’entusiasmo si accende visitando Villa Grock, detta anche Villa Bianca, un meraviglioso esempio di architettura liberty sulla collina onegliese, a Imperia (Oneglia, insieme a Porto Maurizio, è uno dei due abitati principali della città), la casa voluta e ideata dallo stesso Grock e trasformata in un museo.
Un luogo capace di lasciare a bocca aperta i più piccoli e di far tornare bambini anche gli adulti.
Ma facciamo un passo indietro per ricordare la figura di questo personaggio definito, di volta in volta, shakespeariano, cartesiano, bergsoniano. A proposito di ciò lo stesso Grock scrisse un giorno: Né l’arte, né la filosofia mi interessano. Io non sono un intellettuale: tutto quello che si dirà di me in questo senso è lusinghiero, ma falso
. Nacque nel 1880 in una fredda giornata di gennaio e prese il nome di Carlo Adriano Wettach, diventando, da grande, Adrian per la moglie e per gli amici. Fu il padre Adolf a trasmettergli la passione per il mondo circense: cultore d’atletismo e di acrobazia aveva fatto parte per breve tempo del Circo Martinelli. Ogni sera, papà Adolf, smessi i panni di operaio nelle fabbriche di orologi attorno alla nativa Bienne, in Svizzera, lavorava in una birreria-cabaret e qui portava pure Adrien, che a soli sei anni si esibiva suonando la fisarmonica. A quattordici anni Adrien entrò nella carriera circense come illusionista, funambolo e uomo-serpente. In poco tempo divenne maestro in tutte le specialità della pista, dal contorsionismo all’equilibrismo, dall’acrobazia all’equitazione. Suonava un numero indefinito di strumenti, «ma tutti male», diceva. Charlie Chaplin s’ispirò a lui per il suo Charlot e si vocifera che fu scritto in suo onore il monologo di Totò-pagliaccio nel film Il mio comico spettacolo del mondo (1953). Una volta fu ingaggiato in esclusiva per uno spettacolo da parte del re d’Italia Vittorio Emanuele iii, in occasione del compleanno del principino Umberto di Piemonte. «Signor Crock ora vi ho visto, sono incantato», commentò il re. Ne rimasero affascinati i viaggiatori americani, francesi, polacchi, tedeschi e ungheresi con lui accalcati sul treno per la riviera ligure negli anni ’40. A ognuno di loro si rivolgeva nel loro idioma natio. «Ma quante lingue parlate?». «Tutte», rispose.
Spesso è in difficoltà, soffre la fame, dorme nel ripostiglio degli attrezzi, impara, con tenacia, quanto può servirgli.
Ufficialmente Wettach si trasforma in Grock nel 1903. L’occasione è una sostituzione nel duo comico Brick e Brock: il personaggio di Brock se n’è andato. Adrian si sceglie un nome simile a quello dell’altro, già con la pregiudiziale di cambiarlo con ogni probabilità a duo scisso.
L’incontro con Antonet, il maggiore clown bianco della sua epoca, trasforma invece il personaggio embrionale di Grock in una maschera destinata a rimanere per sempre nella storia dello spettacolo.
La sua figura, la sua essenza di artista e uomo geniale, spunta ovunque in quella villa che è stata definita circo di pietra
, per i dettagli architettonici, lampioni, decorazioni, balaustre, che evocano le atmosfere degli spettacoli. Ovunque si risente anche del gusto di artisti come Dalì, Picasso e Gaudì. Intorno, un immenso parco, tipico dei giardini storici della riviera ligure. I camminamenti ben delimitati invitano alle passeggiate e di qua e di là si ritrovano elementi legati alla simbologia circense: il tempietto, la cornucopia, la fontana della giovinezza, oltre agli scenografici giochi d’acqua. Quasi fosse una sorta di autoritratto di Grock, espressione di una personalità straordinaria, giocosa e creativa.
E l’interno gioca sugli stessi contrasti. Andando di stanza in stanza in questa dimora da sogno, un mix di elementi persiani, barocchi e rococò, vi ritroverete immersi in ambienti fiabeschi, vi rifletterete in specchi magici, aprirete armadi delle meraviglie, allegri fantasmi antichi appariranno dal nulla. E ancora scoprirete i dettagli e le curiosità sulla personalità di Grock, orientata da un lato verso la dimensione leggera e spensierata (in realtà profonda e sottile) dell’umorismo di cui è permeata la figura del clown, dall’altro verso l’oscuro e inquietante mistero di vivere. Diventerete un po’ come Alice nel paese delle meraviglie, in un luogo inaspettato tra risate e nostalgia, tra Oriente e Occidente, tra cultura e prove di prestanza fisica.
Un modo anche per capire l’origine di questi buffi e ironici personaggi. Secondo lo studioso Nicola Pafundi, le performance clownesche sono da assimilare alle Dionisie, antiche feste greche caratterizzate da spettacoli poetici o comico-satirici talvolta estremi. In essi gli attori erano antichi precursori dei pagliacci odierni che mettevano in scena piccole rappresentazioni permeate da sottile ironia capace di catturare le risate degli ascoltatori. Secondo alcuni antropologi, invece, i pagliacci sono simili al briccone divino
, figura presente nella mitologia sia delle popolazioni primitive che di quelle più evolute: il briccone è colui che agisce d’istinto.
Nella sala del cinema si viene subito catapultati nella magia attraverso la visione di spezzoni di film a tema tra cui I clown di Federico Fellini (il regista era un grande appassionato di circo e in questo suo lungometraggio del 1970 ne denuncia una fase di decadenza).
C’è poi la sala delle meraviglie con le aperture oculari. Basta guardare in questi micro cannocchiali per avere una visione di immagini animate, locandine d’epoca, francobolli internazionali, vecchie fotografie. La sala del trucco regala la visione delle diverse fasi della trasformazione in un vero pagliaccio, incluso il bel bitorzolo rotondo di plastica sul naso. Volete provare a vedere come stareste in versione clown? Posizionatevi vicino agli specchi multimediali e attraverso la tecnologia della realtà aumentata noterete sul vostro volto varie tipologie di make-up. Naso rosso incluso.
immagineUn ritratto di Adrien Wettach, in arte Grock.
Oltre al trucco era originale pure l’abbigliamento scenico. Grock usava solo due tipi di costumi: il primo si componeva di una sproporzionata palandrana a quadri, calzoni smisurati, un abbondante panciotto bianco e grandi scarpe; il secondo era un costume da Augusto, con giacca, calzoni neri e aderenti, guanti bianchi. La curiosità? Era sua moglie Ines Ospiri, attrice di canto, a cucire gli abiti. Lei fra le quinte assisteva tutte le sere al numero del marito.
Si passa poi nel teatro dei Simboli. Qui la magia mediata dalla clownerie ritorna al proprio significato originario di forma superiore di conoscenza. È l’ambiente più misterioso, dedicato alla personalità esoterica di Grock. Una spirale da percorrere. A ogni passo un’immagine olografica su una stele che rivela, a sua volta, un simbolo (l’acqua, l’apprendista, il maestro, il fuoco) e la sua rispettiva interpretazione iconografica dell’arte.
Infine la sala del riso. Al centro della stanza, una struttura a pianta rettangolare ha sagome stilizzate di pagode e ognuna di queste incornicia una forma di fontana. Spicca una pallina colorata. Tirandola si ascolta una fragorosa risata e il meccanismo sonoro è diverso per ogni fontana. Vuole ricordare l’artista capace di trasformare il suo corpo in una macchina da risata, e allo stesso tempo è un invito a lasciarsi andare e a lasciarsi contagiare dalla voglia di ridere. Del resto come diceva Marziale: «Ridi e saprai di più su te stesso».
info
www.museodelclown.it
…IL FANTASMA DI GHELLA SI AGGIRA A BORDIGHERA (IMPERIA)
La Liguria è spesso associata alle sue spiagge assolate d’estate, riscaldate da un clima temperato anche d’inverno. In pochi conoscono il lato gotico
di questa regione. Antiche ville, case disabitate, monasteri e hotel con ospiti evanescenti
sono i luoghi più indicati per avere un incontro con il soprannaturale, con forze inafferrabili che non hanno mai smesso di far sentire la loro presenza.
Bordighera è una località perfetta per un ghost-tour da brividi. E tutto ruota attorno a via Romana, dove sorge l’Hotel Angst, un tempo lussuoso albergo per facoltosi turisti, che mostra ancora oggi i segni degli antichi fasti.
immagineIl cimitero degli Inglesi di Bordighera, altra tappa di un ghost-tour della Liguria.
Tutto iniziò, a fine Ottocento, quando un ricco magnate svizzero di nome Adolf Angst arrivò nel borgo ligure con il sogno di costruire il più importante albergo d’Europa, e si rivolse a un’anziana signora, Ghella, per acquistare il terreno su cui edificare la struttura e fare in modo che la cittadina diventasse una potenziale meta di spicco per abbienti turisti stranieri. La signora però si rifiutò di vendere la sua casa all’imprenditore e a nulla servirono le opere di convincimento, né i mesi di trattativa. Finché in una notte d’autunno Ghella morì in un incendio che distrusse la sua abitazione. Incendio doloso? Non si è mai saputo, ma da allora nella zona si iniziarono ad avvertire strane presenze. Intanto Adolf riuscì a realizzare il suo desiderio e chiamò l’albergo Angst, che in tedesco significa paura
. Quasi un presagio. Si narra che l’uomo tra le macerie lasciate dal fuoco ritrovò un antico specchio ancora intatto e lo conservò per poi esporlo in quella che sarebbe diventata la hall. All’epoca era uno dei migliori alberghi della Riviera, tanto che nel 1900 anche la regina Vittoria aveva fatto riservare una suite per lei e delle camere per il suo seguito. Purtroppo lo scoppio della guerra con i Boeri costrinse la regina a rimandare il viaggio, che non fu in seguito mai realizzato. La struttura era dotata di camere con bagni privati e un grande salone per i ricevimenti, decorato con sei affreschi dei pittori Giuseppe Piana e Hermann Nestel. C’era persino una sartoria e un fumoir per signori, oltre che una sala da biliardo. Il servizio era garantito da oltre cento dipendenti per duecento ospiti; la cucina disponeva di otto cuochi; il parco era curato da quattro giardinieri, i servizi da pasto erano in porcellana con fregi in oro zecchino. Tutto doveva essere nel segno dell’eleganza, tanto che per il pranzo era d’obbligo l’abito lungo per le signore, il frac o lo smoking per gli uomini.
E poi c’era quel famoso specchio che secondo alcune tradizioni è stato la causa della malasorte della costruzione. Angst era convinto di aver visto lo spettro di Ghella uscire dalla superficie riflettente, nonostante avesse tentato di coprire con un telo lo specchio, e ben presto iniziarono a circolare inquietanti storie di rumori di passi nei corridoi dell’albergo e di urla nella notte, di porte sbattute violentemente.
Una notte d’estate del 1887, nel bel mezzo di una festa, si verificò una devastante scossa di terremoto che distrusse l’hotel. Angst stesso disse che poco prima del crollo aveva visto gli specchi oscurarsi e aveva udito una fragorosa risata.
Dopo il successivo restauro dell’hotel, gli strani fenomeni non smisero di accadere. L’edificio successivamente fu riconvertito per un breve periodo in ospedale militare, prima di cadere totalmente in rovina.
Se siete amanti di Shining e delle storie di fantasmi, non potete non andare ad ammirare le rovine di questo hotel: ancora oggi, infatti, si racconta che è possibile scorgere il fantasma di Ghella aggirarsi per le stanze dell’albergo, gelosa dell’intrusione di estranei in quella che ancora considera casa sua, o affacciarsi alla finestra in segno di potere. Certo è che a guardare verso gli infissi proverete una strana sensazione d’inquietudine.
info
www.turismoinliguria.it
…ESISTE UN AUTODICHIARATO
PRINCIPATO DI SEBORGA (IMPERIA)
Batte moneta propria: il luigino, con un valore fissato in sei dollari statunitensi e, al momento, è considerata la valuta più forte al mondo. Ha una sua bandiera (formata da due parti triangolari, tranciate in banda, bianca e azzurra), un suo stemma (una corona di tipo reale di color azzurro), un inno nazionale (intitolato La Speranza), un corpo di guardie e soprattutto un suo principe (democraticamente eletto da un consiglio). Il piccolo comune di Seborga, nell’entroterra ligure, tra Ospedaletti e Bordighera, a due passi dalla frontiera con la Francia, si è autoproclamato principato indipendente. Ai sensi dell’articolo 1 degli Statuti Generali (ossia la costituzione del Principato), adottati il 23 aprile 1995, Seborga è un Principato Libero e Sovrano, retto da norme democratiche
. La forma di governo è la monarchia costituzionale elettiva.
Certo, per lo Stato italiano tale principato non esiste e non è riconosciuto, eppure girando per le viuzze del paese, di appena quattordici chilometri quadrati di estensione, si respira ancora l’atmosfera del passato.
Curiosa la sua storia: Seborga divenne uno Stato indipendente già nel 954, con la donazione del conte Guidone di Ventimiglia ai monaci benedettini dell’abbazia di Lerino, e nel 1079 divenne principato.
Attorno all’anno Mille fu ripetutamente oggetto di attenzioni da parte della Repubblica di Genova (che dal 1030 aveva nel frattempo inglobato la preesistente Contea di Ventimiglia), la quale tentò più volte di annetterla, irritata dal fatto di avere all’interno del suo territorio un’enclave che sfuggisse al suo controllo politico. Anche nella stessa Seborga sorsero contrasti tra i monaci e gli abitanti locali, che si rifiutavano spesso di pagare le decime sui raccolti già piuttosto scarsi; i monaci furono costretti più volte a chiedere prestiti per poter mantenere il borgo.
Nel 1729 il borgo fu venduto dai monaci a Vittorio Amedeo ii di Savoia, ma l’atto di vendita non venne mai registrato: tale atto non prevedeva esplicitamente che il re di Sardegna avrebbe acquisito la sovranità su Seborga (tant’è che la dicitura principe di Seborga
non compare mai tra i suoi titoli ufficiali), ma semplicemente che il territorio sarebbe diventato suo possedimento personale, e su di esso avrebbe esercitato il ruolo di protettore (ius patronatus); non a caso, l’acquisto fu effettuato con le finanze personali del re e non con quelle del regno sabaudo.
Di conseguenza, nel 1815 nessun documento del congresso di Vienna riporta Seborga come facente parte del Regno di Sardegna; l’annessione, nel 1861, al Regno d’Italia e, nel 1946, alla Repubblica italiana è pertanto da considerarsi unilaterale e illegittima. Almeno questo è quanto sostiene l’attuale principe Marcello Menegatto, ovvero Marcello i (la carica dura sette anni), succeduto a Giorgio i.
Vi è un consiglio dei Priori e uno della Corona, l’organo esecutivo del principato, che lavorano al motto di "Sub Umbra Sedi,
mi sono seduto all’ombra. Questa frase, che compare già negli
Statuti e Regolamenti" del 1261, parrebbe derivare da una frase pronunciata dal principe-abate Aicardo mentre raccontava che durante il suo cammino lungo i sentieri scoscesi e assolati che conducevano al paese aveva trovato refrigerio sotto alcuni ulivi e castagni che circondavano il borgo.
Queste vicende storico-diplomatiche sono solo alcuni degli aspetti che rendono il borgo una meta da scegliere per una gita fuoriporta o un fine settimana. Tra l’altro, grazie alla sua posizione, sempre esposta al sole, e con le Alpi Marittime che la proteggono dai venti freddi provenienti dal Nord, il territorio gode di un clima temperato con estati fresche e inverni miti. I campi terrazzati a mimose, le ginestre e le distese di ulivi regalano panorami incantevoli.
All’ingresso del nucleo urbano, che originariamente aveva quattro porte d’accesso, c’è la piccola chiesa dedicata a san Bernardo di Chiaravalle. Presso il sagrato è stato anche incoronato il principe Marcello i, nel maggio 2010. Nel centro storico si può ammirare la chiesa settecentesca di san Martino (patrono del paese), che sorge nell’omonima piazzetta centrale. A fianco, il Palazzo
, un tempo residenza dei monaci (dell’abbazia madre di Lérins) e attualmente una casa privata. Nella parte inferiore si trova un locale dove dal 1666 al 1687 (quando chiuse per le proteste del re di Francia) vennero coniati i luigini, il cui nome si ispirava alla moneta corrente in Francia in quel tempo, il louis: ce ne sono ancora dodici, classificati come rarissimi
, di grande interesse numismatico (a volerli furono i monaci di Lerino che erano alla ricerca di fonti di reddito alternative alle rendite agricole).
Da vedere il museo degli strumenti musicali antichi, con una selezione di 135 modelli del periodo compreso tra il 1744 e il 1930: se ne può ascoltare anche il suono, riprodotto in sottofondo.
Infine, non c’è da meravigliarsi se andando in giro noterete automobili con due targhe: è l’unica cosa in cui il principato di Seborga e la Repubblica italiana convivono in accordo.
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www.principatodiseborga.com/pds/
…A GENOVA SI PUÒ SCENDERE SOTTO IL PELO DELL’ACQUA
«Vedrai una città regale, addossata a una collina alpestre, superba
per uomini e per mura, il cui solo aspetto la indica signora del mare». Così scriveva Francesco Petrarca in una sua relazione di viaggio del 1358. E basta il nome dell’ammiraglio Andrea Doria per evocare nella mente di ciascuno il legame tra Genova e il mare. La sua memoria è custodita nella Villa del Principe, una meraviglia del Rinascimento, la più vasta e sontuosa dimora nobiliare della città. Questo sarebbe divenuto il luogo di pace al rientro dai suoi innumerevoli viaggi e la dimora prescelta per i suoi successori: la famiglia Doria Pamphilj. Qui, durante le sue visite ufficiali, fu ospitato l’imperatore Carlo v, lo stesso dal quale Andrea Doria era riuscito a ottenere l’indipendenza di Genova, divenendo così il Signore della città. Per rivivere i fasti della corte rinascimentale basta percorrere le stanze, meravigliandosi di fronte ai suoi splendidi affreschi e agli incredibili arazzi.
Anche il capitano Enrico Alberto D’Albertis non poteva che appartenere a questa terra. Pioniere, a cavallo tra Ottocento e Novecento, di un modello di cultura scientifica sviluppato sulla base dei viaggi transoceanici verso rotte esotiche, che al tempo in cui visse erano assai spesso poco conosciute. Fu tra i fondatori del primo Yacht club d’Italia (nel 1879) e, a bordo del Violante e del Corsaro, i suoi due cutter, viaggiò nel Mediterraneo e nell’Oceano Atlantico, ripercorrendo la rotta seguita quattrocento anni prima dal concittadino Colombo.
Le gesta dell’esploratore rivivono oggi nel Museo delle Culture del Mondo di Castello D’Albertis: esso testimonia il fascino che i mondi lontani da lui visitati hanno esercitato sul suo spirito, impregnato di genovesità
e amore per il mare e di altrettanta curiosità verso l’ignoto e l’intentato.
La Lanterna, uno dei simboli della città di Genova.
Viaggiando via mare e via terra tra Ottocento e Novecento, il capitano ha racchiuso nella sua residenza la propria vita in una cornice romantica, tra camere delle meraviglie
e trofei coloniali.
Il clou è l’Acquario, una vera nave da ricerca che solca i mari del mondo, nel pieno della maestosità dei suoi sei metri di altezza. E l’esperienza diventa intensa grazie ad Abissi
, una delle prime installazioni permanenti di realtà virtuale in Italia che rende la visita multisensoriale. Con speciali visori di realtà aumentata, ci si immerge nelle profondità marine.
Nella Laguna delle sirene si possono incontrare i lamantini, con il piccolo Tino in compagnia di mamma Rynke e di Husar e Pepe, mentre nella Baia degli squali si trova un portale a effetto olografico che anticipa l’emozione della vista della grande vasca dedicata ai predatori del mare.
Per divertirsi a giocare vi è una postazione, Fish Making, dotata di consolle e monitor, per poter creare il proprio pesce ideale. Basta un semplice tocco per scegliere il colore, assemblare coda, corpo, testa e immergere la propria creatura in una vasca virtuale che evidenzia la vita dei pesci all’interno del loro habitat. Da non perdere, le vasche antartiche, uniche in Europa nel loro genere.
E l’incontro con la signora del mare si conclude con il sommergibile Nazario Sauro S518, ormeggiato nella Darsena davanti al Galata Museo del Mare, e restaurato nello spirito della massima fedeltà all’originale. Visitarlo significa vivere l’emozione della vita di bordo – anche con tecniche interattive – e scendere sotto il pelo dell’acqua, avvolti completamente dal battello come se si fosse in una vera missione.
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www.turismoinliguria.it
www.acquariodigenova.it
…BALENE E DELFINI FANNO CAPOLINO NEL SANTUARIO DEI CETACEI
– VARAZZE (SAVONA)
Basta una macchina fotografica, cappellino e occhiali da sole e una grande dose di pazienza e si è pronti ad andare non in mezzo all’Oceano, ma nel Santuario dei Cetacei Internazionale Pelagos
, un’area marina internazionale protetta che si estende per centomila chilometri quadrati in Liguria (include anche Costa Azzurra, Toscana e Corsica). Impossibile descrivere l’emozione che si prova quando si ha la fortuna di trovarsi di fronte alla sagoma sinuosa di un delfino o allo sbuffo di una balenottera. Non bisogna avere fretta (non sempre si lasciano avvistare), ma nel momento in cui balene, stenelle striate, tursiopi, capodogli e delfini fanno capolino tra le acque, iniziano a dare spettacolo e non lesinano maestose esposizioni con la coda, oltre a vere e proprie evoluzioni che lasciano senza fiato. Va ricordato che balene e delfini trascorrono la loro vita sott’acqua: la presenza in superficie è dovuta alla necessità di respirare. I segni che tradiscono le loro tracce sono principalmente soffi, dorsi, pinne e splashs
. Quindi bisogna abituare gli occhi a percepire il minimo movimento, per poi godere di acrobazie
degne dei migliori circhi. Grazie alle sue particolari caratteristiche chimico-fisiche, indotte dalla morfologia e dalla circolazione delle acque, questo tratto di mare è considerato una delle zone più ricche di vita del Mediterraneo. Sono diverse le escursioni in barca organizzate per l’avvistamento dei cetacei, sempre seguendo le norme di sicurezza e rispettando alcune regole base, come il divieto di tuffarsi. Dalla primavera all’autunno, tanti battellieri offrono la possibilità di osservare da vicino i cetacei che popolano questo mare, con escursioni tra le cinque e le dieci ore, a seconda del porto di partenza. Tra questi il Consorzio Liguria via Mare, leader nel settore del whale watching in Italia e attivo dal 1996, con partenza da Varazze (ma anche Alassio, Laigueglia e Andora). A bordo dell’imbarcazione è sempre presente un biologo marino per commentare gli avvistamenti, dare informazioni e svelare curiosità, oltre a raccogliere importanti dati scientifici per la ricerca. Portare a casa una fotografia memorabile del momento della sgroppata, l’attimo che precede l’inabissamento, è il desiderio di tutti, a ricordo di questa entusiasmante esperienza. Ma non è sempre possibile avere belle immagini in presenza degli amici cetacei. Le stenelle sono molto veloci e imprevedibili nei loro spostamenti e salti repentini; il segreto per una buona foto sta nella nostra capacità di prevedere il punto in cui balzeranno fuori, individuando un soggetto sotto il pelo dell’acqua e seguendolo mentre nuota. Bisogna avere il dito pronto sullo scatto e continuare a scattare anche quando l’animale è fuori dall’acqua. Più prevedibili balenottere e capodogli, ma anche zifi e grampi, che nuotano in maniera più lenta e fluida.
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www.liguriaviamare.it
immaginePanorama di Savona (incisione di Gallieni).
…SI PUÒ FARE ARCHEOTREKKING TRA LE GROTTE DI FINALBORGO (SAVONA)
Girovagare a piedi, tra le strette strade chiuse al traffico, dimenticando rumori e motori, tra le case di pietra del Finale
(roccia calcarea che affiora qua e là nell’entroterra del Savonese) che sembrano abbracciarsi l’una con l’altra, intorno alle torri semicircolari e interrotte solo in corrispondenza delle porte (Testa, Reale, Romana e della Mezzaluna). Questo è Finalborgo, che riserva sempre una scoperta: un fregio, una loggia, un portale in ardesia (altra pietra tipica del territorio), un davanzale ingentilito da fiori, una piazzetta inaspettata. I ristoranti, i negozi, le gallerie d’arte si sono moltiplicati, rendendo il borgo vivace e animato. Numerose le botteghe degli artigiani, da quelli che lavorano la cartapesta a quelli che vendono riproduzioni di scorci del borgo in legno e ceramica. Tutto lo sfarzo barocco è racchiuso nella collegiata di San Biagio, la chiesa più antica. All’interno la balaustra in marmo, finemente scolpita nelle minime pieghe: un colpo d’occhio notevole.
Per tornare indietro nel tempo, ci si ferma all’ex complesso conventuale domenicano di Santa Caterina, dove passato e presente si rincorrono e si fondono. È stato prima convento (vi erano conservate le tombe dei marchesi Del Carretto, signori della città, poi carcere fino al 1965, e la presenza di tre piani di celle nel campanile lo ricorda. Attualmente nei quattrocenteschi chiostri è ospitato il Museo Archeologico del Finale che organizza gli archeotrekking
: escursioni con l’ausilio di guide specializzate nei più importanti siti di rilevanza storica e archeologica del territorio. In tutto il Finalese, infatti, quello che subito salta agli occhi è la presenza di alte e spesso selvagge colline, che si gettano in mare, creando pareti rocciose a picco (alcune sfiorano gli ottanta metri e sono mete ambite di scalatori e arrampicatori), promontori, isolette e scogliere. L’entroterra, poi, offre numerose testimonianze archeologiche (il Ponte delle Fate, sotto la caverna omonima con resti paleolitici) e una rete di sentieri spettacolari come quello che conduce alla punta di Capo Noli, da dove si possono ammirare contemporaneamente la punta di Varigotti e il golfo di Noli, sovrastato dai ruderi del suo castello. La più significativa tra le caverne è quella delle Arene Candide, chiamata così per la presenza nelle sue vicinanze di una duna di sabbia silicea bianca che custodisce le tracce di una lunga storia di frequentazioni umane dal Paleolitico superiore fino all’età bizantina. Si pensa fosse un’antica necropoli e tra i reperti di eccezionale valore è stata ritrovata la tomba del Giovane Principe, con un ricco corredo funerario che accompagnò il ragazzo nell’aldilà, composto da reperti provenienti da luoghi distanti migliaia di chilometri.
Dopo le escursioni, gli itinerari didattici nelle sale espositive, caratterizzati da postazioni attrezzate, permettono di assistere a dimostrazioni pratiche di diverso genere, manipolando repliche dei materiali esposti. Mentre gli operatori illustrano, c’è la possibilità di toccare con mano le riproduzioni fedeli di strumenti in pietra scheggiata, attrezzi per tagliare, forare, accendere il fuoco, macinare cereali, impiegare coloranti e stampi in ceramica.
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www.museoarcheofinale.it
PIEMONTE
immagineIl Castello