Un passato che non passa
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Info su questo ebook
In trent’anni di operato, non solo è stato spettatore diretto del cambiamento degli equilibri del mondo, cominciato con la caduta del Muro di Berlino, ma ha avuto l’occasione di conoscere grandi diplomatici, uomini e donne di potere, nobili, artisti e scrittori, e anche persone apparentemente comuni, ma con una grande storia da raccontare.
Dalla Londra anni Settanta, a Praga degli Ottanta, all’Austria e alla Croazia degli anni Novanta e 2000.
Veronese. Dopo la laurea in Lingue e Letterature Straniere conseguita presso l’Università Bocconi, Milano nel 1961 è stato Fulbright Scholar presso la University of Southern California, Los Angeles (USA) e borsista del British Council presso le Università di Londra e Cambridge (GB).
Ha insegnato inglese negli istituti tecnici commerciali; italiano e storia presso l’International Study Center del Regional Council of American Universities della sua città; storia e letteratura inglese presso la Facoltà di Economia di Padova, sede di Verona.
Dal 1975 alla fine del 2005 ha prestato servizio presso la Direzione delle Relazioni Culturali del Ministero degli Affari Esteri, quindi come addetto all’Istituto Italiano di Cultura di Londra per la Gran Bretagna, direttore degli Istituti Italiani di Cultura di Praga per la Cecoslovacchia, Innsbruck e Vienna per l’Austria, e Zagabria per la Croazia, e contemporaneamente in qualità di addetto culturale presso le Ambasciate dei rispettivi Paesi.
È Incorporated Linguist dell’Institute of Linguists (Londra, 1981) e Member of the US Geographical Society (Washington, 1970).
È autore di pubblicazioni in Italia e all’estero, tra cui Colloquial Italian (Routledge, Londra, New York, Sydney, 1982), Brush Up Your Italian (BBC Publications, London, 1979); Emigrazione e lingua (Liviana, Padova, 1979), Italo Svevo, the Writer from Trieste (Londra, 1978), Carlo Goldoni su carta (Treviso, 1985).
È stato direttore responsabile della rivista di italianistica del mondo accademico dei Paesi di lingua tedesca Italienische Studien (Vienna, 1998-2000) e di altre iniziative editoriali in Austria dirette ai cultori di italiano.
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Anteprima del libro
Un passato che non passa - Flavio Andreis
Flavio Andreis
Un passato
che non passa
Trent’anni al di là delle Alpi
© 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma
www.gruppoalbatros.com - [email protected]
ISBN 978-88-306-7215-4
I edizione marzo 2023
Finito di stampare nel mese di marzo 2023
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa
Un passato che non passa
Trent’anni al di là delle Alpi
A mia moglie Tiziana, per
il suo indispensabile sostegno
Nuove Voci
Prefazione di Barbara Alberti
Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.
È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.
Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi
Non esiste un vascello come un libro
per portarci in terre lontane
né corsieri come una pagina
di poesia che s’impenna.
Questa traversata la può fare anche un povero,
tanto è frugale il carro dell’anima
(Trad. Ginevra Bompiani).
A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.
Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.
Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.
Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov
.
Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.
Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.
Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.
1. Il passato è prologo
"What’s past is prologue",
W. Shakespeare, La tempesta, Atto I, sc. 2
"Questo solo è negato perfino a Dio: il potere di disfare il passato",
Aristotele, Etica nicomachea, VI, cap. 2
"Vectatio, iterque, et mutata regio vigorem dabunt (
Viaggiare per mare e per terra e cambiare luogo danno vigore"),
Seneca, De tranquillitate animi, sez. XVII)
"Chi non esce dal suo paese vive pieno di pregiudizi",
Carlo Goldoni, Pamela, Atto I
"Il viaggio sempre comincia, ha sempre da ricominciare, come l’esistenza, e ogni annotazione è un prologo. […] Non c’è viaggio senza che si attraversino le frontiere."
Claudio Magris, L’infinito viaggiare
Should auld acquaintance be forgot
And never brought to mind
And days of auld lang syne
For auld lang syne, my dear
For auld lang syne
We’ll take a cup o’kindnes yet
For auld lang syne
Robert Burns, 1788
Correva l’anno 1975 quando iniziai il mio servizio al di là delle Alpi, negli Istituti Italiani di Cultura. Quando si concluse nel dicembre del 2005, più che preconizzare la fine della storia
e delle contrapposizioni, i segnali di una fase nuova, complessa, imprevedibile, carica di incognite, come quella dei nostri giorni, erano già tutti là.
L’Europa del secondo dopoguerra pareva come ossificata nelle sue rappresentazioni ideologiche, ma tra il 1989 e il 1991 la subitanea scomparsa della cortina di ferro
colse molti di sorpresa, ma le onde che hanno smosso lo stagno non hanno cessato di amplificarsi e coglierci impreparati.
Le condizioni per un rivolgimento nelle condizioni politiche di quel tempo erano maturate negli anni precedenti, ma certamente pochi avevano immaginato la celerità degli avvenimenti. In Cecoslovacchia il rapido cambiamento realizzato quasi senza violenza passò sotto il nome di rivoluzione di velluto
per segnalare il desiderio a lungo represso di libertà e benessere che tutto l’Est europeo idealizzava secondo l’abbagliante modello occidentale. A ovest, nel democratico Regno Unito, una delle situazioni più intrattabili, quella delle atroci violenze di fazione dal sapore medioevale nell’Irlanda del Nord, trovò uno sbocco pacifico negli accordi del Venerdì Santo
dell’aprile 1998. L’Europa degli anni ’90 pareva schiudersi a un luminoso orizzonte di rinnovamento in risposta alle aspettative, preconizzando un’era di ritrovata pace.
In queste pagine mi propongo di fermare con la memoria l’inesorabile scorrere del tempo, ripercorrendo in una carrellata di episodi, curiosità, aneddoti e impressioni, a volte apparentemente poco significativi, ma emblematici di quel tratto del secolo breve
, soprattutto alla luce degli avvenimenti attuali. Un flashback come in un diorama per ripensare il senso di un periodo di vita impegnato in intenso lavoro, svolto in un mondo rapidamente scomparso, nel passato che non passa, perché il passato è solo prologo del futuro.
***
Come i British Council, Goethe Institut, Institut Français, Instituto Cervantes, forse più noti al pubblico italiano, gli Istituti Italiani di Cultura sono nati nel corso del secolo scorso per promuovere le lingue e culture nazionali dei rispettivi Paesi e dialogare con i Paesi ospitanti, tramite accordi, protocolli di scambi in reciprocità tra Stati, quello che oggi va sotto il nome di soft power. Il British Institute, sorto a Firenze alla fine dell’Ottocento e dal quale derivano i British Council, fece da battistrada della politica culturale
degli altri Paesi. Al momento gli Istituti Italiani di Cultura sono una novantina, hanno sede nelle capitali – a volte anche in altre città importanti – e la loro azione deve estendersi sull’intero territorio del Paese ospite. I loro direttori funzionano anche da addetti culturali (due cappelli
) a disposizione degli Ambasciatori e dei Consoli Generali. Il primo fu l’Istituto di Cultura Italiana
(così si era chiamato allora) nato a Praga nel 1923, sulla scia ideale che univa l’Italia e la rinata Cecoslovacchia, vincitrici sull’Impero austro-ungarico. Lo scrittore triestino reduce della Grande Guerra, Giani Stuparich, primo lettore di lingua e letteratura italiana presso l’Università Carlo (Univerzita Karkova) a Praga, dove aveva anche studiato nell’anteguerra, ne fu il patrocinatore. La Cecoslovacchia a sua volta dette vita alla Biblioteca Cecoslovacca a Roma, diretta dall’insigne storico Zdeněk Kristen.
Gli Istituti Italiani di Cultura, enti culturali dipendenti dal Ministero degli Affari Esteri, non vanno scambiati con la Società Dante Alighieri, organizzazione privatistica ideata dal poeta Giosuè Carducci nel 1889 con lo scopo di sostenere la lingua italiana tra le grandi masse di emigranti della seconda metà dell’Ottocento e operante nel mondo tramite Comitati gestiti da volontari di origine italiana o cittadini locali.
2. Londra
Pensai di toccare il cielo col dito quando nel 1975 la mia prima sede di servizio dopo il concorso al Ministero degli Affari Esteri fu l’Istituto Italiano di Cultura di Londra. Londra era in cima ai miei desideri, non foss’altro a causa dei miei trascorsi universitari e post-universitari.
La sede dell’Istituto era ed è in Belgrave Square, l’elegante, armoniosa, prestigiosa piazza, confinante a nord-est con i giardini della residenza reale di Buckingham Palace. Il palazzo era una lease di 999 anni dal Duca di Westminster, proprietario della maggior parte del vasto quartiere di Belgravia, come pure del villaggio di Belgrave, nel Cheshire. Richard Grosvenor, duca di Westminster, lo sviluppò a partire dal 1820 con eleganti, lussuose dimore rifinite in stucco bianco attorno alle piazze Belgrave Square e Eaton Square. Alcune finirono col diventare nel tempo sedi di ambasciate e negli ultimi anni sono entrate nelle mire di ricchissimi investitori arabi e russi. Questi palazzi signorili ottocenteschi erano costruiti in verticale e ciascuno ospitava una singola famiglia. L’edificio sede dell’Istituto era quanto di meglio si potesse desiderare in termini di prestigio. I saloni al pian terreno e soprattutto al primo piano – il piano nobile – erano di gran tono e consentivano di organizzare eventi importanti e di ricevere in stile. Per contro i disadorni, poco appetibili piani alti, quelli destinati in origine alla numerosa servitù, ospitavano quasi tutti gli uffici, ed erano raggiungibili tramite una ripida, angusta scala interna.
I miei trascorsi londinesi risalivano agli anni ’50, quando da studente bocconiano affascinato dagli studi di anglistica e americanistica attraversai la Manica (The Channel) che separa l’isola dal Continente
, dopo un lungo viaggio di ventiquattro ore in treno insieme ad altri compagni di università. Allora si viaggiava essenzialmente per ferrovia e l’università organizzava le partenze.
Sbarcammo in una pensione (boarding-house) a lato di Regent’s Park (ora allietato da una imponente, frequentatissima moschea), una grande casa vittoriana gestita dai coniugi Jacobs. Da quelle prime esperienze giovanili si impressero in noi studenti durevoli immagini e sensazioni della cara vecchia Inghilterra
, dear old England, alle quali ci avevano iniziato le nostre frequentazioni letterarie.
La prima cosa che imparammo ad apprezzare fu la colazione del mattino, il mitico breakfast, che Mrs. Jacobs predisponeva per tutti i suoi ospiti attorno ad un grande tavolo comune e sorvegliava personalmente. La ricca colazione inglese era tanto più valutata e agognata perché il gruzzoletto che ci eravamo portati da casa sembrava assottigliarsi molto velocemente per soddisfare dei pasti idonei a sfamare degli adolescenti ancora in fase di crescita.
L’abbondante tè con il latte che si beveva dalla grande teiera (tea-pot) continuamente riempita d’acqua non era quanto di meglio ci si potesse aspettare. Da parte mia non ero mai stato un fan del tè, ma volendo e dovendo acclimatarmi a tutto ciò che era inglese me lo feci tollerare e alla fine piacere quanto basta, purché il latte aggiunto togliesse un po’ di quel gusto asprigno che mi risultava ostico. Con il tè sorbito ripetutamente dalle tipiche tazzone cilindriche (mugs), pancetta e uova (bacon and eggs), i tramezzini imburrati (buttered sandwiches) spalmati abbondantemente con marmellata d’arancia, con bucce grosse o sottili (thick-cut o thin-cut marmalade) – questa veramente una specialità inglese – erano una delizia e finivano abbondantemente nelle nostre gole insaziabili.
Sorrido mentre ricordo un nostro compagno lombardo, un tipo padano
rustico molto ben piantato, forse più affamato di noi a causa della sua stazza, addentare con forza, senza sosta e senza pronunciar parola o batter ciglio un sandwich dietro l’altro, suscitando la meraviglia (o forse anche un po’ l’irritazione) in Mrs. Jacobs, che sovrintendeva alle operazioni e che comunque non ebbe mai da ridire sul nostro appetito leonino.
Colleghi di qualche anno meno giovani di noi ci raccontarono in seguito che al loro arrivo in Inghilterra si videro consegnare la tessera in cui si segnavano le razioni alimentari consentite. Fino al 1953, quella era la situazione della vittoriosa Inghilterra post-bellica, stremata dalla guerra e dalla penuria, in contrasto con la sconfitta Italia, maggiormente benedetta dall’agricoltura. In quegli anni non si poteva infatti ordinare più di un uovo (come raccontò in una occasione anche l’Ambasciatore Sergio Romano arrivato là come studente prima di quell’anno).
Fiorivano i pubs (public bars), veri templi della socializzazione, immancabili all’angolo di quasi ogni via, bene identificabili per i loro antichi caratteristici nomi e le loro specialità di birre e culinarie.
La circolazione automobilistica era improntata ad una antica, consolidata norma di comportamento: velocità contenuta e se qualcuno accennava anche solo ad avvicinarsi ad un passaggio pedonale, immediatamente a distanza di parecchie yard le auto si arrestavano dall’un senso e dall’altro della via, e accadeva di vedere qualche conducente abbassare il finestrino (allora lo si faceva a mano) e allungare il braccio fuori per segnalare a chi arrivava da dietro di rallentare.
Se capitava di fermarsi per strada per una qualsiasi ragione, non mancava che subito qualcuno ti si avvicinasse per chiederti con un sorriso se poteva essere di aiuto. Guai comunque per un automobilista non calcolare bene la distanza al semaforo e trovarsi al rosso in mezzo all’incrocio segnalato dal reticolo giallo, pena la contravvenzione, oppure che qualche passante – che forse non aveva mai guidato un’automobile – si avvicinasse e vi ammonisse severamente a non comportarsi così.
Non erano passati molti anni dalla indelebile esperienza da studente, quando nel 1975 arrivai a Londra, orgoglioso di prendere servizio nella città dei miei sogni, desideroso di ritrovare la dear old London della mia adolescenza.
Allora i governi erano a direzione laburista, Wilson e Callaghan i premier. Il governo Wilson decretò il ritiro da Suez
, e la rinuncia definitiva e dolorosa della Gran Bretagna imperiale al dominio talassocratico mondiale, dovendo cedere il controllo dei mari, oltre che del resto, agli Stati Uniti, dopo che la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale fu quasi una sconfitta e la guerra del ’56 per Suez un fiasco.
Margaret Thatcher, The Iron Lady – L’economia – I Troubles
In quei tardi anni 1970 in cui prestavo servizio là, si avvicinava la resa dei conti delle protratte, insolubili problematiche concernenti la mastodontica, obsoleta, inquinante industria carbonifera, con i suoi agguerriti sindacati e sindacalisti, oltre che del gigantismo asfittico dell’industria automobilistica che, dopo ripetute fusioni, tentativi falliti di ottimizzazione (streamlining) e cambiamenti di nome ora si chiamava Leyland ed era più indebitata che mai, con lo Stato a pompare denaro in una voragine di cui non vedeva il fondo.
Suonavano come un paradosso i ricordi dei primi decenni del dopoguerra, quando ancora l’industria automobilistica britannica era la seconda nel mondo per numero di automobili prodotte dopo quella statunitense e, mentre le automobili americane ci stupivano per la loro ostentazione di lusso, opulenza, dismisura, le smaglianti, cromate carrozzerie e le code a pinna di squalo, quelle inglesi erano ambite da noi giovani per la fama che godevano di robustezza e affidabilità. Ammiravamo in particolare le Triumph.
Era stupefacente come le cose fossero rapidamente cambiate. Sempre più pesantemente sussidiata dallo Stato, l’imponente industria automobilistica britannica languiva, superata in qualità e in vendite dai concorrenti stranieri, soprattutto tedeschi e giapponesi, eppure oberata di un numero ormai spropositato di occupati, difesi da sindacati non disposti ad alcun compromesso.
Entrambi i comparti industriali avevano centinaia di migliaia di dipendenti e interi distretti dell’antica industrializzazione derivata dalla Rivoluzione Industriale tardo settecentesca dipendevano da esse. I distretti carboniferi, poi, erano notoriamente anneriti da due secoli di miniere, scorie e industrie dipendenti dal carbone – dal sud-ovest della Scozia, ai Midlands, al Galles. Un tragico esempio di questo retaggio storico si era visto a metà anni ’60 quando ad Abergavenny nel Galles una collina di scorie di carbone (slag heap), a causa di infiltrazioni d’acqua alla base (analogamente al Monte Toc, quando slittò nel bacino della diga del Vajont), scivolò travolgendo e seppellendo una scuola e i suoi scolaretti e insegnanti.
All’economia in affanno si aggiungevano i Disordini
(the Troubles) dell’Ulster. Si dibatteva molto nei media sull’Irlanda – Irlanda del Nord (Ulster, o contee del nord, nella preferita dicitura repubblicana) e la Repubblica (che gli inglesi chiamavano un po’ sprezzantemente Sud Irlanda
), Unionisti (chiamati anche Protestanti o Presbiteriani) e Repubblicani (o Cattolici).
Da parte britannica e unionista il demone da esorcizzare era considerato l’
ira
, l’altra parte vedeva la
ruc
(la temuta polizia dell’Ulster), l’
uda
(la detestata forza paramilitare di vigilanti dell’Ulster) e l’esercito britannico là impiegato come gli spietati aguzzini, specialmente dopo che nella Domenica di sangue
(Bloody Sunday) del 30 gennaio 1972 sparò sugli inermi dimostranti per i diritti civili uccidendo quattordici persone, tra cui dei ragazzi. All’ordine del giorno erano gli attentati e le terribili azioni dimostrative dei prigionieri repubblicani
. Le azioni di ritorsione, spettacolari e sanguinose, dell’
ira
trovavano nella polizia e nei paramilitari dell’Ulster agghiaccianti risposte, in un crescendo di feroci vendette e rappresaglie, cui si aggiungevano le esemplari punizioni nei reciproci campi e nello stile mafioso dei presunti traditori.
Sarà la Lady di ferro
(the Iron Lady), il solo uomo del Partito Conservatore
a fare il lavoro sporco
. Margaret Thatcher (curiosamente con studi di chimica, come più tardi Angela Merkel o papa Francesco), la borsetta sottobraccio da casalinga attenta ai bilanci familiari e bottegaia economa, si incaricherà di prendere le decisioni irrevocabili
, scandite con voce imperiosa ad alunni riottosi. Irriducibile e inconciliabile, dal 1979 condurrà il partito conservatore e il Paese a una svolta epocale, smantellando imperterrita tutto lo smantellabile, riducendo al silenzio all’occorrenza i suoi stessi ministri, che lei umiliava coram populo apostrofandoli con accuse di essere molli, privi di stamina, incapaci di azioni coraggiose.
Una rivoluzione conservatrice senza precedenti che creava larghe masse di disoccupati, ma che, puntando sull’innovazione e sulla finanza – e Londra ne era il massimo centro – imprimeva all’economia, soprattutto nei giovani executives, gli Yuppies, giovanile vigore e brama di guadagno. Dall’altra parte dell’oceano un attore simpaticone convertitosi alla politica, Ronald Reagan, le fece da controcanto. Eppure entrambi pochi anni dopo seppero credere in Mikhail Gorbačëv come a colui che avrebbe sepolto il comunismo.
Mi capitò di incontrare questa impavida casalinga-bottegaia, abituata a fare ogni sera i conti di cassa, nell’occasione in cui inaugurò da capo dell’opposizione
un’università privata, la University at Buckingham, un’iniziativa alla quale il governo laburista in carica si astenne dall’essere rappresentato. Per opportunità politica il nostro Ambasciatore scelse una presenza di basso profilo, l’ultimo arrivato, cioè me. Scambiammo poche parole di convenevoli. Notai una persona minuta, di media statura, dall’aspetto irrilevante, difficile da immaginare come la dirompente Prime Minister (
pm
), the Iron Lady, che sarebbe stata di lì a un paio d’anni dopo aver vinto le elezioni.
Annunciando fuori da No. 10, Downing Street, la sua nomina a
pm
, citò sorprendentemente San Francesco – quel San Francesco buono per ogni persona che si appelli ad alti ideali, dalla destra alla sinistra, dai conservatori ai comunisti. Quindi si mise di buona lena a smantellare l’industria estrattiva carbonifera nonostante il potentissimo sindacato
num
, National Union of Mineworkers, capeggiato da Arthur Scargill che organizzò invano il formidabile sciopero del 1984/85 (
uk
Miners’ Strike). Quando andò a trattare con l’agguerritissimo sindacato
tuc
, Trade Union Congress, sulla Leyland, mettendo subito sul tavolo la riduzione di 50.000 dipendenti, per cominciare
, il sindacato rispose con un bellicoso No, mai! Sciopero generale!
. Bene,
rimbeccò pronta lei, allora chiudiamo tutto!
Il sindacato chinò il capo. E seguirono decine di migliaia di licenziamenti a più riprese.
In Argentina il generale-presidente Galtieri e gli altri militari che ripulivano il loro Paese a forza di "desaparecidos – spariti tra torture e operazioni segrete d’ogni genere, lanciati dagli aerei sull’oceano, i loro figli distribuiti in regalo tra i militari – vollero fare una prova di forza
nacional invadendo le isole Falkland (Malvinas per loro).
Mai cedere ai fascisti!, urlò l’Iron Lady e fu guerra contro la prudenza dei suoi generali. Anche se i costi della stessa non sembravano compatibili con la sua contabilità da bottegaia, quando ci vuole ci vuole per la dignità del Paese. Da parte di molti, anche diplomatici nostrani, inclini al pacifismo ad oltranza e al terzomondismo purchessia, purché contrasti le potenze anglo-sassoni, si parteggiò volentieri per i nostri
cugini" argentini.
Con l’Unione Europea non mancò di alzare la voce con lo slogan imperioso e ultimativo: Ridateci i nostri soldi!
("Give us back our money!"), che poi era quanto ogni governo inglese ha sempre cercato di fare – e ottenuto, salvo non contentarsi mai.
I "Troubles" nell’Ulster finirono coll’attraversare il Mare d’Irlanda per avvelenare la società e la politica nella stessa Inghilterra. Ricordo i locali pubblici con le loro grandi vetrate protette da muri di sacchetti di sabbia come al tempo dei raid nazisti della Seconda Guerra Mondiale. L’ira contro l’
ira
era palpabile e finiva col coinvolgere tutta la Gran Bretagna, rinnovando i sentimenti e i pregiudizi ostili e razzisti contro gli irlandesi, formatisi fino dal Medioevo e fomentati ai tempi del puritano antipapista Oliver Cromwell nel Seicento, attribuendo a quel popolo costumi primitivi, superstiziosi e barbari.
Un irriducibile nemico dei papisti
era il pastore presbiteriano Ian Paisley, capo del
dup
, Partito Unionista Democratico, dell’Irlanda del Nord, eletto eurodeputato. Tuttavia finì con l’accettare la condivisione del governo della provincia con l’Accordo del Venerdì Santo dell’aprile 1998 (Good Friday Agreement), o Accordo di Belfast, promosso da Bill Clinton e Tony Blair, che mise fine al terribile trentennio di violenze. Ian Paisley accettò sorprendentemente di diventare First Minister, capo del governo di coalizione nel Nord Irlanda con Gerry Adams, capo del partito repubblicano
Sinn Fein e vice-primo Ministro.
Altro vocifero portavoce e strenuo difensore dell’Ulster britannico contro i repubblicani-cattolici e contrario all’immigrazione dalle ex colonie era Enoch Powell, membro conservatore della Camera dei Comuni e più volte Ministro, poi passato al Partito Unionista nordirlandese. Mi imbattei in lui casualmente e inaspettatamente una mattina dallo stesso giornalaio, mentre io stavo entrando e lui stava uscendo, quasi ci scontrammo, ma lui fu