King
5/5
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Info su questo ebook
Mi ero ritrovato negli occhi stregati di una ragazza che era perduta quanto me
O forse non ci eravamo trovati affatto
Forse avevamo semplicemente deciso di perderci insieme
«Una bellissima storia. L’ho letta e riletta… Non sono riuscita a staccarmene.»
«Prendete questo libro e leggetelo. Quando lo avrete fatto non potrete mai più smettere di pensarci.»
«Per favore, scrivete altri romanzi come questo!»
T.M. Frazier
è cresciuta sognando che un giorno qualcuno potesse leggere e amare le sue storie. Adesso è un’autrice bestseller di USA Today e i suoi libri sono tradotti in tutto il mondo. I suoi romanzi sono stati definiti oscuri, crudi e pieni di grinta: se alcuni scrittori hanno il dono di saper descrivere la primavera, lei sceglie le tinte dell’autunno.
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Anteprima del libro
King - T. M. Frazier
Capitolo 1
King
Il giorno che uscii di prigione mi ritrovai a tatuare una passera su una passera. L’animale sull’organo genitale femminile.
Un uccello sulla figa.
Ridicolo, cazzo.
Le pareti del mio studio di tatuaggi pulsavano sotto il ritmo pesante della musica che proveniva dalla festa organizzata per il mio ritorno a casa e che infuriava al piano di sotto. Faceva vibrare la porta come se qualcuno, tenendo il ritmo, stesse cercando di abbatterla. Dal pavimento fino al soffitto le pareti erano coperte di vernice spray e poster, che gettavano una patina di luce artificiale su tutto ciò che c’era dentro.
La puttanella dai capelli scuri su cui stavo lavorando si lamentava come se stesse venendo. Sono certo che fosse strafatta di ecstasy perché un tatuaggio direttamente sopra il clitoride non poteva non essere che fottutamente doloroso.
Una volta quando tatuavo riuscivo ad astrarmi per ore e a scoprire quel piccolo angolo della mia vita che non comprendeva tutte le stronzate con cui dovevo fare i conti ogni giorno.
Prima, dopo essere stato dentro, anche se per periodi di tempo molto più brevi, le prime cose a cui pensavo erano la figa e le feste. Ma questa volta la prima cosa che avevo fatto quando ero entrato nella stanza era stato prendere in mano la mia pistola per tatuaggi; non era come sempre. Non ero riuscito a raggiungere quello stato di distacco temporaneo dalla realtà, malgrado ci avessi provato con tutto me stesso. Il fatto che i tatuaggi richiesti diventassero sempre più schifosamente stupidi non aiutava di certo.
Scudetti di squadre di calcio, citazioni da libri che sapevo benissimo che i clienti non avevano mai nemmeno letto e aspiranti gangster che volevano tatuate delle lacrime sulla loro faccia. In prigione quel tatuaggio significava che si aveva ucciso qualcuno. Alcune delle puttanelle che lo volevano non sembravano nemmeno in grado di pestare uno scarafaggio senza rannicchiarsi in un angolo e piangere per chiamare la mamma.
Ma dato che i miei clienti ripagavano soprattutto in favori e consistevano per lo più in motociclisti, spogliarelliste e occasionalmente in qualche ragazzo ricco che si era trovato dalla parte sbagliata della sopraelevata, avrei dovuto abbassare le mie aspettative.
Ma dopotutto era bello essere di nuovo a casa. A dire il vero, era bello qualsiasi posto che non puzzasse di vomito e vite sprecate.
Dal giorno in cui avevo incontrato Preppy la mia vita aveva avuto un’accelerazione pazzesca. Mi piaceva vivere da delinquente. Mi nutrivo della paura negli occhi di coloro che mi incontravano. L’unica cosa di cui mi sono sempre dispiaciuto è di essere stato preso.
Quando non ero in prigione avevo trascorso quasi ogni singolo giorno dei miei ventisette anni a Logan’s Beach, una cittadina di merda sulla costa del golfo della Florida. Un posto dove gli abitanti di un lato della sopraelevata vivevano esclusivamente per servire i ricchi dall’altro lato, che vivevano in ville e grattacieli con vista sulla spiaggia. A meno di un chilometro da quel tipo di ricchezza accumulata in più generazioni c’erano campi caravan e case fatiscenti.
Il giorno del mio diciottesimo compleanno comprai una palafitta fatiscente nascosta dietro a un muro di fitti alberi, con tre acri di un terreno che si trovava praticamente sotto il ponte, in contanti. E io e il mio migliore amico Preppy ci trasferimmo nella parte ricca della città, eravamo la versione bianca e trash di quei figli di puttana dei Jefferson.
Fedeli alle nostre parole, eravamo padroni di noi stessi e non rendevamo conto a nessuno. Facevamo quello che volevamo. La mia passione per il disegno si trasformò in quella per i tatuaggi.
Preppy andava a puttane.
Io scopavo. Facevo a botte. Andavo alle feste. Mi ubriacavo. Rubavo. Scopavo. Tatuavo. Spacciavo. Vendevo armi. Rubavo. Scopavo. Facevo soldi.
E scopavo.
Non c’era festa che non fosse di mio gradimento o a cui non ero gradito. Non c’era una ragazza che non mi avesse dato il lasciapassare, che non avesse sollevato i fianchi per lasciarmi sfilare via le sue mutandine. Avevo quello che volevo, ogni dannata volta.
La vita non era solo bella. La vita era grandiosa, cazzo. Ero il re di quel mondo schifoso e nessuno mi rompeva il cazzo o mi fotteva.
Nessuno.
E poi tutto è cambiato e ho passato tre anni in una piccola cella senza finestre, a studiare le crepe che cambiavano nelle pareti di cemento.
Quando finii con l’uccello blu dei cartoni animati, applicai la pomata, coprii con la pellicola e mi tolsi i guanti. Questa ragazza pensava davvero che i ragazzi ne sarebbero stati eccitati? Era uscito un bel lavoro, soprattutto perché erano tre anni che non lavoravo, ma stava coprendo la parte che preferivo in una donna. Se l’avessi spogliata e avessi visto quella cosa, l’avrei presa da dietro.
Non male come idea. Scopare mi sarebbe servito a spazzare via la confusione mentale da post carcere e sarei potuto tornare alle cose che erano state importanti per me, senza quel martellante senso di terrore che incombeva sulla mia coscienza.
Invece di rispedire la ragazza alla festa la afferrai bruscamente e la tirai giù dal tavolo, verso di me. Io ero in piedi e la girai, piegandola in avanti. Con una mano sulla nuca le spinsi la testa giù sul tavolo, slacciandomi la cintura dei pantaloni con l’altra. Presi un preservativo da un cassetto aperto.
Sapeva già che il denaro non era il tipo di moneta che stavo cercando e che non avrei lavorato in cambio di nulla. Così raddrizzai bene la punta del mio uccello e le presi la passera come compenso per il suo nuovo tatuaggio. Di una passera.
Fanculo la mia vita.
La ragazza aveva un corpo splendido, ma dopo pochi minuti di gemiti sopra le righe, non mi stava dando alcuna sensazione. Potevo sentire il mio uccello che entrava molle dentro di lei. Questo non era quello che sarebbe dovuto succedere, soprattutto non dopo tutti quegli anni in cui la mia mano destra e la mia immaginazione erano stati i miei unici compagni di sesso.
Cosa cazzo ho che non funziona?
Le afferrai la gola con entrambe le mani e la strinsi, accelerando il movimento, tirai fuori le mie frustrazioni a ogni spinta violenta al ritmo martellante proveniente dall’altra stanza.
Niente.
Ero sul punto di tirarlo fuori e arrendermi.
Quasi non mi accorsi che la porta era aperta.
Quasi.
Un paio di occhi azzurri da bambola mi stavano fissando con sguardo assente, incorniciati da lunghi capelli biondo platino, una piccola fossetta al centro del mento, le labbra arricciate erano di un rosa intenso. Una ragazza, di diciassette o diciotto anni, non di più, un po’ troppo magra.
Un po’ impaurita.
Il mio uccello mostrò segni di vita, riportando la mia attenzione al fatto che stavo ancora sbattendo la brunetta. L’orgasmo mi travolse violento, salendomi vertiginosamente alla schiena e cogliendomi del tutto di sorpresa. Chiusi gli occhi, svuotandomi nel tatuaggio della passera, crollando sulla sua schiena.
Che cazzo?
Quando aprii di nuovo gli occhi, la porta era chiusa e la ragazza dagli occhi tristi non c’era più.
Sto perdendo la testa, cazzo.
Scivolai fuori dalla brunetta che per fortuna respirava ancora, ma era incosciente, per lo strangolamento o per la droga aveva le pupille dilatate quanto le sue fottute orbite.
Andai a sedermi sul mio sgabello a rotelle e lasciai cadere la testa tra le mani.
Avevo un fortissimo mal di testa del cazzo.
Preppy aveva organizzato questa festa per me e il mio io pre-galera a quest’ora si sarebbe già sniffato qualche striscia dalle tette delle spogliarelliste. Ma il mio io post-galera voleva solo mangiare, una buona notte di sonno e quelle persone del cazzo fuori da casa sua.
«Stai bene, capo?» chiese Preppy, infilando la testa nella stanza.
Gli indicai la ragazza incosciente sulla sedia. «Porta questa puttana fuori di qui». Mi passai la mano tra i capelli, il pulsare della musica faceva crescere sempre di più le fitte alla testa. «E porca puttana, abbassa quella merda!». Preppy non meritava la mia rabbia, ma ero troppo incasinato in testa per moderare i miei comandi.
«Agli ordini», disse senza esitazione.
Preppy mi scivolò accanto senza fare domande sulla ragazza mezza nuda sul tavolo. Con un semplice movimento si caricò in spalla il corpo senza sensi. Le braccia della ragazza incosciente gli sventolavano sulla schiena, colpendogliela a ogni passo. Prima che fosse troppo lontano, si voltò verso di me.
«Hai finito con questa?», chiese. Riuscii a fatica a sentirlo con quella musica. Con il mento fece cenno alla brunetta sulla spalla e sul viso aveva il ghigno di un bambino.
Annuii e Preppy sorrise come se gli avessi appena detto che poteva avere un cucciolo.
Fottuto malato.
Volevo bene a quel ragazzo.
Chiusi la porta, afferrai la mia pistola e il coltello dal primo cassetto della scatola degli attrezzi in cui tenevo la mia attrezzatura per i tatuaggi. Rinfoderai il coltello nello stivale e la pistola nella cintura dei jeans.
Scossi la testa da un lato all’altro per spazzare via la confusione mentale. Questo ti fa il carcere. Tre fottuti anni passati a dormire con un occhio aperto in una prigione piena di persone dove avevo sia amici sia nemici.
Era giunto il momento di tenere buoni alcuni di quegli amici e chiedere qualche favore, perché c’era qualcosa di più importante delle mie stronzate egoistiche di cui dovevo occuparmi.
Qualcuno di più importante.
Il sonno poteva aspettare. Era ora di scendere di sotto e fare amicizia con i motociclisti. Avevo evitato in qualunque modo di fare affari con loro per anni, anche se il loro vice presidente, Bear, è come un fratello per me. Bear aveva cercato di farmi entrare nel suo moto club centinaia di volte, ma mi ero sempre rifiutato. Ero un criminale a cui piaceva fare i propri crimini da solo, senza un’organizzazione alle spalle. Ma ora avevo bisogno di quelle conoscenze che i motociclisti potevano fornire, come la possibilità di avvicinare politici disonesti le cui decisioni e opinioni erano facilmente corruttibili.
Non mi ero mai interessato al denaro prima d’ora. Era qualcosa di usa e getta per me, qualcosa che usavo per finanziare il mio stile di vita non me ne frega un cazzo. Ma ora?
Le tangenti ai politici non erano diventate meno costose e avrei avuto bisogno di un sacco di contanti, e anche molto presto.
O non avrei mai più rivisto Max.
Capitolo 2
Doe
Nikki era la mia unica e sola amica al mondo.
E in un certo senso la odiavo, cazzo.
Nikki era una battona che mi aveva trovata a dormire sotto una panchina. Non ero riuscita a evitare il temporale delle notti precedenti e dopo aver tremato e battuto i denti ero riuscita a addormentarmi. Stavo ormai vivendo per strada da diverse settimane e non avevo avuto un vero pasto da quando ero scappata dal Centro Manomorta, un soprannome che avevo dato alla casa famiglia in cui ero stata lasciata a marcire. Sono abbastanza certa che Nikki stesse cercando di derubarmi – o derubare quello che lei pensava fosse un cadavere – quando si accorse che stavo ancora respirando.
Francamente sono sorpresa che si sia preoccupata di me dopo aver visto che in realtà ero viva.
Viva sì, ma senza vita.
Attraverso un post-it arrotolato Nikki sniffò l’ultima striscia da un lavandino ingiallito che sembrava cadere dal muro da un momento all’altro. Il pavimento era disseminato di carta igienica, e tutti e tre i water erano sul punto di traboccare di melma marrone. L’odore travolgente di candeggina mi bruciava i peli del naso, come se qualcuno avesse cosparso la stanza di prodotti chimici per attenuare l’odore ma non si fosse preoccupato di pulire veramente.
Nikki inclinò il mento all’insù verso i pannelli ammuffiti del soffitto e si tappò il naso. Una luce fluorescente sfarfallava e ronzava sopra di noi, lanciando una tinta verdastra sopra il bagno della stazione di servizio.
«Cazzo, è roba buona», disse gettando il sacchetto di plastica vuoto sul pavimento. Usando il pennellino di un tubetto quasi vuoto di lucidalabbra, raccolse tutto quello che era rimasto e lo applicò sulle sottili labbra screpolate. Con il mignolo poi fece sbavare la spessa riga sotto gli occhi fino ad annuire con soddisfazione nello specchio al suo look fumoso stile orsetto lavatore.
Feci scendere la manica del mio maglione fin oltre il polso e sfregai via il sudiciume dallo specchio di fronte a me, rivelando due cose: una crepa a forma di ragnatela nell’angolo e l’immagine di una ragazza che non riconoscevo.
Capelli biondo chiaro. Guance infossate. Occhi azzurri iniettati di sangue. Fossetta sul mento.
Niente.
Sapevo che la ragazza ero io, ma chi cazzo ero io?
Due mesi prima un netturbino mi aveva scoperta in un vicolo dove ero stata letteralmente gettata fuori insieme alla spazzatura, mi aveva trovata che giacevo nel mio stesso sangue tra un mucchio di sacchi dell’immondizia accanto a un cassonetto. Quando mi ero svegliata in ospedale, con il più grande fottuto mal di testa nella storia dei mal di testa, ero stata dimessa dalla polizia e dai medici come una che era scappata. O una battona. O un ibrido delle due. Il poliziotto che mi aveva interrogata a letto non si era preoccupato di nascondere il suo disgusto quando mi aveva informato che quello che era probabilmente successo non era altro se non un semplice caso di un cliente che era stato violento con me. Avevo aperto la bocca per dire la mia ma mi ero fermata.
Avrebbe potuto avere ragione.
Qualsiasi altra cosa non avrebbe avuto senso.
Niente portafoglio. Niente documento d’identità. Niente denaro. Niente di niente.
Niente memoria del cazzo.
Quando al telegiornale parlano di qualcuno che è scomparso, gruppi di persone si mettono insieme e formano una squadra di ricerca. Vengono compilati verbali della polizia e a volte si tengono fiaccolate nella speranza che chi è scomparso torni presto a casa. Quello che non fanno mai vedere è quello che succede quando nessuno ti cerca. Quando i propri cari non lo sanno, o non esistono… o semplicemente non si preoccupano.
La polizia aveva cercato nei report delle persone scomparse in tutto lo Stato e poi nel Paese, senza successo. Le mie impronte non erano registrate da nessuna parte e nemmeno la mia foto.
Avevo poi appreso che essere catalogata come persona scomparsa non significava necessariamente che io mancassi a qualcuno. Quanto meno non abbastanza per richiedere qualsiasi tipo di azione mediatica. Nessun articolo di giornale. Nessuna notizia sul canale 6. Nessun appello da parte dei membri della famiglia per un mio ritorno sana e salva.
Forse era colpa mia se nessuno si era preoccupato di cercarmi. Forse ero una stronza e la gente aveva festeggiato il giorno in cui me n’ero andata.
O scappata.
O ero stata trasportata dal fiume in un cazzo di cestino come Mosè.
Non lo sapevo, cazzo. Tutto era possibile.
Non sapevo da dove venivo.
Non sapevo quanti anni avevo.
Non conoscevo il mio vero nome.
Tutto ciò che possedevo al mondo era riflesso sullo specchio del bagno di quella stazione di servizio, e non avevo la benché minima idea di chi fosse.
Senza sapere se fossi minorenne oppure no, venni spedita a vivere al Centro Manomorta dove, tra masturbatori seriali e delinquenti minorenni, durai solo un paio di settimane. La notte in cui mi svegliai e trovai uno dei ragazzi più grandi che stava ai piedi del mio letto con la lampo aperta e il cazzo in mano, scappai attraverso una finestra del bagno. L’unica cosa che mi rimase furono i vestiti donati che indossavo e un soprannome.
Mi chiamavano Doe.
Come Jane Doe.
Mi sarebbe servito solo un cartellino sull’alluce per assomigliare alla vera Jane Doe perché, sicuro come la morte, quello che stavo facendo non era vivere. Rubavo per mangiare. Dormivo ovunque trovassi riparo dalle intemperie. Chiedevo l’elemosina vicino agli svincoli delle tangenziali. Rovistavo nei cassonetti dei ristoranti.
Nikki passò le sue unghie tutte masticate tra i suoi capelli rossi e unti. «Pronta?», chiese. Tirò su con il naso, saltellò in punta di piedi come se fosse un’atleta che si stava preparando per una gara importante.
Benché fosse molto lontano dall’essere vero, annuii. Non ero pronta, non lo sarei mai stata, ma non avevo alternative. Per strada non era sicuro, stare ogni notte all’aperto significava giocare con la mia vita, nel vero senso della parola. Senza parlare del fatto che se avessi perso altro peso non avrei avuto la forza di difendermi da alcun pericolo. In entrambi i casi, avevo bisogno di ripararmi sia dalle intemperie sia dalle persone che si aggiravano la notte, prima di fare davvero la fine della vera Jane Doe.
Non credo che Nikki riuscisse a percepire la fame. Ma, anche in caso contrario, preferiva una breve sbandata alla pancia piena. Ogni singola volta. Un fatto triste reso evidente dagli zigomi appuntiti e dalle occhiaie nere sotto gli occhi. Nel breve tempo in cui l’ho frequentata, non l’ho mai vista ingerire altro che cocaina.
La giudico e mi sento una merda per questo. Ma in fondo lo so che è migliore di quello che fa. Quando non sono troppo arrabbiata con lei mi sento quasi protettiva nei suoi confronti. Stavo lottando per la mia sopravvivenza e volevo lottare per la sua, ma il problema era che lei non voleva lottare per se stessa.
Aprii la bocca per farle una predica. Stavo per dirle che avrebbe dovuto lasciar perdere l’erba e dare priorità al cibo e alla sua salute in generale, quando si girò verso di me. Ero là, a bocca aperta, pronta a tempestarla di consigli come se fossi stata migliore di lei. La verità era che, prima di perdere la memoria, potevo essere stata immersa fino al collo nella stessa merda.
Mi tappai la bocca dispensatrice di consigli.
Nikki mi guardò dall’alto in basso, valutando il mio aspetto. «Ce la puoi fare», disse con un tono di evidente insoddisfazione. Mi ero rifiutata di imbrattarmi di trucco o di strapparmi tutte le sopracciglia per lasciare una linea sottile al loro posto come aveva fatto lei. Mi ero invece lavata i capelli nel lavandino e avevo usato l’asciugamani elettrico perché si asciugassero più velocemente. Il mio viso era senza trucco, ma andava bene così, perché se avevo intenzione di truccarmi, volevo farlo a modo mio e senza assomigliare a Nikki.
Sì, sono una stronza dispensatrice di consigli.
«Com’è che funziona?», chiesi. Me l’aveva già detto dieci volte, ma avrebbe potuto dirmelo altre diecimila volte e ancora non mi sarei sentita a mio agio.
Nikki aveva gonfiato i suoi capelli mosci. «Seriamente, Doe, ma vuoi ascoltarmi?». Sospirò infastidita ma continuò. «Quando arriviamo alla festa tutto quello che devi fare è coccolare uno dei motociclisti. Se gli piaci c’è una buona probabilità che ti voglia portare dentro, tenerti per un po’ e tutto quello che devi fare è scaldargli il letto e farlo stare bene».
«Non so se riesco a farlo», dissi in tono remissivo.
«Sì che ce la fai e lo farai. E non essere così timida che a loro non piace. E poi non sei timida, parli così solo perché sei nervosa. Sei un tipo alla mano, specialmente per quella preoccupante tendenza che hai a fare gaffe».
«Mi conosci da così poco tempo, mi fai venire i brividi per come mi hai già inquadrato», dissi.
Nikki alzò le spalle. «Mi piace studiare le persone, e che tu ci creda o no, è molto facile con te. Ora ad esempio sei tesissima. Lo so perché tieni le spalle curvate in avanti». Me le massaggiò. «Meglio. Tira fuori il petto. Non hai molto da offrire qui sopra ma, se togli il reggiseno e se tieni indietro le spalle, potranno intravedere un piccolo capezzolo e gli uomini adorano i capezzoli».
Ecco fatto. Avrei potuto convincere un motociclista a volermi, mi avrebbe protetto, possibilmente per un periodo abbastanza lungo per mettere in atto il piano b. «Lo scenario peggiore è che lui stia solo cercando una sveltina, ti getterà qualche dollaro e ti manderà da dove sei venuta». Per Nikki sembrava stessimo andando in vacanza e non a prostituirci.
Potevo ingannare me stessa e pensare che se non battevo per strada allora non ero come Nikki, ma la verità era che, per quanto ci girassi intorno, quel piano mi avrebbe trasformato in una prostituta.
Signora Arrogante Consiglia.
Mi spremetti così tanto il cervello alla ricerca di altre soluzioni che me lo ritrovai vuoto come la mia pancia.
Nikki spalancò la porta, lasciandola oscillare avanti e indietro, e la luce del sole invase lo spazio buio. Guardando la ragazza dal volto semplice nello specchio per l’ultima volta sussurrai: «Mi dispiace».
Era una consolazione sapere che, qualsiasi persona fossi stata prima di avere quella tabula rasa in testa, non avevo idea di quello che stessi per fare.
Perché quello che stavo per fare era vendere il suo corpo.
E la mia anima, se mai l’avessi avuta ancora.
Capitolo 3
Doe
Seduta sul sedile posteriore di una vecchia Subaru di un tizio pelato, mi sforzai di diventare per qualche istante sorda per non essere costretta a sentire Nikki che faceva un pompino all’autista. Ci stava portando alla festa in una casa a Logan’s Beach. Quando finalmente ci fermammo, saltai fuori dall’auto come se fosse stata in fiamme.
«Ciao, baby», disse Nikki in tono dolce, mentre si puliva l’angolo della bocca con una mano e con l’altra salutava la macchina che si allontanava. Quando scomparve, esasperata sputò a terra.
«Credo che vomiterò», dissi io, sul punto di soffocare per i conati.
«Be’, non sei tu che ti sei offerta di succhiargli l’uccello per la corsa», ribatté Nikki. «Quindi chiudi quella cazzo di bocca. E poi, è grazie a me che siamo qui, no?».
Qui si riferiva a una strada sterrata ai margini di una proprietà ricoperta di alberi e siepi. Una piccola apertura nella sterpaglia consentiva lo spazio a uno stretto vialetto. Era buio e non c’erano lampioni sulla strada a indicarci la via fino alla casa, il sentiero sembrava non finire mai. Un leggero odore di pesce permeava l’aria. Il mio stomaco vuoto era in subbuglio, mi tappai bocca e naso con la mano per evitare di stare male.
In lontananza apparvero delle luci tremolanti. Mentre ci avvicinavamo alla casa mi resi conto che quello che stavamo vedendo non erano affatto fari, ma torce di plastica infilate nel terreno da angolazioni imprevedibili, creando un sentiero di fortuna attraverso l’erba intorno al retro dell’abitazione.
La casa era a tre piani e costruita su fondamenta di palificazioni. Il piano di sotto era occupato quasi tutto da un open space dove erano parcheggiate moto luccicanti e auto che riempivano ogni centimetro di spazio disponibile. Nella parete più lontana c’erano due porte, una con un catenaccio e una barra di metallo che l’attraversava e un’altra più o meno a un metro da terra con due gradini di cemento per l’accesso. Ai due piani più alti c’erano balconi che giravano intorno alla casa, tutte le finestre erano illuminate e rivelavano le ombre delle persone che si trovavano dentro. La musica faceva vibrare il terreno bagnato, facendo piovere sulle mie gambe l’acqua dagli alti fili d’erba.
«Vivono qui i motociclisti?», chiesi a Nikki.
«No, questa casa è del tizio al quale stanno organizzando la festa».
«E chi è?» chiesi. Nikki alzò le spalle.
«Non lo so. Tutto quello che so è che Skinny ha detto che era una festa per un ritorno a casa». Skinny era stato un po’ il ragazzo di Nikki, un po’ il suo magnaccia.
Quando raggiungemmo il retro della casa, vidi per la prima volta i motociclisti e il mio stomaco andò di nuovo sottosopra. Mi fermai di scatto.
Eccoli là, circondavano un braciere al centro dell’enorme cortile, le fiamme e il fumo che fluttuava in grandi volute si alzavano in alto quanto la casa. Ero così presa da quello che dovevo