Minima Viralia: La solitudine non solitaria di un antropologo in quarantena
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Anteprima del libro
Minima Viralia - Massimo Canevacci
VITALE
Introduzione anteriore
Il sei marzo leggo un’intervista di Giampaolo Visetti ad Annalisa Malara e ne rimango affascinato. Decido subito di citare l’esperienza sul metodo di ricerca verso lo sconosciuto della virologa, il cui sguardo è incredibilmente affine a quello che, almeno per me, è o dovrebbe essere il metodo etnografico. La ricerca è sempre anche un’auto-ricerca, la dimensione riflessiva del ricercatore su sé stesso è parte costitutiva del metodo in particolare quando si affronta lo sconosciuto, lo straniero, quello che la virologa chiama l’ ignoto . Il fascino dell’antropologia e di qualsiasi attitudine indisciplinata
che sfidi le certezze acquisite sta nell’oltrepassare la soglia di ciò che è noto: nell’altrove emerge lo stupore che dilata il corpo poroso e lo spinge a incontrare proprio lui , l’ignoto, ovvero l’etnografia virale. Viralia .
In quello stesso giorno inizia la mia composizione quotidiana che termina la domenica del 17 maggio con la fine della clausura; solo l’ultima nota arriva qualche giorno dopo, il primo giovedì dedicato agli gnocchi in una trattoria del Pigneto a Roma. Qui mi ero ripromesso di svolgere un rituale senza rito , vissuto individualmente e in quanto tale irrisolto, frammentato dalla complessità della ripresa quotidiana.
Questo virus non è solo ignoto nei laboratori: è straniero anche nella condizione del tutto imprevista del mio vissuto a casa. Casa che improvvisamente si trasforma, da luogo per eccellenza conosciuto, in spazio tutto da improvvisare. Lo stupore che mi assale leggendo la frase all’inizio del testo mi spinge a comportamenti imprevedibili in quella che pensavo essere la mia condizione domestica. Con un eccesso di spontaneità, decido di scrivere su Facebook la mia prima riflessione dedicata proprio ad Annalisa Malara. In effetti stupore e spontaneità sono emozioni affini, che si compenetrano quasi sessualmente. In tale libera fluttuazione, mi viene da non usare la mia maniera tradizionale di scrivere e inizio a comporre qualcosa di inedito anche a me stesso. Una sorta di improvvisa scrittura-orale, come l’ha definita un’amica invisibile, con cui racconto piccole storie.
La mattina mi sveglio sempre intorno fra le 6 e le 7, le luci entrano dalla finestra e, stando a letto, inizio a pensare cosa dovrò scrivere, sospinto dall’urgenza di comunicare a persone conosciute o meno – secondo la caratteristica del social network – un tema vissuto in qualsiasi tempo dall’implicita connessione con la clausura. Ma quale storia scegliere? Inizia così un mio sfogliare la memoria, focalizzando eventi recenti, passati o immaginati. Il futuro anteriore diventa il mio verbo, o meglio la mia logica compositiva. Questo incredibile sistema grammaticale che i romani chiamavano futurum exactum
, diventa lo stile narrativo adeguato a una condizione di emergenza. E che il futuro esatto sia anteriore all’oggi è genialità di una lingua.
Per la prima volta mi ritrovo solo a casa. Questa è una mia solitudine del tutto inedita. Sarei dovuto partire qualche settimana prima del 6 marzo per il Brasile e raggiungere Sheila e Marcello, ma il virus ha bloccato i voli, per cui non potevo che rimanere solo. La compagnia immaginaria mi arriva di mattina presto. Sono fantasmi o fantasie o riflessioni quasi morali
laterali all’evento che sta cambiando il mondo. Le mie scelte non cadono su questioni politiche
o di attualità: sono viralia, ovvero affrontano le tante cose – sentimenti o ricordi – emerse dal virus e che racconto con toni minimi, direi confidenziali, segnati da un’amichevole oralità digitale. Seleziono alcune parole, le trascrivo sul mio taccuino che giace nel comodino e ne scelgo una al giorno che disegno in bizzarre calligrafie. Poi mi alzo, faccio la mia fedele Moka, come si vedrà, e vado in salotto a scrivere di getto su Facebook quasi senza rileggere. Confesso che rimango seduto di fronte al computer per vedere le reazioni che aumentano con la clausura. Ciò mi rallegra e rispondo ai tanti commenti che avrei voluto accludere e mi tormenta ancora adesso il rimorso di non averlo fatto. Dopo un’oretta faccio colazione completa e si profila il modello della giornata-tipo: la mattina rimango connesso al social network, affronto quattro giornali online, controllo le mail; il pomeriggio leggo libri, scrivo qualcosa, vedo un film o cammino tra le TV, a volte faccio ginnastica improvvisata e annoiata; la sera – la maledetta sera, quando la solitudine diventa più agra – mi ossessiono con Netflix di cui divento competente. Sfinito, mi abbandono a fantasie che svaniscono col sonno.
Questo comportamento più o meno regolare fa emergere un mio stile del tutto inedito su cui il sottotitolo ispira l’intera narrazione: una solitudine non solitaria. In tale assolo
ambivalente, si annuncia la chiave di queste mie giornate che – in ogni incerta mattina – presentano il risveglio di un sopravvissuto. Sono solo, vivo la solitudine radicale per la prima volta rinchiuso in casa e senza nessun affetto, amore, amicizia. Eppure non sono solitario, in quanto la comunicazione digitale e in particolare Facebook (ma anche WhatsApp, Zoom, Messenger, iPhone ecc.) favoriscono la mia connettività con ogni possibile altro. L’alterità espansa. È il paradosso di convivere tra analogico e digitale senza poter separare i due momenti che stanno riconfigurando il mondo intero. Né posso immaginare di separare – secondo le vecchie regole dicotomiche – questi due livelli che, al contrario, si intrecciano, litigano, confliggono, si appacificano, si allontanano nel corso di ogni lunga giornata personalizzata. In ogni caso, il digitale favorisce un soggetto connettivo dalle identità ubique e in transito piuttosto che un io collettivo dall’identità territoriale fissa e compatta. Per fortuna, aggiungo…
Vorrei delineare una antropologia-non-antropocentrica basata su alcuni semplici principi: con-cittadinanza pubblica, con-nettività soggettiva, co-evoluzione natura/cultura. Gli umani non sono più il centro di tutto il cosmo ma con-vivono assieme ad altri esseri animali, vegetali, minerali, cosali e persino divini.
Solitudine-non-solitaria è il processo particolarmente mio, ma che avverto essere vissuto anche da tante altre persone nelle loro specifiche condizioni. Le cose-del-virus diventano viralia, omaggiando l’autore che più amo e il suo testo che ebbe la capacità di affrontare e discutere i valori morali in transizione durante l’esilio, anzi, i molti esili in cui Adorno si è trovato a vivere. La dimensione minima deriva dal rifiuto dichiarato di svolgere un pensiero o una teoria massim a, tantomeno dialettica o sintetica. Così il titolo, che è emerso solo alla fine, è un omaggio al francofortese e, mi auguro, non certo un’imitazione che del resto sarebbe impossibile.
In realtà non solo il titolo, ma l’intero testo – che non pensavo di pubblicare – è emerso improvviso e inaspettato grazie a un amico che ha avuto la pazienza e il piacere, il piacere paziente, di raccogliere ogni mia puntata
e regalarmela alla fine con una dedica. E la dedica ora si volge a lui, Giorgio Cipolletta, amico ubiquo, e con lui vorrei dedicarla a tutti quegli amici, conosciuti o meno, che su facebook hanno letto e commentato le mie mattinate grazie alla Moka, amica e amante quotidiana. Oltre a lui voglio dedicare viralia a Decio Murè, amico e compagno da sempre, con cui studiavo e continuo a discutere di filosofia e a cazzeggiare su tutto; a Vincenzo Padiglione e Alberto Sobrero per le cene trasformate in simposi alla carbonara; a Maria Filomena Bruno che ha commentato con acutezza ogni mia storia in rappresentanza di tutti/e e a Fiorella per i mattinieri messaggi in privato. Infine, non posso non ricordare la causa involontaria di tutta questa solitudine: Sheila e Marcello che sono stati assistiti da cari amici paulistani, Tomàs e Helena, cui va il pensiero affettuoso; mentre Marco ormai già immagina architetture trasparenti e fantastiche da applicare su corpi e metropoli.
Qui di seguito, uno stralcio conclusivo che apre all’opera la cui composizione è dello stesso Giorgio Cipolletta:
Per me partecipare a questa esperienza è stata occasione unica e rara. Io ho semplicemente raccolto le tue parole che ogni giorno, come un rituale quotidiano, durante la quarantena, hanno riempito, transitato, emozionato, nel flusso unico di uno spazio di per sé fisso che ha scoperchiato il suo formato e si è sciolto nella sua forma indisciplinata, restituendo emozioni plurali. Nella semplicità non semplice del comunicare sei riuscito a consegnare alle parole un respiro necessario che spesso in questo periodo è venuto a mancare. Il respiro soffocato, quello di George Floyd, così come quelli assenti dentro ad una terapia intensiva che purtroppo ha congedato corpi, migliaia in Italia e nel mondo. Il mio esercizio non-stilistico è stato piuttosto ginnico, come di chi tenta di archiviare un’immagine fugace e involontaria, quella amata dal nostro caro amico WB (Walter Benjamin), coltivando l’essenza adorniana (adornata) minima e moralia
. Il tuo spazio è diventato territorio di incontro mattutino, narrazione mutante, antrofugace, come lo sbuffare della moka nel suo rituale, un borbottio malinconico, una saudade oceanica. Il tuo diario in quarantena è carteggio vivo dove dalla camera oscura
della tua anima si fotografa l’essenza dello scatto intimo di una disperata dolcezza, dove l’armonia si fa polifonica e l’orchestra intona i ritmi inusuali dal clarinetto indisciplinato e il ritmo profondo di Gene Krupa alla batteria e il piano variabile di Teddy Wilson. La tua scrittura è stata la mia lettura, le tue emozioni il mio archivio, il tuo carteggio, il mio corteggiamento alla parola.
Minima viralia
sull’ignoto : questa è l’affermazione più intelligente che ho letto negli ultimi anni: una epistemologia che sfida la complessità ignota incrociando antropologia e scienza, forse anche l’arte.
Visetti: «Perché ha intuito che la verità si nascondeva nell’assurdo?»