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Filosofia de La Zanzara
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Con prefazione di Giuseppe Cruciani.
"Il problema sono quelli che chiamano, non quelli che ascoltano". Gli appassionati della celebre trasmissione radiofonica "La Zanzara" avranno riconosciuto la citazione: si tratta di uno dei moniti continuamente lanciati da David Parenzo ai danni della mitologica creatura di Giuseppe Cruciani, che da anni anima la radio e il web con le sue accese intemerate. Ma davvero c'è un problema legato alla sciagurata trasmissione di Radio24? E cosa c'entra la filosofia? Primo libro in Italia a lanciarsi in una vera e propria fenomenologia del gesto zanzaresco, Filosofia de la Zanzara affronta il problema del rapporto tra ragione e sragione nell'età contemporanea facendo dialogare personaggi del calibro di Platone, Foucault, Nietzsche, Freud e Derrida con Mauro da Mantova, il Demone Scimmia, il dottor Petrella, Mistress Isa e Lady Glamhell. Con un capitolo interamente dedicato a Vittorio Sgarbi.
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Anteprima del libro
Filosofia de La Zanzara - Luca Pantaleone
PREFAZIONE di Giuseppe Cruciani
Mai avrei immaginato che le nostre peripezie quotidiane intorno all’uomo, ai suoi pensieri e alla sua carne, che le nostre trasmissioni radio così vive, sofferte e imperfette, sarebbero un giorno diventate oggetto di un saggio filosofico.
Ho divorato questo volume di Luca Pantaleone partendo da un pregiudizio: non c’è bisogno di farsi troppe pippe mentali su quello che avviene in due ore e trenta di pazza diretta. Ascoltate, divertitevi, incazzatevi, annoiatevi e non rompete i coglioni che poi domani si ricomincia.
Il mio è sempre stato un approccio realistico, quasi brutale direi: quello che è accaduto va dimenticato in fretta perché c’è bisogno di produrre cose sempre nuove, guardarsi indietro non serve a niente se non a rimuginare su quello che poteva essere fatto e non è stato fatto. Il trionfo dell’ hic et nunc. Non farsi troppe domande, per sopravvivere alla durezza del quotidiano, per non aggiungere altre fatiche alle tensioni adrenaliniche degli scontri via etere.
Dunque quando ho ricevuto lo scritto di Pantaleone la prima reazione, ve lo confesso, è stata quella di ignorare questa pioggia di parole e riflessioni sulla Zanzara: ma chi cazzo è questo, cosa vuole? E ancora: non abbiamo bisogno di essere studiati, analizzati, spezzettati, messi su un lettino da psicoanalisi, magari anche criticati, oh no, già ci massacrano ogni santo giorno. Che lo facciano pure, ma io non voglio saperne, lasciatemi perdere.
Così mi sono ritrovato a leggere a fatica, quasi con fastidio. E però, pagina dopo pagina, ho scoperto cose mirabolanti: che la Zanzara è un’apologia del ritmo, definizione che trovo sublime, una danza tribale, un liberarsi dallo «spirito di gravità», così diceva Zarathustra e così scrive Pantaleone; che dentro il miscuglio radio si trova l’antitesi tra danza e saggezza, l’ apollineo e il dionisiaco; e che Parenzo racchiuderebbe la coscienza apollinea, la saggezza contrapposta alla mitologia dell’oscuro, allo spirito dionisiaco, al caos creato dal sottoscritto. A un certo punto viene da chiedersi: ci piglia per il culo, il filosofo? Pare di no, e sottolineo pare, perché sia nel libro che nella trasmissione la realtà spesso supera la finzione, o viceversa. Così l’autore prova a paragonare gli scritti sconnessi del Demone Scimmia (personaggio noto agli ascoltatori) a quelli di Nietzsche, che forse lo avrebbe apprezzato, dipinge la fauna zanzaresca usando gli scritti di Schopenhauer, mette nel calderone le riflessioni sull’imbecillità di Maurizio Ferraris, utilizza il termine «sragione» per inquadrare una moltitudine di interventi e interviste; persino l’immagine con il povero Mauro da Mantova che mostra con orgoglio le sue ciabatte firmate Morello trova una sua collocazione nobile accostata a un quadro di Van Gogh.
Si scopre di più: i miei racconti di sesso e odori, la realtà cruda, possono essere spiegati grazie al Pornocene di Navarria (mai sentito prima) e al fenomenologo Max Scheler. Sembra una lunga imitazione di Freccero, ma in questo libro c’è tutto questo e altro ancora. Mi ha colpito una frase: il disgusto presuppone una voglia repressa di ciò che lo provoca. È la Zanzara. Chi l’ha scritta? Scopritelo più avanti.
Prologo - La Zanzara
Sono le 11 di sera. Sto scrivendo chiuso in camera da letto, comodamente seduto in poltrona, mentre fuori piove.
È una cosa che non faccio spesso. Solo quando sono infervorato da un’idea e non posso proprio tenermela in testa. In questi casi ho bisogno di scriverla, di buttarla giù, e vedere che effetto fa sullo schermo illuminato del computer.
Come sottofondo ho il respiro di mia moglie e dei miei due figli piccoli, che muovono il petto emettendo dalle narici un sottile flatus vocis, appena percettibile a orecchio umano.
Sopra di me però, mentre sto scrivendo, sta ronzando una zanzara.
Siamo a metà dicembre.
La zanzara è un essere fastidioso.
Forse il più fastidioso di tutti.
E anche il più brutto.
Mi è capitato spesso di soffermarmi a rimirarne l’immagine zoomata su internet. Una cosa incredibile.
Mi ha sempre colpito la postura. Il corpo peloso, con il ventre pulsante di sangue, si inarca sulla pelle della vittima con una tenacia e una determinazione senza eguali, che fa quasi paura.
Fredda, immobile o ‒ all’occorrenza ‒ scattante come una saetta, la zanzara è qui da secoli. Forse da millenni. Punge la sua vittima per succhiare il suo sangue, quando è femmina, perché questo dice la sua biologia, il suo DNA. È un comando scritto nella natura, non discutibile né trattabile. È così e basta. Fa parte di noi, del nostro stare al mondo.
La colpa è dell’emogloblina, che è un nutriente fondamentale per la maturazione delle uova. Non ci rimane perciò che tentare di scacciarla, per evitare il prurito fastidioso del ponfo rosso dopo la puntura. Ma è proprio quando viene distolta dal suo sadico compito che la zanzara riesce a dare il peggio di sé: a quel punto non cerca più di pungerci, bensì di punzecchiarci.
Quello che ci tormenta allora è il ronzio incessante di quelle piccole ali bastarde, che sembra che vibrino alla velocità della luce, e quel senso di fastidio che pare comparire dal nulla, per poi materializzarsi come per magia sul dorso della mano. Eccola là, che ci punzecchia la nuca. Ed eccola là che torna, punzecchiandoci il volto. Si alza e si leva, per poi ripiombare come un fulmine su una parte sempre diversa del nostro corpo, e così ripete l’operazione una, cento, mille volte, forse all’infinito. A meno che la morte non ne interrompa il ciclo.
Punzecchiare, com’è noto, non è la stessa cosa di pungere. Fenomenologicamente il pungere è un atto compiuto, che si porta avanti in un determinato lasso di tempo ben preciso, quello necessario a lasciare sulla pelle «la puntura». Il punzecchiare invece non lascia segni. Va e viene, come il ronzio della zanzara, e di esso rimane solo il ricordo, la sensazione del fastidio provato.
La zanzara infastidisce, ma non costituisce mai un pericolo. Almeno qui in Italia. Anzi, è quasi una presenza amica, che ha sempre fatto parte delle nostre vite. Non esiste almeno una notte insonne nella vita di ognuno di noi che non si sia passata a maledire una zanzara, e non senza un certo godimento distorto, perverso.
Sì, perché ciò che viene spontaneo fare di una zanzara è maledirla. Prima di schiacciarla. Oppure maledirla e schiacciarla insieme. Schiacciarla con le mani prorompendo in un’imprecazione, oppure batterla contro il muro con un cuscino ‒ o lanciarlo contro il soffitto, come piace fare a me ‒ per poi verificare il successo dell’omicidio con una minuziosa ispezione del pavimento.
Quello che conta però è che al ronzio della zanzara si accompagna sempre la maledizione, l’imprecazione, lo spergiuro. E c’è da scommettere che nel corso degli anni se ne sono escogitati dei più fantasiosi.
Qualcuno forse persino razzista. Scommetto che non esiste al mondo qualcuno che non sia pronto a dichiararsi un razzista nei confronti delle zanzare. Neanche un buddista. Scommetto che anche lui alla fine cederebbe all’insofferenza causata dal ronzio della zanzara, e la spiaccicherebbe contro l’armadio urlando un sonoro «vaffanculo».
Quello che è chiaro è che la zanzara tira fuori il peggio di noi. Il suo solo avvistamento appena varcata la soglia di camera porta già a una crisi di nervi.
La zanzara, con quel suo corpicino esile, striminzito, stronzo e ignorante, rappresenta tutto ciò che più al mondo è in grado di farci incazzare. Tutto ciò che più odiamo può essere racchiuso in quel cosino quasi invisibile di qualche millimetro di lunghezza.
Come tutto ciò che fa incazzare però la zanzara ci costringe anche a mettere alla prova noi stessi. La nostra pazienza, la nostra costanza. Ma soprattutto la nostra abilità nel capirla.
È impensabile infatti ammazzare una zanzara senza imparare a prevederne i movimenti. Ma per farlo occorre entrare di prepotenza nell’agone, sporcarsi nella lotta. Uccidere la zanzara implica quindi il dover scendere al livello di ciò che ci fa più incazzare, con nessuna garanzia di riuscire a farla franca.
Ma quando muore davvero una zanzara? Spesso sembra di averla finalmente in pugno, per poi vederla volare via. O capita addirittura di vederla rialzarsi dal pavimento, riprendendo con solennità il suo volo. Ed è allora che la zanzara destabilizza e innervosisce di più.
Finché è nella stanza con noi, tutto ciò che ci riguarda frana inevitabilmente nel caos. C’è chi sarebbe disposto persino a dormire in un’altra stanza sul pavimento, pur di non stare a sentire la zanzara. O c’è chi, più semplicemente, non riuscendola ad acchiappare, alla fine non dorme affatto.
La compagnia della zanzara rende le notti turbate, e questo turbamento si ripercuote anche sul giorno. Il risultato è che siamo più nervosi, più insofferenti (più incazzati), ma anche più reattivi, più all’erta. La lotta con la zanzara scuote talmente i nervi che improvvisamente cerchiamo di convincerci di non avere necessariamente bisogno di una vita ordinata
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