Spazio, tempo e scienza
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Il volume consiste di due sezioni, anche se il suo contenuto si intreccia costantemente. La prima concerne il tempo e lo spazio, argomento che sta alla base di una visione non solo filosofica della realtà, ma anche scientifica. La seconda concerne la concezione più occidentale della scienza. Essa inizia con un articolo dedicato a Max Planck, cui fa seguito parte della tesi di dottorato in Scienze dell’autore, Ontonomia della scienza (1961) e si conclude con un salto di quasi mezzo secolo con uno scritto di riflessione sulla scienza moderna che sfocia nella tecnologia, La porta stretta della conoscenza. Due articoli sottolineano la necessità di emanciparsi dalla scienza e dalla tecnologia, non come rifiuto del loro valore, ma come superamento dei loro condizionamenti.
Raimon Panikkar
Raimon Panikkar (1918-2010), è un autore universalmente conosciuto, le cui opere sono tradotte in una decina di lingue. Partecipe di una pluralità di tradizioni (indiana ed europea, indù e cristiana, scientifica e umanistica) ha insegnato in Europa, in India e negli Stati Uniti. Nei primi anni Duemila, insieme con Jaca Book, ha iniziato a organizzare la sua Opera Omnia (curata da Milena Carrara Pavan), che oggi esce in edizione italiana, catalana, francese, inglese e spagnola.
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Anteprima del libro
Spazio, tempo e scienza - Raimon Panikkar
Sezione prima
SPAZIO E TEMPO
Parte prima
ORIENTE
Capitolo primo
TEMPO E STORIA NELLA TRADIZIONE DELL’INDIA: KĀLA E KARMAN
*
«Al di sopra del tempo è stato posto
un vaso, pieno fino a traboccare»¹
L’esistenza dell’universo – e quindi la storia dell’uomo e del cosmo – è sotto il dominio di due potenze superiori: kāla (il tempo) e karman (l’azione).
La prima parte di questo saggio sarà quindi dedicata al Tempo, e la seconda, più breve, alla Storia. Affronteremo il problema del tempo seguendo i diversi rivoli di una tradizione così riassunta da Bhartrhari: «La visione del tempo varia a seconda che esso sia considerato una potenza o il Sé o una divinità. Nello stato di ignoranza [il tempo] è la prima realtà a manifestarsi, ma nello stato di sapienza esso scompare»².
Tempo
1. Il tempo come frutto dell’azione rituale
Nella più antica esperienza dell’India dei Veda, il tempo era percepito come l’esistenza concreta degli esseri che definiamo appunto temporali. Non esiste qualcosa come un tempo vuoto. «Il tempo» è una astrazione che non esiste. Ciò che esiste è il flusso (cronologico) degli esseri; ed è proprio questo processo a rendere possibile il sacrificio.
Il tempo è nato insieme al sacrificio, ed è tramite il sacrificio che esso viene di nuovo distrutto. Questa idea sta alla radice del rapporto intrinseco tra culto e tempo, e ci fornisce la chiave per comprendere il ruolo centrale del sacrificio e dell’apporto umano al dispiegarsi del tempo. In questo senso, il tempo è un prodotto realizzato dall’Uomo in stretta collaborazione con gli Dèi: il tempo, ossia l’esistenza continuativa degli esseri, è un manufatto teandrico³.
Nei Veda del periodo Saṃhitā troviamo vari termini che designano il tempo, ad esempio āyus, tempo della vita, arco dell’esistenza⁴, oppure ṛtu, tempo propizio per i sacrifici, stagione⁵. Il tempo astratto non riveste alcun interesse per i ṛṣi, i poeti/savi dei Veda, per i quali non c’è continuità temporale se non nell’azione rituale o nell’atto di un Dio (Indra, per esempio).
Questo tempo (…) non ha realtà, cioè efficacia, se non nei momenti in cui vengano concertati gli atti divini o sacri (…). In questa successione di atti che connettono momenti, sarebbe inutile cercare una certa continuità: la continuità non è altro che il prodotto della attività costruttiva che ricomincia giorno dopo giorno⁶.
Nei Veda, l’unità di misura del tempo è il giorno, che costituisce il centro di ogni esperienza temporale⁷. L’alba e il tramonto sono «giunzioni», i momenti più «critici» dell’intera giornata. È «di giorno in giorno» (dive dive)⁸ e grazie al sacrificio quotidiano, l’agnihotra, che il tempo resiste e l’esistenza continua. Di qui il celebre detto: «Se il sacerdote non offrisse ogni mattina il sacrificio del fuoco, il sole non sorgerebbe»⁹.
Più avanti, man mano che il sacrificio diventava sempre più elaborato, e la costruzione dell’altare del fuoco – nei Brāhmaṇa – si protraeva per oltre un anno, come unità di misura superiore venne adottato l’anno. Il sacrificio rimase comunque a fondamento della struttura temporale, con ogni mattone corrispondente a un giorno dell’anno.
Affinché il mondo potesse esistere, in principio fu immolato il Puruṣa, l’Uomo cosmico, nel Ṛg-veda¹⁰, e Prajāpati nei Brāhmaṇa: il mondo esiste solo in virtù di questo atto sacrificale primordiale¹¹. Come secondo atto – attuato però in ordine inverso – è il sacrificio a ricostituire il Signore degli esseri viventi. E dato che Prajāpati viene identificato con il tempo, simboleggiato nell’anno¹², questa ri-costituzione corrisponde al consolidamento del tempo, alla strutturazione dell’anno. Nei Veda, questa attività è spesso paragonata a quella della tessitura¹³. È la trama ordita da giorno e notte¹⁴ e dai momenti cultuali¹⁵.
Un’altra antichissima immagine per raffigurare il ritmo del tempo è la ruota (cakra), simbolo del ciclo solare. Un’immagine che ancora ha un ruolo vitale sia nelle speculazioni sul tempo, sia come simbolo popolare del «ciclo» dell’esistenza.
Insomma, in questa visione intuitiva dei Veda sul tempo, anzitutto, c’è un’idea così stretta del rapporto tra il tempo e l’atto di adorazione (karman nel senso più interiore del termine) che non esiste l’uno senza l’altra. In secondo luogo, l’Uomo vedico – diversamente da quello dei periodi successivi – aspira o a una lunga vita o a un certo genere di continuità che non sembra essere garantito dagli eventi cosmologici¹⁶.
2. Il tempo come potenza cosmica
Una seconda, fondamentale idea intuitiva di tempo, comunque affine alla prima, si spinge fino a considerare il tempo come una potenza cosmica che è fons et origo della realtà. Questo concetto non solo è molto antico, con degli analoghi in altre civiltà, ma è soprattutto molto popolare, e probabilmente appartiene allo strato meno brahmanico della tradizione ìndica. Ciò spiegherebbe perché quasi tutte le scuole «ortodosse» abbiano reagito vigorosamente contro quella che definivano kālavāda, cioè la dottrina che pone il tempo al centro della realtà e gli attribuisce una causalità universale. Ogni veemente negazione presuppone appunto l’esistenza, o addirittura il predominio di ciò che viene negato; per cui la tendenza marcatamente a-temporale e trans-temporale di un certo induismo potrebbe essere giustificata proprio dalla rilevanza del «tempo assoluto» nella cultura dell’epoca.
3. Il tempo come principio assoluto: il fato
Non ci occuperemo della questione se il concetto di tempo assoluto sia stato importato in India da Babilonia o dalla Grecia¹⁷, e in che misura tale concetto sia riconducibile a influssi iranici¹⁸. Ciò che ci preme sottolineare è l’importanza di questa dottrina a partire dall’epoca dell’Atharva-veda. L’esaltazione del Grande Tempo contenuta in due inni di questo Veda rappresenta la più precoce espressione dell’idea del Tempo come «creatore del creatore» Prajāpati, il quale è niente meno che brahman (il principio ultimo dell’universo):
1. Il Tempo traina (il carro come) un cavallo con sette redini,
con mille occhi, carico di frutti e immune all’età.
A cavalcioni vi sono poeti che comprendono i canti ispirati.
Le ruote sono tutto ciò che esiste.
2. Così il Tempo trae sette ruote,
ha sette mozzi, l’asse portante è (chiamato) non-morte.
Su questa sponda di tutte le cose che esistono
esso avanza, primo tra gli Dèi.
3. Un vaso colmo è stato posto sopra il Tempo.
Noi vediamo (il Tempo) anche se esso è
in molti luoghi (simultaneamente).
Di contro a tutte queste cose che esistono
il Tempo (è anche seduto), dicono, nel sommo firmamento.
4. In unità il Tempo ha portato in grembo questi esseri,
in unità li ha circondati.
Il Tempo padre è divenuto il tempo loro figlio.
Nessuno possiede maggior gloria di lui.
5. Il Tempo ha generato il Cielo lassù,
il Tempo anche (ha generato) le Terre che vediamo.
Poste in moto dal Tempo, le cose che erano
e che saranno hanno un posto assegnato.
6. Il Tempo ha creato la Terra; nel Tempo arde il Sole;
nel Tempo (sì), il Tempo, l’occhio vede tutti gli esseri da lontano.
7. Nel Tempo è consapevolezza; nel Tempo,
respiro; nel Tempo si concentra il nome.
Mentre il Tempo si dispiega
tutte le creature gioiscono in lui.
8. Nel Tempo è (sacro) fervore, nel Tempo (sì), nel Tempo
è concentrato l’onnipotente brahman.
Il Tempo è Signore di tutte le cose,
il Tempo fu padre di Prajāpati¹⁹.
Tutta la realtà dipende dal Tempo; al Tempo è subordinato perfino il sacrificio, che altrove nei Veda era considerato la potenza suprema. È importante notare il rapporto, stabilito in praticamente tutti i testi sul tema, tra tempo assoluto e tempo empirico, tra creatore e creatura, tra padre e figlio²⁰, tra causa ed effetto. Qui lo spazio risulta sostenuto dal tempo ed esteso nel tempo²¹. Addirittura, le realtà interiori – consapevolezza e respiro – si trovano sotto il dominio del tempo²². Un dinamismo universale mette in movimento tutte le cose. Per farla breve, qui kāla è la divinità suprema, non soggetta né al creatore personificato (Prajāpati) né alla potenza cosmica impersonale del sacrificio o di brahman: «Dopo aver conquistato tutti i mondi con la Parola, il Tempo avanza, Dio supremo»²³.
Nella Maitrī-upaniṣad, che riflette diverse concezioni di tempo, si trova una citazione derivata dalla dottrina del tempo assoluto (kālavāda): «Dal Tempo fluiscono gli esseri, attraverso il Tempo invecchiano, nel Tempo sono distrutti: il Tempo informe assume una forma»²⁴. In base a questa dottrina, abbiamo due aspetti del tempo: quello trascendentale e quello incarnato nel sole, nei pianeti e nelle suddivisioni empiriche del tempo.
È però difficile stabilire con esattezza i collegamenti tra questa antica dottrina kālavāda e i testi, molto posteriori, del Mahābhārata, dato che ciò che sappiamo della prima deriva in gran parte da citazioni riportate in testi che si sforzano di confutarla²⁵.
Inoltre, nel Mahābhārata si riflette soprattutto una concezione popolare, che probabilmente ebbe un profondo influsso sull’atteggiamento dei circoli meno «vedici», vale a dire la concezione del tempo come Fato²⁶. Una certa passività hindū, sempre sull’orlo del fatalismo, e troppo frettolosamente attribuita all’influsso musulmano sulla cultura indiana, ha le sue radici in questa visione del tempo.
Il testo di area kālavāda citato più spesso è: «Il tempo matura le cose, il tempo avvolge le creature; il tempo veglia mentre tutte dormono. È difficile superare il tempo»²⁷.
Anche se dal Mahābhārata emerge chiaramente che sono state elaborate tante diverse teorie sul tempo, l’idea predominante sembra però quella del fato ineluttabile.
(Il tempo è) il Signore che opera il cambiamento negli esseri: ciò che non può essere compreso e dal quale non vi è ritorno. Il tempo è il destino [il flusso: gati] di ogni cosa; se uno non lo seguisse, dove potrebbe andare? Che tu ti sforzi di sfuggirgli o resti immobile, non potrai comunque prescindere dal tempo. I cinque sensi non possono coglierlo. Alcuni dicono che (kāla) è Fuoco, e altri che è il Signore delle creature (Prajāpati). Alcuni concepiscono il tempo come stagione, altri come mese, giorno, o perfino istante (…). C’è chi afferma che esso sia l’ora (muhūrta); ma ciò che è unicamente Uno ha molte forme. Il tempo va riconosciuto come ciò che governa tutto ciò che esiste²⁸.
Qui, come in molti altri testi, il Tempo viene percepito come indivisibile e onnipotente, oltre il tempo divisibile e misurabile.
Il Tempo è causa di tutto, è esso a creare e distruggere²⁹, lega gli esseri umani con i suoi vincoli³⁰, e procura loro gioia e sofferenza indipendentemente dalle loro azioni³¹. In base a questa concezione, l’Uomo è puramente e semplicemente in balìa del suo destino; le sue azioni e i suoi sforzi sono incapaci di cambiarne le sorti. In definitiva, predomina l’aspetto distruttivo: il Tempo affretta la corsa di tutti gli esseri verso la dissoluzione³². Il Tempo è paragonato a un oceano di cui non si riesce a scorgere la sponda opposta né un’isola di rifugio³³. Il Tempo diventa qui la grande potenza distruttiva, a volte sinonimo di morte³⁴.
L’idea, spesso ripetuta, che il tempo «maturi» le cose significa semplicemente che le conduce all’invecchiamento e infine alla morte. Una visione del tempo che sembra essere influenzata dal concetto buddhista di impermanenza dell’esistenza, all’interno di un flusso dinamico sempre fluttuante e fuggente³⁵.
Nei Purāṇa resta qualche eco del Tempo concepito come divinità, ma qui c’è spesso il tentativo di integrarlo nelle rispettive teologie. L’affermazione che il kāla è senza inizio e senza fine, senza età, onnipresente e supremamente libero, ed è il grande Signore³⁶, è una prosecuzione dell’antico kālavāda: «Il Tempo, essendo infinito, causò la fine; essendo senza inizio, crea l’inizio, l’immutabile»³⁷. Ma i Purāṇa tendono piuttosto a considerare il tempo come una potenza divina.
4. Il tempo come potenza di Dio
Già nell’Atharva-veda si parlava di «un vaso pieno, collocato sopra il tempo»³⁸, dove il tempo viene raffigurato come continuamente riempito da quella fonte. Questa pienezza al di là del tempo può essere interpretata alla luce della Maitrī-upaniṣad, secondo cui «brahman ha due forme: il tempo e l’assenza di tempo»³⁹. Così non si ha più tempo assoluto o tempo relativo, ma da una parte il tempo e dall’altra la pura trascendenza a-temporale. Ciò testimonia un radicale mutamento nato dal concetto vedico di sacrificio, che tuttavia non avrà il suo pieno impatto fino al periodo upaniṣadico e vedāntico: l’eterno non viene più pensato come tempo illimitato o assoluto, ma come qualcosa che trascende ogni genere di temporalità. Il vaso pieno, da cui deborda il tempo, non è a sua volta temporale: contiene il tempo ma è senza tempo. «Il tempo matura tutti gli esseri nel grande Sé, in cui il tempo stesso matura. Chi conosce questo, conosce il Veda»⁴⁰.
Non che questa transizione avvenga in maniera liscia o senza polemiche. Il teismo, di cui la Śvetāśvatara-upaniṣad costituisce una delle testimonianze documentali più antiche, attacca il kālavāda come materialista e ateo: «Alcuni saggi affermano che (la causa del mondo) è la natura, altri che è il tempo. E si sbagliano, perché è la potenza di Dio a far muovere la ruota di brahman in questo mondo»⁴¹.
Il tempo non è una realtà indipendente, ma il Signore è «conoscitore e creatore del tempo»⁴², e il tempo è un Suo strumento⁴³. Questa Upaniṣad sottolinea la trascendenza del Signore nei confronti del tempo: «Egli è l’origine (…), Egli è oltre il triplice tempo (…), Egli sta più in alto, Egli è diverso dall’albero (del mondo), diverso dal tempo e dalle forme»⁴⁴, «Egli, Rudra, si rimpadronisce del mondo alla fine del tempo»⁴⁵.
Tanto nella teologia shivaita che in quella visnuita, ogni realtà che non coincida con Dio – anche se magari spesso vi coincide – diventa una Sua potenza o śakti. Data la sua importanza cosmologica, il tempo è una delle prime potenze di Dio: la kālaśakti, il Suo strumento per la creazione, conservazione e distruzione dell’universo. Nei Purāṇa però compaiono numerose dottrine sul tempo. Ad esempio, lo Śiva-purāṇa riconosce tre livelli di tempo, grazie ai quali siamo in grado di ricostruire il processo con cui il tempo assoluto è stato riassorbito nello shivaismo. In un primo stadio il tempo non è diverso da Śiva, è eterno. Nel secondo stadio, diventa la potenza di Śiva, là dove Śiva è l’essenza più profonda (ātman) del tempo. Śiva governa l’universo per mezzo del tempo. Nel terzo stadio il tempo viene considerato un principio di delimitazione, essendo frutto di māyā, l’illusione. Solo in questa fase finale il tempo viene suddiviso e provoca la successione, la durata, la limitazione. In pratica è successo che l’aspetto assoluto, trascendente del tempo è stato trasferito nella sfera del Dio, e il suo aspetto empirico nella sfera di māyā, ciò che vela la realtà. Tuttavia, il concetto di kālaśakti mantiene un certo equilibrio tra questi due estremi.
Il visnuismo fa propria la stessa teoria. Nel Mahābhārata la sede superiore del tempo viene descritta come segue: «Oltre lo spirito è l’intelligenza, oltre l’intelligenza il Grande Tempo, (ma) oltre il tempo è il Signore Viṣṇu, dal quale procede l’intero universo»⁴⁶.
Nella Bhagavad-gītā a essere identificato con il tempo, nel suo aspetto indistruttibile⁴⁷ ma distruttore⁴⁸, è Kṛṣṇa.
Sul tema della divina immanenza il Bhagāvata-purāṇa afferma: «Il Signore compenetra tutte le esistenze con la sua potenza (ātmamāyā): internamente Egli assume la forma di spirito (puruṣa), esternamente quella del tempo (kālā-rūpa)»⁴⁹.
Il ruolo cosmologico del kāla viene spesso descritto nei Purāṇa, secondo i quali il tempo esiste in stato dormiente durante la dissoluzione del mondo, e viene risvegliato dal Dio al momento della nuova creazione⁵⁰.
E tuttavia il kāla è e rimane più legato a Śiva che a Viṣṇu, e a dominare su tutti gli altri aspetti cosmologici è quello distruttivo. Śiva stesso è denominato mahākāla, Grande Tempo, nel senso di morte⁵¹. La distruttiva dea Kālī è forse la controparte femminile⁵² del dio Rudra-Śiva, identificato a sua volta con il tempo.
Il concetto di kālaśakti ha influito profondamente sulla mentalità hindū. Perfino un filosofo come Bhartṛhari la descrive come la prima potenza dell’Uno: «Poiché dipendono dalla sua potenza-del-tempo, responsabile delle differenziazioni, i sei mutamenti (pariṇāma) come la nascita, ecc., divengono causa della varietà dell’esistenza»⁵³. E il suo primo commento spiega che questa potenza è indipendente (svātantrya śakti), nonché causa di tutto⁵⁴.
I due concetti esaminati finora includono una gran varietà di opinioni, ma hanno in comune il fatto di appartenere a un universo religioso: che presentino il tempo come rituale o come assoluto o divino, si tratta comunque di due sfaccettature di un tempo intriso di valore sacro – anche se la tradizione ha elaborato tanti altri aspetti.
5. Tempo privo di potere reale
Per alcune civiltà, il «vaso traboccante» del tempo si è spaccato in innumerevoli frammenti, e tutto ciò che ne resta sono i diversi parametri temporali delle diverse sfere della realtà. Per altre, il vaso è – come detto sopra – l’Autore del tempo⁵⁵. Ma c’è ancora un altro punto di vista, che ha trovato illustri sostenitori in India: quello che vede il tempo come suprema forma di illusione cosmica⁵⁶.
Ripercorrere lo sviluppo di questa idea è relativamente facile. Quando si affievoliscono i tratti antropomorfi del «vaso al di sopra del tempo», quel vaso smette di essere il Signore della realtà temporale e ne diventa la causa impersonale, acquisendo a sua volta tutti i tratti della realtà; cosicché tutto ciò che ne trabocca all’esterno non ha più una realtà piena⁵⁷.
Così il tempo viene privato della realtà, o perlomeno di ogni potere sulla realtà.
Diventa addirittura il simbolo dell’illusorietà. Il vaso al di sopra del tempo rimane sempre colmo fino a traboccare per il semplice fatto che non si svuota mai: non c’è nessun tempo che ne fluisca, nulla che si riversi mai fuori dal vaso senza tempo⁵⁸. Qui l’eterno divora il temporale⁵⁹. Qui il tempo appartiene alla māyā intesa come illusione, e si basa sulla avidyā, l’ignoranza cosmica. È qualcosa di meramente sovrapposto all’Assoluto, a brahman⁶⁰.
In seguito la speculazione filosofica tentò di modificare questa concezione. Vedremo subito che tanta parte della filosofia ìndica può essere definita in base al grado di realtà che i vari sistemi di pensiero attribuiscono al tempo.
Ermeneutica linguistica
La filosofia ìndica si è interessata al tema del tempo anzitutto nel campo della grammatica e della sintassi, o anche – cosa che colpisce particolarmente nello Yoga – sulla base del desiderio di trascendere il tempo. Gli altri sistemi filosofici hanno dedicato poche attenzioni al tempo; al più, lo hanno incluso nella propria sistematizzazione dei fattori esistenziali, senza però basare sul fenomeno del tempo la propria concezione dell’universo⁶¹.
Ci limiteremo, a titolo di esempio, alle analisi del tempo condotte dal filosofo del linguaggio Bhartṛhari nella sua Vākyapadīya. Nel capitolo sul tempo⁶², Bhartṛhari esamina il concetto quale circolava nella sua epoca⁶³, ed espone il proprio parere in merito.
Viene dato per scontato che il tempo sia strettamente legato all’azione, dato che, come affermato in un testo tantrico, lo spazio è la limitazione della forma e il tempo lo è dell’azione⁶⁴. Bhartṛhari sostiene che il tempo, in quanto assoluto, si differenzia e suddivide solo in virtù delle azioni (kriyābheda)⁶⁵, siccome non si ha percezione del tempo al di fuori di una qualche azione che suggerisca un prima e un dopo, velocità o lentezza⁶⁶. Una azione consiste in una successione di istanti (sakrama). Il ruolo del tempo si dettaglia meglio nell’analisi delle sue due funzioni: forza permissiva (abhyamljña) e forza preveniente o frenante (pratibandha). Sono queste due funzioni del tempo a conservare l’ordine cosmico; senza di esse, tutto verrebbe prodotto o distrutto in simultanea⁶⁷.
La prima funzione consente al virtuale di divenire reale, di germinare nel tempo. La seconda impedisce alle cose di materializzarsi prima del tempo, e assicura che non durino oltre l’arco di tempo loro assegnato. Il tempo viene quindi definito causa secondaria⁶⁸ o efficiente⁶⁹, la sola che possa regolamentare e attivare le altre cause.
Alcune scuole filosofiche hanno negato l’esistenza del tempo indipendentemente dall’azione⁷⁰. Bhartṛhari, viceversa, ammette solo l’esistenza del tempo in quanto tale, del tutto indipendente da ogni suddivisione tra passato, presente e futuro⁷¹. A suo parere, è la sequenza delle azioni a farci parlare di passato, presente e futuro, ma il tempo in sé è sempre lo stesso. In altre parole, parliamo di passato perché un’azione è stata eseguita, e pensiamo al futuro se immaginiamo avvenimenti a venire. Più difficile stabilire la prova dell’esistenza del tempo nel presente; si richiede infatti una analisi dettagliata dell’uso grammaticale, che non faremo in questo saggio.
Il tempo viene chiamato specchio terso che riflette la forma reale degli esseri⁷². È il tempo che, per così dire, mostra la nuda verità delle cose.
Alla fine, il grammatico/filosofo Bhartṛhari ammette che qualunque azione sarebbe impossibile senza il tempo, che lo si consideri relativo o meno. Un puro concetto mentale è un dato di fatto ineludibile⁷³.
Già nel Mahābhāṣya e nel relativo commento di Kaiyaṭa troviamo l’affermazione che è il mutamento (pariṇāma) che avviene negli esseri a costringerci ad accettare la realtà del tempo⁷⁴.
Bastino questi esempi a mostrare che nella tradizione ìndica è possibile rinvenire analisi sia di tipo empirico che fenomenologico. Resta però il fatto – e significativo – che il punto di partenza di tali riflessioni è il linguaggio. Altri tipi di analisi, altrettanto dettagliate, che si possono trovare nello Yoga e nel buddhismo, seguono un’ottica puramente spirituale, e non conducono a una affermazione empirica quanto piuttosto alla negazione di qualunque realtà oggettiva del tempo.
Il tempo interiorizzato e trasceso
I Veda cercavano di stabilire la continuità del tempo tramite l’atto sacrificale, ma le Upaniṣad cominciarono a rimettere in discussione la permanenza di tale atto e la continuità stessa⁷⁵. L’immortalità, unica preoccupazione dei sapienti upaniṣadici⁷⁶, non veniva più assicurata dalla esecuzione di un rito. La continuità non andava più cercata sul piano esteriore, nel culto o nel cosmo, ma sul piano interiore, nell’Uomo, o più esattamente entro il Sé, l’ātman. E tuttavia anche in questa nuova visione delle cose non mancano connotazioni cosmiche.
Uno dei primi fattori individuati in questa ricerca di continuità è il respiro vitale, il prāṇa⁷⁷. Il prāṇa è, in primo luogo, il principio di vita e l’aspetto individuale (adhyātma) dell’incessante, onnipresente vento cosmico (vāyu)⁷⁸. In secondo luogo, il prāṇa non coincide con il respiro puramente fisiologico, ma con il ritmo del respiro che diventa anche esercizio spirituale (vrata) per sconfiggere la morte⁷⁹. Di qui gli esercizi yoga per controllare la respirazione (prāṇayama). Se poi si sente affermare che anche il sole sorge e tramonta con il prāṇa, allora si comincia a comprendere l’importanza cosmica del respiro. Più avanti, il prāṇa verrà identificato con l’immortalità (amṛta)⁸⁰ e con lo stesso brahman. L’importante qui è che il respiro corrisponde a un tempo interiore, e la padronanza di tale ritmo interno, soprattutto nello Yoga, porta a trascendere il tempo, sia esternamente che internamente.
La transizione dal tempo liturgico dei Veda a quello interiorizzato delle Upaniṣad si ha, evidentemente, nel momento in cui il respiro, interpretato come sacrificio, prende il posto del sacrificio del fuoco (agnihotra)⁸¹.
In più, le Upaniṣad cercano ciò che va oltre il passato e il futuro⁸². Cercano la infinitezza (bhūman)⁸³ e la pienezza (bhūman), che trovano meglio simboleggiate nello spazio che nel tempo: l’atmosfera, spazio infinito (ākāśa), è anche presente negli scomparti più riposti del cuore (hṛdākāśa).
Il Kālacakratantra contiene ancora una lontana eco di questa interiorizzazione del tempo come esercizio spirituale praticato per trascendere il tempo: lo yogi «rapporta inalazione ed esalazione al giorno e alla notte, poi alle settimane, ai mesi e agli anni, esercitandosi gradualmente fino ai supremi cicli cosmici»⁸⁴. Lo scopo di questa e simili pratiche è dichiaratamente quello di smascherare la irrealtà del tempo⁸⁵, per infine trascenderlo.
Dall’epoca delle Upaniṣad in poi, sia il tempo (successione e durata) sia l’universo dell’azione (karman) vengono privati del loro valore; al termine di questo processo, la dottrina del ciclo delle esistenze (saṃsāra) darà origine a una concezione negativa del tempo. Le scuole metafisiche che hanno la liberazione (mokṣa) come meta tendono, almeno in teoria, a negare al tempo ogni valore reale, cercando di raggiungere una condizione esistenziale che vada oltre il tempo – per dirla con una espressione yoga, la «cessazione degli stati mentali»⁸⁶, uno dei quali è il tempo.
Per affermare la relatività del tempo, queste scuole lo presentano come un inganno della mente, senza una controparte in nulla di «reale». Questa riduzione quasi psicologista del tempo la si trova espressa, ad esempio, nello Yoga Vāsiṣṭha che tenta di dimostrare la irrealtà degli istanti e dei periodi cosmici⁸⁷. Vi si afferma che, a seconda dello stato mentale del soggetto, un istante può apparire come un kalpa (eone) o, al contrario, un eone può essere sperimentato come un singolo attimo⁸⁸. In breve, il «tempo in sé» non esiste. Chi si assorbe nella meditazione non conosce giorno né notte⁸⁹ e, in definitiva, la conoscenza di sé, l’illuminazione, racchiude tutto il futuro in un solo istante⁹⁰.
Le scuole filosofiche che seguono le Upaniṣad e il buddhismo prendono l’istante, kṣaṇa, come fulcro per il «salto nella a-temporalità». Qui è da notare che la dottrina della istantaneità e dell’«istante propizio per la liberazione»⁹¹ ha avuto un profondo influsso sugli insegnamenti spirituali dell’induismo.
Così, la interiorizzazione, il primo passo per poter trascendere il tempo, porta alla scoperta del «tempo sottile», l’unità di tempo infinitamente piccola in cui si incontrano tempo ed eternità, movimento e stabilità, dato che «è dalla staticità (sthiti) del tempo che dipende tutta la quiete»⁹².
Nello Yoga-sūtra, Patañjali raccomanda la «meditazione sull’istante e sulla successione degli istanti, per poter ottenere la conoscenza che nasce dal discernimento»⁹³. Il relativo commento definisce l’istante – unica «reale» sfaccettatura del tempo – in termini di atomi (aṇu) e del loro movimento⁹⁴. La successione di istanti e unità di tempo – e qui si fa evidente l’influsso buddhista – non è reale (na asti vastu-samāhāraḥ) ma esiste solo nella mente (buddhi) come concetto intellettivo o verbale. Il tempo è vuoto di realtà (vastuśūnya: senza sostanza), e gli yogi ammettono solo l’istante presente, senza passato né futuro. Per cui lo scopo della meditazione (saṃiyama) è ottenere la percezione dell’istante puro e – paradossalmente – non inquinato dalla temporalità, dato che quel tempo sottile (sūkṣma) è il trampolino di lancio verso l’a-temporale e l’eterno. Non si negano i mutamenti (pariṇāma) ma li si riconduce alla dimensione istantanea del tempo.
Non solo nel buddhismo ma anche in altre scuole filosofiche l’istante acquista una connotazione kairologica. In altre parole, la salvezza, il risveglio, la liberazione dal giogo del tempo può essere ottenuta in qualunque istante, o perlomeno nell’istante propizio (qui è implicita una certa nozione di grazia).
Lo shivaismo del Kashmir (scuola Trika) si spinge ancora più in là: «Poiché nessun tempo fonde gli istanti in un’unica sostanza, lo yogi sarà in grado di separare e penetrare il vuoto (madhya) interstiziale liberante che si trova tra due istanti successivi»⁹⁵.
Questo sistema di pensiero descrive l’istante come vibrazione della consapevolezza; è l’eterno presente, l’unico che possa donare pienezza e felicità⁹⁶, una condizione che non si trova sotto l’egida dello spazio né del tempo⁹⁷. È attraverso l’istante che si penetra nella realtà a-temporale.
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Possiamo ora tentare di definire in maniera più precisa il concetto di tempo nella tradizione dell’India?
Abbiamo citato il simbolo fortemente evocativo del vaso che trabocca. Potremmo azzardare qualche ipotesi circa questo recipiente da cui fluisce il tempo.
Il primo aspetto è la co-estensività di tempo ed esseri. Vi è un tempo nella misura in cui esistono gli esseri, e gli esseri esistono nella misura in cui hanno il tempo (di esistere).
Il secondo aspetto è che tra esseri e tempo si ha lo stesso coefficiente di realtà. Che gli esseri vengano considerati reali, o irreali, o a metà strada (sadasadanirvacaniya)⁹⁸, il tempo partecipa dello stesso grado di realtà.
Il terzo aspetto... il linguaggio è inadeguato a esprimerlo. In ogni caso, gran parte dei sistemi filosofici dell’India ritengono che il tempo, e con esso gli esseri, non esaurisca la totalità del reale. Il vaso contenente il tempo rende possibile il tempo, ma in sé non è temporale.
Storia
La nozione stessa di Storia solleva qualche questione preliminare di terminologia. Stiamo parlando infatti del concetto di storia, o del modo in cui si sperimenta la storia, o della dimensione storica dell’Uomo? Dovremmo partire dalla concezione occidentale della Storia e poi cercarne i corrispondenti nelle altre culture? Ovviamente, qui non tenteremo di esprimere categorie ìndiche in termini occidentali né viceversa. Il nostro scopo è piuttosto quello di scoprire le intuizioni dell’India e di collocarle nell’universo di pensiero ìndico, in cui esse possono occupare uno spazio omologo a quello occupato dalla Storia nel pensiero occidentale⁹⁹.
Qui torna utile una ulteriore osservazione: pare che l’«idea» di Storia e di storicità (da non confondere con l’«esperienza» storica) faccia la sua apparizione precisamente all’epoca di una frattura con la tradizione, o di una profonda crisi a essa interna. È quando la tradizione viene messa in discussione che ci si accorge appieno del carattere storico dell’esistenza: la riflessione ha bisogno di un orizzonte di partenza. L’Occidente sta attraversando una crisi che tocca la sua tradizione, e ha sviluppato una acuta consapevolezza della propria storicità. L’India al contrario, nonostante le sue tante crisi, vive ancora entro la propria tradizione, senza un orizzonte di auto-riflessione storica, ossia senza essere pienamente convinta di «vivere dentro» la Storia. Pur concesso che esistano strati storici molto diversi nella moderna cultura dell’India, resta il fatto che in India «storia» significa principalmente vivere la tradizione, anziché compiere una riflessione successiva sulla propria cultura¹⁰⁰.
Quanto alla tradizione stessa, il concetto che in essa ha svolto – e svolge – un ruolo paragonabile a quello della «storicità dell’Uomo» nella filosofia occidentale, si può dire che sia quello di karman¹⁰¹.
Il karman e la dimensione storica dell’Uomo
Nel trattare il tema del tempo, abbiamo visto che a esso è strettamente collegata l’azione. Sia nel mondo dei Veda sia nell’analisi della esperienza fattuale è spesso l’azione, l’atto umano o divino, a determinare il tempo. A parte alcune dottrine sul tempo assoluto, la legge che governa il tempo e la storia (considerata nel suo insieme) è la legge del karman.
Con karman si intende in primo luogo l’azione, poi il residuo dell’azione che produce effetti positivi o negativi¹⁰² e sopravvive alla persona stessa¹⁰³, e infine la legge che governa la retribuzione delle azioni e la rete di interconnessioni tra i karman dei diversi esseri. Questa «causalità universale», come la legge del karman viene comunemente intesa, spiega virtualmente tutti i rapporti esistenti nell’universo, e si estende ben al di là di un concetto di trasmigrazione individuale. Il karman combina elementi personali (la ripercussione di ogni azione fino agli estremi confini del cosmo) con elementi impersonali (l’elemento di «creaturalità» comune a tutti gli esseri), al punto che si può affermare che il karman è inesauribile, cioè senza fine, come aggregato dei residui delle azioni umane. Gli esseri che conseguono la mokṣa possono anche essere sciolti dal proprio karman, ma il karman in quanto tale non è affatto estinto.
Ma chi è il soggetto del karman? Mentre il mondo occidentale odierno tende a considerare l’individuo, o specifici individui, come il soggetto / i soggetti della Storia, l’India tende a negare che l’ego illusorio possa costituire il soggetto del karman. È diventato classico il detto di Śāṅkara: «Non vi è (soggetto) trasmigrante se non il Signore»¹⁰⁴.
Il karman inteso come legge universale non riflette i dati esteriori della Storia, dando una spiegazione dei fatti (sebbene tale spiegazione ne possa essere dedotta), quanto piuttosto la storicità interiore, sottile, e quindi invisibile. Una riflessione sul karman è molto di più di una riflessione sulle cause degli eventi.
Inoltre, lo stesso termine «evento» non va interpretato come se connotasse qualcosa che accade esteriormente, e neppure come un cambiamento esterno in una costellazione spazio-temporale, cioè un variare nella posizione degli esseri, ma come una modificazione karmica, cioè una modificazione del karman di un dato essere. È questione di incidenze antropologiche, più che di accidenti sociologici; di ciò che si raggiunge, più che di ciò che accade.
Anche la questione della libertà umana in rapporto al karman, il proprio o quello universale, ha tenuto impegnata la riflessione ìndica. Varie scuole filosofiche e religiose hanno proposto diverse vie di fuga dall’apparente determinismo, difendendo l’atto umano libero (puruṣakara), cioè la capacità dell’Uomo di spezzare la catena causale di azioni e reazioni. Alcune delle posizioni più deterministiche sono giunte molto vicine a una interpretazione del kala come fato¹⁰⁵. È stato per uscire da questa impasse che sono state elaborate, da una parte, l’idea di puruṣakāra (che è fondamentale, ad esempio, nello yoga: lo sforzo dell’Uomo di trascendere il proprio karman) e, dall’altra, le dottrine della grazia divina.
Detto questo, in India – e forse nell’intera Asia – non vi è scuola o religione che neghi la legge del karman, per quanto diversamente la si concepisca.
Il rapporto tra karman e tempo (controparte del rapporto tra storicità e tempo nel pensiero occidentale) è duplice.
Anzitutto, la ragion d’essere del tempo è appunto l’esistenza del karman. Finché nel mondo esisterà il karman, sarà indispensabile il tempo. Il karman, per così dire, è la qualità intrinseca del tempo, ciò che dà sostanza e densità al tempo.
Secondo, senza il tempo il karman sarebbe irrealizzabile, rimarrebbe allo stato latente. Senza la collaborazione del tempo, per così dire, gli esseri non sarebbero in grado di giungere alla meta attraverso l’adempimento del proprio dovere nel mondo, né alla liberazione, della quale un prerequisito è l’esaurimento di tutti i karman¹⁰⁶. L’esempio dei «liberati in vita» (i jīvanmukta) evidenzia questo rapporto: per il singolo che è ormai «passato attraverso» tutti i propri karman, si può dire che il tempo è cessato. Queste persone vivono al di fuori del tempo; si dice che i loro corpi continuano a esistere solo fino all’esaurimento di tutti i più sottili residui di karman, dei quali i loro stessi corpi non sono altro che la condensazione.
Così, il karman è legato meno alla Storia, intesa come storiografia, che al carattere intrinsecamente storico degli esseri, dove il passato determina il presente e il futuro, e neppure una delle loro azioni va sprecata o resta senza ripercussioni. La realtà si struttura attorno a questo tipo di storicità, che rende possibili le interazioni reciproche nel mondo, secondo un modello di solidarietà universale.
Mito e Storia: Itihāsa e Purāṇa
La visione che un popolo ha della Storia indica il modo in cui comprende il proprio passato e lo riassorbe nel presente. Ma a testimoniare l’atteggiamento di un popolo verso la Storia non sono tanto le interpretazioni scritte quanto il modo in cui il passato viene sperimentato e continua a esserlo. L’India ha sperimentato il proprio passato molto di più attraverso i miti che attraverso una interpretazione o una raccolta degli eventi andati. Il che non significa che tale raccolta non esista – in alcune regioni c’è anzi una acuta consapevolezza della Storia così intesa¹⁰⁷ – tuttavia non esistono criteri per distinguere tra mito e storia: fatto sconcertante per la mentalità occidentale, la quale non si accorge che il suo mito è la Storia. Nel definire la grande epopea del Mahābhārata, G. Dumézil ha detto che essa «non è ciò che noi pensiamo come storia, ma ciò che prende il posto della storia, e rende lo stesso servizio, sia alle dinastie alla ricerca di illustri antenati, sia a un vasto pubblico desideroso di ascoltare un glorioso passato»¹⁰⁸. In altre parole, il mito come controparte della storia.
Le due comuni espressioni per indicare la «storia mitica» o il «mito storico» – i due sono inscindibili – sono rispettivamente itihāsa, «avvenne così», che designa l’epica, e purāṇa, «antica narrazione», che designa più specificamente la letteratura mitologica in cui siano fusi elementi storici¹⁰⁹.
Mito e storia non andrebbero correlati a «leggenda» e «verità», ma andrebbero visti come due diversi orizzonti della realtà. Solo entro una mentalità storicista il mito appare come leggenda, cioè come qualcosa meno reale dei fatti storici. In una mentalità mitica, d’altro canto, la storia viene considerata inferiore al mito. Ciò che un occidentale, in Occidente, considera come storia, lo vedrebbe come mito in India. In altre parole, ciò che lui nel proprio mondo chiama «storia», sarebbe percepito come «mito» dagli indiani. Ma, viceversa, ciò che in India possiede il grado di realtà della storia è ciò che, in Occidente, un indiano definirebbe un mito. Per dirla diversamente, ciò che un indiano in India chiamerebbe «storia», un occidentale lo percepirebbe come mito. Dal punto di vista occidentale, alla mentalità indiana non interessa la storia. Ma tutto ciò che assume grande rilevanza, nella consapevolezza storica di un popolo, costituisce appunto il