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Il velo della Veronica
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E-book357 pagine5 ore

Il velo della Veronica

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Info su questo ebook

Se potessimo riscrivere la storia, come ci comporteremmo?
New York, 1995. Michele (Mike) Galliano è un dirigente newyorchese di origini italiane. Dicembre 1997. Durante Ruvolo è un apprezzato scrittore di romanzi. Vive a Bergamo e non è sposato. Nella settimana che precede il Natale si trova a Roma, in Vaticano, per visionare alcuni papiri demotici che lo aiuteranno a completare la stesura del suo prossimo manoscritto.
Cos’hanno in comune questi due uomini? Apparentemente nulla.
Roma, Città del Vaticano. La stanza delle reliquie è un locale segreto situato nei sotterranei della Basilica, di cui solo i Papi conoscono l’esistenza. È qui che Papa Stefano X visiona i documenti che descrivono cosa avvenne davvero sul Monte Calvario duemila anni prima. Cosa fare? Minare una Chiesa millenaria dalle fondamenta o tacere come hanno fatto tutti i Papi che lo hanno preceduto?
Dal passato riemergono anche i nomi dei discendenti di Gesù. In sintonia con i Papi illuminati del Rinascimento italiano che lo hanno preceduto, Papa Stefano X decide di commissionare a Durante un compito: svelare i segreti della Chiesa di Roma, riavvolgendo il tempo attraverso le pagine di un romanzo. Riuscirà nel suo intendimento?
LinguaItaliano
Data di uscita16 mar 2023
ISBN9788855392907
Il velo della Veronica

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    Anteprima del libro

    Il velo della Veronica - Roberto Belotti

    Prologo

    La sera del 20 dicembre 1997 mi accingevo a concludere le ricerche sui papiri demotici identificati con le segnature Vat.Lat.291299. Avevo saltato il pranzo e la pancia, mentre mi apprestavo a mettere ordine ai fogli degli appunti, aveva iniziato a brontolare come fosse un temporale in arrivo.

    Nelle ultime settimane, il romanzo storico che avrei dovuto completare entro la primavera successiva aveva subito una fase di stallo e con esso anche la mia vita. A quel tempo, tendevo a modularla alle dinamiche del mio lavoro. Mi mancavano molte informazioni e alcuni precisi riferimenti che, dopo svariate ricerche, sapevo avrei potuto ritrovare esclusivamente su quei papiri: testi destinati al popolo egizio del periodo tolemaico. Mi ero documentato e venni a sapere che le origini della lingua demotica risalivano attorno al 650 a. C. e che da quel momento era stata per circa mille anni la lingua parlata e scritta nel quotidiano dal popolo egizio. Per questo, le informazioni e le testimonianze contenute su quei documenti sarebbero state indispensabili allo sviluppo e alla stesura di buona parte del mio manoscritto. L’unico posto al mondo dove avrei potuto reperire i papiri demotici era a Roma, nella Biblioteca Vaticana. Non ci misi molto a rendermi conto che avrei avuto serie difficoltà nell’accedervi. Ripetute richieste tramite lettera finirono nel vuoto. Le voci che di volta in volta rispondevano ai numeri telefonici che riuscii a recuperare, ancorché gentili e disponibili, non erano disposte ad aiutarmi perché non avevo alcun titolo per potervi accedere. Ero frustrato e amareggiato. Mi resi conto, mio malgrado, che essere uno scrittore non era sufficiente. Per questo, fui sul punto di abbandonare l’idea di narrare le vicende di quell’epoca, cosciente del fatto che senza quelle informazioni avrei pubblicato un testo incompleto.

    Poi, successe qualcosa. Nell’ultima delle periodiche telefonate che ero solito fare a Piera, il mio editore, per allinearla sulle evoluzioni, sui cambi di rotta o le difficoltà legate alla stesura del manoscritto, appresi, dopo che mi ebbe elencato i suoi agganci nel mondo dell’editoria e elogiato le sue capacità persuasive, che sarei potuto partire subito per Roma. Ovviamente la cosa mi sorprese.

    «Roma ti aspetta» mi disse dopo avermi lasciato snocciolare parole di resa sull’argomento e la decisione di riempire il vuoto dei capitoli centrali con pietanze dai diversi sapori che poco avrebbero avuto a che fare con il resto del menù. Avendo l’asso nella manica si era voluta divertire un po’ alle mie spalle: tipico di lei.

    Finalmente avrei potuto visionare la documentazione che da qualche tempo era diventata la mia ossessione. Le confidai che stavo per arrendermi. «Ma come hai fatto?» le chiesi elettrizzato alzandomi dalla scrivania, passandomi le mani tra i capelli e camminando avanti e indietro nel mio studio.

    Non potevo vederla, ma ero sicuro che stesse sorridendo. «Ho fatto un paio di telefonate e ho riscosso qualche credito. La sola cosa che conta, adesso, è che puoi avere accesso ai tuoi papiri. Sai quanto tengo a questo romanzo. Più tardi ti chiamo e ti comunico il numero di telefono di un egittologo che mi hanno consigliato. Chiamalo appena puoi. Mi hanno detto che in questi giorni dovrebbe trovarsi a Roma.»

    «Grazie… per l’egittologo mi hai risolto un bel problema» le dissi guardando fuori dalla finestra e lasciando scivolare lo sguardo tra i rami spogli dei platani alti quanto la palazzina in cui vivevo. «Trovarne uno bravo era una questione che avevo rimandato. Ma dimmi un po’, parlami dell’accesso ai documenti. Hai telefonato al Papa?» chiesi scherzando.

    La sentii trattenere il respiro prima di rispondere. «Non proprio.» La conoscevo abbastanza bene per sapere che, per ora, non volesse svelare di più e io avrei dovuto frenare la curiosità.

    L’inizio della collaborazione con Piera risaliva ormai a quasi un decennio prima. Con lei avevo pubblicato i miei maggiori successi e il prossimo romanzo, di cui le avevo tratteggiato le idee salienti durante una cena a casa sua, insieme a suo marito, prometteva di non deludere i risultati commerciali che aveva ipotizzato e le aspettative del mio pubblico. Non so come facesse, ma riusciva a dividersi egregiamente tra il ruolo di nonna di una nipotina che adorava, di moglie amorevole e di editore instancabile. Avevo molta stima di quella donna e sapevo di suscitare in lei i medesimi sentimenti. Nonostante non fosse più una ragazzina, le riconoscevo un’energia e un entusiasmo fuori dal comune.

    A quel punto dovevo fare solo una cosa. Andai a bussare alla mia vicina. Teresina era una donna sulla sessantina, vedova da quasi trent’anni e che viveva nei ricordi di un marito perso troppo presto. Era gentile e disponibile. Amava gli animali e non si nascondeva dietro inutili giri di parole per far capire a chi aveva di fronte che spesso preferiva aver a che fare con cani o gatti, piuttosto che con le persone. Con il tempo imparai a darle ragione. Teresina era anche la mia ancora di salvezza. Da due anni dividevo la mia vita con Macchia, un gatto che avevo adottato dopo aver accompagnato un’amica in un tour nei gattili della provincia di Bergamo. Con il mio lavoro, capitava spesso che dovessi assentarmi da casa per più giorni e così chiedevo a lei di dare un’occhiata a Macchia. Quando lo vidi, per la prima volta, aveva quasi due anni. Mi bastò incrociare il suo sguardo smarrito per capire che non avrei potuto vivere senza di lui. Non avevo mai avuto un animale prima di allora, in realtà non avevo mai diviso la mia vita con un altro essere vivente. Una coppia di pesciolini rossi sopravvissuti poche settimane non faceva statistica.

    Decisi di chiamarlo con quel nome per via della macchia bianca che aveva in mezzo agli occhi. Il resto del pelo era invece tigrato con sfumature marroni e arancioni. Rispetto ai pesciolini, un gatto sarebbe stata una faccenda un po’ diversa. Sulla sua carta d’identità, alla voce razza, c’era scritto razza europea, quasi a volerne sminuire la bellezza. Poco mi importava, per me era il gatto più bello e più dolce che potessi aspettarmi.

    «Buongiorno Teresina. Ho bisogno di lei.»

    Le spiegai che dovevo assentarmi qualche giorno per importanti indagini che mi avrebbero aiutato a completare il mio prossimo romanzo. Teresina era anche la mia prima fan. Aveva letto tutti i miei romanzi e su ognuno aveva preteso una dedica. «Che non sia una di quelle cose spicce che scrive alle migliaia di ragazze che comprano i suoi romanzi sperando di trovarci il suo numero di telefono» mi ripeteva ogni volta dondolando la testa e piegando su un lato l’angolo della bocca.

    «Dove andrà?»

    «Sono atteso in Vaticano.»

    «Mi saluti il Papa.»

    Sorrisi. «La chiamerò ogni giorno.»

    L’indomani mattina ero già sul treno. Il cielo lattiginoso di Bergamo sembrava sudare sulle case e sulle auto gocce acide che avevano già corroso Viale Papa Giovanni XXIII. Prima di mischiarmi alla frenetica folla di lavoratori vestiti di scuro, mi voltai a guardare Città Alta: era là, sorniona e stanca come un’amante fedele. Volli immaginare che mi stesse salutando guardandomi di sottecchi.

    Le regalai una smorfia e mi voltai. Un attimo dopo ero scomparso nella nebbia dei pendolari. Indugiai qualche secondo davanti ai tabelloni, cercai il mio treno e mi incamminai verso il binario.

    Dopo qualche minuto ero già seduto al mio posto. Guardavo fuori dal finestrino anche se il treno era ancora immobile. Sistemai il mio bagaglio leggero e mi persi nei pensieri fino a quando non vidi l’altro treno, immobile, allontanarsi lentamente. Eravamo partiti.

    Chiusi gli occhi e li mantenni così fino a quando non avvertii il rumore di qualcuno che si accomodava accanto a me. Le ore di viaggio mi servirono per stilare un promemoria delle priorità che avrei dovuto compiere una volta giunto a Roma: contattare l’egittologo, prenotare una camera d’albergo non distante dal Vaticano e un tavolo al ristorante per la cena. Quando viaggiavo per lavoro, non amavo lasciare certe cose al caso. Se non ci fossero stati intoppi avrei potuto iniziare a lavorare già nel pomeriggio. Ero eccitato come un bambino perché, proprio quando stavo per perdere la speranza di visionare i papiri, Piera mi aveva fatto una gradita sorpresa.

    Di tanto in tanto alzavo gli occhi dalla mia agenda e concedevo al mio sguardo di perdersi fuori dal finestrino. Le case, i campi e le persone schizzavano via come sbuffi colorati su una tela infinita. Allo stesso modo i pensieri e i ricordi si formavano e subito nella mente si perdevano, tratteggiati dalle mani di pittori diversi. Indugiai e socchiusi gli occhi, rapito dal dondolio e dal rumore delle rotaie fino a quando ritornai a pensare a Roma e al lavoro che mi stava aspettando. Mi bastò battere le palpebre per desiderare di avere già i papiri demotici tra le mani e di trarne spunti preziosi per le mie prossime pagine. Ero talmente concentrato sui reperti, che non concessi la mia compagnia a nessuna delle persone che si alternarono accanto a me. Mi limitai a sorridere e annuire a qualche domanda di cui non ricordo nemmeno il senso o il significato. Fortunatamente nessuno mi riconobbe.

    Senza quasi accorgermene, arrivai a Roma. Fuori dalla stazione, c’era odore di pioggia e le poche nuvole scure sembravano messe lì a testimoniare un temporale finito da poco.

    Piera mi aveva anticipato che avrei avuto a disposizione quarantott’ore. Avevo l’agenda aperta: il 19 e il 20 dicembre sarebbero stati i miei giorni. Non avevo mai condotto ricerche simili, ma due giorni me li sarei fatti bastare, pensai.

    Presi un taxi e in pochi minuti varcai i confini italiani e arrivai in Vaticano. Era il pomeriggio del 18 dicembre 1997. La signorina che registrò la mia identità agli accessi mi accolse con cordialità e mi accompagnò a quella che sarebbe stata la mia postazione per i prossimi due giorni. Minuta e con capelli neri portati cortissimi, aveva un sorriso gentile e uno sguardo curioso, impreziosito da due occhi scuri e luminosi. Fu molto carina e disponibile e mi spiegò, dopo essersi scusata per gli ingombri dovuti ai lavori di ristrutturazione voluti dal Santo Padre che, complice l’imminente festività, saremmo stati in pochissimi a occupare le scrivanie e, non senza imbarazzo, mi confidò che la mia autorizzazione mi avrebbe dato libero accesso a reperti che normalmente erano considerati off-limits.

    Deglutii a fatica e la ringraziai annuendo. Mi sforzai di sorridere e dopo averla informata che nei prossimi due giorni avrei lavorato a stretto contatto con un esperto egittologo, indugiai sul mio improvviso impaccio. «Mi può dare il nome?» mi chiese, riferendosi all’esperto.

    «Amilcare Carrasco.»

    «Benissimo. Me lo appunto. Domani gli chiederemo le generalità complete.»

    Abbozzai un altro sorriso. Il pensiero del nulla osta ottenuto da Piera così velocemente non mi lasciava del tutto sereno. Dopo essere rimasto solo mi guardai attorno.

    Scossi la testa perplesso perché immaginai l’eventualità che qualche amico o collega, al mio rientro, potesse chiedermi di descrivere i luoghi dove avevo raccolto e studiato i miei papiri.

    Sarebbe stato impossibile descrivere le stanze o i corridoi ricolmi di storia e segreti perché, ovunque posassi il mio sguardo, vedevo impalcature lunghe decine e decine di metri e attrezzi di ogni tipo, pareti ricoperte da teli di plastica agitati dall’aria condizionata e piattaforme mobili pronte a sorreggere operai, di cui tuttavia, a quell’ora, non vi era traccia. Quel pomeriggio lo utilizzai a familiarizzare con i codici di accesso e con le stanze che contenevano ciò che mi serviva. Il lavoro vero e proprio, di individuazione, scelta e selezione del materiale e delle informazioni, e soprattutto di traduzione, l’avrei iniziato l’indomani con l’aiuto del dottor Carrasco.

    Quella sera mi concessi un’ottima cena in tipico stile romanesco. Complice la serata fredda e umida, nella trattoria che avevo scelto gli avventori erano meno dei pochi tavoli disponibili. Di tanto in tanto la cuoca, una signora corpulenta e simpatica che sembrava uscita dalla pellicola di una commedia all’italiana degli anni Sessanta, veniva a sincerarsi che i palati dei clienti fossero soddisfatti. Alla fine pagai il conto, la salutai dandole appuntamento per l’indomani e mi incamminai per le viuzze di Trastevere, ancora bagnate dalla pioggia delle ore precedenti, in compagnia delle mie inquietudini. Avevo sperato che il fascino della città eterna potesse in qualche modo alimentare riflessioni diverse, ma mi sbagliavo. Era come se il dolore che avvertivo, pensando a mia sorella, mi trascinasse verso il basso ogni volta che provavo a sbattere le ali o mi appesantisse le caviglie quando desideravo correre. Questo tipo di malessere mi annientava ogni volta che mi allontanavo da casa per lavoro. Prima di mezzanotte mi ritirai in camera e poco dopo mi addormentai.

    La mattina, in Vaticano, ritrovai la signorina gentile del pomeriggio precedente. Mi feci accreditare e superai i tornelli che davano accesso alla porzione di Biblioteca in cui avrei trovato il materiale di mio interesse.

    Qualche minuto dopo feci la conoscenza del dottor Amilcare Carrasco.

    Il giorno prima, avevo avuto l’impressione che si aspettasse la mia telefonata. Gli descrissi i documenti che mi servivano e a cui avremmo avuto accesso e gli illustrai sommariamente cosa mi aspettavo dal suo lavoro. Sembrò eccitato, sia all’idea di poter avere tra le mani simili reperti, che di mettere un pizzico di sé dentro il mio prossimo romanzo. Prima di salutarci, colse l’occasione per dirmi che una delle sue due figlie era una mia lettrice.

    Quella mattina, dopo le reciproche presentazioni, considerai doveroso informarlo più in dettaglio su che tipo di informazione cercassi e cosa intendessi descrivere nel mio romanzo. Dopo aver recuperato i papiri demotici che facevano al caso nostro, volle spiegarmi sommariamente il significato del misterioso alfabeto e dopo essersi preso quasi un’ora per scegliere le parti più interessanti, cominciammo a lavorare. Lo vidi sorridere e scuotere la testa. «Per quelli come me, è incredibilmente gratificante e emozionante poter visionare questi reperti» sussurrò senza distogliere lo sguardo dai segni che scorrevano sotto i nostri occhi. «Deve avere conoscenze molto influenti» aggiunse con un mezzo sorriso. Anche se non tolse mai lo sguardo dai papiri, era come se avessi i suoi occhi piantati nei miei. Non risposi e lui non tornò più sull’argomento. Lo osservavo mentre studiava meticolosamente ogni segno. Mi spinsi a immaginare che amasse il proprio lavoro come io amavo il mio. Aveva uno sguardo morbido e rasserenante. Di tanto in tanto, si passava la punta della lingua sulle labbra, a testimoniare l’adolescente concentrazione per ciò che stava facendo.

    Era leggermente stempiato, portava capelli lunghi che pettinava all’indietro e che lasciava cadere sulle spalle. Al termine del secondo giorno mi sarei fatto l’idea che quello fosse l’unico vezzo che si era concesso in tutta la sua vita. Arricchiva l’esame minuzioso dei segni con variopinte espressioni del viso e pomposi gesti con le mani. Fu così che i segreti della vita quotidiana degli egizi si srotolarono lentamente davanti a me, come fossero immagini impresse su un lungo tappeto colorato.

    Grazie alle sue descrizioni, gli abiti e le professioni delle persone, le case private e gli ambienti pubblici, le vicende e gli oggetti prendevano vita da un passato ormai remoto. Annotavo ogni cosa che ritenevo importante, spesso interrompendolo e chiedendo spiegazioni. Fantasticavo con gli occhi della mente, sulle voci, sui rumori, sui profumi e persino sugli atteggiamenti degli individui che il dottor Carrasco portava in scena con i suoi racconti, quasi fossero attori che fino a quel momento si erano tenuti ben nascosti dietro le quinte di un teatro senza tempo.

    Nonostante l’aspetto curato e l’eleganza del suo completo scuro e della cravatta regimental, perfettamente abbinata alla camicia, appariva appesantito dal tempo e sconfitto dalla vita.

    Di tanto in tanto, venivamo entrambi inghiottiti dal silenzio, forse per lo stupore del luogo. Nonostante la sua eccellente preparazione nel tradurre e riportare in vita reperti vecchi di migliaia di anni, non potevamo dimenticare che eravamo circondati da oggetti che trasudavano storia. Ricordo che in uno di questi momenti di quiete, mi appoggiai allo schienale della sedia, incrociai le braccia sul petto e ponderai la questione. All’improvviso, come a voler rispondere a una domanda che non avevo posto, mi confidò di essere sposato e di avere due figlie ormai grandi, già sposate, che sentiva raramente e che vedeva ancor più di rado.

    Mi sorprese non poco quella inattesa confidenza e mi sembrò di percepire una vena melanconica mentre pronunciava quasi inconsapevolmente quelle parole. Non feci domande. Mi limitai a considerare, forse per solidarietà e quasi sottovoce, che io non ero sposato e vivevo solo. Non era la prima volta che la parola solo mi pesava sul petto come una lastra di marmo fredda e ingombrante. Mi ci volle qualche secondo e qualche respiro prima di riuscire a spostarla. Il dottor Carrasco sembrò essersene accorto.

    «Qualcosa non va?» borbottò.

    «Al contrario. Va tutto benissimo.» Mentii a lui e a me stesso. Cacciai giù, in fondo allo stomaco la parola benissimo e deglutii a fatica, come se avessi ingoiato una palla di lana asciutta.

    «Sembrava turbato.»

    Aveva ragione. Mi guardai attorno. Accanto al nostro tavolo le impalcature nascondevano ai nostri occhi i tesori stipati nei corridoi. Riuscivo a immaginarli. Mi rifugiai tra loro, come fossero le braccia infinite di una sorella, la mia.

    «Capisco» aggiunse facendo un sospiro da filosofo che non aveva bisogno di spiegazioni.

    Tornai su di lui. Lo fissai per un paio di secondi. «Se sapessi tradurre il suo sospiro come lei abilmente spreme parole e trame da questi papiri quasi fossero frutti maturi, cosa vi leggerei?»

    Sorrise. «Devo darle atto, signor Ruvolo, lei è un eccellente lettore di anime» e aggiunse: «Leggerebbe che quanto non si proferisce, suggerisce più di quanto si dice». Mi lasciava una via d’uscita che io non colsi.

    «In parole povere?» lo stuzzicai.

    Lo vidi scuotere leggermente la testa. «Che si può essere melanconici con una moglie e figli, così come da single. E che…» fece una pausa, come se gli mancassero le parole esatte.

    «E che?»

    «E che siamo seduti a pochi metri dalle uniche cose che rendono gli uomini migliori dal resto degli esseri viventi: l’arte, la scrittura e l’immortalità del pensiero.»

    Alzai l’angolo della bocca e rimasi a fissarlo per qualche secondo. Non aggiunsi un fiato alle sue parole. Anche lui mi aveva letto dentro e questo mi bastava. Si era affacciato al pozzo e aveva visto parte di qualcosa che spesso, nero e buio, spaventava anche me.

    Si schiarì la voce avvicinando il pugno destro alla bocca e riprese con rinnovato entusiasmo a posare gli occhi sui papiri. Le descrizioni della quotidianità erano sbalorditive e talmente precise e ben fatte da consentirmi di fotografare le scene nella mia mente come su tele dipinte. Ricordo che alla fine di ognuna delle due giornate ero sfinito, ma anche molto soddisfatto. Sul finire del secondo giorno avevo ormai raccolto più materiale di quanto avessi sperato.

    Quella sera di dicembre mi trovavo nel Dipartimento Manoscritti della Biblioteca Apostolica e, senza saperlo, stavo per vivere le ultime ore di una giornata che avrei ricordato per il resto dei miei giorni.

    La mattina, Roma si era svegliata, come il giorno del mio arrivo, sotto una pioggerella fitta e fredda che tanto mi ricordava gli inverni lombardi della mia adolescenza. Prima di lasciare la mia camera per il secondo e ultimo giorno di lavoro in Vaticano, chiamai la mia vicina di casa. «Buongiorno Teresina. Come sta?»

    «Si gela. E lì in Vaticano come si sta?»

    «Freschetto. Cosa sta facendo di bello?»

    «Leggo. Ho iniziato ieri sera Il senso di Smilla per la neve

    Autore danese, pensai. Non lo avevo ancora letto. «E Macchia?»

    «Sta meglio di noi due.» Non potevo vederla, ma capii che stava sorridendo.

    Dopo qualche altra battuta ci salutammo. Le diedi appuntamento per l’indomani.

    Sotto lo sguardo di una Roma quasi lombarda, i cappotti scuri e gli ombrelli omologavano le persone che camminavano sui marciapiedi e attraversavano con attenzione le strade in cui si specchiavano gli occhi delle vetture. Il cielo sembrava un mantello di cemento grigio privo di sfumature appoggiato su pilastri nascosti ai confini del mondo. Dopo aver fatto colazione, fuori dal bar mi strinsi nel soprabito, più per abitudine che per il freddo. Sulle labbra il sapore del caffellatte stentava ad andarsene. Avevo sempre sentito dire che la colazione era il pasto più importante della giornata e per questo, ogni volta che il lavoro mi portava lontano da casa e dalle mie abitudini, mi organizzavo per trovare il posto perfetto per non deludere le mie aspettative.

    Non persi tempo. Dopo qualche minuto, camminavo già nei corridoi della Biblioteca Vaticana. Per qualche ragione che non seppi spiegarmi, ebbi l’impressione che l’odore della pioggia del mattino fosse penetrato fino a lì. Di sicuro doveva essere una suggestione.

    Il lavoro del dottor Carrasco era terminato. Dopo avergli confermato che per il compenso avrebbe dovuto inviare una nota al mio editore, ci salutammo con la promessa che avrei fatto recapitare a sua figlia una copia autografata del romanzo appena fosse stato pubblicato e lo ringraziai per l’eccellente lavoro svolto. Ancora non potevo immaginare che non avrei mai potuto mantenere quella piccola promessa.

    «Grazie a lei» sussurrò accennando un sorriso. Lo guardai allontanarsi e poi, rimasto solo, iniziai a riordinare i pensieri e a catalogare i miei appunti.

    Come ho già accennato, non ero in possesso di alcun titolo per accedere ai documenti che avevo consultato con il tramite del dottor Carrasco. Avrei dovuto essere un ricercatore o uno studioso, ma non ero nessuno dei due. Avrei dovuto essere uno studente universitario, ma il mio aspetto tradiva la mia età: avevo da poco compiuto quarantotto anni.

    Anche per questo, di tanto in tanto, mi ritrovavo a pensare a Piera e ai crediti che aveva riscosso. Scuotevo la testa e pensavo che non mi sarei dovuto trovare lì. Nonostante ciò, mi era stata fornita una tessera di ammissione sulla cui validità, ogni volta che attraversavo Porta Sant’Anna, ero obbligato a riflettere. Sugli espedienti che mi permisero di accedere ai preziosi papiri, e che solo successivamente, dopo reiterate insistenze, venni a sapere, preferisco tacere per non creare imbarazzo alla persona che si adoperò per conto di Piera. Sull’autenticità dei fatti che invece vado a narrare in questo libro, che nulla hanno a che vedere con le ricerche che stavo conducendo e avevo quasi ultimato, non voglio esprimere alcun pensiero.

    Mi metterò in un angolo e chiederò al lettore di credere a ciò che la ragione o il cuore lo porterà a pensare, tenuto conto che quanto scritto in queste pagine riproduce fedelmente ciò che vidi con i miei occhi, descrive i fatti che mi vennero raccontati e le parole che mi furono riferite.

    1^ PARTE

    Capitolo 1

    Gerusalemme, anno 33 d. C. Aveva il viso schiacciato nella polvere e respirava a fatica. La saliva e il sangue si mischiavano alla rena come il vento alle foglie sui rami. Era spaventato e i battiti del cuore acceleravano pericolosamente. Per quanto tentasse, non riusciva a rimettersi in piedi perché le mani e le braccia erano bloccate da qualcosa di pesante che lo opprimeva sulla parte alta della schiena. Intorno, anche se non poteva vedere nulla da quella posizione, sentiva un gran rumore di passi che masticavano il terreno e di voci concitate di donne, bambini e uomini mossi da un’eccitazione comune. Qualcuno lo strattonò e lo rimise in piedi urlandogli di continuare a camminare. Obbediente alla tormenta come un granello di sabbia, si lasciò spingere e tirare fino a quando gli parve di comprendere la giusta direzione. Ora, quel qualcosa che prima sentiva opprimere la schiena, a ogni passo gli scorticava la nuca e le spalle. Si accorse di essere scalzo e i piedi gli facevano male. Avvertiva dolori dappertutto e il mantello che lo ricopriva parzialmente, perché lacerato in più punti, era macchiato di terra e sangue. Poco prima, mentre era prono a terra, aveva vomitato a causa dei calci e delle bastonate ricevute. Piegò la testa di lato e con la coda dell’occhio vide a cosa erano legate le sue braccia: una grossa trave. Non aveva modo di pensare e formulare domande, perché la sua mente, come il suo corpo, era piena di dolore denso come la paura. Mentre cercava di non cadere, lungo le strade che era obbligato a percorrere tra insulti, sputi e spintoni, si accorse che la trave aveva due fori alle estremità. Più tardi ne avrebbe compreso il sinistro significato. Ricordava perché fosse pieno di ferite, non perché avesse le braccia legate e non sapeva perché dovesse percorrere quella strada.

    Per quanto potesse apparire incredibile, non aveva pensieri o volti da ricordare. Non sapeva come era arrivato sino a lì e se qualcuno glielo avesse chiesto, avrebbe faticato a ricordare persino chi fosse. Il dolore gli aveva tolto tutto, anche la memoria. Solo andare avanti, doveva.

    Era stremato, confuso e disorientato. L’odore della polvere e del sangue si mischiava come fango bollente con l’odore della paura. Anche i piedi erano pieni di escoriazioni e lacerazioni, come le braccia e le gambe. Sentiva qualcosa di caldo scendergli sulle tempie e negli occhi tumefatti. Era sangue e comprese che l’occhio destro era completamente chiuso perché non riusciva a vedere da quel lato e aveva perso il senso della profondità.

    Appena fuori da una delle porte della città, molte delle persone che fino a un attimo prima lo deridevano e lo spingevano, rinunciarono a tormentarlo perché lo presero in consegna due soldati romani. Anche se non sembravano disposti a perdere tempo con la folla, ebbero un bel daffare per tenere lontano quanti provarono a insistere. Questi ultimi sembravano impazziti, come cani che avevano fiutato l’odore del sangue e a malincuore dovevano rinunciare al loro pezzo di carne. Per questo, mentre i due soldati si concentrarono su quelli che non volevano rinunciare alla loro preda, quest’ultima riuscì a concedersi un attimo di quiete, l’unico. Cercò di respirare e di riprendere le forze, ma proprio in quel momento venne colpito sulla coscia destra da una bastonata che lo fece crollare. La gamba gli cedette e sotto il peso della trave si vide costretto a cadere a terra malamente, prima di lato, e poi con il torace e il volto. Ancora una volta qualcuno lo aiutò a tirarsi su e lo trascinò fino ai piedi della collina poco distante, su cui gli sembrò di vedere, sulla cima, un palo conficcato nel terreno e alcuni uomini che gli parvero in attesa. Lassù doveva andare. Lassù quegli uomini lo aspettavano. Tentò di deviare a destra come un animale recalcitrante, ma ricevette una bastonata sulla schiena.

    Allora provò dall’altra parte, ma fu colpito con un pugno nelle reni da uno dei due soldati che lo avevano preso in consegna poco prima e che gli indicò con urla e il braccio alzato, la sommità

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