Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

A partire da $11.99/mese al termine del periodo di prova. Annulla quando vuoi.

Poesie 1850-1900
Poesie 1850-1900
Poesie 1850-1900
E-book968 pagine6 ore

Poesie 1850-1900

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

In questa edizione vengono raccolti tutti i componimenti del Poeta, da lui personalmente scelti per l'edizione definitiva della sua opera, data alle stampe nel 1901. Primo italiano a vincere il Premio Nobel per la letteratura, Giosuè Carducci segna un'epoca della poesia italiana, che in lui e tramite di lui si esplica e definisce. Carducci, concependo l'arte come educazione morale, seppe accostarsi ai grandi del passato recente, in primis Leopardi e Foscolo, che stimolarono il culto per le tradizioni e per gli ideali classici. La sua visione poetica si nutre di tradizione greca, romana e del Rinascimento italiano, approdando così a una poesia alta, solenne, ma a un tempo famigliare, intrisa di sentimenti delicati, che rivela affetti e sofferenze attraverso l’alternarsi di paesi soleggiati e lunari malinconie.
LinguaItaliano
Data di uscita8 giu 2023
ISBN9791222415505
Poesie 1850-1900

Leggi altro di Giosuè Carducci

Autori correlati

Correlato a Poesie 1850-1900

Ebook correlati

Poesia per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Poesie 1850-1900

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Poesie 1850-1900 - Giosuè Carducci

    GIOSUÈ CARDUCCI

    POESIE

    1850-1900

    L'opera poetica di Carducci nel periodo 1850-1900, raccolta in un solo volume curato dallo stesso autore

    © 2023 Sinapsi Editore

    JUVENILIA

    (1850-1860)

    Nec tantum ingenio quantum servire dolori

    Cogor et aetatis tempora dura queri.

    Hic mihi conteritur vitae modus, haec mea fama est:

    Hinc capio nomen carminis ire mei

    I.

    PROLOGO

    Ah per te [1] Orazio prèdica al vento!

    Del patrio carcere non sei contento,

    La chiave abomini grata a i pudichi,

    Agogni a l’aere de’ luoghi aprichi.

    E dove, o misero, dove n’andrai.

    Dove un ricovero trovar potrai,

    O de’ miei giovini lustri diletto,

    O mio carissimo tenue libretto?

    Non sai fastidio ch’ha de le rime

    Questa de gli arcadi prole sublime?

    Né de’ romantici ti vuol la fiera

    Che siede a i salici libera schiera.

    Tu, se tra’ lirici pur tenti il volo,

    Poco, o mio tenero, t’ergi dal suolo;

    Ed oggi innalzasi per nova via

    Fin da’ suoi numeri l’economia,

    Né omai piú reggono piedi né ale

    Dietro la lirica universale.

    Oggi ciclopica s’è fatta l’arte;

    E Bronte e Sterope su per le carte

    Con vene tumide, con occhi accesi

    E con gli erculei muscoli tesi

    A prova picchiano: Venere guata,

    E gli rimescola la limonata:

    Mentre il monocolo pastore etnese,

    Succiando il femore d’un itacese,

    Con urli orribili divelle un pino

    E a le nereidi fa il mazzolino.

    Deh, quanti, o misero, d’ispirazioni

    Litri raccogliere puoi ne’ polmoni,

    Quanti chilometri de l’infinito

    Puoi tu percorrere con passo ardito,

    Quanti ravvolgerti chili d’affetto

    Giú ne lo stomaco puoi tu, libretto,

    Da uscire a gloria tra le persone,

    Senza pericolo d’indigestione?

    Te con le tenui miche d’Orazio

    Crebbe la pallida musa del Lazio,

    A te quell’aere parve bastante

    Che respirarono l’Ariosto e Dante:

    Chiede il novissimo stadio altre bighe:

    Libro, rincàsati, cansa le brighe.

    Vedi? minacciano Cariddi e Scilla:

    Ti preme Davide con la Sibilla.

    D’amor tu chiacchieri, e questo va:

    Ma non santifichi la voluttà,

    Non metti a Venere lo scapolare,

    Non fai gli adulteri sermoneggiare:

    Onde, o me misero!, flebili e tristi

    Già t’interdissero gli atei salmisti,

    E il buon Petronio predicatore [2]

    Che a sé convertami pregò il signore.

    Vinca ei di Taide le ritrosie

    Con un trar mistico d’avemarie,

    E de la cantica nel pio latino

    Le infiori i dialoghi de l’Aretino.

    Al limpidissimo suon de l’argento

    Dietro un davidico cento per cento

    Alfio [3] gli sdruccioli deduca, e macro

    Consoli il prossimo d’un inno sacro.

    Per me invan prèdica ballonza e canta

    Ebra l’Arcadia pur d’acqua santa,

    Il sacro quindici refulse in vano

    Per me: son reprobo piú di Claudiano,

    E de’ Timotei e de’ Basilii

    Provai già i moniti e i supercilii.

    Ma quel Timoteo che a gli anni andati

    In chiesa l’organo sonava a i frati,

    E di serafica broda satollo

    Al pan de gli angeli rizzava il collo,

    Cantando monache e Filomene

    Pien di libidine tetra le vene;

    E quel Basilio biondo e ventenne

    Che al sacro fulmine tingea le penne

    Ne l’aromatico miel del Loiola,

    Al sacro fulmine de la parola

    Che da l’iberiche fiamme già mosse

    E ne gli eretici sterpi percosse;

    Oggi levatisi di ginocchione

    Anche rinnegano la dea Ragione,

    E sempre al solito mo’ tolleranti

    Già già si cavano rugghiando i guanti,

    Pronti a pur arderti, libretto mio,

    Se in un avverbio c’entrasse dio.

    Me al men, filosofi, non arderanno,

    Come, teologi, volean l’altr’anno.

    Ma chi, mal docile talpa infingarda,

    Chi dal neofito furor mi guarda?

    Quali su i ruderi de le memorie

    Di laide maschere corsi e baldorie!

    E sempre piangere plebe affamata,

    E sempre ridere plebe indorata,

    E basir tisica sotto le biche

    La impronta logica de le formiche,

    E de le favole, baie del nonno,

    Schifi già i bamboli cascar di sonno

    Io veggo; e torpido nel gran lavoro

    Non canto e prèdico l’età de l’oro.

    Chi dunque, indocile talpa infingarda,

    Chi dal neofito furor mi guarda?

    Gl’innocentissimi Nando e Poldino,

    Che già l’immerito sermon latino

    Stroppiaro in distici per nozze auguste,

    Oggi rosseggiano come aliguste;

    E l’eucaristico inno a Pio nono

    Con lezion varia lusinga il trono

    Di re Vittorio, da poi che aprile [4]

    A qualche anonimo spirto civile

    Squagliò la gelida crosta, e, spavento!,

    Il prete attonito, nel sacramento

    Lavando al pargolo le nuove chiome,

    Sentiva d’Italo bociarsi il nome.

    O infelicissimo libro, o sfatato,

    O in man purissime mal capitato!

    Crollando il rigido frigio berretto

    Fatto su ’l modulo che diè il prefetto,

    Ei con iscandalo ti buttan là,

    Come retrograda suipsità.

    Rízzati e vàttene, ché il galateo

    Non è neofito. Ma, se ad un reo

    Fucci filologo fia che t’abbatta

    Rimpiallacciatosi da Guccio Imbratta,

    Che vomitarono le sagrestie

    De’ galantuomini su per le vie,

    Che ne le tuniche di pergamena

    Tra la medicea ferrea catena

    Tremano i codici quand’ei li guata

    E dal liburnio remo invocata

    La man lor applica, se a te vicino

    Ei sbiechi il livido occhio porcino,

    — Deh, Fucci, — gridagli — mercede imploro;

    Non vesto, vedimi, d’argento e d’oro,

    Non son de gli ordini privilegiati

    Vuoi de’ rarissimi vuoi de’ citati,

    Non ne i cataloghi cercato appaio,

    Non c’è da vendermi che al salumaio.

    A queste pagine di poco affare

    Le man dottissime non abbassare. —

    Oh, s’ei la granfia distenda a vuoto,

    Appicca, o povero libro, il tuo vóto:

    Ché a grandi e piccoli ei non perdona;

    Ogni, anche minima, preda gli è buona.

    Chiese, postriboli, caffè, spedali

    Le sue sentirono unghie fatali,

    Da quando ei l’abile man giovinetta

    Da l’elemosine ne la cassetta

    Imberbe chierico con occhio pio

    Erudía, l’obolo rubando a Dio,

    E i doni a l’umile Vergine apposti

    Per lui fumavano fusi in arrosti.

    D’altro non dubito: se bene ancora

    Lui la chiarissima viltade adora,

    Trason ridicolo che incarna e avanza

    L’idea platonica de l’ignoranza,

    Forte co’ deboli, debol co’ i forti,

    Prode a trafiggere gli uomini morti,

    Prode a nascondersi, ferendo il tergo,

    Di birri e ipocriti sotto l’usbergo,

    Tal ch’io non credomi maggior ribaldo

    Redasse l’anima del Maramaldo.

    Fuggi, o mio povero libro da bene,

    Il ceffo orribile, le mani oscene,

    L’invidia rabida d’ogni opra buona

    Che tutta gli agita la rea persona.

    Fuggi.... No: sorgigli diritto in faccia,

    La mia ripetigli vecchia minaccia,

    Con fronte impavida, con voce intiera:

    Fucci filologo, frusta e galera.

    Poi, se la fulgida ira s’alléni,

    Vola a i dolcissimi colli tirreni,

    Ove dal facile giogo difese

    In contro a borea d’ombra cortese

    Svarian le candide magion pe’ clivi

    Tra vigne e glauche selve d’olivi.

    Ivi di limpida luce piú viva

    Riveste l’etere la sacra riva;

    E il sole arridere come ad amiche

    Pare a le splendide colline antiche,

    Quando, partendosi, la favolosa

    Cima fesulea tinge di rosa.

    De la virginea certa saetta

    Ove ancor timido Mugnone affretta [5]

    Ad Arno e misero par che lamenti

    I mal concessigli abbracciamenti,

    Tra il fiume e d’arido monte le spalle

    Il pian riducesi in poca valle,

    E in mezzo a’ nitidi cólti un’ascosa

    Da placidi alberi magion riposa.

    Ivi, o mio tenue libro, al Chiarini

    Chiedi pe’ profughi geni latini,

    Chiedi l’ospizio. Vedi: ei la porta

    Già t’apre, ed ilare ti riconforta.

    Ei di barbarica pelle odorata

    Presto la tunica t’avrà comprata,

    Cui solchi d’aurei fregi un lavoro

    E i lembi nitidi sien tutti ad oro.

    O mio carissimo già poverello,

    Come or sei splendido, come sei bello!

    T’invidia il tenero padre lontano,

    Fucci filologo stende la mano.

    Ma tu non avido di mutar loco

    A l’aure estranee fídati poco;

    Ama de l’ospite ama il ricetto,

    O mio carissimo tenue libretto.

    II.

    A G. C.

    IN FRONTE A UNA RACCOLTA DI RIME

    PUBBLICATA NEL MDCCCLVII

    Forse avverrà, se destro il fato assente

    Vóto che surga pio di sen mortale,

    Giuseppe, e s’a piú ferma età non mènte

    Il prometter di questa audace e frale,

    Che in piú libero cielo aderga l’ale,

    D’amor, di sdegno e di pietà possente,

    Questo verso, che fioco or passa quale

    Eco notturna per vallea silente:

    Pur caro a me, che del rio viver lasso,

    Ma ogn’or di voi, sacre sorelle, amante

    Lo inscrivo qui come in funereo sasso:

    Pago se alcun dirà — Tra ’l vulgo errante

    Che il bel nome latino ha volto in basso

    Fede ei teneva al buon Virgilio e a Dante —.

    LIBRO I

    III.

    Peregrino del ciel, garrulo a volo

    Tu fuggi innanzi a le stagion nembose,

    E vedi il Nilo e nostre itale rose,

    Né muti stanza perché muti polo:

    Se pur de le lontane amate cose

    Cape ne’ vostri angusti petti il duolo,

    Né mai flutto inframesso o pingue suolo

    Oblio del primo nido in cor ti pose;

    Quando l’ala soffermi a’ poggi lieti

    Che digradano al mar da l’Apennino

    Bianchi di marmi e bruni d’oliveti,

    Una casa a la valle ed un giardino

    Cerca, e, se ’l nuovo possessor no ’l vieti,

    Salutali in mio nome, o peregrino.

    IV.

    Tu, mesta peregrina, il dolce nido

    Lasci e de l’aer nostro il novo gelo:

    T’invita più benigno ardor di cielo

    E primavera di straniero lido.

    E me lasci che tristi ore divido

    Pur co ’l dolore onde i lassi occhi velo.

    Tornerà tempo che senz’ombra o velo

    Si porga l’aer nostro a te piú fido.

    Allor candidi soli; allor fiorente

    Il colle e il piano; allor tutto d’amore

    Ti riconsiglierà soavemente.

    Né allor ti sovverrai l’uman dolore

    Di che si piange or qui. Non acconsente

    Al pianto, e oblia, de’ fortunati il cuore.

    V.

    Sí crudelmente fero è quel flagello

    Onde me già del breve correr lasso

    Il disinganno sferza a ciascun passo,

    Che fine io chiamo al reo cammin l’avello;

    E tra forme gentili e nel piú bello

    Aprir de’ floridi anni io l’occhio abbasso,

    Quasi cercando oltre la terra il passo

    A l’inamabil cieco ultimo ostello.

    Ma di speme atteggiato e di dolore

    Mi sofferma un sembiante; e lacrimoso

    Pur in me guarda, e pio tace. Furore

    Quinci ed amor nel petto procelloso

    Surgono a gran tenzone; e vince amore:

    Ond’io fremendo e sospirando poso.

    VI.

    Questa è l’altera giovinetta bella

    Che tragge seco onesta leggiadria:

    Beltade orna di gloria la sua via,

    E l’addimostra per propria angiolella.

    I’ ho veduto Amor che la servia

    Umilemente de le sue quadrella;

    Sentit’ho gire per salute ad ella

    L’alma ferita che dal cor si svia.

    E chiama pur pietà nel suo conspetto,

    Fin che quel riso onde s’allegra amore

    Benignamente l’umile raccoglia.

    Allor la vita esulta entro nel core,

    E il cor si leva e la tristezza spoglia

    Illuminato nel sereno aspetto. [6]

    VII.

    O nova angela mia senz’ala a fianco,

    Certo dal loco ove bellezza è pura

    L’intelligenza tua vestí figura

    Di pargoletta donna in velo bianco;

    E qui venisti al secol rio, che stanco

    Del bello adoperar piú nel mar dura,

    Per drizzar me fuor de la vita scura

    Voglioso dietro le tue scorte e franco.

    E ben forse avverrà ch’agile e scarco

    Io prema ancor le tue vestigia sante

    Con l’alma teco in un desio congiunta;

    Se di tanto mi degna il Primo Amante,

    Che, mentre io tenga del mortale incarco,

    L’ale tue d’òr non mettan fuor la punta. [7]

    VIII.

    Profonda, solitaria, immensa notte;

    Visibil sonno del divin creato

    Su le montagne già dal fulmin rotte,

    Su le terre che l’uomo ha seminato;

    Alte da i casti lumi ombre interrotte;

    Cielo vasto, pacifico, stellato;

    Lucide forme belle, al vostro fato,

    Equabilmente, arcanamente, addotte;

    Luna, e tu che i sereni e freddi argenti

    Antica peregrina a i petti mesti

    Ed a’ lieti dispensi indifferenti;

    Che misteri, che orror, dite, son questi?

    Che siam, povera razza de i viventi?...

    Ma tu, bruta quïete, immobil resti.

    IX.

    Candidi soli e riso di tramonti,

    Mormoreggiar di selve brune a’ venti

    Con sussurrio di fredde acque cadenti

    Giú per li verdi tramiti de’ monti,

    Ed Espero che roseo sormonti

    Nel profondo seren de’ firmamenti,

    E chiara luna che i sentier tacenti

    Inalbi e scherzi entro laghetti e fonti,

    Questo m’era ne’ vóti. Or miei desiri

    Pace ebber qui tra fiumi e tra montagne

    De le secure muse in compagnia:

    Pace: se non che te ne’ miei sospiri

    Chiamo, te che da noi ti discompagne,

    E il caro aspetto de la donna mia.

    X.

    Bella è la donna mia se volge i neri

    Di soave languore occhi lucenti,

    E, ricercando il vinto cor, le ardenti

    Vi rinforza d’amor voglie e pensieri.

    Piú bella è la mia donna allor che alteri

    Gli leva o gira nel conceder lenti,

    E, minacciando pur, chiede ch’io tenti

    La dolce guerra e la vittoria speri.

    Cosa di cielo è la mia donna allora

    Che il roseo collo piega e il vago riso

    A i baci porge e quei d’ambrosia irrora.

    Oh, che d’ogni mortal cura diviso,

    Sopra quel sen, tra quegli amplessi io mora!

    Né v’invidio, o beati, il paradiso.

    XI.

    A questi dí prima io la vidi. Uscía

    A pena il fior di sua stagion novella,

    E la persona pargoletta e bella

    Era tutta d’amore un’armonia.

    Vereconda su ’l labro la fioría

    L’ingenua grazia e la gentil favella:

    Come in chiare acque albor lontan di stella

    Ridea l’alma ne gli occhi e trasparía.

    Tale io la vidi. Or con desio supremo

    Lei per questo nefando aere smarrita

    Pur cerco e invoco; e sol mi sento, e tremo;

    Ché spento è al tutto ogni buon lume, e vita

    Già m’abbandona, e son quasi a l’estremo.

    Luce de gli anni miei, dove se’ gita?

    XII.

    Quella cura che ogn’or dentro mi piagne

    Desta dal lume in duo begli occhi ardente,

    Me co ’l giorno invernale ove il torrente

    Scoscende e ne le avverse alpi si fragne

    Seco rapisce. E te, che ti scompagne

    Dal mio già fermo petto, o confidente

    Virtude onde fuggii la vulgar gente,

    Penso per erma via d’aspre montagne.

    Ma vince de le alpestri onde il fragore

    Quell’una voce sua: suoi cari accenti

    Sona l’aura selvaggia. E in van nel core

    Sdegno e ragion contrasta. Io miro a’ venti

    Lente ondeggiar le nere chiome e amore

    Folgorar ne’ superbi occhi ridenti.

    XIII.

    E tu pur riedi, amore; e tu l’irosa

    Anima invadi, e fiero ivi t’accampi,

    E i desueti spirti e il cor che posa

    Lunga già s’ebbe or fiedi e scuoti e avvampi.

    Io te fuggo per selve aspre e per campi:

    Ma vive alta nel petto, e sanguinosa

    Stride la piaga; e il mio duol grida: e cosa

    Mortal non è che di tua man mi scampi.

    O degni affetti, o studi almi! In servaggio

    Duro vi piango e in basso errore, ov’io

    Caddi e giacqui co ’l vulgo, e non mi levo:

    Ché pur mi preme di quegli occhi il raggio,

    Di quei cari e superbi occhi ond’io bevo

    Lenti incendi e furor lungo ed oblio. [8]

    XIV.

    Nè mai levò sí neri occhi lucenti

    Saffo i preghi cantando a Citerea,

    Quando nel petto e per le vene ardenti

    A lei sí come nembo amor scendea;

    Né désti mai sí molli chiome a’ venti,

    Corinna, tu sovra l’arena elea,

    Quando sotto le corde auree gementi

    Fremeati il seno e a te Grecia tacea:

    Sí come or questa giovinetta bella

    Tremanti di desio gli umidi rai

    E del crin la fulgente onda raccoglie,

    In quel che dolce guarda, e la favella,

    Qual tra le rose aura d’april, discioglie:

    Onde ardo, e posa non avrò piú mai.

    XV.

    Deh, chi mi torna a voi, cime tirrene

    Onde Fiesole al pian sorride e mira?

    Deh, chi mi posa sotto l’ombre amene

    Ove un rio piange e molle il vento spira?

    Oh, viva io là fuor di timore e spene,

    Lontan rugghiando de’ miei fati l’ira!

    L’erbe il ciel l’onde ivi d’amor son piene,

    E ne l’aure odorate amor sospira.

    A te il suolo beato eterni fiori

    Sommetterebbe, Egeria; e d’ombre sante

    Proteggerebbe un lauro i nostri amori.

    Ivi queto morrei. Tu al sol levante

    Mi comporresti l’urna in tra gli allori,

    L’ombra chiamando del poeta amante.

    XVI.

    E degno è ben, però ch’a te potei,

    Lasso!, chinar l’ingegno integro eretto,

    S’ora in gioco tu volgi, e lieto obietto

    L’ire, o donna, ti sono e i dolor miei.

    Io quel dí che mie voglie a te credei

    Pur vagheggiando accuso; e strappo e getto

    Tua terribile imagine dal petto

    In van: tu meco, erinni mia tu sei.

    Ahi donna! ne le miti aure è il sorriso

    Di primavera, e il sole è radïante,

    E il verde pian del lume aureo s’allegra.

    A me di noia, a me d’orror sembiante

    È quant’io veggo; e, se nel ciel m’affiso,

    De la mia cura e il divo ciel s’annegra.

    XVII.

    Cara benda che in van mi contendesti

    Nera il candido sen d’Egeria mia,

    Spoglia già glorïosa, or ne’ dí mesti

    De le gioie che fûr memoria pia:

    Tu sol di tanto amore oggi mi resti,

    E l’inganno mio dolce anche pería;

    Ond’io te stringo al nudo petto, e questi

    Freddi baci t’imprimo. Ahi, ma la ria

    Fiamma pur vive e pur divampa orrenda

    E tu su ’l cor, tu su ’l mio cor ti stai

    Quasi face d’inferno, o lieve benda.

    Deh, perisci tu ancor. Né sia piú mai

    Cosa che a questa offesa anima apprenda

    Com’io di donna a servitú piegai.

    XVIII.

    E tu, venuto a’ belli anni ridenti

    Quando a la vita il cor piú si disserra.

    Contendi al fato il prode animo, e in terra

    Poni le membra di vigor fiorenti.

    Ahi, ahi fratello mio! Deh, quanta guerra

    Di mesti affetti e di pensier frementi

    Te su gli occhi de’ tuoi dolci parenti

    Spingeva ad affrettar pace sotterra!

    Or teco posa il tuo dolor. Né il viso

    Piú de la madre e non la donna cara

    O il fratel giovinetto o il padre pio,

    Né i verdi campi vedrai piú; né il riso

    Del ciel, né questa luce... ahi luce amara!

    Vale, vale in eterno, o fratel mio.

    XIX.

    Te gridi vil quei che piegò la scema

    Alma sotto ogni danno ed a l’ostile

    Possa adulò, pago a cessar l’estrema

    Liberatrice d’ogni cor gentile:

    Te gridi vile il mondo, il mondo vile

    Che muor di febbre su le piume, e trema,

    Pur franto da la lunga età senile,

    In conspetto a la sacra ora suprema.

    Ben te, o fratel, di ricordanza pia

    Proseguirà qual cor senta i funesti

    Regni del fato e il viver nostro orrendo,

    Te che di sangue spazïosa via

    A l’indignato spirito schiudesti,

    Giovinetto a la morte sorridendo.

    XX.

    E voi, se fia che l’imminente possa

    Deprechiate e del fato empio le guerre,

    Voi non avrete a cui regger si possa

    Vostra vecchiezza quando orba si atterre.

    Soli del figliuol vostro in su la fossa

    Quel dí che i dolorosi occhi vi serre

    Aspetterete. O forse no. Son l’ossa

    Sparse de’ nostri per diverse terre.

    Oh, che il dí vostro d’atre nubi pieno

    Non tramonti in procella! oh, che il diletto

    Capo si posi ad un fidato seno!

    Io chiamo invano al mio paterno tetto,

    E cresce il tedio e gioventú vien meno.

    Deh, chi mi torna, o buoni, al vostro petto?

    XXI.

    O cara al pensier mio terra gentile

    Ch’a la pura sorgendo aria azzurrina

    D’alto vagheggi regnatrice umíle

    Il pian che largo al biondo Arno dichina:

    Tu ridi allegra al ciel che di simíle

    Gioia t’arride e al tuo favor s’inchina;

    A te dolci aure, a te perenne aprile

    Veston di verde il campo e la collina.

    E a te da questo inverno reo la mente

    Ed il cuor lasso mio tendono a volo:

    Tu tieni l’uno e l’altro mio parente

    Co ’l fratel che mi avanza, e del tuo suolo

    Abbracci quel ch’io non baciai morente:

    In te tutto è il mio bene: io qui son solo.

    XXII.

    Qui, dove irato a gli anni tuoi novelli

    Sedesti a ragionar co ’l tuo dolore,

    Veggo a’ tepidi sol questi arboscelli,

    Che tu vedevi, rilevarsi in fiore.

    Tu non ti levi, o fratel mio. D’amore

    Cantan su la tua fossa erma gli uccelli:

    Tu amor non senti; e di sereno ardore

    Piú non scintilleran gli occhi tuoi belli.

    Ed in festa venir qui ti vid’io

    Oggi fa l’anno; e il dire anco mi sona

    E ancor m’arride il tuo sorriso pio.

    Come quel giorno, il borgo oggi risona

    E si rallegra del risorto iddio,

    Ma terra copre tua gentil persona.

    XXIII.

    Non son quell’io che già d’amiche cene

    Destai la gioia tra’ bicchier spumanti.

    Torpe la mente irrigidita, e piene

    D’amaro tedio stan l’ore cessanti.

    Ira è che il viver mio fero sostiene

    Sol una, e il cor con sue tede fumanti

    M’arde e depreda. O miei verd’anni, o spene

    Mia che mi giaci, ahi già sfiorita, innanti!

    Anche del caro imaginar la brama

    Al tempo m’abbandona; e resta, immane

    Muto fantasma, intorno a me, la vita.

    Ma un’ombra io sento che il mio nome chiama,

    E duolsi a me che sola ella rimane,

    E di là da le quete onde m’invita.

    LIBRO II

    XXIV.

    INVOCAZIONE

    Se te già tolsi con incerta mano

    Da latin ramo onde ancor Febo spira,

    Caro a le Grazie or tu sonami, o lira,

    Carme toscano.

    Canora amica, o le falangi astate

    Ferocemente confortasse in guerra,

    O riposasse ne la franca terra,

    Al lesbio vate

    Tu gli dicevi e Cipride ed Amore

    E giovin sempre di Semèle il figlio

    E ’l crin di Lico e de l’arcato ciglio

    L’ampio fulgore.

    Or io ti scoto. A me sorride il puro

    Genio di Flacco: a’ divinati allori

    E de le ninfe a’ radïanti cori

    Movo securo.

    O cara a Giove ed a re Febo, insigne

    Di cittadine mura adornamento,

    Rispondi al vóto; e sperda il tuo concento

    L’alme maligne.

    XXV.

    A O. T. T.

    Caro a le vergini d’Ascra e di belle

    Mortali vergini cura e diletto,

    O a me di mutua fede costretto

    Da eguali stelle,

    Ottavio: i codici d’aurea favella

    Dove il tuo spendesi tempo migliore,

    Che da te chieggono novo splendore,

    Vita piú bella,

    Poni: ed i lirici metri, che apprese

    A me la duplice musa di Flacco,

    Qui tra le candide gioie di Bacco

    Odi cortese.

    Avvi cui ’l torbido Gradivo arride,

    Ed ama il rapido baglior d’elmetti

    Ne l’aer livida che da’ moschetti

    Divisa stride,

    E via tra l’orride membra che sparte

    Incèstan d’ampia strage il sentiero

    Urta il fulmineo baio destriero

    Furia di Marte;

    Poi lunge a’ fulgidi campi ed a’ valli,

    Nel sen d’ingenua sposa che agogna

    Notturni gaudii, feroce ei sogna

    Trombe e timballi.

    Con altri l’àlacre fame de l’oro

    Ascende vigile la prora, e anela

    Le infami insidie drizza e la vela

    Al lido moro.

    Per essa il nauta ride i furori

    D’euro che gl’ispidi flutti cavalca,

    E con la cupida mente egli calca

    Rischi e terrori:

    In vano l’orrido crin sanguinante

    Infesto Oríone pe ’l ciel distende

    Ed il terribile di fiamma accende

    Brando strisciante:

    Bianca di naufraghe ossa minaccia

    La riva squallida: dal patrio lido

    La figlia chiamalo con lungo strido

    Pallida in faccia.

    Ed altri docile guerrier d’amore

    In tra le pafie rose vivaci

    De le virginee lutte co’ baci

    Desta il furore;

    E sopra un niveo petto, di glorie

    La fronte carica, stanco a le prove,

    Depone; ed agita, posando, nove

    Pugne e vittorie.

    E me le libere Muse nel casto

    Seno raccolgano, me loro amante

    Le dee proteggano del vulgo errante

    Dal vano fasto.

    Me non contamini venduta lode,

    Non premio sordido d’util perfidia:

    Vinca io con semplice petto l’invidia,

    Vinca la frode.

    Ed oh se un tenue spirto l’argiva

    Camena infondami! se a me ne’ lieti

    Fantasmi lucidi de’ suoi poeti

    Grecia riviva!

    Non io l’Apolline cimbro inchinai,

    Io tósco e memore de l’are attèe;

    Né di barbariche tazze circèe

    Ebro saltai.

    Ottavio, al libero genio romano

    Libiam noi liberi qui nel gentile

    Terren d’Etruria: lunge il servile

    Gregge profano.

    XXVI.

    CANTO DI PRIMAVERA

    Qual sovra la profonda

    Pace del glauco pelago

    Uscí Venere, e l’onda

    Accese e l’aer e l’isole,

    Quando al ciel le divine

    Luci alzò raccogliendo il molle crine;

    Primavera beata

    Su le pianure italiche

    Sorride. Ogni creata

    Cosa in vista rallegrasi:

    Scherza con l’aura e il fiore

    E vola nel sereno etere Amore.

    Entro la chiusa stanza

    Medita Amore, trovalo

    In fragorosa danza

    La giovinetta; ed íntegra

    Cede a’ futuri affanni

    L’inconsapevol cuore e i candidi anni.

    D’ebrïetà possente

    Sale dal suol che vegeta

    Un senso: al cor fremente

    Il mondo antico vestesi

    Di novi incanti, e a’ petti

    Novi palpiti chiede e novi affetti.

    Transvolar le serene

    Forme de’ sogni improvvido

    L’uom ricontempla: arene

    E deserto il ricingono:

    La falsa imago anelo

    Lui tragge ove piú stride il verno e il gelo.

    Tal, se l’alta marina

    Ara e l’insonne Atlantico,

    Vede, allor che ruina

    La notte solitaria,

    L’elvezio infermo il rio

    Alpin ne l’onde salse, e del natio

    Monte le vacche quete

    Pender da i verdi pascoli,

    E tra l’ombre segrete

    Un’aspettante vergine

    Cantar, molle la guancia;

    Vede, ed in contro a lei nel mar si lancia.

    Che sopra gli si chiude

    Muto. O soavi imagini,

    Pur d’ogni senso nude;

    O d’inconsulti palpiti

    Desío profondo arcano;

    Ultima gioventú del cuore umano!

    Questa che deludete

    Misera prole, o perfidi,

    Quanto ha di voi pur sete!

    E vi saluta reduci

    Insieme al riso alterno

    Onde s’attempa il vol de l’orbe eterno.

    Culto tra i feri studi

    Sacro un giorno a’ romulidi,

    E di solenni ludi

    Empiea sonante l’isola

    Che il Tebro ad Ostia in faccia

    Lieta di paschi e di roseti abbraccia.

    Dal dí che il mese adduce

    De la marina Venere

    Sino a la terza luce

    Già sorta a gl’incunabuli

    Di Quirin, la gioconda

    Festa correa per la fiorita sponda.

    E qui belle traéno

    A’ rosei tabernacoli

    Donzellette cui ’l seno

    Tra i bianchi lin moveasi

    Intatto anche a gli amori.

    Sotto gli astri roranti e a’ miti ardori

    Del sole i verginali

    Carmi intorno volavano,

    Mentre il piacer da l’ali

    Stillava ingenuo nèttare

    E Terpsicore dea

    Invisibil co ’l suon danze movea.

    «La sposa ecco di Tereo

    Canta tra i verdi rami,

    Né par che omai del barbaro

    Marito si richiami:

    Piú scorte note a lei

    Amore insegna e piú soavi omei.

    Canta: e noi mute, o vergini,

    L’udiamo. Oh quando fia

    Che venga e me pur susciti

    La primavera mia,

    E rondine io diventi

    Che l’allegra canzon commette a’ venti?

    Già voluttade l’aere

    Empie di rosei lampi:

    Sentono i campi Venere,

    Amor nacque ne i campi:

    Effuso dal terreno

    Lui raccolse la dea nel latteo seno.

    E lo nudrîr le lacrime

    D’odorati arboscelli,

    E lo addormiro i gemiti

    De l’aure e de’ ruscelli,

    E lo educaro i molli

    Baci de’ fiori in su gli aperti colli.

    L’umor che gli astri piangono

    Per la notte serena

    Sottil corre a la nubile

    Rosa di vena in vena,

    Onde al zefiro sposo

    Sciolga il peplo domani e il sen pomposo.

    Di Cipri ella da l’ícore

    Nata d’Amor tra i baci

    Tien gemme e fiamme e porpore,

    O Ciel, da le tue faci;

    E conoscente figlia

    A le tue nozze il talamo invermiglia,

    Allor che da le pendule

    Nubi la maritale

    Pioggia a la Terra cupida

    Discende in grembo, ed ale

    Nel vasto corpo i vasti

    Feti che tu, Ciel genitor, creasti.

    Dal sangue tuo l’oceano

    Tra selve di coralli,

    Tra le caterve cerule

    E i bipedi cavalli,

    A i liti almi del lume

    Vener produsse avvolta in bianche spume.

    Ed ella or del suo spirito

    Le menti arde e le vene,

    Del nuovo anno l’imperio

    Procreatrice tiene,

    Ed aria e terra e mare

    Soave riconsiglia a sempre amare.

    Da i boschi, o delia vergine,

    Cedi per oggi: noi

    Invia la diva placide

    Nunzie de’ voler suoi:

    Non macchi, ahimè!, ferina

    Strage la selva il dí ch’ella è reina.

    Essa a le ninfe il mirteo

    Bosco d’entrare impone:

    Amore a quelle aggiugnesi,

    Ma l’armi pria depone.

    Francate, o ninfe, il core:

    Posto ha giú l’armi, è ferïato Amore.

    La madre il volle, pavida

    No il picciolin rubello

    Altrui ferisca improvvido.

    Ma pur Cupido è bello.

    Guardate, o ninfe, il core:

    È tutto in armi, anche se nudo, Amore.

    Con lui fermò nel Lazio

    De’ lari idei l’esiglio,

    E una laurente vergine

    La dea concesse al figlio

    D’Anchise; e quindi a Marte,

    Sbigottita orfanella in chiome sparte,

    Di Vesta ella dal tempio

    Traea la sacerdote:

    Onde il gran padre Romolo

    E Cesare nipote;

    Onde i Ramni e i Quiriti,

    E tu, o Roma, signora in tutti i liti.»

    Beate! e i lieti cori

    Non rompea lituo barbaro,

    Né i verecondi amori

    Turbava allora il fremito

    Che dal cuore ne preme

    La tradita d’Italia ultima speme.

    Nel sangue nostro i nostri

    Campi ringiovaniscono;

    E quando lento i chiostri

    Del verde pian d’Insubria

    Apre l’aratro e frange,

    Su l’ossa rivelate un padre piange.

    Non biondeggia superba

    Da’ nostri solchi Cerere,

    Ma lei calpesta acerba

    L’ugna de’ rei quadrupedi;

    E tu, vento sereno,

    Scaldi a’ tiranni osceni amor nel seno.

    Oh quando fia che d’armi

    E monte e piano fremano

    A’ rai del sol, e i carmi

    Del trïonfo ridestino

    Co’ suon del prisco orgoglio

    I numi addormentati in Campidoglio?

    Te allor, cinti la chioma

    De l’arbuscel di Venere,

    Canterem, madre Roma;

    Te del cui santo nascere

    Il lieto april s’onora,

    Te de la nostra gente arcana Flora. [9]

    XXVII.

    A FEBO APOLLINE

    De la quadriga eterea

    Agitator sovrano,

    Sferza i focosi alipedi,

    Bellissimo Titano.

    Te pur, de l’ugna indocile

    Stancando il balzo eoo,

    Chiamaro in van ne’ vigili

    Nitriti Eto e Piroo,

    Quando la bella Orcamide

    Ti palpitò su ’l core

    E gli achemenii talami

    Chiuse ridendo Amore.

    E a noi con l’alma Venere

    Facile Amor si mostra,

    E noi gli amplessi affrettano

    De la fanciulla nostra.

    In vano, in van la rigida

    Madrigna a me la niega;

    Amor che tutto supera,

    Amor che tutto piega,

    Vuol, fausto iddio, commetterla

    Ne le mie mani e vuole

    I nostri amor congiungere,

    Te declinato, o Sole.

    Ed ella omai le tacite

    Cure nel petto anelo

    Volge, e te guarda. Oh giungati

    Il caro sguardo in cielo!

    Dolce fiammeggian l’umide

    Luci nel vano immote:

    Siede pallor lievissimo

    In su le rosee gote.

    Ecco, presente Venere

    Ne l’anima pudica

    Regna, e il pensier virgineo

    Con forza empia affatica.

    Cotal forse aggiravasi

    Ne la stanza odïosa Del

    giovinetto Piramo

    L’inaugurata sposa,

    E in cor pensava i gaudii

    Al fido orror commessi

    Ed i furtivi talami

    E i raddoppiati amplessi:

    In tanto Amor gemeane,

    De’ preparati lutti

    Già fatalmente prèsago

    E de’ mutati frutti.

    Ma le dolenti imagini

    Si portin gli euri in mare:

    Diciam parole prospere:

    Benigno Amor ne appare.

    Oh sperar lungo e timido,

    Oh d’angosciose notti

    False quïeti, oh torbidi

    Sogni dal pianto rotti!

    Mercé, mercé! pur compiesi

    Il dolce e fier desio,

    Pur debbo al fine io stringerla

    Su questo petto mio!

    Ah no che sen piú candido

    Endimïon non strinse

    Quando notturna Venere

    La schiva dea gli scinse!

    Io ardo. Amore infuria

    Nel fulminato petto;

    E corro, e guardo, ed Espero

    Gridando in cielo affretto.

    Pietà, divino Apolline!

    Spingi i destrier celesti,

    Le inerti Ore sollecita;

    Ruina... A che t’arresti?

    E ancor rattieni il cocchio

    In su l’estrema curva?

    E ancor l’ancella undecima

    Lenta su ’l fren s’incurva?

    Male io sperai te facile

    Al suon di mie querele,

    Sempre a gli amanti infausto,

    Sempre in amor crudele!

    Clizia oceania vergine

    Per te conversa in fiore

    Ancor mutata sèrbati

    Il non mutato amore.

    Imprecò già Coronide

    Per te al disciolto cinto:

    Amícle un giorno e Táigeta

    Pianser per te Giacinto.

    Ma e tu d’amor gl’imperii,

    Tu, petto immansueto,

    Durasti; e i greggi a pascere

    Pur ti ritenne Admeto.

    Te solitari attesero

    I templi ermi del cielo,

    Né piú muggía da gli aditi

    La religion di Delo.

    Giacea de’ tori indocili

    Dal vago piè calcato

    L’arco divino argenteo

    In abbandon su ’l prato.

    Né bastò l’arte medica

    Verso la cura nova:

    Ahi, sol di furie e lacrime

    Il nostro Iddio si giova.

    Né tra le dita ambrosie

    Piú ti splendea la lira,

    Quella onde al padre caddero

    Sovente i fuochi e l’ira.

    E che? l’avena rustica

    Dal labbro tuo risona,

    O figlio de l’Egioco,

    O figlio di Latona?

    Tu d’amor gemi, ed orride

    Co ’l muggito diverso

    Rompon le vacche tessale

    La dotta voce e il verso.

    Fama è però che memore

    Tu de l’incendio antico

    A gli amorosi giovini

    Nume ti porgi amico.

    E i vóti a te salirono

    Del buon Cerinto grati,

    Quando immaturi pressero

    L’egra Sulpizia i fati:

    Tu al bel corpo le mediche

    Mani applicar godesti,

    Tu al giovinetto cupido

    Integra lei rendesti.

    E giorno fu che in trepida

    Cura Tibullo ardea:

    Varia di amori il candido

    Vate Neera angea.

    Gemeva egli le vigili

    Piume stancando in vano:

    Ma in piena luce videti

    Il cavalier romano.

    Pe ’l lungo collo eburneo

    Intonsi i crin fluire

    Vide e stillar la mirtea

    Chioma rugiade assire.

    Qual de la luna in placido

    Sereno, era il candore:

    Era nel corpo niveo

    Di porpora il colore,

    Come al settembre tingonsi

    Bianche méle fragranti,

    Come fanciulle intrecciano

    I gigli a li amaranti.

    — Soffri, dicesti: ad Albio

    Serbata è pur Neera:

    Tendi le braccia a i superi

    Con molta prece, e spera. —

    E anch’io pregai: di lacrime

    Io gli abbracciati altari

    Sparsi: e non furo i superi

    A me

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1