Poesie 1850-1900
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Poesie 1850-1900 - Giosuè Carducci
GIOSUÈ CARDUCCI
POESIE
1850-1900
L'opera poetica di Carducci nel periodo 1850-1900, raccolta in un solo volume curato dallo stesso autore
© 2023 Sinapsi Editore
JUVENILIA
(1850-1860)
Nec tantum ingenio quantum servire dolori
Cogor et aetatis tempora dura queri.
Hic mihi conteritur vitae modus, haec mea fama est:
Hinc capio nomen carminis ire mei
I.
PROLOGO
Ah per te [1] Orazio prèdica al vento!
Del patrio carcere non sei contento,
La chiave abomini grata a i pudichi,
Agogni a l’aere de’ luoghi aprichi.
E dove, o misero, dove n’andrai.
Dove un ricovero trovar potrai,
O de’ miei giovini lustri diletto,
O mio carissimo tenue libretto?
Non sai fastidio ch’ha de le rime
Questa de gli arcadi prole sublime?
Né de’ romantici ti vuol la fiera
Che siede a i salici libera schiera.
Tu, se tra’ lirici pur tenti il volo,
Poco, o mio tenero, t’ergi dal suolo;
Ed oggi innalzasi per nova via
Fin da’ suoi numeri l’economia,
Né omai piú reggono piedi né ale
Dietro la lirica universale.
Oggi ciclopica s’è fatta l’arte;
E Bronte e Sterope su per le carte
Con vene tumide, con occhi accesi
E con gli erculei muscoli tesi
A prova picchiano: Venere guata,
E gli rimescola la limonata:
Mentre il monocolo pastore etnese,
Succiando il femore d’un itacese,
Con urli orribili divelle un pino
E a le nereidi fa il mazzolino.
Deh, quanti, o misero, d’ispirazioni
Litri raccogliere puoi ne’ polmoni,
Quanti chilometri de l’infinito
Puoi tu percorrere con passo ardito,
Quanti ravvolgerti chili d’affetto
Giú ne lo stomaco puoi tu, libretto,
Da uscire a gloria tra le persone,
Senza pericolo d’indigestione?
Te con le tenui miche d’Orazio
Crebbe la pallida musa del Lazio,
A te quell’aere parve bastante
Che respirarono l’Ariosto e Dante:
Chiede il novissimo stadio altre bighe:
Libro, rincàsati, cansa le brighe.
Vedi? minacciano Cariddi e Scilla:
Ti preme Davide con la Sibilla.
D’amor tu chiacchieri, e questo va:
Ma non santifichi la voluttà,
Non metti a Venere lo scapolare,
Non fai gli adulteri sermoneggiare:
Onde, o me misero!, flebili e tristi
Già t’interdissero gli atei salmisti,
E il buon Petronio predicatore [2]
Che a sé convertami pregò il signore.
Vinca ei di Taide le ritrosie
Con un trar mistico d’avemarie,
E de la cantica nel pio latino
Le infiori i dialoghi de l’Aretino.
Al limpidissimo suon de l’argento
Dietro un davidico cento per cento
Alfio [3] gli sdruccioli deduca, e macro
Consoli il prossimo d’un inno sacro.
Per me invan prèdica ballonza e canta
Ebra l’Arcadia pur d’acqua santa,
Il sacro quindici refulse in vano
Per me: son reprobo piú di Claudiano,
E de’ Timotei e de’ Basilii
Provai già i moniti e i supercilii.
Ma quel Timoteo che a gli anni andati
In chiesa l’organo sonava a i frati,
E di serafica broda satollo
Al pan de gli angeli rizzava il collo,
Cantando monache e Filomene
Pien di libidine tetra le vene;
E quel Basilio biondo e ventenne
Che al sacro fulmine tingea le penne
Ne l’aromatico miel del Loiola,
Al sacro fulmine de la parola
Che da l’iberiche fiamme già mosse
E ne gli eretici sterpi percosse;
Oggi levatisi di ginocchione
Anche rinnegano la dea Ragione,
E sempre al solito mo’ tolleranti
Già già si cavano rugghiando i guanti,
Pronti a pur arderti, libretto mio,
Se in un avverbio c’entrasse dio.
Me al men, filosofi, non arderanno,
Come, teologi, volean l’altr’anno.
Ma chi, mal docile talpa infingarda,
Chi dal neofito furor mi guarda?
Quali su i ruderi de le memorie
Di laide maschere corsi e baldorie!
E sempre piangere plebe affamata,
E sempre ridere plebe indorata,
E basir tisica sotto le biche
La impronta logica de le formiche,
E de le favole, baie del nonno,
Schifi già i bamboli cascar di sonno
Io veggo; e torpido nel gran lavoro
Non canto e prèdico l’età de l’oro.
Chi dunque, indocile talpa infingarda,
Chi dal neofito furor mi guarda?
Gl’innocentissimi Nando e Poldino,
Che già l’immerito sermon latino
Stroppiaro in distici per nozze auguste,
Oggi rosseggiano come aliguste;
E l’eucaristico inno a Pio nono
Con lezion varia lusinga il trono
Di re Vittorio, da poi che aprile [4]
A qualche anonimo spirto civile
Squagliò la gelida crosta, e, spavento!,
Il prete attonito, nel sacramento
Lavando al pargolo le nuove chiome,
Sentiva d’Italo bociarsi il nome.
O infelicissimo libro, o sfatato,
O in man purissime mal capitato!
Crollando il rigido frigio berretto
Fatto su ’l modulo che diè il prefetto,
Ei con iscandalo ti buttan là,
Come retrograda suipsità.
Rízzati e vàttene, ché il galateo
Non è neofito. Ma, se ad un reo
Fucci filologo fia che t’abbatta
Rimpiallacciatosi da Guccio Imbratta,
Che vomitarono le sagrestie
De’ galantuomini su per le vie,
Che ne le tuniche di pergamena
Tra la medicea ferrea catena
Tremano i codici quand’ei li guata
E dal liburnio remo invocata
La man lor applica, se a te vicino
Ei sbiechi il livido occhio porcino,
— Deh, Fucci, — gridagli — mercede imploro;
Non vesto, vedimi, d’argento e d’oro,
Non son de gli ordini privilegiati
Vuoi de’ rarissimi vuoi de’ citati,
Non ne i cataloghi cercato appaio,
Non c’è da vendermi che al salumaio.
A queste pagine di poco affare
Le man dottissime non abbassare. —
Oh, s’ei la granfia distenda a vuoto,
Appicca, o povero libro, il tuo vóto:
Ché a grandi e piccoli ei non perdona;
Ogni, anche minima, preda gli è buona.
Chiese, postriboli, caffè, spedali
Le sue sentirono unghie fatali,
Da quando ei l’abile man giovinetta
Da l’elemosine ne la cassetta
Imberbe chierico con occhio pio
Erudía, l’obolo rubando a Dio,
E i doni a l’umile Vergine apposti
Per lui fumavano fusi in arrosti.
D’altro non dubito: se bene ancora
Lui la chiarissima viltade adora,
Trason ridicolo che incarna e avanza
L’idea platonica de l’ignoranza,
Forte co’ deboli, debol co’ i forti,
Prode a trafiggere gli uomini morti,
Prode a nascondersi, ferendo il tergo,
Di birri e ipocriti sotto l’usbergo,
Tal ch’io non credomi maggior ribaldo
Redasse l’anima del Maramaldo.
Fuggi, o mio povero libro da bene,
Il ceffo orribile, le mani oscene,
L’invidia rabida d’ogni opra buona
Che tutta gli agita la rea persona.
Fuggi.... No: sorgigli diritto in faccia,
La mia ripetigli vecchia minaccia,
Con fronte impavida, con voce intiera:
Fucci filologo, frusta e galera.
Poi, se la fulgida ira s’alléni,
Vola a i dolcissimi colli tirreni,
Ove dal facile giogo difese
In contro a borea d’ombra cortese
Svarian le candide magion pe’ clivi
Tra vigne e glauche selve d’olivi.
Ivi di limpida luce piú viva
Riveste l’etere la sacra riva;
E il sole arridere come ad amiche
Pare a le splendide colline antiche,
Quando, partendosi, la favolosa
Cima fesulea tinge di rosa.
De la virginea certa saetta
Ove ancor timido Mugnone affretta [5]
Ad Arno e misero par che lamenti
I mal concessigli abbracciamenti,
Tra il fiume e d’arido monte le spalle
Il pian riducesi in poca valle,
E in mezzo a’ nitidi cólti un’ascosa
Da placidi alberi magion riposa.
Ivi, o mio tenue libro, al Chiarini
Chiedi pe’ profughi geni latini,
Chiedi l’ospizio. Vedi: ei la porta
Già t’apre, ed ilare ti riconforta.
Ei di barbarica pelle odorata
Presto la tunica t’avrà comprata,
Cui solchi d’aurei fregi un lavoro
E i lembi nitidi sien tutti ad oro.
O mio carissimo già poverello,
Come or sei splendido, come sei bello!
T’invidia il tenero padre lontano,
Fucci filologo stende la mano.
Ma tu non avido di mutar loco
A l’aure estranee fídati poco;
Ama de l’ospite ama il ricetto,
O mio carissimo tenue libretto.
II.
A G. C.
IN FRONTE A UNA RACCOLTA DI RIME
PUBBLICATA NEL MDCCCLVII
Forse avverrà, se destro il fato assente
Vóto che surga pio di sen mortale,
Giuseppe, e s’a piú ferma età non mènte
Il prometter di questa audace e frale,
Che in piú libero cielo aderga l’ale,
D’amor, di sdegno e di pietà possente,
Questo verso, che fioco or passa quale
Eco notturna per vallea silente:
Pur caro a me, che del rio viver lasso,
Ma ogn’or di voi, sacre sorelle, amante
Lo inscrivo qui come in funereo sasso:
Pago se alcun dirà — Tra ’l vulgo errante
Che il bel nome latino ha volto in basso
Fede ei teneva al buon Virgilio e a Dante —.
LIBRO I
III.
Peregrino del ciel, garrulo a volo
Tu fuggi innanzi a le stagion nembose,
E vedi il Nilo e nostre itale rose,
Né muti stanza perché muti polo:
Se pur de le lontane amate cose
Cape ne’ vostri angusti petti il duolo,
Né mai flutto inframesso o pingue suolo
Oblio del primo nido in cor ti pose;
Quando l’ala soffermi a’ poggi lieti
Che digradano al mar da l’Apennino
Bianchi di marmi e bruni d’oliveti,
Una casa a la valle ed un giardino
Cerca, e, se ’l nuovo possessor no ’l vieti,
Salutali in mio nome, o peregrino.
IV.
Tu, mesta peregrina, il dolce nido
Lasci e de l’aer nostro il novo gelo:
T’invita più benigno ardor di cielo
E primavera di straniero lido.
E me lasci che tristi ore divido
Pur co ’l dolore onde i lassi occhi velo.
Tornerà tempo che senz’ombra o velo
Si porga l’aer nostro a te piú fido.
Allor candidi soli; allor fiorente
Il colle e il piano; allor tutto d’amore
Ti riconsiglierà soavemente.
Né allor ti sovverrai l’uman dolore
Di che si piange or qui. Non acconsente
Al pianto, e oblia, de’ fortunati il cuore.
V.
Sí crudelmente fero è quel flagello
Onde me già del breve correr lasso
Il disinganno sferza a ciascun passo,
Che fine io chiamo al reo cammin l’avello;
E tra forme gentili e nel piú bello
Aprir de’ floridi anni io l’occhio abbasso,
Quasi cercando oltre la terra il passo
A l’inamabil cieco ultimo ostello.
Ma di speme atteggiato e di dolore
Mi sofferma un sembiante; e lacrimoso
Pur in me guarda, e pio tace. Furore
Quinci ed amor nel petto procelloso
Surgono a gran tenzone; e vince amore:
Ond’io fremendo e sospirando poso.
VI.
Questa è l’altera giovinetta bella
Che tragge seco onesta leggiadria:
Beltade orna di gloria la sua via,
E l’addimostra per propria angiolella.
I’ ho veduto Amor che la servia
Umilemente de le sue quadrella;
Sentit’ho gire per salute ad ella
L’alma ferita che dal cor si svia.
E chiama pur pietà nel suo conspetto,
Fin che quel riso onde s’allegra amore
Benignamente l’umile raccoglia.
Allor la vita esulta entro nel core,
E il cor si leva e la tristezza spoglia
Illuminato nel sereno aspetto. [6]
VII.
O nova angela mia senz’ala a fianco,
Certo dal loco ove bellezza è pura
L’intelligenza tua vestí figura
Di pargoletta donna in velo bianco;
E qui venisti al secol rio, che stanco
Del bello adoperar piú nel mar dura,
Per drizzar me fuor de la vita scura
Voglioso dietro le tue scorte e franco.
E ben forse avverrà ch’agile e scarco
Io prema ancor le tue vestigia sante
Con l’alma teco in un desio congiunta;
Se di tanto mi degna il Primo Amante,
Che, mentre io tenga del mortale incarco,
L’ale tue d’òr non mettan fuor la punta. [7]
VIII.
Profonda, solitaria, immensa notte;
Visibil sonno del divin creato
Su le montagne già dal fulmin rotte,
Su le terre che l’uomo ha seminato;
Alte da i casti lumi ombre interrotte;
Cielo vasto, pacifico, stellato;
Lucide forme belle, al vostro fato,
Equabilmente, arcanamente, addotte;
Luna, e tu che i sereni e freddi argenti
Antica peregrina a i petti mesti
Ed a’ lieti dispensi indifferenti;
Che misteri, che orror, dite, son questi?
Che siam, povera razza de i viventi?...
Ma tu, bruta quïete, immobil resti.
IX.
Candidi soli e riso di tramonti,
Mormoreggiar di selve brune a’ venti
Con sussurrio di fredde acque cadenti
Giú per li verdi tramiti de’ monti,
Ed Espero che roseo sormonti
Nel profondo seren de’ firmamenti,
E chiara luna che i sentier tacenti
Inalbi e scherzi entro laghetti e fonti,
Questo m’era ne’ vóti. Or miei desiri
Pace ebber qui tra fiumi e tra montagne
De le secure muse in compagnia:
Pace: se non che te ne’ miei sospiri
Chiamo, te che da noi ti discompagne,
E il caro aspetto de la donna mia.
X.
Bella è la donna mia se volge i neri
Di soave languore occhi lucenti,
E, ricercando il vinto cor, le ardenti
Vi rinforza d’amor voglie e pensieri.
Piú bella è la mia donna allor che alteri
Gli leva o gira nel conceder lenti,
E, minacciando pur, chiede ch’io tenti
La dolce guerra e la vittoria speri.
Cosa di cielo è la mia donna allora
Che il roseo collo piega e il vago riso
A i baci porge e quei d’ambrosia irrora.
Oh, che d’ogni mortal cura diviso,
Sopra quel sen, tra quegli amplessi io mora!
Né v’invidio, o beati, il paradiso.
XI.
A questi dí prima io la vidi. Uscía
A pena il fior di sua stagion novella,
E la persona pargoletta e bella
Era tutta d’amore un’armonia.
Vereconda su ’l labro la fioría
L’ingenua grazia e la gentil favella:
Come in chiare acque albor lontan di stella
Ridea l’alma ne gli occhi e trasparía.
Tale io la vidi. Or con desio supremo
Lei per questo nefando aere smarrita
Pur cerco e invoco; e sol mi sento, e tremo;
Ché spento è al tutto ogni buon lume, e vita
Già m’abbandona, e son quasi a l’estremo.
Luce de gli anni miei, dove se’ gita?
XII.
Quella cura che ogn’or dentro mi piagne
Desta dal lume in duo begli occhi ardente,
Me co ’l giorno invernale ove il torrente
Scoscende e ne le avverse alpi si fragne
Seco rapisce. E te, che ti scompagne
Dal mio già fermo petto, o confidente
Virtude onde fuggii la vulgar gente,
Penso per erma via d’aspre montagne.
Ma vince de le alpestri onde il fragore
Quell’una voce sua: suoi cari accenti
Sona l’aura selvaggia. E in van nel core
Sdegno e ragion contrasta. Io miro a’ venti
Lente ondeggiar le nere chiome e amore
Folgorar ne’ superbi occhi ridenti.
XIII.
E tu pur riedi, amore; e tu l’irosa
Anima invadi, e fiero ivi t’accampi,
E i desueti spirti e il cor che posa
Lunga già s’ebbe or fiedi e scuoti e avvampi.
Io te fuggo per selve aspre e per campi:
Ma vive alta nel petto, e sanguinosa
Stride la piaga; e il mio duol grida: e cosa
Mortal non è che di tua man mi scampi.
O degni affetti, o studi almi! In servaggio
Duro vi piango e in basso errore, ov’io
Caddi e giacqui co ’l vulgo, e non mi levo:
Ché pur mi preme di quegli occhi il raggio,
Di quei cari e superbi occhi ond’io bevo
Lenti incendi e furor lungo ed oblio. [8]
XIV.
Nè mai levò sí neri occhi lucenti
Saffo i preghi cantando a Citerea,
Quando nel petto e per le vene ardenti
A lei sí come nembo amor scendea;
Né désti mai sí molli chiome a’ venti,
Corinna, tu sovra l’arena elea,
Quando sotto le corde auree gementi
Fremeati il seno e a te Grecia tacea:
Sí come or questa giovinetta bella
Tremanti di desio gli umidi rai
E del crin la fulgente onda raccoglie,
In quel che dolce guarda, e la favella,
Qual tra le rose aura d’april, discioglie:
Onde ardo, e posa non avrò piú mai.
XV.
Deh, chi mi torna a voi, cime tirrene
Onde Fiesole al pian sorride e mira?
Deh, chi mi posa sotto l’ombre amene
Ove un rio piange e molle il vento spira?
Oh, viva io là fuor di timore e spene,
Lontan rugghiando de’ miei fati l’ira!
L’erbe il ciel l’onde ivi d’amor son piene,
E ne l’aure odorate amor sospira.
A te il suolo beato eterni fiori
Sommetterebbe, Egeria; e d’ombre sante
Proteggerebbe un lauro i nostri amori.
Ivi queto morrei. Tu al sol levante
Mi comporresti l’urna in tra gli allori,
L’ombra chiamando del poeta amante.
XVI.
E degno è ben, però ch’a te potei,
Lasso!, chinar l’ingegno integro eretto,
S’ora in gioco tu volgi, e lieto obietto
L’ire, o donna, ti sono e i dolor miei.
Io quel dí che mie voglie a te credei
Pur vagheggiando accuso; e strappo e getto
Tua terribile imagine dal petto
In van: tu meco, erinni mia tu sei.
Ahi donna! ne le miti aure è il sorriso
Di primavera, e il sole è radïante,
E il verde pian del lume aureo s’allegra.
A me di noia, a me d’orror sembiante
È quant’io veggo; e, se nel ciel m’affiso,
De la mia cura e il divo ciel s’annegra.
XVII.
Cara benda che in van mi contendesti
Nera il candido sen d’Egeria mia,
Spoglia già glorïosa, or ne’ dí mesti
De le gioie che fûr memoria pia:
Tu sol di tanto amore oggi mi resti,
E l’inganno mio dolce anche pería;
Ond’io te stringo al nudo petto, e questi
Freddi baci t’imprimo. Ahi, ma la ria
Fiamma pur vive e pur divampa orrenda
E tu su ’l cor, tu su ’l mio cor ti stai
Quasi face d’inferno, o lieve benda.
Deh, perisci tu ancor. Né sia piú mai
Cosa che a questa offesa anima apprenda
Com’io di donna a servitú piegai.
XVIII.
E tu, venuto a’ belli anni ridenti
Quando a la vita il cor piú si disserra.
Contendi al fato il prode animo, e in terra
Poni le membra di vigor fiorenti.
Ahi, ahi fratello mio! Deh, quanta guerra
Di mesti affetti e di pensier frementi
Te su gli occhi de’ tuoi dolci parenti
Spingeva ad affrettar pace sotterra!
Or teco posa il tuo dolor. Né il viso
Piú de la madre e non la donna cara
O il fratel giovinetto o il padre pio,
Né i verdi campi vedrai piú; né il riso
Del ciel, né questa luce... ahi luce amara!
Vale, vale in eterno, o fratel mio.
XIX.
Te gridi vil quei che piegò la scema
Alma sotto ogni danno ed a l’ostile
Possa adulò, pago a cessar l’estrema
Liberatrice d’ogni cor gentile:
Te gridi vile il mondo, il mondo vile
Che muor di febbre su le piume, e trema,
Pur franto da la lunga età senile,
In conspetto a la sacra ora suprema.
Ben te, o fratel, di ricordanza pia
Proseguirà qual cor senta i funesti
Regni del fato e il viver nostro orrendo,
Te che di sangue spazïosa via
A l’indignato spirito schiudesti,
Giovinetto a la morte sorridendo.
XX.
E voi, se fia che l’imminente possa
Deprechiate e del fato empio le guerre,
Voi non avrete a cui regger si possa
Vostra vecchiezza quando orba si atterre.
Soli del figliuol vostro in su la fossa
Quel dí che i dolorosi occhi vi serre
Aspetterete. O forse no. Son l’ossa
Sparse de’ nostri per diverse terre.
Oh, che il dí vostro d’atre nubi pieno
Non tramonti in procella! oh, che il diletto
Capo si posi ad un fidato seno!
Io chiamo invano al mio paterno tetto,
E cresce il tedio e gioventú vien meno.
Deh, chi mi torna, o buoni, al vostro petto?
XXI.
O cara al pensier mio terra gentile
Ch’a la pura sorgendo aria azzurrina
D’alto vagheggi regnatrice umíle
Il pian che largo al biondo Arno dichina:
Tu ridi allegra al ciel che di simíle
Gioia t’arride e al tuo favor s’inchina;
A te dolci aure, a te perenne aprile
Veston di verde il campo e la collina.
E a te da questo inverno reo la mente
Ed il cuor lasso mio tendono a volo:
Tu tieni l’uno e l’altro mio parente
Co ’l fratel che mi avanza, e del tuo suolo
Abbracci quel ch’io non baciai morente:
In te tutto è il mio bene: io qui son solo.
XXII.
Qui, dove irato a gli anni tuoi novelli
Sedesti a ragionar co ’l tuo dolore,
Veggo a’ tepidi sol questi arboscelli,
Che tu vedevi, rilevarsi in fiore.
Tu non ti levi, o fratel mio. D’amore
Cantan su la tua fossa erma gli uccelli:
Tu amor non senti; e di sereno ardore
Piú non scintilleran gli occhi tuoi belli.
Ed in festa venir qui ti vid’io
Oggi fa l’anno; e il dire anco mi sona
E ancor m’arride il tuo sorriso pio.
Come quel giorno, il borgo oggi risona
E si rallegra del risorto iddio,
Ma terra copre tua gentil persona.
XXIII.
Non son quell’io che già d’amiche cene
Destai la gioia tra’ bicchier spumanti.
Torpe la mente irrigidita, e piene
D’amaro tedio stan l’ore cessanti.
Ira è che il viver mio fero sostiene
Sol una, e il cor con sue tede fumanti
M’arde e depreda. O miei verd’anni, o spene
Mia che mi giaci, ahi già sfiorita, innanti!
Anche del caro imaginar la brama
Al tempo m’abbandona; e resta, immane
Muto fantasma, intorno a me, la vita.
Ma un’ombra io sento che il mio nome chiama,
E duolsi a me che sola ella rimane,
E di là da le quete onde m’invita.
LIBRO II
XXIV.
INVOCAZIONE
Se te già tolsi con incerta mano
Da latin ramo onde ancor Febo spira,
Caro a le Grazie or tu sonami, o lira,
Carme toscano.
Canora amica, o le falangi astate
Ferocemente confortasse in guerra,
O riposasse ne la franca terra,
Al lesbio vate
Tu gli dicevi e Cipride ed Amore
E giovin sempre di Semèle il figlio
E ’l crin di Lico e de l’arcato ciglio
L’ampio fulgore.
Or io ti scoto. A me sorride il puro
Genio di Flacco: a’ divinati allori
E de le ninfe a’ radïanti cori
Movo securo.
O cara a Giove ed a re Febo, insigne
Di cittadine mura adornamento,
Rispondi al vóto; e sperda il tuo concento
L’alme maligne.
XXV.
A O. T. T.
Caro a le vergini d’Ascra e di belle
Mortali vergini cura e diletto,
O a me di mutua fede costretto
Da eguali stelle,
Ottavio: i codici d’aurea favella
Dove il tuo spendesi tempo migliore,
Che da te chieggono novo splendore,
Vita piú bella,
Poni: ed i lirici metri, che apprese
A me la duplice musa di Flacco,
Qui tra le candide gioie di Bacco
Odi cortese.
Avvi cui ’l torbido Gradivo arride,
Ed ama il rapido baglior d’elmetti
Ne l’aer livida che da’ moschetti
Divisa stride,
E via tra l’orride membra che sparte
Incèstan d’ampia strage il sentiero
Urta il fulmineo baio destriero
Furia di Marte;
Poi lunge a’ fulgidi campi ed a’ valli,
Nel sen d’ingenua sposa che agogna
Notturni gaudii, feroce ei sogna
Trombe e timballi.
Con altri l’àlacre fame de l’oro
Ascende vigile la prora, e anela
Le infami insidie drizza e la vela
Al lido moro.
Per essa il nauta ride i furori
D’euro che gl’ispidi flutti cavalca,
E con la cupida mente egli calca
Rischi e terrori:
In vano l’orrido crin sanguinante
Infesto Oríone pe ’l ciel distende
Ed il terribile di fiamma accende
Brando strisciante:
Bianca di naufraghe ossa minaccia
La riva squallida: dal patrio lido
La figlia chiamalo con lungo strido
Pallida in faccia.
Ed altri docile guerrier d’amore
In tra le pafie rose vivaci
De le virginee lutte co’ baci
Desta il furore;
E sopra un niveo petto, di glorie
La fronte carica, stanco a le prove,
Depone; ed agita, posando, nove
Pugne e vittorie.
E me le libere Muse nel casto
Seno raccolgano, me loro amante
Le dee proteggano del vulgo errante
Dal vano fasto.
Me non contamini venduta lode,
Non premio sordido d’util perfidia:
Vinca io con semplice petto l’invidia,
Vinca la frode.
Ed oh se un tenue spirto l’argiva
Camena infondami! se a me ne’ lieti
Fantasmi lucidi de’ suoi poeti
Grecia riviva!
Non io l’Apolline cimbro inchinai,
Io tósco e memore de l’are attèe;
Né di barbariche tazze circèe
Ebro saltai.
Ottavio, al libero genio romano
Libiam noi liberi qui nel gentile
Terren d’Etruria: lunge il servile
Gregge profano.
XXVI.
CANTO DI PRIMAVERA
Qual sovra la profonda
Pace del glauco pelago
Uscí Venere, e l’onda
Accese e l’aer e l’isole,
Quando al ciel le divine
Luci alzò raccogliendo il molle crine;
Primavera beata
Su le pianure italiche
Sorride. Ogni creata
Cosa in vista rallegrasi:
Scherza con l’aura e il fiore
E vola nel sereno etere Amore.
Entro la chiusa stanza
Medita Amore, trovalo
In fragorosa danza
La giovinetta; ed íntegra
Cede a’ futuri affanni
L’inconsapevol cuore e i candidi anni.
D’ebrïetà possente
Sale dal suol che vegeta
Un senso: al cor fremente
Il mondo antico vestesi
Di novi incanti, e a’ petti
Novi palpiti chiede e novi affetti.
Transvolar le serene
Forme de’ sogni improvvido
L’uom ricontempla: arene
E deserto il ricingono:
La falsa imago anelo
Lui tragge ove piú stride il verno e il gelo.
Tal, se l’alta marina
Ara e l’insonne Atlantico,
Vede, allor che ruina
La notte solitaria,
L’elvezio infermo il rio
Alpin ne l’onde salse, e del natio
Monte le vacche quete
Pender da i verdi pascoli,
E tra l’ombre segrete
Un’aspettante vergine
Cantar, molle la guancia;
Vede, ed in contro a lei nel mar si lancia.
Che sopra gli si chiude
Muto. O soavi imagini,
Pur d’ogni senso nude;
O d’inconsulti palpiti
Desío profondo arcano;
Ultima gioventú del cuore umano!
Questa che deludete
Misera prole, o perfidi,
Quanto ha di voi pur sete!
E vi saluta reduci
Insieme al riso alterno
Onde s’attempa il vol de l’orbe eterno.
Culto tra i feri studi
Sacro un giorno a’ romulidi,
E di solenni ludi
Empiea sonante l’isola
Che il Tebro ad Ostia in faccia
Lieta di paschi e di roseti abbraccia.
Dal dí che il mese adduce
De la marina Venere
Sino a la terza luce
Già sorta a gl’incunabuli
Di Quirin, la gioconda
Festa correa per la fiorita sponda.
E qui belle traéno
A’ rosei tabernacoli
Donzellette cui ’l seno
Tra i bianchi lin moveasi
Intatto anche a gli amori.
Sotto gli astri roranti e a’ miti ardori
Del sole i verginali
Carmi intorno volavano,
Mentre il piacer da l’ali
Stillava ingenuo nèttare
E Terpsicore dea
Invisibil co ’l suon danze movea.
«La sposa ecco di Tereo
Canta tra i verdi rami,
Né par che omai del barbaro
Marito si richiami:
Piú scorte note a lei
Amore insegna e piú soavi omei.
Canta: e noi mute, o vergini,
L’udiamo. Oh quando fia
Che venga e me pur susciti
La primavera mia,
E rondine io diventi
Che l’allegra canzon commette a’ venti?
Già voluttade l’aere
Empie di rosei lampi:
Sentono i campi Venere,
Amor nacque ne i campi:
Effuso dal terreno
Lui raccolse la dea nel latteo seno.
E lo nudrîr le lacrime
D’odorati arboscelli,
E lo addormiro i gemiti
De l’aure e de’ ruscelli,
E lo educaro i molli
Baci de’ fiori in su gli aperti colli.
L’umor che gli astri piangono
Per la notte serena
Sottil corre a la nubile
Rosa di vena in vena,
Onde al zefiro sposo
Sciolga il peplo domani e il sen pomposo.
Di Cipri ella da l’ícore
Nata d’Amor tra i baci
Tien gemme e fiamme e porpore,
O Ciel, da le tue faci;
E conoscente figlia
A le tue nozze il talamo invermiglia,
Allor che da le pendule
Nubi la maritale
Pioggia a la Terra cupida
Discende in grembo, ed ale
Nel vasto corpo i vasti
Feti che tu, Ciel genitor, creasti.
Dal sangue tuo l’oceano
Tra selve di coralli,
Tra le caterve cerule
E i bipedi cavalli,
A i liti almi del lume
Vener produsse avvolta in bianche spume.
Ed ella or del suo spirito
Le menti arde e le vene,
Del nuovo anno l’imperio
Procreatrice tiene,
Ed aria e terra e mare
Soave riconsiglia a sempre amare.
Da i boschi, o delia vergine,
Cedi per oggi: noi
Invia la diva placide
Nunzie de’ voler suoi:
Non macchi, ahimè!, ferina
Strage la selva il dí ch’ella è reina.
Essa a le ninfe il mirteo
Bosco d’entrare impone:
Amore a quelle aggiugnesi,
Ma l’armi pria depone.
Francate, o ninfe, il core:
Posto ha giú l’armi, è ferïato Amore.
La madre il volle, pavida
No il picciolin rubello
Altrui ferisca improvvido.
Ma pur Cupido è bello.
Guardate, o ninfe, il core:
È tutto in armi, anche se nudo, Amore.
Con lui fermò nel Lazio
De’ lari idei l’esiglio,
E una laurente vergine
La dea concesse al figlio
D’Anchise; e quindi a Marte,
Sbigottita orfanella in chiome sparte,
Di Vesta ella dal tempio
Traea la sacerdote:
Onde il gran padre Romolo
E Cesare nipote;
Onde i Ramni e i Quiriti,
E tu, o Roma, signora in tutti i liti.»
Beate! e i lieti cori
Non rompea lituo barbaro,
Né i verecondi amori
Turbava allora il fremito
Che dal cuore ne preme
La tradita d’Italia ultima speme.
Nel sangue nostro i nostri
Campi ringiovaniscono;
E quando lento i chiostri
Del verde pian d’Insubria
Apre l’aratro e frange,
Su l’ossa rivelate un padre piange.
Non biondeggia superba
Da’ nostri solchi Cerere,
Ma lei calpesta acerba
L’ugna de’ rei quadrupedi;
E tu, vento sereno,
Scaldi a’ tiranni osceni amor nel seno.
Oh quando fia che d’armi
E monte e piano fremano
A’ rai del sol, e i carmi
Del trïonfo ridestino
Co’ suon del prisco orgoglio
I numi addormentati in Campidoglio?
Te allor, cinti la chioma
De l’arbuscel di Venere,
Canterem, madre Roma;
Te del cui santo nascere
Il lieto april s’onora,
Te de la nostra gente arcana Flora. [9]
XXVII.
A FEBO APOLLINE
De la quadriga eterea
Agitator sovrano,
Sferza i focosi alipedi,
Bellissimo Titano.
Te pur, de l’ugna indocile
Stancando il balzo eoo,
Chiamaro in van ne’ vigili
Nitriti Eto e Piroo,
Quando la bella Orcamide
Ti palpitò su ’l core
E gli achemenii talami
Chiuse ridendo Amore.
E a noi con l’alma Venere
Facile Amor si mostra,
E noi gli amplessi affrettano
De la fanciulla nostra.
In vano, in van la rigida
Madrigna a me la niega;
Amor che tutto supera,
Amor che tutto piega,
Vuol, fausto iddio, commetterla
Ne le mie mani e vuole
I nostri amor congiungere,
Te declinato, o Sole.
Ed ella omai le tacite
Cure nel petto anelo
Volge, e te guarda. Oh giungati
Il caro sguardo in cielo!
Dolce fiammeggian l’umide
Luci nel vano immote:
Siede pallor lievissimo
In su le rosee gote.
Ecco, presente Venere
Ne l’anima pudica
Regna, e il pensier virgineo
Con forza empia affatica.
Cotal forse aggiravasi
Ne la stanza odïosa Del
giovinetto Piramo
L’inaugurata sposa,
E in cor pensava i gaudii
Al fido orror commessi
Ed i furtivi talami
E i raddoppiati amplessi:
In tanto Amor gemeane,
De’ preparati lutti
Già fatalmente prèsago
E de’ mutati frutti.
Ma le dolenti imagini
Si portin gli euri in mare:
Diciam parole prospere:
Benigno Amor ne appare.
Oh sperar lungo e timido,
Oh d’angosciose notti
False quïeti, oh torbidi
Sogni dal pianto rotti!
Mercé, mercé! pur compiesi
Il dolce e fier desio,
Pur debbo al fine io stringerla
Su questo petto mio!
Ah no che sen piú candido
Endimïon non strinse
Quando notturna Venere
La schiva dea gli scinse!
Io ardo. Amore infuria
Nel fulminato petto;
E corro, e guardo, ed Espero
Gridando in cielo affretto.
Pietà, divino Apolline!
Spingi i destrier celesti,
Le inerti Ore sollecita;
Ruina... A che t’arresti?
E ancor rattieni il cocchio
In su l’estrema curva?
E ancor l’ancella undecima
Lenta su ’l fren s’incurva?
Male io sperai te facile
Al suon di mie querele,
Sempre a gli amanti infausto,
Sempre in amor crudele!
Clizia oceania vergine
Per te conversa in fiore
Ancor mutata sèrbati
Il non mutato amore.
Imprecò già Coronide
Per te al disciolto cinto:
Amícle un giorno e Táigeta
Pianser per te Giacinto.
Ma e tu d’amor gl’imperii,
Tu, petto immansueto,
Durasti; e i greggi a pascere
Pur ti ritenne Admeto.
Te solitari attesero
I templi ermi del cielo,
Né piú muggía da gli aditi
La religion di Delo.
Giacea de’ tori indocili
Dal vago piè calcato
L’arco divino argenteo
In abbandon su ’l prato.
Né bastò l’arte medica
Verso la cura nova:
Ahi, sol di furie e lacrime
Il nostro Iddio si giova.
Né tra le dita ambrosie
Piú ti splendea la lira,
Quella onde al padre caddero
Sovente i fuochi e l’ira.
E che? l’avena rustica
Dal labbro tuo risona,
O figlio de l’Egioco,
O figlio di Latona?
Tu d’amor gemi, ed orride
Co ’l muggito diverso
Rompon le vacche tessale
La dotta voce e il verso.
Fama è però che memore
Tu de l’incendio antico
A gli amorosi giovini
Nume ti porgi amico.
E i vóti a te salirono
Del buon Cerinto grati,
Quando immaturi pressero
L’egra Sulpizia i fati:
Tu al bel corpo le mediche
Mani applicar godesti,
Tu al giovinetto cupido
Integra lei rendesti.
E giorno fu che in trepida
Cura Tibullo ardea:
Varia di amori il candido
Vate Neera angea.
Gemeva egli le vigili
Piume stancando in vano:
Ma in piena luce videti
Il cavalier romano.
Pe ’l lungo collo eburneo
Intonsi i crin fluire
Vide e stillar la mirtea
Chioma rugiade assire.
Qual de la luna in placido
Sereno, era il candore:
Era nel corpo niveo
Di porpora il colore,
Come al settembre tingonsi
Bianche méle fragranti,
Come fanciulle intrecciano
I gigli a li amaranti.
— Soffri, dicesti: ad Albio
Serbata è pur Neera:
Tendi le braccia a i superi
Con molta prece, e spera. —
E anch’io pregai: di lacrime
Io gli abbracciati altari
Sparsi: e non furo i superi
A me