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La filosofa
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E-book178 pagine2 ore

La filosofa

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Info su questo ebook


Genova, anni '80. Il vice-commissario Piero Panebianco indaga sull'assassinio di Amelia Valenti, docente universitaria e scrittrice. Non si tratta di una semplice indagine criminale: il vice-commissario, con i suoi modi da commedia italiana e il suo acume da detective inglese, dovrà sondare il mistero di una donna indipendente, sessualmente libera, affascinante e carismatica. Una Filosofa.
Romanzo d'esordio di Claudia Salvatori, vincitore del Premio Tedeschi 1985.
 
LinguaItaliano
Data di uscita21 nov 2022
ISBN9791222462653
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    Anteprima del libro

    La filosofa - Claudia Salvatori

    immagini1

    Collana Almost Exist Iperwriters

    Progetto grafico cover, logo di collana e impaginazione Max Associazione Culturale – Iperwriters

    © Claudia Salvatori

    Tutti i diritti riservati

    Prima edizione: GIALLO MONDADORI, 1985

    Seconda edizione: De Ferrari, 2007

    Terza edizione: Delos, 2020

    Quarta edizione: Borderfiction, 2021

    LA FILOSOFA

    (Più tardi da Amelia)

    CLAUDIA SALVATORI

    PROLOGO

    Mercoledì sera

    Alla Casa dello Studente, Ahmed Rabaki alzò la testa dalla monografia che costituiva la materia del suo prossimo esame: L’Etica dell’Ambiguità. In poco più di duecento pagine veniva illustrato come l’antico concetto di verità relativa si scomponesse, nell’attuale società del consumismo e della comunicazione visiva, in infiniti altri codici di linguaggio e di comportamento.

    L’ambiguità regnava sovrana, e della lezione dovevano ben aver fatto tesoro David Bowie e altri, avessero o no frequentato l’Università.

    Ad Ahmed era passata la voglia di studiare. Gruppi di studenti stranieri stavano giocando a calciobalilla facendo un chiasso d’inferno e gridando tutti insieme nelle rispettive lingue come ai piedi della torre di Babele. Non si capivano, ma a segnare i punti si trovavano d’accordo. Il calciobalilla era un linguaggio universale. In culo l’etica dell’ambiguità, in culo il calciobalilla, e in culo anche Amelia.

    Scendendo per corso Firenze Stella Marini, che si sentiva abbastanza in forze nonostante le settantotto primavere, fece una passeggiatina fino ai vicini giardinetti di Castelletto, dove incontrò l’avvocato: un distinto vecchio in doppiopetto che ogni sera, dopo aver lasciato il Tribunale, arrivava ai giardini con un gavettino militare portato appresso dal mattino e imbandiva il pasto ai gatti. Se i randagi dei giardinetti erano vispi e grassi lo si doveva solo all’avvocato.

    Quelli erano gatti privilegiati, quasi padronali.

    L’avvocato si tolse cerimoniosamente il cappello per salutare Stella. Erano in pochi, i papà e le mamme dei gatti, e si riconoscevano e salutavano col fare misterioso e segreto di una Massoneria. Tutti gli altri, che erano indifferenti ai gatti o addirittura li odiavano, non contavano. Come Amelia.

    In una sala d’aspetto della stazione Franco Avvenente, spesi gli ultimi spiccioli in un biglietto per un treno della sera che non avrebbe mai preso, guardava l’orologio in attesa che arrivassero le nove.

    Precauzione inutile, perché l’orologio della stazione era guasto. Poco importava: lui doveva solo ingannare il tempo. Non se la sentiva di trovarsi da solo con Carla, col suo eterno rimprovero, le sue vili ritorsioni, la sua costituzionale richiesta di matrimonio-casa-bambini.

    Meglio incontrarla assieme agli altri. Senza passare da Carla, anzi in fuga da Carla, sarebbe andato direttamente da Amelia.

    Nella sua stanza, Carla Baccini cercava di tenere a freno le lacrime e di concentrarsi sul tema di una sua scolara di nove anni. Descrivi te stessa. Mi chiamo Barbara, a me mi piace ballare e darmi il trucho come una grande, mi piacciono i Rolin Stones... Franco non arrivava. Chiaro come il sole che la evitava, tranne la notte, quando dormivano sui due lettini gemelli e separati, e anche la notte... non facevano sesso da mesi.

    Non che lei avesse irrefrenabili esigenze, il sesso lei lo faceva solo per amore. Franco si chiudeva a riccio ogni volta che lei cercava di avere un dialogo con lui. Da anni faceva così. Anche quella sera, l’avrebbe lasciata lì, come una stronza, su un divano in casa di Amelia.

    All’Università, Manlio Lolli era impegnato col secondo postappello della sessione invernale.

    Ascoltava le interminabili chiacchiere di una esaminanda con un sorriso che voleva sembrare di professorale condiscendenza e invece era di olimpico disprezzo. Quell’oca credeva che bastasse chiacchierare senza fermarsi neppure a tirare il fiato per abbindolarlo, per dargli ad intendere di essere una femme savante. Parlava di Nietzsche come se fosse stato un suo corteggiatore. Era arrogante e odiosa, col il suo naso a rostro e i capelli ispidi. Ventisei.

    Tutt’altra cosa la successiva. Ignorante pure lei, ma si faceva perdonare. Un visino di porcellana, capelli biondi da cherubino... e un’adorabile umiltà. Trenta. L’avrebbe invitata a bere qualcosa. Gli ricordava una giovane e quasi timida Amelia.

    Al reparto neurologico dell’ospedale di San Martino Doriana Ferrero, scarmigliata, stressata, sul punto di cedere a una crisi di nervi, divideva le sue attenzioni fra un’entraîneuse che si era tagliata le vene, una casalinga con figli grandi e menefreghisti che non sapeva trovarsi degli interessi, e la ninfomane con la testa rasata a zero che tentava, con scarsi risultati, di incidersi la giugulare con una posata di plastica.

    Somministrò sedativi a tutt’e tre e andò in bagno a lavarsi. Basta. Sarebbe sicuramente diventata psicotica prima di diventare primario. Ma, una volta primario, non avrebbe avuto bisogno di dannarsi dietro alle pazienti. Le avrebbe scaricate ai dottorini che facevano pratica. Per il presente, aveva voglia di un bagno caldo e di un letto, non di vedere Amelia.

    Nel suo studio Alfredo Mayer sistemava la contabilità della giornata: aveva lavorato con profitto.

    Solo clienti normali, niente svitati con esigenze particolari o pericolose. Sorrise. Clienti normali… senza esigenze particolari… Se qualcuno gli avesse letto nel pensiero avrebbe potuto credere che fosse una puttana. E invece l’astrologia era un mestiere dignitoso… non che la puttana non lo fosse, naturalmente. Aveva appena fatto cinque oroscopi personali, preparato un filtro d’amore, tolto tre malocchi. Lui non ne gettava mai però, di malocchi.

    Non era uno stregone di paese. L’astrologo prestava la propria opera come un tecnico. Sì, gli stronzi non erano quelli che correvano da lui, ma quelli che lo sminuivano, lo denigravano. Se ne sarebbe ben accorta, Amelia!

    Al cinema Chiabrera Pino Scaglia non stava guardando lo schermo. Non si andava al Chiabrera per guardare lo schermo. Davano Corpi bagnati e bocche vogliose e La locanda dell’allegra mutanda, in doppia proiezione. Comica, quell’esibizione di donne nude, pensava Pino, dato che il Chiabrera era noto come luogo di ritrovo per omosessuali. Perciò non ci si poteva aspettare da lui che guardasse lo schermo.

    Lui guardava gli uomini, anzi gli anzianotti, perché erano tutti sopra il mezzo secolo. In mancanza del principe azzurro, che ormai non aspettava più, si sarebbe accontentato di un bel marinaio muscoloso e baffuto, una pretesa modesta in una città con una nobile tradizione di Repubblica Marinara. Invece niente. Si sarebbe rifatto in Piazza Giusti, dopo Amelia.

    Alla Questura Centrale di Via Diaz il vicecommissario Piero Panebianco stava passando in rassegna i vagabondi della città per il consueto censimento di inizio anno. Erano sempre i soliti.

    C’erano i due che bivaccavano all’imbocco della Sopraelevata, quello col sacco a pelo in Galleria Mazzini, quella che ridacchiava da sola, mangiando mele. C’era il violinista dei sottopassaggi, c’era lo svedese, o norvegese, o finlandese, che suonava la fisarmonica col figlioletto di due anni appeso al collo.

    C’era quello che raccontava che sua moglie era stata fatta sparire dalla CIA, quello vestito di rosa con l’orsacchiotto di pezza. Quelli, insomma, che facevano rammaricare la gente per la chiusura dei manicomi. Il vice-commissario si domandava che cazzo stesse facendo. L’Italia era ancora scossa dalla recente strage sul treno Napoli-Milano, e lui faceva la conta degli accattoni. Non riusciva proprio a immaginarsi uno di quelli lì salire su un treno con un congegno a orologeria sotto il braccio. Non erano mai i pazzi a commettere le stragi. Piuttosto, un altro genere di pazzi...

    Marianna Panebianco prese dal cassetto del comodino un diario, una comune agenda annuale con la copertina di tela marrone e la solita penna: una biro stravagante, in finto oro, arricchita da un gran fregio barocco e da una grossa pietra rosso rubino. L’aveva trovata, come gadget, cellofanata dentro una rivista femminile, l’anno precedente.

    Dal diario di Marianna Panebianco

    Giovedì 10 gennaio ore 6 e 29

    Se non ci fossi io in questa casa non so come andrebbe a finire. Mentre tu perdi tempo in bagno io sono in cucina a preparare la colazione. Fuori è ancora notte. Sto tremando di freddo perché il riscaldamento centralizzato è spento, i bigodini mi tirano i capelli e mi sono scottata con la caffettiera senza manico. Ecco, ho rovesciato il caffè ed è troppo tardi per rifarlo.

    Scusami. Il pupazzetto di E. T. e la bambola-mostro che i ragazzi hanno lasciato in giro mi appaiono, alla luce della lampada al neon, ancora più sinistri. Una volta piaceva il bello, ora l’orrendo; la gente non apprezzerà mai il giusto mezzo, il né bello né brutto, categoria in cui rientriamo quasi tutti noi. Mi metterei a piangere se penso che ieri, anzi oggi, sono andata a letto alle due per finire di stirare il bucato contando di dormire almeno fino alle otto e invece alle sei il telefono ci ha buttati giù dal letto per un omicidio.

    Maledetta questa vita ingrata, senza orari, senza soste, senza vacanze. Almeno tu ti diverti, sempre in giro con i tuoi delinquenti e i tuoi ribelli alla società. Conosci gente di tutti i tipi, vai in posti interessanti. Io invece sono sempre qui a sfacchinare per mandare avanti la casa. Una cosa è certa: se potessi tornare indietro, all’epoca in cui mi chiedevi di sposarti, pedinandomi e facendomi domande tendenziose, già da quel questurino che eri, ti manderei a farti fottere.

    1

    «… ti manderei a farti fottere».

    Piero Panebianco, vice-commissario di P.S., aveva appena terminato la lettura, sottolineando ad alta voce l’ultima frase. Il sovrintendente capo Aldo Cavallo lo ascoltò con un orecchio solo. Non era disposto a prendere sul serio le beghe coniugali degli altri, lui che con le donne non ci azzeccava mai e si sarebbe ritenuto baciato dalla sorte se qualcuna avesse voluto sposarlo o fotterlo, non necessariamente in quest’ordine. Inoltre aveva fatto il turno di pattuglia prima di ricevere dalla Questura l’ordine di passare a prendere Panebianco.

    L’auto che li trasportava entrambi sfiorò di striscio il guard-rail.

    «Hai visto cos’ha scritto?» disse il vicecommissario.

    «Io vedo solo una macchia di caffè».

    «Però si legge ugualmente».

    «Bella scrittura».

    «Mi manderebbe a farsi fottere...» ripeté il vicecommissario, sorridendo.

    «Doveva essere proprio fuori di sé» commentò Cavallo.

    «Oh, non bisogna farci caso. Lo dice sempre, ma non lo pensa».

    Il vice-commissario evocò nella mente l’immagine della moglie, non come l’aveva vista quella mattina, in vestaglia sdrucita, ciabatte e bigodini, mentre si stava applicando un cerotto sul dito scottato, ma quand’era bella, perfino elegante con i saldi dell’Upim e addirittura affascinante se, compatibilmente con le finanze di casa, andava dalla parrucchiera a farsi i colpi di sole. Si lamentava, è vero, ma ragionevolmente per una casalinga frustrata, e in fondo le sue lamentele erano puramente virtuali. Non se lo dicevano mai, come per una sorta di pudore in un’epoca in cui essere sposati da più di sette anni pareva quasi anormale, ma il loro matrimonio, che durava già da quattordici, era proprio riuscito. Sì, era proprio una vergogna.

    «Ma senti un po’» borbottò Cavallo. «Quel diario lì è tuo o di tua moglie?»

    «Sarebbe mio, ma lo lascio usare da lei perché... be’, non è una cosa da dirsi fra due uomini ma te la dirò lo stesso... perché così la sento più vicina».

    «Ma che cazzate… devi essere proprio innamorato scemo».

    L’auto imboccò la curva a velocità sostenuta e per poco non andò a sbattere contro un furgoncino che veniva in senso opposto.

    «Guarda la strada!» sbraitò Cavallo.

    L’agente alla guida dell’auto era un agente-bambino col complesso del campione. Era un appassionato delle corse automobilistiche e seguiva, alla televisione, tutte le dirette delle gare di formula uno. Cavallo non gradiva

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