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Panthalassa
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E-book790 pagine12 ore

Panthalassa

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Fantascienza - romanzo (672 pagine) - L'atteso seguito di "Futuro invisibile", uno dei primi romanzi solarpunk italiani, vincitore del Premio Odissea 2018. «Qualsiasi cosa è un’arma, se la si adopera per fare del male»


Cos’è accaduto a Cafrissa, la cui popolazione scomparve improvvisamente il 21 dicembre del 2021? Secondo l’Ufficio, in quella città i terroristi che si fanno chiamare invisibili  stavano facendo esperimenti su un’arma di distruzione di massa. E l’Ufficio deve saperla lunga, visto che è riuscito a infiltrare lì una delle sue spie.

Cosa sta cercando Lorenzo tra le pieghe del Limine, e per quale motivo era stato scelto proprio lui come custode del perduto segreto di Cafrissa? La risposta è in un sogno, ma è il sogno di qualcun altro, che è imprigionato nel labirinto del suo stesso terrore, e potrebbe non ritrovare mai più la via d’uscita.

Quale mistero oscuro e terribile si annida nel cuore di Sanya, e come può il destino di lei essere legato a quello del mondo intero? Forse l’unico a poter dare una risposta si trova in fondo a un abisso, e solo un potente sciamano può interpellarlo, poiché non si tratta di un essere umano.

Perché Mana sta radunando un esercito di invisibili rinnegati? L’ex commissario sta combattendo la sua guerra personale e ha bisogno di un nemico. Ma Mana pensa in grande, più in grande di tutti, ed è dotato di una fantasia crudele e senza limiti.

“Qualsiasi cosa è un’arma, se la si adopera per fare del male”.


Emanuele Boccianti è traduttore editoriale freelance. In passato è stato chef, editor, ghost writer,  copywriter, redattore della rivista online di critica cinematografica Offscreen e ha sceneggiato due cortometraggi. Ha scritto il memoir Trecento piccolissime mani (Lorusso Editore, 2013) e con Sabrina Ramacci il saggio Italia giallo e nera (Newton Compton, 2013).

Luca Persiani si occupa come freelance di traduzione ed edizione di sottotitoli per il cinema e la tv. È inoltre lettore presso M2 Pictures e sceneggiatore (Il commissario De Luca, Age3/RAI fiction). È stato lettore e script-editor in-house per Ager3, critico cinematografico e redattore per diverse testate web (fra cui il portale nexta.com e offscreen.it).

LinguaItaliano
Data di uscita14 mag 2024
ISBN9788825429060
Panthalassa

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    Anteprima del libro

    Panthalassa - Emanuele Boccianti

    Caveat lector

    Se proseguite la lettura diverrete parte della storia.

    Se diverrete parte della storia contribuirete a renderla reale.

    Reale è ogni narrazione sufficientemente antica

    da aver superato la soglia dell’immaginazione

    e l’immaginazione è il lievito madre del mondo.

    Extrema Ratio

    Memorandum interno X27G98

    RE: Evento Cafrissa – Considerazioni preliminari

    […] A seguito della sparizione della popolazione della cittadina di Cafrissa nella notte tra il 21 e il 22 dicembre 2021 (da ora in avanti: l’Evento), l’Ufficio ha reclutato Antonio Mana, un agente di polizia esterno a Extrema Ratio. Mana ha raccolto indizi autonomamente e seguito l’unica persona rimasta a Cafrissa dopo l’Evento, Lorenzo Bastiani. Bastiani è stato poi apparentemente rapito da Elisabetta Vincenti, detta Sanya, esponente di spicco del gruppo degli Invisibili, la stessa formazione che ha rivendicato l’Evento come atto rivoluzionario, prodromo di un fantomatico nuovo ordine sociale. Bastiani è risultato chiaramente estraneo alla macchinazione, vittima di una tecnica mnemonica che l’ha reso recipiente di importanti informazioni riguardanti l’Evento, informazioni a cui però né lui né Vincenti avevano accesso. Nel tentativo di forzare il blocco mentale per recuperare queste informazioni, Vincenti l’ha trascinato infine presso una safehouse dismessa dell’Ufficio, dove i due sono stati intercettati da una squadra speciale di Extrema Ratio, che è stata però sterminata – con l’eccezione di Mana – in circostanze non ancora chiarite. Bastiani e Vincenti sono scomparsi […]

    N.B. Vincenti è classificata obiettivo prioritario Alfa+.

    Parte prima

    Cafrissa

    Automatonofobia

    La nostra vita è un’iniziazione alla verità secondo la quale intorno a ogni cerchio se ne può tracciare un altro; che non esiste mai fine in natura, ma ogni fine è un inizio; che vi è sempre una nuova alba al culmine del meriggio, e che sotto ogni abisso se ne apre un altro più profondo.

    R.W. Emerson, Circles

    Diciassette mesi prima dell’Evento Cafrissa.

    La paura è un’ascensore, pensa Fedro entrando completamente nudo nella stanza delle bambole. Inchiodati alle pareti e appesi al soffitto ci sono centinaia di simulacri umani che lo occhieggiano segretamente. Pupazzi di pezza, action figure di plastica, marionette della tradizione siciliana dal volto di cartapesta, burattini di legno con i lineamenti appena abbozzati, manichini da boutique, babbinatale di ciniglia rossa e bianca, sex doll maschi e femmine di sublime bruttezza, Guance tonde, fronti bombate, occhi immancabilmente spalancati e spiritati, brillanti come un paradiso da centro commerciale, carni grinzose di neonato, sorrisi ambigui e sbilenchi, manine strette a pugno, labbra tumide e chiuse a eccezione di un piccolo foro in cui inserire ciucci o biberon.

    Ogni palombaro ha la sua camera dell’orrore, un locale traboccante dell’oggetto della sua fobia ancestrale. Quella di Fedro si chiama automatonofobia, la paura di ciò che si finge umano senza esserlo. Ciascuno dei ventotto palombari di Cafrissa, proprio come lui sta per fare adesso, ogni settimana, a mezzanotte, affrontano quella prova terribile.

    Deve tenere gli occhi bassi, altrimenti non ce la farebbe. I primi tentativi sono stati un patetico fallimento, con lui che scappava fuori dopo neppure cinque passi. Una parte antica della sua mente prendeva fuoco ogni volta che lo sguardo sfiorava un fantoccio, una Barbie o un Arlecchino o un Cicciobello. Orrore. Orrore e vergogna. Al centro esatto della stanza c’è una pedana realizzata da bravi carpentieri cafrissiani e, alloggiata sulla pedana, la vasca di deprivazione sensoriale che è il vero mezzo di trasporto di un palombaro. La vasca, che sembra più una bassa cabina, è un tronco di piramide metallico, tozzo e sgraziato alto un metro e mezzo, con un portello che sembra un oblò su uno dei lati. Accanto al portello un armadietto da bagno è posato sul pavimento di legno. Fedro lo apre, prende un paio di tappi per le orecchie in polimero elastico e un barattolo di vaselina. Se la spalma addosso con grande cura. L’odore che emana è un misto di organico e sintetico. Coprirsi con quella pellicola postumana è come indossare una tuta spaziale per entrare in un nuovo universo. La muta da palombaro. L’operazione stessa è una liturgia transizionale.

    Con estrema calma, sempre senza guardare più in là dei suoi piedi, apre il portello e aggrappandosi alla barra soprastante si infila dentro la vasca. Non appena richiude l’oblò, una tenebra omogenea cala su di lui come una benedizione. Le sentiva addosso, tutte le centinaia di bambole che ricoprono ogni centimetro di mura e soffitto come un surreale bazaar. Le sentiva anche senza vederle, perché erano loro a guardare lui. Fedro sa con assoluta certezza che questo è vero, e sa altrettanto bene che non può essere vero. Una fobia è una fobia.

    Scivola nella soluzione chimica come in un olio sopraffino, caldo e accogliente, quel tipo di accoglienza che fa pensare a un sacco amniotico. È un misto di acqua, sale e solfato di magnesio; un liquido isotermico, corrispondente cioè con esattezza decimale alla temperatura basale di Fedro. La sua densità è regolata in modo tale da permettergli di galleggiare senza il minimo intervento dei muscoli. Esonerato dal dover aggiustare equilibrio e temperatura, il corpo del palombaro può limitarsi a fluttuare privo di peso e stimoli sensoriali. Fedro allunga una mano e stacca da un gancio la cuffia con gli elettrodi per il monitoraggio remoto. Il cocktail di galantamina e fosforo che ha assunto prima di entrare nella stanza della paura sta cominciando a fare effetto; se ne rende conto perché i suoi pensieri si allungano, perdono consistenza, si sfilacciano. Iniziano le visioni ipnagogiche, preludio del sogno.

    La tecnica per il sogno lucido utilizzata dai ventotto palombari di Cafrissa si chiama WILD, sta per Wake Initiated Lucid Dreaming, ed è una delle più potenti dato che, quando attraversa la soglia che separa mondo sveglio e mondo onirico, il sognatore resta vigile. Vigile a contemplare gli arabeschi del pre-sogno, che sono tutti immancabilmente a base di bambole per chi ha la fobia delle bambole. Quella specie di marinatura nel proprio inferno personale è una necessità imprescindibile. Senza la spinta verso il basso data da quel tipo specifico di terrore, sarebbe impossibile per l’onironauta scendere ai livelli più bassi del sogno.

    Il buio comincia ad animarsi di vaghe allucinazioni, un pullulare tattile di teste staccate, torsi mutili, facce grinzose o truccate, occhi di vetro finto, bocche tumide e lucide che abbozzano sorrisi sadici che soltanto Fedro può percepire. Se li sente addosso, i simulacri, anche se sa benissimo che tra lui e loro ci sono le pareti della vasca e alcuni millenni di pensiero razionale. Non bastano. Secondo Terraneo, che ha elaborato la teoria e progettato le macchine, le fobie ancestrali sono una speciale famiglia di paure irrazionali che affondano le loro radici in tempi in cui – non eravamo ancora umani – per usare le sue stesse parole.

    Appesantito dal suo stesso terrore, il palombaro è come un apneista che, aggrappato alla slitta, scende giù a piombo nell’abisso marino. Per questo la stanza della paura, per questo la tortura autoinflitta. Il terrore è il propulsore che serve per bucare tutti gli strati intermedi del dreamscape, per arrivare senza perdersi sul fondale, e da lì, auspicabilmente, contemplare l’altro abisso che si schiude. Durante le riunioni organizzative, mesi prima, qualcuno ha chiesto perché. Perché arrivare fin là, a quale scopo? A Fedro allora è venuto in mente il celebre aneddoto su George Mallory, a cui era stato domandato come mai volesse scalare il Monte Everest. – Perché è lì – era stata la risposta di Mallory, che sull’Everest ci morì e il suo corpo fu recuperato solo settantacinque anni dopo.

    Finché non è stato raggiunto, quello del fondale era una specie di mito, una possibilità offerta dalle speculazioni teoriche di Terraneo e altri maestri, ma mai direttamente osservato. I cittadini di Cafrissa hanno voluto farsi spiegare per bene un sacco di cose prima di accettare di partecipare a un progetto sperimentale tanto folle. In particolare facevano fatica a mandare giù quella perversione delle stanze della paura. Sono state necessarie settimane di riunioni a oltranza, ma alla fine hanno accettato, e Fedro la considera un po’ una vittoria personale. Ha saputo intrigarli con la retorica della vita sperimentale che è un perno centrale del vivere invisibile, ma è stato il mistero di ciò che si poteva scoprire sul fondale ad attrarli e convincerli. Qualcuno di cui si fidano ha raccontato che c’è un oceano che scorre sotto i sogni, e loro lo vogliono vedere. Vogliono essere là, sulle rive della Panthalassa.

    Inversione

    Talento è ciò che si ottiene arrivando alle radici del proprio dolore.

    H.R. Giger

    Ciò che stai cercando è qui.

    Come una marea invisibile, poco a poco la sensibilità del corpo si ritira. Senza l’appoggio di stimoli esterni scompare prima un piede, poi una spalla, una guancia, le natiche. Al loro posto resta l’eco di un formicolio, che Fedro sa essere prodotto dalla mente nel tentativo di dare conto delle sparizioni. Una sensibilità fantasma che prende il posto di quell’assenza sempre più estesa. Il corpo fisico esce di scena, a parte un singolo, immateriale punto in mezzo agli occhi dove lui sente concentrata tutta la sua essenza. Eppure anche quella è una finzione della mente. Infine più nulla. Nell’esatto momento in cui anche l’ultimo baricentro propriocettivo evapora, il palombaro si estrude da se stesso e si contempla da fuori. In questo tipo di sogno lucido la prospettiva è una mescolanza di seconda e terza persona. Impossibile anche solo tentare di immaginarla da svegli, se non la si è provata.

    Le bambole restano sullo sfondo, un immenso campo di non-visto; Fedro ne sente il mormorio ronzante, la violenza compressa di un pubblico da Grand Guignol assetato di sangue e con ben poca pazienza. In primo piano vibrano embrioni di pensieri dalle fattezze squisitamente grottesche. Mozziconi di frasi vestite da ricordi, grumi di sensazioni prive di soggetto senziente. Eppure tutte fin troppo familiari, calde e confortevoli come un sudario consunto. Ecco. Quella sensazione di accoglienza, quel senso di accomodarsi dentro le proprie viscere è il momento in cui la coscienza interrompe i suoi cicli di lavoro, si spegne, dal punto di vista del mondo sveglio: muore.

    Uno di quegli embrioni surreali, collage di suoni, odori, forme antigeometriche e congetture mnemoniche, probabilmente pescato a caso da se stesso, prende il sopravvento sulle altre ipnagogiche e cresce di dimensioni a velocità esponenziale, fagocita tutte le concorrenti e si sviluppa immediatamente in un sogno completo. Un Big Bang onirico.

    E ad un tratto sei lì, come se fosse ovvio, la cosa più naturale del mondo, il corretto proseguimento di una linea temporale e di un corso d’azione perfettamente evidenti alla coscienza e alla memoria. Ma è un trucco, e tu lo sai, perché fino a un momento prima non c’era nulla, se non il caotico vorticare delle ipnagogiche che sgomitavano tra loro come spermatozoi per diventare germi. Non c’era nulla, e ora questo.

    Questo è un interno domestico, parzialmente illuminato da una cappa di luce elettrica giallastra che conferisce al tutto un che di stantio, vecchio non solo di età ma di senso. C’è tuo padre dinanzi a te. Il commendatore Giusto Marconati nel pieno dei suoi fulgidi quarant’anni. Odore di latte bruciato. Tra i polpastrelli sudati il liscio della tela cerata che ricopre il tavolo della cucina. Sono le diciannove e ventidue minuti. Lo sai perché guardi di continuo l’orologio, sopra il frigo che raglia metallico in sordina. L’ipnagogica da cui tutto è partito era composta dal disegno a V rovesciata delle lancette, mischiata al brusio del frigorifero, alla luce che scivolava sulla tela cerata a fiori, e condita da due parole proferite da tuo padre. Congelate in una ripetizione intemporale, come se le vedessi invece di udirle.

    È INACCETTABILE, dicono le due parole scolpite, che suonano maiuscole, in stampatello, irte di spigoli acuminati. Quando a Giusto Marconati non va giù qualcosa ricorre sempre a quel mantra. Spesso, in quella fase della sua vita, a non essere accettabile è qualcosa che fa il figlio Antonio.

    Lo vedi stringere nella mano destra, ricoperta di una fitta peluria da licantropo dei vecchi horror con Lon Chaney Jr., un Pinocchio di legno dalle orrende sembianze antropomorfe. Adesso hai solo nove anni e non sai ancora nulla della tua paura, anche se in realtà sai tutto ciò che ti serve di sapere. Solo che non ci sono parole per quel che sai e senti, e l’arena in cui ti chiama a combattere tuo padre è fatta solo di parole, per questo perdi sempre. Vergogna, un grande, schiacciante senso di vulnerabilità, la percezione di essere indifeso ma anche la convinzione che qualcuno dovrebbe farlo. Prendere le tue parti. Mamma Fernanda è in disparte, assorbita nello scenario, la senti – più che vederla – dimenarsi come se il tuo soffrire fosse il suo.

    Il pupazzo di legno appartenente a un’altra epoca viene di nuovo sbattuto sul tavolo. C’è un maremoto di parole che accompagna quel gesto e satura la stanza. Nessuna di queste è una volgarità o un’imprecazione, non è nello stile del commendatore. Evocano vergogna – ma non la stessa che provi tu – disapprovazione e delusione, per quel figlio ormai adulto e ostinatamente attaccato a paure da neonati. Paure che neppure le femmine hanno. Quando tuo padre ti sgrida ti paragona sempre a minorati mentali o a femmine con un’equanimità sospetta, forse che nei suoi pensieri le due categorie in qualche modo coincidano. Tu ti fai piccolo piccolo, rannicchiato su quella sedia di vimini che sta lentamente incidendo i suoi arabeschi sulla carne delle cosce, lasciate scoperte da calzoncini corti come quelli che si portavano allora. Ti ammanti di silenzio come fosse un’armatura, però piena di buchi.

    Guardalo, dice tuo padre. Quando reclama i tuoi occhi non puoi fare niente, hai troppa paura del dolore fisico somministrato dalle sue mani. Non può costringerti a parlare, ma può costringerti a vedere. Allora tu vedi. È un singolo istante, poi strizzi le palpebre per sfuggire a quell’aggancio, perché nel vetro colorato delle pupille di Pinocchio ci sono uncini, come ami da pesca, che ti bucano la cornea per sempre se non sei lesto a interrompere lo sguardo. Strizzi le palpebre anche per prepararti al colpo in arrivo. E quando lo schiaffo atterra sulla tua guancia è una doccia scintillante di chiodi elettrici, fa cantare la pelle.

    GUARDALO.

    Hai guardato. Quel singolo istante vale decenni di incubi a venire. Ma stavolta non hai soltanto nove anni mentre vieni stuprato dal simulacro umano, ne hai anche decine e decine di più e ti muovi sopra la storia, la osservi dall’alto, o da un’altra dimensione; ne sei dentro e ne sei fuori, e questo ti aiuta.

    Così comprendi che questa è una memoria travestita da sogno. Hai davvero vissuto questo momento, ne ricordi perfino gli estremi cronologici. Il Pinocchio era un regalo di compleanno di tua zia paterna. Che sapeva benissimo della tua fobia, ma pensava di fare chissà quale buona azione con il suo dono, magari per aiutarti a sconfiggere quel terrore, o magari solo per fare bella figura col fratello. Probabilmente hai fatto questo sogno-ricordo migliaia di volte, ma ciò che resta impigliato nella rete della memoria è solo una goccia nella vastità del mare onirico.

    Il pensiero del mare lo scuote, e ciò è un bene. Uno degli ostacoli più difficili da superare in questa impresa è evitare di venire sopraffatti dalla narrazione del sogno, subirla passivamente. All’estremo opposto, l’altra difficoltà è quella di intervenire troppo, modificando l’architettura di base. In entrambi i casi, il palombaro non riesce a completare la discensione. Terraneo a suo tempo ha spiegato che sono tutti sistemi di sicurezza della mente, che lavora in maniera attiva per evitare che si raggiunga la Panthalassa usando le tecniche del sogno lucido. Qualcuno, durante le lunghe sessioni di addestramento, aveva fatto notare che se c’è un sistema di sicurezza specificamente per questo, forse cercare di scendere così in profondità non è una buona idea. Fedro distoglie lo sguardo da se stesso bambino e ripensa alle parole di Terraneo.

    I primi esseri viventi sono nati nell’acqua, ed è quello il livello zero della memoria archeopsichica condivisa. Perciò voi è lì che cercherete di tornare durante le discensioni, sfruttando la spinta verso il basso fornita dalle vostre paure ancestrali. Perché la vera paura primaria precede anche la nascita dell’io: è la paura per ciò che non ha forma, o meglio di non averne più una. Questo è il vero motivo per cui uno dei più antichi sogni ricorrenti dell’umanità è la Grande Onda Che Sommerge Tutto. Non è un presagio di future apocalissi, ma il ricordo ancestrale dell’inizio. L’inconscio torna al momento zero della sua storia, attratto e spaventato al tempo stesso dalla propria dissoluzione. La teme ma ne è sedotto, poiché l’io desidera l’eternità nei due sensi: non solo nel futuro, anche nel passato. Vuole gettare uno sguardo oltre l’inizio, per quanto fugace, e così scoprire, o magari solo vagheggiare, che c’era anche prima di esserci. Ma non è così. È impossibile immergersi nell’oceano primordiale. Anche solo avvicinarsi troppo alla sua riva significa smantellare le strutture che tengono in piedi la coscienza individuale. La Panthalassa è il confine di spersonalizzazione. Il punto di non ritorno.

    Quindi sì, c’è una ragione bella grossa per cui la mente cerca di impedire che il sé si autodistrugga. Ma se l’oceano sotto i sogni è la versione finale delle Colonne d’Ercole, Fedro è l’ultimo Odisseo. Di nuovo le parole di Terraneo. Le ripete dentro di sé, sorbendole come un elisir tonificante.

    L’acqua è la traccia mnemica fondamentale. Il ritorno all’acqua è la regressione nel preformale, il ritorno al momento precedente la formazione dell’io. Il viaggio onirico dei palombari sarà un viaggio a ritroso nelle dimensioni ctonie della psiche e quindi un viaggio indietro nel tempo. Non il tempo soggettivo, ma quello filogenetico. Quello che abbraccia tutte le specie viventi. Per questo bisogna trovare e seguire la traccia acquea durante la discensione. C’è sempre una via d’uscita dal labirinto.

    Tu non ti sei mai mosso da qui, in realtà. Questo tinello dai colori sbiaditi e la luce squallida ti ha inchiodato per tutta la tua esistenza; che tu creda di essere andato oltre, di aver fatto altro nella tua vita: questo è il vero sogno. E adesso, a nove anni, mentre un vento venuto da chissà dove dà sollievo alla pelle scottata dalle percosse, ti rendi conto che sei perfettamente conscio di questa verità, ma in seguito te ne dimenticherai per avere una parvenza di vita da vivere.

    NON PIANGERE, intima tuo padre. La tua mente adulta, ripiegata dentro quella di bambino, nello stesso istante in cui percepisce il pungiglione della rabbia ne assapora anche il veleno secreto. Ha un gusto salino, severo. Te lo ritrovi sulle labbra con un brivido, così la lingua scatta fuori e lambisce quell’umore liquido che la scienza chiama lacrime ma a te, in quel momento di mille anni fa, fa venire in mente l’acqua salata del mare. Un attimo prima che arrivi un nuovo manrovescio a scrosciare sul tuo viso, il palombaro che da sempre è in te ritrova la concentrazione e pensa: mare! Ho trovato l’acqua. La mano del padre ti raggiunge, c’è uno schiocco liquido, gorgogliante, quando la faccia ti esplode come un palloncino pieno di… acqua. Una valanga d’acqua si riversa nella cucina, sembra provenire da ovunque, miliardi di ettolitri, come se le cataratte del mondo si fossero rotte, e ti trascinano via, giù. Nel gorgo vorticante danzano insieme a te gli oggetti del sogno. Il tavolo di formica, la tela cerata a fiori, il frigo ronzante, l’orologio, la mano callosa del commendatore, il volto affranto di tua madre.

    Per un numero inconoscibile di volte Fedro rivive in sogno la stessa esperienza primordiale, in forme e maniere sempre differenti. Ciò che non cambia è la struttura base: qualcuno che gli pone davanti un simulacro umano e lo costringe a guardarlo. Lui inorridisce e soffre maledettamente, ma per un motivo o l’altro c’è sempre qualcosa a impedirgli di ribellarsi, di fuggire. Se tenta di darsela a gambe il pavimento si trasforma in un tapis-roulant. Se prova a chiudere gli occhi scopre che le sue palpebre sono scomparse. Si ritrova a tu per tu con l’essenza pura e distillata dell’esperienza incubica: l’impotenza. Eppure ogni volta riesce ad afferrare la traccia acquea nascosta in un dettaglio: il mare in una cartolina di Riccione incastrata nella cornice di uno specchio, o lo sciabordare subliminale della pioggia dentro una grondaia, fuori dalla finestra. La insegue, e immancabilmente finisce giù per lo scarico, sempre più veloce, sempre più in profondità, per finire vomitato in un nuovo ambiente che fa da sfondo alle stessa stragedia.

    Via via il contesto si fa più povero di dettagli, scabro, come un set allestito da uno scenografo svogliato. Questo è un buon segno, significa che si sta muovendo in verticale, verso il basso. Man mano che si scende e si prende distanza dal mondo sveglio, l’influenza della psiche individuale si indebolisce, e questo comporta una perdita di elementi e caratteristiche nella fisionomia del sogno. Ma nessuno gli ha mai detto quanto tempo soggettivo duri una discensione completa, e quel ripetersi del terrore che è il padre di ogni terrore ha tutta l’aria di volersi reiterare all’infinito. Anche questa è essenza incubica, si chiama ripetizione.

    Ora Fedro si rende conto che non è sulla strada che porta fuori dal labirinto e verso la Panthalassa. Tutt’altro. È bloccato all’interno del loop e quella che pensava fosse la via d’uscita non è altro che il puro, tipico movimento del dedalo più antico di tutti, un budello che disegna un andirivieni ondivago e ipnotico, che sembra vada da qualche parte e invece no. Non fa altro che risputare il sognatore al cospetto del suo stesso incubo.

    Sopraggiunge il panico. A questo punto il palombaro in genere dà forfait. Così sono terminate finora quasi tutte le discensioni. Solo in tre su ventotto sono riusciti a completare con successo la seduta. Tutti gli altri o sono stati disarcionati dal sogno per aver infranto qualche regola, o sono finiti nel loop incubico.

    Non c’è via d’uscita!, gridi dentro di te, perché il panico porta sempre alla disperazione. Ed ecco, come una canzone i cui versi non sapevi di ricordare finché non li hai intonati, ancora una volta giungono le parole (c’è sempre una via d’uscita dal labirinto) di un maestro di cui un tempo ti fidavi, al punto da decidere di dare retta alle sue assurde teorie sul mondo dei sogni. Non perdere fiducia proprio adesso che ne hai più bisogno.

    Se una via d’uscita esiste, allora dov’è? Qui è sempre il medesimo orrore ripetuto in maniere diverse, ma che ti consuma nello stesso identico modo. Devi smettere di essere sopraffatto dalla paura. Devi smettere di dare così tanta corda alle emozioni. Se esiste una risposta, è proprio davanti ai tuoi occhi. Ma davanti ai tuoi occhi ci sono solo quelli di vetro del pupazzo. E se la soluzione fosse là dentro?

    Guardali.

    No! Non posso.

    Guardali ora. Ora che sei arrivato al fondo della tua paura. E della tua sofferenza. Contemplale nella loro purezza originaria, gustale senza filtri. Ciò che stai cercando è qui.

    Dilaniato dall’istinto di conservazione psichica che lo spinge a svegliarsi, Fedro si impone di smettere di lottare, di andare verso la morte. E guarda gli occhi del Pinocchio. Che contengono dentro, come per un miracolo olografico, l’intera scena onirica. La scena madre. La ammira, adesso, nella sua interezza originaria.

    Sei ancora inesperto di come funziona questo corpo fisico, piccolo e parziale. Fino a pochi mesi prima eri parte di un Tutto più grande, eri completo, una cosa sola con il cosmo e quel cosmo era il corpo di tua madre. Adesso ogni cosa o è dolore o è delusione, o un perverso intreccio di entrambe. Ma nonostante questo percorso di afflizione che poi chiamerai infanzia, non puoi essere preparato per ciò che stai affrontare.

    Ci sono tante persone attorno a te, pezzi di famiglia che vedi solo nelle occasioni speciali, e sai che quella è un’occasione speciale, è un momento scelto per celebrare proprio te, o meglio, la tua nascita. Tutte quelle facce tempestate di emozioni che ti girano attorno, c’è da farsi venire le vertigini. Ridono, fanno le smorfie, fanno le voci sceme. Si sente odore di zucchero e alcool nell’aria. Gioiosità forzata, fumo di sigarette, sudore. Tutti gridano.

    Tu capisci che non c’è nulla da temere, è solo che quel modo di farsi felici ancora non ti appartiene, non hai sviluppato gli strumenti per sincronizzarti con il gruppo. Sei ancora meravigliosamente autocentrato. Improvvisamente un uomo che è stato nella stessa pancia in cui è stata anche tua madre ti porge un pacchetto dalla forma irregolare. Il giallo oro del nastrino e i motivi floreali della carta catturano immediatamente la tua curiosità, ma subito vieni redarguito e rimesso nella giusta direzione: il pacchetto va aperto, quel che conta è all’interno. Con qualche difficoltà strappi la confezione e porti alla luce il tuo demone personale per la prima volta. Rosa, puzzolente di gomma e plastica, i capelli del colore sbagliato, tutto è sbagliato, è una visione che ti mastica gli occhi. Istintivamente la testa scatta indietro e cerchi di prendere la rincorsa per metterti a piangere, è l’unico modo in cui riescono a capire che per te qualcosa non va. Ma il respiro è bloccato in fondo alla gola, e il motore del pianto si è inceppato, perché questo è l’effetto dell’orrore: congela.

    La reazione degli adulti alla tua immobilità è come fuoco irrorato di benzina. Si agitano, alzano ancora di più la voce. Tu provi a balbettare qualcosa, senti che c’è un intero fiume di emozioni che vorrebbe prendere quella strada, lo vedi fare agli altri ma la tua bocca e la tua lingua ancora non sono ben organizzate per quel compito, e quando provi a fare del tuo meglio, senza piangere, ottieni sempre quell’unico, frustrante effetto: si mettono a ridere. Una donna anziana e con la faccia butterata si getta addosso a te e con voce sguaiata ti abbraccia, stritolandoti, ti struscia le labbra su una guancia, riempiendola di bava, prende la bambola e te la getta in grembo. Qualcosa dentro di te cortocircuita e si spegne.

    Basta. Ferma tutto. Fatemi uscire da qui. È la stessa identica implorazione, per Antonio e per Fedro, il sognato e il sognatore.

    No. Guarda quegli occhi. La verità che contengono è per te e solo per te. Sei venuto fin quaggiù per questo.

    Fedro guarda le biglie di vetro colorato inserite nelle orbite di plastica e per la prima volta vede davvero gli occhi del mostro. Si accorge che c’è una domanda impossibile che non è mai stata fatta e non è mai stata fatta perché non sembra avere risposta. Una fobia è la quintessenza dell’irrazionalità. L’unica ragion d’essere può appartenere al mondo delle cause psicologiche. Un trauma, per esempio. Un trauma può spiegare tutto. Ma non c’è alcun trauma all’origine della sua automatonofobia, esso, ora ne è consapevole, è lì da sempre, anzi, da prima ancora. Lo stesso, sente che deve formulare quella domanda.

    Quando guardi quegli occhi finti, che cosa vedi?

    Solo ora, in tutta la sua vita, può realmente concedersi di porsi quella domanda assurda; solo ora che sta sognando. E solo ora sa che esiste una risposta.

    Vedo un pieno dove dovrebbe esserci un vuoto, e sento un vuoto dove dovrebbe esserci un pieno.

    Perché per qualche arcano, imponderabile motivo, la situazione è ribaltata e il ghigno vacuo del pupazzo è lì a rivelarglielo. Quella è la realtà sotto la finzione: la bambola è davvero viva, e lui finge solo di esserlo. È il mistero dell’inversione.

    Devi essere ormai diventato cianotico, perché hanno tutti smesso di ridere e la donna bavosa è visibilmente preoccupata. Prima che arrivino le braccia di tua madre a farti da nido, la vecchia ti toglie il mostro di dosso e con epilettica premura ti avvicina un bicchiere, te lo mette in mano, ma tu ancora non sai maneggiare quegli affari di vetro, è liscio e ti scivola tra i polpastrelli, l’acqua ti inonda il pigiama felpato, è dolorosamente fredda, uno shock che riverbera fino alle meningi dell’onironauta.

    L’acqua. Il passaggio. Fedro lo afferra prima che svanisca nel flusso onirico, un gesto istintivo di cui subito dopo si pente perché quella sessione lo ha già massacrato e lui vuole solo tornare a casa, per starsene da solo con la sua sofferenza. Quando il senso di bagnato si estende dalla flanella dell’indumento fino a diventare una realtà soverchiante che sommerge tutto, compresi mobilia, genitori, parenti e regali funesti, lui sente che il respiro ancora non è tornato, che l’ultima boccata di sacro ossigeno l’ha tirata immediatamente prima di scartare la bambola – un’eternità prima. Ora non è più il tempo del respiro: l’acqua penetra nei bronchi a gran fiotti e occupa ogni spazio, perché quello è il tempo dell’annegamento, la morte dell’acqua che hanno sperimentato tutti e tre i palombari che sono arrivati fin sulle rive della Panthalassa. Mentre fa esperienza della morte fino in fondo, ma senza morire, Fedro pensa con un guizzo di masochistica esaltazione che finalmente ce l’ha fatta, è uscito dal labirinto.

    Archeano

    L’acqua è la via, ma è anche il guardiano. Difende il centro del labirinto, l’accesso segreto a cui non è permesso arrivare. È solo con la pratica del mind-jitsu che il palombaro può riuscire a non farsi disarcionare dal terrore quando il sogno gli scaglierà contro la morte dell’acqua. L’annegamento.

    La via dell’acqua è stata teorizzata per la prima volta da una scuola invisibile australiana in cui scorre sangue aborigeno – dei matti che praticano una variante dell’incubatio sciamanica, il cui finale prevede un’esperienza di pre-morte per annegamento. Sostengono sia un modo di morire molto più atroce di quel che si crede comunemente. Se sia vero o meno è quanto Fedro sta per scoprire.

    Dapprima c’è la compressione. È la fisica dell’acqua, la sua massa che si impone sul corpo, compenetrandolo e schiacciandolo tanto da fuori quanto da dentro. Dopo subentra l’esplosione, ed è come se l’organismo si disfacesse in mille rivoli che si allontanano e si disperdono, con essi si sfilaccia e si sbrindella la percezione di essere un tutto unico e coeso, una cosa sola, per dilapidarsi in miriadi di direzioni differenti. Una supernova, ma senza emissione di energia. Uno spegnersi invece che un accendersi.

    Il corpo morente di Fedro è un grave dalla massa incommensurabile, e la gravità lo tira da sotto, verso un abisso che non è più lì o altrove ma tutto e ovunque in ogni punto dello spazio. La zavorra fobica sta facendo di nuovo il suo lavoro, cacciando giù a forza il palombaro negli strati più disadorni del mondo del sogno. Sempre più lontano dall’influenza del sé cosciente – ormai miliardi di ere sopra di lui – e sempre più vicino alla Panthalassa. La morte è una danza verticale che pare non avere fine, e l’agonia l’accompagna.

    Quando sente la sabbia sotto di sé, tra le dita, nell’olfatto e nei capelli, tutto ciò che era stato fino a un istante prima non c’è più, è solo ricordo, perché non esiste memoria fisica per un corpo che non è fisico. Fedro non ha neppure il fiatone. Ma resta lo stesso con l’aria incastrata in gola quando si rende conto di avercela fatta. La meraviglia convive con l’euforia ma anche con una potente attenzione, che gli consente di contemplare ogni dettaglio con la massima lucidità e assaporare senza fretta l’incredibile impatto di quel paesaggio. Che non ha niente di onirico nel senso comune del termine. Lui è sprofondato troppo, alla massima distanza possibile dal sé egoico e dalla sua mania di accumulare dettagli, immagini, livelli di significazione. Là sotto non c’è niente, a parte una spiaggia grigia e spoglia, un cielo basso, privo di nuvole, illuminato da una luce diafana che sembra non provenire da alcun punto, e il mare. Terraneo, esperto di paleogeologia, ha scelto di chiamarlo Panthalassa, come l’oceano primordiale che durante l’eone Archeano, tra i quattro e i due miliardi di anni fa, ricopriva completamente il pianeta.

    La sua superficie è una membrana scura, di un colore cangiante difficile da definire che va dal sangue venoso all’ardesia, ed è immobile. Nessuna onda, nessuna increspatura che sfaccetti la luce spettrale, la quale si spalma in maniera omogenea sul pelo dell’acqua creando uno straniante effetto visivo. L’occhio fatica a mantenere la presa sulla superficie liquida, slitta e scivola senza trovare dettagli su cui soffermarsi, come se perdesse aderenza, finendo invariabilmente all’orizzonte, una linea così tenue da sembrare illusoria, o sulla riva. È lì, sulla battigia, che è possibile concentrare lo sguardo e ingannare la mente quel tanto che basta per farle credere che stia contemplando un vero specchio d’acqua. La riva è il punto dove si può vedere respirare la Panthalassa. Una risacca minima e dotata di una regolarità spietata fa avanzare e ritirare continuamente i lembi più sottili del mare, in un muto sciabordio ipnotico che rivela come l’immensa massa d’acqua sia, in un suo modo arcano e temibile, viva.

    Fedro si alza in piedi e con un paio di manate prova a scrollarsi la sabbia dai vestiti. Si china e raccoglie un pugno di quella polvere finissima, quasi impalpabile, aguzzando la vista nel tentativo di scorgere i singoli granelli. Non ci riesce: più tenta di mettere a fuoco più la massa polverosa si fa nebulosa, quantistica. La lascia cadere tra le dita e alza di nuovo la testa, rivolgendo lo sguardo alla meta del suo viaggio, l’oceano sotto i sogni. Non fa freddo e non fa neppure caldo – il parametro termico sembra non avere senso in quel posto – eppure rabbrividisce, al pensiero che il paesaggio che si stende davanti ai suoi occhi sia il fatidico livello zero dell’inconscio; una regione immune dal potere generativo del sognatore, immutabile e forse eterna, che a quanto pare si presenta identica a chiunque riesca a raggiungerla. È quella la caratteristica più affascinante della Panthalassa: la possibilità che sia la radice comune di tutti i sogni, che alla base dell’esperienza più soggettiva di tutte sia stata scoperta una dimensione vestibolare che non ha nulla di soggettivo. Qualcosa di assoluto.

    Ci sono state delle speculazioni. Alcuni hanno azzardato l’ipotesi che la riva possa essere una specie di lobby ove potrebbero incontrarsi i palombari, una sorta di ambiente virtuale in cui comunicare, per esempio, anche attraverso enormi distanze spaziali e magari perfino temporali. Terraneo ha però subito spazzato via quella speranza e Asor ha confermato quel parere sciorinando i suoi tecnicismi che nessuno ha capito, neppure Fedro; il quale segretamente conserva la speranza di incontrare lì, prima o poi, un amico palombaro da abbracciare e con cui condividere l’avventura della discensione guardando il mare. Per questo adesso, dopo aver staccato gli occhi dallo spettacolo tremendo e affascinante dello specchio d’acqua, volge lo sguardo intorno a sé, lungo la spiaggia, prima a destra, poi a sinistra. Quando lo vede, quasi gli prende un colpo.

    C’è qualcuno che si sta avvicinando. È ancora lontano, ma la figura umana è inequivocabile. È troppo vicino all’acqua per essere un palombaro. Anzi, sembra proprio che cammini sul limitare dell’acqua, dove è impossibile non bagnarsi. In realtà zoppica, ora che ha affrettato il passo lui riesce a vederlo meglio. Ha una gamba strana. Fedro gli cerca frenetico il volto, ormai non più lontano di un centinaio di metri, eppure ancora vede troppo poco. Non riesce a capire quale dei ventotto possa essere. Di certo un uomo. Asor? Sembrerebbe, ma Asor non zoppica. No, non è lui però non è neppure uno dei palombari. Fedro è stupefatto. Non è nemmeno uno di Cafrissa. Lo conosce, è l’ultima persona che si sarebbe aspettato di incontrare in riva alla Panthalassa.

    – Lorenzo?.

    – Fedro? Cosa ci fai nel mio sogno?.

    – Tu sai che siamo in un sogno?

    – Perché, tu no?.

    Ora è davanti a lui. Sono fermi e si guardano. La gamba sinistra di Lorenzo sembra floscia, come se non avesse il giusto numero di ossa, e lui non ci appoggia sopra il peso del corpo, pur mantenendosi saldamente in equilibrio. Inoltre l’intera sua figura emana un’iridescenza che sembra provenire da altrove.

    – Perché hai detto che è il tuo sogno?.

    – È così. Qui è casa mia – fa lui indicando col braccio tutt’intorno. Poi posa entrambe le mani sui fianchi e con un fiero e goffo sorriso dichiara: – Io appartengo a questo posto.

    Fedro scuote la testa. – Non ti seguo.

    – No, infatti non puoi. – Lorenzo comincia a sfilarsi la t-shirt, poi i pantaloni, le mutande e le calze. C’è un sospetto di sfida nei suoi occhi mentre, completamente nudo, fissa Fedro. Quindi si volta verso il mare e senza preavviso comincia a correre, sempre zoppicando. In un secondo è dentro l’acqua.

    – No! – urla Fedro.

    Si è tuffato. Scompare sotto per una manciata di respiri, quelli che perde Fedro fissando l’acqua increspata. Riemerge scuotendo la testa con grandi raffiche di schizzi e comincia a nuotare scivolando sotto e sopra il pelo dell’acqua, con un’eleganza insospettabile che sfocia nella grazia. Fedro è convinto di sentirlo ridere. Si sveglia di soprassalto mangiando aria, un fischio nelle orecchie, e per un attimo il panico è quello dell’annegamento.

    Ologramma

    Fedro non vede né pensa a Lorenzo Bastiani da mesi. L’impegno con l’esperimento e l’euforia per la scoperta della Panthalassa hanno monopolizzato tutta la sua attenzione. Molti anni prima, tramite Stefan De Greef, aveva fatto amicizia con Pietro Bastiani, il padre, e con lui aveva condiviso la passione per la buona cucina; era diventato un cliente regolare del negozio di famiglia e lì conosciuto Lorenzo, verso cui aveva sentito presto una singolare forma di simpatia quando si era reso conto che il ragazzo era infestato da un tenace demone personale: il padre stesso, Pietro. Non si era mai intromesso nell’esasperata conflittualità tra loro due, anche perché non l’aveva mai capita, ma questo non gli aveva impedito di parteggiare segretamente per il giovane. Una complicità senza impegno, a distanza, forse un tributo alla propria infanzia, i cui ricordi non hanno mai smesso di ossessionarlo. Vedeva Lorenzo, il suo modo di resistere alle cattiverie del padre, alle sue plateali dichiarazioni di disistima, e gli sembrava di osservare all’opera un’arte marziale misteriosa e stoica, un aikido emozionale. Poi, due anni prima, Pietro era morto all’improvviso, e la famiglia Bastiani era crollata. La madre Fernanda era fuggita in un mondo remoto fatto di neurolettici e disturbo depressivo, e Lorenzo era rimasto identico a prima, come se il padre non fosse mai morto; o come se non fosse mai stato davvero vivo. La scomparsa di Pietro aveva rimosso un ostacolo della cui presenza Fedro non si era mai reso conto, e poco a poco aveva fatto amicizia con quel trentenne riservato e impenetrabile.

    Era cominciato tutto con un invito a cena nella villa di Monteschietto, quasi solo una formalità, ma la serata era scivolata via con un’inattesa piacevolezza ed era stato Fedro a insistere perché ne seguissero altre. Con Lorenzo, aveva presto scoperto, lui poteva essere un’altra versione di sé che ancora poco conosceva ma che gli pareva interessante, indispensabile perfino. Le serate erano diventate un rituale d’amicizia, due o tre volte l’anno, sempre nella sua villa, sempre con ottimo vino, ottimo cibo e qualcosa di intrigante da fumare.

    Prova a concentrarsi e a evocare la sua immagine mnemonica mentre è sotto la doccia, una volta tornato a casa. Ecco il suo viso lungo, i capelli castani molto corti, gli occhi grandi che sottopongono il mondo intero a uno scrutinio di cui esso non saprà mai, la bocca quasi sempre incernierata, le labbra spesso tirate in un abbozzo di sorriso, che più che allegria pare esprimere il desiderio di non esserci. Di trovarsi altrove. Per Pietro, Lorenzo era uno sempre con la testa fra le nuvole. Ora Fedro riflette per la prima volta sulla possibilità che, nella sua rozzezza, il vecchio amico avesse catturato una reale caratteristica del figlio, pur fraintendendone l’origine. La testa di Lorenzo, più che tra le nuvole, sembra arenata nella direzione opposta, in basso. Molto in profondità. Chiude l’acqua e resta immobile, perché gli serve tutto il silenzio possibile per concentrarsi su quel pensiero in transito e non deve farselo sfuggire. Un collage di impressioni prende forma nella sua memoria potenziata, un mosaico dotato di una stupefacente coerenza in cui ogni più piccolo tassello mnemonico di Lorenzo risuona di un unico tema, e quel tema è un’emozione impossibile da definire. Una sensibilità per ciò che è profondo, abissale. Tutto ciò non avrebbe senso, se non fosse che è proprio lì che lui lo ha appena incontrato. Giù nell’abisso. – Accidenti – esclama mentre lo shampoo gli brucia negli occhi. Deve parlarne con qualcuno, che gli dia una mano a scovare il senso di quel non senso. Ma Terraneo è a Ischia come sempre, e Sanya chissà dove. L’unica alternativa è andare da Asor. Esce dalla doccia, afferra un asciugamano e corre in camera cercando con gli occhi l’orologio sul comodino. A quell’ora ogni sessione dev’essere ormai conclusa, nel peggiore dei casi lo troverà che dorme, lo tirerà giù dal letto e lo costringerà ad ascoltare quello che gli è successo.

    Dalla Strada vicinale della Macina riprende la provinciale e la risale a velocità sostenuta, impaziente di arrivare a destinazione. Pochi minuti dopo sbocca in Piazza dei Mestieri con un po’ troppa baldanza, e infatti un paio di ragazzi, seduti sul bordo della fontana seccata, alzano lo sguardo dalle bottiglie di birra con aria di rimprovero. Lui scala la marcia e pesta il freno per immettersi in una rotatoria che abbandona alla seconda uscita, ritrovandosi in via dell’Imbrecciata; trecento metri dopo passa davanti alla sede della polisportiva, dove vent’anni prima era rinata Cafrissa, e si lascia trasportare dall’onda dolce di quel ricordo. Rallenta ancora, accende la climatizzazione e osserva il complesso a un solo piano che ospita le attività sportive della città. La palestra è l’edificio più alto; vista dalla strada, sembra un hangar per aerei da turismo.

    – Qui – mormora come se parlasse a un passeggero immaginario. – È cominciato tutto qui.

    Cominciò a via dell’Imbrecciata 100, nel 2001, due mesi dopo il secondo scioglimento del comune di Cafrissa per bancarotta. Era subentrato un commissariamento parassitario ma del tutto assente, e il territorio abbandonato dalle istituzioni finì sotto il controllo delle mafie. Gli spazi vuoti vengono riempiti.

    Quando chiese di parlare in via non ufficiale ai rappresentanti non ufficiali della cittadinanza, in molti lo ignorarono. Ma a quel tempo Fedro aveva già passato metà della sua vita in giro per il mondo e conosciuto più persone di quante ne ospitasse Cafrissa. Aveva imparato a piantare nella testa della gente il seme della curiosità e del dubbio. E quella non era semplicemente gente, ormai era la sua gente. Li conosceva da quasi dieci anni, è lì che aveva deciso di fermarsi per dare inizio alla parte finale della sua vita. Voleva bene a ognuno di loro. Per un anno e quattro mesi lavorò alla creazione della sua proposta non politica prima di viaggiare fino in Germania, a chiedere a Koymander un po’ della sua cecità.

    Nessuno aveva mai avuto un’ambizione del genere prima d’allora. Questo era stato il responso del maestro. Per Koymander il passaggio all’invisibilità doveva rimanere una faccenda individuale. Fedro, però, nel suo andare in giro per il mondo riteneva di aver acquisito certe conoscenze. Lo studio delle forme, i meta-metodi. Il vecchio tedesco era rimasto colpito non tanto dalla sua sicurezza o dal suo curriculum – i meta-metodi glieli aveva insegnati lui, in fondo – ma dall’enormità del campionario dei futuri possibili, se Fedro avesse deciso di intraprendere quella strada. C’erano così tante cose che potevano andare storte, che alcune di queste avrebbero potuto innescare futuri anche migliori delle migliori intenzioni del suo allievo. Effetti a catena e a onda su scale indefinite. Ma Fedro aveva cercato Koymander per un motivo, per la sua capacità di vedere come il presente poteva rifrangersi attraverso il prisma del futuro. Se Fedro sapeva, Koymander vedeva. Era cieco dalla nascita, e forse proprio per quello vedeva. Lui però non gli aveva dato la risposta che cercava. Non gli aveva dato alcuna risposta. Koymander il veggente non poteva vedere. E naturalmente dava la colpa di questo a Fedro. Era la scala stessa del progetto che squadernava un ventaglio troppo ampio di futuri. – Sarebbe come un Big Bang da cui interi nuovi livelli di realtà potrebbero emergere.

    Realtà che si propagano e interferiscono tra loro come onde. L’unica cosa che si poteva fare era cavalcare queste onde. Allora, era stato il ragionamento di Fedro, se si introduce il giusto prisma nel flusso del presente in modo da generare l’onda desiderata, poi la si può cavalcare e dirigere. Gli era piaciuta l’immagine di sé stesso a cavallo di un’onda di luce creata dal prisma nella sua mano, faceva un po’ barone di Münchhausen, e l’idea che un giorno tutto potesse andare a puttane non l’aveva infastidito più di tanto.

    Scoprì che Cafrissa non vedeva l’ora di cambiare luce. Erano terrorizzati, e il terrore può generare grandi slanci di massa. I cafrissiani avevano sviluppato una vera e propria repulsione per i capi. Nella storia della città, qualunque autorità si fossero ritrovati sopra le teste non aveva fatto altro che torchiarli e succhiargli via la vita e la forza. Avevano voglia di sentirsi dire che si può fare a meno dei capi, sebbene temessero che il pifferaio magico alla loro porta promettesse di liberarli solo per poi farsi re. Quel che invece non volevano sentirsi dire era che il capo che dovevano odiare e spodestare si trovava dentro di loro. Così come dentro di loro c’era l’indesiderabile, il reietto e l’inadatto che odiavano e respingevano. Nell’idea di collettività proposta da Fedro, ogni individuo era un ologramma dell’intero corpo sociale, il singolo conteneva l’intera comunità, la comunità si ritrovava nel singolo, e se questo re-framing aveva luogo poteva avviarsi un circolo virtuoso generatore di fiducia. Tornava a essere possibile fidarsi del gruppo perché nel gruppo ognuno vedeva rappresentate tutte le parti di sé e poteva negoziare con esse. La verità sconvolgente che ne consegue è di una semplicità pari alla sua potenza: nessuno sta bene se qualcuno non sta bene. La prospettiva olografica lo richiede. Un pezzo del corpo sociale che soffre è un pezzo del mio corpo fisico che soffre, e viceversa. Di fronte a questa ovvietà, ogni differenza di status sociale si dissolve e l’ologramma permette di vedere la radiosa verità: non solo siamo tutti uguali, ma lo siamo sempre stati.

    Erano neppure cento rappresentanti familiari, stipati dentro la palestra di basket della polisportiva, riunitisi quasi di nascosto dalle forze dell’ordine e dai loro stessi vicini. I notabili di Cafrissa: piccoli commercianti, coltivatori diretti, qualche libero professionista, due o tre imprenditori, un ex-calciatore di serie A, un prete e una poetessa. Col discorso dell’ologramma Fedro li conquistò tutti, anche se per molti il passaggio successivo fu difficile da mandare giù, quantomeno all’inizio. Riguardava il denaro.

    Dovevano smettere di pensare al denaro come avevano sempre fatto, disse Fedro. Un salto difficile, ma loro erano pronti a spiccarlo perché l’idea della fiducia era ormai germogliata in loro. E quando si resero conto che in un mondo perfetto il denaro è solo un indicatore della fiducia nella collettività, cominciarono anche a pensare che non fosse più tanto utile. Ora esisteva un modo alternativo di tenere sotto controllo la valuta della fiducia. E poi erano quasi tutti sull’orlo della povertà, e un po’ alla volta si convinsero che, se davvero avevano il terrore dei capi, era il denaro che dovevano odiare per primo.

    Meno di due anni dopo l’incontro nella palestra, la città cominciò a usare gli euro solo per gli scambi con il mondo esterno. Il denaro era diventato un telo mimetico: il resto d’Italia e d’Europa vedeva solo i soldi che quelli erano ben contenti di pagare. Erano il loro inchiostro di seppia. Dietro il denaro, non visti dai contabili del mondo, gli uomini e le donne di Cafrissa ricreavano la loro città senza che nessuno mettesse il naso o interferisse. E senza bisogno di soldi. Per Fedro quelli furono gli anni migliori, i suoi più felici.

    L’ultima traversa a sinistra è via Migliocco. Ora che è sotto casa di Asor, la voglia di salire da lui è scomparsa. Adesso non sta andando dal giovane strano e brillante, ma da una persona che due anni fa non conosceva. Va a parlargli di Lorenzo. Malgrado l’affetto, a volte guardare Asor negli occhi è un’impresa. È come guardare l’altra faccia della Luna. L’Asor alla cui porta sta per bussare è l’Asor che puzza e vive nell’incuria; l’Asor a cui nessuno sa cosa sia capitato prima di finire a Cafrissa, neppure Fedro. Soprattutto l’Asor che, a differenza degli altri ventisette palombari, ha deciso di costruirsi in casa la camera della paura.

    Scende dall’automobile e guarda in alto. Al terzo piano di quella palazzina un po’ squallida, la quarta finestra. Lì c’è la stanza dei ragni.

    Theraphosa Blondi

    Stiamo precipitando nel nostro passato archeopsichico, riscoprendo gli antichi tabù e gli istinti primordiali rimasti sopiti per migliaia di anni. Il pensiero della brevità della singola vita umana è fuorviante. Ognuno di noi ha la stessa età dell’intero regno biologico e il nostro flusso sanguigno è immissario dell’immenso oceano della sua memoria collettiva.

    J. G. Ballard, Il mondo sommerso

    La porta di casa è socchiusa. Senza fare il minimo rumore Fedro entra e il suo olfatto registra subito l’addensarsi dell’aria viziata, oltre a un lontano residuo di cenere di camino. Il corridoio inizia nel buio e termina qualche metro più in là in un’aura di luce calda che trabocca dall’ingresso del salottino. – Vieni, vieni – lo esorta una voce acuta ma appena udibile. Lui chiude la porta, percorre il corridoio ed entra nel soggiorno. Asor è seduto a gambe incrociate sul divano logoro. Indossa un pigiama sbiadito e lo guarda con la testa lievemente piegata in avanti. – È successo qualcosa?.

    Fedro raggiunge l’unica poltrona e si siede. – No, no, va tutto bene. Dormivi?.

    L’altro liquida la cosa con una mezza alzata di spalle. – Hai sete?.

    Sul tavolino in mezzo a loro ci sono due bottiglie di birra vuote, un piatto con dei noccioli di pesca, tre o quattro libri tascabili impilati, uno svuotatasche di vetro pieno di monetine e un quaderno con la copertina in finta pelle e una matita chiusa dentro, a mo’ di segnalibro. – Grazie, sono a posto.

    – Beato te. Con questo caldo io bevo come un cammello. – Asor resta in silenzio a guardarlo, e Fedro prolunga quel silenzio per qualche secondo ancora. Osserva gli scaffali con le pile disordinate di compact disc e di riviste scientifiche, i buffi soprammobili fatti di pietre o rametti.

    – Com’è andata la sessione? – chiede quando sente di non poter più tollerare il suo sguardo muto.

    Il padrone di casa abbassa gli angoli delle labbra in un’espressione di sufficienza, e subito il viso riprende la sua forma impassibile, che in molti a Cafrissa trovano difficile da tollerare. Fedro si sistema meglio nella poltrona che scricchiola sotto il suo peso, e scopre che in quel momento avrebbe bisogno di un Asor un po’ più incline alle quattro chiacchiere. Ora che sta davanti a quegli occhi chiari e inerti l’idea di raccontare quanto gli è successo in sogno non gli sembra più tanto buona. Ormai però è lì e tanto vale andare fino in fondo. Terminato il resoconto, il suo ospite si prende qualche secondo di quieta riflessione e poi inizia a parlare, la voce lenta e le mani immobili raccolte in grembo.

    – Ovviamente, se sei venuto fin qui per raccontarmi questo episodio è perché non credi che sia un sogno. Intendo dire, non credi di aver avuto una regressione.

    Una regressione è un fatto noioso che può compromettere l’intera sessione di discesa per un palombaro. Il soggetto perde lucidità e finisce in balia del sogno smarrendosi dentro di esso. Di norma capita quando si è inesperti; ha a che vedere con un rapporto ancora non consolidato con la propria fobia e infatti uno dei segni rivelatori è la ricomparsa dell’oggetto fobico.

    – Ovviamente.

    – Ma come è possibile esserne sicuri? L’onironautica non è una scienza esatta, anzi, non è proprio una scienza, e quel che facciamo noi è un po’ come cercare di uscire da un labirinto a tentoni, dopo esserci bendati. Facciamo le regole man mano che procediamo, e l’unica bussola che possediamo è una paura che crediamo di poter manipolare come se fosse uno strumento di nostra invenzione. Non è così. La metafora migliore che mi viene in mente è un cavallo indomabile. Ci saliamo in groppa e siamo convinti che ci porterà dove vogliamo, ma la verità è che ci porta dove vuole lui, dentro questo labirinto che nessun cartografo potrà mai mappare. In breve, non abbiamo il controllo né del mezzo né del luogo. Eppure, dopo una manciata di discensioni siamo già impazienti di produrre certezze, di stilare regole e protocolli.

    – Non era una regressione – ribadisce Fedro irritato.

    Asor sorride, gli punta un dito contro. – Ecco, lo vedi? Neppure l’ombra del dubbio. Io invece sono pieno di dubbi.

    – Ah sì? E perché?

    – Perché a me è toccato il fardello della conoscenza tecnica. Io so. Più sai, più sei braccato dall’incertezza e cominci a farti domande che vorresti non avessero mai sfiorato i tuoi pensieri. Per esempio, ultimamente continuo a chiedermi se sia possibile che il cavallo possa scappare dal recinto. O meglio, dal labirinto.

    – Non ti seguo.

    – Cento miliardi di neuroni creano network così complessi che bisogna superare le tre dimensioni per poterli rappresentare. Serve la topologia algebrica – ed è qui entro in gioco io – per riuscire a descrivere le architetture fino a undici dimensioni che i neuroni riescono a creare. Un palombaro è capace di individuare un singolo percorso multidimensionale e percorrerlo tutto. Lo fa perché un livello di organizzazione sempre presente in ogni architettura è quello della paura. Finché lui resta aggrappato alla sua fobia riesce a evitare i trilioni di bivi e ramificazioni che lo porterebbero fuori strada. Ma i neuroni che si attivano insieme rafforzano la loro connessione, e questa legge vale per ogni livello strutturale, che sia a tre o a sette o a dieci dimensioni. A ogni discesa attiviamo sempre le stesse configurazioni e così rinforziamo la memoria neurale della nostra fobia, però lo facciamo artificialmente, in un certo senso. Quella di un palombaro non è attività onirica libera. Noi forziamo i nostri sogni a imboccare ripetutamente il tunnel del terrore.

    Fedro sbuffa. – Arriva al punto.

    Lui gonfia le guance e diventa quasi comico, col suo viso già tondo di suo, imberbe, la pelle spessa dai pori grossi come nei, i capelli lunghi dietro e la fronte un po’ bombata, vasta e lucida. – Insomma… chi ti dice che quel sentiero ben battuto alla fine non verrà preso anche fuori dalle sessioni di sogno lucido?

    – Arriva al punto.

    – Quel che sto cercando di dire è che la paura è un cordone trasversale, attraversa mondo sveglio e mondo dei sogni. Le cose potrebbero in teoria andare nei due sensi. Non abbiamo abbastanza dati per escludere l’ipotesi che la memoria neurale sedimentata durante le discensioni possa rimanere attiva… o addirittura riattivarsi dopo il risveglio.

    Fedro è convinto di aver capito male. – E cioè?

    – Cioè… non lo so, che i nostri sogni normali potrebbero finire infestati dalle fobie ancestrali.

    – In quel caso ci tornerebbe utile l’addestramento col sogno lucido. Un bravo onironauta è capace di tenere pulito il proprio giardino dei sogni. Francamente, Asor, non sono sicuro di capire cosa…

    – Okay, senti, e se non fosse solo il giardino dei sogni a insozzarsi? Se fosse anche la vita sveglia?

    Fedro si alza in piedi. – Queste sono cazzate e tu lo sai.

    – Io non so quasi nulla. Infatti mi faccio domande e mi dispiace se ti ho turbato…

    – Non sono turbato, ero venuto qui a chiederti un parere tecnico su tutt’altra…

    – …Come puoi essere sicuro che non succederà mai… che non ti sveglierai mai nel tuo letto con la sensazione che una Barbie, un Pinocchio o… o un Thunderbird appeso nella tua stanza della paura ti abbia seguito fino in camera? Una sensazione la cui sgradevolezza non è attenuata dal sapere che non è reale.

    – Che cosa…? Ma perché, è mai successo a te? A chiunque dei palombari?

    – No, ma questo non…

    – Allora lascia perdere. Non capisco di cosa stiamo parlando.

    – Io sto parlando del fatto che non ci sono punti fermi assoluti. Ma tu sembri venuto qui da me in cerca proprio di qualcosa del genere. Bene, l’unica certezza che posso darti in questo caso si chiama regressione. Tu però la rifiuti, e allora non mi resta che dirti quello che vuoi sentirti dire, ossia che il tuo amico Lorenzo in realtà è un onironauta involontario capace di spingersi oltre il confine di spersonalizzazione. A me sembra più assurdo questo, rispetto al mio discorso sul cavallo indomabile, però le mie sono cazzate.

    – Io non voglio sentirmi dire niente – obietta Fedro con poca convinzione.

    – E allora che cosa vuoi, esattamente?.

    – Okay, okay. – Alza una mano, il palmo rivolto al suo interlocutore nel gesto universale di resa. – Io so che non era solo un sogno. Ma capisco che dal tuo punto di vista quel che io dico di sapere non conta più di tanto.

    – Scusa, ma se tu volevi un parere tecnico io…

    – Lo so. – Fedro ripete il gesto con più enfasi. – Forse ero davvero turbato. Non da quello che hai detto tu, ma proprio da ciò che mi è successo. È una certezza che… – Si porta entrambe le mani al viso, sentendosi d’un tratto molto stanco. – Lascia perdere. Perdonami se ti ho…

    – Non ci pensare. Sai cosa?. – Si alza di scatto e sale in piedi sul divano, sovrastandolo. Allarga le braccia. – Io vado a prendere altre due birre. Magari una la vuoi tu.

    – Ma sì. Una bella birra gelata… in effetti sto morendo di caldo. Vado un attimo in bagno a darmi una rinfrescata.

    – Fai pure – replica il padrone di casa andando in cucina.

    La porta del bagno è di fianco a quella dello studio, che però non è più lo studio ormai da mesi. Fedro posa la mano sulla maniglia e l’abbassa, convinto che sia chiusa a chiave e invece la porta si apre con un lieve scricchiolio. Tasta il muro alla sua destra in cerca della luce, fa scattare l’interruttore e due faretti sul soffitto si accendono illuminando l’unica stanza della paura che contiene esseri viventi.

    Movimenti multipli lungo i muri, rapidi e furtivi. Decine di ragni disturbati dalla luce schizzano a ripararsi dietro i rami dentro le piatte teche di vetro che coprono integralmente tre delle quattro pareti, dal pavimento fino al soffitto. Ognuna di esse è un diorama e un microcosmo, allestito e curato da alcuni volontari che periodicamente lo riforniscono di insetti attraverso gli appositi sportelli. Fedro osserva i lenzuoli di ragnatela gravidi di prede catturate, imbozzolate, parzialmente mangiate, coi loro creatori rintanati dentro imbuti di seta, in attesa paziente. Il fondo delle teche è coperto da uno strato di terra alto una quarantina di centimetri, dentro cui sono piantati lunghi grovigli di rami di albero, parti di arbusti e di rampicanti fissati ai muri in modo da simulare un ambiente naturale in cui gli aracnidi possano vivere e cacciare e terrorizzare. Al centro dell’ampio locale c’è la vasca di deprivazione sensoriale, col suo consueto apparato di macchinari di monitoraggio. Assicurata al soffitto con degli stop incombe la riproduzione di una tarantola fatta di legno di balsa, tubi di plastica e ricoperta da una fitta peluria sintetica. È così grande da coprire tre quarti del soffitto, circa quattro metri. Fedro non è aracnofobo ma i ragni non gli sono mai piaciuti. Detesta la loro bruttezza preistorica, il modo scorretto

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