Professioni - Willem Tousijn

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Professioni
Enciclopedia delle scienze sociali - stampa

di Willem Tousijn

di Willem Tousijn

Professioni

sommario: 1. Introduzione. 2. Prospettive economiche. 3. Le professioni nei sociologi classici. 4.


La teoria funzionalista. 5. Il processo di professionalizzazione. 6. Le critiche alla teoria
funzionalista. 7. L'approccio dell'interazionismo simbolico. 8. Le analisi neoweberiane. 9. Il
dibattito sulle tendenze. 10. Le nuove sfide. Bibliografia.

1. Introduzione

Nel linguaggio corrente il termine italiano 'professione', cos come il suo equivalente francese,
viene usato assai spesso in senso generico per indicare una qualunque occupazione lavorativa.
Talvolta, tuttavia, lo stesso termine e i suoi derivati (professionista, professionale, e cos via)
vengono caricati di un significato pi ristretto ed esclusivo, con la precisa intenzione di
distinguere una 'professione' dalle altre generiche occupazioni e in particolare dai 'mestieri'.
Questo processo di attribuzione di un significato esclusivo, che tende a individuare le
'professioni' come un sottoinsieme dell'insieme 'occupazioni', ha condotto nella lingua inglese
alla distinzione tra profession e occupation.
Secondo Carr Saunders e Wilson (v., 1954), il termine profession compare in Inghilterra nel XVI
secolo, a designare l'attivit lavorativa nei tre campi della teologia, del diritto e della medicina.
Le lingue del mondo antico, che pure conosceva le figure del sacerdote, del giurista e del medico,
non possedevano un termine corrispondente. Ci si pu spiegare con le trasformazioni che
l'esercizio delle tre attivit subisce nel corso del Medioevo, in particolare con la nascita e lo

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sviluppo di una nuova istituzione sociale: l'universit. Nelle tre facolt superiori di teologia, legge
e medicina i candidati alle tre professioni subiscono un processo di formazione prolungato e
formale che conferisce loro non soltanto e non tanto un patrimonio di conoscenze specialistiche
(all'epoca relativamente ristretto e di dubbia validit ed efficacia, almeno in medicina), quanto
una cultura generale di carattere elitario. Se si tiene presente l'assoluto predominio della Chiesa
sulla cultura dell'epoca, ben espresso dalla prescrizione per studenti e professori universitari di
prendere almeno gli ordini minori, si comprende come l'esercizio di queste attivit tendesse
quasi a confondersi con la 'professione' della propria fede.
Con il processo di secolarizzazione che investe il mondo della cultura e le universit il termine
'professione' perde progressivamente i suoi connotati religiosi, ma mantiene un significato
elitario ed esclusivo con il quale penetra, nel corso del XIX secolo, nel nascente sistema
capitalistico, subendo contemporaneamente un'estensione a nuove occupazioni. Questo
passaggio pone innanzitutto il problema della continuit ovvero della discontinuit
nell'evoluzione di lungo periodo delle professioni, questione assai discussa da storici e sociologi
(in genere su fronti contrapposti), sulla quale torneremo pi avanti. Ma esso solleva anche altri
interrogativi importanti: quali sono le occupazioni che vengono definite come 'professioni'? In
qual modo nasce e si sviluppa il fenomeno dell'attribuzione di uno status elitario ed esclusivo?
Il punto da spiegare non soltanto la posizione elevata che le professioni occupano nella scala
del prestigio sociale. Il loro esercizio regolato dallo Stato con meccanismi diversi da quelli delle
altre occupazioni. In Italia ci particolarmente evidente: gli articoli 2229 e seguenti del Codice
civile (raccolti sotto il titolo Delle professioni intellettuali) nonch una serie di leggi
specificamente dedicate a una o pi professioni ne determinano le condizioni di esercizio, a
cominciare dall'obbligo di iscrizione in albi o elenchi tenuti da ordini e collegi professionali. La
prima legge di questo tipo, relativa alla professione forense, risale al 1874. Attualmente (1995)
sono una trentina le professioni cos regolate. Tra di esse troviamo medici e ostetriche, notai e
consulenti del lavoro, geometri e biologi, giornalisti e maestri di sci, fino ai recentissimi
'tecnologi alimentari'. Alcune sono professioni molto ristrette, nelle quali gli iscritti agli albi sono
poche centinaia (attuari, agenti di cambio), ma altre contano decine o centinaia di migliaia di
praticanti. In totale gli iscritti agli albi sono (all'inizio degli anni novanta) oltre 1.100.000, pari a
circa il 5% della popolazione attiva. Numerose sono le occupazioni che premono per ottenere dal
Parlamento un analogo riconoscimento: amministratori di condominio, tecnici di laboratorio,
interpreti, logopedisti, sociologi, ecc.
Anche questo fenomeno (l'intervento regolativo dello Stato) richiede di essere descritto e
spiegato. I giuristi hanno ampiamente discusso la peculiare natura giuridica delle professioni
intellettuali (v. Piscione, 1959; v. Lega, 1974; v. Catalani, 1976; v. Rossi, 1979), ma dal punto di

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vista sociologico sorgono numerosi interrogativi. Quali sono le reali funzioni svolte dagli ordini e
dai collegi professionali? Come mai alcune occupazioni ottengono questa forma di
riconoscimento statale, mentre altre (la maggioranza) ne sono escluse? Quali differenze esistono
nei meccanismi regolativi adottati nei diversi paesi? Quali effetti sociali ed economici sono
generati da tali meccanismi regolativi?

2. Prospettive economiche

Le difficolt che le professioni sollevano per l'analisi economica emergono gi nell'opera di Adam
Smith. La ricchezza delle nazioni, pubblicata nel 1776, contiene una critica dei monopoli
occupazionali, considerati come ostacoli al libero movimento della forza lavoro. Curiosamente
tale critica, diretta principalmente contro le corporazioni e contro l'istituto dell'apprendistato,
non si estende alle professioni. Nel caso dei medici e degli avvocati le restrizioni all'accesso e le
limitazioni della concorrenza sono considerate necessarie per assicurare ai professionisti
ricompense adeguate alla delicatezza delle loro funzioni e alla fiducia che i clienti ripongono in
loro. "Noi affidiamo la nostra salute al medico, la fortuna e talvolta anche la vita e la reputazione
all'avvocato e al procuratore. Tanta fiducia non si potrebbe sicuramente riporre in persone di
condizione bassa o vile" (v. Smith, 1776; tr. it., p. 104). Viene cos individuato da Smith (ma non
sviluppato) un tema che sar analizzato a fondo solo molto pi tardi: quello della fiducia,
necessaria affinch le relazioni di mercato, almeno in alcuni settori (i servizi professionali),
possano funzionare.
Meno riguardi di Smith hanno avuto per le professioni gli economisti liberisti contemporanei. In
loro l'avversione per ogni forma di limitazione della concorrenza e di restrizione nell'accesso alle
occupazioni coinvolge esplicitamente anche le professioni. Gi negli anni quaranta una rigorosa
analisi condotta negli Stati Uniti da Milton Friedman e Simon Kuznets (v., 1945) pone a
confronto i redditi dei professionisti con quelli dei non professionisti e dimostra empiricamente
che la posizione privilegiata dei primi da ricondursi all'azione di due potenti fattori di
distorsione del mercato: i meccanismi di abilitazione professionale e le discriminazioni
nell'accesso agli studi (costo elevato, disponibilit di informazioni e di reti sociali adeguate).
Anche senza sposare la posizione estrema di Friedman, favorevole a una totale abolizione delle
leggi di abilitazione, non sono pochi gli economisti che ritengono che gli interessi dei clienti
sarebbero meglio tutelati attraverso l'indebolimento dei monopoli professionali.

3. Le professioni nei sociologi classici

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I padri fondatori della sociologia dedicarono scarsissima attenzione alle professioni. Nonostante
la conclamata centralit del concetto di divisione del lavoro nelle loro analisi del sistema
capitalistico, l'aspetto specifico della divisione del lavoro tra occupazioni appare trascurato. Con
il procedere dello sviluppo capitalistico la grande maggioranza dei lavoratori si trova a prestare il
proprio lavoro in grandi organizzazioni, private o pubbliche, nelle quali la divisione del lavoro
governata dal principio burocratico-amministrativo ed espressione del potere del management.
I concetti proposti per descrivere e interpretare questo fenomeno, come quello di classe sociale
(Marx) e quello di burocrazia (Weber), lasciano nell'ombra le professioni.Apparentemente mile
Durkheim si differenzia su questo punto dagli altri due grandi padri della sociologia: nei suoi
lavori le professioni occupano un posto rilevante, in particolare nella Prefazione alla seconda
edizione de La divisione del lavoro sociale, pubblicata nel 1902. Egli muove dalla constatazione
che, dopo un secolo di sviluppo capitalistico e di progresso continuo della divisione del lavoro,
"lo scatenarsi degli interessi economici stato accompagnato da una rilassatezza della morale
pubblica. [...]
dunque di estrema importanza giungere a una regolamentazione, a una moralizzazione della
vita economica, in modo che i conflitti che la travagliano possano terminare e gli individui
possano smettere di vivere in un vuoto morale, nel quale si indebolisce la loro stessa moralit
individuale" (v. Durkheim, 1950; tr. it., p. 34). Il rimedio a questa situazione non pu essere
trovato nello Stato, troppo distante dalle attivit sempre pi specialistiche di una divisione del
lavoro complessa, ma pu venire dallo sviluppo delle corporazioni professionali, in grado di
fornire, attraverso la loro morale professionale, "un vero e proprio decentramento della vita
morale".Accenti simili ritroviamo nell'opera di Richard H. Tawney in Inghilterra. Egli auspica
che l'attivit industriale possa diventare una professione, in quanto quest'ultima costituita da
"un corpo di persone che portano avanti il loro lavoro secondo certe regole volte a proteggere gli
interessi della comunit" (v. Tawney, 1921; tr. it., p. 120). N in Durkheim n in Tawney, tuttavia,
possiamo trovare un'analisi storica, empiricamente fondata, del ruolo delle professioni nei loro
paesi ai loro tempi. Nulla sappiamo, dalle loro opere, su quanti fossero e cosa facessero medici,
avvocati, architetti, ingegneri e gli altri professionisti inglesi e francesi dell'epoca.

4. La teoria funzionalista

Occorre arrivare agli anni trenta per veder apparire sia il primo studio empirico di ampia portata
sulle professioni (v. Carr Saunders e Wilson, 1933), sia i primi contributi a quella che diventer
una vera e propria teoria delle professioni (v. Parsons, 1939).Lo studio di Carr Saunders e Wilson
ricostruisce l'evoluzione storica di ben 22 professioni inglesi e si pone quindi, sul piano empirico,

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come riferimento obbligato per gli studi successivi. Sul piano teorico esso risente dell'influenza
di Tawney e contribuisce a diffondere quell'immagine apologetica delle professioni che
emergeva, allora, dalle prime ricostruzioni storiche commissionate dalle associazioni
professionali o scritte da qualche illustre esponente anziano di una qualche professione.La teoria
funzionalista delle professioni, cos come emerge da vari contributi di Talcott Parsons, Bernard
Barber, William J. Goode, costituisce una delle applicazioni pi sviluppate e coerenti dello
schema teorico di base della scuola funzionalista. Essa concepisce le professioni come
occupazioni orientate al servizio, che applicano un corpo sistematico di conoscenze a problemi
che sono altamente rilevanti per i valori centrali della societ, come la salute e la giustizia.
L'elevato grado di competenza scientifica necessario per esercitare le professioni solleva un
problema speciale per il funzionamento equilibrato della societ: il cliente non in grado di
giudicare la qualit della prestazione del professionista, e spesso non nemmeno in grado di
fissare obiettivi precisi e concreti al lavoro che gli richiede.
Questa asimmetria della relazione produttore-consumatore particolarmente pericolosa per
l'equilibrio complessivo della societ, data la natura dei valori e degli interessi in gioco: "poich
la conoscenza generalizzata e sistematica procura un potente controllo sulla natura e sulla
societ, importante per la societ che tale conoscenza sia usata principalmente nell'interesse
della comunit" (v. Barber, 1963; tr. it., p. 96).La soluzione a questo problema trovata in un
duplice meccanismo: da un lato l'orientamento al servizio (o alla comunit) che animerebbe le
professioni, assicurato attraverso un particolare processo di socializzazione al quale sarebbero
sottoposti i candidati all'esercizio delle professioni stesse; dall'altro il controllo formale e
informale esercitato dalla comunit dei colleghi, soprattutto attraverso i codici etici. In cambio la
societ garantisce ai professionisti vantaggi e privilegi, quali un reddito e un prestigio sociale
elevati, e protegge l'autonomia delle professioni dalle interferenze dei 'laici' (v. Rueschemeyer,
1964).
Cos come stata esposta, l'analisi funzionalista delle professioni pu essere ricondotta alla
teoria funzionalista della stratificazione sociale, di cui costituisce un caso speciale: il meccanismo
di controllo e di ricompense sociali pu essere considerato come uno dei meccanismi della
stratificazione sociale, concepita come strumento attraverso il quale le societ si assicurano che
le posizioni sociali pi importanti siano responsabilmente occupate dalle persone pi qualificate.
Anche la ben nota analisi di Parsons del rapporto medico-paziente (v. Parsons, 1951, cap. X),
costituisce una puntuale applicazione dei concetti propri della teoria funzionalista: "La salute
inclusa tra i bisogni funzionali del singolo membro della societ per cui, dal punto di vista del
funzionamento del sistema sociale, un livello generale di salute troppo basso, cio un'alta
incidenza di malattia, risulta disfunzionale. Ci deriva in primo luogo dal fatto che la malattia

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rende incapaci a svolgere efficacemente i ruoli sociali [...]


La professione medica costituisce un meccanismo del sistema sociale per far fronte alle malattie
dei suoi membri [...], organizzata sulla base dell'applicazione della conoscenza scientifica ai
problemi della malattia e della salute, cio al controllo della malattia" (ibid.; tr. it., pp. 438 e
440).Non manca, nei teorici funzionalisti, la considerazione dell'aspetto dinamico del fenomeno
professionale. Lo sviluppo di nuovi livelli e nuovi tipi di conoscenza scientifica tende a far
crescere sia il numero dei professionisti, sia quello delle professioni e delle occupazioni che
aspirano a essere riconosciute come professioni. Ci induce Goode ad affermare che "una societ
che si industrializza una societ che si professionalizza" (v. Goode, 1960, p. 902) e Parsons a
considerare lo sviluppo delle professioni come il pi importante cambiamento avvenuto nel
sistema occupazionale della societ moderna (v. Parsons, 1968). Affermazioni, queste, che
saranno ampiamente sviluppate dai fautori delle teorie tecnocratiche e dell'avvento della societ
postindustriale (v. Bell, 1973).
Non sempre si riscontrano, nei lavori sulle professioni che possono essere ricondotti alla matrice
funzionalista, dei riferimenti precisi ed espliciti alla teoria esposta. Molto spesso tali lavori
iniziano distinguendo le professioni dalle altre occupazioni in base a un certo numero di attributi
(v. Greenwood, 1957). Ci ha indotto qualcuno a individuare un vero e proprio 'approccio per
attributi', meno astratto e pi descrittivo dell'approccio funzionalista. Il guaio che manca
l'accordo su quali e quanti debbano essere gli attributi tipici delle professioni. Geoffrey Millerson
(v., Dilemmas..., 1964), esaminando i lavori di 21 autori, ha messo insieme una lista di 23
attributi: nessuno di essi per accettato da tutti gli autori, e nessuna lista presentata da un
autore coincide con quella di un altro. A risultati simili giunge la rassegna di Marc Maurice (v.,
1972). Ma la lacuna pi grave di queste elencazioni di attributi che, a differenza di quanto
avviene nell'approccio funzionalista, raramente viene discussa la coerenza interna della lista,
ossia la relazione tra i diversi attributi, la loro importanza relativa, la loro diversa rilevanza
teorica (v. Johnson, 1972).

5. Il processo di professionalizzazione

La definizione del professionalismo come insieme di attributi speciali, nobilitata in chiave


funzionalista o meno, implica il riconoscimento del fatto che le differenze tra le professioni e le
altre occupazioni sono differenze relative: tutte le occupazioni sono collocabili su un continuum,
o su una scala di professionalismo, in base al grado relativo di possesso degli attributi speciali (v.
Barber, 1963). Ci conduce a definire alcune occupazioni, che possiedono soltanto parzialmente
gli attributi delle 'vere' professioni, come 'semiprofessioni' (v. Etzioni, 1969), oppure 'professioni

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marginali', o 'incomplete'. Non mancano neppure tentativi di quantificare il grado di


professionalizzazione di varie occupazioni mediante una scala costruita in base al possesso dei
diversi attributi speciali (v. Hall, 1968; v. Hickson e Thomas, 1969).Ma il riconoscere che il
professionalismo una questione di grado apre anche la strada, in una prospettiva diacronica,
all'idea che le singole occupazioni acquisiscano i diversi attributi del professionalismo in diversi
momenti nel corso della loro evoluzione storica. Diventa allora rilevante domandarsi se sia
rintracciabile una sequenza comune di fasi o stadi attraverso cui siano passate tutte le
professioni. Gi recepita da uno dei pi accreditati e diffusi manuali di sociologia del lavoro degli
anni cinquanta (v. Caplow, 1954), quest'idea viene portata al successo dal contributo di Harold
Wilensky, che ne fornisce una verifica empirica applicandola alla storia di ben diciotto
professioni americane. Secondo Wilensky il processo di professionalizzazione formato da una
successione di cinque fasi: comparsa di una certa attivit lavorativa come occupazione a tempo
pieno, istituzione di scuole di formazione specialistica, nascita di associazioni professionali (in
genere prima su basi locali, poi a livello nazionale), ottenimento dell'appoggio dello Stato a
protezione dell'attivit professionale (per lo pi una qualche forma di monopolio dell'attivit o di
protezione del titolo occupazionale), elaborazione di un codice etico formale. Nella storia delle
professioni "chiaramente riconosciute" dunque rintracciabile "una progressione costante di
eventi, un cammino lungo il quale esse hanno tutte viaggiato fino alla terra promessa del
professionalismo" (v. Wilensky, 1964; tr. it., p. 119).
L'analisi di Wilensky stata oggetto di una serie di critiche sul piano empirico come su quello
teorico. La sua impostazione rimane sostanzialmente di tipo funzionalista, e quindi soggetta alle
critiche dirette contro la teoria funzionalista, delle quali ci occuperemo pi avanti. Sul piano
empirico stato osservato che la sequenza da lui individuata sarebbe storicamente e
culturalmente specifica: non reggerebbe al di fuori degli Stati Uniti, e anche qui varrebbe
soltanto per alcuni gruppi di professioni ma non per altri (v. Goode, 1969; v. Abbott, 1988). In
realt la questione rimane aperta, perch la verifica empirica dell'ipotesi di Wilensky dipende da
come si rende operativa la sequenza di fasi, cio dipende da quali avvenimenti concreti
(istituzione di scuole professionali, associazioni e cos via) si vanno a cercare nella storia delle
professioni e da quale significato si attribuisce a tali avvenimenti. Questo ci conduce a una
obiezione teorica gi sollevata da Goode e ribadita da Abbott: se le fasi della
professionalizzazione vengono definite come una serie di 'primi eventi' (la prima scuola, la prima
associazione professionale, e cos via), si rischia di costruire sequenze che perdono di vista i
processi sociali pi complessi e profondi che determinano la professionalizzazione, le forze
nascoste di cui quegli eventi sono il prodotto visibile, nonch i soggetti sociali che promuovono e
quelli che ostacolano sia gli eventi sia i processi profondi. E ancora: Wilensky non spiega

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adeguatamente le ragioni per le quali le varie fasi si succedono in quel determinato ordine. Per
esempio, perch la nascita della prima scuola dovrebbe precedere quella della prima
associazione? Inoltre i suoi primi eventi confondono livelli geografici diversi: negli Stati Uniti
"non c' un'unica storia della professionalizzazione, ma almeno tre: una storia nazionale, una a
livello di Stato e una storia locale" (v. Abbott, 1991, p. 358). Non sempre gli eventi locali si
sommano fino ad assumere un rilievo nazionale.

6. Le critiche alla teoria funzionalista

Nel corso degli anni settanta la teoria funzionalista delle professioni viene sottoposta a una serie
di critiche, a partire dalle quali matura una vera e propria svolta teorica.L'attacco muove
dall'osservazione che la definizione di professione adottata dai funzionalisti, e ancor pi quelle
adottate nell'approccio per attributi, coincidono con la definizione che i professionisti stessi
forniscono della propria attivit. Le caratteristiche 'speciali' delle professioni, in realt, sono
espressione dell'ideologia dei membri delle professioni stesse e in particolare delle loro lites,
per le quali svolgono una funzione di legittimazione dei privilegi occupazionali. Viene
accuratamente smontata, in quanto non corrispondente alla realt della pratica professionale,
gran parte della mitologia professionale: la peculiarit della formazione ricevuta, la scelta della
professione come 'vocazione', l'altruismo e l'ideale di servizio alla societ, l'impossibilit del
cliente di valutare la prestazione professionale, la capacit delle professioni di autoregolarsi
attraverso i propri codici deontologici (v. McKinlay, 1973; v. Roth, 1974).
L'affermazione dell'ideologia professionale viene spiegata con la sua affinit con l'ideologia
dominante nelle societ borghesi: comune il riferimento a valori come l'individualismo, l'etica
del lavoro, l'eguaglianza delle opportunit, la libera iniziativa, l'armonia degli interessi.Il cuore
dell'analisi funzionalista viene attaccato contestando la validit e l'universalit di alcune
assunzioni.
La prima di queste l'assunzione, derivata dal rilievo che i funzionalisti attribuiscono
all'esistenza di valori condivisi per l'equilibrio della societ, che la conoscenza generale e
sistematica utilizzata dalle professioni sia di uguale valore per tutti i gruppi della societ. Una
seconda assunzione contestata che la societ possieda meccanismi tali da assicurare che i
depositari della preziosa conoscenza professionale siano misteriosamente imbevuti di spirito
comunitario, necessario a far s che essi la usino nell'interesse di tutti, e che questo spirito
comunitario sia sostenuto dalle elevate ricompense assicurate dalla societ stessa. Infine viene
contestata, in particolare a Parsons, una sopravvalutazione del grado in cui la razionalit domina
il contenuto della pratica professionale e le relazioni che il professionista instaura con i colleghi e

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i clienti. In sintesi, il grande limite della teoria funzionalista quello di non prendere in
considerazione le relazioni di potere esistenti nel fenomeno professionale (v. Johnson, 1972).

7. L'approccio dell'interazionismo simbolico

Negli anni cinquanta e sessanta, contemporaneamente alla diffusione dell'approccio per


attributi e della teoria funzionalista, si sviluppa un approccio alternativo che nasce proprio dal
rifiuto di accettare acriticamente l'immagine delle professioni presentata dalle professioni stesse.
Questo approccio, i cui fondamenti si trovano nei lavori di Hughes (v., 1958) e Becker (v., 1962),
non giunge fino alla formulazione di una vera e propria teoria delle professioni come quella
funzionalista, ma ricco di stimoli e suggerimenti fecondi anche per la ricerca empirica. Esso
riconducibile alla scuola sociologica dell'interazionismo simbolico, la cui prospettiva di studio
della societ, in contrasto con quella 'a camicia di forza' adottata dal funzionalismo, assume
come punto di partenza gli attori sociali e i processi attraverso i quali, nella reciproca
interazione, essi interpretano e definiscono la realt. Il termine 'professione', in questa
prospettiva, va considerato non come descrittivo ma come categoria della vita quotidiana, che
implica un giudizio di valore e di prestigio. Lo sterile dibattito che mira a definire il concetto di
professione va abbandonato, in quanto non si tratta di un concetto scientifico e neutrale, bens di
un folk concept: una parte del vocabolario disponibile ai membri dei vari gruppi sociali per
interpretare e definire la realt sociale.
Si comprende quindi come l'attenzione degli studiosi che si richiamano a questo approccio tenda
a concentrarsi su comportamenti e processi microsociologici. Tra le ricerche pi note ricordiamo
quelle sui processi di formazione e socializzazione professionale (v. Becker e altri, 1961; v. Lortie,
1966) e quelle sui complessi meccanismi di conflitto e di negoziazione che governano la vita
dell'ospedale, organizzazione nella quale interagiscono diversi gruppi, professionali e non
professionali (v. Strauss e altri, 1963). Di notevole importanza anche un contributo che ha
messo in luce il carattere segmentato delle professioni e la loro mancanza di unitariet interna
(v. Bucher e Strauss, 1961), il che contraddice la concezione delle professioni come comunit,
concezione sostenuta dalle professioni stesse e dai teorici funzionalisti (v. Goode, 1957).
L'approccio simbolico-interazionista, tuttavia, riusc solo a scalfire il predominio delle
prospettive di tipo funzionalista e tassonomico e rimase minoritario nello studio delle
professioni. Il suo limite maggiore, al di l delle riserve sull'uso sporadico e talvolta superficiale
dei dati empirici, risiede nella grave sottovalutazione del peso delle condizioni storiche e
strutturali sulla base delle quali si manifestano i processi di professionalizzazione.

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8. Le analisi neoweberiane

nel corso degli anni settanta che si delinea, sulla base di una serie di contributi non
esplicitamente collegati tra loro, un approccio alternativo che supera i limiti delle impostazioni
precedenti. L'aggettivo 'neoweberiani' usato per identificare questi contributi sta a indicare il
comune riferimento, diretto o indiretto, esplicito o implicito, al concetto di chiusura, con il quale
Weber definisce in Economia e societ il processo mediante il quale i concorrenti per
determinate opportunit economiche, per esempio i produttori di certi beni o servizi, formano
una "comunit di interessi" nei confronti dell'esterno e riescono a regolare a loro favore le
condizioni di mercato restringendo l'accesso dal lato dell'offerta. Riemerge con forza, quindi,
anche sull'onda del nuovo clima politico dell'epoca, la tematica dei monopoli occupazionali
sollevata per la prima volta da Adam Smith, mentre l'immagine positiva delle professioni
alimentata dalla teoria funzionalista lascia il posto a un'immagine negativa di gruppi corporativi
arroccati nella difesa dei loro privilegi economici e sociali.Gli elementi fondamentali del nuovo
approccio sono tre: l'accento sul carattere storicamente contingente del fenomeno professionale,
il recupero della tematica del potere, esclusa dai funzionalisti, e l'importanza attribuita alle
strategie dei soggetti collettivi, cio delle professioni stesse in quanto gruppi sociali organizzati. I
primi due elementi sono particolarmente sottolineati da Terence Johnson (v., 1972), secondo il
quale con lo sviluppo della divisione sociale del lavoro e l'emergere di competenze occupazionali
specializzate si vengono a creare nella societ relazioni sistematiche di interdipendenza, ma
anche di distanza sociale. La relazione produttore-consumatore viene cos a essere caratterizzata
da un certo grado, variabile, di incertezza, per ridurre la quale sorgono varie istituzioni e
meccanismi sociali. Le relazioni di potere determineranno se l'incertezza sar ridotta a spese del
produttore oppure del consumatore.
Certe occupazioni sono associate con problemi di incertezza particolarmente acuti, a causa della
peculiare posizione del consumatore: il caso della medicina, che comporta l'intrusione in aree
di tab sociali (accesso al corpo umano) e di particolare significato culturale (nascita, morte), e
in cui i consumatori forniscono un tipo di domanda ampia, eterogenea ed estremamente
frammentata. Queste occupazioni hanno dato origine, storicamente, a diversi meccanismi sociali
di controllo dell'incertezza: il professionalismo uno di questi. Lungi dall'essere espressione
dell'intima natura di particolari occupazioni, esso una forma, tra altre, di controllo
occupazionale, nella quale il produttore ha il potere di definire i bisogni del consumatore e il
modo di provvedervi. In altre condizioni, quando il potere si sposta dalla parte del consumatore,
il professionalismo cede il posto a forme di patronato: tra queste spiccano il patronato
oligarchico (professionisti al servizio di un'lite aristocratica, come nel caso degli artisti, dei

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medici e degli architetti al servizio delle corti italiane o inglesi nel XVI e nel XVII secolo), e il
corporate patronage (professionisti al servizio di un solo o di pochi grandi clienti, come si
verificato per una parte degli avvocati in molti paesi industriali avanzati). Un terzo tipo di
controllo occupazionale si ha quando un terzo soggetto sociale interviene nella relazione
produttore-consumatore con una funzione di mediazione, arrogandosi almeno una parte del
potere di definizione dei bisogni e del modo di provvedervi. Gli esempi storicamente pi
significativi sono la Chiesa (in passato), l'imprenditore capitalistico e lo Stato.
Se si concepisce il professionalismo come fenomeno di potere (o di controllo occupazionale)
storicamente contingente, si apre la strada per lo studio delle condizioni storiche che sono alla
base della sua affermazione, ossia per una riconsiderazione dei processi di professionalizzazione,
intesi ora come processi mediante i quali i produttori di certi servizi riescono a imporre il proprio
controllo sull'occupazione. Il lavoro pi influente in questo senso lo studio di Magali Larson
Sarfatti (v., 1977), condotto sull'esperienza americana e inglese. Qui il professionalismo viene
concepito come il frutto di una strategia di professionalizzazione messa in atto dai membri di
alcune occupazioni, o da una parte di essi. Pi precisamente, si tratta di un 'progetto
professionale' costituito da due processi: un processo di creazione e controllo del mercato dei
servizi professionali e un processo di mobilit sociale collettiva, ossia di innalzamento collettivo
dello status sociale di un'occupazione. Questi due processi sono costruzioni analitiche distinte
che possono essere 'lette' sullo stesso materiale empirico, cio sulle storie occupazionali.
Attraverso questi due processi le professioni moderne sono emerse dai legami personali di
dipendenza caratteristici delle formazioni sociali precapitalistiche e si sono organizzate sul
modello del mercato per scambiare i loro servizi per un prezzo. La strategia di creazione e
controllo del mercato un compito complesso che include vari subcompiti sia dal lato
dell'offerta, sia dal lato della domanda. Tra questi ricordiamo: l'individuazione di un servizio ben
preciso, parzialmente standardizzato e differenziato da altri servizi simili; il controllo del
processo di 'produzione dei produttori'; l'unificazione e la stimolazione della domanda. Lo
strumento decisivo che permette la realizzazione di tutte queste condizioni costituito dalla
formazione e dal consolidamento di un'adeguata base cognitiva. Sono la natura, l'ampiezza e la
solidit di questa base cognitiva che consentono di rivendicarne l'esclusivit e quindi di costituire
forme di monopolio legalmente protette. Anche l'etica professionale costituisce uno strumento
importante ai fini della monopolizzazione, con funzioni sia interne alla categoria, di
subordinazione degli interessi individuali a quelli collettivi della professione (limitazioni alla
concorrenza e alla critica tra colleghi), sia esterne, di legittimazione dei privilegi professionali di
fronte al potere politico e all'opinione pubblica (v. Berlant, 1975).
Una conseguenza importante di questa impostazione che essa individua elementi di forte

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discontinuit tra le professioni moderne, che sono prodotti sociali relativamente recenti, e quelle
tradizionali emerse nell'epoca medievale o addirittura tramandate dal mondo antico. La
continuit reclamata dalle professioni stesse pi formale che sostanziale, usata
essenzialmente come fonte di prestigio sociale e vale principalmente per alcuni elementi
tradizionali incorporati dalle professioni moderne: leggende, simboli, formule rituali (come il
giuramento di Ippocrate per la professione medica), e perfino alcuni vocaboli del gergo
professionale.
Date le premesse teoriche weberiane di cui si detto, non potevano mancare i tentativi di
ricomprendere la tematica delle professioni all'interno di analisi pi generali della stratificazione
sociale. Frank Parkin (v., 1979) ritiene che nella societ capitalistica moderna la borghesia sia
individuabile proprio in base all'adozione di meccanismi di esclusione sociale, di cui i principali
sono le istituzioni della propriet nonch le qualificazioni e le credenziali accademiche e
professionali: la propriet impedisce l'accesso ai mezzi di produzione, il credenzialismo a
posizioni-chiave nella divisione del lavoro. Anche per Randall Collins (v., 1979) lo sviluppo delle
professioni va inquadrato nella crescita del credenzialismo che, lungi dall'indicare il trionfo della
meritocrazia tecnocratica, soltanto una variante dei processi di stratificazione sociale che si
verificano attraverso la monopolizzazione delle opportunit. Per Noel e Jose Parry (v., 1976),
infine, l'ascesa delle professioni configura un processo di mobilit sociale collettiva che deve
indurre a rivedere e integrare le teorie tradizionali della mobilit sociale, la cui unit di analisi
sempre stata il singolo individuo.
Un importante contributo al nuovo approccio proviene anche dai numerosi lavori di Eliot
Freidson (v. i contributi in bibliografia), non direttamente legati all'influenza weberiana in
quanto centrati non sul controllo del mercato bens sul controllo del processo lavorativo. Per
Freidson le professioni sono occupazioni che hanno assunto una posizione dominante nella
divisione del lavoro al punto da poter operare in condizioni di autonomia, senza sottostare a
quelle forme di controllo burocratico-amministrativo che si sono sviluppate nelle organizzazioni
complesse (private o pubbliche). Tale autonomia, organizzata e legittimata (anche sul terreno
giuridico), riguarda innanzitutto la sfera dei giudizi tecnici e dell'organizzazione del lavoro, ma
pu diventare anche, come nel caso della medicina, una dominanza sulle occupazioni ausiliarie
che si formano nella stessa area della divisione del lavoro. Anche Freidson, dunque, come gi
Johnson, pone l'accento sul potere delle professioni. Il suo volume del 1986, Professional
powers, include una preziosa descrizione analitica dei meccanismi istituzionali attraverso i quali
la conoscenza formale viene tradotta in potere (credenzialismo, tribunali, comitati governativi di
vario tipo, fissazione di standard produttivi, implementazione delle politiche governative),
descrizione che lo induce a rigettare sia la tesi del dominio di una nuova classe di tecnici, sia la

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tesi opposta dell'impotenza e del declino delle professioni.

9. Il dibattito sulle tendenze

Come altri fenomeni sociali, anche il professionalismo non sfuggito a interpretazioni


contrastanti circa la sua evoluzione nel tempo. Dapprima si affermata l'interpretazione positiva
o ottimistica: abbiamo gi ricordato la posizione assunta, in proposito, dai sociologi funzionalisti,
ripresa, con argomenti assai simili, anche da qualche storico. Harold Perkin, per esempio, nella
sua opera significativamente intitolata The rise of professional society, scrive che "viviamo in
una societ sempre pi professionale" e che tra il 1945 e il 1970 la societ professionale ha
raggiunto la sua massima espansione (v. Perkin, 1989, pp. 2 e 405). Di fronte alla rilevante
crescita numerica, comune a tutti i paesi avanzati, delle professioni, dei professionisti e delle
occupazioni che premono per ottenere lo status di professione, alcuni autori pervengono a una
sorta di universalizzazione del modello professionale, facendo delle 'forze professionali' uno dei
fattori propulsivi di un mutamento epocale: la transizione alla 'societ postindustriale' (v. Bell,
1973).
Posizioni di questo genere vanno incontro a serie difficolt di varia natura. La crescita numerica
delle professioni e dei professionisti incontestabile, ma non equivale di per s a una
universalizzazione del modello professionale. In Italia, per esempio, il numero complessivo degli
iscritti agli albi professionali cresciuto molto negli anni settanta e ottanta, ma corrisponde,
come si detto sopra, a poco pi del 5% dell'occupazione complessiva (senza contare il fatto che
non tutti gli iscritti agli albi esercitano effettivamente la professione). Per di pi, si tratta di un
insieme di professioni alquanto eterogenee tra loro, e anche al loro interno, sotto molti profili:
forme di esercizio della professione (dipendenti pubblici, dipendenti privati, liberi professionisti,
forme miste), titolo di studio (laurea oppure diploma), tipo di protezione statale (monopolio
assoluto dell'esercizio della professione, monopolio parziale, poteri di 'firma', mera protezione
del titolo professionale), livelli di reddito, di potere, di prestigio sociale. Tutto ci crea non poche
difficolt agli organismi di governo e di rappresentanza degli interessi delle singole professioni e
spiega la scarsissima incidenza degli organismi di collegamento interprofessionali. Quanto alle
'aspiranti professioni', infine, si pu osservare che anche questo un insieme assai eterogeneo.
Non tutte queste occupazioni riusciranno a ottenere il riconoscimento statale e lo status di
'professione intellettuale', e non tutte lo vogliono: per alcune di esse (per esempio: consulenti
aziendali, pubblicitari, informatici) il luogo privilegiato dell'azione sociale non lo Stato o il
sistema politico, ma i mercati del lavoro professionali, la formazione di competenze si giova pi
della pratica che delle istituzioni scolastiche, le barriere all'ingresso non sono formali ma

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informali (v. Luciano, 1989).


La prospettiva pessimistica sull'evoluzione delle professioni stata espressa in varie forme. La
prima utilizza il concetto di proletarizzazione, che fa parte della teoria marxista delle classi
sociali, e pu essere ulteriormente distinta in due versioni, una 'forte' e una 'debole'. Secondo la
versione forte i professionisti sono ormai dei lavoratori dipendenti e in quanto tali hanno perso
sia il controllo delle finalit generali e delle scelte politiche concernenti il loro lavoro, sia il
controllo del contenuto tecnico dei compiti che svolgono. Analogamente a quanto era accaduto
in precedenza agli operai, il loro lavoro stato progressivamente burocratizzato e dequalificato e
le loro condizioni di lavoro sono sempre pi simili a quelle della classe operaia, inclusa
l'esperienza della disoccupazione (v. Oppenheimer, 1973; v. McKinlay e Arches, 1985). Questa
ipotesi appare semplicistica e manca di un'adeguata evidenza empirica che la sostenga. La realt
del lavoro quotidiano dei professionisti, bench poco studiata, non sembra manifestare una
tendenza alla degradazione e alla dequalificazione, il management (pubblico o privato) dal quale
i professionisti dipendono riuscito a controllare la sostanza del loro lavoro solo in misura assai
limitata. Inoltre l'ipotesi forte della proletarizzazione confonde la specializzazione del lavoro,
molto spinta in alcune professioni (come nella medicina dove ha investito le stesse specialit
mediche, che si stanno ulteriormente frammentando), con la sua dequalificazione: non sembra
davvero il caso di considerare dequalificato un chirurgo che si specializza in trapianti di cuore.
Di fronte a queste difficolt, alcuni marxisti hanno attenuato l'ipotesi della proletarizzazione
formulandone una versione 'debole': il lavoro dei professionisti sarebbe stato assoggettato al
controllo dei capitalisti per quanto riguarda le finalit generali, ma non stata tuttavia intaccata
la loro autonomia tecnica. Si pu cos distinguere una 'proletarizzazione tecnica' da una
'proletarizzazione ideologica': mentre il proletariato ha sperimentato entrambe, i professionisti
hanno evitato la prima e subito soltanto la seconda (v. Derber, 1982). Anche questa seconda
versione, tuttavia, appare poco convincente: il tipo di controllo al quale sono sottoposti i
professionisti, anche quando lavorano come dipendenti, non assimilabile a quello subito da
operai e impiegati esecutivi, la loro partecipazione alle scelte organizzative in genere rilevante
(specialmente per quanto riguarda le questioni tecnologiche) e non di rado essi ricoprono ruoli
gerarchici di rilievo, dai quali vengono spesso cooptati nel top management. Infine, entrambe le
versioni della proletarizzazione concentrano la loro attenzione sulla posizione lavorativa dei
professionisti in quanto singoli, trascurando da un lato il potere delle professioni in quanto
soggetti sociali organizzati e istituzionalizzati, e dall'altro la dimensione della relazione tra
professionisti e clienti.
Pi attente alle diverse dimensioni del problema e, almeno nelle intenzioni, all'evidenza
empirica, sono le altre ipotesi di tipo pessimistico sul destino delle professioni. L'ipotesi della

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deprofessionalizzazione si fonda sulla crescente importanza e diffusione dei seguenti fenomeni:


frammentazione del lavoro professionale; erosione del monopolio della conoscenza per effetto
della tecnologia dei computer, che rende tale conoscenza pi facilmente accessibile, e della
divulgazione attuata dai mezzi di comunicazione di massa; rivolta dei clienti, sempre meno
propensi ad atteggiamenti di tipo deferente verso l'autorit professionale e pi inclini alla
disobbedienza, anche in virt dei crescenti livelli di istruzione; controlli sulla qualit delle
prestazioni e fissazione di standard professionali (v. Haug, 1973 e 1988).
Ancora pi pessimistiche, ma con argomentazioni diverse, sono le conclusioni di una vasta
ricerca comparata condotta sull'evoluzione di tre professioni (medici, avvocati, ingegneri) in vari
paesi (v. Krause, 1988): l'autore sostiene che la sorte delle professioni potrebbe essere quella di
una morte lenta, sotto il peso delle soverchianti forze del capitalismo organizzato e dello Stato,
entrambi impegnati, anche se con qualche differenza tra un paese e l'altro, in uno sforzo di
razionalizzazione capitalistica.
Anche queste ultime posizioni sono state criticate da chi, come Freidson, ribadisce la capacit
delle professioni, di fronte agli attacchi provenienti dallo Stato, dal capitalismo organizzato e dai
clienti, di riorganizzarsi per conservare la loro autonomia e i loro privilegi. Molti dei fenomeni in
discussione, comunque, attendono ancora il sostegno di adeguate ricerche empiriche.

10. Le nuove sfide

Negli anni novanta il panorama degli studi sulle professioni presenta alcuni elementi di novit
che da un lato, nel loro complesso, costituiscono un arricchimento del quadro concettuale,
dall'altro hanno minato alcune delle certezze acquisite nei due decenni precedenti, dominati
dalle analisi neoweberiane. Le nuove sfide provengono sostanzialmente da tre direzioni: i dubbi
sollevati sull'utilit della categoria weberiana di chiusura sociale; un nuovo fervore di studi
storiografici sull'argomento, che ha riproposto, sotto molti aspetti, quel conflitto tra storici e
sociologi gi registratosi in altri settori di studio; l'allargamento del campo di analisi a una
prospettiva comparativa che faccia uscire la sociologia delle professioni dall'area geografica nella
quale nata, quella di cultura anglosassone.
Il riferimento alla categoria weberiana di chiusura sociale stato criticato sotto due profili: da un
lato si sostenuto che il concetto di chiusura sociale troppo generale e si applica anche ad altri
fenomeni sociali che poco hanno a che fare col professionalismo; dall'altro che esso troppo
restrittivo in quanto non tutte le professioni perseguono, e tanto meno conseguono, obiettivi di
monopolizzazione, e non tutte le strategie adottate dalle professioni sono strategie di chiusura
sociale. In tema di tariffe professionali e di pubblicit, per esempio, pi corretto parlare di

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formazione di cartelli aperti (v. in proposito vari contributi raccolti in Burrage e Torstendahl,
1990).
Vi stata di recente una ripresa di interesse da parte degli storici (anche italiani) per lo studio
delle professioni, che hanno posto in dubbio innanzitutto l'idea, condivisa da molti sociologi, di
una sostanziale discontinuit tra professioni premoderne e contemporanee e dell'esistenza di
uno stretto legame tra la nascita delle professioni moderne e l'avvento del sistema capitalistico.
Su questo punto il dialogo tra storici e sociologi sembra tuttora bloccato dalle reciproche e
opposte accuse: gli storici oppongono alle generalizzazioni dei sociologi le loro dettagliate
ricostruzioni empiriche che li inducono a sottolineare gli elementi di continuit con il passato e
la complessit dei processi di mutamento, mentre ai sociologi i lavori degli storici appaiono
semplici narrazioni di fatti, prive di qualunque preoccupazione concettuale e teorica.L'egemonia
scientifica del modello di professionalismo angloamericano stata spezzata dalla comparsa di
studi pi sistematici e approfonditi su altri casi nazionali dell'Europa continentale, in particolare
sulla Germania e sull'Italia, paesi nei quali i processi di professionalizzazione sono stati
caratterizzati da un ruolo assai pi incisivo, se non preponderante, dello Stato. Per il caso
tedesco si parlato di 'professionalizzazione dall'alto', avviata dallo Stato sin dalla fine del XVIII
secolo (in Prussia) mediante pesanti interventi di riforma dei meccanismi di formazione e di
accesso alle professioni, interventi che si susseguono per tutto il XIX secolo (v. Cocks e Jarausch,
1990; v. Jarausch, 1990; v. McClelland, 1992). Comuni all'esperienza tedesca e a quella italiana
sono il ruolo decisivo giocato dallo Stato nel promuovere l'espansione del mercato dei servizi
professionali, e la relativa debolezza, in confronto all'esperienza angloamericana, dell'azione
delle associazioni professionali (v. Tousijn, 1987). Anche la lingua tedesca, tra l'altro, come
l'italiano e il francese, non possiede un termine specifico atto a distinguere le professioni dalle
altre occupazioni: la parola Beruf mantiene in parte, piuttosto, l'antico significato di 'vocazione',
di origine luterana.
Anche uno studio del caso messicano (v. Cleaves, 1987) ha mostrato la scarsa applicabilit della
letteratura angloamericana al di fuori dei paesi di origine, per varie ragioni. In Messico il
consolidamento dello Stato, all'inizio di questo secolo, precedette la crescita delle professioni,
che furono costrette, per trovare spazi di sviluppo, a 'fondersi' con lo Stato stesso. In un paese in
via di sviluppo come il Messico, le professioni non controllano il proprio progresso tecnologico:
dipendono dall'estero, e ci entra in conflitto con il forte nazionalismo che caratterizza il paese.
Le associazioni professionali sono troppo numerose, deboli e in concorrenza tra loro e con i
sindacati, e non sono in grado di imporre standard qualitativi n sulle prestazioni professionali
n sui programmi formativi. Come risultato di questi fattori, il prestigio sociale delle professioni
tutt'altro che stabile e sicuro.

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Altri contributi storiografici suggeriscono di distinguere la 'crescita delle professioni' dalla


'professionalizzazione': l'espansione numerica di una professione pu comportare un
abbassamento della qualit delle prestazioni, e in certi casi lo sviluppo di un aspetto della
professionalizzazione contrasta con lo sviluppo di altri aspetti, come mostra uno studio del clero
inglese nel periodo 1570-1730 (v. Hawkins, 1989).
Nel loro complesso questi e altri contributi recenti sembrano suggerire l'abbandono di
definizioni troppo rigide e generali del concetto di professionalizzazione. Le indicazioni emerse
per la costruzione di un nuovo e pi adeguato concetto possono essere cos sintetizzate: a)
evitare sia un approccio troppo volontaristico, tutto ridotto alle strategie degli attori, sia il
pericolo opposto di un appiattimento del ruolo autonomo delle professioni all'interno di processi
pi ampi e generali, siano essi l'espansione del capitalismo (come in certi contributi marxisti) o
le trasformazioni dello Stato; b) evitare di concentrare l'attenzione esclusivamente sui processi di
controllo del mercato e di istituzionalizzazione delle professioni, trascurando i mutamenti che
avvengono sul posto di lavoro, nella concreta pratica professionale. Il processo di
professionalizzazione si sviluppa su tre arene (v. Abbott, 1988): sistema giuridico, opinione
pubblica, luogo di lavoro. Il peso relativo delle tre arene pu variare nel tempo e da un paese
all'altro; c) evitare, nello studio dell'evoluzione storica delle singole professioni, l''assunzione
dell'indipendenza' (ibid.): ogni professione in realt impegnata in una incessante battaglia per
la propria 'giurisdizione professionale' contro altre occupazioni confinanti; d) evitare un'altra
assunzione, quella dell'unidirezionalit: il processo di professionalizzazione non un percorso
lineare che finisce con un 'traguardo' (il riconoscimento statale) o con uno 'stadio finale' (lo
status di professione), ma un processo permanente di negoziazione e di conflitto che ciascuna
occupazione, in quanto soggetto collettivo e organizzato, sostiene innanzitutto con le altre
occupazioni (sulla base cognitiva), ma anche con lo Stato e con i clienti stessi (in difesa della
propria autonomia e per il controllo del mercato professionale). In altre parole, la
professionalizzazione un processo complesso, che pu avanzare, fermarsi, o anche regredire.
Ci vale sia per le singole occupazioni, come hanno mostrato per esempio le alterne vicende dei
farmacisti e delle ostetriche (in vari paesi), sia per il complesso delle professioni in un singolo
paese, come risulta dal caso tedesco (v. Jarausch, 1990).
(V. anche Artigiani; Classi e stratificazione sociale; Classi medie; Dirigenti; Interazionismo
simbolico; Magistrati; Militari; Ordinamenti giudiziari e professioni giuridiche).

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