(Pseudo-Ippolito, Atanasio, A Cura Di Elio Peretto PDF

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Pseudo-Ippolito

LA TRADIZIONE
APOSTOLICA
Traduzione e note
a cura dt Elio Peretto

Atanasio

IL CREDO
DI NICEA
Traduzione e note
a cura di Enrico Cattaneo
Supplemento al numero di

di questa settimana
P.I. SPA - S.A.P. - D.L. 353/2003
L. 27102104 N. 46 - a. 1 c. 1 DCB/CN
Direttore responsabile: Antonio Sciortino

SAN PAOLO

Edizione In collaborazione
Città Nuova Editrice © 1996-2001 - Roma
e Periodici San Paolo © 2005 - Milano

Le immagini della Bibbia della Luce sono proprietà della


Fototeca della Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano.

L'immagine In copertina è di Contrasto

Finito di stampare nel mese di maggio 2005


presso Nuovo Istituto Italiano d'Arti Grafiche S.p.A.
Via Zanica, 92 - 24126 Bergamo - Italia
Prefazione
L'EREDITÀ APOSTOLICA

Con la Tradizione apostdtica e Il credo di Nicea


si completa il primo scaffale della "Grande bibliote-
ca cristiana" dedicato ai capolavori della fede e ai
classici della tradizione cristiana.
Restiamo, con questi scritti, nei primi secoli del-
la Chiesa, all'interno del grande alveo della "tradi-
zione". Spesso, nel linguaggio comune, quando si
parla di "tradizione" il pensiero va piuttosto alle
"tradizioni": vale a dire alle memorie storiche, alle
celebrazioni e ai riti, ai mestieri e alle usanze loca-
li tramandate di generazione in generazione. La pa-
rola "tradizione" racchiude invece un significato più
ampio e profondo, alludendo a un insieme di idea-
li e valori, fatti ed esperienze del passato che fon-
dano l'identità originaria di un popolo o di una co-
munità e che, come tali, costituiscono un'eredità
che si riceve e trasmette nel tempo come inscindi-
bile legame con la propria storia.
Quando poi si parla di "tradizione apostolica", il
concetto si focalizza sull'insieme della predicazione
e degli insegnamenti che gli apostoli hanno ricevu-
to da Gesù come testimoni oculari della sua vita e
del suo messaggio di salvezza; che hanno annun-
ciato e testimoniato al mondo, nella fedeltà al loro
mandato, e che la Chiesa ha raccolto e custodito, ri-
chiamandosi continuamente ad essi come fonda-

5
mento certo, autorevole e vivo della propria dottri-
na ed esperienza di fede.
Infine, quando si parla di un'opera denominata
Tradizione apostolica - un breve scritto, composto
verso il 215, attribuito a Ippolito (170?-235?) -, si fa
riferimento a un compendio di princìpi, regolamen-
ti e istruzioni in materia di ordinamento ecclesiasti-
co, prassi liturgica e vita comunitaria, che rappre-
sentano la struttura e la forma con cui la Chiesa an-
tica ha tradotto normativamente la "consegna" (tra-
ditio) degli apostoli, per il bene e l'edificazione di
tutti i credenti.
L'importanza, per certi aspetti unica, di quest'o-
pera nell'ambito degli ordinamenti ecclesiastici an-
tichi non consiste solo nell'ampio spettro di temi
che affronta: si passano infatti in rassegna numero-
si ministeri ecclesiali (vescovi, presbiteri, diaconi,
confessori della fede, ecc.), riti, preghiere, momen-
ti di culto e vita cristiana, e già questo conferisce al
testo un valore primario ai fini di una ricostruzione
storico-liturgica. La sua importanza risiede soprat-
tutto nell'accuratezza e nella profondità della de-
scrizione: nel definire ed evidenziare significati e
peculiarità; nello stabilire nessi e relazioni; nel met-
tere in luce un aspetto specifico o un quadro d'in-
sieme. Così, alla fine, si coglie una visione, uno spi-
rito e un'impronta, che esulano dal puro e sempli-
ce assemblaggio di testi, per connotare l'opera in
modo personale (anche in chiave polemica, come
nel prologo e nella conclusione), quale che sia il
suo autore, probabilmente un vescovo. Ed è quello
che in definitiva ha fatto della Tradizione apostoli-
ca un punto di riferimento per tutte le traduzioni,
rielaborazioni e adattamenti successivi.
Due passi possono esemplificare questo "timbro"
dell'autore: il primo, teologicamente intenso e lette-
rariamente forbito, è la preghiera di consacrazione
di un vescovo: ·Dio e Padre di nostro Signore Gesù

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Cristo, Padre delle misericordie e Dio di ogni con-
forto, che abiti nell'alto dei cieli e volgi lo sguardo
sulle cose piccole, che conosci tutte le cose prima
che esistano, che hai dato le norme della Chiesa
per la parola della tua grazia, che fin dal principio
hai predestinato la stirpe dei giusti di Abramo, co-
stituendo capi e sacerdoti, e non lasciando il tuo
santuario senza ministri, che fin dall'inizio del mon-
do hai voluto essere glorificato in coloro che ti sei
scelto: ora effondi la potenza dèllo Spirito sovrano,
che da te viene, e che hai dato al tuo diletto figlio,
Gesù Cristo, che ne ha fatto dono ai santi apostoli,
che in ogni luogo fondarono la Chiesa, il tuo san-
tuario, a gloria e lode incessante del tuo nome•.
Il secondo, non meno significativo, è focalizzato
sull'unità della Chiesa nella comunione eucaristica:
·Ricordando dunque la sua morte e la sua resurre-
zione, ti offriamo il pane e il calice e ti rendiamo
grazie per averci fatti degni di stare alla tua presen-
za e di renderti culto. E ti preghiamo d'inviare il tuo
Spirito Santo sull'offerta della santa Chiesa. Unendo
in una sola cosa, dona a coloro che partecipano dei
santi misteri la pienezza dello Spirito Santo per con-
fermare la loro fede nella verità, affinché ti lodiamo
e ti glorifichiamo per Gesù Cristo tuo figlio, per il
quale gloria e onore a te con lo Spirito Santo nella
tua santa Chiesa ora e nei secoli dei secoli. Amen•.

Sotto il titolo di Il credo di Nicea viene proposta


un'opera di Atanasio (295-373), vescovo di Ales-
sandria d'Egitto, riguardante le decisioni prese al
primo Concilio ecumenico della Chiesa cattolica,
convocato nel 325 a Nicea dall'imperatore Costan-
tino. In questo Concilio, dove Atanasio aveva svol-
to un ruolo da protagonista, era stata condannata
l'eresia di Ario - presbitero della Chiesa di Ales-
sandria - e dei suoi seguaci. Lo scritto in questione
(De decretis Nicaenae synodi) - un trattato in forma

7
di lettera a un destinatario fittizio o semplicemente
ignoto (forse Apollinare, poi vescovo di Laodicea),
composto probabilmente da Atanasio nel 350-351 o
poco prima - era nato per aumentare il fuoco di fi-
la contro le tesi ariane, già ampiamente diffuse.
Il cuore della controversia verteva su due punti
del Simbolo niceno, negati da Ario, riguardanti il
Figlio di Dio, generato "dalla sostanza" del Padre e
"consostanziale" al Padre. Questo concetto, espres-
so tra l'altro per la prima volta nel testo ufficiale e
normativo di un concilio con parole tratte, non dal-
la Scrittura, bensì dalla filosofia greca, aveva rap-
presentato un fortissimo trauma nella Chiesa antica.
La crisi messa in moto da questa disputa sulla pre-
sunta paganizzazione ed ellenizzazione del lin-
guaggio della fede si era avuta dopo la morte di
Costantino (337) e aveva dato forza alle tesi soste-
nute da Ario circa la sostanza dissimile del Figlio e
dello Spirito rispetto al Padre, l'unico Dio ingenera-
to ed eterno, da cui essi sono stati "generati" e al
quale sono subordinati. Gesù sarebbe quindi, se-
condo Ario, una sorta di Dio "minore", estraneo e
diverso dal Padre secondo la sostanza, impropria-
mente definito anche Logos e Sapienza del Padre,
in quanto venuto all'esistenza, come tutte le altre
creature, mediante il Logos proprio di Dio e la
Sapienza che è in Dio. Perciò il Figlio non sarebbe
in alcun modo assimilabile al Padre.
Contro queste ed altre affermazioni di Ario si op-
pone vigorosamente Atanasio, che non esita a bol-
lare come "demoniaca" la sua dottrina e a schierar-
si dalla parte della definizione data dal Concilio di
Nicea circa la natura del Figlio di Dio. Il testo ci ri-
porta dunque a quel tempo così dogmaticamente
inquieto e perciò profondamente lacerato, che farà
paragonare la situazione della Chiesa a un combat-
timento navale sotto la tempesta e in piena notte,
dove chi combatte non sa più neppure distinguere

8
il suo alleato dal suo nemico (Basilio di Cesarea, Lo
Spirito Santo, xxx, 76-77).
Leggere il Credo di Nicea significa calarsi in que-
sta temperie dottrinale e andare ancora una volta
alle origini della fede e della tradizione della
Chiesa.

GIUIJANO VIGINI

9
Introduzione

LA SCOPERTA DELLA TRADIZIONE APOSTOLICA

La Tradizione apostolica occupa un posto im-


portante tra i documenti che descrivono le istituzio-
ni, la vita della Chiesa antica e la sua liturgia. È
senza dubbio il modello più antico di preghiere
comunitarie guidate da un presidente ed ha eserci-
tato un influsso notevole nella Chiesa antica, in par-
ticolare sulla formazione delle collezioni canoniche.
La. sua preghiera eucaristica è stata· adottata
dalla liturgia etiopica sotto il nome di Anafora del
nostro Signore Gesù Cristo e sotto il nome di Anafora
di nostra Signora Maria, Madre di Dio, che compo-
se Abba Giorgio, e dalla liturgia siriaca col nome di
Testamento del Signore nostro Gesù Cristo. Ha eser-
citato un influsso considerevole su tutta la famiglia
delle liturgie antiochene tramite l'anafora di Basilio
e quella del libro VIII delle Costituzioni apostoliche.
Dopo avervi apportato modifiche e ritocchi, che con-
sistono nell'inserimento de{Sanctus, del Post-Sanctus
epicletico-pneumatologico e delle intercessioni, la
Chiesa latina l'ha inserita come seconda preghiera
eucaristica nel Messale Romano.
La. preghiera dell'ordinazione episcopale, sempre
utilizzata sotto forme derivate nei Patriarcati
d'Antiochia e d'Alessandria, dal 1968 è entrata
nel Pontificale romano come formula consacrato-
ria dei vescovi di rito latino.
Fino all'inizio di questo secolo si conosceva solo

11
l'esistenza della Tradizione apostolica grazie al titolo
scolpito sul trono della statua detta di sant'lppolito,
attualmente all'ingresso della Biblioteca Apostolica
Vaticana. Era convinzione comune che il testo fosse
irrimediabilmente perduto. Tuttavia E. Schwartz e
R.H. Connolly con le loro ricerche hanno indivi-
duato e identificato l'opera nella Costituzione della
Chiesa egiziana, conservata nel Sinodos della Chiesa
d'Alessandria1; Hauler ne ha trovato una parte in
un manoscritto latino della Biblioteca capitolare di
Verona 2• Ulteriori ricerche hanno messo in luce l'in-
flusso della Tradizione apostolica negli adattamenti
dei Canoni di Ippolito egiziani, nelle Costituzioni
apostoliche siriache, nel Testamento del Signore, u-
gualmente siriaco, e nellEpitomé delle Costituzioni
apostoliche; influssi si rilevano ancora negli Statuta
Ecclesiae antiqua della Gallia meridionale.
Il manoscritto latino di Verona è un palinsesto,
che si ritiene scritto tra il 486 e il 494, ma la versio-
ne latina dei tre testi, dei quali è composto, è datata
tra il 3 75 e il 400. I Canoni di Ippolito sono da col-
locare tra il 336 e il 340. Ciò vorrebbe dire che tra
questi e la Tradizione apostolica corre un lasso di
tempo di circa centoventi anni. Sia che si ritenga
autore della Tradizione apostolica Ippolito o un qua-
lunque altro scrittore, la sua stesura andrebbe fissa-
ta tra il 218 e il 220.

1 Il Stnodos è una collezione canonica del Patriarcato di Alessandria for-


mato da tre raccolte giustapposte: i Canoni degli Apostoli (Costituzioni
della Chiesa apostolica); La Tradizione apostolica (Costituzione della
Chiesa egiziana); il libro VIII delle Costituzioni apostoliche. Il Sinodos
non ha conservato l'originale greco, ma quattro versioni: sahidica, bo-
hairica, araba ed etiopica, che non sono tra loro indipendenti. Le ver-
sioni bohairica e araba derivano dalla versione sahidica e quella etiopi-
ca è stata tradotta sulla versione araba. Come ben si vede le tre versio-
ni: bohairica, araba ed etiopica si riportano alla versione sahidica primi-
tiva e questa a sua volta a un unico manoscritto greco.
2 Il manoscritto di Verona contiene le Sentenze d'Isidoro di Siviglia in
scrittura beneventana dell'VIII secolo. Sui novantanove fogli, che lo
compongono, quarantuno provengono da un manoscritto più antico.

12
ORGANIZZAZIONE GENERALE E TEMATICHE
DELLA T'RAD!ZIONE APOSI'OUCA

La Tradizione apostolica è composta da 43 capi-


toli o paragrafi comprendenti un Prologo e una
Conclusione. Al Prologo è dato il numero 1 e alla
Conclusione il numero 43. La titolazione dei capito-
li è recente e mira ad attirare l'attenzione del let-
tore sui contenuti del testo che segue. Il documento
ba le caratteristiche di una raccolta di regolamenti
diversamente formulati. Tali caratteristiche si ri-
scontrano nella letteratura istituzionale antica e me-
no antica destinata, per forza di cose, a essere inte-
grata nelle collezioni canonico-liturgiche e rima-
neggiata nel corso della trasmissione.
Seguendo la distribuzione del materiale e te-
nendo conto, con un po' di riserbo, dei titoli, da-
remo una breve sintesi dei contenuti, riseroandoci
un approfondimento nella trattaziome dottrinale.
Il Prologo e la Conclusione sono velatamente
polemici e contengono spunti interessanti. Si nota
un 'allusione, per la verità non molto coperta, ad
una situazione, perlomeno ambigua, all'interno del-
la comunità destinataria della Tradizione aposto-
lica. Nella seconda metà del Prologo, infatti, è fat-
to cenno a un gruppo di persone bene istruite e fe-
deli alla tradizione viva e attuale; persone che devo-
no essere confermate nei loro intendimenti. A que-
sto gruppo se ne contrappone un altro, il quale, per
apostasia o per errori prodotti di recente e da mette-
re sul conto dell'insipienza, ba assunto un atteggia-
mento diverso. Alla fine del Prologo è auspicato che
lo Spirito Santo conceda ai responsabili della Chie-
sa quella pienezza di grazia che si manifesta nelle
modalità dell'insegnamento e nella fedele conser-
vazione della tradizione. Nella Conclusione dell'o-
pera riaffiora il concetto che l'accoglimento della
tradizione apostolica sbarra la via all'azione

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deviante degli eretici; la deliberata noncuranza
della dottrina degli Apostoli ha lasciato libero il
campo agli insegnamenti di quanti si sono com-
portati secondo il loro istinto.
Nel numero 6 del Proemio della Confutazione di
tutte le eresie (Philosophoumena), l'autore si pro-
clama vescovo, ovviamente nell'ambito della sua
comunità, e afferma di avere /'autorità di scomuni-
care i membri della Chiesa. Ma è dal libro IX, cc.
7.11.12, che si apprende quanto fosse personalmen-
te coinvolto nella lotta contro il modalismo trinitario
in Roma al tempo di Zefirino (198-217) e di Callisto
(217-222) e quanto avversasse le riforme innovative
di Callisto. La Chiesa di Zefirino e di Callisto è fre-
quentemente definita -scuola ereticale di pensiero•,
che si oppone alla ·chiesa ortodossa, che l'autore
dice di rappresentare. All'accusa di eresia aggiunge
quella di essere moralmente corrotti: Zefirino è detto
avaro, incettatore di regali e avido di danaro; di
Callisto scrive che è maliziosamente astuto, proclive
all'eresia, imbroglione ed empio.
I riferimenti della Confutazione, composta pro-
babilmente durante l'episcopato di Callisto, non si
possono presentare con disinvoltura quale certa e-
splicitazione delle accuse rivolte a Zefirino e a Cal-
listo, che si vorrebbero leggere tra le righe del Prolo-
go e della Conclusione della Tradizione apostolica.
Tuttavia non va sottaciuto che nei due documenti è
ribadita l'idea che nella Chiesa nessuno può convin-
cere di errore se non lo Spirito Santo, che gli Apostoli
hanno ricevuto dal Signore e trasmesso ai credenti.
Nella Tradizione apostolica non è riservato ai vesco-
vi un ruolo determinante e attivo nella difesa del-
l'ortodossia; fugaci sono gli accenni alla successione
apostolica come garanzia dell'attendibilità della
tradizione e al potere di sciogliere ogni legame. Il
loro compito è descritto piuttosto nella dimensione
amministrativa anziché dottrinale. Questa omissio-

14
ne probabilmente è intenzionale nella Confutazio-
ne, dato l'attrito tra l'autore da una parte e Zefirino
e Callisto dall'altra, ai quali non riconosce la legit-
timità del loro ministero. Ad ogni modo nel Prologo
e nella Conclusione della Tradizione apostolica sono
contestati i comportamenti teorico-pratici di alcuni
che godono di autorità.
Non va però dimenticato che nella preghiera del-
la consacrazione del vescovo, che l'autore ha tra-
smesso e fissato seguendo probabilmente un formu-
lario precedente (c. 3), sono presenti elementi che
testimoniano l'esistenza di un episcopato -monar-
chico•, che garantisce dalla falsificazione della tra-
dizione. Ciò appare più chiaramente se si pone
mente all'in-ompere improvviso della preghiera della
consacrazione presbiterale (c. 7) nel blocco delle
ordinazioni.
Non è fuori luogo ricordare che l'instaurazione
dell'episcopato monarchico a Roma appare allafine
del secondo secolo con Vittore. Si tratta di una in-
staurazione avvenuta per gradi durante gli ultimi
decenni del secolo per concludersi con Vittore.
L'autore della Confutazione (9, 11, 1), oltre a con-
siderarsi vero e proprio vescovo della sua comunità,
afferma che Callisto aspirava alla direzione della
comunità romana e si adoperava per impadronirse-
ne. La preghiera della consacrazione episcopale,
come quella presbiterale, non lasciano trapelare
alcuna polemica e contestazione nei confronti della
gerarchia.
Nel Prologo non è fatta esplicita menzione dei
destinatari del documento, né dell'autore-redatto-
re/redattori. Quivi si hanno due espressioni che con-
sentirebbero di individuare i destinatari. Innan-
zitutto i •santi•, cioè i fedeli, che, bene educati nella
fede, devono conservare la tradizione, e i •capi della
Chiesa·. Nel corso dello scritto non ci sono ulteriori
specificazioni, se non molto generiche, come nel

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c. 21, dove si parla di fedeli •già istrniti•, nel c. 41,
dove gli stessi sono invitati a istrnirsi a vicenda e a
dare l'esempio ai catecumeni, e nell'ultimo comma
del c. 43, ai quali è rivolto l'appellativo •carissimi•.
L'ultimo comma del c. 1 suona: ·Lo Spirito Santo con-
ceda la grazia perfetta a coloro che hanno una
fede retta, affinché coloro che sono preposti alla
Chiesa sappiano come debbono insegnare e conser-
vare tutte queste cose•. Quantunque il testo non sia
molto chiaro, si individua nei capi della Chiesa i
destinatari delle istrnzioni che saranno date. Ma di
questi capi non sono indicati le qualità e il molo;
è lasciato intendere che possiedono e sono capaci
di trasmettere la tradizione. Nel c. 21 è fatta una
distinzione netta tra le istrnzioni trasmesse come
preparazione al Battesimo e all'Eucarestia, che
vengono dopo quelle sulla resurrezione, ed altre, e
i chiarimenti da chiedere al vescovo. Il vescovo,
quando si tratta di istrnzioni, non è mai interpel-
lato con la seconda persona.
Questi rilievi consentono di dire che i destinatari
della Tradizione apostolica non sono espressamente
indicati. Si presume siano, in primo luogo, i depo-
sitari della tradizione, che sono in condizione di
trasmettere correttamente, e, in secondo luogo, la
comunità cristiana.
Se si analizza La Tradizione apostolica, ci si im-
batte in tre grandi blocchi accostati, suscettibili di
divisioni interne. Un primo blocco è costituito dat
rituali delle istituzioni ecclesiali, che sono di carat-
tere -sacramentale• e di carattere non •sacramenta-
le· (cc. 2-14); un secondo blocco detta norme circa
il catecumenato e il rituale del Battesimo (cc. 15-
21); il terzo blocco contiene regole che riguardano
la comunità (cc. 22-43).
Nel primo e nel secondo blocco si riscontra una
certa logica nella distribuzione del materiale e una
certa omogeneità, che però non devono essere sopra-

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valutate. Dapprima appare la costituzione gerarchi-
ca della Chiesa in ordine decrescente: vescovo, sa-
cerdote, diacono (cc. 2-8); segue quindi l'elenco di
coloro che non fanno parte della gerarchia, ma al-
l'interno della comunità cristiana occupano un posto
speciale: confessori, vedove, vergini, suddiaconi, tau-
maturghi (cc. 9-14); infine appaiono i catecumeni e
i riti d'iniziazione (cc. 15-21). Il terzo blocco non
mostra un filo logico e riporta prescrizioni che ri-
guardano aspetti diversi della vita della comunità: si-
nassi, pasti comunitari, digiuni, ore della preghiera,
doveri dei vescovi, dei presbiteri, dei diaconi e altro.
Nei capitoli concernenti il vescovo, l'autore ha
trasmesso non soltanto le modalità della sua elezio-
ne, ma anche la preghiera di consacrazione e l'ana-
fora eucaristica, che segue la consacrazione, ed ha
indicato le offerte che venivano fatte (cc. 2-6). Nei
capitoli sui presbiteri e sui diaconi è riportata una
preghiera di consacrazione, nella quale sono indi-
cate le rispettive funzioni (cc. 7-8). I capitoli 2-8
contengono una prima chiara distinzione all'inter-
no della comunità cristiana: per coloro che sono
stati scelti, tra i membri della comunità, per pre-
stare un servizio con specifica referenza agli atti
di culto, vescovi, sacerdoti e diaconi, è prescritta
l'imposizione delle mani e il vescovo recita una pre-
ghiera speciale per ciascuno di questi ~re gradi.
L'imposizione delle mani e la preghiera sono presen-
tate come costitutive del grado gerarchico.
Invece nei capitoli 9-14 non si tratta più di impo-
sizione delle mani, ma di istituzione che consiste o
nel riconoscere uno stato di fatto (vergini, guaritori,
cc. 12.14) o nel dare un titolo (vedove, c. 10) o
nell'affidare un compito (lettore, suddiacono, cc.
11.13). Il confessore (c. 9) è un caso a parte: possie-
de l'onore del presbiterato grazie alla sua confessio-
ne della fede e non ha bisogno di ricevere l'imposi-
zione delle mani, se è scelto come diacono o come

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presbitero. Se invece il confessore, che accede agli
ordini, è tale senza avere subito un procedimento
giudiziario e la prigione, deve ricevere l'imposizione
delle mani.
L'autore distingue con cura l'ordinazione (rito
costitutivo), che conferisce un potere e la capacità di
compiere una funzione sacramentale, cioè un atto
di culto ufficiale della Chiesa, e la istituzione o depu-
tazione a un compito da svolgere a seroizio della
comunità senza capacità cultuali e sacramentali.
Nei capitoli concernenti i catecumeni e i riti
d'iniziazione (cc. 15-21) si ravvisano delle norme
rigorose e precise, come l'inchiesta sulla sincerità
delle intenzioni, sulla condizione civile e sulle pro-
fessioni esercitate dal candidato al catecumenato,
delle quali viene indicata la compatibilità o l 'incom-
patibilità con la fede. L'inchiesta mira ad appurare
la sincerità delle sue disposizioni e a verificare, già
prima dell'iscrizione nella lista dei catecumeni, se le
sue professioni civili, in base alle quali ha ordinato
la vita, possono essere esercitate anche dopo la pro-
fessione di fede cristiana. Si tratta di una scelta prn-
denziale della comunità cristiana a contatto quoti-
diano col mondo pagano e con la sempre incom-
bente minaccia delle persecuzioni, fautrici di dolo-
rose defezioni. Vi è presente anche la preoccupazio-
ne di distinguersi il più possibile dalle altre religioni,
più disponibili all'accoglienza.
La severità, che anima questi capitoli, potrebbe
significare la riaffermazione di una linea tradizio-
nale di accentuata prndenza e insieme essere una
contestazione della moderazione e della lungimi-
ranza iniziate con Zefirino e Callisto. Tale interpre-
tazione, in linea teorica, non può essere esclusa, ma
è difficile, se non impossibile, poterlo dimostrare a
causa dell'esiguità delle prove.
I cc. 15-21 sono parte integrante della sezione
dedicata alle persone.

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Dal c. 22 al c. 30 è inserita una serie di prescri-
zioni circa i vari momenti della vita cristiana, che si
riannoda alla vita comunitaria: alla comunione,
che il vescovo deve distribuire il sabato e la domeni-
ca3 (c. 22), al digiuno e alla sua frequenza per diver-
se categorie di persone (c. 23), ai doni ai malati che
devono essere portati con sollecitudine (c. 24), all'in-
troduzione della lucerna per il pasto serale della
comunità, per la quale il vescovo innalza una pre-
ghiera di ringraziamento e sottolinea il significato
simbolico della lucerna (c. 25), alla cena (c. 26), al
significato della cena per i fedeli, cui non partecipa-
no i catecumeni (c. 27), alla frugalità a tavola (c.
28), alla benedizione del cibo (c. 29), al pasto offer-
to alle vedove (c. 30). L'elenco mostra che le norme
dettate riguardano principalmente il pasto comuni-
tario; a queste sono aggiunte prescrizioni di vita pra-
tica, come il portare doni alle vedove, l'invitarle a
pranzo, l'esclusione del catecumeno dalla cena, il
rito del lucernario. L'impostazione del pasto in co-
mune ricalca per alcuni aspetti la cena rituale giu-
daica, della quale tuttavia non sono recepite le ra-
gioni di fondo.
Questa semplice elencazione dice quello che il
·legislatore· intendeva prescrivere, ma lo fa in
maniera discontinua e frammentaria, toccando
vari argomenti, ognuno a sé stante e senza un col-
legamento, fatta eccezione per le norme sul pasto in
comune. Mettendo insieme le prescrizioni si evince
che non riguardano l'anamnesi della cena del Si-
gnore, sia perché i •celebranti», diacono, presbitero,

3 Cfr. J.A. Jungmann, La ltturgie des premiers stècles, Paris 1962, pp. 37-
70. GJ. Cuming (Hippolytus: A Text for Students witb Introductlon,
Translatton, Commentary and Notes [Grove Liturgica( Scudy, 8],
Noningham 19792, p. 22) ha dimostrato l'esistenza di indizi della prassi
dell'Eucarestia non solo alla domenica, ma anche al sabato già nel III
secolo. Cfr. C.W. Dugmore, 1be Injluence of tbe Synagogue upon tbe
Divine Office (Alcuin Club Collections, 55), London 1968, pp. 28-37.

19
vescovo, recitano dei Salmi, che sono in sintonia
con il rito, cioè salmi alleluiatici, sia perché nçm c'è
alcuna allusione all'ultima cena.
Nel c. 26 è fatta una netta distinzione tra pane
comune, pane benedetto ed Eucarestia, •Che è il
corpo del Signore».
I cc. 31-42 sono una serie di norme di carattere
pratico indirizzata al clero, diaconi, sacerdoti, ve-
scovo, e di espressioni della pietà personale.
Una lettura attenta permette di individuare l'af-
finità di alcune prescrizioni e di accorparle. I cc. 31
e 32 vertono sull'offerta delle primizie della terra: il
c. 31 invita a offrire al vescovo le primizie dei frut-
ti, sui quali pronuncia una benedizione; il c. 32
elenca quali prodotti possono essere offerti e quali
no. Il c. 32 dovrebbe precedere il c. 31, dato che
indica quali frutti e quali fiori possano o non pos-
sano essere presentati in offerta.
Il c. 33 è doppiamente interessante: qui si ha la
prima ed unica allusione alla Pasqua, che è ricor-
data in relazione al digiuno da osservarsi prima di
ricevere la comunione, e non per il suo significato
soteriologico, e alla Pentecoste, quando sollecita colo-
ro che non hanno digiunato nel periodo pasquale, a
farlo in occasione di questa solennità, che prolunga
il gaudio pasquale.
L'altro punto d'interesse riguarda la donna in-
cinta e ammalata, alla quale è concesso, per la -ne-
cessità•, cioè per le difficoltà della gravidanza, di
digiunare il sabato.
I cc. 36.37.38 trattano dell'Eucarestia da ricever-
si con fede prima di qualunque altro cibo (c. 36).
L'Eucarestia, riservata esclusivamente ai fedeli per-
ché corpo e sangue di Cristo, deve essere custodita
gelosamente per non divenire oggetto di disprezzo
(cc. 37.38).
Un problema a parte creano i due cc. 35 e 41 sui
tempi della preghiera. Il c. 41 riprende e sviluppa il

20
contenuto del c. 35 e vi aggiunge delle prescrizioni
minuziose, che lo differenziano notevolmente dal
primo; il c. 42 sul segno della croce può essere letto
come la prosecuzione del c. 41.
Dom Botte ritiene che ci si trovi di fronte a due
redazioni differenti: il c. 41 rappresenterebbe la re-
dazione definitiva. Affaccia quindi l'ipotesi che il
redattore della collezione tripartita si sia trovato
davanti a due edizioni che presentavano delle va-
rianti di rilievo, che non ha voluto sacrificare. Così
si spiegherebbe anche il disordine dei cc. da 35 a 42.
L'autore si sarebbe fermato al c. 35 nella prima e-
dizione, che avrebbe poi completato con aggiunte.
Avrebbe pertanto riscritto il c. 41 sulla preghiera
completandolo col c. 42 sull'efficacia del segno del-
la croce. Ma è anche possibile che il c. 41 avesse
una esistenza separata, come il c. 21 sull'iniziazio-
ne cristiana.
È opinione comune che sia difficile, se non impos-
sibile, ricostruire la prima edizione giovandosi di
testimoni secondari. L'attuale disordine dei cc. 35-
42 può essere dovuto a un maldestro intervento di
un redattore posteriore, anziché a un disattento
rifacimento dell'autore.
Sorprende la connessione stabilita nel c. 41 tra la
preghiera del mattino e l'invito ad andare al lavoro
cui segue l'esortazione a frequentare la catechesi.
Tale connessione è indice del fatto che il c. 41 acco-
glie in modo disordinato istruzioni che non sono
state coordinate. Tuttavia considerare i cc. da 35 a
42 non autentici, in particolare il c. 41, non sembra
sostenuto da argomenti decisivi.
Il profilo della giornata liturgica del cristiano è
delineato nel c. 41, cui si può aggiungere anche il c.
42 per la precisione delle indicazioni che offre sul-
l'efficacia del segno di croce. Il c. 41 scandisce le ore
della giornata dal momento del risveglio del matti-
no fino al canto del gallo. La menzione del canto del

21
gallo è un riferimento a Pietro (cfr. Mc 14,68-72),
ma nelle intenzioni dell'autore è l'ultimo anello di
quella catena di preghiere distribuite nel corso della
giornata, che si annoda al giorno seguente.

LE FONTI UTILIZZATE PER IA RICOSTRUZIONE DELIA


T'RAIJJZJONE APOSTOJJCA

Si è già accennato quale sia la documentazione,


sulla quale contare per il ripristino della Tradizione
apostolica. Ora cerchiamo di presentare brevemen-
te la tipologia delle versioni e delle rielaborazioni.

LE VERSIONI

1. La versione latina = L
Il ms., nel quale è contenuta la versione latina
della Tradizione apostolica, contiene anche le Sen-
tenze di Isidoro di Siviglia in scrittura beneventa-
na del secolo VIII. Quarantuno dei novantanove
fogli, dei quali è composto, appartengono a un ms.
più arcaico, che è stato raschiato per fare posto alle
Sentenze di Isidoro. E. Hauler ha letto il palinsesto
e ha trascritto con molta cura i testi raschiati sotto
il titolo Didascaliae apostolorum fragmenta Vero-
nensia Latina. Accedunt Canonum qui dicuntur A-
postolorum et Aegyptiorum reliquiae, Leipzig 1900.
Dom Botte, che ha avuto modo di controllare ad
occhio nudo e di leggere il palinsesto dopo l'inter-
vento di Hauler, ritiene la lettura di Hauler con-etta
e attendibile. La Tradizione apostolica, nella versio-
ne latina, occupava tredici fogli, dei quali sei sono
perduti.
Ogni riga del ms. comprende dalle trenta alle
trentacinque lettere, e ogni pagina comprende tren-
tacinque righe. La scrittura è la semi-unciale data-
bile alla fine del quinto secolo. Questa datazione

22
trova conferma nel primo foglio che contiene i Fasti
consularesfino all'anno 486 in scrittura unciale; la,
lista è stata poi completata in scrittura semi-unciale
fino all'anno 494. Perlanto la data di copiatura
dovrebbe aggirarsi attorno all'anno 494.
Quanto ai testi biblici, il traduttore segue una
versione latina più arcaica di quella, che servì a
Girolamo per la sua revisione. La. versione latina
dovrebbe quindi essere stata fatta con molta proba-
bilità verso la fine del quarlo secolo.
La Tradizione apostolica non è isolata, ma è in-
corporata in una collezione triparlita formata dalla
Didascalia degli Apostoli, dai Canoni degli Apostoli,
detti anche Costituzione della Chiesa apostolica, e
dalla Tradizione apostolica, detta Costituzione della
Chiesa egiziana. Un tale raggntppamento si incon-
tra altrove e non deve essere stato fatto né dal co-
pista del manoscritto né dal traduttore latino, ma
prima ancora.
Una nuova edizione della Tradizione apostolica
e degli altri documenti della, collezione triparlita è
stata pubblicata da E. Tidner, Didascaliae Aposto-
lorum, Canonum ecclesiasticorum, Traditionis apo-
stolicae Versiones latinae (1V 75), Ber/in 1963, pp.
XXVI, 183. Si tratta di una edizione molto accurata
con un apparato critico solido, che consente d'avere
sott'occhio non solo le varianti, ma anche le cita-
zioni sparse in altri documenti. Cinque appendici
concorrono a impreziosire l'edizione. La lettura di
Tidner diverge da quella di Dom Botte in alcuni
dettagli. Il Palinsesto di Verona è lacunoso e manca
dei capitoli sui confessori (c. 9), sulle vedove (c. 10),
sul lettore (c. 11), sulla vergine (c. 12), sul suddia-
cono (c. 13), sul dono delle guarigioni (c. 14), su
coloro che si accostano per la prima. volta alla fede
(c. 15), sui mestieri e le professioni (c. 16), sulla
durata dell'istruzione dopo la verifica dei mestieri e
delle professioni (c. 17), sulla preghiera di coloro

23
che ricevono l'istrnzione (c. 18), sull'imposizione
delle mani sui catecumeni (c. 19), su coloro che
riceveranno il Battesimo (c. 20), sulla comunione
(c. 22), sul digiuno (c. 23), sui doni ai malati (c.
24), sull'introduzione della lucerna (c. 25), sui
diaconi e i presbiteri (c. 39), sui luoghi della sepol-
tura (c. 40).
Queste lacune sono colmate ricorrendo alle ver-
sioni della Tradizione apostolica, delle quali trattere-
mo a suo luogo.

2. Il Sinodos alessandrino
Il Sinodos della Chiesa d'Alessandria è una rac-
colta di tre documenti accostati: i Canoni degli
Apostoli (Costituzione della Chiesa apostolica), pre-
sente anche nel Palinsesto di Verona; La Tradizione
apostolica (Costituzione della Chiesa egiziana); il
libro VIII delle Costituzioni apostoliche, senza le
formule eucologiche.
Perduto il testo originale greco, il Sinodos è stato
trasmesso da quattro traduzioni, tra loro dipenden-
ti, guidate dalla traduzione sahidica fatta verso
l'anno 500, dalla quale derivano le traduzioni
araba e bohairica, quest'ultima del 1804; la tradu-
zione etiopica è stata fatta sulla traduzione araba.
I.e tre versioni, araba, etiopica e bohairica, dato
lo stato precario della tradizione manoscritta della
versione sahidica, possono favorire un avvicina-
mento alla forma più arcaica del testo, passando
per la versione sahidica.
La Tradizione apostolica nel Sinodos e nel Pa-
linsesto di Verona è accostata ai Canoni degli Apo-
stoli; nel Palinsesto è separata dal trattato Sui cari-
smi ed è posta accanto ad una raccolta di tutt'altra
origine. Ciò può significare che la versione latina e
ti Sinodos hanno un archetipo comune.

24
Rilievi sulle versioni del Sinodos
a) Versione sahidica = S (Sl, S2). Il ms. principe
della versione sahidica è quello del British Museum
or. 1820 datato al 1006, che fu pubblicato integral-
mente da P. Legarde, Aegyptiaca, Gottingen 1883.
Nel 1954 una nuova edizione fu curata da W. Till
- J Leipoldt, sotto il titolo Der koptische Text der
Kirchenordnung Hippolyts, (TU 58), Ber/in 1954,
che in pratica ripropone, con qualche lieve modifi-
ca, quella del Legarde. Il ms. British Museum or. 440
e un manoscritto del Patriarcato d'Alessandria sono
copie del ms. 1820. Interessanti i pochi frammenti
contenuti nel ms. British Museum 3580. La. versione
sabidica copre e completa la versione veronese, fatta
eccezione per le preghiere dell'ordinazione e per
l'anafora che sono omesse.

b) Versione araba = A. La. versione risale a prima


dell'anno 1295; fu/atta su un manoscritto comple-
to e non ha le lacune dei manoscritti sahidici. Pub-
blicata una prima volta sul ms. Vaticanus ar. 149, da
G. Horner, The Statutes of the Apostles or Canones
Ecclesiastici, London 1904, pp. 89-125, nel 1912 J
e A. Périer ne fecero una edizione critica che intito-
larono Les 127 Canons des Apotres, (PO 8,39,4),
Turnhout 1971.

c) Versione etiopica = E (El, E2). Questa versio-


ne è fatta risalire al tredicesimo secolo. È stata pub-
blicata integralmente sulla base del British Museum
or. 793 da G. Horner, The Statutes of the Apostles or
Canones Ecclesiastici, London 1904, pp.1-87, insie-
me con la versione araba. Un 'edizione critica, basa-
ta su un numero maggiore di manoscritti di quanti
ha potuto consultare Horner, è dovuta a H. Dun-
sing, Der aethiopische Text der Kirchenordnung des
Hippolyt (Abhandlungen der Akademie der Wissen-

25
scbaft in Gottingen Pbil. bist. Klas., 3 Folge 32),
Gottingen 1946. Presenta più varianti di quante ne
ba segnalate Dix. Questa versione, fatta su quella
araba, è il testimone più completo. Ha conservato
non solo le preghiere omesse nel sabidico e nell'ara-
bo, ma anche alcuni capitoli dei quali non restava-
no che frammenti nei restanti testimoni. Contiene
delle interpolazioni, in particolare una collezione
di preghiere battesimali inserite tra il capitolo 30 e
il 31. L'anafora per la consacrazione del vescovo è
stata recepita nel rito etiopico sotto il nome di
Anafora degli Apostoli.

d) Versione bohairica = B. Dal colofone del ma- ,


noscritto di Berlino (or. quart. 519 [9488] ora nella
Bibliolteca Universitaria di TUbingen) si apprende
che questa versione è del 1804 ed è opera di un certo
Giorgio, figlio di Kosma. È una traduzione recente
fatta dal dialetto meridionale, il sabidico, in quello
settentrionale, ti bohairico. È opinione diffusa che
l'arabo fosse la lingua madre del traduttore. Tut-
tavia la versione è ritenuta un testimone valido della
tradizione sahidica, come la collezione canonica
araba proveniente ugualmente dal sahidico. Dom
Botte è piuttosto diffidente nei suoi confronti e se ne
valse solo per colmare la lacuna della versione sahi-
dica nel capitolo del Battesimo. L'edizione è stata
curata da H. Tattam, The Apostolical Constitutions
or Canons of the Apostles in Coptic with an English
Translation, London 1948.

LE RIEIABORAZJONI

1. I Canoni di Ippolito = K
Questa collezione di 38 Canoni, che va sotto il
nome di Canoni di Ippolito, con molta probabilità è
la più antica rielaborazione della Tradizione apo-

26
stolica ed è stata composta in lingua greca, presumi-
bilmente ad Alessandria d'Egitto, tra il 336 e il 340.
Questa datazione è di grande interesse perché porte-
rebbe a collocare la collezione prima della versione
latina della Tradizione apostolica e prima della
compilazione delle Costituzioni apostoliche. Il com-
pilatore sembra essere stato un chierico di probabile
origine giudaica, come risulta da alcune riprese di
forme anticotestamentarie. L'attribuzione ad
Ippolito è chiaramente una finzione letteraria, che
ha la sua ragion d'essere nel fatto che il redattore st
è ispirato alla Tradizione apostolica, che tratta con
molta libertà alterando senza scrupoli la fonte cui si
ispira. Per fare un esempio: le prescrizioni sui cimi-
teri, c. 40, diventano nel canone 24 norme che
riguardano gli ammalati, che dormono nelle chiese
sperando in un miracolo; gli embrici che chiudono
i loculi nelle catacombe sono trasformati in vasi di
terracotta accidentalmente rotti da coloro che pre-
stano servizio agli ammalati; i custodi dei cimiteri
diventano sacrestani.
La collezione è importante come testimonianza
della presenza di questo e di altri passi nel ms. della
Tradizione apostolica usato dal redattore, ma non
come prova di una variante.
Perduto l'originale greco, è sopravvissuta in tra-
duzione araba, che è stata pubblicata da D. B. de
Haneberg, Canones S. Hippolyti Arabice e codicibus
Romanis, Monaco 1870. Nel 1966 R.G. Coquin ne
ha curato una edizione critica dal titolo Les Canons
d'Hippolyte (PO 31, 2), Paris 1966.

2. Le Costituzioni apostoliche =C
Queste sono una compilazione in lingua greca di
numerosi documenti, divisa in otto libri.
I libri I-W conseroano un rimaneggiamento della

27
Didascalia degli Apostoli presente sia nel Palinsesto
di Verona che nel Sinodos d'Alessandria;
Il libro VII è una rielaborazione della Didaché e
di altre fonti liturgiche;
Il libro VIII contiene un trattato Sui carismi, un
rimaneggiamento della Tradizione apostolica e degli
85 Canoni.
L'opera completa è stata pubblicata per la prima
volta da F. Turrianus, Constitutiones sanctorum A-
postolorum, doctrina catholica a Clemente Romano
episcopo et cive scripta libri octo, Venetiis 1563;
2ed. 1578. Sono seguite altre edizioni, tra le quali
sono da segnalare quella di F.X. Punk, Didascalia
et Constitutiones Apostolorum, voli. I-II, Paderborn
1905; rist. anast. Torino 1964; E. Tidner, Didasca-
liae Apostolorum, Canonum Ecclesiasticorum Tra-
ditionis apostolicae Versiones latinae, (TU 75), Ber/in
1963; M. Metzger, Les Constitutions apostoliques,
(SCh 320329336), Paris 1985, 1986, 1987.
In questa compilazione sono accostate la Dida-
scalia e La Tradizione apostolica. Mancano i Cano-
ni degli Apostoli, ma è presente la Didaché, della
quale una parte importante è ripresa nei Canoni
degli Apostoli. Il libro VIII contiene il trattato Sui
carismi, al quale accenna il Prologo della Tradizione
apostolica. L'accenno al trattato Sui carismi crea un
problema che non è stato ancora risolto. Dom Botte
affaccia l'ipotesi che i primi due capitoli delle
Costituzioni apostoliche non abbiano alcuna rela-
zione col trattato Sui carismi inciso nel trono della
cosiddetta statua di Ippolito. L'autore, in luogo di
questo trattato, ne ha trovato uno Sui segni che ha
configurato come trattato Sui carismi con alcune
interpolazioni. Per rendere credibile la sua opera-
zione ha sostituito la frase ·ripresentare a se stesso
quell'immagine che aveva deviato• con "e come Dio
denuncia la condotta di coloro che osano proferire
menzogne o che sono spinti a parlare da uno spiri-

28
to straniero e come Dio si è servito sovente di mal-
vagi per profetizzare e per compiere miracoli•. ].
Magne ha ripreso un 'ipotesi di Punk secondo la
quale la fonte dei primi due capitoli del libro VIII
delle Costituzioni apostoliche è lo scritto di Ippolito
intitolato La Tradizione apostolica sui carismi. Sul
trono della statua non si hanno due opere distinte,
una sulla Tradizione apostolica e una Sui carismi,
ma una sola opera dal titolo Tradizione apostolica
sui carismi.
Una cosa appare certa: il redattore delle Costi-
tuzioni apostoliche ha trovato La Tradizione incor-
porata nella collezione. Il manoscritto, del quale si è
servito, risale al medesimo archetipo dal quale di-
pendono il Palinsesto di Verona e il Sinodos alessan-
drino.
Le Costituzioni apostoliche vengono datate tra la
fine del quarto secolo e l'inizio del quinto, ma con
una preferenza verso l'anno 380; come luogo di
composizione si pensa alla Siria.

3. L'Epitomé delle Costituzioni apostoliche VIII = Ep


L Epitomé è una collezione di testi che compren-
de la Didascalia dei santi Apostoli sui carismi e cor-
risponde a Costituzioni apostoliche, VIII, 1-2; /'Or-
dinamento dei santi Apostoli sull'imposizione delle
mani di Ippolito corrisponde a Costituzioni apostoli-
che, VIII, 4-5, 16-28, 30-31; le Ordinanze dell'Apo-
stolo Paolo sui canoni ecclesiastici corrispondono a
Costituzioni apostoliche, VIII, 32; le Ordinanze dei
santi Apostoli Pietro e Paolo: corrispondono a Co-
stituzioni apostoliche, VIII, 33-34; 42-45; la Di-
dascalia di tutti i santi Apostoli sul buon ordine cor-
risponde a Costituzioni apostoliche, VIII, 46.
Il documento ha delle peculiarità che si riscontra-
no nel Palinsesto di Verona e nel Sinodos. Nella con-
sacrazione del vescovo la preghiera è più breve e

29
certamente autentica, come si ha nel Palinsesto di
Verona e nel Sinodos; nel conferimento del lettorato
prevede la sola consegna del libro. Peculiarità si
hanno nelle regole concernenti il concubinato degli
schiavi; significativa è la citazione del nome di
Ippolito nel titolo della seconda sezione, quella che
coincide con l'inizio della Tradizione apostolica. La
ragione della citazione di Ippolito è da collegare al
manoscritto dell'epitomatore che aveva nel titolo il
nome di Ippolito.
Secondo G. Dix queste particolarità sono im-
portanti e indicano che l'Epitomatore conosceva
il testo originale della Tradizione apostolica, che
era stato ampliato, almeno nei passi controllati, dal-
l'autore delle Costituzioni apostoliche.
La probabile data di composizione. dell'opera è
l'inizio del quinto secolo e dovrebbe essere stata
realizzata in Siria.

4. Il Testamento del Signore nostro Gesù Cristo = T


D Testamento del Signore nostro Gesù Cristo for-
ma i primi due libri dell'Ottateuco clementina. È un
codice canonico liturgico che pretende di essere det-
tato dal Signore ai suoi Apostoli e comprende 74
capitoli, dei quali i primi 19 formano la parte apo-
calittica, gli altri 55 sono una serie di prescrizioni
apparentate per il loro tenore, per il loro ordine e per
il testo stesso agli ordinamenti delle Chiese contenu-
ti nelle Recognitiones. Il titolo di Testamento del
Signore nostro Gesù Cristo è dovuto a un apocrifo
che riporta un discorso fatto da Gesù risorto ai suoi
discepoli. Il documento a volte segue molto da vi-
cino La Tradizione apostolica. Composto ad Antio-
chia verso l'inizio del quinto secolo, venne tradotto
dal greco in siriaco nell'anno 669 da Giacomo di
Eciessa. Data l'esistenza dei 38 Canoni di Ippolito,
che sono all'origine delle rielaborazioni della Tra-

30
dizione apostolica, è lecito domandarsi se il redat-
tore ha conosciuto La Tradizione apostolica in una
forma indipendente oppure incorporata a qualche
collezione. Poiché in altre collezioni La Tradizione
apostolica è associata ai Canoni e il redattore glossa
il testo dei Canoni, è probabile che l'abbia conosciu-
ta sotto questa forma. Buona parte della Tradizione
apostolica è stata incorporata nel Testamento. Solo
un accurato esame potrebbe fare emergere il rap-
porto di dipendenza di un documento dall'altro e il
grado di rielaborazione, poiché ci sono casi in cui
riferisce fedelmente le parole della Tradizione apo-
stolica, ma vi interpola parole e frasi di suo conio.
Un caso è quello del •credo battesimale», dove si legge
l'evidente interpolazione ·che viene dal Padre, che è
eterno col Padre•, e la omissione della fede nella re-
surrezione della carne. Un altro caso si rileva nei ri-
guardi del diacono, che, secondo La Tradizione apo-
stolica c. 8, •non prende parte del consiglio di tutto
il clero•; il Testamento corregge la norma dicendo
che -il diacono fa parte del consiglio di tutto il clero•.
La, correzione suppone la conoscenza della norma
della Tradizione apostolica. Nelle istruzioni sull'ele-
zione del vescovo ha uno sviluppo molto lungo, co-
me non si ha nelle corrispondenti norme della Tra-
dizione apostolica. Dix ritiene che la combinazione
della versione latina e del Testamento contro le ver-
sioni araba, etiopica e sahidica sia significativa e
quando l'accordo con La Tradizione apostolica è con-
tinuo, rappresenta un testo da non sottovalutare.

FRAMMEN11 GRECI SCOPERTI RECENTEMENTE

M. Richard ha scoperto in un florilegio di citazio-


ni patristiche due manoscritti, cod. Ochrid. 86 (sec.
Xl/I) f 192 del Museo nazionale di Ochrid, e Paris.
gr. 900 (sec. XV) f 112 del Museo nazionale di Pa-
rigi. Questi nuovi frammenti conservano l'originale

31
greco della Tradizione apostolica, c. 36, e sono so-
stanzialmente concordanti tra loro. Non va trascu-
rato che ai quindici frammenti di Ochrid. 86 è
premesso il titolo Diataxeis (Ordinanze) dei santi
Apostoli.
Un altro frammento greco fu scoperto da A.
Dmitrievski in un rituale dell'unzione degli infermi,
risalente all'undicesimo/dodicesimo secolo, nel mo-
nastero di santa Caterina al Sinai. Pubblicato da A.
Trebelas col titolo Mikron euchologion, Atene 1950-
5, i, p. 180, attirò l'attenzione di E. Segelberg per il
fatto di essere un evidente adattamento della pre-
ghiera di consacrazione dell'olio contenuta nella
Tradizione apostolica, c. 5.

Le versioni e le rielaborazioni della Tradizione


apostolica attestano l'interesse suscitato da questo
documento antico dai molteplici aspetti. La ricostru-
zione dell'originale greco è difficile se non impossi-
bile. La fatica di Hauler, di Dix, di Botte e di Tidner,
che hanno preso come punto-base il Palinsesto di
Verona, ha consentito di giungere ad una approssi-
mazione ragionevole. Si può legittimamente sperare
che nuove scoperte permettano ulteriori progressi.

32
LA TRADIZIONE APOSTOLICA
E I SUOI RIMANEGGIAMENTI

La Tradizione apostolica
(Roma - 218)

I 38 Canoni
d'Ippolito
(Egitto - 336/340)

Le Costituzioni apostoliche;
L. VIII, 3-46
(Siria-Palestina - 380)

Epitomé (Costituzione per Ippolito)


(Siria - inizio V sec.)

Testamento del Signore


(Siria - metà V sec.).

cc. 48_71 _ _ Sinod~ alessandrino


cc. 21-47
(Egitto - V sec.)

33
LA 'TRADIZIONE APOSTOUCA E LE SUE VERSIONI*

(La Tradizione apostolica = originale greco perduto)

Frammenti di Verona Sinodo Alessandrino


Latino (ed. Hauler)
375/400
(466/494)

Sahidica
VIII
(1006)
Araba
X
(XIII-XVII))
Etiopica
XIII
(1440)

Bohairica
1804

• I documenti tra parentesi sono perduti. La prima data (o secolo)


indica il periodo di traduzione; la seconda è quella del manoscritto
più antico in nostro possesso. Per i due grafici, cfr. Faivre A., op.
cit., p. 42.

34
I CONTENUTI DOTIRINALI

LA NOZIONE DI TRADIZIONE

La nozione di tradizione sostenuta dall'autore


non si allinea con quella di altri autori vissuti nel
periodo di tempo nel quale il nostro testo fu compo-
sto e tradotto in latino o rielaborato in successive
collezioni. Queste infatti producono una nozione di
tradizione che, a volte, ha dell'immaginario e in
ogni caso rivelano una mentalità da •costituziona-
listi•. Quanto riguarda le istituzioni e la disciplina
ecclesiastiche è riferito come una prescrizione detta-
ta dagli Apostoli e tramandata per iscritto. Si tratta
non solo di una "finzione letteraria'', ma anche di
una ''finzione giuridica'', tendente a dare autorità
alle prescrizioni di vario genere invocando uno spe-
cifico intervento degli Apostoli. Questo fenomeno si
registra dal secolo terzo in poi fino al secolo quinto
e si rivela come un tentativo di mettere ordine in
quella che poteva essere definita, particolarmente in
campo liturgico, creatività esagerata e/o improvvi-
sazione. Le collezioni perseguivano lo scopo di dare
un fondamento apostolico alle istituzioni che anda-
vano via via consolidandosi. L'appello all'autorità
degli Apostoli aveva il crisma della garanzia.
La Tradizione apostolica è cronologicamente an-
teriore all'affermarsi di questa tendenza. Non invo-
ca in suo favore decisioni singole o collettive degli
Apostoli e si annoda, ma da un 'angolazione giu-
ridica e quindi diversa, alla nozione di tradizione
tipica della seconda metà del secolo secondo, per
intenderci, del secolo di Ireneo di Lione, per il quale
la tradizione degli Apostoli è un fatto teologico ed
equivale alla trasmissione orale degli insegnamenti
del Cristo e degli Apostoli stessi. Ireneo ribadisce a
più riprese che il Cristo non ha scritto nulla e nep-
pure gli Apostoli all'inizio e che la tradizione, che

35
viene dagli Apostoli, è conseroata nella Chiesa per
mezzo della catena ininterrotta dei vescovi, loro
successori. La continuità storica di questa tradizio-
ne è garantita dalla presenza dello Spirito Santo.
Ireneo non conosce riunioni segrete degli Apo-
stoli, che abbiano avuto per oggetto le istituzioni e la
disciplina della Chiesa e dove sia stata studiata la
strategia dell'apostolato, ma sottolinea il fatto della
trasmissione orale vivificata e conseroata nell'unità
dall'azione dello Spirito Santo presente nella Chiesa.
L'autore della Tradizione apostolica suppone l'e-
sistenza di una tradizione, sulla quale ha lavora-
to e i cui referenti sono gli Apostoli. Il riferimento
agli Apostoli non avviene tramite testi scritti: essi
infatti hanno rimesso un deposito che si trasmette
oralmente, che deve essere ritrasmesso e conseroato.
Su questo concetto, proposto all'inizio, ritorna afine
lavoro. Con molta serenità e modestia propone i
risultati della sua fatica personale ·affinché coloro
che sono bene istruiti conservino la tradizione, che
si è finora mantenuta, seguendo la nostra esposizio-
ne e, conoscendola, siano più sicuri di fronte a/-·
/'apostasia o all'errore che si è prodotto di recente
per ignoranza e da ignoranti•. E nuovamente a con-
clusione dello scritto: ·Do a tutti i saggi il consiglio di
custodirle, poiché se tutti coloro che ascoltano la tra-
dizione apostolica la seguono e la custodiscono, nes-
sun eretico né altro uomo vi potrà indurre in erro-
re... se abbiamo omesso qualcosa, Dio lo rivelerà a
coloro che ne sono degni•.
La Tradizione apostolica contiene principalmen-
te norme istituzionali e pochi elementi dottrinali.
L'assicurazione che il deposito delle verità, trasmesso
dagli Apostoli, non è stato adulterato, è data dai
vescovi, ai quali incombe l'obbligo di trasmetter/o e
di conseroarlo, ma anche di sciogliere ogni legame.
Per questo hanno ricevuto la grazia dello Spirito
Santo nell'ordinazione. Verificare la successione epi-

36
scopale significa constatare il legame con gli Apostolt
e avere la garanzia dell'autenticità della tradizione.
I responsabili della trasmissione e della conseroa-
zione del deposito, per due volte, sono definiti •colo-
ro che sono degni• (c. 43; cfr. c. 4). Alla fine dell'or-
dinazione e prima di iniziare l'azione di grazie
sulle oblate, il popolo presente dà al novello vescovo
il bacio della pace e lo saluta dicendo: ·È diventato
degno•. Ancora nel corso della stessa preghiera ri-
corre l'espressione ·ci bai fatti degni di stare alla tua
presenza•.
Nella Conclusione dello scritto riaffiora la mede-
sima espressione. Il dubbio, che può sussistere, sul-
l'identificazione di •coloro che sono degni· con i
vescovi nella citazione finale, non ha ragion d'esse-
re, una volta constatata l'acclamazione del popolo
al novello vescovo. Sono pertanto i vescovi i respon-
sabili della fedele trasmissione della tradizione apo-
stolica, da intendere, questa, in senso piuttosto ri-
duttivo e istituzionale. Sostenendo questa loro re-
sponsabilità, l'autore si ricollega, in un certo modo,
ad analoghe idee esposte con dovizia di particolari
da Ireneo di Lione.
Ireneo e l'autore della Tradizione apostolica, pur
appellandosi entrambi alla tradizione, l'accostano
in modo diverso: per Ireneo si tratta di un comples-
so dottrinale, da non identificare con le Scritture,
che gli Apostoli hanno ricevuto da Cristo ed banno
trasmesso ai vescovi loro successori. Questa idea è
illustrata con efficacia da un 'ipotesi che egli for-
mula: ·Se gli Apostoli non ci avessero lasciato alcu-
na Scrittura, non sarebbe allora necessario seguire
"l'ordine della tradizione" che essi hanno trasmesso
a coloro ai quali affidavano le Chiese? Proprio a
questo "ordine" hanno dato il loro consenso molti
popoli barbari che hanno creduto in Cristo•.
L'autore della Tradizione apostolica invece inten-
de mettere per iscritto norme liturgiche ed etiche

37
consuetudinarie, "tràdite"flnora per via orale o per
iscritto, ma con insufficiente chiarezza, non codi-
ficate o, perlomeno, non ancora fissate, creando
qualcosa che rassomiglia a un canone convenzio-
nale contenente insegnamenti e riti. Da buon "tradi-
zionalista·: come affiora dal complesso della mate-
ria che ha ordinato, accoglie le precedenti prescri-
zioni e dà loro concretezza storica. L'immagine
della comunità cristiana, che propone, potrebbe es-
sere la risposta indiretta e discreta alle innovazioni,
che non condivideva 4•

LA COS1TIVZIONE DELLA CHIESA

La Chiesa della Tradizione apostolica si presenta


con due facce: con quella della costituzione gerar-
chica e con quella di comunità radunata nello
Spirito Santo. Allo Spirito Santo è attribuito un ruolo
determinante nei momenti forti, nei quali la Chiesa
si costruisce come comunità, ossia nelle istituzioni
sacramentali. La responsabilità della sua condu-
zione ricade in modo particolare sul vescovo e in
maniera decrescente sui presbiteri e sui diaconi, che
sono costituiti nelle loro funzioni con l'imposizione
delle mani durante un atto liturgico, dopo essere
stati eletti da tutta l'assemblea (cc. 2. 7.8). Per i
ministri di rango inferiore, il lettore e il suddiacono,
non è prevista l'imposizione delle mani (cc. 11.13).
La loro istituzione avviene rispettivamente con la
consegna del libro e con la nomina. Mentre per la
scelta della verginità, basta la decisione della perso-
na stessa, che intende mantenersi vergine (c. 12);
per le vedove è prevista l'istituzione con una formu-

• Se, tra gli altri obiettivi, La Tradizione apostolica si propone di richia-


mare le forme tradizionali sia in liturgia che in etica di fronte alle inno-
vazioni di Callisto, contro il quale l'autore si scaglia, la data di compo-
sizione dell'originale andrebbe fissata all'inizio del pontificato di Callisto
(217-222) e il luogo di composizione sarebbe Roma.

38
la, che non è riportata (c. 10). La/rase che la vedo-
va è istituita perché preghi e che pregare è un do-
vere di tutti, non dice nulla in proposito. L'autore
prende occasione dall'istituzione delle vedove per
spiegare che il gesto del/ 'imposizione delle mani è un
gesto riseroato a coloro che sono costituiti ministri in
senso proprio ed è ordinato all'oblazione e al seroi-
zio liturgico. Pertanto sul capo della vedova non si
impongono le mani. Traducendo nei termini della
teologia sacramentaria, il gesto di imporre le mani
sul capo è segno del sacramento dell'ordine.
Ancora molta importanza ha davanti alla comu-
nità la figura del ·confessore· (c. 9), che è stato arre-
stato per il nome del Signore e ha subito un proces-
so pubblico. Non ugualmente importante è il •confes-
sore•, che ha subito delle vessazioni private da parte
dei familiari o da altre persone. Il confessore, che ha
reso testimoninza davanti all'autorità giudiziaria,
gode di una condizione di privilegio e d'onore al-
l'interno della comunità, che in effetti lo eguaglia a
quella del presbitero. Questa motivazione non risol-
ve la difficoltà insita nell 'a.ffermazione che il confes-
sore possiede l'onore del sacerdozio tramite la sua
confessione della fede.
Probabilmente la risoluzione va cercata in altra
direzione: l'autore usa la locuzione •imposizione
delle mani• in senso tecnico, indicando cioè •ordi-
nazione• presbiterale o diaconale. Se ciò corrispon-
de al testo e al contesto, la sua omissione non crea il
fatto nuovo di una ordinazione senza l'imposizione
delle mani. La norma concernente i confessori, che
banno reso pubblica testimonianza alla fede cristia-
na, prescrive per motivi che sfuggono, ma che sono
riscontrabili in altri scrittori, come Cipriano, che
questi personaggi scomodi non vengano ammessi al
ministero diaconale o sacerdotale5• A loro rimane

' Cipriano, Lettere, 38.39, comunica di avere iscrino tra i lenori i due gio-

39
tuttavia aperta la strada all'episcopato, che vuol di-
re divenire responsabile in prima persona di una
Chiesa e rendere conto delle proprie azioni princi-
palmente alla comunità. Se ciò è vero, non vengono
messi in discussione l'importanza e il significato
dell'imposizione delle mani, ossia il dono dello
Spirito Santo, nell'ordinazione presbiterale e diaco-
nale, ma si riconosce effettivamente che meritano
tutto l'onore e il rispetto dovuti al clero senza far
parte del clero.
Altra figura è quella del guaritore, che non rice-
ve l'imposizione delle mani; la sua dichiarazione di
possedere il carisma delle guarigioni viene verifica-
to in concreto nei fatti. Non si vede infatti come
possa essere conferito tale potere (c. 14).
L'organizzazione generale della Chiesa, in forma
gerarchica discendente, nella Tradizione apostolica
si presenta così: vescovo ordinato con l'imposizione
delle mani dei vescovi delle comunità vicine; presbi-
teri e diaconi ordinati dal vescovo della comunità
che impone loro le mani; confessori; vedove e lettori
istituiti; vergini; suddiacono nominato; guaritore
confermato dalle effettive guarigioni. I diaconi e i
presbiteri, con a capo il vescovo, formano il clero;
confessori, vedove, vergini, suddiaconi e guaritori
svolgono funzioni che non li separano dal popolo. Il
clero riceve l'imposizione delle mani perché ha un
ruolo strettamente cultuale nella liturgia; per le fun-
zioni che non hanno un ruolo propriamente cultua-
le è sufficiente l'istituzione.

vani confes.sori Aurelio e Celerino e si augura, quando saranno più avan-


ti negli anni, di vederli sedere tra i presbiteri. Benché non sia loro riccr
nosciuto alcun titolo presbiterale, tuttavia beneficiano di un certo nume-
ro di privilegi dei presbiteri. Nella lettera 40 comunica che un confesscr
re anziano, Numidico, sarà iscritto direttamente tra i presbiteri di Car-
tagine. La lettera 22 ricorda il caso di Luciano, il quale, avvalendosi del-
la sua qualità di confes.sore della fede, distribuiva indiscriminatamente
biglietti di comunione ai ·lapsi· anche a nome di altri confes.sori, contrav-
venendo alle disposizioni del vescovo.

40
La, Chiesa della Tradizione apostolica è una "isti-
tuzione", dove, alla nota distinzione tra clero e lai-
cato, se ne aggiunge un 'altra che avviene tra coloro
che esercitano una funzione, tra coloro, cioè, che
sono ordinati in vista di un servizio liturgico e gli
altri, ai quali sono affidati compiti a favore della
comunità.
L'autore non nomina in questo elenco i maestri,
i catechisti, che hanno un ruolo rilevante nella
preparazione dei catecumeni al Battesimo (cc.
15.18.19.41); ifossori, che animano le pitture delle
catacombe, sono dei semplici salariati (c. 40).
L'aspetto più importante della Chiesa, che l'auto-
re sottolinea, è di essere, in ogni luogo della terra,
santuario per la gloria e la lode incessante del no-
me di Dio: tempio spirituale, raffigurato nell'Antico
Testamento, nel quale si manifesta la gloria di Dio
e dove fiorisce lo Spirito Santo. Nelle dossologie, con
le quali terminano diverse formule, è fatta sempre
menzione della Chiesa, del Figlio di Dio e dello Spi-
rito Santo (cc. 3.4.6. 7.35.41). Lo Spirito Santo è in-
vocato su coloro che ricevono l'ordinazione e sulle
oblate nel corso dell'anafora eucaristica.

LE ORDINAZIONI DEL VESCOVO,


DEL PRESBITERO E DEL DIACONO

La Tradizione apostolica contiene tre schemi di


conferimento dell'ordine, tra loro affini, ma che in-
dicano e sottolineano i compiti e i seroizi che ciascu-
no degli ordinati deve rendere alla comunità: lo
schema per l'ordinazione def vescovo (c. 3), quello
per il presbitero (c. 7) e quello per il diacono (c. 8).
L'ordinazione episcopale è fissata di domenica,
perché deve avvenire in un giorno in cui i fedeli si
radunano in chiesa insieme con i presbiteri e che
favorisca la partecipazione dei vescovi del vicinato.
Il senso ecclesiale della collegialità è illustrato dalla

41
scelta del giorno, dalla partecipazione di altri vesco-
vi all'ordinazione e dalla presenza del presbiterio
della Chiesa, per il cui governo viene ordinato il
nuovo vescovo, e ovviamente dal popolo, dal quale è
stato scelto. Nell'ordinazione episcopale sono previ-
ste due imposizioni delle mani: la prima è fatta in
silenzio dai vescovi presenti, mentre tutta l'assem-
blea prega in cuor suo; la seconda è fatta da un solo
vescovo, scelto all'unanimità, che pronuncia la pre-
ghiera di consacrazione rivolta a Dio Padre. Questa
preghiera è composta da due parti; nella prima, in
linguaggio sintetico e concreto d'ispirazione biblica,
è ripresa l'idea che Dio non solo ha istituito il culto,
ma ha anche stabilito la tipologia del culto, col
quale voleva essere onorato e venerato da coloro che
si era scelto come ministri. Fin dalla creazione del
mondo, Dio ha suscitato chi gli prestasse il culto
dovuto. Ricordando la figura di Abramo dimostra
che, da allora fino alla venuta del Cristo e alla costi-
tuzione della Chiesa, non c'è stata soluzione di con-
tinuità. In questa parte è invocato Dio Padre perché
effonda sul candidato la potenza dello Spirito sovra-
no, che fu dato a Gesù Cristo e da questi comunica-
to agli Apostoli, fondatori della Chiesa nel mondo.
Nella seconda parte sono elencati i compiti specifici
del vescovo: pascolare il santo gregge di Dio, eserci-
tare il sommo sacerdozio in un seroizio continuo,
offrire i doni della Chiesa, perdonare i peccati, scio-
gliere ogni legame in virtù del potere conferito agli
Apostoli, assegnare gli incarichi.
In questa preghiera il vescovo è raffigurato come
pastore e gran sacerdote in ordine a Dio e al popo-
lo. L'obbligo dell'istruzione del popolo di Dio non è
esplicito, ma è da ritenere confluito nella funzione
di pastore. Il concetto della successione apostolica
non è in primo piano; prevale invece quello della
continuità dell'economia divina, come è stata in-
dicata nella prima parte. Questa continuità ha

42
una concretizzazione nella successiva anafora.
L'acclamazione ·è diventato degno• e il bacio della
pace posti alla fine significano l'approvazione di
tutti i presenti, popolo e clero, dell'avvenuta consa-
crazione. Questa preghiera consacratoria ba avuto
il crisma della "ufficialità" con l'accoglienza inte-
grale, fatti alcuni aggiustamenti linguistici e di stile,
nel ·Pontificale Romano• sotto il titolo De ordinatio-
ne episcopi, presbyterorum et diaconorum, pubbli-
cato dalla Tipografia Poliglotta Vaticana in prima
edizione nel 1968 e in seconda edizione nel 1989.
Il fatto è significativo, perché questa parte della
Tradizione apostolica è ritenuta in sintonia con i
canoni afferenti alla costituzione del sacramento
dell'ordine.
L'ordinazione del sacerdote segue un tracciato
analogo, i cui protagonisti sono il vescovo e il presbi-
terio. Si rileva, come prima cosa, che la scelta del
presbitero non è fatta dal popolo. Sul capo dell'ordi-
nando impongono la mano prima il vescovo e poi i
sacerdoti •a motivo del comune e simile spirito• (c.
8). La partecipazione dei sacerdoti all'imposizione
delle mani non significa che il gesto compiuto dal
vescovo sia insufficiente e inadeguato e quindi sia
necessario quello dei sacerdoti, ma perché essi
hanno ricevuto lo stesso spirito sacerdotale, coopera-
no a uno stesso e unico ordine e col vescovo costitui-
scono il collegio presbiterale. Questa specificazione
ha una verifica nel fatto che il solo vescovo recita la
preghiera dell'ordinazione ed egli solo domanda per
I 'ordinando spirito di grazia e di saggezza sacerdo-
tale per essere aiutato a governare il popolo di Dio.
Nel precisare che il sacerdote non interviene nel-
l'ordinazione del diacono, che è consacrato per esse-
re a servizio del vescovo, l'autore ritorna al proble-
ma del ruolo del sacerdote nell'ordinazione sacer-
dotale per mettere in luce quello che il sacerdote può
fare nel caso: precisato che il sacerdote è in condi-

43
zione di ricevere, ma non di dare lo spirito sacerdo-
tale, e quindi non è capace di fare il sacramento
dell'ordine, chiarisce che il suo gesto di imporre le
mani, mentre il vescovo ordina, equivale al ricono-
scimento e all'approvazione dell'ingresso del nuovo
membro nel collegio sacerdotale.
Nella preghiera, strutturata come un tutto com-
pleto, c'è la tipologia dell'Antico Testamento e la sua
applicazione alla Chiesa. Dio comandò a Mosè di
scegliersi degli anziani, sui quali aveva effuso lo
stesso spirito che aveva già dato a lui (c. 7; cfr. Nm
11,17-25). Il raccordo tra la designazione degli
anziani nell'Antico Testamento e quanto avviene
nel Nuovo Testamento e nei tempi della Chiesa, nel
profilo della tipologia e dell'attuazione, è stato rece-
pito e riordinato nella preghiera dell'ordinazione
sacerdotale del Pontificale Romano in esecuzione
alla riforma liturgica voluta dal Vaticano ll6.
La preghiera per l'ordinazione del diacono è
preceduta da una dichiarazione che distingue, da
quelli dei sacerdoti, i suoi doveri, che sono indicati
con espressioni generiche e onnicomprensive: esse-
re al seroizio del vescovo, attendere ed eseguire gli
ordini che gli sono dati, tra i quali amministrare i
beni della Chiesa e segnalare ciò che deve essere
fatto. Non esercita funzioni di tipo cultuale, non
entra nel consiglio presbiterale. Nella dichiarazione
iniziale attira l'attenzione l'insistenza, tre volte ri-
petuta, che il vescovo è il solo ad imporre le mani e
che il diacono è deputato al suo servizio. Si direb-
be che la norma sia stata dettata dalle ambizioni,
forse eccessive, di certi diaconi.
La preghiera dell'ordinazione segue il modello
delle due precedenti: ricorda il Cristo, inviato dal

6 ~ appena il caso di ricordare che le due preghiere di consacrazione sono


slJlte accolte nel Pontificale Romano per la loro sobrietà e capacità di
esprimere la natura sacramenlJl!e del presbiterato e dell'episcopato.

44
Padre per compiere il suo volere e manifestare il suo
disegno, e chiede l'invio dello «Spirito di grazia e di
zelo· per seroire la Chiesa e presentare al vescovo i
doni in vista dell'Eucarestia.
La Tradizione apostolica annota che il compito
preminente del diacono è quello di presentare l'of-
ferta dei fedeli al vescovo, che a sua volta la consa-
cra a Dio (cc. 4.21).
Nei capitoli dedicati al clero si configura la fisio-
nomia della Chiesa delineata dalle prèghiere di isti-
tuzione dei tre ordini: il vescovo celebra l'Eucarestia
circondato dai suoi sacerdoti, che concelebrano e
partecipano con i diaconi alla frazione e alla distri-
buzione del pane e del vino mescolato consacrati
(cc. 21-22); interoiene per l'ultimo esorcismo prima
del Battesimo (c. 20); pronuncia sull'olio dei catecu-
meni l'azione di grazie e l'esorcismo e si riseroa i riti
ultimi del Battesimo, cioè l'imposizione delle mani
sul battezzato e l'unzione con l'olio santificato (c.
21). A lui spetta presiedere il pasto della comunità e
dirigere la conversazione. In sua assenza presiede
un sacerdote o un diacono (cc. 25.28). Presbiteri e
diaconi istruiscono i fedeli nel corso della settimana
(c. 39); il diacono deve essere assiduamente a fian-
co del vescovo, deve segnalargli gli ammalati (c. 34).

L ANAFORA EUCARISTICA

L'anafora eucaristica della Tradizione apostolica


è la più antica che si conosca e segue a ruota l'or-
dinazione del vescovo che immediatamente pre-
siede la celebrazione dell'Eucarestia. La venerabile
antichità, il successo goduto e l'influsso esercitato
nella formazione e nella stabilizzazione della pre-
ghiera eucaristica ne fanno un punto di riferimen-
to obbligato per chiunque si occupi del culto cristia-
no e della sua storia. Un testo, derivatone diretta-
mente, è stato inserito nel Messale Romano di Paolo

45
W col titolo di Preghiera eucaristica II. La sua collo-
cazione in S,tretta connessione con l'ordinazione
episcopale non è arbitraria, ma risponde a una
precisa intenzione dell'autore. L'Eucarestia celebra-
ta dal vescovo neoconsacrato, dai vescovi conconsa-
cranti, dal presbiterio e con la partecipazione festo-
sa del popolo è il primo atto ministeriale del neocon-
sacrato e il primo atto cultuale, l'Eucarestia, com-
piuto nella nuova veste di capo di una Chiesa.
L'assenza della liturgia della parola e della preghie-
ra dei fedeli in un rito domenicale 7 è comprensibile
a condizione che si tenga presente che consacrazio-
ne episcopale e celebrazione eucaristica sono poste
in continuità. Altrove è rimarcata l'importanza del-
l'istruzione sulla parola di Dio ascoltata in chiesa,
non necessariamente collegata alla liturgia euca-
ristica; quando l'istruzione non è fatta in chiesa,
viene consigliata una lettura personale di un libro
santo (c. 41). Nel c. 21, dedicato ai riti battesimali,
è ricordata la preghiera dei fedeli nella celebrazio-
ne eucaristica, ed è sottolineato che i catecumeni
non vi prendono parte. Il bacio della pace con-
chiude i riti (c. 21).
Il testo è molto lineare e semplice, nessuna inter-
ruzione né digressione lo interrompe: le tematiche
qui presenti vengono riprese e ampliate dalle anafo-
re che sono loro debitrici. Il dialogo iniziale, che si
instaura tra il vescovo e il popolo, non è stato varia-
to nelle diverse Chiese e mira a fare l'unità di senti-
menti tra il celebrante e l'assemblea.
L'analisi matura la convinzione che, mentre è
relativamente facile scoprire i nessi con la tradizio-
ne seguente, è piuttosto arduo scoprire i legami con

' Giustino CI Apologia 67) descrive l'assemblea domenicale e attesta la


liturgia della parola. Non va dimenticato che Giustino non ha in ogget-
to l'Eucarestia, che fa seguito alla consacrazione episcopale, bensì una
normale celebrazione eucaristica.

46
la tradizione precedente la redazione del presente
testo. Infatti l'unico altro testo che trasmette delle
preghiere all'interno di ordinanze ecclesiastiche è la
Didaché (cc. 9-10) di origine palestinese o siriaca.
Questa regione è la patria del genere letterario delle
ordinanze ecclesiastiche. Per quanto concerne la
testimonianza della Didaché non va sottaciuto che
non sono riportate le parole dell'istituzione.
C'è da chiedersi se ritualità giudaiche, fatte pro-
prie dal cristianesimo piantatosi in questa regione,
non abbiano avuto un ruolo nella redazione del-
l'anafora della Tradizione apostolica.
Tra le preghiere di ringraziamento giudaiche è
da tener presente l'azione di grazie fatta dopo il
pasto giudaico, la Birkat ha-mazon.
I contenuti tematici dell'anafora permettono di
intuire di quali fonti sia eco il testo in oggetto. I.e
Omelie pasquali sono contestualmente un genere
letterario e un genere liturgico, dove titoli cristologi-
ci, locuzioni, espressioni tipologiche, citazioni bibli-
che, ecc., ne sono l'intelaiatura. Questo materiale na-
sce dalla intetpretazione di Esodo 12 che, per mezzo
della tipologia, viene applicato alla morte di Cristo.
Ne sono un saggio eloquente l'Omelia sulla Pasqua
di Melitone e l'Omelia pasquale dello Pseudo-Ippo-
lito di Roma. Trattandosi di un materiale ancora
allo stato fluido, aveva buon gioco la creatività del
vescovo o del presbitero che presiedeva la liturgia.
Nell'anafora della Tradizione apostolica si rileva-
no i materiali presenti anche nelle omelie pasquali
che, brevemente, sono: il Cristo inviato negli ultimi
tempi come salvatore e redentore, messaggero della
volontà di Dio e tramite della creazione; l'incarna-
zione nel seno della Vergine; il compimento della
volontà divina nell'accettazione della crocifissione
per liberare dalla sofferenza coloro che avrebbero
creduto; spezzare le catene del diavolo e calpestare
l'inferno; rendere manifesta la resurrezione.

47
Un confronto approfondito mostrerebbe come que-
ste espressioni risuonino nell'Omelia dello Pseudo-
Ippolito, nel/ 'Omelia sulla Pasqua di Melitone, nel
De anima et corpore e nel cosiddetto Additamen-
tum. Queste testimonianze sono, senza dubbio, eco
di altri modi di porsi di fronte alla salvezza. Per
esemplificare: l'anafora e l'Additamentum hanno in
comune il riferimento agli ultimi tempi e lo scopo
della missione del Verbo, che è la salvezza. Ora, per
l'Additamentum la salvezza sta nel rimettere insieme
le parti dell'uomo, che il peccato aveva separato. a
peccato infatti è la scomposizione dell'uomo nelle sue
componenti. Nell'anafora invece non appare questa
concezione di separazione e di riunione, tuttavia
identica è la successione dei temi: missione del Figlio,
menzione degli ultimi tempi, salvezza e redenzione.
La frase 41 tuo Verbo inseparabile• rimarca l'uni-
tà tra il Verbo e il Padre, per cui il Figlio è Dio. e
appare veramente come Dio. È un 'espressione che
non ha l'eguale nelle omelie pasquali, ma ricorda
che la nuova Pasqua è operata realmente da Dio,
non meno che la Pasqua degli Ebrei. Si tratta di una
cristianizzazione del/Haggadah pasquale giudaica.
Questa spiega che ·il Signore ci ha fatto uscire
dall'Egitto: non per mano di un angelo, né per
mano di un Serafino, né per mano di un inviato,
ma il Santo ... Io il Signore, io stesso e non un altro•.
Il Cristo, per essere l'attore di questa impresa, deve
presentarsi con un titolo divino. Lo Pseudo-Ippolito
afferma che il Verbo stesso assunse su di sé l'onere
della nostra salvezza e intende, col termine •Verbo•,
il Figlio di Dio.
Non sono poche né prive di interesse altre espres-
sioni dell'anafora, che hanno dei riscontri nel-
l'Omelia sulla Pasqua di Melitone e in quella del-
lo Pseudo-Ippolito: il loro confronto dimostrerebbe
che sono rapportabili a tratti analoghi delle omelie
pasquali e come lo siano.

48
Non sempre l'anafora della Tradizione apostolica
rivela parallelismi letterari o concettuali con gli
scritti, dai quali sono stati tratti gli esempi. Essa con-
tiene anche delle espressioni che non hanno riscon-
tri. Tra queste segnaliamo la seguente: •manifestare
la resurrezione», che è assente da tutte le omelie
pasquali fino a quelle dello Pseudo-Crisostomo. È
presente però nella Confutazione di tutte le eresie,
10,33, 17 nell'identica formulazione e, significativa-
mente, in un contesto dalle movenze più narrative
che omiletiche, che riscrive la storia della salvezza
per giungere a dire che il Verbo offri se stesso, come
primizia, nelle diverse tappe della vita, affinché l'uo-
mo non si disanimi, ma si riconosca uomo.
Nella Dimostrazione della predicazione apostoli-
ca (c. 38), Ireneo di Lione usa l'espressione: .mani-
festò la resurrezione, divenendo egli stesso primoge-
nito dei morti». L'espressione entra in un contesto
che si estende dalla nascita del Verbo creatore fino
all'ascensione al cielo. I diversi momenti biografici
hanno tutti la stessa intensità e non vi è accentua-
zione né dell'uno né dell'altro. La prima parte del c.
38, per certi aspetti, non è molto lontana dall'im-
postazione dell'anafora. Vi si legge infatti che •con
l'apparizione della sua luce si dileguarono le tene-
bre della prigione, santificò la nostra nascita e,
distrntta la morte, sciolse i ceppi che ci tenevamo
avvinti. Manifestò la resurrezione, divenendo egli
stesso primogenito dei morti».
Nell'Omelia sulla Pasqua dello Pseudo-Ippolito si
legge: ·Molti giusti, annunciando la buona novella e
profetizzando, (attendevano) lui, il primogenito dei
morti, per la resurrezione».
La Lettera di Barnaba (c. 5,6) comprende in
un 'unica visione l'incarnazione e la resurrezione.
Scrive: ·Per abolire la morte e per dimostrare la re-
surrezione dai morti» doveva incarnarsi e soffrire.
Confrontando le diverse forme letterarie della

49
locuzione ·la manifestazione della resurrezione• si
nota che la formulazione più lucida e trasparente è
quella della Dimostrazione di Ireneo. Segue quella
della Confutazione e da ultimo quella dello Pseudo-
Ippolito. Il suo significato e il contesto uniforme dei
tre autori citati, presumibilmente indipendenti tra
loro, fanno supporre che l'espressione dell'anafora
appartenga alla tradizione delle omelie pasquali. In
conclusione l'espressione non è una creazione del-
l'autore della Tradizione apostolica, benché non
manchi di novità in un 'anafora.
Il racconto dell'istituzione dell'Eucarestia è intro-
dotto in maniera originale, che non ha riscontri in
altre preghiere eucaristiche. Infatti le parole dell'isti-
tuzione sono l'ultima parte dell'azione di grazie che
descrive la redenzione e la salvezza attingendo al
materiale delle omelie pasquali. Sotto il profilo gram-
maticale, costituiscono un 'unità letteraria e non so-
no, come nei riti successivi, in particolare in quelli
occidentali, un rito nel rito. L'istituzione dell'Eu-
carestia è interpretata quale ultimo gesto della vi-
ta terrena di Gesù Cristo; è posta all'inizio dell'a-
zione di grazie ed è richiamata con una serie di pro-
nomi relativi. Le parole dell'istituzione, •questo è il
mio corpo.. . questo è il mio sangue•, sono riferite
dopo un elenco di atti soteriologici, che sono raccor-
dati alla sua scelta di consegnarsi liberamente alla
morte per la salvezza dell'uomo. Cionondimeno le
parole dell'istituzione hanno un innegabile rilievo,
perché sono presentate come conclusione di un in-
sieme di atti e sono accompagnate da molti più det-
tagli concreti di tutte le altre azioni del Salvatore.
Nella disposizione cronologica di quello che Gesù
ha fatto, la posizione del Verbo sulla croce con le
mani stese è rievocata prima delle parole dell'istitu-
zione ed è interpretata come gesto salvifico che libe-
ra dalla sofferenza i credenti. Dal contesto si evince
la convinzione dell'autore della esistenza di un

50
nesso tra il gesto di Cristo, che nel corso della cena
stende le mani, con la posizione che assumerà sulla
croce con le mani inchiodate al legno.
Il celebrante, fatta memoria della passione e della
resurrezione, offre il pane e il vino e ringrazia Dio
di avere concesso di compiere questa azione cultua-
le. Chiede quindi a Dio d'inviare il suo Santo Spirito
sull'oblazione della santa Chiesa e termina con la
dossologia trinitaria.
L'epiclesi merita un rilievo, perché sull'oblazione
del pane e del vino, sulla quale sono state pronuncia-
te le parole dell'istituzione, è invocato lo Spirito San-
to. Il problema non si pone sull'invocazione dello Spi-
rito Santo, ma sul significato da dare all'espressione
-unendo in una sola cosa•, che fa parte del processo
invocatorio e funge da ponte tra le due richieste rivol-
te al Padre di inviare lo Spirito sull'oblazione della
Chiesa e di riempire dello Spirito coloro che prendono
parte ai "santi doni».
Dom Botte, dopo un 'accurata analisi filologica
del testo, propone la seguente interpretazione: ·Ti
chiediamo di mandare il tuo Santo Spirito sull'offer-
ta della santa Chiesa. Unendo in una sola cosa Oa
tua Chiesa) dona a coloro che partecipano alle cose
sante di essere pieni di Spirito Santo•. Conclude
dicendo che l'espressione può essere riferita sia alla
"Chiesa" che ai "santi che partecipano all'Eucare-
stia", cioè ai fedeli presenti. Il senso generale non
viene intaccato.
L'anafora eucaristica della Tradizione apostolica
ha una struttura tripartita così formata: un rendi-
mento di grazie con l'insistenza sull'attività salvifica
del Cristo inviato dal Padre (tema cristologico relati-
vamente sviluppato) e col quale fanno blocco il rac-
conto dell'istituzione (mentre si consegnava libera-
mente alla passione...preso il pane ti rese grazie...
ugualmente fece col calice); un secondo rendimento
di grazie per essere stati scelti a compiere la celebra-

51
zione che è "hic et nunc" in corso (ti ringraziamo per
averci giudicati degni di stare alla tua presenza e di
essere tuoi ministri); questo secondo rendimento di
grazie è preceduto dal ricordo della morte e della
resurrezione che vuole essere l'attualizzazione del
comando del Signore di ripetere quello che lui ha
fatto; l'epiclesi che termina con la dossologia.
L'attendibilità di questa lettura della strnttura
dell'anafora può essere verificata da un confronto
col papiro Strasbourg gr. 254, presumibilmente del
terzo secolo, che presenta un 'impostazione analoga
con la differenza che al posto dell'epiclesi si hanno
le intercessioni, alle quali è stato impresso un forte
colore ecclesiale. Il secondo rendimento di grazie,
preceduto nell'anafora della Tradizione apostolica
dal ricordo della morte e della resurrezione, nel
papiro manca di motivazione, tuttavia è ben eviden-
te che la celebrazione è oggetto dell'offerta. Sia nel
papiro che nell'anafora si hanno due rendimenti
di grazie e una invocazione rispettivamente per la
Chiesa e per la venuta dello Spirito Santo.
Una strntturazione tripartita di forma strofica
inneroa anche la preghiera che Po/icarpo rivolge a
Dio, mentre attende che venga dato fuoco alla cata-
sta di legna: la prima strofa celebra la grandezza di
Dio, la seconda è un ringraziamento per il dono del
martirio e la terza è un 'invocazione affinché /'azio-
ne in corso giunga a pienezza. Nella seconda e nella
terza strofa si incontrano espressioni simili a quelle
de/l'anafora della Tradizione apostolica. Premesso
che non c'è dipendenza tra il martirio di Policarpo
e /'anafora e che Po/icarpo ha celebrato l'Eucarestia,
le espressioni si rapportano al genere letterario del-
l'anafora eucaristica.
Nella seconda azione di gràzie dell'anafora si
legge: ·Ti rendiamo grazie per averci fatti degni di
stare alla tua presenza e di renderti culto•. Nella sua
preghiera Po/icarpo ringrazia Dio: ·Ti benedico per-

52
ché mi bai reso degno di questo giorno e di que-
st'ora, di prendere parte, nel numero dei martiri, al
calice del Cristo•. ·In mezzo a loro (i martiri) sia io
ammesso alla tua presenza oggi come sacrificio pin-
gue e gradito ... •. ·Essere ammesso alla presenza di
Dio• non è oggetto di rendimento di grazie, come
accade nell'anafora, ma diventa oggetto di supplica.
I due testi banno un altro elemento di vicinanza: il
martirio e la celebrazione eucaristica sono presenta-
ti come un atto di culto.
Queste consonanze riportano al genere letterario
anaforico, che sostanzia l'anafora della Tradizione
apostolica e che ba tracce nella preghiera di Poli-
carpo.
Nel Libro dei Giubilei (c. 22), del 100 circa a.e.,
si racconta di Isacco che celebrò i sacrifici e poi
mandò il sacrificio di salvezza ad Abramo affinché
mangiasse e bevesse. Dopo essersi saziato, Abramo
dice: ·Ora, mio Dio, io ti ringrazio umilmente per-
ché mi hai concesso di vedere questo giorno•. Questa
preghiera è in rapporto col pasto sacrificale offerto
da Isacco. Segue quindi la preghiera di ringrazia-
mento per i benefici avuti da Dio durante i centoses-
santacinque anni della sua vita.
Nella preghiera di Policarpo si legge una frase
analoga: ·lo ti benedico per avermi fatto degno di
questo giorno e di questa ora•. Policarpo colloca la
sua morte in un contesto liturgico e sacrificale. Il cro-
nista descrive quindi il divampare del fuoco attorno
al corpo del martire: ·Era in mezzo, non come carne
che brucia, ma come pane che cuoce... e noi sentim-
mo un profumo come di incenso portato dal vento, o
di altri aromi preziosi•. Queste immagini collegano i
due elementi della celebrazione della morte e del rap-
porto col pasto sacrifica/e.
La teologia dell'anafora della Tradizione apostoli-
ca propone i seguenti elementi:
a) nell'anamnesi ·la sua morte e la sua resur-

53
rezione• sono poste in parallelo, sullo stesso piano,
come un unico atto salvifico, e sono oggetto della
memoria sacramentale. Non va però dimenticato
che nel brano, che inizia per compiere la tua volon-
tà ed acquistarti un popolo santo•, la morte è pre-
sentata come l'atto salvifico per eccellenza, mentre
la resurrezione è collegata allo spezzare il pane;
b) le offerte del pane e del calice consacrati sono
strettamente correlate all'anamnesi della morte e
della resurrezione; ciò dimostra che la sua funzio-
ne è inscindibile da quella dell'anamnesi e diver-
sa da ogni altro evento narrato all'inizio della pre-
ghiera eucaristica;
c) lo Spirito Santo è invocato sull'offerta della
Chiesa, l'oblazione, cioè sul pane e sul vino consa-
crati, ed anche - seconda invocazione - perché
doni •a coloro che partecipano dei santi misteri la
pienezza dello Spirito Santo per confermare la loro
fede nella verità•.
Nell'eventualità che qualcuno offra olio, formag-
gio e olive (cc. 5-6), il vescovo benedice questi doni.
L'autore considera queste offerte alla stregua dell'of-
ferta del pane e del vino, sulla quale non sono state
ancora pronunciate le parole dell'istituzione, e,
prima di riferire la formula di benedizione, ram-
menta che deve essere diversa da quella pronuncia-
ta sul pane e sul vino. La benedizione dell'olio ha un
andamento più solenne di quella del formaggio e
delle olive: è ricordato l'uso dell'olio per la consa-
crazione dei re, sacerdoti e profeti; nella seconda
parte della benedizione, l'olio benedetto appare de-
stinato a scopi medicinali e dietetici. Nella liturgia
del Battesimo (c. 21) sono previste la benedizione
dell'olio dell'esorcismo e quella dell'olio del rendi-
mento di grazie; nessuna delle due ha alcunché di
comune con la presente.
La benedizione del formaggio e delle olive segue
lo stesso schema di quella sull'olio, ma è caratteriz-

54
zata da discrete allusioni all'albero della croce, sor-
gente della vita dei fedeli. L'autore non sembra a-
vere presente l'immagine biblica dell'albero della
vita dell'Eden: egli suggerisce una connessione tra
l'albero della croce di Cristo, dal quale scaturisce la
vita, e la pianta dell'olivo.
O linguaggio della Tradizione apostolica, in ter-
mini di teologia sacramentaria, è ancora in via di
chiarificazione: lo si rileva, tra l'altro, dal fatto di
definire il pane •antitypos• della carne di Cristo e il
vino Khomoioma• del suo sangue; i due sostantivi
sono resi in latino, rispettivamente, con •exemplum•
e ·similitudo• (cc. 21.26.38). Nel c. 41 l'autore di-
mostra d'avere un 'idea precisa sulla correlazione
immagine/figura e realtà: scrive che ~ell'Antico Te-
stamento, la legge ordinò di offrire sempre il pane
della proposizione, come figura del corpo e del
sangue di Cristo; l'immolazione dell'agnello privo
di ragione è figura dell'agnello peifetto•.

LE TAPPE DELL JMZIAZIONE CRISTIANA


Dai capitoli dedicati alle tappe dell'iniziazione
cristiana emerge chiaramente la grande importan-
za che aveva non solo la catechesi, i riti per il con-
ferimento del Battesimo, la professione di fede, che
sono fondamentali, ma anche la partecipazione e
la testimonianza di colui che si faceva garante
della retta intenzione del candidato. A questa pro-
blematica di grande interesse La Tradizione aposto-
lica dedica i cc. da 15 a 22. C'è purtroppo da
lamentare che il Palinsesto di Verona manchi di
questa parte e quindi la ricostruzione del testo, dal
quale dipendono le successive versioni, resta un
problema serio. Non è infatti impensabile che nelle
prescrizioni e nei riti conservati e tramandati dalle
versioni e dalle rielaborazioni dell'originale greco
non siano intervenute aggiunte, modifiche, corre-

55
zionf e adattamenti dettati da particolari circo-
stanze.
Per sopperire alla lacuna del Palinsesto di Ve-
rona, Dom Botte ha scelto la versione sahidica, che,
dal confronto fatto con le altre versioni, appare la
più attendibile.
L'impostazione del catecumenato e dei riti bat-
tesimali mostra che si tratta di una tradizione ora-
mai consolidata, che viene riproposta come una via
obbligata per entrare a far parte della comunità
cristiana.
La Tradizione apostolica articola in tre tappe l'i-
niziazione cristiana: quella preliminare del catecu-
menato; quella della preparazione prossima dei
candidati al Battesimo e quella dell'amministra-
zione del Battesimo. O catecumenato comporta un
tempo di preparazione molto lungo: si protrae nel-
l'arco di tre anni ed è diretto, in modo particolare,
a coloro che si presentano per la prima volta ad
ascoltare la parola di Dio. L'ammissione al catecu-
menato avviene dopo un severo esame, col quale
sono appurate le disposizioni del candidato, la sua
intenzione, la condizione sociale e le professioni. I
maestri, che non appartengono necessariamente al
clero (c. 19), svolgono un ruolo fondamentale. Essi,
parallelamente a quanto avveniva per l'istruzione
generale e nelle scuole, nella catechizzazione dove-
vano tenere presente la provenienza e la prepara-
zione religiosa del candidato. A loro era affidata, in
pratica, la sentenza d'ammissione o d'esclusione.

A Roma, verso la metà del secondo secolo, si era


dato vita a qualcosa di analogo, ma da quanto si
apprende da Giustino, non era così caratterizzato.
Nonostante le notevoli digressioni, cui si abbando-
na Giustino, è possibile ricostruire il percorso del-
l'approdo al Battesimo. Questo viene impartito dopo
debita preparazione, non meglio precisata, che ri-

56
guarda le verità da credere e la promessa di com-
portarsi di conseguenza. La comunità vi partecipa
attivamente pregando e digiunando col candidato.
Il contributo di Giustino è doppiamente interes-
sante: in primo luogo perché testimonia che oramai
la formula battesimale aveva assunto una forma
fissa (il Battesimo era impartito nel nome della
Trinità ed era seguito dalla celebrazione eucaristi-
ca); in secondo luogo perché, definendolo ·illumina-
zione•, ne sintetizza in qualche modo gli effetti. In
Giustino, probabilmente, non è solo presente la pras-
si romana, ma anche quella siriaca attestata dalla
Didaché, 7, che, almeno un secolo prima, aveva
dato le indicazioni essenziali in merito.
In proporzione alla sua diffusione e con un oc-
chio attento alla società pagana che lo attorniava, il
cristianesimo doveva darsi delle norme sempre più
severe per consentire l'aggregazione di nuovi adep-
ti, che fossero davvero bene intenzionati. Il mecca-
nismo previsto dalla Tradizione apostolica richiede
al candidato precisi impegni concernenti l'imposta-
zione del suo futuro da cristiano, l'assunzione delle
proprie responsabilità da parte dei padrini, ma non
è un meccanismo freddo, animato come è dall'in-
tenzione di evitare le sorprese.
L'autore ha stilato una casistica ampia, benché
certamente incompleta, delle professioni e delle si-
tuazioni esistenziali del 'candidato; fatta qualche
eccezione, le norme che riporta sono rigorose e
non consentono compromessi. Dopo l'indagine sulle
reali intenzioni, ba stilato una serie di domande
indirette che verte su molte professioni, alcune delle
quali sono compatibili con la vita cristiana, altre
lo diventano perché l'aspirante cristiano non ha
altri modi per sopravvivere e non sono intrinseca-
mente cattive, benché pericolose. È il caso dell'inse-
gnante, la cui scuola è frequentata da bambini. Non
entra nell'elenco il pedagogo, la cui funzione prima-

57
ria era quella di condurre il bambino alla scuola.
Nel c. 15 attira l'attenzione la condizione sociale
dello schiavo: se ha un padrone cristiano, questi è
chiamato a testimoniare se è in grado di ascoltare la
catechesi o no; se invece il padrone è pagano, non
viene precluso l'accesso al catecumenato su garan-
zia di coloro che l'hanno presentato, ma il primo
insegnamento che riceverà sarà quello di ascoltare
il padrone. Ciò significa che l'ammissione del can-
didato non è subordinata al parere favorevole del
padrone.
Intransigenza assoluta ed esclusione senza ap-
pelli riguardano chi pratica la magia e chi è de-
dito alla prostituzione sia maschile che femminile,
mentre per altre attività è chiesto di abbandonarle.
Nel contesto degli abbandoni del tenore di vita pre-
cedente alla richiesta dell'istruzione, è fatta un 'ec-
cezione per la schiava che convive col padrone, che
fa vita maritale solo con lui e che assolve con impe-
gno il compito della maternità. Ciò sotprende per-
ché in fatto di morale coniugale l'autore è esigente
(cc. 15-16).
I candidati accettati formano il gruppo dei cate-
cumeni ed è un gruppo ben distinto nella comunità.
Il lungo cammino verso il Battesimo si svolge sotto la
direzione di un -maestro/dottore•; può essere abbre-
viato per un catecumeno che dimostri impegno e
zelo particolari (c. 17). In questo lasso di tempo i
catecumeni pregano per conto loro in chiesa, in un
luogo separato dai fedeli (c. 18), partecipano sepa-
ratamente ai pasti comunitari e alle distribuzioni
alimentari (c. 28). Dopo la preghiera, ricevono l'im-
posizione delle mani da parte del maestro, che reci-
ta su di loro una preghiera (c. 19). Si lasceranno
salutandosi senza darsi il bacio della pace.
Particolari norme sono previste per le donne.
Durante il periodo del catecumenato, il candida-
to ha il primo contatto indiretto con la vita ecclesia-

58
le. In questo contesto è affermato con vigore il signi-
ficato sacramentale del Battesimo. La preparazione
prossima avviene con ritmo accelerato e con contat-
ti più ravvicinati alle realtà cristiane. Non tutti i
catecumeni accedono al Battesimo, ma solo coloro
che, dopo l'esame della loro condotta, sono giudi-
cati degni e passano dalla condizione di semplici
aspiranti a quella di uditori, ai quali vengono espo-
sti i contenuti del vangelo. Anche in questo passag-
gio hanno un ruolo importante coloro che li hanno
condotti alla fede, perché devono testimoniare della
loro buona condotta. Il clima di attesa è alimentato
dall'assiduità all'istruzione, che diventa quotidia-
na, come anche dalla quotidiana imposizione delle
mani finalizzata ad esorcizzare le ultime tracce
della presenza diabolica. All'avvicinarsi del giorno
del Battesimo il vescovo stesso deve rendersi conto di
persona del grado di preparazione per ammettere
quelli che lo meritano. Questi dovranno fare un
bagno il giovedì, digiunare il venerdì ed essere pre-
senti, il sabato, all'assemblea convocata dal vescovo
per ricevere una nuova imposizione delle mani e
sottopporsi a un più solenne esorcismo (c. 20). Ve-
glieranno tutta la notte e, tra letture e istruzioni,
attenderanno il canto del gallo, la domenica matti-
na, allorché avrà inizio la liturgia battesimale.
I catecumeni sono divisi in tre gruppi: i bambini,
che hanno la precedenza sugli altri, gli uomini e le
donne. I riti, che seguono, sembrano riguardare i
tre gruppi distinti.
Il rito è presieduto dal vescovo attorniato dal suo
clero. La cerimonia prevede, come riti preparatori,
la benedizione dell'acqua corrente o di piscina da
usare nel Battesimo, dell'olio di ringraziamento e di
quello dell'esorcismo, la deposizione dei vestiti Oe
donne scioglieranno i capelli e deporranno i gioiel-
li). La deposizione delle vesti e di ogni gioiello per le
donne è giustificata dal fatto che ogni oggetto estra-

59
neo può essere sotto il potere del demonio (c. 21).
Appartiene ai riti preparatori la benedizione del
vescovo di due vasetti contenenti, l'uno, l'olio di
ringraziamento, e l'altro, l'olio dell'esorcismo.
Il momento più drammatico è la rinuncia a
Satana e a tutte le sue opere, cioè all'idolatria, a
tutte le sue manifestazioni compresi i giochi del
circo. A questo punto un presbitero unge con l'olio
dell'esorcismo il candidato (cc. 20-21). Ultimate
queste cerimonie, accompagnato da un diacono, il
battezzando scende nell'acqua e per tre volte viene
interrogato dal ministro del Battesimo, vescovo o
sacerdote, sulla sua fede nelle tre persone divine,
cioè: se crede in Dio, Padre onnipotente; se crede in
Gesù Cristo, Figlio di Dio, nato con l'interoento dello
Spirito Santo dalla vergine Maria, crocifisso sotto
Ponzio Pilato, morto e sepolto, al terzo giorno ri-
suscitato vivo dai morti, salito nei cieli e assiso
alla destra del Padre, che verrà a giudicare i vivi
e i morti; se crede nello Spirito Santo, nella santa
Chiesa (c. 21).
Si tratta di tre domande seguite da altrettante
risposte date sempre con la stessa parola: ·Credo•.
Dopo ogni risposta, viene battezzato, mentre il ce-
lebrante gli tiene la mano sul capo.
Da tutto il cerimoniale del rito si evince che il
Battesimo è realmente il sacramento della fede. /A
professione della fede trinitaria, fatta in questo ir-
ripetibile momento della vita del cristiano, appare
come l'origine del simbolo di fede, che a sua volta
ne sarà lo sviluppo progressivo.
Uscito dall'acqua, il battezzato, prima ancora di
asciugarsi e di riprendere le sue vesti, riceve dal
sacerdote ancora un 'unzione. Entrato in chiesa, il
vescovo gli impone le mani e accompagna il gesto
con un 'invocazione al Signore, affinché conceda ai
neobattezzati, che hanno ottenuto il perdono dei
peccati, la pienezza della grazia dello Spirito per

60
compiere la sua volontà. Con una nuova unzione
con l'olio del rendimento di grazie, che il vescovo fa
cadere dalle sue mani, col segno della croce traccia-
to sulla fronte e col dono del bacio della pace, i riti
del Battesimo terminano.
Quanto avviene dopo in chiesa, appartiene alla
messa battesimale, ma contiene elementi caratteri-
stici. In concomitanza con l'offerta del pane e del
vino mescolati presentata dal diacono al vescovo, è
offerta anche una mescolanza di latte, miele e
acqua. Sui tre tipi di offerta è previsto lo stesso ren-
dimento di grazie. Di ogni offerta è indicato il si-
gnificato simbolico: il pane e il vino mischiati so-
no simbolo del cotpo e del sangue di Cristo; il latte
mescolato al miele ricorda la promessa fatta ai
patriarchi di una terra ubertosa, che è la carne di
Cristo, che nutre i credenti; l'acqua significa la mon-
dezza dell'anima, segno del Battesimo ricevuto.
Questo simbolismo è visto negli elementi citati,
mentre sono allo stato di offerta.
Il dato più interessante è che il vescovo benedice
insieme col pane e col vino, simboli del cotpo e del
sangue di Cristo per tutti i credenti, "il latte e il miele
mescolati insieme•. Il gesto è degno di nota non solo
per il significato simbolico rivelato, ma soprattutto
perché l'autore ripropone l'intetpretazione di un
gesto, il cui significato naturale era andato proba-
bilmente perduto. ·Latte e miele•, come beni che
caratterizzano lo stato di fecondità della terra pro-
messa e di concerto la sussistenza di chi della terra
promessa era l'erede, rievocano alla memoria l'esi-
stenza di un pasto nel corso del quale veniva cele-
brata l'Eucarestia.
Si muovono, in modo analogo alla Tradizione
apostolica, la Lettera di Barnaba, 6,8-17 che inter-
preta allegoricamente Esodo 33,3 .17: ·Che significa
nella terra buona, terra sgorgante latte e miele? No-
stro Signore benedetto, che ha posto in noi la sapien-

61
za e l'intelligenza dei suoi segreti•; le Odi di Salo-
mone, 4, 1O: ·Apri le tue ricche sorgenti, che sgorga-
no per noi latte e miele•; l'Ode 19, 1 parla soltanto di
latte: «Una coppa di latte mi fu offerta e l'ho bevuta
per la dolce benevolenza del Signore. Il figlio è la
coppa•. In lPt 2,2, ritenuta una catechesi battesima-
le, si legge: .Come bambini appena nati, anelate al
latte spirituale e genuino•. Nella Tradizione aposto-
lica è certa la presenza dell'offerta del latte ed è pre-
sente anche il tema dei •neonati• accanto a quello
della terra della promessa. Clemente Alessandrino,
Pedagogo, 1,6,34, unisce i due temi. Si può quindi
condividere l'osseroazione di ].K. Bernard che nella
letteratura cristiana primitiva non mancano tracce
della somministrazione del latte e del miele al neo-
battezzato.
Concluso il rito con la comunione al corpo e al
sangue di Cristo e con l'invito a compiere opere
buone, l'autore sembra alludere a un supplemento
di istruzione riseroata ai neofiti, che esige il segreto.
Prima di presentare lo stile di vita cristiana pro-
posto dalla Tradizione apostolica, è opportuno rian-
dare con la mente alle diverse imposizioni delle
mani, che fanno parte del rito del Battesimo.
L'imposizione delle mani avviene fuori del rito
del Battesimo e nella celebrazione del rito. Fuori del
rito la prima imposizione silenziosa è quella del
maestro (c. 19); altre imposizioni quotidiane silen-
ziose sono fatte dal vescovo nell'imminenza del
Battesimo (c. 20); il sabato, che precede il Battesi-
mo, il vescovo impone ancora le mani pronuncian-
do un esorcismo, la cui formula non è riferita (c.
20); al battezzando, sceso nell'acqua, il ministro
(sacerdote o vescovo) impone la mano sul capo
prima di battezzarlo (c. 21).
Compiuti i sacri riti, il vescovo introduce i neobat-
tezzati in chiesa, impone loro le mani e recita un 'in-
vocazione, della quale è riferito il testo, e ancora una

62
volta, mentre fa cadere dalla sua mano sul capo di
ciascun battezzato l'olio di ringraziamento, gli pone
la mano sul capo e dichiara di ungerlo nel nome
della Trinità. In seguito lo segna in fronte e gli dona
il bacio della pace, che accompagna con l'augurio:
«Il Signore sia con te•, al quale il battezzato risponde:
«E col tuo spirito•. Di tutte le imposizioni delle mani,
solo di quella che il vescovo compie in chiesa è ripor-
tata l'invocazione, nella quale si chiede a Dio di
riempire i neobattezzati di Spirito Santo e di effonde-
re su di loro la sua grazia per una vita santa.
Quest'ultimo interoento del vescovo, che impone
la mano, versa sul capo del neobattezzato l'olio del
rendimento di grazie e quindi lo segna sulla fronte,
potrebbe essere interpretato come l'atto definitivo di
aggregazione al popolo di Dio, che in termini at-
tuali può essere identificato col sacramento della
Cresima, che si tende oggi a definire ·Sigillo dello
Spirito•. Tutti gli elementi costitutivi sono presenti:
l'imposizione delle mani, la crismazione, il segno
sulla fronte e il bacio di pace. Il tutto accompagna-
to da formule fisse. La, preghiera ricorda gli effetti
del Battesimo, che sono la remissione dei peccati e la
rigenerazione, passa poi ad una epiclesi imploran-
do la pienezza dello Spirito Santo e l'invio della gra-
zia. Oggetto della preghiera sono lo Spirito Santo e la
grazia richiesta in termini d'invio e di pienezza. È
uno schema rudimentale, che contiene tuttavia gli
elementi fondamentali della Cresima.
Questa interpretazione, dalla quale traspare una
connessione tra il Battesimo e la Cresima, ha un
buon margine di probabilità. L'analisi di tutto il
cerimoniale del Battesimo della Tradizione apostoli-
ca ha messo in luce una certa confusione nel succe-
dersi delle azioni e la presenza di doppioni, che non
si spiegano facilmente. Ciò ha portato ad avanzare
l'ipotesi di una giustapposizione di due fonti, una
romana e l'altra africana. È stato osseroato tuttavia

63
che nello stato attuale delle conoscenze è prematura
una divisione così netta tra una fonte africana e
una fonte romana, mancando la documentazione
che consenta una seria verifica.
Non va tuttavia dimenticato che il rito dell'ini-
ziazione cristiana non ha uno sviluppo lineare. Le
durezze, la ripetizione di gesti, come ripetute un-
zioni e ripetute imposizioni delle mani, descrizioni
parallele e riprese di formule ed espressioni, sembra-
no indicare l'utilizzo di due fonti, giustapposte e
male amalgamate, l'una delle quali fa intervenire il
vescovo e l'altra no.

IL CORSO DELLA VITA CRJS71ANA

La Tradizione apostolica ha già dato un saggio


della sua concezione della vita cristiana nell'esame
che prescriveva di coloro che intendevano iscriversi
tra i catecumeni. Le inclusioni e le esclusioni erano
dettate dalla compatibilità e dall'incompatibilità
delle loro professioni da pagani con le norme cri-
stiane; quello che è prescritto dal capitolo 22 in poi
ne è una solerte precisazione, nonostante l'evidente
frammentarietà e discontinuità. Ogni battezzato de-
ve preoccuparsi di compiere buone azioni, di pia-
cere a Dio, di comportarsi da cristiano, di essere
zelante per la Chiesa mettendo in pratica gli in-
segnamenti ricevuti e progredendo nella pietà
(c. 21). Questa è la norma generale che presiede
tutti i comportamenti.
La frammentarietà e l'inorganicità degli argo-
menti esposti nel c. 22 e seguenti sono riscattate
dalla nobile e meditata trattazione della preghiera
quotidiana (c. 41).
Dopo una fugace allusione all'assemblea dome-
nicale (c. 22), durante la quale il vescovo celebra
l'Eucarestia circondato dal clero, negli altri tempi è
prevista una catechesi della parola guidata dai pre-

64
sbiteri e dai diaconi e seguita dalla preghiera. !fede-
li sono caldamente invitati a dare la precedenza a
questa istruzione, perché devono pensare in cuor
loro che Dio parla per bocca dell'istruttore e banno
l'opportunità di completare l'istruzione e di raffor-
zare lafede (cc. 35.41).
Una rapida allusione è fatta anche alla Pasqua
per raccomandare il digiuno in attesa della co-
munione; sorte migliore non è riservata alla Pen-
tecoste, considerata un prolungamento del gaudio
pasquale, in occasione della quale sono sollecitati a
digiunare coloro che non l'hanno fatto a tempo
debito, cioè alla Pasqua (c. 33). Poiché la veglia
pasquale era animata dai riti preparatori del Bat-
tesimo, benché non esclusivamente dato che, secon-
do La Tradizione apostolica, il Battesimo veniva am-
ministrato anche in altre domeniche, si presume
l'esistenza di una liturgia più complessa di quella
della domenica. È noto che fin dai primi secoli cri-
stiani, e sempre in seguito, l'anno liturgico aveva
nella Pasqua il suo vertice nel senso che veniva con-
siderato il punto più alto della storia della salvezza.
Tuttavia l'autore non insiste, sicché è impossibile
disegnare la disposizione dell'anno liturgico.
!A disattenzione dell'autore verso la celebrazione
domenicale deve essere collocata nel contesto socia-
le e liturgico, che in certo modo è la cornice del qua-
dro che dipinge.
Plinio il Giovane, tra gli anni 111-113, informa
l'imperatore Traiano che -i cristiani di Bitinia erano
soliti riunirsi in un giorno stabilito prima del sorge-
re del sole, recitare insieme a cori alterni un 'invoca-
zione a Cristo considerandolo un dio ... e dopo avere
terminato gli atti di culto, si ritiravano, poi si riuni-
vano di nuovo per prendere un cibo normale e
innocente•. Benché sia difficile interpretare l'espres-
sione ·giorno stabilito•, si presume che questo ·gior-
no stabilito• sia la domenica. Nella società pagana

65
non esisteva un giorno della settimana da dedicare
al riposo o ad atti di culto. Diventa allora compren-
sibile l'annotazione che, dopo l'atto di culto a Cristo
compiuto prima del sorgere del sole, i cristiani
andassero alle loro occupazioni per tornare a riu-
nirsi, a giornata finita, per l'Eucarestia.
Giustino, quattro decenni più tardi, tra gli anni
150-155, ricorda che i cristiani nel giorno del sole
si riunivano in uno stesso luogo per leggere le ·Me-
morie degli Apostoli· o gli scritti dei profeti per un
tempo determinato e per la celebrazione eucaristica.
Questi due riscontri testimoniano l'esistenza di
una celebrazione settimanale, che coincideva col
·giorno del sole•, cioè la domenica. Ora, La Tradi-
zione apostolica, dopo avere descritto le due sinas-
si eucaristiche, quella celebrata dal neoconsacrato
vescovo e quella che segue al Battesimo, nel c. 22 si
limita ad ordinare al vescovo di distribuire perso-
nalmente l'Eucarestia ai fedeli. Questa riduzione
del molo domenicale del vescovo suppone l'esistenza
di una conosciuta prassi celebrativa della domeni-
ca, della quale non c'era motivo di ricordarne le
fasi. Testimonia tuttavia l'uso, attestato da Giustino,
proprio dei cristiani, di portare a casa l'Eucarestia,
pane e vino consacrati, che devono custodire gelosa-
mente e con ogni cura (cc. 36-38).
Accanto all'Eucarestia è previsto un pasto serale
comune, presieduto dal vescovo che recita la pre-
ghiera di benedizione modellata sull'anafora euca-
ristica. Di questo pasto non sono indicati né il luogo
né la frequenza. L'autore rassicura che non è Eu-
carestia, ma una eulogia (c. 26). Il pasto è prece-
duto dall'introduzione solenne della lampada desti-
nata a rischiarare la sala, dove era preparato il
pasto comune. Il rito del lucernario è rivestito di
significato cristologico. Il formulario di ringrazia-
mento merita d'essere riferito per la sobrietà e l'ele-
ganza: ·Ti ringraziamo, Signore, per il tuo figlio

66
Gesù Cristo, nostro Signore, per mezzo del quale ci
hai illuminati rivelandoci la tua luce incorrnttibile.
Poiché dunque noi abbiamo vissuto un giorno inte-
ro e siamo giunti all'inizio della notte appagati della
luce del giorno, che tu hai creato per la nostra sazie-
tà, e poiché ora, per tua grazia, non ci manca la
luce della sera, noi ti lodiamo e ti glorifichiamo ... •
(c. 25). Nuove preghiere e la recita dei salmi alle-
luiatici, nonché alcuni suggerimenti pratici per con-
seroare al pasto comune il suo carattere sacro, con-
chiudono l'incontro conviviale.
La Tradizione apostolica chiede alle vedove e alle
vergini di praticare il digiuno e di pregare per la
Chiesa (c. 23), ma non fissa i giorni di digiuno.
Precisa invece il digiuno del triduo pasquale; dalla
domenica di Pasqua alla Pentecoste non si digiuna
(c. 33). Nel corso della liturgia al vescovo sono offer-
ti formaggio, olive, fiori e primizie per essere bene-
detti (cc. 6.32.33). Non è improbabile che queste
offerte siano destinate al soccorso dei poveri e di
coloro che si occupano degli affari della Chiesa (c.
24). Fin dal suo primo affacciarsi sullo scenario
della storia le attività caritative della Chiesa hanno
costituito una nota distintiva. Gli ammalati sono
portati dai diaconi all'attenzione del vescovo, per-
ché li conforti con la sua visita (c. 34); le vedove
sono invitate a condividere la mensa con i fratelli
nella fede (c. 30).
L'autore si preoccupa anche degli addetti al ci-
mitero e pone delle norme differenziate a seconda
dell'attività che svolgono; gli sta molto a cuore che
sia assente da questo luogo, che appartiene a tutti,
ogni motivo di esosità (c. 40).
Questi saggi di vita cristiana rivelano una reale
preoccupazione dell'autore e un certo rigore detta-
to dalla situazione vitale dei cristiani. Si tratta di
precetti sparsi, ognuno dei quali può esistere indi-
pendente dall'altro, ma rivelatori di una legislazio-

67
ne meno generica di quanto si pensi. L'attenzione
per le vedove, per le vergini, per gli ammalati, per i
cimiteri, per i compiti del clero, per la verjtà non
molto sviluppati, per i marinai, per chi è in diffi-
coltà, per il digiuno, per la conseroazione dell'Eu-
carestia, per i diversi tipi di offerte, suggerisce l'esi-
stenza di un 'organizzazione che nulla lascia al
caso e in cui tutto ha un punto di riferimento. So-
no indicazioni che tendono all'edificazione della
Chiesa e a proteggere la vita dei fedeli.

L'ORA DELLA PREGHIERA

Il c. 41, dedicato ai tempi della preghiera, è,


insieme con l'anafora eucaristica e con la professio-
ne di fede che precede il conferimento del Battesimo,
uno dei tratti più significativi e illuminanti della
Tradizione apostolica. I tempi di preghiera sono
distribuiti lungo l'arco della giornata come una
costante e affidati alla fede e alla sensibilità del-
l'orante. L'esposizione serena e rassicurante ha le
movenze di un invito dolce, ma determinato, a
ricordare Cristo e a non lasciarsi irretire dalle insi-
die quotidiane (c. 41). Il detto lucano ·bisogna pre-
gare sempre senza stancarsi mai· a.e 18, 1), non
citato, sembra permeare la distribuzione dei tempi
della preghiera.
Non si dovrebbe parlare di distribuzione del
tempo della preghiera, ma di momenti, poiché tutto
l'arco della giornata, non esclusa la notte, ne è
costellato. L'ideale della preghiera assidua non è
riservato a una particolare categoria di persone,
come potrebbero essere le vergini o le vedove: è
proposto a tutti i cristiani, anche a quelli la cui
moglie non è cristiana. In occasione di questo caso
annota che chi è sposato non è impuro e quindi può
senz'altro pregare.
L'autore suggerisce al fedele di lavarsi le mani

68
prima della preghiera del mattino e prima di quella
di mezzanotte, senza specificarne la ragione. Gli
altri tempi della preghiera sono scanditi in armonia
con la divisione della giornata, i cui punti fissi sono
l'ora terza, l'ora sesta, l'ora nona e il canto del gallo.
Sono sette momenti diversi, coincidenti con altret-
tante ore, per la preghiera privata 8• La preghiera del
mattino può coincidere con una riunione in chiesa
per l'istruzione, alla quale si deve la preferenza, ma.
tale non sembra la prassi quotidiana. Il c. 39 cono-
sce una riunione giornaliera del clero in un luogo
indicato dal vescovo, durante la quale viene fatta
l'istruzione ai fedeli presenti. Prima di separarsi
per andare alle rispettive occupazioni, pregheranno
insieme.
La Tradizione apostolica giustifica i tempi di pre-
ghiera appoggiandosi alla cronologia della Pas-
sione, ma anche a motivi extraevangelici.
La preghiera del mattino non riceve alcuna spie-
gazione, come avviene per le altre ore. Per l'ora
terza occo"e una distinzione, probabilmente valida
anche per le altre ore, dettata dalle circostanze: que-
sta preghiera, presumibilmente vocale se fatta in
casa, diventa silenziosa, fatta nel cuore, se il luogo
non consente quella vocale. Tale preghiera, vocale o
mentale a seconda delle circostanze, ha la sua giu-
• Tertulliano, nel De oratione, 24-25, consiglia di pregare all"ora terza,
all'ora sesta e all'ora nona, e giustifica il consiglio appellandosi alla
Bibbia (cfr. At 2,15; 3,1; 10,9; Dn 6,11). Ritiene obbligatorie le preghie-
re del maitino e della sera; raccomanda le preghiere della mensa. In
pratica, sono cinque i momenti privilegiati della giornata scanditi dalla
preghiera: il mattino, l'ora terza, l'ora sesta, l'ora nona e la sera. Si può
aggiungere la preghiera della mensa. Cipriano (De oratione dominica,
34-36) raccomanda di pregare al mattino, all'ora terza, all'ora sesta,
all'ora nona, alla sera e alla notte. Questi due scrittori testimoniano che
lo schema della tradizione giudaica, che fissava la preghiera all'ora
terza, all'ora sesta e all'ora nona, è passato nella Chiesa che lo ha ritoc-
cato. Va ricordato che la Didacbè (8, 3) raccomanda la recita della
Preghiera del Signore tre volte al giorno, in riferimento ai tre momenti
della preghiera giudaica. Cfr. G.-M. Oury, Office divin, in DictSpir 11
(1982), p. 688.

69
stiftcazione nella Bibbia: all'ora terza il Cristo fu
crocifisso (cfr. Mc 15,25, il solo che ricorda questo
particolare). La correlazione che stabilisce tra l'of-
ferta del pane della proposizione• e l'immolazione
dell'agnello, non ha riscontri precisi quanto all'ora
nella quale nell'Antico Testamento si compivano
questi riti: l'offerta dei pani non era quotidiana, ma
era fatta la mattina del sabato (cfr. Lv 24,5-9); l'im-
molazione dell'agnello avveniva dopo il calare del
sole. L'autore ha voluto avvertire il lettore della va-
lenza prefigurativa dei due atti liturgici.
L'ora sesta è ugualmente collegata alla Passione:
è l'ora in cui una grande oscurità invase la terra
(cfr. Mc 15,33 e par.); l'oscurità è avvenuta alla pre-
ghiera del Crocifisso.
La preghiera dell'ora nona deve essere modellata
su quella che i giusti rivolsero a Dio, che si era ricor-
dato di loro. La motivazione ha due versanti: l'uno
è la discesa di Cristo agli inferi; le anime dei giusti
sono quelle che l'hanno accolto come inviato da
Dio 9: il secondo versante è l'allusione al Cristo che
all'ora nona spirò, dopo avere emesso un possente
grido (cfr. Mc 15,37). L'autore pone prima della
morte del Cristo la trafittura del costato provocata
dal colpo di lancia del soldato, dalla quale uscì
•acqua e sangue•. Con la sua morte rischiara il re-
sto del giorno e lo porta a sera. Inaugurando un
nuovo giorno, nell'ora in cui si addormentò, diede
un 'immagine della resurrezione.
Mentre la preghiera della sera non è commenta-
' Il tema della discesa di Cristo agli inferi per annunciare ai trapassati l'av-
venuta salvezza non è biblico, ed è conosciuto per le citazioni che ne
hanno fatto Giustino e Ireneo, dai quali, nella sua brevità, potrebbe
dipendere La Tradizione apostolica. È un tema giudeocristiano. Giustino
ne fa autore Geremia (cfr. Dia/. 72,4); Ireneo lo mette, a volte, sul conto
di Isaia (cfr. Adv. haer. 3,20,4), a volte sul conto di Geremia (cfr. tbid.,
4,22,1; Dim. 78), a volte lo cita senza nome d'autore, esplicitamente (cfr.
Adv. haer. 4,33,12; 5,31,1) o implicitamente (cfr. ibid., 4,3,31). Cf. ].
Daniélou, La teologia del giudeo-cristianesimo, cit., pp. 325-345.

70
ta e appare come una semplice preparazione al
riposo, grande evidenza è data alla preghiera della
notte. Dopo avere risolto il problema del cristiano
coniugato con una donna non cristiana, non giu-
stifica la preghiera della notte con riscontri biblici,
ma con una tradizione degli anziani, secondo la
quale ·a mezzanotte tutta la creazione si ferma un
momento per lodare Dio•.
Il tema della preghiera di tutto il cosmo, uomini,
animali, angeli, si riscontra più volte negli apocrifi,
che appartengono al ciclo di Adamo. Nella Vita di
Adamo ed Eva, 9, sparsim, si legge che il sole e la lu-
na con gli angeli si prostrano e pregano insieme per
Adamo. Nel Testamento di Adamo si parla della pre-
ghiera degli angeli, di quella degli animali e di quel-
la degli uccelli. Probabilmente questo tema sottin-
tende il legame tra Adamo e gli animali, di cui trat-
ta il testo della Genesi. Il tema della preghiera si-
lenziosa di tutta la creazione va riportato a radici
giudeocristiane. Allo stesso contesto culturale appar-
tengono gli ·anziani•, che hanno conseroato e tra-
smesso la tradizione, cioè le usanze giudeocristia-
ne. Fra le diverse ore della preghiera, quella di mez-
zanotte attraeva in modo particolare. Essa indica-
va il momento di silenzio, che separa una giornata
dall'altra.
La preghiera del canto del gallo chiude la serie
delle preghiere private. Il canto del gallo rievoca il
rinnegamento di Pietro (cfr. Mc 14, 72), ma non è a
questo che l'autore pensa in prima istanza: fu al
canto del gallo che Gesù fu condannato e rinnega-
to dai figli d'Israele. C'è anche un 'allusione alla
parusia e al giorno della resurrezione.
Questi momenti di preghiera, che costellano la
giornata del cristiano da una mezzanotte all'altra,
mantengono la mente rivolta al Cristo, preseroano
dalle tentazioni e premuniscono contro la perdi-
ta del dono della salvezza. Sono momenti solenni

71
iscritti nel precetto evangelico che bisogna pregare
sempre.
Il c. 41, che contempla le situazioni nelle quali
può trovarsi il cristiano, rappresenta uno sforzo ori-
ginale per fissare le ore della preghiera. Certamente
non vuole essere un 'indicazione perentoria, alla
quale tutti i cristiani debbono conforma'f"Si, ma un
suggerimento, la proposta di un ideale, che può esse-
re realizzato da cristiani ferventi e impegnati, ispi-
rata all'invito biblico di pregare senza stanca'f"Si. La
sua strutturazione e le sue formulazioni fatte usan-
do la seconda pe'l"Sona singolare e quella plurale, la
terza pe'l"Sona plurale e a quella singolare, ispirano
questo giudizio. Prescrizioni sulla partecipazione
alle sinassi sono accostate a prescrizioni sui vari
tempi della preghiera e alla sua giustificazione
teologica. Si avverte che l'autore ha soprattutto di
mira il cristiano, come pe'l"Sona, cui suggerisce un
programma di preghiera. Per questo non fa allu-
sione alle sinassi della sera.

/L SEGNO DEUA CROCE

La croce è stata fin dalle origini un segno di-


stintivo e cultuale per i cristiani. Il suo uso è ante-
riore al cristianesimo, ma solo nel cristianesimo ha
acquistato, in relazione alla croce di Cristo, valore
e senso soteriologico. La segnatura del cristiano col
segno cruciforme ha fatto parte dei riti primitivi
dell'iniziazione. Tra i significati della croce, come
segno apotropaico, come strumento di supplizio, co-
me simbolo cosmico, come oggetto dell'attesa esca-
tologica, l'autore ha considerato quello teologico,
cioè segno della potenza di Cristo manifestato nel-
la resurrezione. Suggestiva l'interpretazione che il
segno della croce è l'esternazione della forza, che
l'uomo ha nel cuore, dal momento che ha assunto
la somiglianza con Cristo (c. 42).

72
Nel c. 20 narra l'ultimo esorcismo col quale è
comandato allo •straniero•, il diavolo, di ritirarsi
dai candidati al Battesimo e di non ritornarci più;
seguono quindi l'insufflazione sul viso, come simbo-
lo del dono dello Spirito Santo, e un segno tracciato
sulla fronte, sulle orecchie e sulle narici. Ciò signifi-
ca che sono stati sigillati da questi segni gli accessi
attraverso i quali il diavolo, secondo una conce-
zione antica, penetra nell'uomo. I riti battesimali
terminano con un 'ultima unzione che consiste in
un segno fatto sulla fronte nel nome della Trinità
e col bacio (c. 21).
Nel c. 41 il segno della croce, dafarsi nel mezzo
della notte con le mani inumidite dalla propria sa-
liva, ricorda il Battesimo e indica che il c01po dei
cristiani, grazie al Battesimo, è diventato dimora
dello Spirito.
Il c. 42, in certa maniera, riepiloga e focalizza
quanto è disperso nei capitoli precedenti: il segno
della croce sulla fronte è segno della passione di
Cristo, è scudo che protegge nelle tentazioni; mostra
al di fuori l'immagine del Verbo che è dentro; è sim-
bolo della fede nell'Agnello perfetto. Il richiamo alla
morte di Cristo svuota il segno della croce di ogni
significato magico. Il segno sulla fronte, sulle orec-
chie e sugli occhi è posto in corrispondenza al se-
gno che Mosè fece tracciare sulla trabeazione e sugli
stipiti delle porte delle case in Egitto (cfr. Es 12, 7).
Così Mosè conobbe profeticamente il segno della
fede dei cristiani.

AUTORE, DESTINATARI E DATA DI COMPOSIZIONE

Ippolito, sia in vita che dopo morte, nel corso dei


secoli, è stato ed è ancora un personaggio scomodo.
Lo si deduce dalle molte questioni che ha sempre
imposto agli storici e a quanti, per opposte ragioni,
lo hanno avvicinato. La questione "Ippolito" si tra-

73
scina da molto tempo e, quantunque ricerche re-
centi abbiano chiarito alcuni punti oscuri, non si
vede ancora come si possa raggiungere una posi-
zione a tutti gradita.
Sul finire degli anni settanta gli studi ippolitei
banno avuto un 'impennata, grazie a nuovi appro-
fondimenti, che banno messo in discussione quella
che si riteneva un 'acquisizione accettabile e che
faceva leva sulle pur brevi notizie tramandate da
Eusebio di Cesarea, da Girolamo, da Damaso, da
Prudenzio e dalla lettura che si era fatta delle iscri-
zioni incise sul trono della statua di •Ippolito•, posta
all'ingresso della Biblioteca Vaticana.
Nel 1551 Pirro Ligorio trovò a Roma un blocco di
marmo a forma di cattedra con iscrizioni in carat-
teri greci del terzo secolo cristiano. L'identificazione
della tavola del Computo pasquale incisa sul trono
con quello ricordato e attribuito da Eusebio ad Ip-
polito aveva fatto pensare all'umanista che il perso-
naggio, che originariamente sedeva su quel trono,
non potesse essere altri che Ippolito stesso. La sco-
perta nel secolo scorso del manoscritto dell'Elenchos
(Confutazione di tutte le eresie) sul Monte Athos
contribuì ad attribuirlo ad uno scrittore romano
del terzo secolo, identificato con Ippolito. L'attribu-
zione non è stata pacifica fino alla scoperta della
Biblioteca gnostica di Nag Hammadi, dove è stata
trovata una Parafrasi di Sem (NH VII, 1) riferita da
Ippolito (Conf. V, 22, 1), che conferma il resoconto
di questi sui Setbiani (ibid., 19-22) e la sua qua-
lifica di grande eresiologo.
Prima del 1947 si erano avuti contributi su punti
particolari, quando P Nautin riapri alla grande la
discussione. Questi rilevò palesi e gravi contraddizio-
ni tra la Confutazione e il Contro Noeto, mise in
evidenza come entrambi rivelino una formazione
culturale e dottrinale diversa, notò non trascurabili
discordanze nei dati cronologici della storia della

74
salvezza fra la Cronaca e il Commento a Daniele.
Sulla base di questi e di altri argomenti distinse le
opere in due blocchi attribuendo il primo blocco,
formato dalla Confutazione, dai frammenti Sul-
l'universo, dalla Cronaca e dai titoli iscritti sulla cat-
tedra ad un certo Giosippo; il secondo blocco, costi-
tuito dalle opere esegetiche sul Cantico, su Daniele, su
Davide e Golia, dalle Benedizioni di Giacobbe e di
Mosè, dall'.Anticristo, dalla Tradizione apostolica e
dal Contro Noeto, identificato con la parte finale
del Syntagma conosciuto da Fazio, lo attribuì a un
vescovo orientale, di nome Ippolito, vissuto in una
qualche sede orientale intorno alla metà del terzo
secolo. Nautin ritenne di non dovere identificare nes-
suno dei due personaggi col martire romano Ippolito.
Nonostante M. Richard, nel 1968, difendesse l'o-
pinione tradizionale, oramai la discussione era av-
viata. Interoennero j.-M. Hanssens, per affermare
che l'autore della liturgia della Tradizione apostoli-
ca non era Ippolito e non era un prete romano, ma
un suo omologo alessandrino morto verso il 253 e di
conseguenza la liturgia ivi proposta era d'origine
alessandrina, e]. Magne. Questi, innovativo nella
metodologia e nell'analisi, è approdato a due risul-
tati degni di attenzione: La Tradizione apostolica sia
nel Palinsesto di Verona che nelle Costituzioni apo-
stoliche, VIII, 1-2, era preceduta da un trattato Sui
carismi, del quale ha rintracciato il contenuto es-
senziale; gli schemi delle ordinazioni dei vescovi,
dei presbiteri e dei diaconi rivelano delle interpola-
zioni. Il trattato Sui carismi portava il titolo di Tra-
dizione apostolica sui carisnù, mentre quella che si
dice comunemente La Tradizione apostolica aveva
come titolo Diataxeis (Ordinanze) dei santi Apostoli.
Per quanto concerne l'origine del testo, lo studioso è
del parere che la cosiddetta Tradizione apostolica
non sia intestabile a Ippolito, ma sia un "'opera lette-
raria" nata dai bisogni quotidiani di una comuni-

75
tà che ha messo per iscritto questi statuti: una com-
pilazione anonima contenente elementi di età diffe-
renti. Il documento di Ochrid 86 l'ba inclusa, insie-
me con altri quindici testi, sotto il nome di Diataxeis
(Ordinanze) dei santi Apostol~ nelle quali per un
certo tempo è stata incorporata. n documento di 0-
chrid 86 avrebbe trasmesso il nome esatto del testo.
In un convegno tenuto a Roma nel 1976, fu ripre-
sa l'ipotesi enunciata da Nautin, sui due blocchi di
scritti, ma venne scartata l'idea che Giosippo fosse
l'autore del primo blocco di scritti e venne proposta
l'ipotesi di due Ippoliti, uno romano che ba operato
a Roma nella prima metà del terzo secolo e morto
martire in Sardegna, e l'altro vescovo orientale, di
sede sconosciuta, attivo tra la fine del secondo seco-
lo e l'inizio del terzo. Margherita Guarducci si in-
serì nella discussione con una severa analisi della
statua di Ippolito mettendone in rilievo il carattere
composito. Vì ba distinto i seguenti elementi costitu-
tivi: 1. la replica del secondo secolo della statua di
Tbemista di Lampsaco, alunna prediletta di Epicu-
ro, seduta su un trono, i cui braccioli sono ornati di
protomi leonine di tipo epicureo. Eseguita nella
prima metà del secondo secolo d.C., all'epoca di
Traiano o di Adriano, fu arricchita più tardi, tra il
222 e il 235, con iscrizioni greche, sulle due fianca-
te e sul montante destro del trono: la tabella del
Computo pasquale di Ippolito e una lista di opere; 2.
la parte anteriore consiste nelle gambe e nei piedi
già appartenuti ad un 'altra statua femminile di pro-
porzioni maggiori e scolpita nel secondo secolo d.C.,
adattata ai resti della precedente. È incerto quale
figura rappresentasse; 3. il torso e la testa dell'attua-
le statua sono un 'aggiunta di Pirro Ligorio fatta nel
1564-1565, non senza una tendenza a imitare la
famosa statua bronzea di San Pietro nella Basilica
Vaticana, per rappresentare Ippolito.
L'argomento è stato ripreso dodici anni dopo nel

76
1988 in un convegno organizzato ancora a Roma,
intitolato Nuove ricerche su Ippolito, che si era pro-
posto di riesaminare le ipotesi formulate nel 1976.
La statua ha attirato nuovamente l'attenzione
dell'archeologo P. Testini e dell'epigrafista M. Guar-
ducci. Il Testini pensa che la statua tronca sia stata
trovata a nord della via Tiburtina, di fronte a S.
Lorenzo fuori le Mura, dove le carte medievali collo- .
cavano il Mons Hippolyti, e dove si trovava la cata-
comba del martire. Quanto alla collocazione esatta
del blocco nell'ambiente, è probabile che esso fosse
appoggiato a qualche manufatto (parete, pilastro o
altra struttura), perché, mentre appare ifruttato lo
spazio disponibile sui lati anche a scapito di un 'age-
vole lettura, il dorso si presenta ruvido e quindi
destinato a non essere visto. In base all'esame lo stu-
dioso ritiene che la statua già al terzo secolo fosse
stata ridotta ad un masso marmoreo per utilizzar-
ne il blocco ad altro fine. Trova conforto per que-
sta supposizione nella chiara prescrizione della
Tradizione apostolica, di non accogliere, tra i cate-
cumeni, scultori e pittori di divinità pagane, se non
rinunciano alla loro professione (c. 16). Il luogo del
rinvenimento, il contenuto delle iscrizioni greche
fanno credere che a Roma, verso la metà del terzo
secolo, si identificasse il martire deposto nel cimitero
con l'autore delle opere ricordate sul trono.
La Guarducci sostiene che la statua della filosofa
pagana Tbemista avrebbe avuto il suo posto nella
biblioteca del Pantheon. Le iscrizioni incise sul trono
indicherebbero non già le opere di Ippolito, ma quel-
le, di non importa quali autori, collocate nei palchet-
ti o nei cassetti più vicini. Il trono quindi avrebbe
avuto la funzione di indicare quali opere erano con-
tenute nei palchetti o nei cassetti vicini e di faciltar-
ne la consultazione. La tavola del Computo pasqua-
le venne inserita tra quelle opere per il suo premi-
nente interesse e per la sua relazione con l'impera-

77
tare. L'idea di incidere questo Computo insieme ad
altri titoli di opere sul trono di una statua di donna
è nata, probabilmente, dal fatto che col passar del
tempo quella statua aveva perso l'originario signifi-
cato personale di statua di Tbemista per assumere
quello di personificazione di qualche disciplina let-
teraria o scientifica. Ciò consentì agli ammiratori di
Ippolito di incideroi la tavola del Computo pasquale.
Le iscrizioni, che alludono all'imperatore Alessandro
Severo, si distinguono per grandezza e nitidezza di
caratteri. Nel fianco sinistro e nel fianco destro, il
Computo pasquale comincia col primo anno del
regno di Alessandro Severo (222). Questi è dunque
quasi l'eponimo del Computo, eseguito da Ippolito e
probabilmente dedicato al suo filocristianesimo. Il
monumento è stato creato pensando non tanto a
Ippolito quanto all'imperatore.
L'analisi della statua, operata dalla Guarducci,
mette in crisi il criterio fondato sui titoli delle opere
incise nel trono e, una volta accertato che Ippolito
non ha nulla da spartire con la statua, resta da sta-
bilire la paternità delle opere ivi iscritte. L'ovvia con-
seguenza è che La Tradizione apostolica non è di
Ippolito, ma di un anonimo romano. La data della
loro incisione deve essere fissata prima del 235,
anno della morte di Alessandro Severo.
La provenienza del blocco di marmo dall'agro
Verano è messa in dubbio: esso può venire da qua-
lunque altra località di Roma. Ma la Guarducci
non precisa quale. Un punto fisso in tutto il proble-
ma è il codice latino 3965 (j. 24 v.) della Biblioteca
Vaticana dal quale risulta che il 16 aprile 1551,
mentre era prefetto della Biblioteca stessa il cardina-
le Marcello Ceroini, il futuro papa Marcello II, fu
autorizzato il pagamento di due scudi e otto giulii
per far trasportare dalla Loggia del Papa alla "libra-
ria·, cioè alla biblioteca allestita da Sisto IV (1471-
1484), il sasso, dove è iscritto il Calendario greco. Il

78
''sasso" non può essere che il trono di marmo conte-
nente le iscrizioni "ippolitee", trasformato poi fra il
1564 e il 1565 in •statua di sant'lppolito-.
Lo studio della Guarducci tocca solamente in se-
condo ordine e di sfuggita il problema delle opere
e dà per scontato il significato della loro presenza
sul trono.
]. Frickel, che ha sempre difeso l'identità dell'au-
tore della Confutazione e del Contro Noeto, nono-
stante le rilevabili divergenze, sulla collocazione
della statua, che ritiene essere quella di un uomo e
probabilmente di Ippolito, ammette che abbia potu-
to avere la sua dimora nella biblioteca del Pantheon
che Alessandro Severo aveva fatto allestire nelle ex-
Terme neroniane da lui riedificate presso quel mo-
numento. Un papiro di Ossirinco ricorda che il cri-
stiano palestinese Giulio Africano ebbe l'incarico di
allestire questa biblioteca e che, ad allestimento fini-
to, risultò una biblioteca di lusso. ·
A. Brent, in uno studio molto accurato, accetta la
notizia di Pirro Ligorio sul ritrovamento della statua
tra la via Nomentana e la via Tiburtina; la statua
non avrebbe mai perduto la sua identificazione ori-
ginaria con la filosofa epicurea Tbemista e sarebbe
stata accolta nella comunità ippolitea, dove aveva
una finalità cultuale (come simbolo di Cristo Sa-
pienza) e pratica (il Computo pasquale unifor-
mato alla prassi pasquale romana con qualche con-
cessione all'uso quartodecimano caro alla tradi-
zione giovannea). Gli scritti, i cui titoli sono incisi
sul montante, sarebbero da considerare soprattutto
come opere nate nell'ambito della comunità, da
ripartire non solo tra Ippolito e l'autore della Con-
futazione, ma anche eventualmente tra altri perso-
naggi. L'assenza della Confutazione e del Contro
Noeto è da spiegare con motivi di opportunità e di
prodenza, dopo che era stata stabilita la pace tra le
due comunità. Rifiuta quindi la tesi tradizionale

79
dell'unico Ippolito di Roma, scrittore e martire, e
valorizza il ruolo della comunità ippolitiana: Sullo
sfondo di questa valorizzazione della comunità,
traccia un profilo suggestivo del protagonista. Ip-
polito, di formazione dottrinale esegetica e retorica
asiatica, in giovane età venne a Roma al tempo
di Zefirino e di Callisto. Quivi, mentre fervono le
polemiche cbè scuotono la comunità, come aderen-
te alla dottrina del Logos, prende parte per l'auto-
re della Confutazione, che segue quando si stacca
dalla comunità diretta da Callisto e forma una
comunità separata. Usciti di scena Callisto e l'auto-
re della Confutazione, prende le redini della comu-
nità e la riappacifica con la comunità romana di-
retta da Ponziano, insieme col quale condivide l'esi-
lio in Sardegna sotto Massimino.
Simonetti ba modificato non solo l'ipotesi del
Nautin, ma anche quella uscita dal convegno roma-
no del 1976, almeno nella forma in cui fu proposta.
Resta tuttavia convinto della validità e dell'esigenza
di fondo dell'ipotesi dei due autori: non si può iden-
tificare lo scrittore romano della Confutazione e
opere apparentate con l'Ippolito autore del Contro
Noeto e delle opere del blocco esegetico conosciuto
da Eusebio, Girolamo e Teodoreto. I due gruppi di
opere mettono di fronte a due autori, diversi per
cultura e per interessi: l'autore della Confutazione
ba una vasta cultura profana, ba interessi filosofici
e ''scientifici", è esibizionista; quello orientale resta
dentro l'orizzonte ecclesiale, nascosto dietro i suoi
scritti, non ba interessi profani. Inoltre l'Ippolito
orientale cronologicamente va collocato tra la fine
del secondo secolo e l'inizio del terzo secolo e la sua
Chiesa doveva essere situata nell'Asia Minore. Ri-
badita la validità dell'ipotesi dei due autori distinti,
non riconosce alla lista delle opere incise sulla cat-
tedra valore documentario determinante per as-
segnarle al martire romano.
L'ipotesi iniziale di Nautin di un Ippolito orienta-
le, cui attribuire i commentari biblici e in particola-
re quello a Daniele, esce rafforzata dall'analisi. Al-
l'autore romano (da chiamare anch'esso Ippolito?)
non restano che la Confutazione, che ne fa un ve- ·
scovo di una comunità romana, il trattato Sul-
l'universo e la Cronaca, cui meglio si addice il titolo
di Synagoghè chr6non (Conf., 5, 10,30), citata bre-
vemente sul trono della statua come Chronik6n.
Tuttavia deve esser tenuto presente che, fatta ecce-
zione per lo studio La statua di sant'Ippolito della
Guarducci, le altre ipotesi di lavoro sono maturate
sulla base di criteri letterari, che in genere non per-
mettono conclusioni definitive a tutti gradite.
Altri studiosi affrontano la questione da un 'an-
golazione diversa e raggiungono conclusioni che
modificano le precedenti.
Eusebio scrive che Ippolito era a capo - proest6s
- di una Chiesa orientale, il cui nome non riporta,
ed era esegeta. Il senso generalmente dato alla noti-
zia è che Ippolito fosse •vescovo•. Questa interpreta-
zione non sembra necessaria, anche se, di primo
acchito, ovvia. Infatti afferma che Berillo era vesco-
vo di Bostra e usa il termine ·episcopos•, mentre di
Ippolito dice che era •capo. (proest6s) di una Chiesa,
la cui ubicazione non conosceva. Si può aggiun-
gere che lo storico ricorda Ippolito di passaggio tra
Berillo e Gaio, è attratto dalla loro produzione lette-
raria di •ecclesiastici insigni per sapere• e che del
solo Ippolito manca l'indicazione della sede.
Girolamo completa il catalogo di Eusebio con
l'aggiunta di altri undici scritti, aggiunta che non
convince molto; nomina nei suoi commenti biblici
quelli di Ippolito, riprende da Eusebio la notizia che
Origene, di passaggio per Roma, ascoltò una sua
predica, ma afferma di non essere riuscito a cono-
scere il nome della sua sede episcopale. Egli dipende
da Eusebio e da Damaso.

81
Ippolito è citato dagli autori greci e bizantini dal
IV secolo al XIV come vescovo di Roma o di Potto.
Informazioni di carattere biografico, molto limitate,
sono date dalla Depositio martyrurn, che fissa al 13
di agosto il giorno della sua sepoltura sulla via
Tibuttina e di Ponziano nel cimitero di Callisto, e
dal Catalogo liberiano che ne fissa all'anno 235
la depottazione in Sardegna insieme con papa
Ponziano. Un epigramma damasiano trasforma
Ippolito in un seguace dello scisma di Novaziano.
Ritornato all'unità della Chiesa, avrebbe esottato
i suoi a fare altrettanto. Damaso però s'inganna
quando lo fa pattigiano e capo del pattito di No-
vaziano. Prudenzio, Peristephanon, Xl, vv. 29-32,
riprende acriticamente le informazioni damasiane
e specifica che morì mattire nella fede di Paolo e
della cattedra di Pietro. Dalla Depositio martyrum
e dal Catalogo liberiano risulta che, esiliato in
Sardegna con Ponziano al tempo della persecuzio-
ne di Massimino, si è riconciliato con Ponziano ed
ba esottato i suoi a fare altrettanto. /A Chiesa ro-
mana ha riconosciuto il suo mattirio.
/A Confutazione contiene dati biografici da non
trascurare: l'autore si presenta come «successore
degli Apostoli e pattecipe della stessa grazia del
''sommo sacerdozio"- archierateia- e dell'insegna-
mento•. Si apprende inoltre che fu per lungo tempo
prete a Roma e che venne in conflitto per motivi
dottrinali e morali con Callisto (217-222), che rite-
neva eretico e fuori della Chiesa. Pettanto ruppe la
comunione con lui e con i successori Urbano (223-
230) e Ponziano (230-235).
Circa l'Ippolito di Potto, le documentazioni agio-
grafiche e archeologiche, tra loro confrontate, per-
mettono di affermare che il santo di Potto non è
mai esistito, ma è una reduplicatio dell'Ippolito di
Roma. lA basilica di Potto, datata all'anno 385, fu
scavata e studiata dal Testini; essa è all'origine di

82
un processo al termine del quale l'Ippolito di Roma
fu preso per il martire di Porto. La basilica nell'BOO
fu amcchita, dal vescovo di Porto Stefano, di reli-
quie del martire romano sigillate e autenticate, che
vennero poste sotto l'altar maggiore. Al di sopra fu
elevato un ciborio di stile carolingio datato, per di
più, con la menzione del papa Leone m.
Berthonière ha scavato il luogo sulla via Ti-
burtina, dove fu sepolto il martire nel terzo secolo;
al tempo di Pirro Ligorio questo luogo era conosciu-
to, mentre era caduta in oblio la memoria della
basilica di Porto. Il racconto del rinvenimento della
statua, fatto da Pirro Ligorio, può essere ridotto a
questi termini: la statua, in cattive condizioni, sa-
rebbe stata rinvenuta a Roma, tra la via Nomenta-
na e la via Tiburtina, non molto lontano da Castro
Pretorio, tra le rovine non meglio precisate di una
chiesa rovinata dagli ·Heretici· (quali?), dedicata a
Ippolito. Il Baronia, nell'edizione del suo Marty-
rologium Romanum del 1586 e nelle successive del
1593 e del 1598, fissa per Ippolito di Roma la data
tradizionale del 13 agosto e quella di Ippolito di
Porto al 22 agosto. Le variazioni delle edizioni suc-
cessive a quella del 1586 non riguardano Ippolito di
Roma, ma Ippolito di Porto. A proposito di questi nel
1586 scriveva che era stata trovata una sua statua
a Porto. Nelle successive edizioni del 1593 e del
1598 ritratta quanto detto e pone il ritrovamento
della statua nel Campo Verano, tra i ruderi dell'an-
tica ·Memoria· di Ippolito.
I risultati delle ricerche archeologiche compiute
prospettano che il ritrovamento del trono della sta-
tua sia avvenuto nella regione del Campo Verano,
dove è localizzata la catacomba d'Ippolito. Le iscri-
zioni incise sul trono riacquistano valore di testimo-
nianza. Il Computo pasquale e il calendario devono
essere tenuti presenti per valutare come merita la
lista bibliografica del trono.

83
La nvtviscenza degli studi "ippolitei" ha dato
luogo a due conclusioni contrastanti sul ritrova-
mento del blocco di marmo, che forma il trono: la
Guarducci ritiene non attendibili le informazioni
di Pirro Ligorio sul luogo del rinvenimento e quindi
propende per un 'altra località; Saxer le considera
sostanzialmente veritiere, nonostante le notevoli con-
traddizioni. L'Ippolito di Porto non entra in questa
problematica se non per essere un doppione di quel-
lo di Roma.

LA TRADIZIONE APOS10UCA E IL TRATIATO SUI CARISMI


Un dato letterario è offerto dalla Tradizione apo-
stolica che nel Prologo allude a una esposizione
concernente i carismi, cui fa seguire una tratta-
zione che è il vertice della tradizione e nella Con-
clusione ribadisce che se la tradizione apostolica
viene ascoltata, l'errore non avrà modo di affermar-
si. L'interpretazione più ovvia sarebbe riconoscere
che l'autore ba composto due opere distinte da de-
nominare trattato Sui carismi e La Tradizione apo-
stolica. Questo nel Prologo. Nella Conclusione è ri-
chiamata la funzione direttiva e protettiva della
sola "tradizione".
Una lettura non pregiudiziale delle incisioni sul
trono della statua suggerirebbe che le righe 9 e 10-
11 riportano il titolo di due trattati liturgici diversi:
Sui carismi e La Tradizione apostolica. Due trattati
con esistenza autonoma. Saxer, dopo avere studiato
la disposizione delle righe, ritiene che il lapicida si
sia preoccupato di distribuire con un certo ordine i
titoli delle opere da incidere sul trono. Ha notato
che, se c'è un certo numero di titoli, il cui enuncia-
to occupa più linee, il titolo che segue comincia ad
una nuova riga. È il caso delle righe 9 e 10-11: (P)erì
charismaton/(A)postoliké parado/sis. La distribuzio-
ne di queste parole su tre righe è dovuta alla man-

84
canza di spazio che non permetteva di incidere l'ul-
tima sillaba sulla seconda riga, mentre lo spazio
c'era per mettere la ''.A" di ·Apostoliké· sulla prima.
Si ha dunque l'impressione che il lapicida, che ha
iniziato le parole •Apostoliké paradosis· su una
riga diversa da quella di ·Peri charismaton-, abbia
anch'egli pensato a due titoli differenti. Sarebbero
quindi, il condizionale è d'obbligo, due opere diver-
se: l'una di Ippolito dal titolo La Tradizione apostoli-
ca e l'altra di autore ignoto dal titolo Sui carismi.
Le versioni della Tradizione apostolica e le rie-
laborazioni, per quanto concerne l'attribuzione,
hanno atteggiamenti differenziati: non è dà scarta-
re la supposizione che l'opera portasse il nome del-
l'autore, che doveva presentarsi come persona pri-
vata, che fa uso tuttavia della persona plurale ·Noi·
(cc. 1.21.43). Egli si presenta nel Prologo, quando
afferma di voler esporre la tradizione, che si è man-
tenuta fino al presente, e che consiglia di osseroare
a coloro che sono prudenti; si ripresenta nel c. 21
dicendo di avere trasmesso alla breve insegnamenti
e riti circa il Battesimo e l'oblazione; rispunta nella
Conclusione, quando si scusa se è incappato in
lacune, fiducioso tuttavia che Dio, il quale governa
la Chiesa verso porti sicuri, interoerrà a colmare le
lacune con comunicazioni che farà a coloro che ne
sono degni. Il suo scritto quindi non è d'origine apo-
stolica: ciò che viene da questi è la tradizione, che
deve essere ascoltata e seguita.
Affermando all'inizio (c. 1), nel c. 21 e alla fine
del testo (c. 43) di essere una persona privata, si
ritaglia un proprio posto e rifiuta l'anonimia e la
pseudonimia tipica dei cultori del genere letterario
apocrifo, cui si sono abbandonati l'autore della Di-
dascalia, che immagina lo scritto composto dagli
Apostoli stessi, e l'autore dei Canoni degli Apostoli,
che inventa un 'assemblea deliberativa degli Apo-
stoli, durante la quale ogni Apostolo richiama un

85
precetto del Signore, lo arricchisce di ricordi e dà
delle disposizioni sulle istituzioni e sulla disciplina
della Chiesa. Alla tentazione di dare importanza
agli ordinamenti, che stava per trascrivere, inven-
tando un 'assemblea degli Apostoli, ba ceduto anche
l'autore del libro VIII delle Costituzioni apostoliche,
che mantiene la stessa finzione letteraria nell'utiliz-
zazione della Didascalia, e come prodromo del ri-
maneggiamento della Tradizione apostolica.
Tre raccolte hanno conservato traccia del nome di
Ippolito. L 'Epitomé delle Costituzioni apostoliche in-
troduce la preghiera per l'ordinazione del vescovo
sotto il titolo Ordinamenti dei santi Apostoli circa l'im-
posizione delle mani per Ippolito. Questa preghiera
di ordinazione è quella della Tradizione apostolica e
non quella delle Costituzioni apostoliche. L'identica
titolazione ricompare nell'Ottateuco clementina, pro-
babilmente presa a prestito dall'Epitomé. I Canoni
di Ippolito, una compilazione fatta in Egitto tra il
336 e il 340, porta il titolo •Questi sono i canoni della
Chiesa scritti da Ippolito, santo vescovo di Roma•.
Queste tre menzioni lasciano supporre, secondo Dom
Botte, che il nome di Ippolito figurasse sul modello,
del quale si servirono per le rielaborazioni.
Questa presenza del nome di Ippolito sorprende
appena si rifletta che l'Epitomé riassume il libro VIII
delle Costituzioni apostoliche, che è sotto il patroci-
nio di Clemente, e fa il nome di Ippolito al momen-
to in cui, abbandonato il testo delle Costituzioni,
cita la Tradizione apostolica. Il redattore dei Canoni
ha forse confuso Clemente con Ippolito? Certo l'auto-
rità di Ippolito non poteva competere con quella di
Clemente.
I dati raccolti farebbero autore/redattore della
Tradizione apostolica Ippolito. Il titolo inciso sul tro-
no della statua orienterebbe in questa direzione.
Analizzata la statua e sottratto/e l'onore di rappre-
sentare Ippolito, non è da questa che si può partire

86
per identificare l'autore/redattore della Tradizione
apostolica. Ma che valore hanno le rielaborazioni e
le testimonianze degli scrittori ecclesiastici?
Se si confrontano le altre opere attribuite dalla
critica ad Ippolito, alla vivacità dello stile, alle mo-
dalità della loro composizione, alla ricchezza dei
contenuti e alla varietà degli interessi con la struttu-
razione e le numerose incongruità della Tradizione
apostolica, assodato il fatto che l'intenzione dell'au-
tore/redattore fosse solo quella di coordinare un
materiale, che aveva una esistenza indipendenté,
con un minimo di ritocchi, senza personalizzare il
lavoro, e che il confronto è possibile con versioni
tutt'altro che impeccabili, e constatata la distanza
culturale che corre tra La Tradizione apostolica e
la restante produzione letteraria ·ippolitea•, è molto
problematico ritenere Ippolito autore/redattore del-
la Tradizione apostolica, sia pure con le riserve e
i "distinguo" che il caso impone.
A. Brent sostiene che la nostra opera avrebbe visto
la luce nella comunità ippolitiana, molto attiva,
dove sarebbero vissuti l'autore della Confutazione,
che non è Ippolito, e l'autore (Ippolito) del Contro
Noeto, opera che in qualche modo attenuava le
divergenze tra la dottrina monarchiana della più
vasta comunità romana diretta da Callisto e quel-
la minore guidata dall'autore della Confutazione,
legata alla dottrina del Logos. Destinataria della
Tradizione apostolica è la comunità romana.
Quanto è stato esposto nelle pagine precedenti
apre uno spiraglio sui destinatari/utilizzatori del
documento? Le liturgie dell'Eucarestia, dell'ordi-
nazione e del Battesimo non si configurano come
abbozzi di riti liturgici; rispecchiano una prassi
piuttosto consolidata, ma non ancora "canonica-
mente" definita, che lascia una certa libertà creati-
va al vescovo; presuppongono inoltre una visione
storica e una reinterpretazione di dati, il cui retro-

87
terra sono la Bibbia e la liturgia giudaica. Non è
peregrina l'idea che un vescovo si appropri di euco-
logie circolanti e le adotti per costituire l'eucologia
della sua Chiesa. Tuttavia resta l'interrogativo se si
tratti di una liturgia ideale, mai realizzata, o di
una liturgia veramente attuata e rielaborata su ma-
teriale preesistente. Una risposta definitiva a tutti
gradita è difficile, se non impossibile. La via da per-
correre sarebbe quella della scomposizione del testo,
avvalendosi di un metodo analogo a quello applica-
to alla Sacra Scrittura. Ma ci si può chiedere se sia
il caso di seguire tale metodo e quali possano essere
i risultati che si attendono.
La comunità, destinataria della Tradizione apo-
stolica, appare una comunità con qualche tensione
interna (Prologo e Conclusione), ma sostanzial-
mente amalgamata; la comunità civile pagana, in
cui è inserita, è numerosa, come suppone la lunga
lista delle professioni e dei mestieri. Solo una città
con una popolazione numerosa e dinamica può
offrire uno spettro così ampio, benché mirato, di
attività. Tra le attività, quella marinara è posta
fuori del! 'elenco e ricordata in ordine alla soddisfa-
zione del digiuno pasquale (c. 33).
Nella valutazione dell'elenco è appena il caso di
ricordare che esso è fatto in ragione dell'ammissione
al catecumenato e quindi, nonostante comprenda
ventiquattro professioni e mestieri, non è esaustivo;
altre professioni e altri mestieri infatti non vi sono
inclusi, come, per esempio, l'esazione delle tasse, la
pratica dell'usura, la professione medica, l'architet-
tura, l'insegnamento delle arti liberali, l'agricoltura.
L'elenco della Tradizione si muove nell'ambito
delle professioni e dei mestieri collocati al livello più
basso della gerarchia sociale e si presume che ne sia
accettato l'apprezzamento corrente. La vita militare
e la magistratura non appartengono al rango socia-
le basso, ma non sono poste in discussione a motivo

88
del loro rango, bensì perché il loro esercizio poteva
richiedere la condanna a morle e la sua esecuzione.
La loro messa in discussione è legata al motivo cri-
stiano del "non uccidere". Tuttavia tale elenco non
rifugge da una sua rielaborazione etica che se, per
un verso, si rifa a criteri di valutazione generici,
come nel caso della magia, nei cui confronti la
società civile era ostile, per un altro, rifiuta tutte le
attività che hanno in qualche modo a che fare con
l'idolatria.
Le norme parlicolari dettate per l'ammissione
degli schiavi al catecumenato (c. 15) indicano che
le richieste non erano poche, che il loro numero era
consistente e che qualche difficoltà si era profilata
nell'armonizzare le esigenze dei loro padroni con
quelle della vita cristiana. Le regole sui confessori
della fede sono più comprensibili se si suppongono
dettate all'indomani di una persecuzione, anziché
durante una persecuzione (c. 9). La tipologia degli
alimenti disponibili (cc. 5.6.21.31), dei fiori e dei
frutti, che possono o non possono essere offerli (c.
32), l'assenza di ogni indicazione restrittiva sulla
foggia del vestire sia femminile che maschile, mo-
strano che la comunità cristiana aveva possibilità
di scelta non trascurabili e che il suo tenore di vita
era piuttosto sostenuto.
Gli elementi offerli per tratteggiare la fisionomia
della comunità sono poco più che indizi e nati tutti
dall'interno di essa: il vescovo ha un ruolo impor-
tante, ha un contatto personale e diretto con tutti i
membri della comunità, sani e malati, amministra
i sacramenti e parlecipa ai pasti comuni (cc.
20.21.22.26.28.34). Impossibile precisare il luogo
delle assemblee. Doveva in ogni caso essere un luogo
che dava una cerla sicurezza, dato che le sinassi
sono quotidiane e si chiede ai presbiteri d'essere
sempre presenti (cc. 22.25-30). Le norme relative ai
seroizi da rendersi nella comunità suppongono una

89
prassi sperimentata. la comunità dispone di un suo
cimitero e di personale addetto (c. 40).
la riflessione sul materiale tramandato dalla Tra-
dizione apostolica non è purtroppo decisiva per /'in-
dividuazione della città della comunità cristiana.
Tuttavia il primo pensiero corre a Roma, la cui
Chiesa appare bene organizzata. Non sembra che
esistano delle controindicazioni serie per lasciare
cadere questa possibilità. Il tipo di società sia civile
che religiosa, che si intravede, si comprende meglio
a Roma che altrove.
I contenuti della Tradizione apostolica suscitano
l'impressione che l'opera sia una curata aggregazio-
ne di norme, della cui validità si era fatta esperien-
za, concernenti riti e persone.
L'assenza di termini di confronto certi non con-
sente di fissare i confini tra il recupero del materia-
le preesistente e l'apporto nuovo e creativo dell'auto-
re. Questa impressione non intacca la preziosità del
documento per la storia della liturgia., indipenden-
temente dalle possibili interpretazioni, in quanto da
esso hanno preso l'avvio formulari e testi liturgici e
disciplinari del quarto secolo e oltre.
Nella liturgia romana non si trova un documen-
to, che possa essere messo a confronto, fino alla fine
del quarto secolo, con i riti e le indicazioni trasmes-
si. Alcuni riti hanno distinto per la loro antichità
la liturgia romana e le prime indicazioni si hanno
nella Tradizione apostolica: /'imposizione delle ma-
ni dei presbiteri sul/'ordinando sacerdote; la doppia
unzione post-battesimale: la formula di benedizio-
ne dell'olio per gli infermi. Le preghiere consacrato-
ne dell'ordinazione e dell'Eucarestia hanno, tutta-
via, lasciato tracce più consistenti nelle liturgie
orientali. In tempi recenti la liturgia romana ha
recuperato le formule dell'ordinazione episcopale,
dell'ordinazione sacerdotale e dell'Eucarestia.
Dall'insieme del testo e dalla diversità e moltepli-

90
cità delle "cose tràdite" si evince che La Tradizione
apostolica per alcuni aspetti riduce a una certa
organicità norme correnti nella Chiesa; e per questa
parte è difficile non riconoscerle un valore di codi-
ficazione, non puro e semplice, ma arricchito dal-
l'apporto personale dell'autore/atto di coordinazio-
ne e di distribuzione della materia almeno in tre
blocchi. Per altri aspetti conserva il marchio, il sigil-
lo, di una persona che vive una vita spirituale inten-
sa, della quale ha lasciato vistose tracce nella stesu-
ra del canovaccio di preghiere, nei suggerimenti
circa la condotta cristiana e nella proposta di un
modello di alta spiritualità nella pagina dedicata
alla ripartizione della preghiera della giornata sul
ritmo della passione di Cristo.

N.B. Una traduzione, il cui fine primario fosse stato


quello di mettere al corrente il lettore della reale condizione
della tradizione testuale della Tradizione apostolica, come
risulta dalle ricerche più recenti, molto interessate allo stato
di conservazione del testo, delle quali, per la verità, abbia-
mo tenuto conto nella presente versione, avrebbe richiesto il
ricorso ad un procedimento diverso. Avrebbe cioè richiesto
che fosse data la versione del Palinsesto di Verona per tutta
la parte conseroata e la traduzione almeno della versione
sahidica ed eventualmente di quelle parti della Tradizione
apostolica conseroate nelle rielaborazioni che hanno tra-
mandato un testo vicino a quello comunemente preso come
punto di riferimento. Ciò sarebbe stato non solo opportuno,
ma estremamente interessante per quelle parti dove le diffe-
renziazioni sono notevoli. Ne sarebbe risultata una sinossi
di versioni che avrebbe permesso a chiunque di rendersi
conto dello stato attuale del testo tramite le convergenze e le
divergenze e delle ragioni che banno consigliato Dom Botte
a fare determinate scelte. Per ora non è stato possibile adot-
tare questo criterio.

91
PARTE I
LA TRADIZIONE
APOSTOLICA
1. Prologo
Abbiamo esposto, come richiedeva l'argomento,
quanto riguardava i carismi1 , dei quali Dio fin dal-
l'inizio ha fatto dono agli uomini secondo il suo
volere per ripresentare a se stesso quell'immagine,

1 Il termine latino donatlones è stato tradotto con -carismi., che, pur aven-
do lo stesso significato di ·doni spirituali•, meglio rivela l'intervento di
Dio. Nella traduzione di questo Prologo, senza voler chiarire a tutti i
costi quello che chiaro non è, si è tentato di esplicitare, nella forma con-
sentita dal testo, l'allusione ad una •trattazione- sui •carismi•, che l'auto-
re dice di essere voluti da Dio per ricreare nell'uomo la propria imma-
gine e di essere concessi a coloro che hanno responsabilità nella
Chiesa. La versione letterale sarebbe stata: ·Abbiamo esposto, come era
giusto, quanto riguardava i carismi .. .-. Per una migliore comprensione
è opportuno aver presente l'inizio del libro V dell'Ottateuco clementi-
no, nel quale il redattore combina il testo del libro III, 1-2 delle
Costituzioni apostoliche col Prologo della Tradizione apostolica, otte-
nendo il seguente risultato: ·Abbiamo dunque trattato in maniera appro-
priata e pertinente dei carismi, che Dio fin dall'origine liberamente ha
dato agli uomini per presentare a sé quell'immagine che aveva deviato.
Ora, mossi dall'amore per tutti i santi, abbiamo preso entusiasmo
per ciò che è più determinante e sublime nella fede, che s'addice e s'in-
contra nelle chiese>. Cfr. F. Nau - P. Ciprotti, La version syriaque de
l'Octateuque de Clément, Paris 1967, p. 92; R.H. Connolly, 7be Prologue
of the Apostolic Tradition of Hippolytus, in JourTheo!St 22 (1921), pp.
356-361. Il libro VIII delle Costituzioni apostoliche, cc. 1-2, inizia con un
breve trattato Sui carismi, ed è seguito, nei cc. 4-5; 16-28; 30-31, da un
rimaneggiamento e da una amplificazione dei testi delle preghiere e dei
riti di ordinazione e di altre prescrizioni presenti in forma molto breve
nella Tradizione apostolica. Il c. 3 del libro VIII delle Costituzioni apo-
stoliche può essere letto come testo di transizione dal trattato dei cari-
smi alle indicazioni circa riti e preghiere, che seguono, oppure come

95
che aveva deviato. Ora, spinti da amore verso tutti i
santi, siamo giunti al vertice della tradizione, che si
addice alle Chiese, affinché coloro che sono bene
istruiti conservino la tradizione, che finora si è man-
tenuta, seguendo la nostra esposizione e, conoscen-
dola, siano più sicuri di fronte all'apostasia o all'er-
rore che si è prodotto di recente per ignoranza e da
ignoranti. Lo Spirito Santo conceda la grazia perfet-
ta a coloro che hanno una fede retta, affinché colo-
ro che sono preposti alla Chiesa sappiano come
debbono insegnare e conservare tutte queste cose.

2. I vescovi
Sia ordinato vescovo colui che è stato scelto da
tutto il popolo, che è irreprensibile. Quando sarà
stato fatto il suo nome e sarà bene accetto, il popo-
lo si radunerà insieme con i presbiteri e con i vesco-
vi presenti nel giorno di domenica. Col consenso
unanime, gli impongano le mani e i presbiteri assi-
stano senza far nulla 2 • Tutti tacciano e preghino in
cuor loro per la discesa dello Spirito. Uno dei vesco-

prologo alle indicazioni stesse. Anche la versione etiopica del Synodos


alessandrino attesta che questo ·Prologo- o •transizione• è posto tra una
prima parte dedicata ai carismi e una seconda parte dedicata alla "Tra-
dizione": cfr. H. Dunsing, Der aethiopische Text der Kirchenordnung
des Hippolytos, c. 39, Vandenhoeck und Ruprecht, Gottingen 1946, pp.
78-81. Questo Prologo, non presente all'inizio del Synodos, è recupe-
rato tra il capitolo dedicato al •pasto delle vedove· e una serie di testi
sull'iniziazione cristiana, che non provengono da Ippolito. Cfr. A.G.
Martimort, La Tradition apostolique d'Hippolyte et le rltuel baptisma/
antique, in BullLittEccl 60 (1959), pp. 57-62.
• Questo fa difficoltà, soprattutto se viene messo a confronto col c. 7,
dove all'inizio indica che nell'ordinazione del prebistero si procede in
modo analogo a quanto detto a proposito del vescovo, ma poi viene
provveduta una preghiera di consacrazione diversa. Ciò vorrebbe dire
che il vescovo e i presbiteri impongono le mani su colui che viene con-
sacrato vescovo. A parte La Tradizione apostolica, la prima evidenza
per la partecipazione dei vescovi vicini alla consacrazione di un nuovo
vescovo viene da Cipriano, Ep. 55,8; 67,5. Questi è testimone di un
nuovo modo di intendere il ruolo del vescovo: grazie alla natura colle-

96
vi presenti, a richiesta di tutti, imponendo la mano
sull'ordinanda, preghi dicendo:

3. Preghiera di consacrazione di un vescovo


Dfo e Padre di nostro Signore Gesù Cristo, Padre
delle misericordie e Dio di ogni conforto, che abiti
nell'alto dei cieli e volgi lo sguardo sulle cose pic-
cole, che conosci tutte le cose prima che esistano,
che hai dato le norme3 della Chiesa per la parola
della tua grazia, che fin dal principio hai predestina-
to la stirpe dei giusti di Abramo, costituendo capi e
sacerdoti, e non lasciando il tuo santuario senza
ministri, che fin dall'inizio del mondo hai voluto4
essere glorificato in coloro che ti sei scelto: ora
effondi la potenza dello Spirito sovrano, che da te
viene, e che hai dato al tuo diletto figlio, Gesù
Cristo, che ne ha fatto dono ai santi apostoli, che in

giale dell'episcopato, il vescovo non è più solo responsabile del benes-


sere della Chiesa per la quale è stato ordinato, ma anche delle altre,
come si arguisce dalla presenza di altri vescovi alla sua consacrazione.
Questo mutamento avrebbe una traccia nella Tradizione apostolica, che
prescrive ai presbiteri di assistere in silenzio. Cfr. P.F. Bradshaw, 1be
Participation of others Bishops In the Ordination of a Bishop in the
•Aposto/ic Tradition- of Hippolytus, in StudPatr XXIII/2 (Leuven 1989),
pp. 335-337.
' L'Epitomé delle Costituzioni apostoliche ha il termine greco horos (al
plurale), che significa in senso proprio •termine/confine• e in senso tra·
siate •norma/ordinamento-. Il contesto chiede che si dia la preferenza
al senso traslato. La frase •parola della tua grazia· è un eufemismo che
sta per -sacra Scrittura•. In At 14,3; 20,32 la frase ha un significato più
preciso e indica in senso obiettivo il •Vangelo-; cfr. At 20,24. Le Co-
stituzioni apostoliche (8,5,3) riprendono l'idea della norma/ordina-
mento, ma apportano un chiarimento notevole, facendo riferimento
all'incarnazione: ·Tu che hai dato gli ordinamenti della Chiesa con
l'Incarnazione del tuo Cristo-.
4 Il verbo latino piacere è un eufemismo per esprimere la propria volontà
ed è termine tecnico per indicare decisioni, delibere del senato, dei con-
soli e dei giudici. Qui nella locuzione bene tibi placuit potrebbe essere tra-
dotto alla lettera ·li sei compiaciuto-. Tuttavia, data una certa sfumatura
non troppo velatamente giuridica, si è preferito tradurre ·hai voluto-. Cfr.
il pronunciamento della sentenza di morte dei martiri scillitani (Atti del
martiri scillitani, 16).

97
ogni luogo fondarono la Chiesa, il tuo santuario, a
gloria e lode incessante del tuo nome.
Concedi, Padre, che conosci i cuori, a questo tuo
servo che hai scelto per l'episcopato, di pascere il
tuo santo gregge, di esercitare senza biasimo davan-
ti a te il sommo sacerdozio, stando al tuo servizio
notte e giorno, di rendere incessantemente propizio
il tuo volto e di offrirti i doni della tua santa Chiesa
e per virtù dello spirito di sommo sacerdote di avere
il potere di rimettere i peccati secondo il tuo coman-
do, di assegnare gli incarichi secondo il tuo ordine
e di sciogliere ogni legame5 in virtù del potere che
hai dato agli apostoli, di piacerti per la dolcezza e la
purezza del suo cuore offrendoti un soave profumo
per mezzo del tuo servo Gesù Cristo, per il quale a
te gloria, potenza e onore6 con lo Spirito Santo, ora
e nei secoli dei secoli. Amen.

' Cfr. Mt 18,18; 28, 18. Se si confrontano le due parti della preghiera di
consacrazione, si nota che il centro della prima parte, indubbiamente la
più importante e istitutiva dell'episcopato, è nella domanda che su quel-
li che dovranno prendere il posto di Gesù e degli Apostoli nel governo
e nel culto del nuovo popolo di Dio, scenda lo stesso Spirito Santo che
è già stato dato loro. Questa forte domanda è volta ad ottenere che i
vescovi, grazie alla comunicazione dello stesso dono, lo Spirito Santo,
continuino l'opera di Gesù e degli Apostoli e siano capaci di compiere
la missione loro affidata. Nella seconda parte il consacrante chiede a
Dio di concedere al suo eletto di svolgere degnamente il suo ministero
e di essere virtuoso. Le funzioni principali di questo ministero e le virtù
da praticare possono essere concentrate nelle locuzioni •pascere il santo
gregge•, -esercitare in modo irreprensibile il sommo sacerdozio-, •esse-
re modello di dolcezza, di bontà e di servizio•. Cfr. A. Santantoni, op.
cit., pp. 36-45.
6 La dossologia con la quale l'Epitomé termina questa preghiera di con-
sacrazione non nomina né il Padre né il Figlio, e ha un'andatura singo-
lare: •... per il tuo servo Gesù Cristo, per il quale a te gloria, potenza
e onore con lo Spirito Santo-. Il cod. L presenta la formula trinitaria.
].A. Jungmann (Die Doxologle In der Klrcbenordnung Hlppolytos, in
ZeitKathThebl 86 [1964), 323-324) critica l'argomento in forza del quale
Dom Botte ha posto tra parentesi i nomi ·Padre e Figlio- ritenendo
incoerente la loro menzione. Argomenti più precisi sarebbero stati il
testo dell'Epitomé e la consuetudine del tempo preniceno di non intro-
durre la dossologia col relativo •per mezzo di lui· riferito a Cristo.

98
4. L'offerta
Dopo che è stato fatto vescovo, tutti gli diano il
bacio della pace salutandolo: «È diventato degno!•.
I diaconi gli presentino l'offerta ed egli, imponen-
do le mani su di essa insieme con tutti i presbiteri,
rendendo grazie dica:
·Il Signore sia con voi•.
Tutti rispondano:
E con il tuo spirito.
·In alto i cuori•.
Sono rivolti al Signore.
·Rendiamo grazie al Signore..
È cosa buona e giusta.
E quindi prosegua:
Ti rendiamo grazie7 , o Dio, per mezzo del tuo di-
letto figlio Gesù Cristo, che negli ultimi tempi hai
inviato a noi come salvatore, redentore e messagge-
ro della tua volontà; egli è il tuo Verbo inseparabile,
per mezzo del quale hai creato tutte le cose e fu di
tuo gradimento, che hai mandato dal cielo nel seno
di una vergine e, accolto nel grembo, si è incarnato
e si è manifestato come tuo figlio, nato dallo Spirito
Santo e dalla Vergine.
Per compiere la tua volontà ed acquistarti un
popolo santo, egli stese le mani nella passione per
liberare dalla sofferenza coloro che confidano in te.
Mentre si consegnava liberamente alla passione per
distruggere la morte, spezzare le catene del demo-
nio, calpestare l'inferno, illuminare i giusti, fissare la
norma8 e manifestare la resurrezione, preso il pane

7 Questa è la più antica anafora che si conosca; probabilmente è servita


da modello a tutte quelle che sono state composte dopo. Nonostante
non comprenda il ·Sanctus•, vi sono presenti le altre parti essenziali
della grande preghiera: il ringraziamento, il racconto dell'istituzione,
l'anamnesi, l'epiclesi e la dossologia.
8 Cfr. nota 9. Nell'attuale contesto liturgico, il significato della frase latina
termlnum figat non può essere rapportato che al comando, dato da
Gesù durante la celebrazione della Cena, di reiterare quello che stava

99
ti rese grazie e dissè: «Prendete, mangiate, questo è
il mio corpo che sarà spezzato per voi.. 9•
Allo stesso modo (fece) col calice dicendo: •Que-
sto è il mio sangue che sarà versato per voi. Quando
fate questo, voi fate la mia memoria..10• ·
Ricordando dunque la sua morte e la sua resur-
rezione, ti offriamo il pane e il calice e ti rendiamo
grazie per averci fatti degni di stare alla tua presen-
za e di renderti culto11 • E ti preghiamo d'inviare il
tuo Spirito Santo sull'offerta della santa Chiesa. Unen-

facendo. Secondo il precetto del Signore, le comunità cristiane celebre-


ranno l'Eucarestia in memoria della cena. Cfr. Costituzioni apostoliche,
8, 12,35.38. Qualche autore interpreta nel senso di ·fissare il limite-
(dell'inferno), qualche altro ·fissare i confini· in senso temporale, o
·fissare la regola· come allusione alla -costituzione del CristQo. Il con-
testo liturgico invita a preferire il senso di regola della celebrazione eu-
caristica (cf. M. Metzger, Les deux prières eucharistlques des Consti-
tullons apostoliques, in RechScRel 45 11971], p. 59; E. Mazza, Ome/le
pasquali, in EphLit 97 (1983], p. 433).
' Il testo è vicino alla tradizione occidentale di 1Cor 11,24 (codd. dg.
Ambst), che ha sostituito il verbo •donare>, dal senso oblativo, con
-spezzare-.
10 Il cod. L ha per due volte il verbo ·fare• all'indicativo presente della
seconda persona plurale e omette davanti a •memoria· la preposizione
•in•, rendendo possibile la versione che è stata data, in verità poco scor-
revole e ostica. Se si accetta la tradizione testuale di E, si deve tradur-
re: -Quando farete questo, lo farete in memoria di me•. Sia la versione
L che la versione E suppongono la lettura del verbo ·fare• all'indicativo
presente/futuro. Le Costituzioni apostoliche (8, 12, 37) hanno: ·Fate
questo in memoria di me-.
11 Cfr. Dt 10,8; 2 Cr 29,11, dove si legge la frase -stare alla presenza del
Signore- in concomitanza col servizio che i leviti devono prestare. Tale
frase, a volte, è enfatizzante nell'Antico Testamento, e significa sempli-
cemente davanti all'altare, all'arca o al luogo dove il Signore -abita•, il
tempio. Nella Tradizione apostolica significa stare in comunione con Dio
nella Chiesa, il luogo del nuovo culto, che il verbo ministrare indica. Il
contesto richiede che questo verbo debba essere inteso nel suo riferi-
mento a tutta l'assemblea coinvolta nell'azione cultuale. L'ecc/esia ringra-
zia il Signore per essere stata fatta degna di celebrare l'Eucaristia. Cfr. E.
Mazza, Omelie pasquali e Blrkat ha-mazon: fonti dell'anafora di Ip-
polito?, in EphLit 97 (1983), p. 460 (questo contributo di E. Mazza è stato
riprodotto nella recente ricerca L'anafora eucaristica. Studi sulle origini
de/l'anafora eucaristica [Bibliotheca ·Ephemerides Liturgicae-. Subsidia,
621, Roma 1992, pp. 167-168); Id., Le odierne preghiere eucaristiche, 1.
Struttura, teologia, fonti, EDB, Bologna 1984, pp. 151-158. Dom Botte
intende il termine come riferito al ministero episcopale che è stato appe-

100
do in una sola cosa12, dona a coloro che partecipa-
no dei santi misteri la pienezza dello Spirito Santo
per confermare la loro fede nella verità, affinché ti
lodiamo e ti glorifichiamo per Gesù Cristo tuo figlio,
per il quale gloria e onore a te con lo Spirito Santo
nella tua santa Chiesa ora e nei secoli dei secoli .
.Amen13•

na conferito all'eletto e fonda la sua argomentazione sull'uso del verbo


ierateuo nell'anafora del libro VIII delle Costituzioni apostoliche (cfr.
Die Wendung -adstare coram te et tibl ministrare• In Eucbaristtschen
Hochgebet Il, in BibLit 49 (1976], pp. 101-104). A. Couratin (cfr. D.H.
Tripp, 7be 7banksglving: an F.ssay by Artbur Couratin, in B.D. Spinks
[ed.], 7be Sacrifice of Praise, Rome 1981, p. 30) sostiene che nel secon-
do/terzo secolo non esiste ancora una chiara distinzione tra clero e
popolo e, quindi, ministrare può indicare solo l'azione cultuale dell'as-
semblea. La distinzione tra clero e popolo esiste già nel secondo/terzo
secolo ed è attestata dagli scherni relativi all'ordinazione dei vescovi, dei
presbiteri e dei diaconi e dalle prescrizioni riguardanti altre categorie di
persone riferiti dalla Tradizione apostolica. Non è una contrapposizione.
Nella celebrazione dei santi misteri è tutta l'assemblea che vi partecipa,
clero e popolo, ciascuno secondo il proprio rango. Dom Botte, in un
articolo pubblicato postumo, è ritornato sull'argomento e, pur accettan-
do che l'anafora non è una preghiera personale del vescovo appena
consacrato, contro le sue stesse premesse conchiude che ·il vescovo
rende grazie a Dio di essere stato giudicato degno di celebrare il sacrifi-
cio eucaristico- (B. Botte, Adstare coram te et tibi ministrare, in QuaestLit
63 (1982], pp. 224-225). È appena il caso di segnalare che la frase latina
adstare coram te et ttbi ministrare ha una lieve carica eufemistica e può
essere tradotta: ·Ci hai fatti degni di stare alla tua presenza per renderti
cult0>.
12 Questa è la più antica epiclesi che si ricordi, nella quale si riscontrano I
due aspetti complementari di consacrazione e di comunione fruttuosa e
il Signore è pregato d'inviare lo Spirito sulle offerte affinché chi le rice-
ve riceva i doni dello stesso Spirito. La frase, prendendo come punto di
partenza la teologia delle omelie pasquali, potrebbe esser interpretata
nel senso che lo Spirito Santo e l'offerta sono uniti come una sola cosa,
dal momento che lo Spirito Santo è stato invocato sull'offerta. Tuttavia,
considerando debitamente il tenore del testo e la "filosofia• sottesa, è
preferibile l'interpretazione che vede indicata l'unità della Chiesa e/o dei
santi che partecipano all'Eucarestia (cfr. l'analisi di E. Mazza, op. cit., pp.
157-162). Una versione scorrevole, che però ha il sapore di una esege-
si, potrebbe essere la seguente: •Dona a tutti coloro che, riuniti insieme,
partecipano dei santi misteri, la pienezza dello Spirito Santo .....
13 Questa anafora è stata introdotta nel Messale Romano, come seconda
preghiera eucaristica, non senza un rimarcato intervento di adattamen-
to sul testo.

101
5. (Offerta dell'olio)
Se qualcuno offre olio, (il vescovo) renda grazie
come nell'offerta del pane e del vino, non usi le
stesse parole, ma simili nel senso, dicendo: ·Come
con la santificazione di quest'olio, col quale hai
unto re, sacerdoti e profeti, tu doni, o Dio, la sanità
a coloro che lo ricevono e ne sono unti, così pro-
curi conforto a coloro che lo gustano e la salute
a coloro che lo usano•.

6. (Offerta del formaggio e delle olive)


Ugualmente se qualcuno offre formaggio e olive,
dica: ·Santifica questo latte, che si è cagliato14 e coa-
gula anche noi alla tua carità. Fa che non si allonta-
ni dalla tua dolcezza questo frutto dell'olivo, che è
simbolo della tua ricchezza, che hai fatto stillare dal
legno per la vita di coloro che sperano in te·15 •
In ogni benedizione si dica: ·Gloria a te, Padre e
Figlio con lo Spirito Santo nella santa Chiesa, ora e
sempre e nei secoli dei secoli. Amen·16 •

7. I sacerdoti
Quando viene ordinato un presbitero, il vescovo
imponga la mano sul suo capo, mentre i presbiteri lo
14 Se si prendono alla lettera le due voci ·formaggio- e ·latte che si è
cagliato-, si dovrebbe pensare a una contraddizione: il latte cagliato è
di recente lavorazione, è fresco, morbido, bianco; il formaggio non è di
lavorazione recente e le sue caratteristiche non sono identiche a quelle
del latte cagliato. L'autore non si è preoccupato di questa sottigliezza e
quindi ha usato due voci per indicare la stessa cosa. J.-M. Hanssens (op.
clt., p. 422) ritiene che si tratti proprio di latte cagliato.
0 L'offerta dell'olio, del formaggio e delle olive è facoltativa, ma non si sa
in quale momento della celebrazione avvenga, se dopo l'anafora, dopo
la comunione o in concomitanza con l'offerta del pane e del vino. In
ogni caso, l'autore si preoccupa di non identificare la benedizione di
queste due offerte con quella del pane e del vino, che ha un'altra desti-
nazione.
16 Questa dossologia non è posta solo a conclusione della celebrazione pre-
cedente, ma è proposta come modello per qualunque altra benedizione.

102
toccano, e si esprima nel modo che abbiamo già
detto, come abbiamo indicato a proposito del vesco-
vo, pregando e dicendo17: ·Dio, Padre del Signore
nostro Gesù Cristo, volgi lo sguardo su questo tuo
servo e donagli uno spirito di grazia e di saggezza
sacerdotale, affinché aiuti e governi il tuo popolo
con cuore puro, come volgesti lo sguardo sul popo-
lo che hai eletto e ordinasti a Mosè di scegliere degli
anziani che ricolmasti del tuo spirito che avevi dato
al tuo servo. E ora, Signore, concedi che non venga
mai meno in noi lo spirito della tua grazia e rendici
degni, ripieni (del tuo spirito), di servirti con un
cuore semplice lodandoti per il tuo figlio Gesù
Cristo18, per il quale a te gloria e potenza, con lo
Spirito Santo nella santa Chiesa, ora e nei secoli dei
secoli. Amen•.

8. I diaconi
Quando si ordina un diacono, sia scelto nel mo-
do già detto, il solo vescovo gli imponga le mani,

17 La preghiera che segue indica chiaramente che l'autore riporta delle


formule usate per la consacrazione e del vescovo e del sacerdote.
Probabilmente, non hanno ancora raggiunto una fissità liturgica. Il
richiamo a •quanto detto sopra• sembra avere come primo obiettivo la
ritualità della consacrazione sacerdotale e non la ripetizione della for-
mula di consacrazione del vescovo con varianti introdotte in ordine alla
diversa funzione e alla diversa dignità del sacerdote. La preghiera per
la consacrazione del sacerdote è compiuta nella sua articolazione: c'è la
tipologia dell'Antico Testamento e la sua applicazione alla Chiesa. E.C.
Ratcliff (·Apostolic Tradltion•. Qu.estion concerning tbe Appointment of
the Bisbop, in StudPatr 8/2 [Texte u. Untersuch., 937], Berlin 1966, p.
406) ritiene che con l'espressione •quanto detto sopra• l'autore alluda
all'opera Sul carismi.
18 Nell'ultimo periodo della preghiera per la consacrazione sacerdotale è

invocato lo Spirito Santo anche per i presenti, ricordati con un generi-


co •noi•; questo •noi· potrebbe essere la comunità o il vescovo col suo
presbiterio. Nel contesto della preghiera di ordinazione è un'aporia,
conservata anche nella preghiera di ordinazione presbiterale delle Co-
stituzioni apostoliche (8, 16, 5), dove però si chiede anche che il neo-
ordinato svolga il suo ministero in maniera irreprensibile.

103
come abbiamo prescrittc19• Nell'ordinazione del dia-
cono solo il vescovo imponga le mani, perché non
è ordinato al presbiterato, ma al servizio del vesco-
vo per fare quello che questi gli indica. Difatti non
prende parte del consiglio del clero, ma amministra
e segnala al vescovo ciò che è necessario, né riceve
lo spirito comune del presbiterato del quale parteci-
pano i presbiteri, ma quello che gli è conferito per
il potere del vescovo. Per questo solo il vescovo
ordini il diacono.
Sul presbitero impongano le mani anche i presbi-
teri, perché al clero è comune e simile lo spirito. Il
presbitero infatti ha il solo potere di riceverlo, ma
non quello di darlo, perciò non ordina il clero. Per
l'ordinazione presbiterale ratifica, mentre il vescovo
ordina.
Ordinando il diacono il vescovo dica: ·Dio, che
hai creato tutte le cose e le hai disposte mediante il
tuo Verbo, Padre di nostro Signore Gesù Cristo, che
hai inviato per eseguire la tua volontà e manifestar-
ci il tuo disegno, concedi lo spirito della tua grazia,
dello zelo, e della diligenza a questo tuo servo, che
hai eletto al servizio della tua Chiesa e per presen-
tare nel tuo santuario ciò che viene offerto da colui
che è stato stabilito tuo sommo sacerdote a gloria
del tuo nome, affinché, adempiendo il suo compito
in modo irreprensibile e con cuore puro, sia trova-
to degno di questo elevato ufficio, ti lodi e glorifi-
chi per il tuo figlio Gesù Cristo nostro Signore, per
il quale a te gloria, potenza e lode, con lo Spirito
Santo, ora e sempre e nei secoli dei secoli. Amen•.

19 La frase •come abbiamo prescritt0> è infelice, perché sembra riferita


all'imposizione delle mani, sulla quale ritornerà nella frase seguente. È
probabile che l'inciso riguardi tutta la cerimonia.

104
9. I confessori
Se un confessore è stato imprigionato per il nome
del Signore, non gli siano imposte le mani per il dia-
conato o per il presbiterato dal momento che, per la
sua confessione, possiede l'onore del presbiterato.
Ma se viene nominato vescovo, gli siano imposte le
mani20 •
Se c'è un confessore che non è stato condotto
davanti all'autorità, che non è stato arrestato, né
incarcerato, né condannato ad altra pena, ma è stato
soltanto occasionalmente deriso per il nome del
Signore e vessato dai propri familiari, se ha confes-
sato, gli sia imposta la mano per qualsiasi ordine, di
cui è degno.
Il vescovo renda grazie, come è stato detto. Non
è necessario21 che ripeta le stesse parole che abbia-,
mo detto sforzandosi di recitarle a memoria, ren-
dendo grazie a Dio, ma ciascuno preghi come è
capace. Se qualcuno è capace di recitare una pre-
ghiera più lunga e più solenne, bene. Ma se qual-
cuno, quando prega, recita una preghiera più sem-
plice, non gli sia vietato. È importante che la sua
preghiera sia corretta e ortodossa22 •

20 Questa nonna dei confessori della fede è una spia per dire che si è in
tempo di persecuzioni. Le Costituzioni apostoliche (8,23), redatte in
altra temperie, omettono tale norma.
21 Le versioni araba ed etiopica omettono la negazione •non• davanti a
•necessario-, modificando sensibilmente il testo, che direbbe: ·In ogni
caso è necessario.,,•, La libertà creativa del vescovo ha il solo limite del-
l'ortodossia. Va sottolineato che questo comma del n. 9 è un blocco
erratico caduto tra il regolamento concernente i confessori e le prescri-
zioni sulle vedove, sul lettore, sulle vergini e sui suddiaconi, Tutto il n,
9 manca nel Palinsesto di Verona. La preghiera del vescovo nella tradi-
zione delle versioni è detta •preghiera gloriosa, solenne, elevata, nobi-
le, inno, lode-, Ciò potrebbe indicare che diverse erano le forme di pre-
ghiera che venivano fatte nel corso dell'assemblea. Cfr. M, Metzeger,
Enquétes autour de la protendue ·Tradition apostolique•, in •Ecclesia
Orans- 9 (1992), pp. 8-9.
22 L'ultirno periodo sulla tipologia della preghiera del vescovo è fuori
posto in un contesto riservato ai confessori della fede.

105
10. Le vedove
Quando si istituisce una vedova, non riceve l'or-
dinazione, ma solo il titolo. Se il marito è deceduto
da molto tempo, si faccia l'istituzione; se invece è
deceduto da poco tempo, non si abbia fiducia in lei;
se poi è anziana, sia tenuta in prova per un tempo
determinato. Spesso infatti le passioni invecchiano
con colui che le ha alloggiate nel proprio interno.
La vedova venga istituita con la sola parola e poi
venga aggregata alle altre. Non si imporranno le
mani, perché non fa l'offerta e non presta alcun
servizio liturgico. L'ordinazione è riservata al clero
per il servizio liturgico, mentre la vedova è istituita
perché preghi, che poi è dovere di tutti23 •

11. Il lettore
Il lettore viene istituito nell'atto in cui il vescovo
gli consegna il libro: infatti non gli sono imposte le
mani24 . ·

12. La vergine
Non s'imponga la mano su una vergine: è la sua
decisione che la fa vergine25.

13. Il suddiacono
Non si imponga la mano sul suddiacono, ma sia
nominato al servizio del diacono26 •
23 L'autore non mostra interesse per il ruolo che le vedove possono svol-
gere nella comunità cristiana; gli sta a cuore l'aspetto ascetico.
24 Sulla rivalutazione dell'ufficio del lettore nel Concilio Vaticano II, cfr.
Sacrosanctum Concilium, 29.
"Cfr. Mt 19,12; 1 Cor7, 8.25-28.32-35. Qui la verginità è inserita nell'elen-
co delle istituzioni e ha un rango ufficialmente riconosciuto nella. socie-
tà ecclesiale.
26 Nella riforma liturgica del Vaticano II, la figura del suddiacono è sparita
nella Chiesa di rito latino. Il decreto Orientalium Ecc/esiarum, 17 impo-

106
14. I doni di guarigione
Se uno dice: ·Ho ricevuto il dono della guarigio-
ne in una rivelazione•, non si imporrà la mano su di
lui. I fatti stessi dimostreranno se ha detto la verità.

15. Coloro che si accostano


per la prima volta alla fede
Coloro che si presentano per la prima volta ad
ascoltare la parola, siano subito condotti alla presen-
za dei maestri 27 , prima che tutto il popolo arrivi, e sia
loro chiesto il motivo per cui si accostano alla fede.
Coloro che li hanno condotti testimonino se sono in
grado di ascoltare la parola'. Siano interrogati sul loro
stato civile: se hanno moglie, se sono schiavi.
Se qualcuno è schiavo di un fedele e il padrone
lo consente, ascolti la parola; ma sia rinviato se il
padrone non garantisce che è buono. Se il suo
padrone è pagano, gli si insegni di dare soddisfa-
zione al padrone per non essere calunniato.
Se un uomo ha moglie o una donna ha marito, si
insegni a contentarsi, il marito della moglie e la
moglie del marito.
Se uno non vive con una donna, gli si insegni a
non fornicare, ma a prendersi una donna secondo
la legge o a rimanere come è 28 •

ne il ritorno all'antica disciplina d'ogni singola Chiesa quanto agli obbli-


ghi dei suddiaconi, derogando al "motu" di Pio XII Cleri sanctitati.
27 Il termine usato dalle versioni sahidica, araba, etiopica per indicare la
funzione di colui che impartisce un insegnamento catechetico corri-
sponde al greco didaskalos. Per conservare questo significato si è pre-
ferito ricorrere al termine "maestro" che non crea confusione, come
avverrebbe se si usasse "dottore". Si intuisce facilmente che sono cristia-
ni incaricati dell'insegnamento della loro religione. Il termine "catechi-
sta" sarebbe stato più espressivo, ma non avrebbe reso bene l'impor-
tanza del loro ruolo nella Tradizione apostolica. Nel Nuovo Testamento
sahidico, la voce didaskalos indica colui che impartisce un insegnamen-
to. Cfr. B. Botte, La Traditlon apostolique, cit., p. 33, nota 3.
28 Cfr. 1 Cor 7,7-9. A quale legge alluda l'autore non è chiaro; probabil-

mente ha in vista il dettato del diritto romano sul matrimonio.

107
Se uno è posseduto dal demonio, non ascolti la
parola dell'insegnamento fino a che non si sia puri-
ficato.

16. Mestieri e professioni


Siano esaminati i mestieri e le professioni di colo-
ro che sono condotti per essere istruiti.
Se uno gestisce un postribolo, smetta o sia riman-
dato.
Se uno è scultore o pittore, gli sia detto di non
rappresentare più idoli: smetta o sia rimandato.
Se uno è attore o dà rappresentazioni in teatro,
smetta o sia rimandato.
Chi insegna ai fanciulli, è bene che smetta; se
non ha altra occupazione, gli sia concesso.
Ugualmente il cocchiere che gareggia o colui che
prende parte ai giochi, smetta o sia rimandato.
Il gladiatore, o l'istruttore dei gladiatori, o il
bestiario che caccia nel circo le fiere, o il funziona-
rio che organizza i giochi gladiatori, smetta o sia
rimandato.
Chi è sacerdote degli idoli o guardiano di idoli,
smetta o sia rimandato.
Il soldato subalterno non uccida alcuno. Se rice-
ve tale ordine, non lo eseguirà e non presterà giu-
ramento. Se rifiuta, sia rimandato.
Chi ha il potere di vita o di morte, o il magistra-
to d'una città, che indossa la porpora, smetta o sia
rinviato.
Il catecumeno o il fedele che vogliono arruolarsi
nell'esercito, siano rimandati, perché hanno disprez-
zato Dio.
La prostituta, il lussurioso29, il dissoluto o l'autore
di azioni infami, siano rinviati, perché sono impuri.

29 Dom Botte (op. cit., p. 37, nota 7) ammette che il testo della versione
sahidica che legge -colui che si è evirato- è traduzione errata del termi-

108
Il mago non sia nemmeno ammesso all'esame.
L'incantatore, l'astrologo, l'indovino, l'interprete dei
sogni, il ciarlatano, colui che taglia i lembi delle
vesti30 , il fabbricante di amuleti, smettano o siano
rimandati.
La concubina di qualcuno, se è sua schiava, se ha
allevato i figli e ha rapporti solo con lui, sia am-
messa, altrimenti sia rimandata.
Chi ha una concubina, smetta e prenda moglie
secondo la legge; se non vuole, venga rimandato31•
Se abbiamo fatto delle omissioni, le professioni
stesse vi faranno da maestre. Tutti, infatti, abbiamo lo
Spirito di Dia32 •

ne greco kinaidos. Aggiunge che una etimologia popolare lo equipara-


va a -eunuco-. Il contesto esclude che si tratti di uno che si è autoevi-
rato e continua nella enumerazione delle persone dedite alla lussuria.
Pertanto, si è preferito tradurre •lussurioso-. Cfr. Costituzioni apostoli-
che, 8,32,11 (Epitome).
30 B. Botte, Psellistes-Psalistes (RevEtByz 16 [1958], pp. 162-165), è dell'av-
viso che non si tratti di una pratica magica, bensì di una specie di atti-
vità che consisteva nel ridurre il peso delle monete limandone i bordi.
Pertanto traduce ·le coupeur qui rogne le bord des pièces (de mon-
naie)•. Un aspirante cristiano non può continuare a comportarsi cosl.
Questa spiegazione è interessante; tuttavia, difficilmente trova posto in
un contesto dedicato alle pratiche magiche. G. Cuming (Htppolytus: A
Text /or Students wllh Introductton, Trans/ation, Commentary and
Notes, Nottingham 1979, p. 16) è dell'avviso che il testo abbia di mira
coloro la cui professione consisteva nel ritagliare frange o tasselli sulla
veste, che il portatore riguardava come una protezione contro gli spiri-
ti maligni.
''L'autore contempla due casi: quello del concubinato monogamico con
prole e quello senza prole. Sono due casi ben distinti: il primo, che
viene accettato, ha per protagonista la donna; il secondo, invece, l'uo-
mo. La presenza della prole e la fedeltà della donna sembrano motivi
sufficienti per l'accettazione. Nel secondo, invece, si richiede che il ca-
so venga regolato a norma del diritto romano. Si potrebbe avere qui
un'eco della disciplina matrimoniale introdotta da Callisto, il quale con-
sentiva matrimoni validi tra donne libere e ùomini di condizione infi-
ma, benché vietati dal diritto romano. Cfr. Ippolito, Conf. 9,12,22-25. Si
intuisce che era intenzione di Callisto di favorire le donne di nobile
famiglia in via di conversione al cristianesimo che avevano di fatto dif-
ficoltà a sposarsi con un cristiano che non era di pari rango sociale.
"Le Costituzioni apostoliche (8,32,9-13.16) sostanzialmente riprendono
quest'elenco dei mestieri e delle professioni, cui ne aggiungono altri.

109
17.Durata dell'istruzione dopo l'esame
dei mestieri e delle professioni
I catecumeni siano istruiti per tre anni. Se qualcu-
no poi è sollecito e vi si dedica con impegno, non
sia giudicato il tempo, ma sia solo la condotta a
essere giudicata.

18. La preghiera di còloro che ricevono l'istruzione


Quando il maestro termina l'istruzione, i catecu-
meni preghino in disparte, separati dai fedeli. Le
donne preghino in un luogo loro riservato nell'as-
semblea, siano esse fedeli o catecumene. Quando a-
vranno finito di pregare, non si danno il bacio della
pace, perché il loro bacio non è ancora santo33. I
fedeli invece si saluteranno scambievolmènte, uomi-
ni con uomini e donne con donne; ma gli uomini
non saluteranno le donne. Le donne poi si coprano
il capo col mantello, ma non con la sola stoffa di
lino, che non vela.

19. L'imposizione delle mani sui catecumeni


Quando il maestro, dopo la preghiera, ha impo-
sto la mano sui catecumeni, preghi e li congeda.
Faccia così l'istruttore sia esso chierico o laico. Se un
catecumeno è arrestato per il nome del Signore, non
sia indeciso per quanto riguarda la sua testimonian-
za. Se infatti subisce violenza e viene ucciso, ben-
ché non abbia ancora avuto il perdono dei suoi pec-
cati, sarà giustificato. Ha ricevuto infatti il battesimo
nel suo sangue.

33 Cfr.Rm 16, 16; 2Cor 13, 13; lTs 5,26; lPt 5, 14. Il divieto imposto ai ca-
tecumeni di salutare gli altri fedeli col bacio della pace si spiega pro-
babilmente col fatto che questo gesto avveniva nel corso dell'assemblea
liturgica ed era segno di piena comunione, che ai catecumeni ancora
mancava.

110
20. Coloro che riceveranno il battesimo
Quando sono scelti coloro che dovranno riceve-
re il battesimo34 , si esamini la loro vita: se hanno vis-
suto correttamente il loro catecumenato, se hanno
onorato le vedove, se hanno visitato gli ammalati, se
hanno fatto le opere buone. Se coloro che li hanno
presentati testimonieranno ·che ciascuno si è com-
portato in questo modo, allora ascoltino il Vangelo.
Dal momento in cui sono scelti, si impongano su
loro ogni giorno le mani per esorcizzarli. Quando
s'avvicina il giorno del battesimo, il vescovo li e-
sorcizzi singolarmente per vedere se sono puri. Se
qualcuno non è buono o non è puro, sia scartato,
perché non ha ascoltato con fede la parola: è
impossibile infatti che lo "Straniero"35 si nasconda
sempre.
Si ordini a coloro che devono ricevere il battesimo
di prendere un bagno e di lavarsi il quinto giorno
della settimana36.
Se una donna ha le regole, venga messa in di-
sparte e riceva il battesimo in un altro giorno.
Coloro che riceveranno il battesimo, digiunino il
venerdì37 e si riuniscano il sabato nello stesso luogo
a discrezione del vescovo. Si ordini loro di pregare e
di inginocchiarsi, e imponendo loro la mano, (il ve-
scovo) comandi a ogni spirito straniero di allonta-
narsi da essi e di non ritornare mai più. Quando avrà
finito l'esorcismo, soffi loro sul viso, segni loro la

34 Nel rito romano I catecumeni, che sono prossimi al battesimo, sono


detti e/ectl.
35 Il testo latino ha alienus, termine inusitato per indicare il diavolo nella
letteratura protocristiana latina. Esso traduce il greco allotrios, che indi-
ca il diavolo nel senso di lontano da Dio, straniero a Dio, avversario.
Cfr. Ef 4,27; 1Tm 5,14; Const. ap. 8,6.7.8; Gregorio Nazianzeno, Discorsi,
14,27.
36 Il quinto giorno della settimana corrisponde al nostro "giovedi".
"'La Dldaché (7,4) prescrive al battezzando di digiunare uno o due gior-
ni prima del battesimo, e ordina di digiunare al battezzante e a quanti
possono.

111
fronte, le orecchie, le narici38, li faccia quindi alzare.
Veglieranno tutta la notte ascoltando letture e
istruzioni. I battezzandi non portino nulla con loro,
se non ciò che ognuno porta per l'Eucarestia39 . È
bene infatti che chi è divenuto degno, faccia l'bffer-
ta alla stessa ora.

21. Rito e amministrazione del santo battesimo


Al canto del gallo, prima d'ogni cosa, si preghi
sull'acqua. Sia acqua che scorre in una fontana o
che cade dall'alto40• Si faccia in questa maniera, a
meno che non ci sia altra necessità. Se c'è una
necessità permanente e urgente, si usi l'acqua che si
trova. I battezzandi depongano le loro vesti. Bat-
tezzate per primi i bambini41 • Coloro che sono in
grado di rispondere da sé, rispondano. Coloro che
non sono in grado di rispondere da sé, rispondano
per loro i genitori o qualcuno della famiglia.
Battezzate poi gli uomini e quindi le donne,
dopo che avranno sciolto i loro capelli e deposto i
gioielli d'oro42 che portano addosso. Nessuno scen-
da nell'acqua portando oggetti estranei.
All'ora fissata per il battesimo, il vescovo renda
grazie sull'olio, che metterà in un vaso e si chiami

38 n rito romano ha conservato questi gesti modificandone la forma.


39fi testo ha in vista l'offerta che il battezzando portava con sé e che pre-
sentava dopo avere ricevuto il battesimo.
40 1.a Didacbé (7,1) raccomanda l'uso d'acqua corrente anche fredda.
41 Si intuisce che il rito del battesimo era identico per i bambini e per gli
adulti.
"'La versione sahidica aggiunge -e d'argento-. Se in questa prescrizione
c'è un'eco della norma del trattato Sbabbatb, 6,1 della Mishnah, secon-
do la quale alla donna, di sabato, non è consentito uscire con cinture
di lino o di lana o con nastri in capo, perché non può prendere il bagno
senza slacciarli, né con altri ornamenti, gioielli, orecchini, pendenti
d'oro, si potrebbe dire che come la donna giudaica, che voleva com-
piere un rito purificatorio, doveva sciogliere i capelli e deporre gli orna-
menti, analogamente doveva comportarsi la donna che si prestava a
ricevere il battesimo.

112
olio del rendimento di grazie. Prende poi altro olio,
che esorcizzerà, e si chiami olio dell'esorcismo43• Un
diacono poi porta l'olio dell'esorcismo e si pone alla
sinistra del presbitero, un altro diacono prende l'olio
del rendimento di grazie e si pone alla destra del
presbitero. Prendendo uno per uno i battezzandi, il
presbitero ordini a ciascuno di rinunciare dicendo:
·lo rinuncio a te, Satana, a tutto il tuo culto44 e a tutte
le tue opere•. Dopo che ciascuno ha rinunciato, lo
unga con l'olio dell'esorcismo dicendogli: ·Ogni spi-
rito si allontani da te.. Così lo affidi, nudo, al vesco-
vo o al presbitero, che sta vicino all'acqua per bat-
tezzarlò.
Un diacono scenda nell'acqua col battezzando
nella maniera seguente. Quando il battezzando sarà
sceso nell'acqua, colui che battezza gli imponga la
mano sul capo chiedendo: ·Credi in Dio Padre onni-
potente?•. Il battezzando risponda: ·Credo•. Lo bat-
tezzi allora una prima volta tenendogli la mano sul
capo. Poi chieda: •Credi in Cristo Gesù, figlio di Dio,
che è nato per intervento dello Spirito Santo dalla
vergine Maria, fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, morì,
fu sepolto e il terzo giorno risuscitò vivo dai morti, è
salito nei cieli e siede alla destra del Padre e verrà a
giudicare i vivi e i morti?·. Quando avrà risposto:
·Credo•, lo battezzi una seconda volta. Nuovamente
chieda: ·Credi nello Spirito Santo, nella santa
Chiesa?·45 . Il battezzando risponderà: ·Credo•, così sia

43 Qui per la prima volta è ricordata la distinzione tra l'olio del rendimen-
to di grazie e l'olio dell'esorcismo .
.. Se la voce latina servitlum fosse la versione del termine greco pompe,
la traduzione potrebbe essere ·fasto•, •apparato•, ·seduzione• o anche
•pompe·. Il termine ·pompe•, al plurale, nel linguaggio ecclesiastico
indica la seducente fastosità delle opere del diavolo.
"Il cod. L ha subìto l'influsso dell'ulteriore sviluppo della confessione di
fede, perciò aggiunge: •nella santa Chiesa e nella resurrezione della
carne- (cfr. P. Nautin, je crols à l'Esprit Saint dans la sainte Égllse pour
la résurrectton de la chair, Paris 1947); B. Botte (Note sur le symbo/e
baptlsmal de saint Hippolyte, in Mélanges f. de Ghel/inck, Gembloux

113
battezzato per la terza volta. Quando sarà uscito
(dall'acqua), il presbitero lo unga con l'olio del ren-
dimento di grazie dicendo: «Ti ungo con l'olio santo
nel nome di Gesù Cristo..
Quindi si asciughino, si rivestano ed entrino in
chiesa. Il vescovo, imponendo loro le mani, reciterà
l'invocazione: «Signore Dio, che li hai resi degni di
ottenere il perdono dei peccati mediante il lavacro
della rigenerazione dello Spirito Santo46 , effondi su

1951, pp. 189-200) difende la lezione scelta -nello Spirito Santo nella
santa Chiesa., poiché non ritiene •nella santa Chiesa• un articolo di fede,
ma un complemento di luogo. Il testo originale non doveva avere la
preposizione greca eis con l'accusativo, con la quale viene indicato l'og-
getto della fede, come il Padre e il Figlio, ma en col dativo di stato in
luogo. Il significato sarebbe quindi che la professione di fede nella
Trinità si fa nella chiesa. La ·chiesa/luogo• sarebbe raccordata alle tre
Persone. Cf. B. Botte, L'Esprit-Saint et l'Église dans la ·Traditton aposto-
llque• de saint Hippolyte, in ·Didascalia•, 2 0972), pp. 224-225. G.J.
Cunting (op. clt., p. 19) propone la formula lunga: •Credi nello Spirito
Santo e nella santa Chiesa e nella resurrezione della carne?•.
46 Il testo della versione latina dice: ·li hai resi degni di ottenere il perdono
dei peccati mediante il lavacro di rigenerazione dello Spirito Santo-. Il
testo fa certamente difficoltà se si ritiene che sia attribuita allo Spirito
Santo la rentissione dei peccati. La teologia sacramentaria della Tra-
dizione apostolica, fatta eccezione per il sacramento del battesimo e
della Eucarestia, non ha altre espressioni qualificanti. Dom Botte (op. cit.,
p. 53) suppone che il traduttore latino (perché non il copista?) abbia sal-
tato una riga, come suggeriscono le versioni sahidica, araba ed etiopica,
che dovrebbe essere restituita. L'ipotesi della ontissione di una riga è una
congettura impossibile da sostenere, a motivo della precarietà dei testi. t
il caso di ricordare che il Synodos alessandrino legge: ..Signore Dio, che
ci hai resi degni di ottenere la remissione dei peccati mediante il lavacro
della rigenerazione, rendili degni di essere riempiti dello Spirito Santo e
invia su di loro la tua grazia ... •. I Canoni di Ippolito offrono un testo che
è sulla linea di quello della Tradizione apostolica: ·Noi ti benediciamo,
Signore Dio ... poiché hai fatto questi degni di nascere una seconda volta,
d'essere riempiti del tuo Spirito Santo e d'essere uno solo nel corpo della
Chiesa, concedi loro la caparra del tuo regno ...•. Cfr. R. Coquin, Les
Canons d'Hippolyte, PO 31/2, 383. Gli interventi degli studiosi sul testo
della Tradizione apostolica, se per un verso ne testimoniano l'importan-
za in teologia sacramentale, per un secondo verso ne denunciano la dif-
ficoltà. Cfr. B. Botte, La Tradltion apostolique de saint Hippolyte. Addenda
di A. Gerhards, pp. 120-123. Si deve sottolineare l'accordo tra la versione
latina e i Canoni di Ippolito, dove il dono dello Spirito Santo fa parte del-
l'anamnesi, quindi è considerato un dono già accordato, mentre nel
Synodos alessandrino il dono dello Spirito Santo fa parte delle domande

114
di loro la tua grazia, affinché ti servano secondo la
tua volontà, poiché a te è gloria, al Padre e al Figlio
con lo Spirito Santo nella santa Chiesa47, ora e nei
secoli dei secoli. Amen•.
Poi versandogli l'olio santificato dalla sua mano e
imponendogli (la mano) sul capo, dica: «Ti ungo
con olio santo nel Signore, Padre onnipotente, nel
Cristo Gesù e nello Spirito Santo•. Lo segni sulla
fronte, lo baci e dica: «Il Signore sia con te., e colui
che è stato segnato risponda: ·E con il tuo spirito•.
Così faccia con ciascuno.
Oramai preghino insieme con tutto il popolo;
non preghino con i fedeli prima d'avere ottenuto
tutto ciò. Dopo avere pregato, diano il bacio della
pace.
A questo punto, i diaconi presentino l'offerta al
vescovo, che renderà grazie sul pane, perché diven-
ti simbolo del corpo del Cristo, sul calice di vino
mescolato, perché diventi il simbolo del sangue, che
è stato versato per tutti coloro che credono in lui;
sul latte e il miele mescolati insieme, perché indichi-
no l'adempimento della promessa, fatta ai padri, che
chiamò •terra dove scorre latte e miele•, che Cristo
ha dato (come) sua carne48 , della quale si nutrono,
alla maniera dei bambini, i credenti, e che con la
soavità della parola trasforma in dolcezza l'amarez-
za del cuore; infine sull'acqua offerta perché signifi-
chi il bagno, affinché l'uomo interiore, cioè l'anima,
riceva gli stessi effetti del corpo. Il vescovo dia tutte

della cbetrotesla, che comporta una epiclesi dello Spirito Santo sui bat-
tezzati. Cfr. M. Metzger, Enquetes... , cit., p. 4.
47 La formula trinitaria ha un riscontro in Ippolito, De Anticbristo, 59. Nel
testo è significativa l'invocazione dello Spirito Santo sui banezzatl come
grazia impersonale.
""Il significato del testo è che la carne di Cristo è la terra che nutre i cre-
denti. Questa scelta interpretativa è in sintonia con lo stile icastico
impresso a cuno il rito del banesimo e con l'accentuato simbolismo del
tesco. Cfr. Ippolito, De benedictione jacob in Deut. 33,13; cfr. anche
Lettera di Barnaba, 6,10.

115
queste spiegazioni a coloro che si comunicano49.
Spezzando il pane e distribuendone un pezzetto a
ciascuno, dica: ·Il pane del cielo nel Cristo Gesù•.
Chi lo riceve risponda: ·Amen•.
Se i presbiteri non bastano, anche i diaconi ten-
gano i calici e s'attengano con compostezza al se-
guente ordine: primo quello che ha in mano l'ac-
qua, secondo quello che ha in mano il latte e terzo
quello che ha il vino.
Coloro che ricevono (la comunione) bevano da
ognuno dei calici, mentre ciascuno, porgendo il
calice, dirà: •In Dio Padre onnipotente•. Colui che
beve risponda: «Amen•. «E nel Signore Gesù Cristo•.
(Risponda: ·Amen•). ·E nello Spirito Santo e nella
santa Chiesa•. Risponda: •Amen•. Così si faccia per
ciascuno.
Terminati questi riti, ciascuno sia sollecito nel
fare del bene, di piacere a Dio e di vivere rettamen-
te, dedicandosi alla Chiesa, mettendo in pratica gli
insegnamenti appresi e progredendo nella pietà50 •
Vi abbiamo trasmesso brevemente queste istruzio-
ni sul battesimo e sulla santa oblazione, perché siete
già stati istruiti sulla resurrezione della carne e su
tutto il resto, come è stato scritto51 • Ma se è opportu-

49 Ilcod. S ha compreso il testo come se trattasse del battesimo. Il conte-


sto verte chiaramente sulla catechesi eucaristica.
"'La versione latina termina con la frase -ciascuno sia sollecito nel fare del
bene ... •; le versioni sahidica, araba, etiopica proseguono con altre esor-
tazioni. Se il testo, lungo o breve, ha un senso, esso vuole dire che
l'Eucarestia è la celebrazione della comunità riunita attorno al presbite-
rio, vescovo, presbiteri e diaconi, in memoria del Signore. L'agape, cui
tra l'altro sembra alludere, è un modo di fare del bene, accanto all'esor-
tazione a comportarsi correttamente. C'è da chiedersi se l'autore, accen-
nando all'opera buona da compiere, non abbia vagamente presente la
Lettera di Giacomo, laddove parla dell'accoglienza da riservare a chi si
presenta in assemblea, ricco o povero che sia. Un'eco certamente si ha
nella Didascalia degli Apostoli (ed. F.X. Punk, Paderbomae 1964; rist.
anastatica, pp. 168.170) e nelle Costituzioni apostoliche (SCh 320, Paris
1985, p. 322), che modificano il testo della Didascalia.
"Questo periodo non è la conclusione della prima parte della Tradizione
apostolica, ma del c. 21. Il tutto sembra riguardare una catechesi

116
no ricordare qualche cosa, il vescovo la dica, sotto
segreto, a coloro che hanno ricevuto il battesimo. Gli
infedeli non ne vengano a conoscenza, se non dopo
che hanno ricevuto il battesimo52 • Questo è il sas-
solino bianco del quale Giovanni disse: ·Un nome
nuovo vi è scritto, che nessuno conosce, se non
colui che riceverà il sassolino·53 •

· 22. La comunione
Il sabato e la domenica 54 il vescovo, se può, di-
stribuisca personalmente (la comunione) a tutto il
popolo, mentre i diaconi spezzano il pane. Anche i
presbiteri spezzeranno il pane. Quando il diacono
porta (l'Eucarestia) al presbitero, la porgerà su un
lembo della sua veste, e il presbitero si comuni-
cherà lui stesso, e la distribuirà di sua mano al
popolo 55 •

postbattesimale incorporata all'opera, che forma un corpo a sé stante.


Cfr. B. Botte, op. cit., p. XXXV.
"È preferibile seguire il testo della versione sahidica, che ha la voce ·bat-
tesim0>. Infatti la discriminazione tra fedele e infedele sta nell'avere o
non avere ricevuto il battesimo. Della -disciplina dell'arcano- si hanno
tracce dalla fine del secondo secolo, ma non si può dire che il presen-
te testo sia una prova.
53 Ap 2,17. L'autore si riferisce alla nuova condizione del neobattezzato,
che ha ricevuto un nome nuovo, quello di cristiano, e all'Eucarestia. Il
senso più ovvio del testo sacro è il seguente: ·la manna nascosta• è la
grazia divina, il ·sassolino bianco-, colore della vittoria, è la tessera per
entrare nell'eredità beata, espressa dal •nome nuovo•.
54 È da preferire la lezione della versione etiopica, che ha ·il sabato e la
domenica•. Secondo G.J. Cuming, op. cit., ci sono indizi di una prassi
eucaristica al sabato nel terzo secolo. Cfr. C.W. Dugmore, 7be Inj/uence
of the Synagogue upon the Divine Office (Alcuin Club Collections, 55),
London 1968, pp. 28-37.
"].M. Hanssens (La liturgie d'Hippolyte. Ses documents, son titu/aire, ses
origines et son caractère, Roma 1959, p. 145) conserva il testo della ver-
sione etiopica, che spiega nel modo seguente: il diacono si limita a pre-
sentare al presbitero, su un lembo del proprio vestito, il pane eucaristi-
co, che il presbitero prende di sua mano per comunicarsi. Ai fedeli,
invece, il diacono distribuisce personalmente la comunione.

117
23. Il digiuno
Le vedove e le vergini digiunino spesso e preghi-
no per la Chiesa. I presbiteri e parimenti i laici di-
giunino quando vogliono. Il vescovo non può digiu-
nare se non quando digiuna tutto il popolo.
Può accadere, infatti, che qualcuno voglia fare
un'offerta: il vescovo non può rifiutare. Quando
spezza il pane, ne gusti in ogni caso.

24. I doni ai malati


Il diacono, in caso di necessità, darà, con solleci-
tudine, il segno al malato, se non c'è il presbitero.
Dopo aver dato quanto è necessario e ricevuto ciò
che viene distribuito, renderà grazie e lì stesso lo
consumeranno56.
Coloro che ricevono i doni siano solleciti nel loro
ministero. Se qualcuno ha ricevuto qualche cosa da
portare o a un malato o a chi è al servizio della
Chiesa, la porti il giorno stesso. Se non l'ha portata, la
porti il giorno seguente aggiungendovi del proprio,
poiché è rimasto presso di lui il pane dei poveri.

25. Introduzione della lucerna


durante la cena della comunità
Quando il vescovo è presente, venuta la sera, il
diacono porti la lucerna. Stando in piedi in mezzo
ai fedeli presenti, (il vescovo) renderà grazie. Dap-
prima saluti57 dicendo:

"Il testo è molto oscuro. La voce -segno- potrebbe avere lo stesso signi-
ficato che ha la voce exemp/um/similitudo (greco, antitypos) nel para-
grafo 21, dove il pane è detto ·simbolo del corpo del Cristo- e il calice
·immagine del sangue versato-.
"A prima vista, soggetto del verbo sembrerebbe il diacono che saluta
l'assemblea; egli è l'ultimo arrivato e non dice ·in alto i cuori•, invito
riservato alla celebrazione eucaristica. Tuttavia, trattandosi di un rendi-
mento di grazie, probabilmente, è fatto dal vescovo. In ogni caso, a un

118
·Il Signore sia con voi•.
Il popolo risponderà:
E con il tuo spirito.
•Ringraziamo il Signore•.
E il popolo risponderà:
È cosa degna e giusta: grandezza, esaltazione e
gloria gli sono dovute.
Non dirà: ·In alto i cuori•, perché così si dice al-
l'offerta. E pregherà dicendo così:
·Ti ringraziamo, Signore, per il tuo figlio Gesù
Cristo, nostro Signore, per mezzo del quale ci hai illu-
minati rivelandoci la tua luce incorruttibile. Poiché
dunque noi abbiamo vissuto un giorno intero e
siamo giunti all'inizio della notte, appagati della luce
del giorno, che tu hai creato per la nostra sazietà, e
poiché ora, per tua grazia, non ci manca la luce della
sera, noi ti lodiamo e ti glorifichiamo per il tuo figlio
Gesù Cristo, nostro Signore, per il quale a te gloria e
potenza e onore con lo Spirito Santo, ora e sempre e
nei secoli e dei secoli. Amen•58•
Tutti rispondano: Amen.
Terminato il pasto, si alzino per pregare; i fanciul-
li recitino i salmi, così anche le vergini.
In seguito il diacono, prendendo il calice mesco-
lato dell'offerta, reciterà uno dei salmi, in cui ci sia
l'alleluia. Quindi se il presbitero dà l'ordine, recite-
rà anche altri salmi dello stesso tipo. Dopo che il
vescovo ha offerto il calice, reciterà un salmo, di
quelli che si addicono al calice, che abbia l'alleluia,
mentre tutti diranno: ·Alleluia•. Quando si reciteran-
no i salmi, tutti diranno: ·Alleluia·, cioè ·lodiamo co-
lui che è Dio: gloria e lode a colui che ha creato il

testo chiaro corrisponde un'attribuzione molto incerta (cfr. la


Tradizione apostolica, c. 5).
"'Secondo P. Plank (Phos h11aron. Christushymnus umi Llcbtdanksagung
der friihen Cbristenheit, Wtirzburg 1985, p. 65) la preghiera fonde insie-
me due formule di ringraziamento sinagogali, quella per il giorno e
quella privata per la luce.

119
mondo intero con la sua sola parola•. Dopo il salmo,
il (vescovo) benedirà il calice e distribuirà pezzetti
di pane a tutti i fedeli 59 •

26. Il pasto comune


I fedeli, che partecipano al pasto comune, riceve-
ranno dalla mano del vescovo un pezzetto di pane
prima di spezzare il proprio, perché è una benedi-
zione e non una Eucarestia, come carne del Signore.
È bene che tutti, prima di bere, prendano una coppa
e rendano grazie su di essa, poi berranno e mange-
ranno così in purezza. Ai catecumeni si dia il pane
dell'esorcismo6o e ognuno offra un calice.

27. I catecumeni non devono mangiare con i fedeli


Il catecumeno non prenda parte al pasto del
Signore. Durante il pasto, colui che mangia ricordi
colui che lo ha invitato: proprio per questo è stato
pregato d'entrare nella sua casa.

28. Bisogna mangiare con disciplina


e con moderazione
Quando mangiate e bevete, fatelo con modera-
zione e non fino alla ubriachezza, per non diventa-
re ridicoli, o rattristare ·con la vostra intemperanza
chi vi ha invitato; ma si auguri di essere stimato
degno che i santi entrino in casa sua. Voi infatti,
dice, siete il sale della terra.
Se a tutti, nell'assemblea, è offerto quello che in

59Il brano, chiaro nelle singole frasi, non lo è nell'insieme: gli attori sono
il diacono, il presbitero e il vescovo; sembra che ognuno canti un salmo
alleluiatico.
60 Il testo è oscuro: non ci sono dati che aiutino a identificare questo pane.
Una cosa sembra certa: era distinto da quello che ricevevano i fedeli.

120
greco si dice •apoforeto..61 , prendetelo. Se poi siete
stati invitati tutti a mangiare, mangiate quanto basta
in modo tale che ne avanzi e colui, che vi ha invi-
tato, possa mandarne a chi vorrà, come se fossero
resti santi, e fiducioso gioisca. Durante il pasto gli
invitati mangino in silenzio, senza discussioni, ma
(dicendo) ciò che il vescovo consente e risponden-
do alle sue domande.
Quando il vescovo prende la parola, tutti tac-
ciano e ascoltino con modestia, finché non ponga
nuove domande.
Se i fedeli prendono parte al pasto alla presenza
di un presbitero o di un diacono, e non del vesco-
vo, mangino con uguale moderazione. Ognuno si
affretti a ricevere la benedizione dalla mano del
presbitero o del diacono. Da parte sua il catecu-
meno riceva un pane esorcizzato.
Se si riuniscono solo dei laici, agiscano secondo
la norma: il laico non può fare la benedizione.

29. Bisogna mangiare rendendo grazie


Ognuno mangi nel nome del Signore. Infatti pia-
ce a Dio che noi siamo di esempio anche ai pagani,
vivendo uniti e sobri.

30. Il pasto delle vedove


Se uno invita a pranzo vedove di età matura, le
congedi prima della sera. Se non può invitarle, a

61 La voce greca apophoreton, al plurale, indicava i regali che avuti a tavo-


la, potevano essere portati via dall'invitato a mensa: cfr. Ateneo Gram-
matico, 229. Nonostante il vocabolo sia usato qui al singolare, non sem-
bra avere un significato diverso. E. Peterson (Merl.s, Hostlen-Partikel und
opfer-Anteil, in EphLit 61 (19471, pp. 3-12) ha ricercato nuovi testi per
precisare il senso di apophoreton. È sembrato opportuno tradurre l'avver-
bio communiter con -assemblea•, anziché ·in comune-. Il l.ampe (A
Patrlstic Greek Lextcon, Oxford 1968, p. 219) si rifà unicamente al testo
della Tradizione apostolica.

121
causa dell'incarico ricevuto, dopo aver dato cibo e
vino, le congedi. Esse poi a casa loro mangino a
piacere.

31. !frutti da offrire al vescovo


Tutti s'affrettino ad offrire al vescovo le primizie
dei frutti delle prime raccolte. Egli, offrendole, le
benedica e nomini l'offerente dicendo: «Ti ringrazia-
mo, o Dio, e ti offriamo le primizie dei frutti, che ci
hai dato da raccogliere, dopo averle portate a matu-
razione per la tua parola e dopo avere comandato
alla terra di produrre ogni specie di frutti per la gioia
e per il nutrimento degli uomini e di tutti gli anima-
li. Per tutto questo ti lodiamo, o Dio, e per tutti i
benefici che ci hai accordato adornando per noi
tutta la creazione di vari frutti, per mezzo di tuo
figlio Gesù Cristo, nostro Signore, per il quale gloria
a te nei secoli dei secoli. Amen•.

32. Benedizione dei frutti


Si benedicono i frutti: uva, fichi, melagrane, olive,
pere, mele, more, pesche, ciliegie, mandorle, prugne,
ma non poponi, meloni, cetrioli, cipolle, agli, né alcun
altro legume. Talvolta si offrono fiori: si offrano rose
e gigli e non altri fiori. Qualsiasi cosa si prenda, si
renda grazie a Dio santo, prendendone in sua gloria.

33. Non si deve prendere nulla a Pasqua


prima dell'ora in cui si può mangiare
Nessuno a Pasqua prenda alcunché prima che sia
fatta l'oblazione; chi agisce altrimenti non gli viene
computato come digiuno. Ma una donna incinta e
ammalata e impossibilitata a digiunare due giorni,
digiunerà il sabato, per necessità, prendendo pane
e acqua.

122
Se qualcuno, trovandosi in navigazione o in qual-
che necessità, ha ignorato il giorno (di Pasqua),
quando ne viene a conoscenza, digiuni dopo il cin-
quantesimo giorno62 . La Pasqua, che noi celebriamo,
non è figura - la figura in effetti è passata -, e per
questo cessa nel secondo mese63. Perciò occorre
digiunare quando si è appresa la verità.

34. I diaconi devono stare assiduamente


col vescovo
Ogni diacono e i suddiaconi stiano assiduamente
col vescovo e gli segnalino gli ammalati, affinché, se
il vescovo vuole, li visiti. Grande è la gioia del mala-
to, quando si vede ricordato dal sommo sacerdote.

35. Il momento della preghiera


I fedeli, appena alzati e lavati, prima di mettersi al
lavoro, preghino Dio e poi s'affrettino al lavoro. Se
c'è una catechesi, ognuno dia la preferenza all'ascol-
to della parola di Dio a conforto della sua anima.
Frequenti l'assemblea, dove lo spirito fiorisce 64•

62 Le versioni hanno qui l'espressione post qutnquagesimam, che è un'e-


vidente traduzione del termine greco pentekoste (•pentecoste•). In-
direttamente lascia intendere che il tempo che va dalla Pasqua alla
Pentecoste è per il cristiano un tempo che non deve essere turbato
da digiuni e Uistezze.
6! La tradizione testuale è infelice: sia che si segua quella della versione lati-
na come quella della versione sahidica, nessuna delle due offre un senso
soddisfacente. La versione sahidica, cosl come giace, suppone che il cri-
stiano dica di non celebrare la vera Pasqua. Il problema si risolve ripe-
tendo la parola .figura· (gr. typos). Si recupera cosl la tradizione tipologi-
ca che affonda le sue radici nel Nuovo Testamento. La Pasqua ebraica era
prefigurazione di quella cristiana, come il sacrificio di Melchisedeèh era
prefigurazione dell'Eucarestia, Adamo prefigurava il Cristo, la roccia per-
cossa da Mosè era figura del Cristo, Agar e Sara rappresentavano l'Antica
e la Nuova Alleanza.
64 L'espressione ·lo spirito fiorisce• è ambigua: può essere interpretata
tanto nel senso dello Spirito Santo quanto dei carismi dello Spirito
Santo; può essere interpretata anche come lo spirito dell'uomo che nel-

123
36. Bisogna accostarsi all'Eucarestia quando si fa
l'offerta prima di prendere qualche altra cosa
Ogni fedele, prima di prendere qualche cosa, si
preoccupi di accostarsi all'Eucarestia. Se la riceve
con fede, anche se qualcuno gli somministrasse un
veleno mortale, dopo ciò non potrà nuocergli65 •.

37. Bisogna conseroare con cura l'Eucarestia


Ognuno abbia cura che nessun infedele gusti
l'Eucarestia, né un topo o un altro animale, né che
parte di essa cada per terra e vada perduta. È in-
fatti il corpo del Cristo, che deve essere mangiato
dai credenti e non deve essere disprezzato66 •

38. Niente deve cadere dal calice


Benedicendo il calice nel nome di Dio, lo hai
ricevuto come simbolo del sangue del Cristo. Perciò
non versarne, per timore che uno spirito maligno lo
lecchi; sarebbe come se tu lo disprezzassi. Tu sarai
responsabile, come colui che disprezza il prezzo
con il quale è stato comprato.

39. I diaconi e i presbiteri


I diaconi e i presbiteri si riuniscano ogni giorno

l'assemblea sboccia come un fiore. In qualunque modo si interpreti,


l'immagine non perde la sua efficacia e bellezza.
'°Questo capitolo è riportato in greco con qualche trascurabile variante
dal cod. greco 900 (sec. XV) della Biblioteca nazionale di Parigi e dal
cod. 86 (sec. XIII) del Museo nazionale di Ochrid. Cfr. M. Richard,
Opera Minora, I, Leuven-Turnhout 1976, pp. 52-53. Il testo dke: ·Ogni
fedele, prima di prendere alcunché, si preoccupi di partecipare al-
l'Eucarestia. Se partecipa con fede, quand'anche qualcuno gli desse
qualcosa di letale, dopo ciò non ne avrà danno•. Non si comprende il
motivo dell'accenno a un tentativo di avvelenamento. L'Eucarestia
preserva dagli effeni del veleno. Cfr. Mc 16,18.
"Questa raccomandazione, come già la precedente, testimonia l'uso do-
mestico dell'Eucarestia.

124
nel luogo stabilito dal vescovo. I diaconi non omet-
tano di radunarsi ogni giorno, a meno che non sia-
no ammalati. Quando tutti sono riuniti, istruiscano
coloro che si trovano in chiesa e così, dopo aver
pregato, ciascuno si avvii al proprio lavoro67•

40. I luoghi della sepoltura


Non si imponga una tassa per seppellire nei cimi-
teri: è cosa di ogni povero. Tuttavia sia pagato il
salario dell'operaio a colui che scava la fossa68 e il
costo dei mattoni. Il vescovo provveda a coloro che
stanno in questo luogo e ne hanno cura, perché a
chi viene qui non sia chiesta una tassa d'ingresso.

41. I tempi della preghiera


Tutti i fedeli, uomini e donne, quando si alzano,
prima di fare checchessia, si lavino le mani e pre-
ghino Dio; poi vadano al loro lavoro. Se c'è un'istru-
zione e si fa la parola di Dio, ciascuno preferisca di
andarvi, stimando dentro di sé che ascolta Dio stes-
so in colui che fa l'istruzione.
Chi prega in chiesa potrà sottrarsi al male del
giorno69•
Il timorato di Dio ritenga una grande perdita se
non va dove si fa l'istruzione, in particolare se sa leg-
gere70 o se interviene il maestro. Nessuno di voi sia
in ritardo alla chiesa, luogo dove si fa l'istruzione.

67 Il vescovo indicava volta per volta il luogo della riunione? Se si tratta


della stessa riunione del mattino, di cui parla nel secondo periodo, si
ha un'evidente contraddizione, a meno che non si dica che anche I
fedeli erano informati del luogo dove avveniva.
611 Nel quarto secolo i fossori si organizzarono in una vera e propria cor-
porazione. Ciò che il testo qui non suppone.
69 È una discreta allusione a Mt 6,34: ·Basta a ciascun giorno la sua
pena ..
70 Non è comprensibile la relazione tra l'andare alla chiesa e il saper leg-
gere. È probabile che sia caduta la negativa •non•. Chi sa leggere ha la

125
Allora a colui che parla sarà dato di dire cose che
sono utili a ognuno, e tu ascolterai cose che non
pensi, e trarrai profitto da ciò che lo Spirito Santo ti
darà per mezzo di colui che fa l'istruzione. In que-
sto modo la tua fede sarà rafforzata su quanto avrai
ascoltato. Ti si dirà ivi anche quello che devi fare in
casa. Pertanto ciascuno s'affretti ad andare alla chie-
sa, luogo dove lo spirito fiorisce. Quando non c'è
l'istruzione, ciascuno a casa sua prenda un libro edi-
ficante71 e legga quanto basta di ciò che gli sembra
essere di sua utilità.
Se sei a casa tua, all'ora terza prega e loda Dio; se,
in questo preciso momento, sei altrove, prega Dio
nel tuo cuore. A tale ora infatti il Cristo fu visto in-
chiodato sul legno. Per questo, nell'Antico Testa-
mento, la legge ordinò di offrire continuamente il
pane della proposizione, come figura del corpo e del
sangue del Cristo; l'immolazione dell'agnello privo di
ragione è figura dell'agnello perfetto. Il Cristo infatti
è il Pastore ed è anche il pane che discende dal cielo.
Prega parimenti all'ora sesta, perché, quando il
Cristo fu inchiodato sul legno della croce, il giorno
fu interrotto e si ebbe una grande oscurità. Pertanto
si faccia una preghiera vigorosa a quest'ora, imitan-
do la voce di colui che pregava e ricoprì di tenebre
tutta la creazione per i Giudei increduli.
All'ora nona si faccia una lunga preghiera72 e si
protragga la lode imitando il modo col quale l'ani-
ma dei giusti loda Dio, che non mente, che si è

reale possibilità di istruirsi in fatto di fede con la lettura; ciò invece è


impossibile all'analfabeta.
11 Non sembra che l'autore abbia in mente la sacra Scrittura.
72 Il simbolismo delle ore, terza, sesta, nona è fondato sull'orario della

Passione. L'originalità della Tradizione apostolica è quella di mettere al


centro la Passione del Signore per guidare la preghiera. L'ora terza
richiama la crocifissione e l'Eucarestia, l'ora sesta evoca le tene_bre della
Passione e la preghiera del Cristo, l'ora nona ricorda la morte del Cristo
che non può essere dissociara dalla resurrezione. Cfr. G.M. Ouiy, Office
divin, in DictSpir 11, pp. 688-689.

126
ricordato dei suoi santi ed ha inviato il suo Verbo
per illuminarli73•
A quest'ora, dunque, il Cristo, colpito nel costato,
effuse acqua e sangue e rischiarando il resto del
giorno lo fece arrivare fino alla sera. Perciò, inau-
gurando un nuovo giorno all'ora in cui cominciò
ad addormentarsi (nella morte), diede un'immagine
della resurrezione74 •
Prega anche prima di coricarti. Verso la mezza-
notte alzati, lavati le mani con acqua e prega75 • Se è
presente anche tua moglie, pregate insieme; ma se
ella non è ancora battezzata76 , ritirati in un'altra stan-
za per pregare e poi ritorna nel tuo letto. Non esita-
re a pregare: chi è sposato non è impuro. Coloro
che sono lavati non hanno bisogno di lavarsi di
nuovo, perché sono mondi. Se ti segni col tuo fiato
umido prendendo con la mano la saliva, il tuo
corpo è purificato fino ai piedi. Difatti il dono dello
spirito e l'acqua che bagna, che salgono dal cuore

1 3 Nel secondo secolo era diffuso un testimonium giudeo-cristiano sulla


discesa di Cristo agli inferi per annunciare ai giusti dell'Antico Testa-
mento ivi dimoranti, l'avvenuta salvezza. Probabilmente si tratta di un
midrasb cristiano costruito su un supposto testo che il profeta Geremia
non ha mai scritto. Giustino cita questo preteso passo profetico (Dialogo
con Trifone, 72,4), Ireneo vi allude sei volte attribuendolo due volte a
Geremia (Adv. baer. 4,22,l; Epideixis, 78), un volta a Isaia (lbid., 3,20,4)
e tre volte in modo generico alla Scrittura (ibid., 4,33,1.12; 5,31,1). Di
questa convinzione della discesa di Cristo si hanno tracce vistose in
Ignazio, Ai Magnesii, 9,2; in Erma, Il Pastore. Parabole, 9,16,5-7; nel
Vangelo di Pietro, 41-42; nel Vangelo di Nicodemo, 17-27; negli Oracoli
Sibillini, 8,310-312; nella Lettera degli Apostoli, 27; in Ippolito,
Benedizione di Giacobbe, 7; in Clemente Alessandrino, Stromatt, 2,9,44,
1-2; nell'Homilia in Sanctum Pascba, PG 43,439.462-463.
14 Da notare il simbolismo: la morte di Cristo è luce che prolunga il gior-
no facendolo diventare un nuovo giorno e dona un'immagine della
resurrezione.
15 At 16,25 ricorda la preghiera di mezzanotte, accompagnata dal canto di
inni e salmi, di Paolo e Sila, in prigione a Filippi.
16 Al di là dell'argomento principe dei tempi della preghiera, l'autore fa
conoscere con chiarezza il suo pensiero sui matrimoni misti. Diver-
samente da Tertulliano (Alla moglie, 2,1-2; 3,1; 4,3; 5,2; 6,2), non li
condanna, ed esorta il coniuge cristiano a ritirarsi in un'altra stanza a
pregare da solo.

127
credente come da una fonte 77, purificano il creden-
te stesso. Bisogna pertanto pregare a quest'ora. In-
fatti gli anziani, che ci hanno trasmesso questa tra-
dizione, ci hanno insegnato che a quest'ora tutta la
creazione riposa un momento per lodare Dio: le
stelle, le piante e le acque si fermano un momenta78
e tutte le schiere degli angeli, che lo servono-, loda-
no Dio insieme con le anime dei giusti. Perciò i cre-
denti devono in quest'ora essere solleciti a pregare.
Anche il Signore rende testimonianza di ciò e dice:
·Ecco, nel mezzo della notte si è alzato il clamore di
coloro che dicevano: "Ecco, viene lo sposo: alzatevi
e andategli incontro",,, E continua dicendo: ·Per que-
sto vegliate, perché non sapete a che ora viene•.
Al canto del gallo alzati e fa lo stesso, perché a
quell'ora, mentre il gallo cantava, i figli d'Israele rin-
negarono il Cristo79, che noi abbiamo conosciuto
per mezzo della fede, sperando nella luce eterna e
nella resurrezione dei morti con gli occhi rivolti
verso questo giorno.
Pertanto voi tutti fedeli, facendo ciò e conservando-
ne il ricordo, istruendovi l'un l'altro e dando esempio
ai catecumeni, non potrete essere né tentati, né per-
dervi, dal momento che ricorderete sempre il Cristo.

42. Il segno della croce


Quando sei tentato, segnati devotamente la fron-

"L'autore mette in relazione il momento in cui il battezzato esce dall'ac-


qua, e il segno della croce fatto con la mano inumidita dalla saliva, che
interpreta come immagine del rito battesimale.
'"Questo periodo non sembra di derivazione lirurgica. Analoghe sospen-
sioni dello svolgimento normale della vita del cosmo a causa di eventi
straordinari (cfr. Protovangelo di Giacomo, 18) e il cosmico silenzio not-
rumo (Sap 18, 14; Alcmane, fr. 60; Eneide, 6,522-527; Argonautica, 3)
hanno i contorni di una pausa della vita, mentre nella Tradizione apo-
stolica è una sosta dalle attività terrene per elevare lo spirito a Dio.
19 Mc 14,68-72. L'autore accomuna nel rinnegamento di Cristo l'apostolo
Pietro e rutti i giudei.

128
te: è il segno della Passione, conosciuto e sperimen-
tato contro il diavolo se lo fai con fede, non per
essere visto dagli uomini, ma presentandolo con
abilità come uno scudo. L'Avversario infatti, veden-
do quella forza che viene dal cuore per cui l'uo-
mo mostra all'esterno l'immagine scolpita del Verbo,
fugge, non perché gli sputi addosso, ma al soffio
della tua bocca. Per raffigurare questo nell'agnello
pasquale che veniva ucciso, Mosè asperse il sangue
sulla soglia e unse gli stipiti delle porte. Indicava
così la fede che noi abbiamo nell'Agnello perfetto80•
Segnandoci con la mano la fronte e gli occhi, allon-
taniamo colui che tenta di annientarci.

43. Conclusione
Se si accolgono con gratitudine e con retta fede,
queste istruzioni procurano edificazione alla Chiesa
e ai credenti la vita eterna. Do a tutti i saggi il con-
siglio di custodirle, poiché se tutti coloro che ascol-
tano la tradizione apostolica la seguono e la custo-
discono, nessun eretico né altro uomo vi potrà in-
durre in errore. Infatti le eresie si sono moltiplicate
in questo modo, perché i capi non vollero istruirsi
sull'insegnamento degli apostoli, ma hanno fatto ciò
che hanno voluto, seguendo il loro capriccio e non
ciò che conviene.
Carissimi, se abbiamo omesso qualcosa, Dio lo ri-
velerà a coloro che ne sono degni, poiché egli go-
verna la Chiesa affinché approdi al porto della pace.

"°Nel testo si intravedono due simbolismi: l'agnello pasquale immolato da


Mosè era imperfetto rispetto all'agnello pasquale perfetto dei cristiani.
Mosè fece segnare col sangue del suo agnello le soglie e gli stipiti delle
porte delle case degli ebrei per distinguerle da quelle degli egiziani (Es
12,21-30); il segno della croce, segno di salvezza, allontana il diavolo dai
cristiani. L'autore riconduce a un profondo significato teologico un segno
liturgico cui poteva essere attribuita una valenza apotropaica.

129
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137
PARTE Il
IL CREDO
DI NICEA
Introduzione

Questo Concilio di Nicea


è veramente una testimonianza indelebile
contro ogni eresia.
(Atanasio ed episcopato egizio-libico,
Lettera ai vescovi africani, 11, PG 26, 1048 A)

IL CONCILIO DI NICEA (325)

Verso un concilio generale


Per contestualizzare l'opera di Atanasio De
decretis Nicaenae Synodi (=c DD), dobbiamo riper-
correre a grandi linee gli avvenimenti che hanno
portato alla convocazione del concilio ecumenico di
Nicea, nonché quelli immediatamente successivi.
La. vicenda può farsi iniziare ad Alessandria
verso il 320, quando la predicazione del presbitero
Ario fu messa sotto inchiesta dal vescovo di quella
città, Alessandro. Ario infatti affermava che Cri-
sto in quanto Logos non è coeterno con il Padre,
ma fatto dal nulla, come la prima delle creature.
L'inchiesta si concluse con la deposizione di A rio e
di alcuni suoi seguaci in un sinodo locale.
Questo tipo di provvedimento non era nuovo,
bensì usuale nella Chiesa dei primi secoli. Anche
Origene, una novantina di anni prima, sia pure per
altri motivi, aveva subito la stessa sorte. Se colui che
era colpito dalla scomunica riteneva ingiusto tale

141
giudizio, allora si poteva appellare a qualche altro
vescovo tn grado di convocare un sinodo alternati-
vo. Se non trovava nessuno pronto ad accogliere
questo ricorso, la sua causa era chiusa; ma se c'era
qualcuno disposto a dargli retta, il processo pote-
va considerarsi ancora aperto. Così in e.fletti fece
Origene, che fu accolto dai vescovi della Palestina.
Anche Ario fece appello a un vescovo suo amico,
Eusebio di Nicomedia, compagno di scuola presso
Luciano di Antiochia. Eusebio accolse Ario e sposò
in pieno la sua causa, cogliendola come l'occasione
propizia per far valere la sua personale influenza.
Scrisse infatti ai vescovi delle regioni vicine, di-
chiarando apertamente il suo sostegno ad Ario. A-
lessandro non vide volentieri questo allargamento
del conflitto e scrisse una lettera enciclica, chieden-
do a tutti i vescovi di non accogliere Ario e compa-
gni, essendo stati riconosciuti come eretici e aposta-
ti, e presentando Eusebio di Nicomedia come un
vescovo assetato di potere.
Fino allora l'unità della Chiesa, nonostante le
numerose tensioni sul piano dottrinale e pratico, si
era mantenuta grazie alla buona volontà dei vesco-
vi, al loro sensus Ecclesiae e alla paziente ricerca di
un consenso per mezzo di sinodi locali e di un con-
tinuo contatto epistolare. Ora però il contrasto tra i
vescovi egiziani e quelli orientali pareva insanabile,
tanto più che il risvolto dottrinale della questione
era molto più serio di quanto si potesse pensare. In
e.fletti Ario, oltre ad avere in Eusebio di Nicomedia
un sostenitore dal punto di vista ecclesiale, aveva
trovato in Asterio il Sofista, originario della Cap-
padocia e anch'egli discepolo di Luciano di Antio-
chia, un valido teorizzatore della sua posizione dot-
trinale. Tutto ciò portava divisione e confusione
anche tra i fedeli.
Questa era la situazione che trovò Costantino
quando, nel 324, sconfitto Licinio, rimase unico

142
imperatore romano. Già da tempo egli aveva mani-
festato le sue simpatie per il cristianesimo, il cui uni-
versalismo poteva fare da supporto all'unità dell'im-
pero. Per questo Costantino prese a cuore le questio-
ni che allora agitavano la Chiesa. Come già per
il problema donatista nell'Africa Romana, anche
nella questione ariana egli volle interoenire diretta-
mente. Costantino scrisse una lettera ad Alessandro
e Ario, invitandoli alla pacificazione. Ma, evidente-
mente, egli aveva sottovalutato la portata teologica
della disputa. Si venne così all'idea di un concilio
generale, suggerita forse a Costantino dal vescovo
amico Ossio di Cordova. Certamente tale idea poté
realizza-rsi grazie all'appoggio logistico dello Stato
romano, altamente centralizzato, che mise a dispo-
sizione dei vescovi i suoi mezzi di trasporto e una
sede conveniente 1 •

L'inaugurazione del Concilio


Il 20 maggio del 325 nel palazzo imperiale di
Nicea, ridente cittadina non molto lontana dalla
riva asiatica della Propontide (Mar di Marmara), si
apriva solennemente il primo Concilio ecumenico
della Chiesa cattolica. Vi parteciparono da 250 a
300 vescovi, venuti soprattutto dalla parte orientale
dell'impero romano, assieme a molti presbiteri e dia-

1 Pare che in un primo tempo Costantino avesse pensato ad Ancira come


sede del concilio, per· poi ripiegare su Nicea, più accessibile. Molto
importante, per la storia della reazione antiariana, è il documento redat-
to dal sinodo di Antiochia all'inizio del 325. Esso contiene un simbolo
di fede e un anatematismo che sono chiaramente antiariani e riflettono
la teologia di Alessandro di Alessandria (testo siriaco e retroversione
greca di E. Schwartz in AW 3/1, Urkunde n. 18). Eusebio di Cesarea,
presente a tale sinodo, non sottoscrisse il documento, per cui la sua
posizione ecclesiale rimase compromessa. A Nicea egli poi riuscirà in
qualche modo a regolarizzare la sua situazione, firmando il simbolo
niceno. Sul sinodo di Antioclùa del 325, cfr. Kelly, I simboli di fede, pp.
206-209; Simonetti, La crisi ariana, pp. 39-41; Hanson; Tbe Search, pp.
146-151.

143
coni2 • Tra essi spiccava l'anziano vescovo di Ales-
sandria, Alessandro, accompagnato da un suo gio-
vane diacono e futuro successore, Atanasio 3 • Vi era-
no poi Marcello di Ancira ed Eustazio di Antiochia.
Non mancava qualche rappresentate del/ 'Occidente:
oltre al già citato Ossio di Cordova, amico e con-
sigliere di Costantino, troviamo Ceciliano di Car-
tagine e i presbiteri Vito e Vincenzo, legati di Sil-
vestro di Roma. Vi erano pure alcuni vescovi giunti
dalla Persia e dalla Mesopotamia.
All'ordine del giorno c'erano parecchie questioni,
alcune di ordine pratico, come quella di trovare una
data comune per la celebrazione della Pasqua4; al-
tre erano di ordine disciplinare, concernenti Chiese
locali, come lo scisma di Melizio in Egitto; altre infi-
ne di ordine dottrinale, come quella sollevata da Ario
circa il rappotto tra Dio Padre e il Figlio, Gesù Cristo.
Era questo il problema di gran lunga più spinoso 5 •

La dottrina di Ario e degli ariani


La dottrina di Ario si radicava sul terreno della
teologia alessandrina, che sottolineava la reale di-

2 Forse per questo motivo fu difficile farne un computo esatto. Solo più
tardi, dopo il 361, comparve la cifra 318, che richiamava i servi di
Abramo ed era già stata interpretata dalla tradizione in senso cristologi-
co (cf. Boularand, L'hérésie, pp. 202-207; COD, p. 1).
3 Alessandro fu una delle figure preminenti al Concilio, e probabilmente
uno dei presidenti: cfr. Concilio di Nicea, Lettera alla Chiesa di Ales-
sandria, 11 (AW 3/1, Urkunde n. 23, p. 50). Atanasio succederà ad A-
lessandro nel 328.
• Cfr. Concilio di Nicea, Lettera alla Chiesa di Alessandria, 12 (AW 3/1, Ur-
kunde n. 23, pp. 50-51); Atanasio, Lettera ai vescovi africani, 2: ·Il Con-
cilio di Nicea fu riunito a motivo dell'eresia ariana e della [data di]
Pasqua. Infatti, i ffratelltl della Siria, della Cilicia e della Mesopotamia non
concordavano con noi, ma facevano aa Pasqua] nella data nella quale la
fanno i Giudei. Ma, grazie al Signore, come riguardo alla fede, così anche
riguardo alla santa festa si raggiunse un accordo- (PG 26, 1032CD).
Coloro che celebravano la Pasqua seguendo il calendario giudaico veni-
vano chiamati Quartodecimanl (cfr. V. Loi, in DPAC, 2963-2964).
5 È probabile che per Costantino il problema dottrinale fosse secondario

144
stinzione delle tre persone divine (Padre, Figlio e
Spirito Santo), considerate come tre "ipostasi" o real-
tà sussistenti. Questo punto era un 'acquisizione teo-
logica irrinunciabile, contro la tendenza sabelliana
o modalista, che considerava la Trinità una sempli-
ce manifestazione dell'unico Dio. Meno chiara e
ancora in via di elaborazione, nella teologia ales-
sandrina, era la formulazione dei rapporti recipro-
ci tra le tre ipostasi. Lo stesso Origene, con le sue
affermazioni a volte ambigue, poteva dare adito a
diverse intmpretazioni.
Ario, da parte sua, pur professando con tutta la
Chiesa il monoteismo, era incapace di includeroi la
Triade divina, che veniva così a essere separata in
se stessa. Per Ario infatti vi è un solo Dio Eterno,
Principio senza principio, Increato. Il Figlio, diceva,
è stato generato dal Padre prima di tutti i secoli,
prima quindi del tempo e della creazione, ma ciò
non significa che egli fosse "eterno". In effetti, ragio-
nava Aria, se il Figlio fosse eterno come il Padre, allo-
ra ci sarebbero due Eterni, due Increati, due Prin-
cìpi, il che è assurdo, oltre che contrario alla fede.
Inoltre Ario e gli ariani avevano sempre temuto
che il concetto di "generazione" fosse associato a
qualcosa di materiale, comportante una divisione
in Dio, per cui si erano sempre rifiutati di conside-
rare il Figlio 'Parte consostanziale" (méros homoou-
sios) del Padre6• Di conseguenza essi hanno costan-
temente intetpretato la generazione del Figlio come

(cf. Pietras, Le ragioni, pp. 34-35). Ciò però non significa che la questio-
ne fosse marginale.
6 Cfr. Ario e compagni, Lettera ad Alessandro di Alessandria, 3. 5 (AW
311, Urkunde n. 6, pp. 12.13; Bellini, Alessandro e Arlo, pp. 50-51;
Simonetti, Il Cristo, p. 74-79). Osseiva Simonetti: •L'avversione ariana
per bomoousios discende dalla preoccupazione, tipica della tradizione
teologica alessandrina, di non concepire in modo corporeo e materiale
la generazione del Figlio da parte del Padre• (Ancora su bomoousios,
pp. 96-97). Origene, da parte sua, si era chiaramente espresso sulla
"incorporeità" di Dio e la natura spirituale della generazione del Figlio.

145
"creazione". Il Figlio pertanto è stato generato- cioè
creato- prima di ogni realtà creata, perché così Dio
ba voluto nella sua sapienza, in vista della creazio-
ne stessa. Il Figlio infatti non è la sapienza propria
del Padre- questa non può essere considerata come
sussistente, distinta dal Padre - ma è la sapienza
creata, generata appunto perché presiedesse all'ope-
ra della creazione.
Per Ario questa dottrina ven-ebbe suffragata da
tutta la Scrittura. Già l'Antico Testamento dice che
la Sapienza 1u creata come principio delle opere•
di Dio (cjr. Prv 8,22). Il Nuovo Testamento affer-
ma che tutto è stato creato da Dio per mezzo• del
Figlio, il quale perciò è il primogenito di tutta la
creazione· (Col 1,15).
In realtà, nell'affermare il ruolo del Figlio nella
creazione, nonché la sua totale dipendenza dal
Padre, gli ariani non si discostavano molto da quel-
lo che i teologi del Logos avevano sempre sostenuto7 .
Nei primi secoli il problema del rapporto tra Dio
Padre e il Figlio Gesù Cristo era stato toccato più
volte, mai però affrontato alla radice. La maggio-
ranza dei cristiani si accontentava di ripetere le
parole del simbolo di fede battesimale (•Credo in un
solo Dio, Padre onnipotente... e in un solo Signore,
Gesù Cristo... e nello Spirito Santo•), interpretando-
le ora in senso monarcbiano ora sulla linea dei teo-
logi del Logos. Presso questi ultimi un certo "subordi-
nazionismo" era senz'altro ammesso, non solo per-
ché la Scrittura afferma che il Figlio dipende in tutto
dal Padre e riceve tutto da Lui (cfr. Mt 11,27; Gv 5,
19), ma anche perché non sempre è chiaro se essa si
riferisca al Logos preesistente o al Figlio incarnato.

Il fatto che gli ariani non abbiano recepito questa lezione origeniana,
denota uno dei limiti più evidenti del loro pensiero.
' Un chiaro esempio di questa teologia si può leggere in Eusebio di
Cesarea, Storia ecclesiastica, 1,1,7 - 1,4,15 (in Simonetti, /I Cristo, pp.
16-43).

146
La reale incompatibilità della posizione ariana
con la fede della Chiesa venne allo scoperto quando
Ario, radicalizzando le posizioni, fece il seguente
ragionamento: se il Figlio è generato, allora non è
eterno come il Padre; se non è eterno, ha avuto un
inizio, per cui bisogna ammettere che •Ci fu un
tempo in cui il Figlio non esisteva•, e quindi Dio
•non da sempre è stato Padre• e il Figlio è stato crea-
to ·dal nulla•. In altre parole, l'eternità di origine è
solo di Dio e non può essere condivisa da nessuno.
È vero, ammettevano gli ariani, che è alquanto
improprio parlare di tempo prima che sia creato il
tempo, ma questo è un limite del nostro linguaggio.
Proprio per questa loro radicalità, le tesi ariane
hanno obbligato la teologia a uscire dall'equivoco
del medio e neoplatonismo, che concepivano il pas-
saggio dall'Essere Supremo (Dio, l'Uno) alla materia
informe secondo una serie di gradazioni discenden-
ti. Per i teologi influenzati dal platonismo, era nor-
male vedere nel Logos il primo e il più importante di
questi esseri intermedi, attribuendogli un titolo divi-
no subordinato (secondo Dio).
La crisi ariana mise in chiaro che la dottrina
biblica della creazione rendeva insostenibile quella
concezione di tipo platonico. Infatti, stando alla
metafisica implicita nella rivelazione biblica, ci po-
tevano essere solo due categorie ontologiche: l1n-
creato e il creato. Questo Ario lo aveva ben capito.
Ma, non potendo negare al Logos il titolo di Dio,
concludeva che esso era solo un titolo acquisito.
Propriamente parlando, il Logos andava messo dal-
la parte delle creature, sia pure come la prima e la
più singolare di esse, dato che egli ·è il solo a esse-
re venuto all'esistenza per opera diretta del Padre•.
In altri termini, Ario pose la cesura tra l1ncreato e
il creato già all'interno del rapporto Padre-Figlio. Fu
questo che fece scattare la reazione compatta del-
l'episcopato, sia quello di formazione origeniana

147
(alessandrini), sia quello di tendenza monarchiana
(asiatici e occidentali).

Lo svolgimento del Concilio


Non possediamo gli atti del Concilio e non risulta
che siano stati fatti. Non è possibile, in questa sede,
prendere in esame tutte le fonti antiche sull'argo-
mento, le quali spesso cadono nel! 'aneddoto e nella
leggenda. Ci accontenteremo di considerare solo i
testimoni oculari che ne hanno parlato, cioè il Con-
cilio stesso, Eusebio di Cesarea e Atanasio 8 •

1. La testimonianza del Concilio


Un breve sommario dei lavori si trova nella lette-
ra che i vescovi riuniti a Nicea, prima di sciogliersi,
scrissero alla Chiesa degli alessandrini. Da essa ap-
prendiamo che fu discussa, prima l'eresia ariana,
poi lo scisma meliziano e infine la questione della
data della Pasqua. Sull'eresia ariana, la lettera così
riassume il dibattito: ·Innanzitutto fu esaminata
l'empia e iniqua dottrina di Ario e dei suoi seguaci,
alla presenza del devotissimo imperatore Costan-
tino. All'unanimità fu condannata tale empia opi-
nione nonché le espressioni e i termini blasfemi da
lui usati e che suonano bestemmia contro il Figlio di
Dio, e cioè che fil Figliol "è dal nulla", che "non esi-
steva prima di essere generato': che "c'era un tempo
in cui non esisteva"; diceva inoltre che il Figlio di
Dio, in fO'rza del suo libero arbitrio, è capace di
vizio e di virtù, e lo chiamava creato e fatto. Il santo
concilio ha condannato tutto ciò, non sopportando
neppure di udire quell'empia e stolta opinione, non-
ché quelle espressioni blasfeme•.
8 Anche Eustazio di Antiochia ha scritto un resoconto del dibattito conci-
liare, ma ce ne resta solo un franunento, riprodotto da Teodoreto di
Cirro, Storia ecclesiastica, 1,8,1-5 (GCS, NF, 5, pp. 33-34).

148
È curioso che questa lettera ritenga importante
menzionare solo l'aspetto negativo della decisione
conciliare, cioè la condanna delle proposizioni aria-
ne espressa nell'anatematismo finale, e non l'aspet-
to positivo, cioè il simbolo di fede, con le espressioni
ek tes ousfas e homoousios. In effetti, soprattutto per
homoousios, era più facile dire ciò che negava che
non ciò che affermava. In se stesso il termine non
era privo di ambiguità: da una parte era pregno di
connotazioni materiali (sostanza = materia) e dal-
l'altra poteva essere interpretato in senso sabelliano.

2. ltl testimonianza di Eusebio di Cesarea


Eusebio di Cesarea, nella lettera alla sua diocesi,
scritta all'indomani del concilio e riportata da Ata-
nasio ( = DD 33), ci fornisce importanti informa-
zioni sullo svolgimento del concilio, informazioni
da prendere però con molta precauzione. Anzitutto
egli dice di aver fatto una pubblica lettura del sim-
bolo di fede in vigore nella sua diocesi, attestando di
avere sempre creduto in quel modo (DD 33,1-5) 9. I
Padri conciliari, prosegue Eusebio, non vi fecero nes-
suna obiezione, anzi lo stesso imperatore Costantino
riconobbe che quel simbolo esprimeva la retta fede
ed esortò tutti a sottoscriverlo, suggerendo solo di
introdurvi il termine •consostanziale· (homoou-
sios), da intendersi in senso spirituale e non cor-
poreo (DD 33, 7). Allora i padri, con il pretesto del-
l'homoousios, composero la formula di fede, che
Eusebio riporta, compreso l'anatematismo finale (DD
33,8). Su questa formula avvenne quindi una lun-
ga discussione, nella quale gli eusebiani dapprima
si opposero fino all'ultimo all'introduzione del
9 Eustazio di Antiochia (vedi nota 24) menziona un intervento di Eusebio,
giudicato blasfemo dai padri conciliari. Ma si tratta certamente di uno
scritto di Eusebio di Nicomedia, non del testo letto da Eusebio di
Cesarea (cf. Hanson, 1be Searcb, pp. 160-161).

149
nuovo testo (DD 33, 17), poi avanzarono domande
di chiarimento sulle espressioni ·dalla sostanza del
Padre• e •consostanziale al Padre•, nonché sul senso
dell'anatematismo. Avendo avuto delle risposte giu-
dicate soddisfacenti, sottoscrissero la nuova formu-
la difede (DD 33,9-17). Circa il termine homoou-
sios, Eusebio riconosce che esso non è nuovo, ma
che lo si trova già usato ·dagli antichi vescovi e scrit-
tori nelle loro riflessioni teologiche sul Padre e sul
Figlio• (DD 33,12).
Sembra evidente che questa ricostruzione, piutto-
sto tendenziosa, è sulla linea di un 'autodifesa. In
effetti, Eusebio doveva giustificare, davanti ai fedeli
della propria diocesi e ai suoi stessi amici, come mai
era passato da un 'opposizione rigida verso la for-
mula nicena alla sua accettazione. Egli lo fa cer-
cando di presentare il simbolo niceno come una
variante di quello di Cesarea. In realtà, Eusebio do-
veva dar prova della sua ortodossia, pesando su di
lui la recente condanna del sinodo di Antiochia.
Egli poi nella sua lettera cerca di ricondurre il sim-
bolo niceno nell'alveo dalla propria teologia del
Logos, chiaramente subordinazionista. Inoltre Eu-
sebio dichiara di evitare le espressioni più radical-
mente ariane (·dal nulla•, •c'era un tempo in cui
non esisteva•) non perché sono errate, ma semplice-
mente perché non contenute nelle Scritture (DD 33,
15). Infine egli enfatizza l'apporto di Costantino,
attribuendogli l'iniziativa dellhomoousios (DD 33,
7), nonché un intervento di natura prettamente teo-
logica (DD 33, 16).

3. La testimonianza di Atanasio
Atanasio, che fu presente al Concilio di Nicea in
qualità di diacono, riporta proprio nel DD l'anda-
mento della discussione, così come si è fissata nella
sua memoria (cfr. DD 32, 4). Egli però non fa opera

150
di storico, ma si attiene strettamente al dibattito dot-
trinale, senza mai nominare né l'imperatore né nes-
sun altro vescovo, a parte Eusebio di Cesarea, ma
solo contrapponendo i padri conciliari al gruppo
degli ariani-eusebiani.
Una prima rapida presentazione del dibattito
conciliare è data in DD 3, 1-2: iniziano a parlare
gli ariani, che presentano le loro tesi; i vescovi chie-
dono loro spiegazioni; nel rispondere gli ariani si
contraddicono tra di loro e rimangono senza paro-
la. Allora i vescovi espongono la retta fede e tutti la
sottoscrivono. Atanasio poi si sofferma a descrivere
l'atteggiamento volteggiante di Eusebio di Cesarea:
fino all'ultimo si era rifiutato di sottoscrivere il sim-
bolo, poi alla fine lo fece e si giustificò di tale atteg-
giamento con una lettera inviata alla sua Chiesa
(DD3,3-4).
In DD 19-20 Atanasio fornisce una descrizione
più dettagliata della discussione teologica. I padri
conciliari, nel respingere le tesi ariane, avrebbero
voluto attenersi al linguaggio scritturistico e dire che
·il Figlio non proviene dal nulla, ma da Dio, e inol-
tre è Logos e Sapienza, non creatura né opera, ma
frutto della generazione propria del Padre• (DD 19,
1). Ma poiché per gli eusebiani l'espressione ·da Dio·
era ritenuta comune al Logos e agli uomini, allora i
vescovi, per evitare questo equivoco, usarono l'e-
spressione ·dalla sostanza del Padre• (ek tes ousfas
tou patr6s), che può essere applicata solo al Figlio,
non alle creature (DD 19,1-5).
Questa prima affermazione implica la reale di-
stinzione del Figlio dal Padre, quindi una vera e
propria generazione (contro la tendenza sabellia-
na). Tuttavia c'era il pericolo di considerare il Figlio
come una realtà separata da quella del Padre. Per-
ciò i vescovi dissero che bisognava scrivere che ·il
Logos è la Potenza vera del Padre e sua Immagine,
e che egli è perfettamente simile in tutto (h6moion

151
katà panta) al Padre, immutabile, da sempre esi-
stente e da sempre inseparabilmente nel Padre•
(DD20,1).
Anche in questo caso però, dice Atanasio, si pro-
dusse lo stesso equivoco di prima. Infatti gli eusebia-
ni si trovarono d'accordo per dire che •''simile': "sem-
pre': il nome ''potenza" e l'espressione "in lui" erano
anch'esse comuni al Figlio e a noi• (DD 20, 1), per
cui non avevano nessuna difficoltà ad accordarsi su
tali termini. Allora i vescovi, per evitare questo gio-
co, 1urono costretti a sintetizzare il pensiero delle
Scritture, a esprimerlo più chiaramente e a scrivere
che il Figlio è "consostanziale (homoousios)1° al
Padre"• (DD 20, 3) e mostrare così che -il Logos è
altro dalle realtà create• (DD 20, 5). Quanto alle
espressioni ek tes ousias e homoousios, Atanasio si
preoccupa di rilevare, come Eusebio nella sua lette-
ra, che esse non sono state inventate dal concilio, ma
che si trovano già usate nella tradizione teologica
(DD25-27).
Indubbiamente, anche nel riportare la discus-
sione teologica, Atanasio non ba l'atteggiamento
dello storico, ma piuttosto quello dell'apologeta, che
cerca di difendere l'operato del concilio e mostrarne
l'unanimità.

4. Il dopo Concilio (325-360)


Come conseguenza della scomunica, Ario e com-
pagni, tra i quali c'erano due vescovi, furono con-
dannati all'esilio. Per la prima volta nella storia
della Chiesa, le decisioni di un concilio venivano
sanzionate dall'autorità statale. La pena ecclesiasti-
ca della scomunica, che separava un membro dalla
comunità in vista di un suo ravvedimento, acquista-

10 Atanasio attribuisce l'introduzione di questo termine a tutti i vescovi,


senza indicare da chi sia venuta l'iniziativa.

152
va così un effetto penale anche davanti allo Stato, il
quale poteva costringere lo scomunicato all'esilio.
Tale convergenza Chiesa-Stato veniva ad acquistare
una forza dirompente allorché lo scomunicato era
un vescovo: egli infatti veniva ipso facto deposto, la
sua sede dichiarata vacante e perciò provvista di un
successore. Tutta la vicenda ariana è segnata dal-
l'uso e dall'abuso di questo terribile strumento.
L'esilio di A rio e dei suoi seguaci tuttavia durò
poco. Nel 327/328 Ario fu richiamato, sulla base di
una generica professione di fede accettata da un
sinodo locale (in pratica i vescovi di corte). So-
stenuto da Eusebio di Nicomedia, che a Nicea si era
alquanto dissimulato firmando la formula di fede
assieme a Eusebio di Cesarea - il che non gli evitò
un breve esilio -, il partito ariano riprese vigore.
L'intento era di eliminare l'opposizione nicena. Fu-
rono deposti Eustazio d'Antiochia (329) e Marcello
di Ancira (335). Il Concilio di Tiro del 335, mano-
vrato sempre da Eusebio di Nicomedia, sulla base di
accuse provenienti dai seguaci di Melizio, depose
Atanasio, che fu esiliato dall'imperatore a Treviri 11 •
Tuttavia Ario non fece a tempo a usufruire di
questa situazione favorevole, perché mon~ ormai
vecchio, a Costantinopoli nel 336, alla vigilia della
sua riammissione alla comunione. Nel 33 7 moriva
anche Costantino, dopo aver ricevuto il battesimo
dalle mani dello stesso Eusebio di Nicomedia. L'im-
pero fu suddiviso fra i suoi tre figli: Costantino U
ebbe la Gallia, la Spagna e la Britannia; Costante
ebbe l'Italia, l'Africa e la Macedonia; Costanzo U
ebbe tutto l'Oriente. Atanasio poté allora ritornare
nella sua sede. Ma gli antiniceni, considerando irre-
golare questo ritorno, fecero di tutto per ricacciare
Atanasio da Alessandria e metteroi un altro vescovo.

11 Tuttavia, per deferenza ver.so Atanasio, Costantino non impose un nuo-


vo vescovo ad Alessandria. ·

153
Fu mandato Gregorio di Cappadocia con l'appoggio
militare. Atanasio dovette fuggire e si rifugiò in Oc-
cidente, dove aveva il sostegno dell'imperatore Co-
stante e di papa Giulio. Con base a Roma, ma ope-
rando numerosi spostamenti, vi rimase sette anni
(339-346).
Soprattutto in questo periodo il dibattito teologico
e le questioni politico-ecclesiastiche appaiono tal-
mente intrecciate, che è impossibile stabilire quale
dei due aspetti abbia avuto il peso prevalente nello
sviluppo degli eventi. Il sinodo romano del 341, sotto
papa Giulio, riconobbe l'innocenza di Atanasio e
degli altri esuli, annullando così le decisioni prese
al Concilio di Tiro, cosa che i vescovi orientali non
accettarono.
Nel frattempo, il sinodo di Antiochia del 341,
detto in encaeniis e guidato da Eusebio di Nico-
media, riapriva la questione teologica proponendo
una formula di fede, che, almeno apparentemente,
prendeva le distanze dall'arianesimo radicale, nel-
l'intento reale di mettere da parte il simbolo di Ni-
cea, che non viene neppure nominato.
Il Concilio di Serdica del 343, voluto dai due
imperatori Costante e Costanzo come momento di
riconciliazione tra l'episcopato occidentale e quello
orientale, fu un sostanziale fallimento, avendo i
vescovi orientali abbandonato i lavori.
Frattanto, dopo la scomparsa di Costantino II
(340), Costante era rimasto il solo imperatore del-
1'0ccidente. Egli fece pressioni sul fratello Costanzo
per far ritornare Atanasio dall'esilio, dato che il ve-
scovo usurpatore Gregorio era morto (345). Così av-
venne. Atanasio fu accolto trionfalmente ad Ales-
sandria (346), non senza prima essere passato da
Antiochia, dove incontrò l'imperatore Costanzo. A
La.odicea di Siria fu accolto calorosamente dal pre-
sbitero Apollinare senior, originario di Alessandria,
con il figlio Apollinare junior (lettore o forse an-

154
eh 'egli presbitero), con il quale strinse una durevole
amicizia.
Fu questo un momento favorevole per i niceni.
Attorno ad Atanasio si strinse la stragrande mag-
gioranza dei vescovi, al punto che anche Ursacio e
Valente, prima accesi filoariani, chiesero la comu-
nione con Atanasio. Ma fu solo uno dei tanti loro
voltafaccia. Per il partito degli eusebiani, capeggia-
to allora da Acacia di Cesarea, era sempre valido il
sinodo di Tiro (335) che aveva deposto Atanasio, il
quale dunque occupava la sua sede in modo irrego-
lare. È probabile che in questo momento di stasi
politica, gli acaciani abbiano iniziato ad attaccare
direttamente il simbolo niceno, con il pretesto del
suo carattere non del tutto scritturistico, a causa dei
termini ousfa e homoousios.
Nel 350 uscì di scena Costante e, vinto l'usurpa-
tore Massenzio (351), unico imperatore rimase Co-
stanzo II. Il partito antiniceno allora rialzò la cre-
sta e, forte dell'appoggio incondizionato dell'impe-
ratore, fece di tutto per ottenere una condanna di
Atanasio anche da parte dell'episcopato occidentale.
Costanzo usò la mano pesante, e prima ad Arles
(353), poi a Milano (355), costrinse i vescovi a
sottoscrivere quella condanna. Coloro che rifiuta-
rono furono esiliati (Dionigi di Milano, Eusebio
di Vercelli, Ilario di Poitiers e lo stesso papa Liberio).
Ad Alessandria fu dato ordine di arrestare Atana-
sio, ma questi riuscì a fuggire, nascondendosi pres-
so i monaci nel deserto egiziano (terzo esilio: 356-
362). Fu installato con la forza un nuovo vesco-
vo, Giorgio, originario della Cappadocia (febbraio
357). Egli governò la Chiesa con la violenza e il
terrore, ma finì trucidato dalla popolazione di
Alessandria alla fine del 361.
Questi anni del terzo esilio atanasiano furono
densi di avvenimenti, che il vescovo alessandrino se-
guì attentamente, nonostante la sua posizione emar-

155
ginata. Nel 357 i vescovi filoariani per la prima volta
in un sinodo vennero allo scoperto e proscrissero i
termini di ousfa, homoousios e homoioousios, in
quanto non scritturistici, e propòsero senza mezzi
termini una cristologia di tipo subordinazionista
(seconda formula di Sirmio). Questo fatto apri gli
occhi a quella parte dell'episcopato orientale che era
sinceramente antiariana, anche se non filonicena.
Questa corrente era capeggiata da Basilio di Ancira,
e sosteneva la formula del Figlio •simile (h6moios)
al Padre secondo la sostanza (kat'ousfan)•.
Si parlò di un nuovo concilio generale, ma, date
le difficoltà logistiche, si pensò a due sessioni, una
per gli Occidentali a Rimini e una per gli Orientali
a Seleucia (359). A Rimini, le cose volsero in un
primo momento a favore dei niceni, ma poi le pres-
sioni dell'imperatore Costanzo imposero la posizio-
ne ariana (della corrente omea). A Seleucia, Acacia
sferrò un nuovo attacco al simbolo niceno, ma si
trovò in minoranza. La situazione era oltremodo
confusa, data anche la presenza degli anomei. Chi
decideva la linea da seguire era però di fatto l'im-
peratore, al quale bisognava riferire. Egli aveva
abbracciato la posizione omea (h6moios), che fu
confermata dal Concilio di Costantinopoli del 360.
Tutto questo susseguirsi di concili e di formule ave-
va pure un risvolto concreto, perché comportava la
deposizione di numerosi vescovi e l'elezione di al-
tri di opposta corrente. Quanto fosse grande il dan-
no per le Chiese, non è difficile immaginarlo.
In conclusione, nonostante che i simboli di fede
promulgati dagli Orientali dal 341 al 357 mostrino
una qualche presa di distanza dall'arianesimo, non
si può negare che questo sia rimasto ben vivo, forse
proprio sotto la copertura di quelle formule. Sembra
che i neoariani abbiano adottato una duplice stra-
tegia, una a livello più popolare, per guadagnare
alla loro causa la gente sotto il paravento di for-

156
mule difede dal tenore biblico; l'altra a livello teolo-
gico, con attacchi diretti al simbolo niceno. Questa
almeno è la percezione atanasiana dei fatti, sostan-
zialmente esatta, anche se parziale. 12 Altrimenti non
si spiegherebbe tutta la produzione antiariana del
vescovo alessandrino riportabile agli anni quaranta
e agli inizi degli anni cinquanta, nella quale ponia-
mo i Discorsi contro gli ariani e il nostro De decre-
tis, assieme al De sententia Dionysii.

IL DE DECREI1S DI ATANASIO
Occasione, importanza e contenuto dello scritto

L'Epistula de decretis Nicaenae synodi (= DD)


riveste una notevole importanza negli scritti antia-
riani di Atanasio. Qui per la prima volta egli difen-
de apertamente l'homoousios niceno e ne dà l'in-
terpretazione teologica, senza però ancora farne il
vessillo dell'ortodossia.
L'occasione dello scritto è offerta dalla richiesta
di un amico, con il quale Atanasio è in corrispon-
denza (DD 5, 7) e che ha sostenuto una disputa con
alcuni ariani (DD 1, 1). Pare che la disputa sia av-
venuta attorno al passo di Proverbi 8,22 (DD 13,2).
L'amico di Atanasio riferisce che gli ariani, messi
alle strette, iniziarono a contestare il simbolo di
Nicea nelle parole ·dalla sostanza• e •consostan-
ziale•, perché non contenute nella sacra Scrittura
(DD 1, 1). Egli allora chiede ad Atanasio, che ave-
va partecipato a quel Concilio, di esporgli come
sono andate effettivamente le cose (DD 2,3).
Atanasio risponde che questa contestazione del
simbolo niceno è un mero pretesto. Essa dimostra

tz Pare infatti che solo più tardi, verso il 359, Atanasio si sia accorto che
non tutti coloro che avevano preso le distanze dal credo niceno erano
degli ariani.

157
l'incosistenza e la volubilità degli eusebiani, dato
che gli stessi loro capi avevano sottoscritto quel sim-
bolo: lo testimonia la lettera scritta da Eusebio di
Cesarea alla sua diocesi e riportata in appendice
(DD 33). Inoltre, sostiene Atanasio, se è vero che
quelle espressioni usate dal concilio non sono scrit-
turistiche, tuttavia esse esprimono bene la mente
delle sacre Scritture e sono suffragate dalla stessa
tradizione teologica.

Data di composizione
Gli studiosi oscillano nel datare il DD tra il 345 e
il 357. Seguendo Schwartz, Opitz et Tetz optano per
il 3501351; Simonetti lo colloca tra il 351 e il 355,
Pietri nel 355 (356), mentre Barnes vede nel DD
una risposta di Atanasio a una richiesta di papa
Liberio (352). Anche Camplani pone il DD in rap-
porto con Liberio, come sostegno all'iniziativa del
papa, che, in una lettera a Costanzo, aveva racco-
mandato di attenersi al simbolo niceno; ciò avrebbe
provocato la reazione degli eusebiani, capeggiati da
Acacia, i quali avrebbero cominciato a contestare
tale simbolo per le sue espressioni non scritturisticbe;
a essi avrebbe risposto Atanasio con il DD, databile
perciò tra il 353 e il 356 o, meglio ancora, dopo
l'estate del 356, prima de I sinodi. Altri ancora,
come Brennecke, Ulrich e Heil, considerano il DD
una reazione al concilio di Sirmio del 357, che
aveva condannato l'uso dellhomoousios.
Di per sé il DD non offre molti riferimenti interni
per una possibile datazione, sia pure relativa. Oltre
al Concilio di Nicea, non vi è nessun richiamo ad
altri concili tra quelli tenuti tra il 341eil357 e nep-
pure a quelle formule di fede, che gli ariani_ ripetu-
tamente proposero in quegli anni per soppiantare
il Credo niceno. Anche sugli avvenimenti personali
della vita di Atanasio il DD tace, segno probabile di

158
una situazione piuttosto tranquilla. Non compare il
nome di nessun imperatore. L'unico vescovo vivente
nominato è Acacio, il successore di Eusebio sulla
sede di Cesarea. Il passo che parla di lui finora non
ha attirato l'attenzione degli studiosi, ma potrebbe
essere illuminante ai fini della datazione, anche se
non è di facile interpretazione. Scrive Atanasio:
•Questo fatto [cioè che Eusebio ha sottoscritto il credo
di Nicea] lo sa bene anche Acacio, sebbene anch'egli
ora (nun), intimorito (phobetheis) per la circostan-
za (kair6n), dissimuli e neghi la verità· (DD 3,5).
In che cosa consista questa dissimulazione e ne-
gazione della verità, nella quale è coinvolto anche
Acacio, è chiaro dal contesto: gli ariani della se-
conda generazione, e in particolare gli acaciani,
per meglio attaccare il simbolo di Nicea e lhomoou-
sios, negavano o dissimulavano il fatto che i loro
predecessori lo avessero sottoscritto.
Ma qual è la circostanza, cui fa riferimento Ata-
nasio, e che vede Acacio preso dalla paura (ph6-
bos)? Potrebbe essere la stessa riferita nella Storia
degli ariani. Lì in/atti Atanasio scrive che, dopo il suo
trionfale ritorno dall'esilio (346), vedendo che le
dichiarazioni di comunione con il vescovo alessan-
drino diventavano generali, Acacio e compagni fu-
rono presi dall'invidia nonché dalla paura (ph6-
bos) di perdere i consensi e di trovarsi condannati
da tutti. Questo timore era reale, se si pensa che i
due più feroenti ariani dell'Occidente, i vescovi Va-
lente e Ursacio, dissimulando i loro veri convinci-
menti, avevano indirizzato ad Atanasio una richie-
sta di comunione. Si può allora ipotizzare che A-
cacia e compagni, per rompere l'isolamento in cui
vedevano sprofondare la corrente eusebiana, abbia-
no cercato di reagire attaccando direttamente il
concilio di Nicea. L'argomento addotto era duplice:
(1) ousfa e homoousios non sono termini scritturi-
stici e (2) essi non fanno parte della tradizione teo-

159
logica. Solo però con l'avvento di Costanzo a unico
imperatore (351) gli eusebiani ripresero a manovra-
re con successo contro Atanasio sul piano politico.
Se questo accostamento è verosimile, si può allora
ipotizzare la composizione del DD nel 3471348.
È vero che la contestazione dellhomoousios nice-
no è venuta allo scoperto solo nella seconda formu-
la di Sirmio del 357 e che tale questione ha occupa-
to la scena fino al 360. Ma è da escludere che il DD
appartenga a questo triennio, proprio per il linguag-
gio teologico che esso usa e che ancora non conosce
le dispute di quegli anni. Potrebbe essere stato com-
posto a ridosso di quegli stessi anni, cioè tra il
3541355, per il buon motivo che la contestazione di
Nicea non può essere esplosa all'improvviso nel 357,
ma deve essere iniziata un certo tempo prima.
Ci sono però elementi per pensare che essa sia
apparsa ancora prima e cioè già agli inizi degli
anni Quaranta. In effetti, ·in Contro gli ariani 1,30,
3 abbiamo un primo chiaro accenno a coloro che
·biasimano i vescovi convenuti a Nicea per aver
usato termini non scritturistici•. La datazione del
Contro gli ariani I-li non è sicura, ma vi è una certa
convergenza tra gli studiosi a datare questi due trat-
tati agli inizi degli anni Quaranta se non prima.
Tuttavia non è verosimile che tale contestazione si
sia manifestata ancora vivo Eusebio di Nicomedia,
l'ultimo rappresentante di quel gruppetto che aveva
firmato il simbolo di Nicea, pur non condividendo-
lo. È invece più probabile pensare che essa sia sorta
dopo la morte di quest'ultimo, cioè subito dopo il
342. Ora in DD 1,1 Atanasio si mostra meraviglia-
to nel sentire quella contestazione, come se ne venis-
se a conoscenza per la prima volta. È dunque ragio-
nevole pensare che siamo ancora abbastanza lonta-
ni dalla data del 357 e più vicini al 342. Inoltre è
provato che Atanasio nel DD ha utilizzato del mate-
riale presente in Contro gli ariani 1-JI, il chefa sup-

160
porre ragionevolmente anche una certa vicinanza
nel tempo tra i due scritti.
L'obiezione più forte a questa ipotesi può venire
da una considerazione sul linguaggio trinitario di
Atanasio. In effetti, fino alla Lettera ai vescovi d'E-
gitto e Libia, cioè fino al 3561357, Atanasio usa sen-
za difficoltà il termine h6moios (katà panta, kat'ou-
sian), mentre esso è criticato in I sinodi (359-361).
In mezzo ci deve essere stata una svolta, e questa
sarebbe testimoniata proprio dal DD, dove Atanasio
afferma esplicitamente l'insufficienza dellh6moios
(DD 20,3.5). Quindi il DD andrebbe collocato poco
dopo la Lettera ai vescovi d'Egitto e Libia e prima di
I sinodi, dunque nel 356, senza quindi connetterlo
con il sinodo di Sirmio del357.
Riconosco che questa obiezione è molto forte, ma
anch'essa presenta qualche lato debole. Anzitutto
suppone l'ipotesi di uno sviluppo lineare, senza ten-
tennamenti, del linguaggio teologico di Atanasio.
Ora nella ricostruzione della storia del pensiero ata-
nasiano vi sono alcuni punti fermi, ma altri ancora
oscuri. Così il fatto che Atanasio in DD 20 precisi
meglio il senso che va dato a h6moios, non indica
ancora, a mio avviso, una vera svolta terminolo-
gica, che si avrà solo quando Atanasio verrà a co-
noscenza della posizione omousiana. Perciò non
dovrebbe sorprendere il fatto che nella Lettera ai ve-
scovi d'Egitto e Libia Atanasio usi ancora tranquil-
lamente il termine h6moios ed esorti i vescovi a ri-
manere fedeli al simbolo di Nicea senza neppure
nominare lhomoousios. In realtà, la situazione lì
descritta è molto diver-sa da quella ricavabile dal
DD. In quella lettera infatti Atanasio mette in guar-
dia i confratelli vescovi contro la manovra dei neo-
ariani, che volevano far sottoscrivere con la forza
una nuova formula di fede, presentata come perfet-
tamente scritturistica. Non viene quindi attaccato
direttamente il Credo di Nicea, ma, ancora una

161
volta, si cerca di aggirarlo in modo subdolo, nell'in-
tento di ingannare i semplici. In realtà, afferma
Atanasio, dietro quelle formule apparentemente bi-
bliche, ci sta tutta quanta la dottrina ariana. Que-
sta viene riassunta e confutata come è possibile nello
spazio di una lettera pastorale, senza entrare nel
dettaglio di una discussione dottrina/e.
Il DD si situa invece a un livello prettamente teo-
logico. In esso inoltre nulla traspare della dramma-
tica situazione in cui venne a trovarsi la Chiesa
alessandrina dopo la fuga di Atanasio del 356 e
l'insediamento de/I 'usurpatore Giorgio di Cappado-
cia. Al contrario, sembra che Atanasio scriva da
una posizione di forza, dal momento che indica
l'eresia ariana come •condannata da tutti• (DD 1,1;
cfr. anche 15,3).
In conclusione, pur riconoscendo l'ipoteticità di
molte delle considerazioni qui esposte e il valore
delle obiezioni, mi sembra più plausibile collocare il
DD prima del 350, verso il 3471348.

Il destinatario
Il DD, che non ha un titolo proprio, ha la forma
di un trattato epistolare, come risposta a una richie-
sta di informazioni sulla discussione teologica avve-
nuta a Nicea. Il destinatario non viene nominato,
tuttavia indirettamente Atanasio ci fornisce un cer-
to numero di notizie dalle quali è possibile ricavar-
ne un ritratto abbastanza preciso.
Anzitutto è una persona con la quale Atanasio è
già in corrispondenza epistolare (cfr. DD 5, 7), segno
che tra i due esiste una conoscenza e una frequen-
tazione a livello teologico, come da maestro a un
più giovane discepolo. Questi è a sua volta qualifi-
cato come •Uomo dotto• (16gios aner) (DD 1,2), tito-
lo che Atanasio non dà a nessun altro dei suoi con-
temporanei. Si tratta dunque di una persona erudi-

162
ta, colta, cioè con una buona preparaztone lettera-
. ria e filosofica. Inoltre viene lodata la sua nepsis,
cioè la vigilanza con la quale egli ba confutato gli
ariani (DD 1,1-2).
Atanasio ci informa che, assieme alla lettera del-
l'amico, ba ricevuto il resoconto di quella disputa,
che si era svolta attorno a Proverbi 8,22, testo soven-
te addotto dagli ariani a loro sostegno e che l'amico
di Atanasio ba difeso •con molte dimostrazioni (apo-
de!xeis)• (DD 13,2). Perciò, dato che la disputa è
avvenuta attorno a un passo della Scrittura, possia-
mo dedurre che tale amico, oltre che essere un bi-
blista, era anche abile nella dialettica, capace cioè
di usare il ragionamento dimostrativo (ap6deixis).
Inoltre deve essere ancora abbastanza giovane, per-
ché non è al corrente della discussione teologica
avvenuta a Nicea, e perciò chiede ad Atanasio in-
formazioni al riguardo.
Abbiamo quindi /'identikit di una persona sui
quarant'anni, colta, biblista, abile nella dialettica,
attenta a smascherare l'eresia ariana, amico e di-
scepolo di Atanasio. Non è possibile dire se fosse un
laico o un monaco o un ministro. Dal DD non vi
è nessun indizio che Atanasio stia scrivendo a un
vescovo, anzi l'appellativo di anèr sembra escluder-
lo. In ogni caso lo vediamo dirigere una pubblica
disputa con gli ariani, alla presenza di numerosi
fedeli (DD 1,1). Si tratta dunque certamente di un
didaskalos, forse già avviato alla carriera ecclesia-
stica, al massimo nel grado di presbitero.
Ora verso il 3471348 c'è una sola persona della
cerchia atanasiana che corrisponde a questi requi-
siti, ed è Apollinare junior, che diventerà più tardi
(verso il 360) vescovo di La.odicea di Siria 13 . Sap-

13 FinchéAtanasio fu in vita <t 373) Apollinare non ebbe noie. Dopo però
cominciò a essere attaccato sulla sua ortodossia cristologica e fml per
essere condannato.

163
piamo che Apollinare si vantava di aver ricevuto
molte lettere da Atanasio. Nella sua opera La fede
dettagliata, 34 (He katà méros pistis), egli afferma
di non essere in comunione con •coloro che rifiu-
tano il termine homoousios perché non contenuto
nelle Scritture•. Ora questa affermazione ci riporta
proprio a DD 1,1. Potrebbe dunque essere Apolli-
nare il corrispondente di Atanasio e quindi il desti-
natario del DD.

I personaggi ariani o filoariani nominati nel DD


1. Arto
Questo personaggio (260ca-336) è sempre sullo
sfondo, soprattutto come iniziatore dell'eresia che
porta il suo nome (cfr. DD 1, 1). Di lui però Atanasio
in questo scritto non dice molto, ma solo che ha rico-
piato le parole di Asterio il Sofista (cfr. DD 8, 1; 20,2),
e inoltre è l'autore di canzonette e della Thalia
(cfr. DD 16,3).

2. Asterio il Sofista
Originario della Cappadocia, scolaro, come Arto,
di Luciano di Antiochia, Asterio aveva sacrificato
agli idoli, apostatando, al tempo della persecuzione
di Massimino Daia (311-313); per questo Atanasio
lo chiama spregiativamente ·il sacrificatore• (DD 8,
1). Detto anche ·il Sofista• (DD 20,2), «fu a fianco di
Ario fin dal primo momento della controversia e fu
insieme con lui il maggior teorico dell'arianesimo
della prima generazione•. A motivo della sua apo-
stasia, non poté essere cooptato nel clero; tuttavia
percorreva le Chiese della Siria e dintorni insegnan-
do la dottrina ariana, che egli aveva sintetizzato
in un opuscolo (Syntagmation). Atanasio riporta
espressamente una sua frase in DD 8, 1.
Asterio sosteneva in particolare la distinzione tra

164
la Sapienza e la Potenza proprie di Dio, e Cristo,
sapienza e potenza creata. Dio solo poteva essere
detto "non-divenuto" (agénetos), non il Figlio, che è
stato generato (gennet6s) e quindi è venuto all'esi-
stenza (genet6s). Non ci potevano essere due «non-
divenuti•.
Asterio scrisse anche contro Marcello di Ancira,
accusandolo di sabellianismo. ''L'ultima notizia su di
lui lo dà presente al concilio di Antiochia del 341 ".

3. Eusebio di Nicomedia
Nel DD Eusebio di Nicomedia non viene mai
nominato direttamente, ma solo nell'espressione hoi
perì Eusebfou (=i seguaci di Eusebio). In effetti, egli
era 'mono nel 3411342. Lo troviamo verso il 315
come vescovo di Berytus (Beirut) e poi, verso il 318,
vescovo di Nicomedia, dove risiedeva l'imperatore
Licinio. Nel contrasto dottrinale tra Ario e Ales-
sandro, egli difese decisamente il primo. Al Concilio
di Nicea sottoscrisse il simbolo (cjr. DD 3,2), non si
sa con quanta si'ncerità. Poco dopo, tuttavia, venne
esiliato, forse perché era rimasto in comunione con
Ario. Fu riabilitato da Costantino nel 328, e da allo-
ra impegnò tutto se stesso al servizio della causa
ariana. Verso il 339 riuscì a ottenere la sede di Co-
stantinopoli. Nel 341 consacrò Ulfila vescovo dei
Goti, i quali abbracciarono così un cristianesimo
intaccato dall'eresia di Ario. Eusebio morì alla fine
del 341 o all'inizio del 342, pochi mesi dopo quel
sinodo antiocheno, che aveva proposto una formula
di fede sostanzialmente, anche se non apenamente,
antinicena.

4. Eusebio di Cesarea
Nato in Palestina verso il 265, Eusebio fu un
grande erudito, potendo attingere alla biblioteca di

165
Cesarea, fondata da Origene, di cui fu grandissi-
mo ammiratore. Verso il 313 viene eletto vescovo di
Cesarea. Nella controversia ariana si schierò dalla
parte di Ario, senza però condividerne il radicali-
smo. Fu condannato al concilio di Antiochia del-
l'inizio del 325, ma si riabilitò poco dopo a Nicea,
presentando il simbolo di fede battesimale della
sua diocesi e sottoscrivendo, dopo molta esitazio-
ne, quello proposto dai padri niceni (cfr. DD 33).
Eusebio vide in Costantino l'artefice della sim-
biosi tra fede cristiana e città terrena, tra Chiesa
e Stato, e celebrò l'imperatore cristiano con venera-
zione illimitata. Mori verso il 340.

5. Acacio di Cesarea
Fu successore di Eusebio nella sede.episcopale di
Cesarea di Pakstina dal 340 al 366. Dopo la morte
di Eusebio di Costantinopoli (342) guidò l'opposi-
zione ariana contro Atanasio, svolgendo un 'intensa
attività a favore degli eusebiani, soprattutto in Pa-
lestina. Fu un personaggio di grande erudizione,
piuttosto ondeggiante nelle sue convinzioni, ma de-
cisamente antiniceno. Al Concilio di Antiochia del
358 fece deporre Cirillo di Gerusalemme. Nel 359
fu egli stesso deposto dal Concilio di Seleucia, ma
fece appello all'imperatore Costanzo, da cui ottenne
la convocazione di un Concilio a Costantinopoli nel
360, adottando una formula di fede che proclama-
va il Figlio simile al Padre e vietava l'uso dei termi-
ni essenza e sostanza. Sotto l'imperatore Gioviano,
fautore dell'ortodossia, Acacio parve aderire al sim-
bolo di Nicea, ma poco dopo, sotto Valente, ritornò
al! 'arianesimo.
Atanasio lo accusa di poca coerenza e di ma-
lafede: se il concilio di Nicea aveva sbagliato a in-
trodurre termini non scritturistici, come sosteneva
Acacio, allora aveva sbagliato anche il suo predeces-

166
sore Eusebio, che aveva sottoscritto la formula di fe-
de (DD 3,5). Quando Atanasio scrive il DD, Acacio
è intimorito dal consenso creatosi attorno al vesco-
vo alessandrino, come abbiamo visto trattando la
data di composizione.

La struttura del DD
Come per quasi tutte le opere antiche, l'articola-
zione del DD non è indicata da capitoli e para-
grafi, ma va ricercata all'interno del testo stesso, fa-
cendo attenzione alle clausole e alle transizioni.
Possiamo allora individuare la seguente struttura,
che comporta un 'introduzione, sei parti, una con-
clusione e un 'appendice:

Introduzione (1-2,3).
I. Il comportamento degli eusebiani a Nicea (2, 4-
5).
H. Breve confutazione dell'arianesimo (6-16).
Hl. Il vero insegnamento delle sacre Scritture
(17).
Jv. Perché nel simbolo di Nicea furono introdotte
delle espressioni non scritturistiche (18-24).
V. La testimonianza della tradizione (25-27).
VI. Sul termine agénetos (28-32,3).
Conclusione (32,4-5).
Appendice. Lettera di Eusebio di Cesarea (33).

La teologia atanasiana del DD


1. n problema del linguaggio teologico
Gli ariani rimproveravano al Concilio di Nicea di
aver introdotto nel simbolo di fede espressioni ..non
scritturistiche», Per essi, dunque, il linguaggio teolo-
gico non dovrebbe discostarsi da quello biblico. È
quella concezione che noi oggi chiamiamo "biblici-
smo". Di fatto però - e Atanasio non manca di

167
notarlo (cfr. 18, 1)- gli ariani non potevano evitare,
nello spiegare la Bibbia, di usare termini non bibli-
ci, a meno che di cadere in una mera ripetizione.
Atanasio non si avvale di termini filosofici, se non
il minimo necessario, ma è attento al funzionamen-
to del linguaggio. In effetti egli sostiene che la paro-
la (léxis) non è fine a se stessa, ma è al seroizio del
pensiero (dianoia). Non basta usare il linguaggio bi-
blico, se esso viene inteso in modo erroneo. Al con-
trario, una volta compreso il senso vero della Scrit-
tura, è possibile esprimerlo con termini non biblici, e
questo non per soppiantare la parola ispirata, ma
per salvaguardarne meglio il senso, come ba fatto
appunto il Concilio di Nicea (cfr. 18,4-5; 21,2).
Inoltre, le parole sono "significanti", cioè rinvia-
no a un "significato': che può essere una sostanza
( ousfa) o qualcosa che "accade" alla sostanza (tò
symbebek6s =accidente). Ora quando si parla di
Dio, la mente deve essere anzitutto sgombrata da
ogni concezione materialistica. Quindi i predicati
o i nomi di Dio non vanno intesi alla maniera
umana, ma salvaguardando il giusto concetto di
Dio (cfr. 22, 1; 24, 1).
Così quando diciamo ''Dio" non possiamo che
significare la sostanza divina, la quale è assoluta-
mente "semplice" e quindi non composta di parti,
non soggetta a divisione o ad alterazioni. Dio infat-
ti è "immateriale': "incorporeo': anche se per noi è
«invisibile e incomprensibile· (11,4; 22,1-2). Infatti,
.non è possibile comprendere ciò che è la sostanza
(o essenza) di Dio, ma solo pensare che Dio esiste•
(22,3). Quando dunque la Scrittura afferma che il
Figlio è ·da Dio•, ciò non può significare altro che
·dalla sostanza• di Dio, ed è quello appunto che ha
detto il concilio (cfr. 22,4).
È vero che si può dire che tutto è ·da Dio•, anche
le creature. Queste però sono fatte da Dio a partire
"dal nulla': mentre il Figlio proviene dalla ''sostan-

168
za" (ousfa) del Padre, senza essere una parte del
Padre, perché Dio è semplice e indivisibile, e perciò
«è Padre del solo e unico Figlio· (11,4). Va dunque
evitata la confusione tra generazione (del Figlio) e
creazione (del mondo), come facevano gli ariani.

2. Ci può essere ''generazione" senza un "divenire"?


Qui però sorge il problema: come mai la ·scrittura
- e quindi la rivelazione- ci dice che il Logos di Dio
è propriamente ·Figlio· di Dio? Che cosa significa
ammettere una ''generazione" in Dio? Non implica,
questo, un "divenire" in Dio stesso? Se Dio si sdoppia
in un Figlio, sua propria Immagine, non viene in-
taccata la semplicità e l'unicità di Dio?
Ricordiamo che la filosofia greca distingueva
tra: (1) mondo intelligibile, divino, non soggetto a
divenire (agénetos); (2) mondo materiale, soggetto
a divenire, corrnttibile, cioè con un inizio e una
fine (genet6s). Ora la "generazione" è una realtà
tipica del mondo corrnttibile e non può essere attri-
buita alla divinità o al mondo celeste, se non nei
miti. Ma il mito è un "racconto" che non può esse-
re preso alla lettera; esso ha un significato metafo-
rico di valenza antropologica, cioè ci svela qualco-
sa che riguarda l'esistenza umana, ma non ci dice
nulla di Dio.
Per gli ariani, se c'è una generazione da Dio,
questa non può riguardare l'essenza stessa di Dio,
che è immutabile e inalterabile, il solo agénetos.
Dunque il Figlio non può essere che "esterno" a
Dio, e quindi anch'egli genet6s, cioè solo un caso
speciale di creazione.
È qui che si innesta la critica di Atanasio, per il
quale il termine agénetos può essere usato per in-
dicare Dio in rapporto alle realtà divenute (gene-
ta), non in rapporto al Figlio (29,3). Per questo la
Scrittura ci insegna che Dio è ''Padre": per natura,

169
del Figlio; nostro, per adozione (31,1-4). Dio non
è una monade solitaria, ma pienezza di vita che
genera vita. Questo i filosofi non potevano saperlo,
ma ci è stato rivelato proprio dal Figlio (31,2).

3. La spiegazione atanasiana
dellhomoousios niceno
Per Atanasio va mantenuto il paradosso della
rivelazione biblica, la quale afferma che in Dio vi è
una reale generazione (il Figlio è realmente distinto
dal Padre, contro la posizione sabelliana), senza
che questo implichi una divisione di sostanza in
Dio, il che porterebbe al politeismo. In altri termini,
sia la posizione sabelliana, sia quella ariana ap-
paiono come interpretationes faciliores del dato
biblico, tali da distruggere la fede della Chiesa.
Questo è per Atanasio il significato dellhomoou-
sios niceno. È una parola che va spiegata e di per sé
potrebbe anche essere intesa male. Ma nel contesto
della professione di fede e con le clausole negative
che essa comporta, appare quanto mai atta a confu-
tare l'eresia ariana.
Vi è anzitutto un approccio al significato del ter-
mine per via di negazione: homoousios significa
che il Figlio non è "creato': "fatto': ''prodotto dal
nulla': "estraneo (a Dio Padre) secondo la sostan-
za", come una delle creature (cfr. 24,4).
Positivamente significa che il Figlio è ·inseparabi-
le dalla sostanza del Padre• (20,5), quindi perfetta-
mente in tutto simile al Padre• (20, 1), non nel senso
di una semplice ''somiglianza': ma di una "identi-
tà" di sostanza. In altri termini, ·il Figlio non solo è
simile (h6moios), ma identico (taut6n) per quella
somiglianza [che deriva dal suo essere] dal Padre•
(20,3). Infatti è una ''proprietà" della natura del
Padre, come lo splendore è una proprietà della
natura della luce (cfr. 20,5 e passim). Quindi, pur

170
essendo il Figlio distinto dal Padre, la ousfa del
Figlio è identica a quella del Padre (cfr. 23,2), per
cui il Padre e il Figlio sono "uno" (24,4) 14 , Questa è
la fede della Chiesa cattolica (27,4-5).
Soprattutto nelle opere successive al DD, Atana-
sio, pur ricorrendo sempre all'aiuto delle immagi-
ni, specialmente se di derivazione biblica, darà
una spiegazione del •consostanziale· che supererà
ogni riferimento immaginativo, e sarà basata solo
sull'identità dei predicati, e cioè: tutto ciò che la
Scrittura dice del Padre si può dire anche del Figlio,
eccetto il nome di Padre. Per cui se il Padre è det-
to eterno, onnipotente, signore, creatore, ecc. anche
del Figlio bisogna dire che è eterno, onnipotente,
signore, creatore, ecc. Come questo sia possibile sen-
za cadere nel diteismo, questo è il mistero di Dio,
come si è rivelato nel Figlio.
Questa interpretazione dellhomoousios niceno se-
gna un grande passo in avanti nella riflessione tri-
nitaria, fino allora rimasta impacciata non solo in
un linguaggio approssimativo, ma anche in una
poca chiarezza concettuale. Punroppo anche Ata-
nasio non ha saputo trovare tutti gli strumenti lin-
guistici necessari a esprimere il mistero trinitario.
Pur mostrando di conoscere e di comprendere, al-
meno a pat1ire dal Concilio di Alessandria del 362,
coloro che distinguevano tra ousfa e hyp6stasis, egli
da pane sua ha sempre considerato i due termini
come sinonimi, indicanti l'unicità di Dio, mentre
non aveva nessun termine per indicare la distinzio-
ne dei Tre. Toccherà ai grandi padri Cappadoci por-
tare a maturazione la riflessione trinitaria, affer-

14 Gli studiosi di storia dei dogmi si sono chiesti se Atanasio avesse inte-
so l'identità di ousia come identità numerica o identità specifica, oppu-
re se ci sia stata in lui un'evoluzione dall'identità numerica verso l'iden-
tità specifica. Nel DD mi pare chiara la concezione dell'ousia divina
come unità numerica, e questo probabilmente è sempre stato il pensie-
ro di Atanasio (cfr. Lebon 1952).

171
mando chiaramente l'unicità dell'ousfa e la distin-
zione delle persone (hypostaseis).

4. L'edizione di H.G. Opitz


Seguo l'edizione critica di Opitz (AW 11/1, pp. 1-
45), abbastanza accurata nell'apparato delle fonti,
ma forse non altrettanto nel dare un testo soddisfa-
cente.
Tale edizione comporta anche un 'appendice (DD
33-42), che raccoglie una serie di documenti con-
cernenti la questione ariana, riprodotti da Opitz
anche nel volume delle Urkunden. Essi sono:
1. La lettera di Eusebio di Cesarea in Palestina, ai
fedeli della sua diocesi. Fu scritta all'indomani del
concilio, probabilmente da Nicea stessa o da Nico-
media. Con essa Eusebio intende giustificare la sua
adesione al simbolo voluto dal Concilio, riportando-
ne anche il testo (Gpitz, DD 33 = Urkunde n. 22).
2. Una lettera di Alessandro, vescovo di Ales-
sandria, per i prèsbiteri di questa città e della Ma-
reotide. E una breve lettera di convocazione. Scritta
dopo la condanna di Ario e compagni da parte di
un sinodo alessandrino, invita i suddetti presbiteri e
diaconi a sottoscrivere una lettera enciclica che
Alessandro intende mandare a tutti i vescovi. Scritta
attorno al 320 (Opitz, DD 34 = Urkunde n. 4a).
3. Lettera enciclica Henòs sòmatos di Alessandro
di Alessandria a tutti i vescovi cattolici sulla con-
danna di Ario e dei suoi compagni. Scritta attorno
al 320 (Opitz, DD 35 = Urkunde n. 4b).
4. Lettera del concilio di Nicea alla Chiesa di
Alessandria, per informarla sulle decisioni concer-
nenti in particolare quella Chiesa. Scritta nel 325
(Opitz, DD 36 = Urkunde n. 23).
5. Il Simbolo di Nicea (Opitz, DD 3 7 = Urkunde
n. 24).
6. Lettera di Costantino imperatore alla Chiesa

172
di Alessandria per esortarla ad accogliere le deci-
sioni di Nicea. Scritta nel 325 (Opitz, DD 38 = Ur-
kunde n. 25).
7. Lettera di Costantino imperatore a tutti i vesco-
vi e fedeli della Chiesa cattolica per annunciare la
condanna al rogo di tutte le opere di Ario. Scritta
nel 333 (Opitz, DD 39 = Urkunde n. 33).
8. Lettera di Costantino imperatore ad Ario e
compagni. È una lunghissima lettera, di difficile
lettura, dai toni sarcastici, ma ·alla ricerca di un
compromesso. Scritta nel 333 (Opitz, DD 40 = Ur-
kunde n. 34).
9. Lettera di Costantino imperatore alla Chiesa
di Nicomedia (Opitz, DD 41 = Urkunde n. 27).
1O. Lettera di Costantino imperatore a Teodoto
(Opitz, DD 42 = Urkunde n. 28).
Ci si è chiesti da dove provenisse questa raccolta
di documenti, scoperta da G. Loeschke nel 1904
in alcuni importanti manoscritti di Atanasio. E.
Schwartz l'attribuì senz'altro ad Atanasio stesso, e
questa opinione è stata accolta unanimemente
dagli studiosi. Da parte mia ho riportato in questa
traduzione italiana solo il primo documento, cioè
la lettera di Eusebio di Cesarea ( = DD 33), l'unico
ad essere stato aggiunto sicuramente da Atanasio,
come si ricava da DD 3, 5.
La presente traduzione, a quanto mi risulta, è la
prima in lingua italiana.

173
INTRODUZIONE

OCCASIONE DELLO SCRI1TO

[AW 1] 1,1. Hai fatto bene a farmi conoscere la


disputa avvenuta tra te 1 e i fautori della dottrina di
Ario, tra i quali c'erano alcuni degli amici di Eu-
sebio, anche se la maggior parte [dei presenti] era
formata da fratelli che seguono la dottrina della
Chiesa. Ho approvato la tua vigilanza, degna di un
vero amico di Cristo, con la quale hai confutato
egregiamente l'empia eresia.

lL PRETESTO ADDOTI'O DAGLI ARIANI

Per contro, sono rimasto attonito per la sfronta-


tezza degli ariani: benché i loro ragionamenti si
siano dimostrati fallaci e vani, ed essi stessi siano
stati condannati da tutti per totale insensatezza,
nonostante ciò continuano a mormorare al modo
dei giudei, dicendo: «Perché i [vescovi] riuniti a
Nicea hanno usato le espressioni "dalla sostanza"
(ek tes ousias) e "consostanziale" (homoo'l1sios), non
contenute nella Scrittura?•.
2. Tu pertanto, da uomo dotto qual sei, hai dimo-
strato la vacuità dei loro discorsi, per quanto così

1 Il destinatario di questo scritto atanasiano non è nominato, ma potreb-


be essere Apollinare jr. La disputa con gli ariani dovette essere stata
pubblica, alla presenza di un gruppo di fedeli cattolici. Forse questo
accenno è un indizio che in quella città, accanto a una comunità catto-
lica, vi era una comunità ariana. Atanasio ha ricevuto dal suo corrispon-
dente la relazione scritta di tale disputa.

174
simulati. Essi invece si comportano conformemente
alla loro malizia, adducendo pretesti. Sono infatti
versatili e mutevoli nei loro atteggiamenti, come i
camaleonti nei colori: quando vengono confutati,
arrossiscono; quando devono rispondere, non san-
no che dire; ma poi continuano a fare obiezioni pre-
testuose come se nulla fosse. Se poi uno li confuta
anche in queste, si affaticano fino a che non sono
riusciti a pensare ciò che non esiste e a fare ragio-
namenti vani, come dice la Scrittura, pur di rimane-
re nella loro empia eresia.

IL VERO MOVENI'E DEGLI ARIANI:


NEGARE LA DMNITA DI CRISTO

3. Un tale comportamento non è altro che una


chiara manifestazione della loro insensatezza, oltre
a essere, come ho già detto, imitazione della perver-
sità giudaica2 • Anche [i giudei] infatti, confutati dalla
verità e incapaci di guardarla in faccia, dicevano
pretestuosamente: Che segno fai, perché vediamo e
crediamo in te? Che opera fai? Eppure già erano
stati fatti molti segni, al punto che essi stessi diceva-
no: Che cosa facciamo, poiché quest'uomo fa molti
segni?. In effetti, c'erano morti che risuscitavano,
storpi che camminavano, ciechi che vedevano, leb-
brosi che venivano purificati; inoltre, una volta l'ac-
qua venne cambiata in vino e da cinque pani ven-
nero sfamati cinquemila [uominiP. 4. Tutti erano
nella meraviglia e adoravano il Signore, riconoscen-

• Atanasio ricorre spesso al parallelo tra l'atteggiamento degli ariani e


quello dei giudei nei confronti di Gesù, poiché entrambi si ostinano a
negare la divinità di Cristo. In particolare, Atanasio vede nell'appellati-
vo di Beelzebul dato a Gesù, la ·bestemmia contro lo Spirito Santo-, cioè
contro la divinità di Cristo: cfr. E. Cattaneo, La bestemmia contro lo
Spirito Santo (Mt 12,31-32) in S. Atanasio, in E.A. Livingstone (ed.),
Studia Patristica XXI, Leuven 1989, pp. 420425.
3 L'episodio della moltiplicazione dei pani è citato da Atanasio come
segno della divinità di Cristo anche in L'incarnazione, 18,6 (SCh 199,

175
do che in lui si erano adempiute le profezie e che
egli stesso era Dio, Figlio di Dio. Soltanto i farisei,
anche se i segni apparivano più splendenti del sole,
di nuovo mormoravano da ignoranti e dicevano:
·Perché tu, che sei uomo, ti fai Dio?·. Insensati e
veramente ciechi nella mente! 5. Avrebbero invece
dovuto dire: •Perché tu, che sei Dio, ti sei fatto
uomo?•. Le opere infatti mostravano che egli era
Dio, ed essi avrebbero dovuto adorare la bontà del
Padre e ammirare la disposizione4 da lui attuata a
causa nostra. Questo però non lo dicevano, ma nep-
pure [AW 2] volevano vedere le opere compiute. O
piuttosto, le vedevano - infatti non si potevano non
vedere - ma di nuovo cambiando [discorso] mormo-
ravano: ·Perché di sabato curi il paralitico e ridai la
vista al cieco nato?•. 6. Questo però era solo un pre-
testo e una mormorazione. In effetti, quando il Si-
gnore in altri giorni curava ogni infermità e malat-
tia, quelli, secondo il loro solito, facevano obiezio-
ni e preferivano mettere in dubbio la sua divinità,
chiamandolo Beelzebul piuttosto che negare la pro-
pria malvagità. 7. Ma anche così, dopo che il Sal-
vatore aveva mostrato la sua divinità molte volte e
in diversi modi e aveva evangelizzato a tutti il Pa-
dre, nondimeno quelli, recalcitrando contro lo spro-
ne contraddicevano con parole stolte, puri pretesti
escogitati per separarsi dalla verità, come dice la pa-
rola divina nei Proverbi.

INCAPACI DI RAGIONARE,
GU ARIANI RICORRONO AL POTERE IMPERIALE

2,1. I giudei di allora dunque, che si comportare-

p. 332; trad. it. E. Bellini, in CTP 2, p. 70) e in Il pensiero di Dionigi, 9,


4 (AW 2/1, p. 52; PG 25, 493 B).
4 È la oikonomfa di Dio, cioè la disposizione salvifica attuata nell'incar-
nazione.

176
no malvagiamente e negarono il Signore, giusta-
mente furono esclusi dalle leggi e dalla promessa
fatta ai padri. Gli ariani di oggi, che si comportano
come quei giudei, cadono, mi sembra, nello stesso
errore di Caifa e dei farisei; vedendo che la loro
posizione non può essere difesa ragionevolmente,
inventano pretesti: ·Perché si è usata questa parola
e non quest'altra?•. E non meravigliarti se ora si
appigliano a ciò. 2. Tra poco infatti passeranno alle
ingiurie, e dopo di questo minacceranno di chiama-
re la coorte e il tribuno5: questi sono gli argomenti
su cui si illude di reggersi la loro malvagia dottrina.
Negando il Logos di Dio, giustamente non possono
che diventare incapaci di ragionare6.
3. Consapevole dunque di ciò, io non avrei rispo-
sto alle loro domande. Ma poiché la tua benevolen-
za ha chiesto di sapere come si sono svolte le cose
al concilio [di Nicea], senza indugio esporrò ciò che
avvenne allora, mostrando in breve quanto l'eresia
ariana sia difforme dalla retta fede e si basi solo su
argomenti capziosi.

s Opitz, come già Schwartz, vede in questo passo un riferimento alla


ripresa della persecuzione contro i niceni fana da Costanzo dopo il 351.
Da qui anche la datazione del DD a quell'anno. Tunavia il passo non
mi pare cosl probante. Il tema del ricorso degli ariani al potere militare
è un luogo comune in Atanasio: cf. Storia degli ariani, 2,4 (AW 2/1, p.
184; PG 25, 697 A); 10,1 (ibid., p. 188; 705 A); 14,1 (ibid., p. 189; 708
C); 66,5 (lbid., p. 219; PG 25, 772 D).
6 In greco vi è un gioco di parole tra ù>gos ( ~ Ragione, Verbo) e dlogos
(-privo di ragione). Cfr. Letterafesta/e 19, 6 (PG 16, 1427 D).

177
I

IL COMPORTAMENTO DEGLI EUSEBIANI


A NICEA

IMPUGNARE IL CONCILIO
È SEGNO DI IGNORANZA E DI MALAFEDE

4. Esamina anche tu, carissimo, se le cose non


stanno così. Se essi si fanno forti dei malvagi pen-
sieri da loro escogitati - o piuttosto seminati in loro
dal diavolo - per prima cosa dimostrino di non aver
nulla a che fare con quelle accuse che hanno pro-
vato la loro eresia, e solo allora potranno incrimina-
re, se ne sono capaci, ciò che è stato definito con-
tro di loro. Nessuno infatti, riconosciuto colpevole
di omicidio o di adulterio, dopo la condanna ha an-
cora spazio per incriminare la sentenza del giudice,
impugnando questa o quella parola. Ciò non libera
il condannato, ma anzi aumenta l'accusa a motivo
della sua sfrontatezza temeraria.
5. Pertanto anche costoro, o mostrino che il loro
modo di pensare è conforme alla retta fede - infat-
ti, non sono stati subito incolpati, ma furono ricono-
sciuti colpevoli solo dopo essere stati accusati, ed è
giusto che chi è accusato non faccia altro che difen-
dersi - oppure, se hanno la coscienza sporca e si
accorgono di essere fuori della fede, non incolpino
ciò che non conoscono, per non attirarsi un duplice
male, cioè l'accusa di empietà e il biasimo di igno-
ranza. 6. Esaminino piuttosto la cosa diligentemen-
te, in modo da imparare ciò che prima ignoravano:
così potranno lavare le loro orecchie inquinate dal-
l'errore con l'acqua della verità e con gli insegna-

178
menti della retta fede. Così infatti anche nel concilio
di Nicea avvenne per i seguaci di Eusebio.

IL COMPORTAMENTO DEGLI ARIANI A NICEA

[AW 31 3,1. Come gente empia, che ama conte-


stare e cerca di opporsi a Dio, quelli1 proferivano
parole piene di empietà. I vescovi invece, che si
erano radunati in numero più o meno di trecento 2 ,
con atteggiamento mite e benevolo chiedevano loro
di dare ragione di quanto dicevano e [di fornire]
dimostrazioni conformi alla retta fede. Ma poiché
anche solo ad aprir bocca si condannavano e di-
sputavano tra di loro, vedendo l'estremo imbarazzo
della loro eresia, rimasero senza parola, e con il loro
silenzio confermavano la vergogna insita nella loro
cattiva dottrina.
2. I vescovi allora, annullando le parole escogita-
te da quelli, esposero contro di essi la sana fede
della Chiesa. Tutti, anche quelli della cerchia di Eu-
sebio, sottoscrissero quelle parole, di cui ora questi
si lamentano. Mi riferisco a "dalla sostanza" (ek tes
ousias) e "consostanziale" (bomoousios), con cui si
esprime che il Figlio di Dio non è creatura od opera,
né è una delle realtà divenute, ma che il Logos è
generato dalla sostanza del Padre.

IL COMPORTAMENTO DI EUSEBIO DI CESAREA

3. La cosa sorprendente è che Eusebio di Cesarea


di Palestina, il quale fino alla vigilia si era rifiutato
[di sottoscrivere], alla fine sottoscrisse e mandò una
lettera alla sua Chiesa, dicendo che quella era la

1 Cioè gli ariani presenti al concilio e guidati da Eusebio di Nicomedia.


• Questa cifra approssimativa è attestata da più fonti. Solo in seguito il
numero fu fissato a 318, in analogia con i servi di Abramo (cfr. Atanasio,
Lettera al vescovi africani, 2, PG 26, 1032 B).

179
fede della Chiesa e l'insegnamento trasmesso dai
padri. Così mostrò chiaramente a tutti che prima [gli
ariani] avevano sbagliato, mettendosi vanamente con-
tro la verità. 4. Infatti, anche se allora fu reticente
a scrivere quelle parole e le giustificò come volle lui
alla [sua] Chiesa, tuttavia attraverso quella lettera
non negando il "consostaziale" (bomooUsios) e "dal-
la sostanza" (ek tés ousias), chiaramente volle mani-
festare ciò [che cioè prima avevano sbagliato]. E
successe qualcosa di strano: come per difendersi,
finì per accusare gli ariani, perché essi, scrivendo
che •non esisteva il Figlio prima di essere generato•,
venivano a negare che egli fosse esistito persino
prima della sua generazione secondo la carne.
5. Tutto questo lo sa bene anche Acacio, sebbe-
ne anch'egli ora, intimorito per la circostanza, dissi-
muli e neghi la verità. Pertanto ho riportato alla fine
la lettera di Eusebio, perché da essa tu conosca la
malafede degli oppositori di Cristo - e in special
modo quella di Acacio - verso i loro stessi maestri.

QUELU CHE SI OPPONGONO AL CONCILIO ECUMENICO


SONO FALSI MAESTRI

4,1. Come possono dunque costoro non essere


colpevoli, anche solo se progettano di pronunciarsi
contro quel così grande ed ecumenico concilio? 3
Come non sono trasgressori, essi che osano oppor-
si a ciò che è stato così ben definito contro l'eresia
ariana ed è stato approvato da quelli stessi che
prima insegnavano loro l'errore? 2. Se poi i seguaci
di Eusebio, dopo aver sottoscritto, hanno mutato

3 Come già aveva fatto Eusebio nella sua Vita di Costantino, 3, 6, 1 (GCS,
Eusebius, Vl, p. 83), Atanasio chiama spesso -ecumenico- il concilio di
Nicea (cfr. anche più avanti, DD 27, 4 e Miiller, Lexlcon, col. 975). Il
senso immediato è quello di "concilio generale" di tutta la Chiesa, ma
soggiacente vi è l'idea che esso è ecumenico perché rappresenta la
fede della Chiesa cattolica (cfr. DD 20, 5; 27, 5).

180
parere e sono tornati al loro errore come cani al
loro vomito, ciò non rende forse gli attuali opposito-
ri degni di maggior disprezzo? Essi hanno venduto
ad altri la libertà delle loro anime e vogliono avere
come guide della loro eresia uomini, come disse
Giacomo, oscillanti e incostanti in tutte le loro vie,
incapaci di avere un'unica opinione, continuamente
mutevoli da una parte e dall'altra: ora lodano quel-
lo che dicono e poco dopo biasimano quello che
hanno detto, per poi lodare di nuovo ciò che po-
co prima avevano screditato. [AW 41 3. Ora questo
atteggiamento, come ha detto il Pastore, proviene
dal diavolo ed è distintivo di commercianti, non di
maestri. Segno della vera dottrina e dei veri mae-
stri, come i padri hanno insegnato, è convenire tutti
nelle stesse cose e non essere in disaccordo né con
se stessi né con i propri padri. 4. I [filosofi] greci,
che non insegnano le stesse cose, ma sono in disac-
cordo gli uni con gli altri, non possiedono una vera
dottrina. Invece i santi [autori], veri araldi della veri-
tà, sono concordi, non discordi tra di loro. Infatti,
anche se sono nati in epoche diverse, avanzano tutti
verso il medesimo [fine), poiché sono profeti del-
l'unico Dio e annunziano concordemente lo stesso
Logos.

LA CONTINUITÀ DEUA TRADIZIONE

5,1. Ciò che Mosè insegnò, già lo osservava


Abramo; ciò che Abramo osservava, Noè ed Enoc lo
conoscevano, poiché sapevano distinguere le cose
pure da quelle impure e come essere accetti a Dio.
Anche Abele ha testimoniato di sapere queste cose,
avendole apprese da Adamo, il quale a sua volta le
ha apprese dal Signore. Questi, venuto alla fine dei
tempi per togliere il peccato, disse: Non vi do un
comandamento nuovo, ma un comandamento an-
tico, che avete ascoltato fin dall'origine. 2. Per que-

181
sto, il beato apostolo Paolo, che ha imparato da lui,
dando gli ordinamenti della Chiesa, ha voluto che i
diaconi non fossero doppi nel parlare, e neppure i
vescovi; rimproverando poi i Galati, si è espresso
in modo più generale dicendo: Se qualcuno vi
porta un evangelo diverso da quello che avete rice-
vuto, sia anatema, come vi ho già detto e ancora
ripeto: anche se un angelo dal cielo vi annunzias-
se un evangelo diverso da quello che avete ricevuto,
sia anatema.

CONDOTIA INSTABILE DEGIJ ARIANI

3. Se l'Apostolo dice ciò, [AW 5] allora una delle


due cose: o anche costoro anatematizzino quelli
della cerchia di Eusebio, perché hanno cambiato e
hanno detto cose diverse da quelle che avevano sot-
toscritte4; oppure, se riconoscono che quelli hanno
fatto bene a sottoscrivere, non mormorino contro un
così grande concilio. Se poi non fanno né questo né
quello, è chiaro che anch'essi sono portati qua e
là da qualsiasi vento e tempesta, attratti non dalle
proprie convinzioni, ma da quelle altrui. 4. Ma poi-
ché essi sono proprio così, neppure ora sono degni
di fede con queste loro apparenti obiezioni, ma la
smettano di accusare cose che non conoscono. For-
se non sapendo nemmeno discernere, chiamano il
male bene e il bene male, e ritengono che l'amaro
sia dolce e il dolce amaro.
5. Evidentemente, vogliono che sia valido ciò che
è stato condannato e respinto, mentre ciò che è
stato definito correttamente, si sforzano di toglierlo
di mezzo. Perciò bisognerebbe che noi non facessi-
mo più nessuna difesa di quegli avvenimenti né

4 Potrebbe essere questa un'allusione al Concilio di Antiochia del 341,


dove Eusebio di Costantinopoli propose un nuovo simbolo di fede,
mettendo da parte quello di Nicea, pur da lui sottoscritto.

182
rispondessimo alle loro stolte obiezioni, e che an-
ch'essi smettessero di fare polemica, ma acconsen-
tissero a quanto hanno sottoscritto i capi della loro
eresia, sapendo che il susseguente voltafaccia dei se-
guaci di Eusebio è sospetto e in malafede5.
6. Il sottoscrivere, dopo [non] essere stati in gra-
do di difendersi neppure per un attimo, indica che
l'eresia ariana è veramente empia. Infatti, non avreb-
bero sottoscritto se prima non l'avessero condanna-
ta. E non l'avrebbero condannata se, confutati su
tutta la linea, non fossero rimasti senza parola. Per
cui l'aver mutato parere è prova del loro spirito di
contesa.
7. Perciò bisognava che anche questi, come è
stato detto, stessero zitti. Ma essi sono tremendi
nella loro sfrontatezza e pensano forse di essere più
capaci dei loro predecessori di presiedere a questa
diabolica eresia. Perciò, anche se nella lettera che
precedentemente ti ho mandato ho già svolto una
più ampia confutazione del loro errore, nondimeno
come per quelli, così ora anche per questi esamine-
remo una per una le loro affermazioni6. Così appa-
rirà in modo non meno evidente che questa loro
dottrina non è sana, ma ha qualcosa di demoniaco.

5 Troviamo qui espresso l'atteggiamento di Atanasio, che ha sempre con-


siderato in malafede i tentativi dei vescovi orientali di prendere le
distanze dall'arianesimo, almeno quello più radicale.
6 Atanasio in questo testo distingue chiaramente gli ariani (o eusebiani)
della prima generazione - contro i quali dice di avere già scritto -, da
quelli della seconda generazione, contro i quali si accinge a scrivere.

183
II

BREVE CONFUTAZIONE DELL'ARIANESIMO

LE TESI ARIANE SUL FIGLIO

6, 1. Essi pertanto tengono lo stesso linguaggio


temerario dei loro maestri e dicono: •Non da sempre
vi è un Padre e non da sempre vi è un Figlio; infat-
ti prima di essere generato, il Figlio non esisteva, ma
è stato creato anch'egli dal nulla. Perciò Dio non da
sempre è stato Padre del Figlio; ma quando il Figlio
fu fatto e creato, allora anche Dio fu chiamato Padre
suo. Il Logos infatti è creatura e opera, estraneo e
diverso dal Padre secondo la sostanza (kat'ousian).
Inoltre il Figlio non è il naturale e vero Logos del
Padre, né la sua unica e vera Sapienza, ma è una
creatura, ed essendo una delle opere, solo impro-
priamente è chiamato Logos e Sapienza. Anch'egli
infatti è venuto all'esistenza, come tutte le altre cose,
mediante il Logos che è in Dio. Perciò il Figlio non
è Dio nel senso vero e proprio del termine»1 ,

1 Osserva Opitz che ·Atanasio non cita da uno scritto, ma riporta le con-
cezioni degli ariani nelle loro principali frasi. Cfr. anche Lettera ai vesco-
vi di Egitto e Libia, 12 (PG 25, 564 B), le cui parole ricorrono alla lette-
ra in Contro gli ariani, 1,5 CPG 26, 21 A). (AW 2/1, p. 5). Già una prima
sintesi della dottrina ariana era stata fatta da Alessandro nella lettera
enciclica Henòs somatos, 7-9: ·[7] Dio non era Padre da sempre, ma c'era
un tempo in cui Dio non era Padre. Non da sempre c'era il Logos di
Dio, ma è stato fatto dal nulla. Dio infatti, che è l'essere, ha fatto dal
non essere colui che non aveva l'essere. Per questo c'era un tempo in

184
lL DUPIJCE SIGNIFICATO DI "FIGIJO":
PER ELEZIONE E PER NATI.JRA

2. lo però [AW 6) vorrei anzitutto chiedere a


costoro che cos'è "figlio" in generale e che cosa
significa questo nome, perché così possano capire
quello che dicono. 3. In effetti, la Sacra Scrittura ci
indica un duplice significato di questo nome. Il
primo lo si trova dove Mosè dice nella legge: Se
voi ascolterete la voce del Signore Dio vostro e met-
terete in pratica tutti i precetti che io oggi ti coman-
do, così da fare ciò che è bene e ottimo davanti
al Signore Dio tuo, sarete figli del Signore Dio vo-
stro. Parimenti nel Vangelo Giovanni dice: A quan-
ti lo banno accolto, ha dato loro il potere di diven-
tare figli di Dio. L'altro significato si ha quando
diciamo che Isacco è figlio di Abramo, Giacobbe è
figlio di Isacco e i capostipiti delle [dodici] tribù
sono figli di Giacobbe 2 •
4. Ora essi, per dire quelle favole sul Figlio di
Dio, secondo quale delle due accezioni lo intendo-
no? Sono convinto infatti che essi vanno a finire

cui non esisteva. Il Figlio infatti è creatura e opera; non è simile al Padre
secondo la sostanza (h6moios kat'ousfan), non è il vero e naturale
Logos del Padre, né la sua vera Sapienza, ma è una delle opere e delle
realtà divenute, chiamato Logos e Sapienza non in senso proprio, in
quanto anch'egli fu fatto per mezzo del Logos proprio di Dio e della
Sapienza che è in Dio, per mezzo della quale Dio ha fatto tutto, anche
il Figlio•. Fin qui il testo di Alessandro è quasi identico con quello di
Atanasio. Poi Alessandro continua: [8] ·Perciò anch'egli è soggetto al
mutamento e al cambiamento per natura, come tutti gli esseri raziona-
li. Il Logos è estraneo, diverso e separato dalla sostanza del Padre, il
quale è invisibile per il Figlio. Infatti la conoscenza che il Logos ha del
Padre non è perfetta ed esatta, e neppure lo può vedere perfettamen-
te. Ma il Figlio neppure conosce la sua propria sostanza, come essa è.
(9] Infatti è stato fatto a motivo nostro, affinché Dio creasse noi, serven-
dosi di lui come di uno strumento. Non sarebbe esistito, se Dio non
avesse voluto creare noi· (AW 3/1, Urkunde n. 4b, pp. 7-8 = OD 35, AW
2/1, p. 32). Il tema della inconoscibilità del Padre da parte del Figlio
non è trattato da Atanasio nel DD.
• La distinzione tra il Figlio per natura e i figli per adozione risale già ad
Origene (cfr. Simonetti, Studi, p. 122).

185
nello stesso errore degli eusebiani. Se dunque [il Lo-
gos) è [Figliol secondo la prima accezione - cioè nel
senso di coloro che attraverso il progresso morale
ottengono la grazia del nome e ricevono il potere di
diventare figli di Dio (dò infatti dicevano anche
quelli) - [il Figlio) non differirebbe in nulla da noi e
non sarebbe più Unigenito, avendo anch'egli otte-
nuto l'appellativo di Figlio a partire dalla sua virtù.
5. «Ma, essi dicono, egli ha ricevuto in anticipo il
nome [di Figliol e la gloria relativa a questo nome
subito al suo primo esistere, perché [Dio) nella sua
prescienza sapeva che sarebbe stato tale, [cioè)
virtuoso• 3.
Anche ammesso questo, egli però non differireb-
be da coloro che ricevono il titolo [di figli) in segui-
to alle loro azioni, finché questo rimane anche per
lui il motivo del suo essere Figlio. 6. Anche Adamo
ricevette in anticipo la grazia appena fu creato e
posto nel paradiso; eppure non differisce in nulla da
Enoc, il quale dopo il tempo della nascita, essendo
piaciuto fa Dio] fu trasportato [in cielo). Non differi-
sce neppure dall'Apostolo, il quale in seguito alle
sue azioni fu rapito in paradiso, né differisce da
quel ladrone, il quale mediante la sua confessione
[di fede) ricevette la promessa che sarebbe entrato
subito in paradiso.
3 Benché per comodità di traduzione io abbia riportato questo passo tra
virgolette, qui in realtà Atanasio non fa una citazione vera e propria, ma
riporta ad sensum il pensiero degli ariani. Sotto forma di citazione dalla
7balla di Ario si trova invece in Contro gli ariani, 1,5,8: ·Dio, sapendo
nella sua prescienza che egli [il Logos] sarebbe stato buono, gli diede
in anticipo quella gloria che egli in seguito ebbe come uomo dalla sua
virtù, per cui Dio fece che egli ora diventasse tale per le sue opere, da
lui preconosciute· (AW 1/1, p. 115; PG 26, 21 C = Lettera ai wscovi
d'F,gitto e Libia, 12,3, AW 1/1, p. 52; PG 25, 564 C). Cfr. Bellini,
Alessandro e Aria, fr. 9, p. 44. Per gli ariani il titolo di Figlio e la gloria
relativa a questo nome non esprimono uno stato "naturale'', ma acqui-
sito, in previsione dei futuri meriti. I.a critica a tale idea era già stata fatta
da Alessandro di Alessandria, Lettera ad Alessandro di Tessalonlca, 11-
14.34 (AW 3/1, Urkunde n. 14, pp. 21-22.25; Bellini, Alessandro e Ario,
pp. 72-74.80).

186
INTERPRETAZIONE ARIANA DI "UNIGENITO"

7, 1. Messi alle strette con questi argomenti, forse


essi diranno ciò che spesso hanno detto vergogno-
samente: •Noi riteniamo che il Figlio è superiore alle
altre creature - e per questo è detto Unigenito -
perché egli è il solo a essere stato fatto da Dio solo,
mentre tutte le altre cose sono state create da Dio
mediante il Figlio•. Chi dunque vi ha suggerito que-
sta idea stolta e nuova, che vi fa dire: ·Solo il Figlio
è stato creato direttamente dal Padre stesso, mentre
tutte le altre cose sono state fatte mediante il Figlio,
in funzione di aiutante•4?
2. Se infatti Dio si è limitato a creare direttamen-
te solo il Figlio per stanchezza, questo è un pensie-
ro indegno di Dio, soprattutto per chi ascolta Isaia
che dice: Dio eterno, Dio che dispone le estremità
della te17'a, non sente la fame e la fatica, né la sua
mente può essere investigata. È lui piuttosto [AW 7]
che dà forza agli affamati e, mediante il suo Logos,
ristora gli affaticati.
3. Se poi ritenne umiliante creare lui stesso diret-
tamente le cose dopo il Figlio, anche questo è un
pensiero indegno di Dio. Non c'è superbia in Dio:
egli scende in Egitto con Giacobbe; mediante Abra-
mo castiga Abimelec a motivo di Sara e parla bocca
a bocca con Mosè che era un uomo; scende sul
monte Sinai e, assieme al popolo, combatte contro
Amalec con la sua invisibile mano 5•

• Il titolo di "Unigenito" è spiegato dagli ariani sempre sulla linea della


creazione: la singolarità del Figlio rispeno alle altre creature sta nell'es-
sere stato creato direnamente da Dio solo, mentre le altre cose sono
create ·anraverso il Figlio· (cfr. Contro gli ariani, 2,29,1, AW 1/1, p. 205;
PG 25, 208 B). Il termine "aiutante" (bypourg6s) indica chiaramente la
funzione subalterna del Figlio. Cfr. anche DD 8,1 e Contro gli ariani,
2,24,4 (AW 1/1, p. 201; PG 26,197 C). Cfr. Vinzent, Asterius, fr. 28-29, p.
96.
5 Ritengo che la lezione Invisibile mano (kryphafa cheinJ, anche se ane-
stata dal solo ms P, sia senz'altro da preferire a quella di invisibile gra-
zia (kryphafa cbiirit1), presente in tuni gli altri e adonata da Opitz.

187
4. Inoltre questa vostra affermazione è parimenti
falsa. Infatti, Egli stesso ci ba fatti, non noi. Egli stes-
so è colui che, mediante il suo Logos, ha creato tutte
le cose, piccole e grandi. Non si può dividere la
creazione, e dire che questo è stato fatto dal Padre
e quest'altro dal Figlio, ma è l'unico Dio che si è ser-
vito del proprio Logos come di una mano e in lui ha
fatto tutte le cose. Dio stesso lo ha detto chiaramen-
te: La mia mano ha fatto tutte queste cose. E Paolo,
avendo appreso ciò, insegnava: Vi è un solo Dio da
cui tutto proviene e un solo Signore per mezzo di cui
tutto è stato fatto.
5. Egli dunque come sempre, così anche ora
parla al sole ed esso sorge, e comanda alle nuvole di
far scendere la pioggia in una data regione, mentre
dove non piove vi è siccità; ordina alla terra di pro-
durre i frutti e plasma Geremia nel grembo. Se egli
stesso dunque opera queste cose, non vi è dubbio
che anche all'inizio egli non ha disdegnato di fare
tutto mediante il Logos: queste cose [particolari] in
effetti sono parte del tutto.

IL LOGOS NON È INTERMEDIARIO

8,1. ·Poiché le altre creature non erano in grado


di sopportare l'azione della potente mano del Non-
divenuto (agenétou), solo il Figlio fu fatto da Dio
solo, mentre le altre cose furono fatte tramite il
Figlio quale aiutante subalterno•: ecco che cosa ha

Questi infatti non ha rilevato che n vi è un'allusione quasi letterale a


Es 17,16 (LXX). Dal contesto poi si evince senza alcun dubbio che
Atanasio intende usare l'immagine della mano per indicare il Logos. La
stessa immagine è usata in Contro gli ariani, 2,31,3 (AW 1/1, p. 207; PG
26, 212 C). A proposito di questo paragrafo, è interessante notare che
mentre gli autori preniceni si preoccupavano di attribuire quegli inter-
venti divini o teofanie al Logos, per salvaguardare la trascendenza di
Dio, Atanasio non fa più questa differenza (cfr. I sinodi, 52,2, AW 1/1,
p. 276; PG 26, 785 C). Sulle teofanie veterotestamentarie in Atanasio, cfr.
Simonetti, La crisi ariana, p. 278.

188
scritto Asterio il sacrificatore. Ario poi ha trascritto
ciò per darlo ai suoi seguaci, i quali si servono di
questa frasuccia come di una canna rotta, ignoran-
do, gli stolti, il difetto che c'è in essa. 2. Se infatti le
cose che divengono non possono sopportare la
mano di Dio e se il Figlio, come voi sostenete, è una
delle cose che divengono, come ha potuto essere
fatto egli [solo] da Dio solo? Se per creare le cose c'è
stato bisogno di un intermediario, e se, come voi
dite, il Figlio è "divenuto", bisognava che, per po-
ter essere creato, prima di lui ci fosse qualcuno di
mezzo. Ma poiché l'intermediario è anch'esso una
creatura, necessariamente anche quello aveva biso-
gno di un altro intermediario per la propria esisten-
za. Ammesso questo, bisognerà pensare un interme-
diario per il precedente, e così via all'infinito. Do-
vendo allora sempre ricorrere a un intermediario,
[AW 8] si finisce per negare la possibilità della crea-
zione, dato che, come voi dite, •nessuna delle crea-
ture è in grado di sopportare la potente mano del
Non-divenuto•.
3. Se poi rendendovi conto di tale assurdità,
cominciate a aire che il Figlio, che è creatura, fu in
grado di essere fatto dal Non-divenuto, necessaria-
mente anche tutte le altre cose, essendo divenute,
dovevano essere in grado di essere create diretta-
mente dal Non-divenuto: in effetti, se anche il
Figlio, secondo voi, è creatura, allora lo è come
tutte le altre cose. Di conseguenza, secondo il
vostro modo di pensare empio e stolto, la genera-
zione del Logos sarebbe del tutto superflua, essen-
do sufficiente Dio stesso a creare direttamente tutte
le cose, le quali sono in grado di sopportare la
potente mano di Dio.

189
ADAMO, CREATO PER PRIMO,
NON HA UNA NATIJRA DIVERSA DAGLI ALTRI UOMINI

4. Se il modo di ragionare di quegli empi è folle,


vediamo se questo loro particolare sofisma non ap-
paia più assurdo degli altri. Solo Adamo fu creato
da Dio solo, mediante il Logos. Tuttavia nessuno
oserebbe dire che per questo Adamo abbia qualco-
sa di più degli altri uomini o differisca da quelli che
sono venuti dopo di lui, se non che lui solo è stato
fatto e plasmato direttamente da Dio, mentre noi
tutti discendiamo da Adamo per successione di ge-
nerazione. L'unica differenza è che egli è stato pla-
smato dalla terra e così è venuto all'esistenza, men-
tre prima non esisteva.
9,1. Se poi si vuole dare al protoplasto qualcosa
di più, perché ha avuto il privilegio della mano di
Dio, lo si metta in conto all'onore non alla natura.
Anch'egli infatti è dalla terra, come tutti; e la mano
che allora plasmò Adamo, è la stessa che ora e sem-
pre plasma e forma quelli dopo di lui.
2. Lo afferma Dio stesso, come ho già detto, a
Geremia: Prima di plasmarti nel grembo [di tua
madre}, ti conoscevo. E riferendosi al tutto dice: La
mia mano ha fatto tutte queste cose. E di nuovo per
mezzo di Isaia: Così dice il Signore, colui che ti ha
riscattato e ti ha plasmato dal grembo: Io, il Signore
che opera tutto, ho disteso il cielo da solo e ho reso
stabile la terra. Davide, che conosceva ciò, disse nei
Salmi: Le tue mani mi hanno fatto e mi banno pla-
smato. La stessa cosa indica colui che dice nel libro
di Isaia: Così dice il Signore, che mi ha plasmato suo
seroo dal grembo. Dunque nessuno di noi differisce
per natura, anche se è cronologicamente anteriore,
dato che tutti siamo costituiti e creati dalla medesi-
ma mano.

190
IL FIGLIO NON È CREATO

3. Pertanto, se voi ariani pensate che il Figlio di


Dio è venuto all'esistenza anch'egli in questo modo,
la sua natura, stando a voi, non differirà in nulla da
quella delle altre cose, dal momento che anch'egli
non esisteva e ha cominciato ad esistere, e con lui
è stata creata la grazia del nome [di Figlio], [in pre-
visione] della sua virtù. Infatti, stando alle vostre
parole, anche per lui vale ciò che lo Spirito dice
nei Salmi: Egli disse, e furono fatti; egli comandò, e
furono creati.
4. Chi è allora colui al quale Dio ha comandato,
perché questi fosse creato? Ci dev'essere infatti un
Logos a cui Dio comanda e nel quale crea le cose.
Ma non riuscirete a mostrare che esiste un altro
Logos oltre quello che voi negate, a meno che non
inventiate un'altra idea. ·Sì, diranno, l'abbiamo tro-
vata!• È quella che tempo fa ho sentito dire anche
dai seguaci di Eusebio: ·Noi pensiamo [AW 9] che il
Figlio di Dio ha qualcosa di più delle altre creature,
e per questo è chiamato Unigenito, perché egli solo
partecipa del Padre, mentre tutte le altre cose parte-
cipano del Figlio·6. Evidentemente si sono spossati
nel voltare e rivolatare le parole come i colori! Ma
anche così si mostrano - e lo vedremo - come gente
che vaneggia dalla te"a e che si avvoltola nei pro-
pri pensieri come nel fango.
10,1. Se infatti egli è ·Figlio di Dio•, e se noi fos-
simo chiamati ·figli del Figlio•, sarebbe ragionevole
la loro fantasia; ma se anche noi siamo chiamati
·figli di Dio•, cioè di Colui di cui anch'egli è Figlio,
allora è chiaro che anche noi partecipiamo del Pa-
6 Qui la differenza tra il Figlio e le altre creature è vista nel concetto di
partecipazione: solo il Figlio partecipa del Padre, mentre le altre crea-
ture partecipano del Figlio. Lo schema mentale è sempre quello neopla-
tonico, che sottolinea l'assoluta non-partecipabilità di Dio. Questo pen-
siero potrebbe essere stato preso da Asterio: cfr. Vinzent, Asterlus, fr. 31,
1-4, p. 98.

191
dre, che dice: Ho generato e allevato dei figli. Se non
partecipassimo di lui, non avrebbe detto ·ho gene-
rato•. Se invece egli ha generato, allora non un altro,
ma egli stesso è nostro Padre.

LA DIFFERENZA TRA LA GENERAZIONE DEL FIGUO


E QUELLA DEI CREDENTI

2. •Non fa differenza - sussumono - che quello


abbia di più e sia esistito prima, noi invece abbiamo
di meno e siamo venuti dopo, dal momento che
tutti partecipiamo dello stesso [Dio] e siamo detti
figli dello stesso Padre. Infatti il più e il meno non
fanno diversità di natura. È la pratica della virtù che
aggiunge questo. Così c'è chi riceve potere su dieci
città, chi su cinque. C'è chi sta seduto su dodici
troni per giudicare le dodici tribù di Israele, e c'è
chi si sente dire: Venite, benedetti del Padre mio
oppure: Bravo, servo buono e fedele-.
3. Se quelli dunque ragionano in questo modo,
per forza devono immaginare che Dio non sempre
è stato Padre di un tale Figlio né che questi è sem-
pre esistito, ma che è stato creato dal nulla come
una creatura e prima di essere generato non esiste-
va. Infatti un figlio così è altro dal Figlio di Dio nel
senso vero e proprio del termine.

FIGUO PER NATURA

4. Ma poiché non è accettabile che costoro affer-


mino ancora ciò - in effetti questo modo di pensa-
re è piuttosto dei sadducei e di [Paolo di] Samosata7
- resta da dire che il Figlio di Dio è tale secondo l'al-

7 Paolo, originario di Samosata, fu vescovo di Antiochia, ma fu deposto


da un Concilio Il riunitosi nel 268. La cristologia di Paolo era di tipo
adozionista, come lascia intendere Atanasio in questo passo (vedi anche
più avanti, OD 24,4). Solo nel 358 gli omousiani solleveranno la que-
stione del termine homooU.Sios, che sarebbe stato usato da Paolo per

192
tra accezione, quella cioè per cui diciamo che Isac-
co è figlio di Abramo. La natura infatti intende per
figlio ciò che è generato da un altro per via natura-
le e non acquistato dall'esterno, e questo è il signi-
ficato del nome.
5. ·Allora, dunque, la generazione del Figlio è
come la generazione umana?•. Ecco l'obiezione che,
nella loro ignoranza, vorranno farci costoro come i
precedenti. Niente affatto! Dio, infatti, non è come
l'uomo, dal momento che neppure gli uomini sono
come Dio. I primi infatti furono creati da una mate-
ria soggetta a mutamento, mentre Dio è immateria-
le e incorporeo.
6. È vero che nelle divine Scritture a volte le stes-
se espressioni sono dette di Dio e degli uomini; ma
è proprio delle persone perspicaci fare attenzione
alla lettura, come ha raccomandato Paolo, e così di-
scernere e distinguere ciò che è scritto secondo la
natura di ciascuna delle realtà significate, senza con-
fondere il pensiero. Così, la realtà di Dio non va
pensata alla maniera umana, né la realtà umana va
applicata a Dio. Questo sarebbe mescolare il vino
con l'acqua e porre sull'altare assieme al fuoco divi-
no un fuoco estraneo.

DISTINGUERE A SECONDA DEI SOGGETTI

11,1. Ad esempio, Dio crea, e anche degli uomi-


ni si dice che creano. Dio è, e anche degli uomini si
dice che sono, avendo ricevuto l'essere da Dio.
Bisogna dunque concludere che Dio crea come gli
uomini o che Dio ha l'essere come un uomo? No
assolutamente! Queste espressioni, applicate a Dio,
vanno prese in un certo modo, diverso da quando
intendiamo riferirle agli uomini. 2. Dio infatti crea
negare l'ipostasi distinta del Logos rispeno al Padre, e per questo quel
termine sarebbe stato respinto dal concilio del 268. Cfr. Simoneni, in
DPAC, 2, coli. 2633-2635.

193
chiamando all'essere ciò che non è, senza bisogno
di nulla; gli uomini invece lavorano una materia sog-
giacente, non senza prima aver pregato e aver rice-
vuto la scienza del fare da Dio, che ha tutto creato
mediante il suo proprio Logos. 3. E ancora: [AW 10]
gli uomini, che non possono darsi l'essere da se
stessi, sono contenuti in un luogo e sussistono nel
Logos di Dio; Dio invece esiste da se stesso, tutto
contiene e non è contenuto da nulla. È in tutte le
cose, secondo la sua bontà e potenza, ma trascende
tutte le cose secondo la sua propria natura. Così
dunque non allo stesso modo gli uomini •creano• e
Dio •crea•, né gli uomini ·hanno l'essere• come Dio
·ha l'essere•.

LA GENERAZIONE DIVINA NON t COME QUELLA UMANA


Parimenti, la generazione umana è una cosa, l'es-
sere il Figlio dal Padre è un'altra. 4. I figli nati dagli
uomini sono in qualche modo una parte dei genito-
ri, poiché la natura dei corpi non è semplice ma flui-
da e composta di parti. Gli uomini quando genera-
no emettono qualcosa e poi, attraverso il cibo, im-
mettono in sé delle sostanze. Per questo gli uomini
nel tempo possono diventare padri di molti figli.
Dio invece, non essendo composto di parti, è Pa-
dre del Figlio senza subire divisione o mutazione.
Essendo incorporeo, in lui non vi è nessuna emis-
sione né immissione come per gli uomini. La natu-
ra di Dio è semplice, per cui egli è Padre del solo e
unico Figlio. 5. Per questo è Unigenito e il solo a
essere nel seno del Padre. Che sia così, lo mostra il
Padre stesso quando dice: Questi è il mio Figlio
diletto, nel quale mi sono compiaciuto. Costui è il
Logos del Padre, ed è possibile capire che anch'egli
non è soggetto a mutazione o divisione, come non
lo è il Padre. Se già la parola umana è generata
senza mutazione e divisione, quanto più il Logos di

194
Dio. 6. Perciò egli, come Logos, "siede" alla destra
del Padre: dove infatti è il Padre, lì c'è anche il suo
Logos. Noi invece, come creature, •Stiamo in piedi•,
giudicati da lui. Egli è adorato, perché è Figlio del
Padre, che è degno di adorazione; noi invece lo
adoriamo, professandolo Signore e Dio, perché noi
siamo creature e altri da lui.

LA GENERAZIONE DEL FIGLIO È ETERNA

12,1. Stando così le cose, per confonderli basta


chiedere a chi voglia di loro se sia lecito dire che ciò
che è ·da Dio· come sua propria progenie, sia ·dal
nulla•, o se sia ragionevole anche solo formulare
l'ipotesi che ciò che è ·da Dio· sia qualcosa a lui
accidentale, per cui osi dire che il Figlio non esiste
da sempre. In effetti, la generazione del Figlio supe-
ra e trascende i pensieri umani.
2. Noi infatti diventiamo padri dei nostri figli nel
tempo poiché noi stessi prima non c'eravamo e poi
siamo venuti all'esistenza. Dio invece, che è da sem-
pre, da sempre è Padre del Figlio. La nostra genera-
zione è attestata da coloro che esistono in modo
simile [a noi]. Poiché invece nessuno conosce il Fi-
glio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se
non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivela-
re per questo i santi [autori], ai quali il Figlio lo ha
rivelato, ci hanno dato una certa immagine di ciò
che hanno visto, dicendo: Egli è lo splendore [AW 11]
della gloria e l'impronta della sua sostanza. E di
nuovo: Poiché presso di te è la fonte della vita, nella
tua luce vedremo la luce. Allora, rimproverando
Israele, il Logos dice: Hai abbandonato la fonte del-
la sapienza. Questa è la fonte che dice: Hanno ab-
bandonato me, fonte di acqua' viva.
3. Sebbene questi paragoni siano piccoli e assai
oscuri rispetto a ciò che si desidera, tuttavia è possi-
bile ricavare da essi un concetto di qualcosa superio-

195
re alla natura umana e non pensare che la genera-
zione del Figlio sia uguale alla nostra. Chi infatti può
anche solo pensare che non c'era una volta lo splen-
dore, per cui osi dire che il Figlio non esiste da sem-
pre o che il Figlio non esisteva prima di essere gene-
rato? È forse qualcuno in grado di separare lo splen-
dore dal sole o pensare che la fonte [della vita] sia
priva della vita? Sarebbe proprio una pazzia dire che
il Figlio è dal nulla, egli che ha detto: Io sono la vita,
oppure dire che è estraneo alla sostanza del Padre,
egli che ha detto: Chi ha visto me ha visto il Padre.
Se i santi [autori] ci hanno dato questi paragoni, era
perché volevano che noi pensassimo in quel modo.
Sarebbe perciò assurdo e assai scorretto che, avendo
queste immagini dalla Scrittura, noi discorressimo
del Signore a partire da altre [immagini] che non
stanno scritte e non conducono alla rena fede.

L'ERRATA INTERPRETAZIONE DI PROVERBI 8,22


13,1. Pertanto, che ci dicano da dove hanno ap-
preso o chi ha loro trasmesso queste idee sul Sal-
vatore. "Abbiamo letto, diranno, nel libro dei Prover-
bi: Il Signore mi cre(j principio delle sue vie in vi-
sta delle sue opere- 8• 2. Questo infatti è proprio quel-
lo che dicevano gli eusebiani, e tu nella tua lettera
hai mostrato che costoro, sebbene siano stati confu-
tati con molte dimostrazioni e respinti, nondimeno
sbandieravano quel detto [della Scrittura], conclu-

8 In effetti, Prv 8,22 fu uno dei cavalli di battaglia degli ariani. Ricordiamo
che, nel contesto di Prv 8, chi parla è la Sapienza divina personificata,
identificata dai padri con il Logos. Sull'interpretazione patristica di Prv
8,22, cfr. Simonetti, Studi, pp. 9-87. Atanasio si è spesso e a lungo sof-
fermato sulla sua interpretazione, applicandolo all'incarnazione di
Cristo, in senso antiariano: cfr. Contro gli ariani, 2,44-82 CPG 26, 240-
321); Lettere a Seraptone, 2,7 (PG 26, 620; trad. it. E. Cattaneo, CIP 55,
pp. 117-119); Lettera ai vescovi di Egitto e Libia, 17 (PG 25, 576-Sn). Cfr.
Simonetti, Studi, pp. 56-67.

196
dendo che il Figlio è una delle creature e va anno-
verato con le realtà divenute.
3. Tuttavia mi pare evidente che la loro interpre-
tazione non è buona. [Quel passo] ha un senso teo-
logicamente del tutto corretto: se anch'essi l'avesse-
ro capito, non avrebbero bestemmiato il Signore
della gloria. Confrontino infatti le affermazioni espo-
ste prima con questo detto, e vedranno quanto
grande è la differenza che c'è in esse.
4. Chi avendo un retto pensiero non vede che le
cose create e fatte sono "da fuori" del Creatore, men-
tre il Figlio, come è stato precedentemente mostrato,
non è "da fuori", ma "dal Padre", che lo ha generato?
Dell'uomo si dice che "fa" una casa e "genera" un fi-
glio: nessuno scambia le parole e dice che la casa o
la nave è "generata" dal fabbricante e che invece il
figlio è "creato" o "prodotto" dal medesimo; né si di-
ce che la casa è immagine di chi l'ha fatta o che il
figlio non è simile al genitore. Si dirà piuttosto che
un figlio è immagine di suo padre, mentre una casa
è prodotto di una tecnica, a meno che uno sia mala-
to di mente e abbia il cervello sconquassato.
5. Ora appunto, la Sacra Scrittura, che conosce
meglio di tutti la natura di ciascuno, tramite Mosè
dice delle realtà create: In principio Dio fece il cielo
e la terra. Riguardo al Figlio invece essa mostra il
Padre stesso, non un altro, che dice: Dal ventre
prima dell'aurora ti ho generato. E di nuovo: Figlio
mio sei tu, io oggi ti ho generato. E il Signore dice di
se stesso nei Proverbi: Prima di tutte le colline mi
ha generato. Quanto al Vangelo di Giovanni, circa le
cose create dice: Tutto fu fatto per mezzo di lui; del
Signore invece dice: Il Figlio Unigenito, che è [AW
12] nel seno del Padre, egli stesso ce l'ha rivelato.
6. Se dunque è Figlio, non è creatura; se invece
è creatura, non è Figlio: infatti vi è una grande dif-
ferenza tra le due cose. Non potrebbe essere insie-
me Figlio e creatura, altrimenti bisognerebbe pensa-

197
re che la sua sostanza (ousia) sia insieme ·da Dio• e
·da fuori• di Dio.

PROVERBI 8,22 SI RIFERISCE ALL'INCARNAZIONE

14,1. ·Dunque questa parola è stata forse scritta


senza ragione?•. Questo infatti essi di nuovo vanno
ronzando, come uno sciame di zanzare. Niente af-
fatto! Non è stata scritta senza ragione, ma con ra-
gione sommamente necessaria. In effetti pure [del
Figliol si dice che viene creato, ma in riferimento a
quando si fece uomo 9: [l'essere creato] infatti è pro-
prio dell'uomo. Questa interpretazione si ricava fa-
cilmente dalle parole [del testo sacro], purché non
se ne conduca una lettura superficiale, ma si esami-
ni a quale "momento" esse si riferiscono, chi sono
le "persone" che parlano e la "necessità" delle cose
scritte: così la lettura sarà fatta con discernimento e
intelligenza10 •
2. Il "momento" dunque a cui si riferisce questo
detto sarà facilmente trovato: il Signore, che è da
sempre, in ultimo, alla fine dei tempi, si è fatto uo-
mo, ed essendo Figlio di Dio si è fatto anche figlio

9 L'interpretazione che riferisce Prv 8,22 all'incarnazione del Logos si


trova già in Eustazio di Antiochia e in Marcello di Ancira (cfr. Simoneni,
Studi, pp. 38-48). Atanasio vi si aniene costantemente. Tuttavia in
Contro gli ariani, 2,77,4- 80 (AW 1/1, pp. 255; 258; PG 26, 309-317) tro-
viamo un'interpretazione alquanto diversa: poiché in tutte le cose crea-
te c'è l'impronta della Sapienza divina, questa può ciire di essere stata
-creata• nelle sue stesse opere. Questi capitoli, giudicati dagli studiosi
una sorte di "appendice", meriterebbero uno studio più approfondito
(cfr. qualche accenno in Meijering, Ortbo:x:y, pp. 117-119). Simonetti
(Studi, p. 64 in nota) si chiede dove Atanasio abbia mai potuto prende-
re tale interpretazione, che non è quella sua personale. Per Kan-
nengiesser (Atbanase, pp. 90-92) si tratta di un "annesso", sul cui con-
tenuto però sorvola completamente.
10 Atanasio enuncia qui alcune fondamentali regole ermeneutiche da uti-
lizzare nella lettura della Sacra Scrittura: (I) il momento (kair6s) - all'in-
terno del piano di salvezza - nel quale sono state pronunciate le paro-
le in questione; (2) chi sta parlando (pr6sopon); (3) la necessità. (cbre-
ia) delle cose dette, cioè la finalità salvifica (altrove chiamata skop6s),
alla quale è orientata tutta la Scrittura.

198
dell'uomo. Se ne comprende poi la "necessità", poi-
ché egli, volendo distruggere la nostra morte, si è
preso un corpo dalla vergine Maria, per presentarlo
al Padre in sacrificio a vantaggio di tutti, e liberare
così tutti noi, che per timore della morte eravamo
soggetti a schiavitù per tutta la vita. Infine la "perso-
na" che parla è certamente il Salvatore, ma si riferi-
sce al momento in cui, avendo preso il corpo, dice:
Il Signore mi creò principio delle sue vie in vista delle
sue opere.
3. Come infatti di lui, in quanto Figlio di Dio, ben
conviene dire che è eterno e nel seno del Padre, così
in quanto si è fatto uomo a lui si confà la voce che
dice: Il Signore mi creò. Di fatti, solo allora si dice di
lui che ebbe fame, ebbe sete, si informò dove Laz-
zaro giaceva, patì e risuscitò. E come quando sen-
tiamo [la Scrittura dire] di lui che è Signore, Dio,
Luce vera, comprendiamo che egli è dal Padre, così
quando sentiamo espressioni quali "creò'', "servo",
"patì", è giusto non attribuirle alla divinità - cosa im-
propria - ma assegnarle a quella carne, che egli ha
portato per noi. Sono infatti cose proprie della car-
ne, la quale, a sua volta, non è di altri che del Logos.
4. Se poi uno vuole apprendere l'utilità che deri-
va da ciò, troverà anche questo: infatti il Logos si è
fatto carne per offrire [il suo corpo] a vantaggio di
tutti e perché noi, partecipando al suo Spirito, po-
tessimo essere divinizzati. E ciò non sarebbe stato
possibile se egli non avesse rivestito il nostro corpo
creato. Così infatti noi in seguito abbiamo comincia-
to a essere chiamati non solo uomini, ma anche figli
di Dio e uomini in Cristo. 5. Ma come noi, riceven-
do lo Spirito, non perdiamo la nostra propria sostan-
za, così il Signore, fattosi uomo per noi e avendo
portato un corpo, non ha smesso di essere Dio: l'es-
sersi rivestito del corpo, non l'ha sminuito, al con-
trario ha divinizzato questo [corpo] e alla fine lo ha
reso immortale.

199
III

IL VERO INSEGNAMENTO
DELLE SACRE SCRITfURE

IL FIGUO È LOGOS E SAPIENZA PROPRIA DEL PADRE

15,1. Quanto abbiamo detto basta a bollare l'ere-


sia degli ariani. E infatti, come il Signore ci ha con-
cesso, abbiamo confutato il loro errore a partire
dalle loro stesse parole. Ora prendiamo noi l'inizia-
tiva e chiediamo che siano essi a rispondere. È que-
sto il momento opportuno, visto che essi sono a
corto di argomenti, per essere interrogati da noi:
forse così [AW 13) quegli stolti arrossiranno, veden-
do dove sono caduti.
2. Come abbiamo detto in precedenza, le Sacre
Scritture ci insegnano che il Figlio di Dio è il Logos
e la Sapienza propria del Padre. Dice infatti l'Apo-
stolo: Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio. E
Giovanni dopo aver detto che il Logos si è fatto
carne, subito aggiunge: e noi abbiamo contemplato
la sua gloria, gloria come di unigenito da presso
il Padre, pieno di grazia e di verità. Vale a dire: es-
sendo il Logos Figlio unigenito, proprio in questo
Logos e in questa Sapienza furono creati il cielo e
la terra e tutto ciò che vi è in essi. 3. Il libro di Ba-
ruch poi ci insegna che Dio è la sorgente di questa
Sapienza, quando rimprovera Israele perché ha ab-
bandonato la sorgente della sapienza.
Ora, se essi negano le Scritture, non possono più
chiamarsi col nome [cristiano), ma giustamente sa-
ranno chiamati da tutti atei e nemici di Cristo: è il
nome che essi stessi si sono dati. 4. Se invece rico-

200
nascono con noi che le parole della Scrittura sono
ispirate, osino dire apertamente ciò che pensano
nascostamente, e cioè che Dio fu un tempo senza
Logos e senza Sapienza, e dicano nella loro follia:
·C'era un [tempo] quando [il Figliol non esisteva•1 e
•prima di essere generato, Cristo non esisteva•. E
ancora dicano chiaramente che la Sorgente non ha
generato da se stessa la Sapienza, ma se l'è procu-
rata da fuori, così che oseranno affermare: ·Il Figlio
è stato fatto dal nulla•. Questo infatti non è più indi-
care la sorgente, ma è come se a un lago, che rice-
ve acqua da fuori, venisse dato il nome di sorgente.

LOGOS E SAPIENZA
NON SONO SOLO APPELLATIVI DEL FIGLIO

16,1. Che tutto questo sia pieno di empietà, pen-


so che nessuno, per quanta poca intelligenza abbia,
ne può dubitare. Ma poiché essi borbottano dicen-
do che •Logos e Sapienza sono solamente nomi del
Figlio·2 , bisogna loro chiedere: se questi sono sola-
mente nomi del Figlio, allora egli sarà altro da essi.
2. Ora, se egli è superiore ai nomi, non è corretto
indicare un essere superiore con nomi inferiori; se
invece egli è inferiore ai nomi, ci sarà un motivo per
cui ha ricevuto un appellativo migliore, ma ciò di
nuovo indica un suo progresso, affermazione non
meno empia della precedente. Infatti affermare che
Colui che è nel Padre e nel quale è il Padre, Colui
che dice: Io e il Padre siamo uno e Chi ba visto me
ha visto il Padre, [affermare dico] che sia reso mi-
gliore da qualcosa a lui esterna, supera ogni follia.

1 Questa formula esisteva già al tempo di Origene, che la respinge (cfr.


più avanti DD 27,2).
2 Per gli ariani il Figlio non si identifica con la Sapienza e il Logos pro-
prio di Dio, ma riceve il nome di Sapienza e di Logos solo per parteci-
pazione. Cfr. Contro gli ariani 1,5 (PG 26, 21 B); 9 (21 B; 32 A); 2,38
(228 AB).

201
IL LOGOS DI DIO È UNICO

3. Ma dopo aver perso anche questo confronto e


trovandosi, come gli eusebiani, nell'incapacità tota-
le di rispondere, non resta loro altro argomento che
quello inventato da Aria nelle sue canzonette e nella
sua Tbalia, con l'intento di sollevare un dubbio:
·Molte parole (l6goi) dice Dio· 3• Voi insensati e tutto
tranne che cristiani, [diteci]: quale di queste [parole]
chiamiamo noi Figlio e Logos unigenito del Padre?
4. Anzitutto, dicendo ciò di Dio, poco ci manca
che lo considerino come un uomo, il quale quando
parla supera le parole precedenti con quelle susse-
guenti, come se l'unico Logos che è da Dio non
fosse capace di adempiere tutta la creazione che il
Padre ha voluto e la sua provvidenza. 5. Se [Dio]
deve dire molte parole, significa che sono tutte in-
sufficienti, ciascuna avendo bisogno dell'aiuto del-
l'altra; invece se a Dio basta usare una sola parola,
come è [AW 14] in verità, questo mostra la potenza
di Dio e la perfezione del Logos che è da lui, non-
ché l'intelligenza religiosamente corretta di coloro
che così pensano.
17, 1. Se almeno essi, anche a partire da quanto
affermano, volessero ora riconoscere la verità! Infat-

~ Questa frase, come osserva Opitz (AW 2/1, p. 13), non è mai citata altro-
ve e va compresa nel contesto di Eb 1,1-2, dove appunto si dice che
·Dio ha parlato molte volte e in diversi modi.. Quindi, secondo Ario, il
Logos non sarebbe che uno dei tanti 16goi ( = parole) di Dio. 1balia (=
Banchetto) è il titolo di un'opera di Ario, scritta in versi o in prosa rit-
mica, nella quale egli espone la sua dottrina. Secondo Atanasio, Ario
l'avrebbe scritta dopo la sua cacciata dalla Chiesa, sollecitato dai segua-
ci di Eusebio (cfr. I sinodi, 15, PG 25, 705 C). Alcuni studiosi moderni
invece pongono la sua composizione al periodo alessandrino (cfr.
Kannengiesser, Arius and Atbanasius, p. 206). I frammenti superstiti
sono stati raccolti da G. Bardy, in Revue de Pbilologle 53 (1927), pp.
211-233, tradotti in italiano e commentati da Bellini, Alessandro e Ario,
pp. 36-46 (tuttavia il frammento di DD 16,3 non è riportato). Per
Kannengiesser (1984), le ·bestemmie di Ario· che si leggono in Atana-
sio, I sinodi, 15, non proverrebbero dalla 1balia, ma da uno scritto
neo-ariano.

202
ti, se ammettono un Dio che proferisce [molte] pa-
role, sanno nondimeno che egli è Padre. Ammes-
so ciò, esaminino che non volendo ammettere un
unico Logos di Dio, finiscono per immaginare Dio
padre di molti [Logoi]. Inoltre, che ci sia un Logos di
Dio, non vogliono negarlo, ma non lo riconoscono
come Figlio di Dio. Ora questo è ignoranza della
verità e non conoscenza delle Sacre Scritture.
2. Se infatti Dio è Padre del Logos, perché mai
colui che è generato non è Figlio? E ancora, chi
potrebbe essere Figlio di Dio se non il suo Logos? E
infatti non ci sono molti Logoi, altrimenti ciascuno
sarebbe bisognoso, ma uno solo è il Logos, unico e
perfetto; e poiché Dio è unico, pure unica deve
essere la sua immagine, che è il Figlio. 3. Dalle
Scritture stesse apprendiamo che il Figlio di Dio è
egli stesso il Logos, la Sapienza, l'Immagine, la
Mano e la Potenza di Dio. Unico infatti è il genera-
to da Dio, e queste sono le note della generazione
dal Padre. 4. Infatti, se nomini il Figlio, indichi ciò
che è dal Padre per natura; se pensi al Logos, di
nuovo consideri ciò che è dal Padre ed è insepara-
bile da Lui; dicendo la Sapienza, di nuovo pensi
senz'altro a ciò che è da Lui e in Lui, non fuori di
Lui; se poi nomini la Potenza e la Mano, di nuovo
parli di ciò che è proprio della sostanza (ousias);
parlando dell'Immagine, indichi il Figlio. 5. Che
cosa infatti potrebbe essere simile a Dio se non ciò
che è da lui generato? Certamente, le cose. create
mediante il Logos sono state fondate con la Sa-
pienza. E le cose fondate con la Sapienza, tutte sono
state fatte con la Mano e mediante il Figlio.

LA VERITÀ INSEGNATA DALLE SCRITTURE


Noi attingiamo la fede in queste verità non dai
filosofi, ma dalle Scritture. 6. Dio stesso dice infatti
tramite il profeta Isaia: La mia mano ha fondato la

203
tetra e la mia destra ha fissato i cieli; e ancora: Ti
proteggerò sotto l'ombra della mia mano, con la
quale ho costituito il cielo e ho fondato la tetra.
Davide, avendo appreso ciò e sapendo che la Mano
[di Dio] è la sua Sapienza, canta nei salmi: Hai fat-
to ogni cosa con sapienza; la tetra è piena della
tua creazione. Anche Salomone, istruito da Dio, dis-
se: Dio con la Sapienza ha fondato la ten-a. 7. E
Giovanni, conoscendo che la Mano e la Sapienza
erano il Logos, proclamava nel suo Vangelo: In
principio era il Logos, e il Logos era presso Dio, e
il Logos era Dio. Egli era in principio presso Dio.
Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui
nulla è stato fatto.
L'Apostolo poi, vedendo che la Mano, la Sapien-
za, il Logos stesso sono il Figlio, dice: Dio, che a-
veva parlato nei tempi antichi molte volte e in molti
modi ai nostri padri per mezzo dei profeti, alla fine
dei giorni - che sono questi - ha parlato a noi per
mezzo del Figlio, che ha costituito erede universale:
per mezzo suo anche ha fatto i secoli. E ancora: Vi è
un solo Signore, Gesù Cristo, per mezzo del quale
esiste ogni cosa, e noi per mezzo di lui.
8. Sapendo poi che il Logos, la Sapienza e il Fi-
glio stesso sono l'Immagine del Padre, dice nella let-
tera ai Colossesi: Ringraziamo Dio e Padre, il quale
ci ha resi capaci di partecipare alla sorte dei santi
nella luce. Egli ci ha strappato dal potere delle tene-
bre e ci ha trasportati nel regno del Figlio del suo
amore, nel quale abbiamo la redenzione, la remis-
sione dei peccati. Egli è l'Immagine del Dio invisi-
bile, primogenito di tutta la creazione, poiché per
mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei
cieli e [AW 15) quelle sulla tetra, quelle visibili e quel-
le invisibili, troni, dominazioni, principati e potestà.
Tutto è stato creato per mezzo di lui e in vista di lui
ed egli stesso è prima di tutte le cose e tutte in lui sus-
sistono. 9. Infatti, come tutto è stato creato per mez-

204
zo del Logos, così [tutto è stato creato] in lui, in
quanto immagine sua [cioè di Dio].
Chi pensa così del Signore, non urterà contro
la pietra d'inciampo, ma piuttosto camminerà verso
lo splendore, avendo innanzi la luce della verità.
Questo è veramente il modo di pensare secondo la
retta fede, dovessero pure crepare nella loro ostina-
ta contesa, essi che non venerano Dio né arrossisco-
no, confutati dalle nostre dimostrazioni.

205
IV

PERCHÉ A NICEA FURONO INTRODOTI'E


DELLE NUOVE ESPRESSIONI

DIFESA DEL CONCIUO DI NICEA

18, 1. Gli eusebiani dunque in quella circostanza1


sottoposti a interrogazione in molti modi, condan-
nando se stessi, come ho detto in antecedenza, sot-
toscrissero [la formula di fede] e ritrattando tacquero
e si ritirarono. Ma poiché questi tali, ringalluzziti
dalle loro empietà e incapaci di fissare la verità, non
fanno altro che parlar male di quel concilio, ci dica-
no da quali Scritture hanno appreso o da quale dei
santi [padri] hanno sentito quelle frasette che hanno
messo insieme: "dal nulla"; "prima che fosse genera-
to non esisteva"; "c'era un tempo in cui non esiste-
va"; "mutevole"; "preesistere"; "per volontà" 2: questo
è prendersi gioco del Signore e dire sciocchezze.
2. Infatti il beato Paolo dice nella lettera agli
Ebrei: Per fede comprendiamo che i secoli sono stati
formati con un detto di Dio, così che la realtà visibi-

1 Cioè durante il Concilio di Nicea.


2 Cioè il Figlio sarebbe stato generato "per volontà" del Padre, senza
necessità. Questa era una delle tesi care agli ariani e ad Asterio in par-
ticolare (cfr. Bardy, Astérlus, p. 259). Il documento dei vescovi orienta-
li al Concilio di Serdica (343) nel can. 29 condanna espressamente chi
afferma che ·il Padre ha generato il Figlio non per suo consiglio e vo-
lontà· (cfr. Simoneui, La crisi ariana, p. 179). Nello stesso senso, ma in
maniera più diffusa, si esprime il c. 8 del testo souoscriuo da alcuni
vescovi orientali nel 345, chiamato Ektbesis makrostikos (in Atanasio, I
sinodi, 26, AW 2/1, p. 253; PG 26, 732 C-733 A; cfr. Simonetti, La crisi
ariana, p. 191). Una estesa confutazione di questa tesi ariana si ha
in Atanasio, Contro gli ariani, 3, 6o-67 (AW 1/1, pp. 372-381; PG 26,
448-468).

206
le derivasse da ciò che non appare. Ma non vi è nulla
di comune tra il Logos e i secoli: egli infatti preesi-
ste ai secoli, i quali sono stati fatti per mezzo suo.
3. Nel Pastore poi - scritto di cui essi si avvalgo-
no, anche se non è tratto dal canone3 - si legge:
·Prima di tutto credi che vi è un solo Dio, il quale
ha creato e ordinato l'universo, e ha fatto tutto dal
non esistente all'essere-. Ma anche questo non ri-
guarda per nulla il Figlio: "tutto" è detto di ciò che
è stato fatto per mezzo suo, ma egli è altro da esso.
Non è possibile infatti mettere sullo stesso piano
colui che crea e le cose da lui create, a meno che
uno sia così pazzo da dire che l'architetto è identi-
co alle case da lui costruite.
4. Perché dunque essi adducono in modo teolo-
gicamente scorretto espressioni non contenute nelle
Scritture, mentre poi accusano coloro che le usa-
no correttamente? Pensare in modo teologicamente
scorretto è assolutamente proibito, anche se poi uno
cerca di mascherare quel pensiero con parole varie
e seducenti. Invece il pensiero teologicamente cor-
retto è riconosciuto da tutti come cosa santa, anche
se uno lo esprime con parole non abituali, purché
chi parla pensi in modo teologicamente corretto e,
attraverso quelle parole, intenda significare quello
che ha correttamente pensato.
5. Il nostro discorso ha dunque dimostrato, sia

' Notiamo che Atanasio usa qui il termine "canone" come già usuale in
riferimento alle Sacre Scritture. Sulla non canonicità del Pastore di Erma,
Atanasio si esprime anche nella Lettera festa/e 39 (PG 26, 1437 C), anno-
verandolo - assieme a Sapienza, Siracide, Ester, Giuditta, Tobia e
Didacbè- tra le letture consigliate per i catecumeni. Il passo del Pastore
qui citato si trova, nelle opere atanasiane, anche ne L'incarnazione, 3,
1, assieme a Eb 11,3 (SCh 199, p. 268), nella Lettera festa/e 11,4 (PG 26,
14o6 A) e nella Lettera ai vescovi africani, 5 (PG 26, 1037 B). Gli aria-
ni lo utilizzavano per sostenere che •tutto• (tà panta) - compreso il
Figlio - è stato fatto dal nulla. Cfr. anche Alessandro di Alessandria,
Lettera ad Alessandro di Tessalonica, 11 (AW 3/1, p. 21; Bellini, Ales-
sandro e Aria, p. 72).

207
allora sia ora, che le vili frasette usate da quegli av-
versari di Cristo sono piene di ogni empietà. Ben di-
verse sono invece le cose scritte e definite dal con-
cilio contro di loro: se uno le esamina attentamente,
troverà che esse contengono la pura intenzione
della verità, soprattutto dopo aver ascoltato, con
animo desideroso di apprendere, i giusti motivi che
hanno portato all'uso di quelle espressioni. Eccoli.

PERCHÉ IL CONCILIO HA DEFINITO IL F'IGUO


•DAll.A SOSTANZA DEL PADRE•

19,1. Il concilio voleva da una parte eliminare le


espressioni errate degli ariani, e dall'altra scrivere le
parole attestate nelle Scritture, cioè che ·il Figlio non
proviene dal nulla, ma da Dio, e inoltre è Logos e
Sapienza, non creatura né opera, ma frutto della
generazione propria [AW 161 del Padre•. Gli eusebia-
ni invece, spinti dalla loro inveterata cattiva dottrina,
sostenevano che l'espressione "da Dio" fosse comu-
ne a noi e al Logos di Dio, e che in questo Egli non
differisse in nulla da noi, adducendo questi testi
scritturistici: Vi è un solo Dio, dal quale tutto provie-
ne e: Le cose vecchie sono passate, ecco ogni cosa è
diventata nuova, ma tutto viene da Dio.
2. Ma i padri4, vedendo la malizia di quelli e il mo-
do teologicamente scorretto di argomentare, furono
allorà costretti a dire più chiaramente che cosa signi-
ficasse "da Dio", e scrissero che il Figlio proveniva
"dalla sostanza" (ek tés ousias) di Dio, affinché non

• Sieben, ZtJr Entwicklung, pp. 356-357, osseiva che qui per la prima
volta i vescovi riuniti a Nicea sono chiamati "padri" o "beati padri" (DD
27,5), e commenta: ·La scelta di questo termine dovette essere sintoma-
tico per la prima fissazione scritta della sua [di Atanasio) idea di conci-
lio: poiché i sinodali di Nicea sono in senso eminente tradenti e organi
della divina 'Paradosis', cioè della 'didaskalla' trasmessa "dai padri al
padri", sono anch'essi designati con questo titolo, che certamente è il
più alto che Atanasio poteva dare-.

208
si pensasse che l'espressione "da Dio" fosse comu-
ne e identica per il Figlio e per le cose create, ma si
esprimesse la fede che solo il Logos è "dal Padre",
mentre tutte le altre cose sono create.
3. Infatti, sebbene si possa dire che tutto è da
Dio, diverso è il modo in cui lo si dice del Figlio. Le
cose create non esistono per caso né si generano da
se stesse o fortuitamente, come dicono quelli che ne
sostengono l'origine dalla combinazione degli atomi
e delle parti simili; e neppure l'universo è stato for-
mato da un diverso creatore, come dicono alcuni
degli eretici o, come sostengono altri, da certi ange-
li. Invece Dio, che esiste di per se stesso, mediante
il Logos ha fatto sì che tutte le cose, che prima non
esistevano, giungessero all'esistenza, e per questo si
dice che [tutto è] "da Dio".
4. Il Logos invece, poiché non è una creatura, è
detto ed è lui solo "dal Padre", e questo concetto si
esprime con chiarezza dicendo che il Figlio è ·dalla
sostanza (ek tes ousias) del Padre•: in effetti, di nes-
suna delle cose create si può dire questo. Del resto,
quando Paolo dice che tutte le cose sono da Dio,
subito aggiunge: E vi è un solo Signore, Gesù Cristo,
per indicare a tutti che il Figlio è altro da tutte le
cose fatte da Dio: le cose fatte da Dio sono state
fatte per mezzo del Figlio. Egli dunque ha detto
queste cose a motivo della creazione fatta da Dio,
non perché tutte le cose sono dal Padre come lo è
il Figlio. 5. Né tutte le cose sono come il Figlio, né
il Logos è una delle cose: Egli piuttosto è Signore e
Creatore di tutto. Per questo il santo concilio disse
esplicitamente che Egli proviene ·dalla sostanza (ek
tes ousias) del Padre•. In questo modo si affermava
la fede che il Logos è altro dalla natura delle cose
create, essendo Egli solo veramente ·da Dio.. , e non
si lasciava pretesto di inganno a chi non pensava
correttamente la fede. Questo dunque è il motivo
per cui si è scritto "dalla sostanza" (ek tes ousias).

209
PERCHÉ IL CONCILIO HA DEFINITO IL FIGUO
•CONSOSTANZIALE• AL PADRE

20,1. I vescovi dissero inoltre che bisognava scri-


vere che «il Logos è la Potenza vera del Padre e sua
Immagine, e che egli è perfettamente simile in tutto
(h6moion katà panta) al Padre, immutabile, da sem-
pre esistente e da sempre inseparabilmente nel Pa-
dre•. Infatti mai ci fu un [tempo in cui] non c'era,
bensì il Logos da sempre esisteva eternamente pres-
so il Padre, come splendore di luce.
Gli eusebiani si trattenevano, non osando con-
traddire per la vergogna di essere stati precedente-
mente confutati. Tuttavia furono sorpresi nuova-
mente a mormorare tra di loro e a fare segni con gli
occhi. [Dicevano] che •"simile", "sempre", il nome
"potenza" e l'espressione "in lui" erano anch'essi
comuni al Figlio e a noi, per cui non avevano nes-
suna difficoltà ad accordarsi con noi su tali termini.
2. Infatti "simile" è attribuito dalla Scrittura anche a
noi: L'uomo è immagine di Dio e sua gloria; come
pure "sempre": Sempre noi siamo i viventi; e "in lui":
In lui viviamo e ci muoviamo ed esistiamo, e anche
"immutabile", come sta scritto: Niente ci separerà
dall'amore di Cristo. Circa il nome "potenza", anche
la cavalletta e il bruco sono chiamati "potenza" e
"potenza [AW 17] grande", e [tale termine] viene
spesso riferito al popolo, come ad esempio: Tutta la
potenza del Signore uscì dalla terra d'Egitto. Inoltre,
ci sono altre potenze celesti: Il Signore delle poten-
ze è con noi, nostro soccorritore è il Dio di Gia-
cobbe-. Tali cose ha scritto anche Asterio, detto il
Sofista, avendole apprese da loro; da lui poi le ap-
prese Ario, come è stato detto5.

Pro
' Il testo qui è corrotto (tutti i mss hanno autou) e viene emendato
da Opitz in par'autou (p. 17), in coerenza con DO 8,1. Il quadro che
ne risulta lascia tuttavia un po' perplessi: gli eusebiani del concilio
sarebbero i maestri di Asterio; questi sarebbe il maestro di Ario, che

210
3. Ma i vescovi, scorgendo anche qui l'ipocrisia di
quelli e [sapendo che], come sta scritto, nei cuori
degli empi vi è l'inganno, [di coloro cioè] che ordi-
scono il male, furono costretti a sintetizzare il pen-
siero delle Scritture e, come dicevo prima, a espri-
merlo più chiaramente e a scrivere che il Figlio è
•consostanziale (homoot1sios) al Padre•. In questo
modo affermavano che il Figlio non solo è "simile"
(b6moios), ma identico (taut6n) per quella somi-
glianza [che deriva dal suo essere] dal Padre. In altri
termini, la somiglianza e immutabilità del Figlio è
diversa da quell'imitazione (mimesis) che è detta
essere in noi e che noi acquisiamo per virtù, me-
diante l'osservanza dei comandamenti.
4. Le realtà corporalmente simili tra loro, posso-
no essere separate e venire all'esistenza a distanza
l'una dall'altra, come sono i figli degli uomini rispet-
to ai genitori, come sta scritto di Adamo e del figlio
Set, nato da lui, e che era a lui simile secondo la sua
immagine (idéa). 5. Invece la generazione del Figlio
dal Padre è diversa dalla natura degli uomini, di
modo che [il Figliol non, solo è simile, ma è anche
inseparabile dalla sostanza del Padre. Egli e il Padre
sono una cosa sola, come egli stesso ha detto; e il
Logos è da sempre nel Padre e il Padre nel Logos,
come è lo splendore rispetto alla luce e come la
parola stessa lo indica. Perciò il concilio, avendo

risulta cosl una figura piuttosto secondaria, almeno sul piano dottrina-
le. In Contro gli ariani, 1,5 leggiamo un estratto, probabilmente di
Asterio, dove si dice che il termine "potenza" non è dato solo a Cristo,
ma a molte altre realtà: ·Vi sono molte potenze. Ora una sola è quella
propria di Dio, per natura ed eterna; Cristo invece non è la vera poten-
za di Dio, ma anch'egli è una di quelle che hanno ricevuto tale nome;
così ad esempio la cavalletta e il bruco sono chiamati non solo "poten-
za", ma "potenza grande" [Gioele 2,2]. Ce ne sono poi molte altre simi-
li al Figlio, a proposito delle quali Davide dice nei salmi: Signore delle
potenze [Sai 23, 10; 45,8]· (PG 26, 21 BC). Altri estratti di Asterio sullo
stesso argomento sono riportati in Contro gli ariani, 1,32 (PG 26, 77 B);
2, 37 (PG 26, 225 A - 228 A); I sinodi, 18 (PG 26, 716 A). Cfr. Vinzent,
Asterlus, fr. 46, p. 112.

211
compreso questa verità, giustamente ha scritto •con-
sostanziale· (homoousios), per rovesciare la perver-
sità degli eretici e mostrare che il Logos è altro dalle
realtà create. Infatti, dopo aver scritto questo, ag-
giunsero subito: ·Coloro che dicono che il Figlio di
Dio proviene dal nulla, ovvero è creato, ovvero è
mutabile, ovvero è fatto, ovvero è da un'altra so-
stanza (ousia), costoro anatematizza la Chiesa santa
e cattolica•6•
6. Dicendo questo, essi hanno mostrato chiara-
mente che le espressioni "dalla sostanza" (ek tes
ousias) e "consostanziale" (homoo11sios) sono estre-
mamente efficaci contro le frasette degli eretici, [che
affermano il Figlio essere] "creato'', "fatto'', "divenu-
to'', "mutabile" e "non esistente prima di essere gene-
rato". Chi pensa così si pone contro il concilio; chi
invece non pensa come Ario, necessariamente pen-
sa e ragiona come il concilio, interpretando giusta-
mente [il rapporto del Figlio con il Padre], come è lo
splendore rispetto alla luce e traendo da qui la rap-
presentazione della verità.

NON È SOLO QUESTIONE DI PAROLE

21,1. Se dunque costoro adducono come prete-


sto che le parole [usate dal concilio] sono insolite,
accolgano [almeno] il pensiero che il concilio ha
avuto nello scriverle, e condannino ciò che il conci-
lio ha condannato: solo allora potranno - se riesco-
no - biasimare le espressioni usate. Ma so bene che
se accolgono il pensiero del concilio, accoglieranno
pienamente anche le parole che esprimono quel
pensiero. Se poi vogliono contestare anche questo,

6 Atanasio è piuttosto impreciso nel citare il testo dell'anatematismo. In


particolare, tralascia hyp6stasis, che invece è nel testo dopo ousia. Sulla
riluttanza di Atanasio a usare questo termine, cfr. Simonetti, La crisi
ariana, p. 276.

212
è chiaro per tutti che parlano a vuoto e si inventa-
no solo pretesti [AW 18) a sostegno della loro eresia.
2. Questo è dunque il motivo che [ha portato il
concilio a usare] tali espressioni. Se poi di nuovo
quelli si mettono a mormorare, dicendo che esse
non si trovano nelle Scritture, vanno subito respinti
come gente che parla al vento e non ha la mente
sana. È con se stessi però che dovrebbero prender-
sela, perché non capendo il motivo di tali parole
non scritturistiche, sono essi per primi che hanno
cominciato a porsi contro Dio. Comunque, se uno è
amante del sapere, riconosca che anche se quelle
parole non si trovano tali e quali nelle Scritture, tut-
tavia, come è stato detto prima, esse esprimono il
pensiero delle Scritture e questo intendono signifi-
care con la loro proclamazione, per coloro che
ascoltano senza pregiudizio, ma in modo teologica-
mente corretto.

IL VERO PENSIERO DELLE SACRE ScRITIURE

3. Tu puoi esaminare ciò, ed essi ascoltare bene


nella loro ignoranza. È stato dimostrato precedente-
mente - e questa è la vera fede - che il Logos è dal
Padre, ed egli solo è sua propria e naturale proge-
nie (génnema). Quale altra origine si potrebbe infat-
ti pensare per il Figlio, che è la Sapienza e il Logos
nel quale tutto è stato fatto, se non Dio stesso?
4. Eppure è proprio quello che abbiamo appre-
so dalle Scritture. Dice infatti il Padre per bocca di
Davide: Il mio cuore ha emesso un logos buono; e:
Dal ventre prima dell'aurora io ti ho generato. Il
Figlio poi, indicando se stesso, diceva ai giudei: Se
Dio fosse vostro padre, voi mi amereste. Io infatti
sono uscito dal Padre. E ancora: Non perché qual-
cuno ha visto il Padre, se non chi è da Dio: costui
ha visto il Padre. Quando poi dice: Io e il Padre
siamo uno, e: Io sono nel Padre e il Padre è in me,

213
è come se dicesse: ·lo sono dal Padre e inseparabi-
le da lui». E Giovanni quando dice: Il Figlio unise-
nito, che è nel seno del Padre, egli stesso ce l'ha rive-
lato, ha detto queste cose perché le ha apprese dal
Salvatore. Che altro significa infatti ·nel seno• se
non la vera e propria generazione del Figlio dal
Padre?

DIO SI IDENTIFICA
CON LA SUA INCOMPRENSIBILE ESSENZA

22, 1. Se dunque uno ritiene che Dio sia compo-


sto, come l'accidente nella sostanza (ousia), o che
abbia e si celi dietro un rivestimento esterno, o che
ci sia qualcosa attorno a lui che faccia da comple-
mento alla sua sostanza (ousia), per cui quando
diciamo "Dio" o nominiamo il "Padre" non indi-
chiamo la sua invisibile e incomprensibile sostanza
(ousia), ma qualcosa di ciò che gli sta attorno, quel-
li hanno ragione di criticare il concilio per aver scrit-
to che il Figlio è "dalla sostanza" (ek tes ousias) di
Dio. Riflettano però che in questo modo cadono in
una duplice bestemmia. 2. Infatti introducono un
Dio corporeo e affermano falsamente che il Signore
è Figlio non del Padre stesso, ma di ciò che è attor-
no a lui. Ma se Dio è qualcosa di semplice, come lo
è in realtà, allora è chiaro che dicendo "Dio" e
nominando il "Padre" non nominiamo qualcosa che
sta attorno a lui, ma indichiamo la stessa sua sostan-
za (ousia). 3. Sebbene infatti non sia possibile com-
prendere ciò che è la sostanza (ousia) di Dio, ma
solo pensare che Dio esiste, tuttavia sia la Scrittura
sia noi stessi, quando diciamo "Dio", "Padre", "Si-
gnore", non vogliamo indicare nessun altro che Lui.
Quando dunque egli dice: Io sono Colui che è, op-
pure: Io sono il Signore Dio, e dovunque la Scrittura
nomina "Dio", noi leggendo comprendiamo che è
indicato nient'altro che la stessa sua incomprensibi-

214
le sostanza (ousia) e che egli è colui che [quelle
parole] dicono.
4. Nessuno dunque si stupisca sentendo dire che
il Figlio di Dio è "dalla sostanza" (ek tés ousias) di
Dio, ma piuttosto approvi [AW 19) i padri [conciliari],
che ne hanno chiarito il senso, scrivendo con tutta
evidenza e come in parallelo, "da Dio" e "dalla so-
stanza". Infatti ritennero che sia la stessa cosa dire
che il Logos è "da Dio" e dire che è "dalla sostanza"
di Dio, poiché il termine "Dio", come ho detto prima,
non indica altro che la sostanza di Colui che è.

IL LOGOS
È VERO FIGLIO DEL PADRE PER NA1URA

5. Se dunque il Logos non è da Dio, nel senso di


vero Figlio del Padre per natura, ma anch'egli è
detto da Dio come tutte le cose create, cioè median-
te un atto di creazione, allora non è ·dalla sostanza
del Padre•, né il Figlio stesso è Figlio secondo la
sostanza, ma per virtù, come noi che siamo chiama-
ti figli per grazia. Se invece - come è in realtà - egli
solo è da Dio come Figlio suo proprio, giustamente
si deve dire che il Figlio è ·dalla sostanza· di Dio.
23,1. In effetti, l'esempio della luce e dello splen-
dore ha proprio questo significato. I santi [autori]
non dissero che il rapporto del Logos con Dio era
come il fuoco acceso dal calore del sole che poi di
nuovo si spegne, come se fosse un'azione esterna e
un'opera del Creatore, ma tutti proclamarono che
egli è splendore, per indicare che egli è dalla so-
stanza, inseparabile e uno con il Padre. 2. In que-
sto modo si salvaguarda veramente il suo essere
immutabile e inalterabile. Come infatti potrebbe es-
sere tale, se non fosse progenie propria della so-
stanza del Padre? Anche in questo deve essere sal-
vaguardata la sua identità (taut6téta) con il Padre.
Così, se questo discorso appare teologicamente cor-

215
retto, ne segue che quei nemici di Cristo non do-
vrebbero meravigliarsi del termine "consostanziale"
(homoousios), che possiede un senso perfettamente
dimostrabile.
3. Se infatti diciamo che il Logos è "dalla sostan-
za" di Dio - e speriamo che anch'essi riconoscano
quest'espressione-, che altro indichiamo se non la
vera ed eterna sostanza, dalla quale è stato genera-
to? Non [indichiamo] qualcosa di specie diversa, per
non fondere la sostanza del Padre con qualcosa di
estraneo e dissimile; né [lo indichiamo] simile sem-
plicemente dall'esterno, per non mostrarlo in parte
o in tutto di sostanza diversa (heteroousios), come
il bronzo splendente, l'oro, l'argento e lo stagno.
Questi elementi infatti sono tra loro estranei, di di-
versa origine e distinti per la natura e le proprietà. Né
il bronzo ha la stessa proprietà dell'oro, né il pic-
cione viene dalla colomba, ma, anche se sembrano
simili, sono tra loro di sostanza diversa. 4. Se fosse
così anche per il Figlio, allora egli sarebbe creatura
come noi e non consostanziale (homootlsios). Se
invece il Figlio è Logos, Sapienza, Immagine del Pa-
dre e suo splendore, giustamente sarà "consostan-
ziale" (homootlsios). Il concilio dunque ha pensato
rettamente e ha scritto bene, a meno che non si
mostri che [il Logos] non è da Dio, ma è come uno
strumento di altra natura e di altra sostanza.

LE IMMAGINI SENSIBIU
VANNO COMPRESE IN MODO INfELLIGENTE

24,1. In tali questioni bisogna allontanarsi da


ogni ragionamento corporeo e, superata ogni imma-
ginazione dei sensi, con il puro pensiero e con la
sola mente pensare il Figlio come vera progenie del
Padre, il Logos come proprio della natura di Dio, e
lo splendore [AW 20] come perfettamente simile al-
la luce. Come infatti i termini "progenie" e "Figlio"

216
vanno presi non in modo umano, ma come convie-
ne a Dio, allo stesso modo sentendo dire "conso-
stanziale" (bomoousios) non dobbiamo cadere nei
sensi umani e pensare che ci siano parti e divisioni
nella divinità, ma, come quando pensiamo a realtà
incorporee, non dividiamo l'unità della natura e
l'unicità della luce. Questo è proprio il caso del
Figlio con il Padre e questo mostra che Dio è vera-
mente Padre del Logos.
2. Qui è necessario riprendere l'esempio dello
splendore e della luce. Chi oserà dire che lo splen-
dore è estraneo e dissimile dal sole? O chi piuttosto,
vedendo come lo splendore si rapporta al sole e
siano la stessa luce, non dirà francamente: «In real-
tà, la luce e lo splendore sono una cosa sola: uno si
mostra nell'altro e lo splendore si trova nel sole, di
modo che vedendo questo si vede anche quello·?
Ora questa unità e identità di natura, come può
essere chiamata dai credenti e da coloro che vedo-
no rettamente, se non progenitura "consostanziale"?
3. E questa progenitura di Dio, come potrebbe
essere pensata propriamente e convenientemente se
non come Logos, Sapienza e Potenza? Essa non può
essere detta estranea al Padre senza mancare di
rispetto, né è lecito anche solo pensare che essa
non sia eternamente presso il Padre. Questi infatti
ha creato ogni cosa tramite questa progenitura e
mostra il suo amore per l'umanità estendendo a tutti
la sua provvidenza per mezzo di lei.

L'UNITÀ SOSTANZIALE DEL PADRE E DEL FIGUO

4. Così dunque, come è stato detto, egli e il Padre


sono uno; se non che di nuovo quei cattivi ragiona-
tori potrebbero dire che altra è la sostanza (ousia)
del Logos e altra è la luce che è in lui dal Padre, per
cui la luce che è nel Figlio sarebbe uno con il Pa-
dre, ma il [Figlio] stesso sarebbe estraneo secondo la

217
sostanza, come una creatura. Ma questo è semplice-
mente il pensiero di Caifa e di [Paolo] di Samosata,
pensiero che la Chiesa ha respinto e che essi ipocri-
tamente mascherano, perché non siano anch'essi
dichiarati eretici, avendo deviato dalla verità.
5. Insomma, se [il Logos] partecipa della luce che
viene dal Padre, perché non è piuttosto lui stesso ad
essere partecipato, per evitare che si introduca una
realtà intermedia tra lui e il Padre? Se non è così,
non si può più dimostrare che tutto è stato fatto per
mezzo del Figlio, bensì per mezzo di quella realtà di
cui anch'egli parteciperebbe. Se invece questi è il
Logos, la Sapienza del Padre, in cui il Padre si rive-
la, è conosciuto e crea, e senza del quale il Padre
non fa nulla, chiaramente egli è la realtà che provie-
ne dal Padre. In effetti, tutte le· cose divenute, par-
tecipando dello Spirito Santo, partecipano di lui.
Essendo così, non sarà dal nulla, né assolutamente
creatura, ma piuttosto progenitura propria del Pa-
dre, come lo splendore dalla luce.

218
V

LA TESTIMONIANZA DELLA TRADIZIONE

IL PENSIERO DI ThOGNOSTO

25,1. Questo dunque è il pensiero di coloro che


si riunirono a Nicea e queste sono le espressioni che
hanno scritte. Che poi non siano stati loro a inven-
tarsele - poiché anche questo obiettano - ma che le
abbiano ricevute da quelli che erano venuti prima di
loro, sarà ciò che discuteremo ora, per non lasciare
ai [nostri oppositori] neppure questo pretesto.
2. Imparate perciò, o ariani nemici di Cristo, che
Teognosto, uomo dotto, non ha evitato di usare
l'espressione "dalla sostanza" 1 • Infatti nel secondo
libro delle Ipotiposi, scrivendo sul Figlio così [AW 21]
disse: ·La sostanza (ousia) del Figlio non è qualcosa
apparsa dall'esterno, né fatta uscire dal nulla, ma

1 Di questo teologo alessandrino, attivo probabilmente tra il 247 e il 280,


conosciamo solo che ha scritto un'opera in sette libri intitolata Ipotiposi,
di cui ci restano pochi frammenti, due dei quali sono citati da Atanasio,
uno qui e l'altro nelle Lettere a Serapione, 4,11 (PG 26, 652 AC; trad.
it. E. Cattaneo, crP 55, pp. 150-151). Da quello che si può ricostruire,
·la teologia di Teognosto non presenta elementi originali. Essa è molto
vicina a quella di Origene e di san Dionigi, cioè nella linea tradiziona-
le della scuola alessandrina. Se Gregorio di Nissa e soprattutto Fozio
hanno di che criticarla, Atanasio non si mostra così rigoroso; cita al con-
trario il vecchio maestro come un'autorità degna di venerazione- (G.
Bardy, in Dict. de Tbéol. Catb. 15, col. 337). Il brano qui citato insegna
che l'ousia del Figlio non è tratta dal nulla, ma emana dalla ousia del
Padre, senza che questa subisca divisione o cambiamento. Altrove
Teognosto dice che l'ousfa del Figlio è ·simile in tutto• al Padre (cfr.
Bardy, cit., col. 336). Cfr. M. Simonetti, in DPAC, coli. 3407-3408.

219
è nata dalla sostanza del Padre, come lo splendore
dalla luce, come il vapore dall'acqua. Infatti né lo
splendore è il sole stesso, né il vapore è l'acqua
stessa, ma neppure sono qualcosa di estraneo. Né
[la sostanza del Figlio] è il Padre stesso, né gli è
estranea, ma è emanazione della sostanza del Pa-
dre, senza che la sostanza del Padre subisca alcuna
divisione. Come infatti il sole rimanendo se stesso
non è diminuito dai raggi che si effondono da lui,
così neppure la sostanza del Padre ha subito alcun
cambiamento avendo il Figlio come propria imma-
gine•. Questo è quello che ha scritto Teognosto,
esprimendo la propria opinione, mentre prima ave-
va esposto [altre opinioni] a modo di esercizio.

IL PENSIERO DI DIONIGI DI ALESSANDRIA

3. Dionigi, vescovo di Alessandria, scrivendo con-


tro Sabellio e spiegando con molti argomenti il di-
segno dell'incarnazione del Salvatore, in base ad
essa confutava i Sabelliani, [dimostrando] che non il
Padre si fece carne, ma il suo Logos, come disse
Giovanni. Venne però sospettato di dire che il Figlio
è creato e divenuto, e non consostanziale (homoou-
sios) al Padre. Scrive allora al suo omonimo, Dionigi
vescovo di Roma, per difendersi da quella che egli
riteneva una calunnia nei suoi riguardi. [Lo] rassicu-
ra di non aver mai detto che il Figlio è creato, ma
di sostenere che è consostanziale (homootlsios). 4.
Queste sono le sue parole: ·Scrissi pure un'altra let-
tera, dove dimostravo che era falsa l'accusa addotta
contro di me, come se io affermassi che Cristo non
è consostanziale (homootlsios) a Dio. Infatti, anche
se dico che questo termine non si trova mai nelle
Sacre Scritture, tuttavia le argomentazioni da me
addotte - e che essi hanno passato sotto silenzio -
non discordano da questo concetto. Esposi poi il
paragone della generazione umana, che avviene

220
chiaramente all'interno di uno stesso genere (bomo-
gené), dicendo che i genitori sono diversi dai figli
solo per il fatto che essi non sono i figli, altrimenti
non ci potrebbero essere né genitori né figli. 5. Pur-
troppo nelle circostanze in cui mi trovo non posso
esibire la lettera di cui ho parlato; altrimenti ti avrei
mandato il passo in questione o, meglio ancora, una
copia dell'intera lettera. Ma appena potrò, non man-
cherò di farlo. Comunque mi ricordo bene di aver
portato molti esempi di realtà che appartengono
allo stesso genere (syggenfm). Dissi che la pianta
uscita dal seme o dalla radice è diversa da ciò da cui
è germinata, eppure è dello stesso genere. Dissi
anche che il fiume che scorre dalla sorgente acqui-
sta un altro nome: infatti la sorgente non è detta
fiume, né il fiume sorgente, e tuttavia esistono en-
trambi e il fiume è l'acqua che esce dalla sorgente•.

IL PENSIERO DI DIONIGI DI ROMA


26,1. Il grande concilio [di Nicea] ha scritto che il
Logos di Dio non è prodotto né creato, ma genera-
to senza separazione proprio dalla sostanza del
Padre. Ora anche il vescovo di Roma, Dionigi 2, scri-
vendo contro i sabelliani, si sdegna contro [AW 22)
coloro che osano sostenere il contrario e scrive: 2.
•Proseguendo, giustamente dovrei parlare anche con-
tro coloro che dividono, scindono e annullano la
venerabile predicazione della Chiesa di Dio concer-
nente l'unicità divina (monarchia), introducendo tre
potenze e ipostasi separate, e [di conseguenza] tre
divinità. Sono venuto a sapere infatti che alcuni tra i
vostri catechisti e insegnanti della parola divina si
sono fatti portavoce di tale opinione, che è per così

2 Fu vescovo dal 259/60 al 268. Cfr. M. Simonetti, in Enciclopedia det


Papi, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da G. Treccani, voi. I,
Roma 2000, pp. 292-296.

221
dire all'opposto di quella di Sabellio. 3. Costui W'at-
ti bestemmia dicendo che il Figlio è il Padre stesso e
viceversa; quelli invece in un certo senso predicano
tre dèi, dato che dividono la santa monade (monds)
in tre ipostasi estranee l'una all'altra e completamen-
te separate. Infatti è necessario che il Logos divino
sia unito al Dio dell'universo, e lo Spirito Santo deve
stare e dimorare in Dio. È poi necessario assoluta-
mente che la divina triade (trias) si ricapitoli e si rac-
colga in uno (eis héna), come in un vertice, dico il
Dio dell'universo, l'onnipotente. L'insegnamento va-
no di Marcione, che porta alla separazione e alla di-
visione dell'unicità divina (monarchfa) in tre princi-
pi, è una dottrina diabolica, che non appartiene ai
veri discepoli di Cristo, che si compiacciono negli in-
segnamenti del Salvatore. Costoro sanno bene che la
triade è predicata dalla Sacre Scritture, però sia l'An-
tico sia il Nuovo Testamento non parlano mai di tre
dèi. 4. Non meno meritevoli di biasimo sono coloro
che ritengono che il Figlio sia stato fatto, e pensano
che il Signore sia venuto all'esistenza come una delle
cose veramente fatte. Le Sacre Scritture infatti atte-
stano che egli è stato generato, in modo a lui adatto
e conveniente, non che è stato plasmato o fatto.
Affermare dunque che il Signore è stato in qualche
modo fabbricato, non è una bestemmia qualunque,
ma gravissima. Se infatti fu fatto Figlio, ci fu un
tempo in cui non esisteva. Invece Cristo è da sem-
pre, poiché è nel Padre, come egli stesso dice,
essendo Logos, Sapienza e Potenza [di Dio]. Questo
dicono di lui le Sacre Scritture, come ben sapete. Ora
queste potenze appartengono all'essere di Dio. Se
dunque il Figlio è stato fatto, ci fu un tempo in cui
esse non c'erano, e dunque ci fu un momento in cui
Dio era senza di esse, cosa del tutto assurda.
·5. Ma perché mi dilungo con voi su questi argo-
menti, con gente cioè che possiede lo Spirito e cono-
sce bene le assurdità che escono dal ritenere il Figlio

222
un'opera? Ad esse non fanno attenzione, mi pare, i
fautori di questa opinione, i quali perciò sono com-
pletamente fuori della verità e comprendono il passo
Il Signore mi creò principio delle sue vie, diversamen-
te da come vuole la divina e profetica Scrittura. [AW
23) 6. Voi sapete infatti che il significato di creò non
è unico. Qui va inteso nel senso di "porre a capo"
delle opere da lui fatte, cioè fatte per mezzo dello
stesso Figlio. Creò non ha qui lo stesso significato di
fece. "Creare" infatti non è la stessa cosa che "fare" 3•
Nel grande cantico del Deuteronomio, Mosè dice:
Non è questo il padre tuo che ti possedette, ti fece e ti
creò? Allora uno potrebbe dire loro: "O uomini
temerari, può dirsi fatto colui che è generato prima
di ogni creatura, colui che fu generato dal ventre
prima dell'aurora, colui che come Sapienza dice:
Prima di tutti i colli mi ha generato?". E in molti altri
passi delle Sacre Scritture si può trovare che il Figlio
è detto "generato", non "fatto". Dal che si possono
chiaramente confutare coloro che hanno una falsa
idea della generazione del Figlio, e osano dire che
tale divina e ineffabile generazione è una produzio-
ne. 7. Pertanto non bisogna dividere in tre divinità
l'ammirabile e divina monade (monds), né abbassa-
re al rango di produzione la dignità e la sovreminen-
te grandezza del Signore. Bisogna invece credere in
Dio Padre onnipotente e in Cristo Gesù suo Figlio e
nello Spirito Santo. Inoltre [bisogna credere] che il
Logos è unito al Dio dell'universo: Io e il Padre, dice
infatti, siamo uno; e: Io sono nel Padre e il Padre è
in me. In questo modo si salvaguarda sia la santa
triade, sia la santa predicazione dell'unicità divina
(monarchia)•.

3 Qui Dionigi cerca di dare al verbo ktfzetn un significato compatibile


con la fede nella generazione eterna del Figlio. Ciò che egli scarta riso-
lutamente è l'identificazione di ktfzetn con polefn (cfr. Simonetti, Studi,
pp. 30-32).

223
IL PENSIERO DI 0RIGENE

27,1. Che il Logos sussista eternamente con il


Padre e che non sia [dal un'altra sostanza o iposta-
si, ma [progenie] propria di quella del Padre, come
dissero quelli nel concilio, lo potrete anche sentire
dall'infaticabile Origene. Le cose che egli ha scritto
per la ricerca e l'esercitazione, non vanno prese
come pensiero suo proprio, bensì di quelli che, nel
corso della ricerca, entrano in lizza nella discussio-
ne. Quelle cose invece che egli esprime in maniera
definitoria, queste rappresentano il pensiero proprio
dell'infaticabile [maestro].
2. Dopo dunque le cose che egli ha esposto di-
sputando con gli eretici, subito introduce il suo pro-
prio pensiero dicendo così: ·Se Egli è immagine del
Dio invisibile, è un'immagine invisibile. Io anzi ose-
rei aggiungere che, essendo somiglianza del Padre,
non c'è un tempo in cui non esisteva. Quando in-
fatti Dio, che secondo Giovanni è detto "luce" - Dio
infatti è luce - è stato senza lo splendore della pro-
pria gloria, così che si osi affermare che il Figlio,
che prima non esisteva, abbia avuto un inizio (ar-
chèn) del suo esistere? Quando non esisteva il Lo-
gos, che conosce il Padre, ed è l'impronta, l'imma-
gine della sua sostanza (hyp6stasis) indicibile, supe-
riore a ogni nome e ineffabile? Ci rifletta colui che
osa dire: "C'era un tempo in cui il Figlio non esiste-
va''. Questo significa dire che la Sapienza non esi-
steva, il Logos non esisteva, la Vita non esisteva•4• 3.
Di nuovo [AW 24] in un altro luogo dice: •Non è leci-
to né senza pericolo, a motivo della debolezza del .
nostro modo di vedere le cose, privare Dio del Lo-
gos unigenito che è sempre con lui ed è la Sapienza

• Atanasio non dice da dove ha tratto il passo di Origene, ma esso corri-


sponde a I principi, 4,4, 1, conservato solo nella traduzione latina di
Rufino (cfr. GCS, Origenes 5, pp. 349-350; SCh 269, pp. 244-246).

224
nella quale Egli si dilettava; altrimenti bisognerebbe
pensare che non sempre si è dilettato•.

LA FEDE DELl.A CHIESA CATIOLICA

4. Ecco che noi, passando da un padre all'altro,


abbiamo dimostrato [la fondatezza] di questa conce-
zione. Ma voi, o nuovi giudei e discepoli di Caifa,
quali padri adducete a sostegno delle vostre parole?
Certamente nessuno di quelli che sono prudenti e
saggi. Tutti infatti vi respingono, tranne il diavolo.
Solo lui infatti può essere stato il padre della vostra
apostasia, egli che fin dal principio ha seminato in
voi questa cattiva dottrina e ora vi ha persuasi a
oltraggiare il concilio ecumenico, perché ha scritto
non le vostre [parole] ma queste, che ci hanno tra-
smesso coloro che furono testimoni oculari fin dal
principio e divennero servitori del Logos. 5. Infatti
quella fede che il concilio professò per iscritto, que-
sta è la fede della Chiesa cattolica. Per difenderla, i
beati padri così scrissero e condannarono l'eresia
ariana. Soprattutto per questo [gli ariani] cercano di
calunniare il concilio. Infatti non sono le espressio-
ni [usate dal concilio] che li angustiano, ma il fatto
che con tali espressioni sono stati dichiarati eretici e
più sfrontati di ogni altra eresia.

225
VI

SUL TERMINE AGENÉTOS1

ORIGINE FILOSOFICA DEL TERMINE

28,1. In realtà, poiché le espressioncelle da loro


usate furono allora dimostrate inconsistenti e facil-
mente confutate come teologicamente errate, essi
ricorsero al termine "non-divenuto" (agéneton), mu-
tuato dai [filosofi] greci, e con il pretesto di questo
nome hanno di nuovo affermato che il Logos di Dio

1 Agénétos è un aggettivo verbale da gf(g)nomai (=divengo), e significa


•non-soggetto-al-divenire", quindi "non-fatto", "non-divenuto". Nella fi-
losofia greca è applicato al primo principio o ai primi principi, che sono
-non-divenuti•. Ciò che diviene (genet6s), deriva necessariamente da un
principio "non-divenuto". Presso gli autori cristiani, questi termini sono
associati con l'idea di creazione, per cui agénétos viene a significare
"increato" e gerret6s "creato". Questi termini sono spesso confusi con le
parole agénnetos e gennet6s, derivate dal verbo gennaé! (-genero), e
che significano rispettivamente "ingenerato" e "generato". Da qui la con-
fusione che si trova nei manoscritti e anche in alcune edizioni a stam-
pa, tra i termini con una n e quelli con due nn. La confusione divenne
eclatante quando la teologia venne a occuparsi del problema trinita-
rio, soprattutto durante la crisi ariana. Che il Padre fosse agénnetos (in-
generato) nel senso anche di agénétos (increato, non-divenuto), era
ammesso da tutti. E che le creature fossero geneta, cioè "divenute",
•create" (infatti prima di venire all'esistenza non c'erano), anche questo
era un'idea pacifica. Che dire però del Figlio-Logos di Dio? In quanto
Figlio era "generato" (gennet6s); ma, in quanto derivato dal Padre, pote-
va dirsi anche genet6s, cioè "divenuto"? Questo lo sostenevano gli aria-
ni, poiché per loro non vi poteva essere che un solo agén(n)etos, cioè
un solo Dio senza principio e senza divenire. Ma ciò equivaleva a porre
il Figlio come uno dei geneta, cioè delle creature. Da qui gli sforzi per
distinguere il Figlio dagli altri geneta, in quanto egli sarebbe il solo a
essere stato creato direttamente da Dio solo, mentre le altre cose sono
state create mediante il Logos. Questa parte attinge abbondantemente
da Contro gli ariani, 1,30-34 (A.W 1/1, pp. 139-144; PG 26,73-84).

226
- per mezzo del quale sono state fatte le stesse real-
tà divenute - fa parte anch'egli delle cose divenute
e create: talmente essi sono svergognati nell'errore e
quasi bramosi di bestemmiare il Signore!
2. Se dunque sono così svergognati da ignorare [il
significato] di quel termine, avrebbero dovuto ap-
prenderlo da coloro che glielo hanno dato. Costoro
infatti affermano che la Mente (Nofls) procede dal
Bene (.Agath6n) e l'Anima (Psyche) dalla Mente; e
pur conoscendo il principio da cui esse procedono,
tuttavia non esitano a chiamarle "non-divenute" (a-
géneta), sapendo che dicendo ciò non diminuiscono
il Primo [Essere] dal quale anch'esse provengono 2 •
Ora [gli eusebiani] avrebbero dovuto parlare an-
ch'essi così, oppure non parlare proprio di cose che
non sanno. Se poi ritengono di conoscerle, è neces-
sario interrogarli, [AW 25) soprattutto perché quel
termine non si trova nelle Sacre· Scritture ed essi di
nuovo contendono senza una base scritturistica.
3. lo da parte mia ho spiegato la causa e la ragio-
ne per cui il concilio ha usato le espressioni ·dalla
sostanza· (ek tés ousias) e "consostanziale" (homo-
oU5ios) in accordo con quanto la Scrittura dice del
Salvatore; ho esposto inoltre quanto i padri prima di
loro hanno sostenuto e scritto. Adesso tocca a loro
rispondere, se ne sono capaci, come hanno trovato
questo vocabolo non scritturistico o in che senso
dicono che Dio è "non-divenuto" (agénétos).

SIGNIFICATI DEL TERMINE

4. Ho appreso infatti che questo termine ha di-


versi significati. Dicono dunque [i filosofi] che "non-
divenuto" (agénéton) si dice di qualcosa che non è
ancora diventata, ma può diventare; oppure di qual-

2 -Questa è l'unica esplicita allusione al neoplatonismo In Atanasio•


(Meijering, Die dritte Rede, p. 150).

227
cosa che non esiste né può venire all'esistenza;
terzo, indica qualcosa che esiste senza essere diven-
tata e senza aver avuto un inizio al suo esistere,
bensì è eterna e imperitura.
5. Circa i primi due significati, probabilmente essi
sono d'accordo nel tralasciarli per l'assurdo che ne
deriva: infatti secondo il primo significato, le cose
che già sono diventate o aspettano di diventare,
saranno "non-divenute" (agénéta). Il secondo signi-
ficato è ancora più assurdo. Non resta loro che
ricorrere al terzo e prendere "non-divenuto" (agéné-
ton) in conformità a quel significato. Ma anche così
non cessano di essere fuori dalla retta fede.
6. Infatti, se ciò che non ha un inizio nell'essere,
non essendo diventato né creato ma eterno, essi lo
chiamano "non-divenuto" (agénéton), e poi sosten-
gono che il Logos di Dio è il contrario di ciò, chi
non vede l'astuzia di questi nemici di Dio? Chi non
li condannerebbe alla lapidazione per questa loro
insania? Poiché infatti si vergognano di riproporre le
prime frasette delle loro favole, per le quali sono
stati condannati, quegli sventurati hanno pensato di
dire le stesse cose mediante il termine "non-dive-
nuto" (agénéton), come essi dicono. Se infatti il
Figlio fa parte delle cose divenute (genétà), è chia-
ro che anch'egli è stato fatto dal nulla; e se ha avuto
un inizio al suo esistere, prima di essere fatto non
esisteva; e se non è eterno, c'era un tempo in cui
non esisteva.

SOFISMI INCONSISTENTI

29,1. Se questo è il loro nuovo sentire, bisogna-


va dunque segnalare la loro fallace opinione nelle
loro stesse parole e non lasciar coperto il loro mal-
vagio pensiero dietro il termine di "non-divenuto"
(agéneton). Ma non ci riusciranno, quei maligni,
sebbene facciano tutto con astuzia, come fa il dia-

228
volo, loro padre. Come infatti quello cerca di ingan-
nare travestendosi, così costoro hanno escogitato il
vocabolo "non-divenuto" (agénéton), affinché con il
pretesto di parlar bene di Dio, potessero tener
nascosta la loro bestemmia contro il Signore e, così
nascosta, indicarla agli altri. Ma scoperto anche que-
sto loro sofisma, che cos'altro resta loro? Vediamo
cosa dicono.
2. ..Abbiamo trovato!», dicono quei malvagi e, in
aggiunta ai precedenti significati, dicono che ..non-
divenuto (agénéton) è ciò che ha l'essere [AW 26)
senza causa, ma è egli stesso causa dell'esistenza
delle cose divenute». Ingrati e veramente ignoranti
delle Scritture! Fanno e dicono tutto non per onore
di Dio, ma per disonorare il Figlio, ignorando che
chi disprezza il Figlio disprezza anche il Padre.
3. Anzitutto, anche se chiamano Dio così, non
segue che il Logos sia una delle cose divenute (ge-
néta). Essendo progenie della sostanza del Padre,
egli è a sua volta presso di lui eternamente. Questo
nome "non-divenuto" (agénéton) infatti non distrug-
ge la natura del Logos, né di conseguenza è detto in
rapporto al Figlio, ma in rapporto alle cose dive-
nute attraverso il Figlio.
4. Chi chiama l'architetto creatore (démiourg6n)
di una casa o di una città, non include in questo
nome il figlio nato da lui; ma se lo chiama creatore
è a motivo dell'arte e della scienza operativa, indi-
cando che egli stesso è diverso dalle cose da lui
fatte. Chi invece considera la natura dell'architetto,
sa che il figlio da lui generato non è una delle cose
da lui prodotte, e quindi lo chiama padre a motivo
del figlio, mentre rispetto alle opere lo chiama crea-
tore o fabbricatore. Allo stesso modo, chi chiama
Dio "non-divenuto" (agénétos), lo chiama così a par-
tire dalle opere, volendo significare non solo che
Dio non è divenuto, ma che egli ha fatto le cose
divenute. Sa pure che il Logos è altro dalle realtà

229
divenute ed è progenie unica e propria del Padre, e
che per mezzo di lui tutto è stato fatto e sussiste.

INTERPRETARE BENE LE SCRITTURE

30,1. In effetti, quando i profeti chiamavano Dio


·dominatore di tutto•, non lo chiamavano così per-
ché il Logos è una parte di questo •tutto•: sapevano
infatti che il Figlio è diverso dalle cose divenute e
che anch'egli è ·dominatore di tutto• a motivo della
sua uguaglianza con il Padre. Questi dunque domi-
na tutte le cose, fatte mediante il Figlio, e ha dato al
Figlio il potere su di esse, per cui è sempre il Padre
che domina su tutto per mezzo del Logos.
E ancora, quando chiamavano Dio ·Signore delle
potenze•, non dicevano ciò come se il Logos fosse
una di queste potenze, ma perché [Dio] rispetto al
Figlio è Padre, mentre rispetto alle potenze fatte
mediante il Figlio è Signore. 2. E infatti lo stesso
Logos, che è nel Padre, è Signore di tutte queste
[potenze] e domina l'universo: tutto ciò infatti che
ha il Padre è del Figlio.
Se dunque così bisogna intendere, si può pure
dire, se proprio si vuole, che Dio è "non-divenuto"
(agénetos), ma non perché il Logos sia una delle
cose divenute, ma perché Dio, come è stato detto
prima, non solo non è divenuto, ma è egli che ha
fatto divenire le cose mediante il suo proprio Logos.
3. Così, quando nominiamo il Padre, a sua volta
diciamo che il Logos è immagine del Padre e a lui
consostanziale (homooU.Sios). Se è sua immagine, è
diverso da tutte le cose che sono venute all'esisten-
za. Possiede infatti la proprietà e la somiglianza di
Colui di cui è immagine, per cui chi dice che il
Padre è "non-divenuto" (agénetos) e "onnipotente",
vi include anche [AW 27] il suo Logos e Sapienza,
cioè il Figlio.
4. Ma quegli stravaganti e sempre inclini all'ero-

230
pietà, hanno escogitato il termine "non-divenuto"
(agénetos) non preoccupati dell'onore di Dio, ma
del loro perverso pensiero contro la grazia del
Salvatore. Se infatti fosse stato loro a cuore l'onore
e il buon nome di Dio, avrebbero dovuto molto
meglio conoscere e chiamare Dio con il termine di
"Padre", piuttosto che con quell'altro. Infatti, chia-
mando Dio "non-divenuto" (agénetos), lo designano
soltanto come creatore a partire dalle cose divenu-
te, come ho detto prima, al fine di poter chiamare
anche il Figlio creatura, secondo il loro gradimento.
Chi invece chiama Dio con il termine di "Padre", in
esso indica subito anche il Figlio, e non ignorerà
che, essendoci il Figlio, tutte le cose sono state fatte
per mezzo di lui.

•PADRE NOSTRO•

31,1. In conclusione, è meglio e più vero indica-


re Dio a partire dal Figlio e quindi chiamarlo Padre,
piuttosto che nominarlo solo a partire dalle opere e
chiamarlo "non-divenuto" (agénetos). Questo termi-
ne infatti indica le opere che Dio liberamente ha
fatto mediante il Logos. Invece il termine "Padre" fa
conoscere la progenie propria della sua sostanza.
Quanto il Logos differisce dalle cose divenute, al-
trettanto, e ancora di più, dire che Dio è Padre dif-
ferisce dal dirlo "non-divenuto" (agénetos). 2. Que-
sto termine, non scritturistico e ambiguo, ha un si-
gnificato vario, mentre l'altro è semplice, scritturisti-
co, più vero, perché si riferisce solo al Figlio.
Il termine "non-divenuto" (agéneton) è stato tro-
vato dai [filosofi] greci, che non conoscono il Figlio,
mentre il termine "Padre" ci è stato fatto conoscere
benevolmente dal Signore nostro. Egli infatti, sapen-
do di chi è Figlio, diceva: Io sono nel Padre e il
Padre è in me; e: Chi ha visto me, ha visto il Padre;
e: Io e il Padre siamo uno. Mai lo vediamo chiama-

231
re il Padre "non-divenuto" (agénetos), e anche quan-
do ci ha insegnato a pregare non ha detto: •Quando
pregate, dite: "Dio non-divenuto'\ ma invece: Quan-
do pregate, dite: Padre nostro, che sei nei cieli.
3. Egli poi ha voluto che il punto principale della
nostra fede mirasse proprio a questo: infatti ci ha
comandato di battezzare non nel nome del "non-
divenuto" (agénetos) e del "divenuto" (genet6s), né
nel nome dell'"increato" e del "creato'', ma nel nome
del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Così bat-
tezzati anche noi diventiamo figli [di Dio] veramen-
te, e dicendo il nome del Padre riconosciamo da
questo nome anche il Logos che è nel Padre.
4. Se poi [il Figlio] vuole che noi chiamiamo
•Padre nostro• il suo proprio Padre, questo non si-
gnifica che dobbiamo equipararci al Figlio secondo
la natura. Infatti noi diciamo questo per mezzo suo.
Poiché il Logos ha portato il nostro corpo ed è
venuto in noi, di conseguenza Dio è detto anche
Padre nostro, a motivo del Logos che è in noi. Infatti
lo Spirito del Logos, che è in noi, attraverso di noi
chiama il suo proprio Padre come nostro. Questo
intende affermare l'Apostolo quando dice: Dio ha
mandato lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori, il
quale grida: Abbà, Padre!

LE PAROLE VANNO USATE CORRETIAMENTE

[AW 28) 32, 1. Ma forse quelli, confutati sul termi-


ne "non-divenuto" (agéneton), secondo il loro mo-
do malvagio vorranno anch'essi dire: ·Circa il Signo-
re e Salvatore nostro Gesù Cristo bisognava usare
solo le parole contenute nelle Scritture, è non intro-
durre termini non scritturistici». Sì, sono d'accordo
anch'io: gli argomenti della verità sono più esatti se
presi dalle Scritture che non da altre parti. Tuttavia
la malvagità e l'empietà degli eusebiani, capaci di
mascherarsi con astuzia, costrinsero i vescovi, come

232
ho detto più sopra, a esporre nel modo più chiaro
le parole atte a confutare la loro empietà.
2. Abbiamo già dimostrato che le cose scritte dal
concilio hanno un significato corretto, mentre gli
ariani sono apparsi inconsistenti nelle loro parole e
malvagi nel loro modo di fare. Anche il termine
"non-divenuto" (agénéton), che ha un suo significa-
to e può essere usato correttamente, essi di nuovo
lo hanno preso come hanno voluto, secondo il loro
proposito di oltraggiare il Salvatore, bramosi solo,
come i giganti, di combattere contro Dio.
3. Non evitarono la condanna, a motivo delle
espressioni da loro proposte, né sono riusciti a
nascondersi dietro il termine "non-divenuto" (agé-
néton), che può essere usato in modo teologica-
mente corretto, ma che essi però hanno distorto.
Così furono svergognati in tutto, e la loro eresia fu
proscritta dappertutto.

233
CONCLUSIONE

4. Ho esposto queste cose come ho potuto, sul


ricordo di ciò che si è svolto allora al concilio. So
però che questi amanti della contesa e nemici di
Cristo non saranno convinti a cambiare da queste
mie parole, ma si affretteranno a cercare di nuovo
altri pretesti e poi altri ancora. Se è vero il detto pro-
fetico: Può cambiare l'Etiope la sua pelle o il leo-
pardo le sue chiazze?, allora è possibile che chi si
è fatto discepolo dell'eresia voglia mettersi a pen-
sare secondo verità.
5. Quanto a te, carissimo, ricevi questo scritto per
la tua personale lettura e, se ritieni che sia bene, leg-
gilo anche ai fratelli che erano presenti alla discus-
sione. In questo modo anch'essi, così istruiti, po-
tranno comprendere la preoccupazione del concilio
di difendere la verità e di esporla in modo esatto, e
potranno condannare la temerità degli ariani, nemici
di Cristo, e i loro vani pretesti, che essi a motivo
della loro empia eresia hanno escogitato in se stessi.
A Dio Padre sia gloria, onore e adorazione, assie-
me al suo coeterno Figlio e Logos, e con il santissi-
mo e vivificante Spirito, ora e per gli infiniti secoli
dei secoli. Amen.

234
LETTERA DI EUSEBIO DI CESAREA
AI [FEDELI] DELLA SUA DIOCESI

33, 1. Le questioni concernenti la fede della


Chiesa trattate nel grande concilio riunito a Nicea
saranno certamente giunte a vostra conoscenza, ca-
rissimi, anche da altre fonti, [AW 29) dal momento
che la fama suole precedere l'esatta relazione dei
fatti. Ma affinché questo "sentito dire" non finisca
per annunciarvi una verità alterata, abbiamo ritenu-
to necessario mandarvi prima il documento da noi
esposto riguardo alla fede, quindi il secondo [docu-
mento] che quelli hanno pubblicato, dopo aver inse-
rito delle aggiunte alle nostre parole 1 .
2. Ecco dunque il nostro testo, letto alla presen-
za del nostro devotissimo imperatore, e giudicato
retto e degno di approvazione:
3. •Quella fede che abbiamo ricevuto dai vescovi
nostri predecessori, sia nella prima catechesi e sia
quando siamo stati battezzati; quella fede che abbia-
mo appreso dalle Sacre Scritture; quella fede che ab-
biamo professata e insegnata sia nel presbiterato e

1 Da questo passo non è molto chiaro il rapporto che esiste tra i due
documenti. Secondo un'opinione abbastanza comune, Eusebio avrebbe
proposto il simbolo di fede della sua Chiesa come base di discussione;
esso sarebbe stato accettato, ma con l'aggiunta di alcune affermazioni
chiaramente antiariane (cfr. Simonetti, La crisi ariana, pp. 83-84). Oggi
però l'interpretazione più accreditata è quella che vede nella professio-
ne di fede letta da Eusebio un'attestazione di ortodossia, dato che su di
lui pendava la minaccia di scomunica inflittagli alcuni mesi prima dal
sinodo di Antiochia. La formula prodotta a Nicea non sarebbe perciò il
simbolo di Cesarea ritoccato, ma un nuovo testo (cfr. Kelly, I simboli,
pp. 221-224).

235
sia nello stesso episcopato, questa fede, che è la no-
stra attuale, la proponiamo anche a voi. Essa dice2:
4. "Noi crediamo in un solo Dio, Padre onnipo-
tente, creatore di tutte le cose, visibili e invisibili; e
in un solo Signore, Gesù Cristo, Logos di Dio, Dio
da Dio, luce da luce, vita da vita, Figlio unigenito,
primogenito di tutta la creazione, generato dal
Padre prima di tutti i secoli, per mezzo del quale
tutto è stato fatto. Per la nostra salvezza si è incar-
nato, è vissuto tra gli uomini, ha sofferto, è risorto il
terzo giorno, è salito al Padre e verrà di nuovo nella
gloria per giudicare i vivi e i morti. Crediamo anche
in un solo Spirito Santo.
5. Crediamo che ciascuno di questi [tre] sia e sus-
sista, [e cioè] che il Padre è veramente Padre, il
Figlio veramente Figlio e lo Spirito Santo veramente
Spirito Santo3, come il Signore nostro, mandando per
la predicazione i suoi discepoli, disse: Andate e am-
maestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del
Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Attestiamo
che le cose sono veramente così e che così pensia-
mo, come sempre abbiamo ritenuto, e che fino alla
morte difenderemo questa fede, dichiarando anate-
ma ogni eresia negatrice di Dio.
6. Attestiamo in verità, al cospetto di Dio onnipo-
tente e del Signore nostro Gesù Cristo, di avere sem-
pre professato queste cose dal profondo del cuore
e dell'anima, fin dal momento in cui conosciamo
noi stessi, e di pensarlo e professarlo anche ora,
potendo mostrarvi con prove e persuadervi che an-

• Questa è la più antica formula di fede battesimale di una Chiesa orien-


tale a noi giunta. Verosimilmente era la formula in uso nella Chiesa di
Cesarea (cfr. Kelly, I simboli, pp. 179-181).
3 Cf. Asterio, fr. 60 (Vinzent, p. 120). Stranamente Eusebio non usa qui il
termine "ipostasi", forse per non urtare la corrente monarchiana (Mar-
cello di Ancira). Un testo simile, ma con la chiara affermazione delle
"tre ipostasi", si legge nella professione di fede di Antiochia del 341 (cfr.
Simonetti, Il Cristo, pp. 130, 2-11).

236
che nei tempi passati abbiamo creduto e predicato
nello stesso modo"•,
7. Dopo che noi esponemmo questa fede, non ci
fu nessuna obiezione, ma lo stesso devotissimo no-
stro imperatore per primo attestò che essa conte-
neva cose rettissime. Inoltre affermò che quella era
pure la sua fede, e raccomandava a tutti di darvi il
loro assenso, di sottoscrivere gli insegnamenti ivi
contenuti e conformarsi ad essi. Disse che bisogna-
va aggiungervi soltanto il termine "consostanziale"
(homoo'l1sios), che egli stesso spiegò così: "[Il Figlio]
non deve essere detto "consostanziale" (bomoo'l1sios)
secondo quanto avviene nelle realtà corporee, come
se egli esistesse in seguito a una divisione o separa-
zione dal Padre. Infatti la natura [divina], che è im-
materiale, spirituale e incorporea, non può sottosta-
re a un qualche mutamento corporeo, ma tali realtà
vanno pensate con concetti divini e ineffabili». Così
espresse il suo pensiero il sapientissimo e religiosis-
simo nostro imperatore4• Invece quelli, col pretesto
dell'aggiunta del termine "consostanziale" (bomoou-
sios), composero questo documento:
[AW 30] 8. •Noi crediamo in un solo Dio, Padre
onnipotente, creatore di tutte le cose, visibili e invi-
sibili; e in un solo Signore, Gesù Cristo, il Figlio di
Dio, generato unigenito dal Padre, cioè dalla sostan-
za (ek tés ousias) del Padre, Dio da Dio, luce da
luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato,
consostanziale (bomoo'l1sion) al Padre; per mezzo di
lui tutto è stato fatto, le cose nel cielo e quelle nella
terra; per noi uomini e per la nostra salvezza è
disceso e si è incarnato, facendosi uomo; ha soffer-
to ed è risorto il terzo giorno, è salito ai cieli e verrà
per giudicare i vivi e i morti. E [crediamo] nello
Spirito Santo.

~ Questo intervento di Costantino appare determinante nello svolgimen-


to del concilio.

237
Coloro che dicono, riguardo al Figlio di Dio, che
c'era un tempo in cui non esisteva e che prima di
essere generato non c'era, e che fu fatto dal nulla,
ovvero dicono che è da un'altra ipostasi o sostanza5,
che è creato, o mutevole o soggetto a cambiamen-
to, costoro anatematizza la Chiesa cattolica e apo-
stolica•.
9. Dopo che essi ebbero formulato questo docu-
mento, che cosa intendessero dire con le espressio-
ni "dalla sostanza del Padre" e "consostanziale (bo-
mootlsios) al Padre", non glielo lasciammo passare
senza averlo sottoposto a esame. Ci fu allora uno
scambio di domande e risposte, e tale dibattito mise
al vaglio il senso di quelle parole. Essi furono d'ac-
cordo nello spiegare che "dalla sostanza" significa
che [il Figlio] è "dal Padre", ma non come una parte
del Padre.
10. A questa spiegazione parve bene anche a noi
acconsentire, poiché appunto la retta dottrina inse-
gna che il Figlio è ·dal Padre•, ma non è una parte
della sua sostanza. Perciò anche noi approvammo
quella spiegazione e non ricusammo il termine "con-
sostanziale" (bomootlsios), avendo davanti agli occhi
il fine di mantenere la pace e di non deviare dalla
retta dottrina.
11. Allo stesso modo accettammo anche le paro-
le •generato, non creato•, perché, come si disse,
"creato" è denominazione comune delle altre crea-
ture, fatte mediante il Figlio e con le quali il Figlio
non ha nulla di simile; perciò Egli non è una crea-
tura somigliante a quelle fatte per mezzo di lui, ma

' Il Concilio intende qui hypéstasis e ousia come sinonimi, ma non affer-
ma esplicitamente che in Dio vi è una sola hypéstasis o una sola ousia,
come ha inteso Loofs, vedendovi un influsso della teologia occidentale
(cfr. Skarsaune, A Neg/ected, pp. 47-48). Il problema qui toccato è l'ori-
gine del Figlio. Il concilio lascia cosl irrisolta la questione terminologi-
ca trinitaria, che solo con fatica sarà chiarita dalla successiva riflessione.
Ricordiamo che hyp6stasis è un termine biblico già usato in un conte-
sto trinitario (cfr. Eb 1,3).

238
possiede una sostanza (ousfa) superiore a ogni crea-
tura, generata dal Padre, come insegnano le Sacre
Scritture, anche se il modo della generazione rima-
ne indicibile e inspiegabile per ogni natura creata.
12. Parimenti la discussione ha messo in chiaro
che il Figlio è "consostanziale (bomoousios) al Pa-
dre" non al modo delle realtà corporee né come
avviene negli esseri dotati di vita mortale; dunque
non per divisione di sostanza né per separazione, e
neppure per qualche affezione o mutamento o cam-
biamento della sostanza e della potenza del Padre.
Infatti la natura "non-soggetta-a-divenire" (agéne-
ton) del Padre è estranea a tutto ciò.
13. Invece l'espressione "consostanziale (bomo-
otlsios) al Padre" indica che il Figlio di Dio non ha
nessuna somiglianza con le creature divenute (gene-
td), mentre è perfettamente somigliante al solo Pa-
dre che l'ha generato; non è dunque da un'altra
ipostasi o sostanza, ma dal Padre. A questa spiega-
zione ci parve bene acconsentire, tanto più che ci
consta che alcuni degli antichi vescovi e scrittori -
persone dotte e illustri - nelle loro riflessioni teolo-
giche sul Padre e sul Figlio hanno usato il termine
"consostanziale" (bomootlsios).
14. Ecco dunque quanto riguarda la formula di
fede, che tutti approvammo, non senza un attento
esame, ma secondo quelle spiegazioni che furono
date alla presenza dello stesso devotissimo impera-
tore e alle quali acconsentimmo nei termini sopra
esposti.
15. Quanto poi all'anatematismo da essi posto
dopo la formula di fede, lo ritenemmo privo di
inconvenienti, fAW 31] dal momento che esso vieta
solo di usare termini non scritturistici, per i quali
forse si è avuto tutto questo scompiglio e sconvolgi-
mento nella Chiesa. Poiché dunque la Scrittura, divi-
namente ispirata, non usa mai le espressioni ·dal nul-
la· o •c'era un tempo in cui non esisteva• e quelle che

239
vengono di seguito, parve bene di evitare di dirle e
di insegnarle. Questo ragionamento ci parve giusto e
fu da noi approvato, tanto più che nel passato non
ci era mai capitato di usare quelle espressioni.
16. Anche la condanna della frase "prima di esse-
re generato non esisteva", non fu giudicata insensa-
ta, dal momento che tutti erano d'accordo sul fatto
che il Figlio di Dio esiste prima della sua nascita
secondo la carne. Inoltre il nostro devotissimo im-
peratore fece un bel discorso, dimostrando che [il
Figlio] anche secondo la sua generazione divina è
prima di tutti i secoli: infatti, prima di essere gene-
rato in atto, era nel Padre in potenza, in maniera
agenerata. Per cui si può dire che il Padre è sempre
Padre, così come è sempre Re e sempre Salvatore,
essendo tutto ciò in potenza, ed essendo sempre il
medesimo sotto tutti gli aspetti6•
17. Abbiamo ritenuto necessario, o carissimi,
mandarvi questo scritto, per mostrarvi con quanta
ponderatezza abbiamo esaminato e approvato [la
nuova formula di fede], e come giustamente dappri-
ma ci siamo opposti fino all'ultimo, allorché ci ur-
tammo con un testo formulato diversamente, e come
in seguito abbiamo accettato con disponibilità [quel-
le aggiunte] per le quali non ponemmo obiezioni,
allorché, chiedendo ragionevoli spiegazioni, queste
ci parvero concordare pienamente con quanto era
stato professato da noi nella nostra formula di fede.

6 Eusebio mette sulla bocca di Costantino una spiegazione che certamen-


te non corrisponde al pensiero del concilio (cfr. Simonetti, Il Cristo, pp.
556-557).

240
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245
INDICE

Prefazione di Giuliano Vigini . . .......... pag. 5


Introduzione ................... . 11
Parte I
TRADIZIONE APOSTOLICA
di Pseudo-Ippolito
1. Prologo . 95
2. I vescovi ........ . 96
3. Preghiera di consacrazione
di un vescovo ........... . 97
4. L'offerta .. 99
5. (Offerta dell'olio) . . ....... . 102
6. (Offerta del fonnaggio e delle olive) . 102
7. I sacerdoti ............. . 102
8. I diaconi 103
9. I confessori 105
10. Le vedove . 106
11. Il lettore . 106
12. La vergine 106
13. Il suddiacono ..... 106
14. I doni di guarigione 107
15. Coloro che si accostano
per la prima volta alla fede 107
16. Mestieri e professioni ... ·... 108
17. Durata dell'istruzione dopo l'esame
dei mestieri e delle professioni . 110
18. La preghiera di coloro che
ricevono l'istruzione . 110
19. L'imposizione delle mani sui catecumeni 110
20. Coloro che riceveranno il battesimo 111
21. Rito di amministrazione del santo battesimo ... 112
22. La comunione 117
23. Il digiuno .. 118
24. I doni ai malati . . . .. 118
25. Introduzione della lucerna
durante la cena della comunità 118

247
26. Il pasto comune . . . .. .. . . . . . . . .. . .. . . . . .. . . . . . . . . . .. . . . . . . . . 120
27. I catecumeni non devono
mangiare con i fedeli . . . .. . . . . . .. . .. . . . . .. . . .. .. .. . . .. .. .. 120
28. Bisogna mangiare con disciplina
e con moderazione .. .. . . . . . . . . . . . . . . . .. . . .. . . . .. .. . .. . .. 120
29. Bisogna mangiare rendendo grazie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 121
30. Il pasto delle vedove . . . .. . .. . . . . . . . . . .. . . . . . . .. . . . . . . . .. . 121
31. I frutti da offrire al vescovo . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . .. .. . . . . 122
32. Benedizione dei frutti .. .. . .. . .. . . . .. .. . .. .. . . .. . . . . . .. . .. . 122
33. Non si deve prendere nulla a Pasqua
prima dell'ora in cui si può mangiare.................. 122
34. I diaconi devono stare
assiduamente col vescovo . . . .. . .. . . . . . . . .. .. .. . .. . .. . . . .. 123
35. Il momento della preghiera .. . . .. . . . . . . .. . .. . . . . . . . . . . .. 123
36. Bisogna accostarsi all'Eucarestia
quando si fa lofferta prima
di prendere qualche altra cosa . . . . .. .. . . . . . . . . . .. . . . . . . . 124
37. Bisogna conservare con cura l'Eucarestia .. . . . . . . . . . . . 124
38. Niente deve cadere dal calice .. . . . . . . .. . . .. . .. . . . . . . .. .. 124
39. I diaconi e i presbiteri .. .. . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . .. .. .. . . 124
40. I luoghi della sepoltura . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . 125
41. I tempi della preghiera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . 125
42. Il segno della croce . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 128
43. Conclusione . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 129
Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 130
Parte II
IL CREDO DI NICEA
di Atanasio
Introduzione ....................................................... 141
IL CONCLIO DI NICEA (325) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141
Verso un concilio generale ............... : . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141
L'inaugurazione del Concilio ................................... 143
La dottrina di Ario e degli ariani .............................. 144
Lo svolgimento del Concilio .................................. 148
1. /,a. testimonianza del Concilio .......................... 148
2. /,a. testimonianza di Eusebio di Cesarea .............. 149
3. /,a. testimonianza di Atanasio . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 150
4. Il dopo Concilio (325-360) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 152

IL DE DECRE17S DI ATANASIO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 157


Occasione, importanza e contenuto
dello scritto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 157
Data di composizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . 158
Il destinatario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 162
I personaggi ariani o ftloariani nominati nel DD . . . . . . . . . . 164
1. Ario .......................................................... 164
2. Asterio il Sofista .......................................... . 164
3. Eusebio di Nicomedia . . .. .. .. ......... . 165
4. Eusebio di Cesarea ...................................... . 165
5. Acacio di Cesarea .. . .. . . . .. .. .. . .. .. .. ........ .. 166
La struttura del DD ............................................. . 167
La teologia atanasiana del DD .............................. .. 167
1. Il problema del linguaggio teologico .................. . 167
2. Ci può essere •generazione·
senza un ·divenire·? ......................... .. 169
3. La spiegazione atanasiana
dellhomoousios niceno 170
4. L'edizione di H.G. Opi.tz 172
Introduzione . . . . . . . . .. . .. . . ........................ . 174
OCCASIONE DELLO SCRITTO 174
IL PRETISJ'O ADDOTIO DAGLI ARIANI ........................ .. 174
IL VERO MOVENTE DEGLI ARIANI:
NEGARE LA DMNITÀ DI CRISTO ............................ . 175
INCAPACI DI RAGIONARE, GLI ARIANI RICORRONO
AL POTERE IMPERIALE .. . .. .. ............................... . 176

I IL COMPORTAMENTO DEGLI EUSEBIANI A NICEA ................ . 178


Impugnare il Concilio è segno
di ignoranza e di malafede ........................... .. 178
Il comportamento degli ariani a Nicea .................. . 179
Il comportamento di Eusebio di Cesarea ..... . 179
Quelli che si oppongono al Concilio
ecumenico sono falsi maestri ......................... . 180
La continuità della tradizione ................. . 181
Condotta instabile degli ariani ........................... .. 182
Il BREVE CONFUTAZIONE DELL'ARIANESIMO ................. . 184
Le tesi ariane sul Figlio .. . ..................... . 184
Il duplice significato di "figlio":
per elezione e per natura . . ........................ .. 185
Interpretazione ariana di "Unigenito" ....... . 187
Il Logos non è intermediario 188
Adamo, creato per primo, non ha
una natura diversa dagli altri uomini ................ . 190
Il Figlio non è creato . . . .. . .. ............... .. 191
La differenza tra la generazione del Figlio
e quella dei credenti ............. .. 192
Figlio per natura . . . . .. . . . .. .. .............. . 192
Distingure a seconda dei soggetti ............. . 193
La generazione divina non è
come quella umana . . . . . .. ............ . 194
La generazione del Figlio è eterna ..................... .. 195
L'errata interpretazione di Proverbi 8, 22 ............... . 196
Proverbi 8, 22 si riferisce all'incarnazione . . . . . . . . . . . . . . . 198

III IL VERO INSEGNAMENTO DELLE SACRE SCRfITURE . . . . • . . . . . . . • . . 200


Il Figlio è Logos e Sapienza propria del Padre . . . . . . . . . 200
Logos e Sapienza non sono
appellativi del Figlio .. .. .. . .. .. . . .. .. .. .. . .. . .. .. .. .. .. .. 201
Il Logos di Dio è unico . . . . .. .. .. . .. . .. .. . .. .. .. .. .. .. .. . .. . 202
La verità insegnata dalle Scritture .. .. .. . .. .. .. .. . . . . .. . .. . 203

IV PERCHÉ A NICEA FURONO INTRODOTTE


DELLE NUOVE ESPRESSIONI .. . .. .. .. .. .. .. .. . . .. . .. . • .. .. .. • .. .. . 206
Difesa del Concilio di Nicea .. .. .. .. .. .. .. .. . .. . . . . . . .. . .. 206
Perché il Concilio ha definito il Figlio
·dalla sostanza del Padre· .. . .. . .. .. .. .. . .. .. .. .. .. .. .. .. 208
Perchè il Concilio ha definito il Figlio
•consostanziale- al Padre .. .. . .. .. .. . .. .. .. . .. .. . .. .. .. .. 210
Non è solo questione di parole .. .. .. .. . .. . .. .. . . .. .. . .. . . 212
Il vero pensiero delle Sacre Scritture . .. .. .. .. .. .. .. . .. .. . 213
Dio si identifica con la sua
incomprensibile essenza ................................ 214
Il Logos è vero Figlio del Padre per natura .. . .. .. .. .. .. 215
Le immagini sensibile vanno comprese
in modo intelligente .. .. .. .. .. . .. . .. .. .. .. .. .. .. .. . .. . .. . 216
L'unità sostanziale del Padre e del Figlio .. .. .. . .. .. . .. .. 217

V LA TESTIMONIANZA DELLA TRADIZIONE • .. .. .. . .. • .. .. • .. .. .. • .. . 219


Il pensiero di Teognosto .. . .. .. .. .. .. .. .. .. . .. .. .. . .. .. .. . .. 219
Il pensiero di Dionigi di Alessandria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 220
Il pensiero di Dionigi di Roma ............................ 221
Il pensiero di Origene .. .. . .. .. .. . .. . .. . .. . .. .. .. .. . .. . .. . .. 224
La fede della Chiesa cattolica . .. .. . .. . .. . .. .. .. .. . .. .. .. . .. 225

VI SUL TERMINE AG/JNtToS . .. .. .. .. .. .. .. . • .. • .. .. .. .. • .. .. • .. .. . .. . 226


Origine filosofica del termine .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. . .. .. . . . 226
Significati del termine .. . . . . .. . .. .. .. .. . . . . .. .. . .. .. . .. . . . .. . 227
Sofismi inconsistenti .. .. . .. . .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. . .. .. .. . .. . 228
Interpretare bene le Scritture .. .. . .. . .. . .. .. . .. .. . .. .. .. .. . 230
·Padre nostro• . . . . . . .. . .. .. .. . .. .. . . .. .. .. .. .. .. .. . .. .. .. .. . .. . 231
Le parole vanno usate correttamente .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. 232

Conclusione . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . .. .. . .. . . . . . . . .. .. . .. . . . .. . . . . . .. 234
Lettera di Eusebio di Cesarea
ai [fedeli] della sua diocesi .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. . 235
Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . .. . . . . . . . . . .. . . . .. . . .. . 241
Sigle ................................................................ 247