Errori e Bugie Sulla Storia Di Napoli
Errori e Bugie Sulla Storia Di Napoli
Errori e Bugie Sulla Storia Di Napoli
ERRORI E BUGIE
SULLA STORIA DI NAPOLI
1
Prefazione
3
Capitolo 1
5
cuni addirittura dal titolo la Città dei sangui,
ignorando che in italiano la parola sangue
non possiede il plurale. Alcuni mesi fa mi so-
no personalmente messo alla ricerca di una
di queste ampolle, per cui ho cominciato a
chiedere a tutti coloro che ne avevano parlato
nei loro scritti, il nome di almeno una fami-
glia che le possedesse. Oltre ai tre famosi na-
poletanisti citati all’inizio mi sono rivolto
senza esito a Pietro Treccagnoli, Paolo Jorio,
Marino Niola ed a molti altri, arrivando alla
conclusione che trattasi di una leggenda me-
tropolitana, priva di alcun fondamento stori-
Fig. 2 - Aurelio De Rose co. Tutti hanno candidamente dichiarato che
avevano riportato la notizia semplicemente
perché altri la avevano riferita.
E rimanendo in campo ematologico segnaliamo che nella cappella destra della
navata della chiesa dedicata a San Gennaro (fig. 5), posta sulla Domiziana nel comu-
ne di Pozzuoli, si venera la pietra sulla quale, secondo la tradizione, è stato decapita-
to il santo, la quale attira numerosi fedeli da ogni dove e in qualsiasi periodo dell’an-
no, poiché nei giorni che precedono l’anniversario della sua decapitazione le presun-
te tracce di sangue appartenenti al santo assumono ogni giorno di più un colore rosso
rubino, mentre durante tutto il resto dell’anno la pietra è nera. Secondo studi recenti
si è però dimostrato in maniera incontrovertibile che la pietra è in realtà il frammen-
to di un altare pa-
leocristiano di
due secoli poste-
riore alla morte
del martire sul
quale si sono de-
positate tracce di
vernice rossa e di
cera e che il tutto
è solo frutto di
una suggestione
collettiva.
Se ci portiamo
ora in ambito arti-
stico le boiate au-
mentano conside-
revolmente, per- Fig. 3 - Pietro Gargano
6
ché la fonte di tutti i napo-
letanisti, professionisti e di-
lettanti, è il De Dominici,
biografo settecentesco, do-
tato di un acuto occhio con
il quale sa discernere un
pittore dall’altro, ma nello
stesso tempo dotato di una
fervida fantasia, con la qua-
Fig. 4 - Culto di S. Patrizia le condisce di particolari
del tutto inventati la vita
dei protagonisti del suo libro: Vita dei pittori, scultori ed architetti napoletani, pub-
blicato in tre tomi tra il 1742 ed il 1745. Il caso più eclatante è senza dubbio quello
di Diana De Rosa (fig. 6), la famigerata Annella di Massimo, moglie del pittore Ago-
stino Beltrano e pittrice anch’ella, nell’ambito della scuola stanzionesca. Diana era
la sorella maggiore di Pacecco De Rosa (non la nipote come spesso riferito) e, se-
condo il celebre biografo, allieva dello Stanzione «cara al maestro come collabora-
trice in pittura e, per la sua bellezza, come modella». Anche le sue sorelle Lucrezia e
Maria Grazia, la quale sposò Juan Do, un altro artista, erano molto belle e con Diana
furono soprannominate le «tre Grazie napoletane», vezzeggiativo che fu poi eredita-
to dalle tre figlie di Maria Grazia, anch’esse bellissime. Pur se citata dalle fonti e re-
sa famosa dall’aneddoto sulla sua morte violenta, «Annella» è a tutt’oggi «una pit-
trice senza opere» che possano esserle attribuite con certezza. Sicuri sono soltanto i
dati anagrafici, 1602-1643, resi noti dal Prota Giurleo. 1\Il De Dominici ciarlava che
Annella, allieva di Massimo Stanzione, fosse la pupilla del maestro, il quale si reca-
va spesso da lei, anche in
assenza del marito per con-
trollare i suoi lavori e per
elogiarla. Una serva della
pittrice, che più volte era
stata redarguita dalla pa-
drona per la sua impudici-
zia, incollerita da ciò,
avrebbe riferito, ingigan-
tendone i dettagli, della be-
nevolenza dimostrata dal
«Cavaliere» verso la disce-
pola, scatenando la gelosia
di Agostino, il marito, il
quale accecato dall’ira,
sguainata la spada, spieta- Fig. 5 - Chiesa di San Gennaro alla Solfatara
7
Fig. 6 - Annella De Rosa
8
ritornare all’antico toponimo di via Vo-
mero Vecchio. Nonostante questa realtà
di dati non vi è scrittore di storia napole-
tana che non ci racconti la sua fine vio-
lenta, un vero e proprio femminicidio an-
te litteram, oggi tanto di moda.
Passiamo a Mattia Preti (fig. 7), il fa-
moso cavaliere calabrese, uno dei giganti
Fig. 9 - Sfogliatella riccia napoletana della pittura italiana ed ascoltiamo il rac-
conto del De Dominici, ripreso in tutti i
libri su Napoli:” Siamo nel 1656, nel pie-
no infuriare della peste, il pittore si presenta ad una delle porte di accesso della città
e, qualificatosi come sommo artista, chiede di poter entrare, ma riceve un diniego da
parte del comandante del picchetto di guardia. Senza scomporsi il Preti estrae lo sti-
letto e trafigge l’interlocutore, al che, i soldati spaventati da tanto ardire, gli cedono
il passo e l’ingresso entro le mura. Scatta in breve una condanna a morte con la pos-
sibilità di commutare la pena nell’esecuzione di una importante committenza: affre-
scare le sette porte della città con dei giganteschi ex voto di ringraziamento (fig. 8)
per la cessazione della peste, che saranno eseguiti in maniera magistrale, ma non
certo dopo aver patteggiato la pena, perché il Preti, come ha dimostrato in maniera
inconfutabile Spike, uno studioso americano, massimo esperto dell’artista, che ha
reperito alcuni documenti che attestano che il Preti risiedeva a Napoli già nel 1653,
tre anni prima che infuriasse la peste!!! E passiamo ora a raccontare la vera storia
della sfogliatella (fig. 9), ben diversa da quella descritta in tutti i libri su Napoli. La
cucina napoletana è una delle più famose del mondo con alcuni piatti come gli spa-
ghetti al pomodoro e la pizza che rappresentano un simbolo della gastronomia italia-
na all’estero. Meno gloriosa la pasticceria, ma con le dovute eccezioni, perché alcu-
ni dolci sono molto conosciuti ed
apprezzati come il sanguinaccio, la
pastiera, gli struffoli, le zeppole di
San Giuseppe e la sfogliatella. Me-
no noti, ma non meno saporiti: il
casatiello, i taralli, il babà, i mo-
staccioli, i biscotti all’amarena, la
pasta reale, la coviglia al caffè, i
croccanti, la pizza di amarena e
crema. Nel Seicento andavano di
moda tanti piccoli dolcetti, come
quelli puntigliosamente descritti
nei quadri di natura morta da Giu-
seppe Recco (fig. 10) o da Tomma- Fig. 10 - Giuseppe Recco
9
so Realfonso (fig. 11), infarciti di
miele e di marmellate, da mangiare
letteralmente con gli occhi prima
che con la bocca, tanta era la cura
nel prepararli e la gentilezza nell’of-
frirli. I pittori napoletani erano abili
quando rappresentavano fiori o frut-
ta nel renderla talmente somigliante
all’originale che, senza esagerazio-
Fig. 11 - Tommaso Realfonso ne, si poteva percepire l’odore ed il
sapore, per cui raffigurando dolci e
dolcetti ed avvicinandosi alla tela al-
l’osservatore veniva letteralmente l’acquolina in bocca. Erano la gioia dei salotti
della nobiltà e della borghesia, ma non mancavano nei monasteri più a la page della
città, affollati da fanciulle provenienti dalle famiglie più altolocate della nobiltà, che
alternavano la preghiera ed il raccoglimento alle delizie del palato, gustando dolci,
senza trascurare rosolio, nocillo ed effervescenti bevande zuccherate. lo testimonia-
no i documenti di pagamento che zelanti ricercatori, un po’ ficcanaso, hanno reperito
nell’archivio del Banco di Napoli (fig. 12). Tra i dolci partenopei il più famoso è cer-
tamente la sfogliatella della quale esistono tre tipi: riccia, frolla e la santa rosa. Tutte
hanno un ripieno identico e tre involucri e fogge diverse, le ricce a forma di conchi-
glia rivestite da un nastro di pasta sfoglia, tonde e morbide le frolle, più grandi ed ar-
ricchite di crema e confettura di amarene le S. rosa. Molti credono che la sfogliatella
nasca in ambiente monastico e precisamente in un convento di conca dei Marini sul-
la costiera amalfitana, in torno al XV-XV secolo, frutto dell’abilità culinaria di una
sconosciuta monachella, ma se indaghiamo la storia dei principali monasteri napole-
tani, da Santa Chiara (fig. 13) alla Croce di Lucca (fig. 14), scopriremmo che tutti ri-
tengono che il famoso dolce
sia nato nelle proprie cucine e
dirimere la verità è impresa ar-
dua. la scoperta recentissima
di alcuni documenti in lingua
latina ci permette di retrodata-
re l’invenzione del prelibato
dolce ad oltre duemila anni fa.
Pare infatti che già durante le
feste priapiche (fig. 15), che si
svolgevano nell’antica grotta
di Piedigrotta (fig. 16), venis-
se distribuito ai contendenti
per rifocillarsi un dolce ener- Fig. 12 - Interno dell’archivio
10
Fig. 13 - Napoli-Monastero - Santa Chiara
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amplessi, in un’atmosfera
delirante di eccitazione.
dagli espliciti riti orgiasti-
ci al segreto del claustro è
difficile ipotizzare il tor-
tuoso cammino della ri-
cetta, divenuta segreta e
vanto di sacerdotesse del-
la castità. Ma intorno al
Seicento qualcuna di que-
ste monachelle, ansiosa di
Fig. 15 - Riti priapici
liberarsi del fardello di
12
Capitolo 2
Una invenzione, creata dalla fertile fantasia del De Dominici, attribuisce al Fal-
cone (fig. 1) ed ai pittori della sua bottega una partecipazione attiva nei rivolgimenti
popolari del 1647. Il biografo, oltre a sbagliare la data di nascita e di morte del pitto-
re, racconta che “armati di tutto punto, di giorno giravano uccidendo quanti più spa-
gnoli avessero incontrati, e di notte attendevano a dipingere alacremente, e special-
mente a ritrarre le sembianze di Masaniello”. Que-
sta favola, a parte i dettagli inverosimili, come la
protezione accordata dal Ribera, che, viceversa, si
vantò sempre della sua hispanidad e nonostante il
silenzio delle numerosissime e particolareggiate
cronache di quella rivoluzione, è tra quelle inven-
zioni che hanno avuto maggior fortuna. Per amor
del vero, come accertato dal Faraglia, una Compa-
gnia della morte agì in città, ma alcuni anni dopo,
nel 1650, e ne fecero parte malandrini e non pittori.
Passiamo ora ad un errore linguistico nella di-
zione della dinastia che ha regnato a Napoli dal
1734 al 1861 commesso anche da illustri studiosi,
in primis il venerato Benedetto Croce. Anche Al-
fonso Scirocco, celebre storico specialista di alcuni
Fig. 1 - Ritratto di Aniello Falcone
protagonisti del nostro Risorgimento, era di questo
parere, che espresse anche quando partecipò, alcuni
anni orsono, in veste di relatore, al salotto culturale di mia moglie Elvira, nel quale,
nel corso del dibattito, gli fu posta la domanda se lui ritenesse più corretta la dizione
Borbone o Borboni ed il professore, senza esitazioni, si pronunciò per la forma al
plurale. Un parere in linea con quello del professor Galasso (fig. 2), come ebbi modo
di constatare nel corso di una presentazione di un libro alla mitica Saletta rossa (fig.
3) Guida a Port’Alba, mentre Paolo Mieli sposava la tesi del singolare. Ne seguì un
colto articolo sul Mattino di Titti Marrone, presente come moderatrice, molto equili-
brato, che aveva una conclusione equidistante tra le due ipotesi. In seguito ebbi il
privilegio di accompagnare Umberto Eco (fig. 4) in una visita guidata al museo di
Capodimonte e così approfittai per chiedere il suo parere, che fu decisamente per il
singolare. Convenimmo di comune accordo che Benedetto Croce era all’origine di
13
questa confusione, perché
aveva scritto sull’argomento
più volte adoperando il plu-
rale. Spesso viene citata una
lettera di Ferdinando II (fig.
5) con la firma Borboni. Na-
turalmente non fa testo, ben
conoscendo il livello cultu-
rale del sovrano, come pure
la lunga disquisizione sulle
famiglie europee che acqui-
siscono la dizione Bourbon
Fig. 2 - Giuseppe Galasso al plurale, essendo nozione
elementare che alcune lin-
gue, ad esempio inglese o
francese, a volte hanno il plurale per i cognomi, errore gravissimo per l’italiano. A
conferma di ciò che pensavo richiesi tempo fa un parere all’ancora attiva ed autore-
volissima Accademia della Crusca, la quale si espresse senza esitazioni per la forma
singolare, conclusioni che comunicai alla stampa attraverso una lettera, pubblicata
da numerosi giornali, anche non napoletani. Nonostante questa autorevole dichiara-
zione, che dovrebbe chiudere definitivamente la questione, sono certo che la lunga
diatriba linguistica continuerà certamente immutata, avendo sulle opposte sponde
autorevoli personaggi, da un lato i professori Scirocco e Galasso, dall’altro Mieli ed
Eco e troverà una soluzione definitiva solo nel tempo, essendo la nostra una lingua
viva, che macina lentamente le parole.
Su Achille Lauro (fig. 6)
esistono infinite leggende,
ma soprattutto falsità stori-
che, che solo da poco ed a
fatica, anche gli studiosi più
autorevoli cominciano a ri-
conoscere e finalmente si
potrà scrivere la vera storia
del sacco edilizio. La cele-
bre Tavola Strozzi (fig. 7)
conservata nel museo di Ca-
podimonte ed ancor più la
Veduta di Napoli a volo
d’uccello (fig. 8) di Didier
Barra del museo di San Mar-
tino ci mostrano una città Fig. 3 - Saletta rossa
14
densamente urbanizza-
ta già nei secoli scor-
si. Un gigantesco ma-
rasma architettonico,
un prodigioso spetta-
colo di entropia edifi-
catoria, che ha lasciato
stupefatti ingegneri e
sociologi, antropologi
e forestieri, principal-
mente questi ultimi
che, quando venivano
a visitare la nostra cit-
Fig. 4 - Umberto Eco tà, soprattutto negli an-
ni del Grand Tour, rimanevano
meravigliati alla vista di palazzi
a più piani, da loro giudicati ve-
ri e propri grattacieli. Questi
antichi dipinti sono la testimo-
nianza visiva di un’edificazione
selvaggia che comincia in epo-
ca remota e la cui storia è igno-
ta agli stessi studiosi. Condoni,
sanatorie, demolizioni, leggi
stralcio, ricorsi al Tar, la querel-
le infinita sull’emergenza abu-
sivismo in Campania e non solo
nella nostra regione ha una sto-
ria antica, che pochi conosco-
no, perché per anni si è voluto
far coincidere, da parte di una
storiografia sinistrorsa il sacco
della città con gli anni del re-
gno di Lauro. E per diffondere
questo dogma ci si è serviti im-
punemente di tutti i mass media
disponibili, dal cinema alla te-
levisione, dai giornali ai libri ed
alla fine addirittura anche della
tradizione orale. Un film cult, Fig. 5 - Ferdinando II di Borbone
15
come “Le mani sulla città”
(fig. 9) di Francesco Rosi,
girato nel 1963, un plateale
falso storico, è stato per de-
cenni adoperato dalle sini-
stre per propagandare il mi-
to di Lauro speculatore edi-
lizio. La storia è diversa e
nasce nel lontano Cinque-
cento da una Prammatica di
don Pedro da Toledo, che
concedeva entro le mura di
costruire palazzi di molti
piani e non si è mai interrot-
ta fino ai nostri giorni. Vo-
gliamo provare a raccontar-
la, soprattutto ai giovani,
questa veritiera storia del
sacco edilizio, rinviando,
per chi volesse approfondir-
la, ai capitoli ad essa dedi-
cati del mio libro (fig. 10)
Achille Lauro Superstar
(consultabile su Internet).
Partiamo dall’esame del-
Fig. 6 - Lauro e le sue donne
la legislazione urbanistica e
da alcune considerazioni.
Napoli in questo secolo ha avuto due soli piani regolatori, quello “fascista” del
1939, un vero monumento di armonia tra interessi pubblici e privati, com’è ricono-
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Fig. 8 - Didier Barra
sciuto oggi da autorevoli specialisti, di idee non certo nostalgiche, come il preside di
architettura Benedetto Gravagnuolo o il professor Massimo Rosi (opinioni raccolte
dalla viva voce degli interessati nel corso di riunioni svolte nel salotto culturale di
mia moglie Elvira Brunetti) e quello “democratico” del 1972, entrambi mai operati-
vi per la mancata approvazione dei regolamenti di attuazione. Bisogna precisare
che, quando Lauro venne eletto nel 1952 e volle utilizzare a piene mani il “petrolio
dei meridionali”, costituito dall’espansione edilizia, la giunta non possedeva un vero
e proprio strumento urbanistico, ma un ben più modesto regolamento edilizio, risa-
lente al 1935, stilato
da un organo comu-
nale fascista dotato
dei più ampi poteri.
Napoli da oltre 50
anni vive in assenza
di un qualsivoglia
strumento proget-
tuale ed i risultati so-
no stati, e certamen-
te non solo durante
gli anni del lauri-
smo, il disordine
Fig. 9 - Le mani sulla citta
edilizio più incon-
trollato, il cui caoti-
co sviluppo ha tenuto conto solo delle esigenze dei singoli, trascurando, com’è no-
stra scellerata abitudine, quelli della collettività.
Non si è mai smesso di costruire, basta, per convincersene, recarsi nei quartieri
periferici (Soccavo, Pianura, Secondigliano) cresciuti a dismisura o nell’immenso
hinterland partenopeo, da Quarto Flegreo ai comuni della penisola sorrentina, che
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stringe oramai in una morsa impla-
cabile la città, costretta a sopravvi-
vere con densità di popolazione su-
periore a tutte le più affollate metro-
poli asiatiche e con un traffico im-
pazzito, con inestricabili ingorghi a
croce uncinata, da fare impallidire a
confronto qualunque altro concor-
rente. Si sono costruite le case le
une vicino alle altre, spinti certa-
mente dal profitto, ma anche perché
il napoletano, geneticamente abitua-
to al “gomito a gomito”, prova
un’intollerabile vertigine quando
può allargare lo sguardo su un pano-
rama senza trovare la casa dirimpet-
taia, senza poter contare su un’eco-
nomia da vicolo, una socializzazio-
ne da cortile, tutto sommato una
cultura da casbah. Solo così possia-
mo cercare di spiegarci l’esistenza
di mostri serpentinosi come via Jan-
Fig. 10 - Libro
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Fig. 12 - Muraglia cinese
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pubblico, impettiti in prima fila i colonnelli del nuovo potere, sordi alle civili prote-
ste, che Francesco Compagna manifestava nei suoi articoli sulla rivista “Nord e
Sud”. Mentre si progettava lo sventramento dei Quartieri Spagnoli per creare un
nuovo Rione Carità, le nuove edificazioni cominciano a coprire ogni spazio libero.
Sono questi i veri anni delle “Mani sulla città”, quando costruttori senza scrupoli,
trasferitisi in massa dalla corte laurina al nuovo potere, come Mario Ottieri, scarica-
no sul territorio urbano volumi edificati mai visti in precedenza; per essere più preci-
si: oltre diecimila vani in meno di due anni per una massa di duecentomila quintali
di cemento e quasi cinquantamila di ferro (dati riguardanti il solo Ottieri). Le sue im-
prese distruggono l’armonia del centro più antico, come nella storica piazza Mercato
dove l’orrendo palazzaccio, sorto in pochi mesi, fa tuttora rivoltare nella tomba i
tanti napoletani illustri, alle cui gloriose gesta è legata la sacralità dei luoghi. Anche
nella città nuova, al Vomero, si pongono saldamente le basi della perpetua invivibili-
tà, erigendo monumenti alla vergogna, come la stupefacente “muraglia cinese” di
via Aniello Falcone (fig. 12), che ancora oggi molti si ostinano a collegarne la co-
struzione agli anni delle amministrazioni laurine. (citiamo ad esempio tra i tanti: la
“Storia fotografica di Napoli” a cura di Attilio Wanderlingh con testi di Ermanno
Corsi oppure il “Vomero” di Giancarlo Alisio, nei quali placidamente si addossa a
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Lauro la realizzazione del-
la “muraglia cinese”). Il
kafkiano episodio di ma-
nomissione fisica del pia-
no regolatore avviene ne-
gli anni della gestione
Correra. L’accaduto è no-
to, ma vale la pena ricor-
darlo per perpetuarne la
memoria. Le tavole del
piano regolatore del 1939,
all’epoca vigente, erano
conservate in tre esempla-
ri, al Comune, all’Archi-
vio di Stato ed al Ministe-
ro dei Lavori Pubblici. I
soliti ignoti, non essendo a
conoscenza della terza co-
pia, depositata a Roma,
agiscono in più tempi im-
punemente sulle prime
due, cambiando a più ri-
prese i colori che identifi-
cano la destinazione delle
varie aree della città. Il
verde delle zone agricole
diventa così il giallo delle
zone edificatorie. Un caso
Fig. 15 - Volume secondo Francesco De Bourcard emblematico è costituito
dai terreni dove sorgerà il
Secondo Policlinico, che,
comprati per tre soldi, frutteranno cifre iperboliche agli speculatori. I mandanti di
queste continue manomissioni, ai limiti dell’incredulità, si procacciano preventiva-
mente a prezzo vile i terreni agricoli e poi, dopo il colpo di bacchetta magica, anzi di
pastello, scaricano milioni di metri cubi di palazzi sui suoli rigenerati, guadagnando
cifre da capogiro. L’intrallazzo andò avanti a lungo, fino a quando, fortuitamente,
venne scoperta l’esistenza della terza copia. Fu quindi aperto un procedimento pena-
le, ma naturalmente i colpevoli non furono mai identificati, rimanendo perciò impu-
niti, anche se tutti sapevano chi fossero. Una vicenda assolutamente irripetibile nella
storia urbanistica di qualunque città. Don Alfredo (Correra) creò allora un’arma an-
cora più micidiale, che dava tra l’altro un’etichetta di legalità al comportamento de-
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gli speculatori edilizi. Diede infatti luogo ad un numero imprecisato di deroghe al
piano regolatore da lui stesso proposto. Erano le famigerate e troppo presto dimenti-
cate “varianti Correra” che legalizzeranno ogni tipo di scempio perpetrato dai co-
struttori. Il commissario prefettizio si serviva infatti di un escamotage che è stato ri-
velato dall’urbanista Antonio Guizzi, il quale, per inciso, fu consulente per la sce-
neggiatura del film “Le mani sulla città” e per anni si è battuto, inascoltato dai mass
media, per ripristinare la verità storica su quegli anni difficili per la nostra città. Le
licenze venivano concesse in variazione al piano regolatore cittadino e cominciava-
no tutte in tal guisa: “Visto il voto espresso il 26 luglio1958 dal consiglio superiore
dei lavori pubblici, si rilascia…”. A pagare un perpetuo tributo a questo scellerato
comportamento sarà tutta la città, che ancora oggi, dopo oltre quarant’anni, soffre
per quei lontani abusi. In particolare ne uscirono devastati i quartieri più moderni:
Posillipo, Vomero, Arenella e Fuorigrotta. Mentre nelle fertili campagne di Soccavo
si mette mano ai primi lavori per la nascita del rione Traiano, nel 1960 il prefetto
Correra, rinnova una convenzione con la Speme, una società nata per urbanizzare la
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collina di Posillipo, non senza averla dotata preliminarmente della quarta funicola-
re. Il sodalizio doveva costruire palazzine popolari per dare una casa ai pescatori e ai
contadini e a tale scopo godeva anche di esenzioni fiscali e di sovvenzioni pubbli-
che, ma, strada facendo, realizzò parchi residenziali con rifiniture di lusso e prezzi di
vendita che raggiungevano i dieci milioni a vano, fuori dalla portata dei ceti meno
abbienti. La Speme riesce anche ad ottenere il permesso di raddoppiare quasi l’altez-
za degli edifici e in pochi anni completa sulla collina, cara agli ozi degli antichi ro-
mani, oltre quindicimila vani. Finalmente si riesce a definire la data delle nuove
consultazioni elettorali: il 6 novembre, dopo quasi tre anni di commissariamento. Un
vero scandalo! Ma la speculazione continuerà imperterrita fino ai nostri giorni, ve-
dendo criminalità organizzata e politici collusi. Ma non è più storia, ma cronaca…
ed i risultati sono sotto i nostri occhi. Trattiamo ora di un argomento gastronomico e
parliamo della celebre (in tutto il mondo) pizza margherita (fig. 13). La pizza Mar-
gherita deve il suo nome alla regina Margherita di Savoia. Infatti fu Raffaele Esposi-
to, pizzaiolo della pizzeria Brandi (fig. 14), tutt’ora in attività, a creare questa pizza
nel 1889 in onore della regina, in visita nella città di Napoli. Condita con pomodoro,
mozzarella e basilico che rappresentavano la bandiera italiana, delle tre pizze create
dal pizzaiolo napoletano per l’evento, la Margherita fu la più apprezzata dalla regi-
na. La leggenda, perché di questo si tratta, come ha di recente dimostrato un giovane
quanto valente napoletanista: Angelo Forgione, la troviamo in tutti i libri, oltre che
nelle pubblicità della pizzeria interessata alla notorietà, a tal punto che la stessa Col-
diretti, tempo fa ne festeggiò il 125 anniversario dalla creazione, ricordando una let-
tera del capo dei servizi di tavola della Real Casa Camillo Galli, che nel giugno del
1889 convocò il cuoco Raffaele Esposito della pizzeria “Pietro… e basta così” al Pa-
lazzo di Capodimonte, residenza estiva della famiglia reale, perché preparasse per
sua Maestà la regina Margherita le sue famose tre pizze. Ma, come attestato da or-
mai noti testi ottocenteschi, Raffaele Esposito, in quell’occasione non inventò la piz-
za con pomodoro, basilico e mozzarella ma la fece semplicemente conoscere alla so-
vrana piemontese. Già nel 1849, infatti, il filologo Emmanuele Rocco, nel curare il
capitolo “Il pizzaiolo” del libro (fig. 15) Usi e costumi di Napoli e contorni descritti
e dipinti, coordinato da Francesco de Bourcard, parlò di combinazioni di condimen-
to con ingredienti vari, tra i quali basilico, “pomidoro” e “sottili fette di muzzarel-
la”. E le fette, distribuite con disposizione radiale, disegnavano verosimilmente il
celebre fiore di campo caro agli innamorati su una pizza che Raffaele Esposito
avrebbe proposto 40 anni dopo alla regina sabauda. Un’altra conferma a questa tesi
ci viene dal libro Napoli, contorni e dintorni del Riccio, pubblicato nel 1830, nel
quale viene descritta accuratamente una pizza con pomodoro, mozzarella e basili-
co. Del resto la produzione della mozzarella fu stimolata nei laboratori della Reale
Industria della Pagliata delle Bufale di Carditello, un innovativo laboratorio avviato
già nel 1780, mentre il pomodoro giunse dall’America latina intorno al 1770, in do-
no al Regno di Napoli dal vicereame del Perù, e ne fu subito radicata la coltura nelle
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terre tra Napoli e Salerno, dove la fertilità del terreno vulcanico produsse una gusto-
sa varietà. Questa realtà storica la troviamo recepita nel Regolamento UE n. 97/2010
della Commissione Europea riportato nella Gazzetta Ufficiale del 5 febbraio 2010
accreditante la denominazione Pizza Napoletana STG nel registro delle specialità
tradizionali garantite, che al punto 3.8 dell’Allegato II, riporta testualmente: “Le
pizze più popolari e famose a Napoli erano la “marinara”, nata nel 1734, e la “mar-
gherita”, del 1796-1810, che venne offerta alla regina d’Italia in visita a Napoli nel
1889 proprio per il colore dei suoi condimenti (pomodoro, mozzarella e basilico)
che ricordano i colori della bandiera italiana. Dobbiamo concludere immaginando
che la propaganda sabauda non volle lasciarsi sfuggire l’opportunità di apporre il
suo marchio sul simbolo culinario della grande capitale conquistata ed annessa, co-
me confermato da una mia lettera (fig. 16) pubblicata da Il Mattino.
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Capitolo 3
Brigantaggio
Una pagina poco nota della nostra storia è costituita dal brigantaggio, raccontata
con prospettiva piemontese sui libri di scuola, proviamo finalmente a raccontare la
verità:
«Il popolo, in Italia, è abitualmente dedito alla lettura dei poemetti in cui sono ri-
cordate le circostanze notevoli della vita dei banditi più famosi: gli piace ciò che vi è
in quella di eroico, ed esso finisce col nutrire per loro un’ammirazione assai vicina al
sentimento che, nell’antichità, i Greci provavano per alcuni loro semidei.»
Così Stendhal, di passaggio per l’Italia, annotò nel suo breve saggio I briganti in
Italia, confluito nell’opera Passeggiate romane pubblicata nel 1829. Non fu immune,
il francese, che pure dai briganti fu rapinato sulla via Appia, dal fascino che costoro
esercitavano sui letterati del Grand Tour: nelle loro memorie si cristallizzava il mito
romantico del fuorilegge, diventato un topos letterario negli scritti di Irving, Byron e
Scott che definirono l’immagine eroica del brigante: uomo di indomata indole che
difende i ceti più deboli contro i soprusi dei potenti. La genìa dei Robin Hood, degli
Zorro, la Primula Rossa, Fra Diavolo è tutta riconducibile a questo prototipo di di-
fensore delle povere genti: un uomo che un tempo viveva nel consesso civile ma
che, per un torto subito, si rifugia nei monti, nel fitto delle boscaglie, da dove sferra
attacchi sanguinari ai suoi nemici, mosso, il più delle volte, da personalissimi motivi
più che da un progetto politico.
La costruzione romantica del mito del brigante obbedisce in realtà a una cornice
narrativa in cui si ripetono i medesimi schemi. Così le gesta banditesche diventano
miti astorici, la cui suggestione dura tutt’oggi.
Un capitolo a parte costituiscono le storie di donne che si diedero alla macchia
per seguire i loro uomini. Fra costoro, di straordinaria bellezza, c’è la casertana Mi-
chelina di Cesare (fig. 1) che nel 1863 sposò il bandito Francesco Guerra, diventan-
do così, da meschina ladra di capre, leggendaria regina di briganti. Si rifugiarono, i
due sposi malandrini, sulle colline di Vallemarina; di qui piombavano a valle, depre-
davano le abitazioni dei “galantuomini” di San Castrese o del celebre possidente
Cordecchia, finché il ministero dell’Interno sguinzagliò sulle loro orme il generale
Pallavicini, il più noto cacciatore di briganti. Ne scaturì battaglia ferocissima, con
tanto di dispiegata artiglieria, nei pressi di Roccamonfina. I disperati si rifugiarono
25
nelle cavità degli alberi secolari, furono scovati e uccisi. Il cadavere di Michelina,
con una messinscena di raffinata ferocia, venne esposto sotto il sole su un carrello
nella piazza di Mignano: era domenica, e quel cadavere penzolante servì da monito
alle genti che andavano a messa, tra
cui molti simpatizzavano per i brigan-
ti che catalizzavano la rabbia antipie-
montese e le nostalgie borboniche de-
gli uomini del Meridione.
L’ostensione del cadavere di Mi-
chelina fu in realtà l’ordinaria espres-
sione della repressione delle autorità,
la cui ferocia non era minore di quella
brigantesca. Ruffiani e cacciatori di
taglie (celebri quelli al soldo dei Dogi
veneziani) praticavano facilmente il
taglio della testa. Un vile manutengo-
lo, per scampare la galera, promise la
testa dei briganti Giacomo Purra e
Giuseppina Gizzi al sindaco di Braci-
gliano: spiccò la testa dei due amanti
con un coltello da macellaio e le con-
segnò al sindaco che, dopo averle fat-
te imbalsamare, le collocò in un’urna
nel suo ufficio. Al riguardo, divenne
leggenda narrata l’epigrafe che il bri-
gante Carmine Oddo gli ritorse con-
tro: memento mori, sindaco.
Uomini violenti, banditi o eroi po-
polari? A tutt’oggi il fenomeno stori-
co del brigantaggio meridionale atten-
de una risposta chiara ed esaustiva. Fig. 1 - Michelina Di Cesare - Brigantessa per amore
Una storia dei briganti nel Regno - Castello Orsini
di Napoli deve partire dalla domina-
zione aragonese e dipanarsi fino alle vicende collegate all’unità d’Italia.
Visti nel rapporto con le masse popolari, i proprietari terrieri e le autorità, i bri-
ganti napoletani si presentano ora come il frutto della miseria e dell’ansia di riscatto
dei contadini, ora come strumento nelle mani dei Borbone.
Di sicuro Marco Sciarra Angiolillo, Fra Diavolo, Carmine Crocco (fig. 2), Ninco
Nanco (fig. 3) e persino brigantesse come Nicolina Licciardi (che non furono infe-
riori ai loro compagni per efferatezza e crudeltà) sono stati sempre aiutati ed amati
dai contadini, che li hanno resi immortali nella fantasia e nelle leggende popolari.
26
Fig. 2 - Crocco e brigantessa
27
Anche durante il dominio degli austriaci, che succedettero al vicereame spagno-
lo, le rivolte non si fermarono e numerose erano le bande che incutevano timore, tra
ruberie e razzie.
Nel 1734 salì al potere la dinastia dei Borbone con Carlo III, che nulla riuscì
contro il dilagare del banditismo, il quale si accentuò durante il regno del figlio Fer-
dinando, nonostante l’opera meritoria del Ministro Tanucci. Anzi, durante gli anni in
cui fu sovrano, si sviluppò la leggenda di Angiolillo, le cui gesta ispirarono dei canti
popolari in auge per tutto l’Ottocento.
Sul finire del Settecento vi fu la temporanea caduta di Re Ferdinando, l’avvento
delle truppe francesi ed il sorgere della Repubblica Partenopea il 23 gennaio del
1799.
Ci pensò il Cardinale Ruffo a riconquistare il trono, muovendo dalla Calabria a
capo di un esercito, composto da briganti, contadini e delinquenti comuni che, in
omaggio alla Santa Fede, furono chiamati Sanfedisti. Da questa guerra, efferata e
truculenta uscirono i primi nomi di briganti “politici”. Tra questi spicca la figura di
Fra Diavolo, alias Don Michele Pezza, come si firmava (fig.4) negli editti che ema-
nava nella veste di comandante della regia truppa.
Era il re delle montagne, dove dettava legge. Si unì alle truppe del Cardinale
Ruffo e dopo la Restaurazione il sovrano lo nominò duca di Cassano, elargendogli
un vitalizio annuo di 3000 ducati.
Anche sotto Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat il brigantaggio divampò e
fu duramente represso. Nel 1806 venne catturato e condannato alla forca Fra Diavo-
lo, impiccagione avvenuta a Piazza Mercato e gli fu permesso per l’occasione di in-
dossare l’uniforme dell’esercito borbonico ed il titolo di duca di Cassano al collo.
Durante l’opera di repressione furono catturati anche Taccone, che rientrò a Po-
tenza in groppa ad un asino con un cartello infamante al collo e Quagliarella, che,
tradito dai compagni, venne ucciso dai contadini, desiderosi di intascare la taglia.
E giungiamo così alla grande stagione del brigantaggio postunitario sulla quale
il giudizio degli storici è ancora controverso.
Fino ad ora si trattava di rivolte di contadini e di bande dedite al saccheggio, lo
smembramento dell’esercito volontario garibaldino, la mancata concessione delle
terre demaniali a chi vi lavorava ed un governo centrale a Torino sordo alle rivendi-
cazioni, diedero luogo ad un brigantaggio politico, incoraggiato da una deriva neo-
borbonica e favorito dalla conformazione geografica del Meridione, tutto boschi e
monti, difficile da controllare.
A partire dall’inverno del 1861 cominciarono ad organizzarsi bande di briganti
che agivano colpendo i grossi proprietari terrieri, collusi col governo e le scarne
guarnigioni, che non riuscivano a tenere sotto controllo il territorio.
Uno dei nomi di spicco fu Carmine Crocco, già caporale dell’esercito borbonico,
dal quale aveva disertato. Uomo astuto, molto amato dalle donne, diede filo da tor-
cere all’esercito sabaudo, fregiandosi del titolo di generale della reazione borbonica.
28
Fig. 4 - Editto di Fra diavolo
Alla sua banda si affiancò Ninco Nanco, proveniente dal disciolto esercito gari-
baldino, dal quale portò molti fucili. Il suo regno era la cittadina di Melfi, da dove
iniziò la sua marcia, occupando città, aprendo carceri e saccheggiando le casse co-
munali. Giunse fino all’avellinese, conquistando sempre nuovi adepti.
Il brigantaggio dilagava anche nel casertano e nel beneventano ed in tutta la Ca-
labria, per cui a Napoli arrivò con molta truppa il generale Cialdini (fig. 5), che co-
minciò ad intensificare l’opera di repressione, con rappresaglie verso le popolazioni
che si erano schierate con i rivoltosi. Una tra le
pagine più sanguinose fu scritta a Pontelandolfo
(fig. 6-7), dove essendo stati uccisi 45 soldati,
un battaglione dei Bersaglieri mise a ferro e fuo-
co l’intero paese.
Se il cuore del brigantaggio fu la Basilicata,
anche Napoli ebbe un suo condottiero, un certo
Pilone, così sopranominato perché molto peloso.
Agiva alle porte della città nel Vesuviano e fu
autore di combattimenti ed imprese sensaziona-
li, che lo portarono a rifugiarsi nello Stato Ponti-
ficio, dove conobbe le galere papaline, da cui
scappò e fu ospitato per alcuni mesi dall’esule
Francesco II, che abitava a Palazzo Farnese.
Chiuse le sue avventure ucciso in un’imboscata
a Via Foria.
La storia ricorda anche un fenomeno di bri-
gantaggio “nobilitato”, i cosiddetti Cavalieri di
Francesco II, i quali si proponevano di restaura- Fig. 5 - Generale Cialdini
29
re il deposto Regno Borboni-
co. Furono organizzati da due
generali, Vial e Clary e finan-
ziati dal Principe di Scilla. Fu
la stessa intrepida ex regina
Maria Sofia, che, indossando
abiti maschili, riunì a Roma i
capibanda più famosi, con-
vincendoli a partecipare al
folle progetto.
Fig. 6 - Strage massacro di Pontelandolfo e Casalduni Lo Stato Pontificio vede-
va con occhio benevolo
l’operazione, obbligando al-
cuni conventi ad ospitare e proteggere personaggi come Chiavone, Crocco e Ninco
Nanco.
Nell’estate del 1861 il comando fu assunto da uno spagnolo, Josè Borjes, il qua-
le, dopo essersi incontrato con Crocco, con 1200 uomini, discese dal Vulture, ini-
ziando una delle più memorabili imprese di brigantaggio postunitario, ma sorpreso
da un drappello di Bersaglieri, venne fucilato a Tagliacozzo.
Altri cavalieri stranieri meno noti subirono la stessa sorte, dimostrando eroismo
nel momento fatale, come il marchese belga De Trazegnies, che rifiutò la benda da-
vanti al plotone di esecuzione o il conte di Kalckreuth, che chiese, accontentato, di
poter comandare lui stesso i soldati impegnati a fucilarlo. (Una scena tra comico e
romantico che ci rammenta Totò in uno dei suoi celebri film).
Il brigantaggio diven-
ne una spina nel fianco del
Governo Ricasoli, che die-
de precise direttive per
mettere fine al fenomeno.
Cominciò una severa ope-
ra di repressione,accentua-
tasi quando, nel 1863, il
governo aprì una commis-
sione d’inchiesta, da cui
scaturì la relazione Massa-
ri, la quale fornì una preci-
sa carta geografica della
disposizione delle bande.
Come atto legislativo
nell’agosto del 1863 fu va-
rata la legge Pica, che spo- Fig. 7 - Brigantaggio
30
stò ai tribunali militari la competenza e considerò colpevoli anche parenti e manu-
tengoli dei banditi. Furono stabiliti anche cospicui premi per i delatori.
Intorno al 1870 l’opera di sterminio poteva dirsi conclusa (fig. 8). Uno dei colpi
più significativi venne inferto grazie al tradimento di Giuseppe Caruso, già luogote-
nente di Crocco, al quale il generale Pallavicini offrì l’immunità. Egli conosceva be-
ne i nascondigli. Lo stesso Crocco, vedendosi braccato, si rifugiò a Roma dove però
venne arrestato e trovato dalle autorità italiane nel carcere di Paliano. Fu processato
a Potenza e condannato all’ergastolo che scontò a Portoferraio, dove morì nel 1905.
Pallavicini riconobbe non poche doti militari ad alcuni dei più famosi capibanda
e la loro generosità verso i contadini, i quali li onorarono rendendoli immortali nei
loro canti (fig. 9).
Le storie dei briganti più famosi, affidate alla tradizione orale nei secoli, ha tra-
sformato la realtà in fantasia, la ferocia in leggenda. A Napoli, per tutto il Novecen-
to, cantastorie girovaghi ne narravano le eroiche gesta, alla pari dei paladini di Ri-
naldo. Una letteratura popolare invisa alle classi dominanti. In anni successivi poeti
e scrittori hanno rivisitato il mito, tra questi Rocco Scotellaro nei suoi libri fa emer-
gere le misere condizioni dei contadini ed il sogno infranto di uno stato che si pren-
desse cura delle masse rurali.
E Carlo Levi nel suo celebre Cristo si è fermato a Eboli, descrivendo le terre del
silenzio e della solitudine, negò a queste anche il conforto di un Dio pietoso, ferma-
tosi ai confini di un mondo dimenticato.
31
Fig. 9 - Mito del brigante
De Roberto ne I Viceré (fig. 10) traccia un grandioso affresco storico in cui si di-
panano le speranze deluse dall’impresa garibaldina.
Un mondo contadino, nel quale “tutto cambia affinché nulla cambi” è il filo con-
duttore del romanzo di Tomasi di Lampedusa: Il Gattopardo.
E possiamo concludere con I Terroni di Pino Aprile (fig. 11) e siamo oramai ai
nostri giorni.
32
L’agricoltura napoletana trionfa all’Expo di Milano
Finalmente la verità sulla Terra dei fuochi
Nessuno conosce meglio di me la Terra dei fuochi, di cui ho parlato più di 10 an-
ni fa in una serie di articoli, pubblicati su alcuni quotidiani napoletani, corredati da
foto inedite quanto raccapriccianti, come i roghi appiccati alle discariche, per au-
mentarne la capacità, da bambini rom prezzolati, i quali bruciavano con fiamme al-
tissime per giorni e giorni, diffondendo nell’aria la micidiale diossina; oppure l’im-
magine della pecora a due teste, che troneggiava nel salotto di un noto camorrista,
segno evidente degli effetti devastanti sul patrimonio genetico, provocati dalle sco-
rie radioattive provenienti dalle centrali nucleari di mezza Europa.
Questi scritti vennero raccolti poi in un
libro: Monnezza viaggio nella spazzatura
campana (fig. 12), consultabile in rete digi-
tandone il titolo, http://www.guidecampa-
nia.com/dellaragione/articolo23/articolo.htm
tradotto in inglese e dal quale hanno poi
attinto a piene mani tutti coloro che si sono
interessati in seguito dell’argomento, in pri-
mis Roberto Saviano, che ha preso spunto….
per un capitolo del suo celebre best seller.
Ma una cosa sono le discariche, che co-
prono un’area esigua del territorio, altro sono
i campi agricoli (fig. 13-14), che oltre a dare
lavoro a decine di migliaia di famiglie, sono
risultati ad indagini scrupolose assolutamen-
te sicuri, come giustamente ha annunciato il
governatore De Luca (fig. 15) approfittando
della platea mondiale dell’Expo di Milano. Il
Fig. 12 - Copertina libro Monnezza governatore ha parlato con voce solenne ed
ha annunciato a tutti gli Stati del pianeta che
mozzarella ed ortaggi campani sono un van-
to di una regione la quale, nonostante tutto, non vuole arrendersi.
La Terra dei fuochi o il famigerato Triangolo della morte, complici il successo
planetario di Gomorra e la criminale assenza secolare dello Stato, hanno trasformato
nell’immaginario popolare un luogo geografico in un incubo, una Chernobyl all’om-
bra del Vesuvio, un inquinamento morale più che ambientale, una sorta di gigante-
sco buco nero in grado di inghiottire un’antica civiltà.
Questa è la situazione presentata dai mass media, ma giornali e televisioni igno-
rano che da tempo sono disponibili dati inoppugnabili, i quali dimostrano che la pro-
duzione alimentare proveniente dalla zona è assolutamente sicura e può essere con-
33
Fig. 13 - Campo agricolo
34
Fig. 15 - De Luca Vincenzo, governatore della Campania
Le istituzioni interessa-
te alla ricerca sono assolu-
tamente affidabili, dal-
l’Università all’Istituto
zooprofilattico, dal Mini-
stero dell’agricoltura al-
l’Istituto superiore di sani-
tà, purtroppo questi dati so-
no ignorati dai mass media,
che continuano a conside-
rare la Campania una terra
maledetta da Dio e dagli
uomini.
Una percentuale insi-
gnificante difficile da ri-
scontrare in altre regioni
italiane ed europee e che
spazza via una retorica Fig. 16 - Il Mattino - Venerdì 9 ottobre 2015
35
noir, composta di aggettivi ad effetto, declinati in forma superlativa, con i quali per-
vicacemente per anni si è voluto rappresentare un territorio abitato da 6 milioni di
persone, inducendo l’opinione pubblica a confondere una parte, che ora sappiamo
molto piccola, per il tutto, facendo credere che tutta la Campania fosse un’area insa-
lubre ed inquinata, le cui coltivazioni fossero da scansare, i cui prodotti fossero da
bandire dai mercati nazionali ed internazionali, per la gioia di molte imprese concor-
renti del Nord.
Dopo La Repubblica, Il Corriere e tanti altri quotidiani anche Il Mattino riprende
in una mia lettera l’argomento (fig. 16) che avevo trattato in uno degli incontri del
mio cenacolo culturale che si riunisce ogni venerdì nella mia villa di Posillipo
36
Capitolo 4
37
re, per il clima dolce e per la posizione bari-
centrica nel Regno.
Di almeno due intellettuali che affianca-
rono l’imperatore i nomi si conoscono, quel-
li di Pier delle Vigne reso immortale da Dan-
te e di Taddeo da Sessa.
A proposito della mia città sono fazioso,
ho fede in San Gennaro e mi piace la leggen-
da della regina Margherita.
Pietro Gargano
Per un primato messo seriamente in dub-
bio, Napoli ne può vantare due poco noti: la
nascita del futurismo e la scoperta della pe-
nicillina.
Pochi sanno, neanche tra gli specialisti,
Fig. 2
che il battesimo del movimento futurista
(fig. 4) avvenne a Napoli, dove il Manifesto
di Marinetti venne pubblicato sul periodico La Tavola rotonda il 14 febbraio del
1909 dell’editore Bideri, famoso per le sue copie delle canzoni di Piedigrotta, 6 gior-
ni prima della sua comparsa sulle pagine del Figaro di Parigi (fig. 5).
E dopo pochi mesi, il 29 aprile 1910, vi fu il battesimo del fuoco al teatro Merca-
dante davanti ad un pubblico battagliero ed interessato con poltrone e palchi presi-
diate dalla intellighenzia partenopea, da Croce a Scarpetta, da Scarfoglio a Matilde
Serao, oltre a politici, professionisti ed un plotone di giornalisti, i quali variamente
commentarono l’evento sui loro giornali.
Tra i paladini del nuovo movimento Marinetti, Palazzeschi, Boccioni e Carrà
(fig. 6), i quali erano andati nell’antica capitale, inebriati da quella atmosfera av-
volgente della
Belle Epoque, ac-
coppiata ad un
momento esaltan-
te di creatività
culturale ed arti-
stica, testimonia-
ta da un numero
senza eguali di
Teatri e giornali,
in stridente con-
trasto con una fa-
se di severa crisi
economica e di Fig. 3
38
degrado morale del ceto diri-
gente.
Durante la presentazione
al Mercadante, come ci rac-
conta Generoso Picone dal
palco dove sedeva donna Ma-
tilde giunse sulla scena, al po-
sto del fatidico pomodoro,
un’arancia che Marinetti, im-
passibile, prese al volo, sbuc-
ciò e mentre continuava a par-
lare cominciò a mangiarla.
Fig. 4
Il pubblico da un lato ap-
plaudì per il gesto coraggioso,
ma continuò a far piovere di tutto su quei personaggi originali che apparivano come
degli alieni e nello stesso tempo a manifestazioni di approvazione si alternavano fi-
schi e pernacchie.
Un posto particolare se lo ritagliò Vincenzo Gemito(fig. 7) con la sua barba lun-
ga, i capelli scompigliati, il volto spiritato, si affacciava dal suo palco inneggiando ai
futuristi, al punto che Marinetti inter-
ruppe la sua lettura per andargli a bacia-
re la mano. Lo scultore rimase talmente
colpito dal nuovo verbo, che volle invi-
tare Boccioni e Marinetti a casa sua e
volle apporre una corposa dedica al loro
Manifesto tecnico della pittura futurista:
“Ai cari amici un augurio per la loro no-
bile missione di promozione di un nuo-
vo ideale di arte in Italia, da parte di un
Fig. 5 Fig. 6
39
Fig. 7 Fig. 8
Fig. 9
40
amico che ha avuto la fortuna di applau-
dirli”.
Da quella sera memorabile per setti-
mane nei circoli intellettuali e nei cenaco-
li letterari si parlò solo di Futurismo (fig.
8), alternandosi adesioni incondizionate e
critiche feroci, sguardi perplessi a sorrisi
ammiccanti “I terribili provocatori futuri-
sti, gli strambi apostoli di nuove dottrine,
gli avanguardisti irriverenti che volevano
uccidere il chiaro di luna, potevano anche
trascorrere l’intera giornata a dettare i lo-
ro programmi d’intenti belligeranti: poi
però la sera non rinunciavano alla passeg-
giata sul lungomare di Posillipo, conti-
nuando a discutere, gustando del buon
pesce nei migliori ristoranti.
La prima adesione napoletana al
gruppo futurista fu quella di Francesco
Fig. 10 Cangiullo (fig. 9), fino ad allora autore di
canzonette e musiche, tra cui “Mastrotto-
re”, una cantilena composta nel 1904 molto apprezzata da Igor Straviskiy, che la in-
serì nel suo Pulcinella e da Tzara Ball che la introdussero nel cabaret Voltaire del
1916, con cui lanciarono il movimento Dadaista.
Nel 1912 Cangiullo dedicò a Marinetti “La cocotta Futurista”, un divertisment
da leggere nei cafè chantant, che ricevette un premio durante la Piedigrotta. Compo-
se anche una canzone pirotecnica (fig. 10) si sole lettere e note ed a Roma fu autore
di un gesto eclatante quanto irrive-
rente, portando in processione la te-
sta di Croce scolpita a colpi schiaf-
fi. Il sommo filosofo godeva vice-
versa dell’ammirazione di Carrà, il
quale, si recò più volte a casa di
Don Benedetto, discorrendo ama-
bilmente di estetica e di impressio-
nismo, timorosi che i quadri alle
pareti, rigorosamente figurativi,
stessero ad ascoltare.
Nel 1914, sempre Cangiullo,
nel nobile Palazzo Spinelli in via
dei Mille interpretò con Marinetti, Fig. 11
41
Balla e Depero un poema che
parodiava la Piedigrotta, al
frastuono assordante di puti-
pù, scetavajasse e triccaballac-
che e davanti ad un pubblico
partecipe che non si fermò un
attimo dallo scompisciarsi dal-
le risate.
Non contento Cangiullo
condusse Marinetti in trasferta
a conoscere Capri, l’impareg-
giabile isola delle sirene ed a
ripercorrere gli ectoplasmi di
Fig. 12 Diefenbach, Cerio, Gorkij,
Lenin, Cocteau e tanti altri
spiriti eletti che lì avevano soggiornato. Il padre del futurismo rimase talmente col-
pito dalla bellezza di albe e tramonti da comporre un dimenticato romanzo: “L’isola
dei baci”.
I futuristi, impegnati nella loro missione dirompente verso il solenne, il sacro, il
sublime e tutto ciò che fino ad allora era stato l’obiettivo dell’arte si accorsero che
sabotaggio, presa in giro e parodia irriverente costituivano da tempo la miscela
esplosiva del teatro di varietà che da anni furoreggiava a Napoli e sbalorditi appro-
fondirono le più antiche tradizioni popolari, soprattutto la Piedigrotta, che in quegli
anni assunse aspetti scoppiettanti con l’utilizzo di artifici pirotecnici (fig. 11).
Al carattere trasgressivo le edizioni della festa affiancarono ascensioni aerostati-
che e sorprendenti giochi di luce, culminati nell’edizione del 1895 con un corteo di
due chilometri che mise assie-
me orologi e fiori, telefoni ed
animali, telescopi e macchine
fotografiche, In un turbinio di
effetti di luce, che rappresentò
uno dei momenti più alti del
futurismo.
Passiamo ora a diffondere
un altro primato napoletano
misconosciuto, facendo tesoro
di un articolo del celebre stu-
dioso Antonio Piedimonte
pubblicato tempo fa sulle pa-
gine del Corriere e che ripor-
tiamo parzialmente. Fig. 13
42
Uno scienziato incompreso, un amore sofferto, una morte precoce. Si può forse
riassumere così l’incredibile storia dell’uomo che scoprì il potere delle sostanze an-
tibiotiche trent’anni prima di Fleming, la vicenda di un geniale studioso finito nel di-
menticatoio della storia. Lui si chiamava Vincenzo Tiberio (fig. 12) ed è ancora sco-
nosciuto ai più, persino all’interno della comunità medico-scientifica, e solo da qual-
che anno a questa parte si sta cercando di restituirgli il posto che è suo.
Arzano 1895: il segreto del pozzo
Un anno speciale per la storia della medicina il 1895: Roentgen scopre i raggi X,
Freud apre il vaso di Pandora della psicanalisi e ad Arzano, paese alle porte di Napo-
li, Vincenzo Tiberio individua il primo antibiotico. Dunque con decenni di anticipo
sul famoso Fleming (fig. 13), che per la stessa scoperta (nel suo caso fortuita) vince-
rà nel 1945 il Nobel insieme ai due
studiosi di Oxford: Ernst B. Chain e
Howard W. Florey (fig. 14). Gli
scienziati anglosassoni, va ricordato,
furono aiutati anche dalle autorità
militari Usa, che dichiareranno la pe-
nicillina “Top secret”. Molti anni pri-
ma, invece, il neo laureato Tiberio
aveva fatto tutto da solo, partendo
dall’osservazione delle muffe nel
pozzo della casa dove viveva ad Ar-
zano (in via Zanardelli), dove si era
trasferito dalla natìa Sepino (Campo- Fig. 14
basso) per studiare all’università di
Napoli. Il giovane infatti fece caso a
una strana coincidenza: tutte le volte che si ripuliva il pozzo dalle muffe l’intero nu-
cleo familiare era colpito da enteriti e altri disturbi; intuì dunque che doveva esserci
un nesso tra la scomparsa dei miceti e l’improvvisa esplosione dei batteri patogeni,
così cominciò a studiare le muffe in laboratorio e, soprattutto, a sperimentare.
È il 1895 quando su una prestigiosa rivista scientifica italiana, gli “Annali
d’Igiene Sperimentale”, diretta dal professor Angelo Celli ed edita a Roma dalla ca-
sa editrice Loescher, il giovane medico pubblica - con la supervisione dell’Istituto
d’Igiene della Regia Università di Napoli, diretto da Vincenzo De Giaxa – gli esiti
dei suoi studi con il titolo “Sugli estratti di alcune muffe”. E nell’articolo si legge tra
l’altro: “… nella sostanza cellulare delle muffe esaminate sono contenuti dei princi-
pi solubili nell’acqua forniti di potere battericida… per queste proprietà le muffe sa-
rebbero di forte ostacolo alla vita e alla propagazione dei batteri patogeni”. Insom-
ma, il ricercatore mostrando di essere anche un ottimo microbiologo ha isolato e
classificato i ceppi delle muffe, quindi ha studiato la loro azione battericida e che-
miotattica sperimentandone gli effetti benefici, sia in vitro sia in vivo, su cavie e co-
43
nigli, sino ad arrivare alla preparazione di una sostanza con effetti antibiotici. Quella
che sarebbe stata chiamata penicillina e avrebbe cambiato la storia dell’umanità.
L’articolo però finì tra la polvere delle biblioteche e fino agli anni Quaranta del No-
vecento si continuerà a morire per banali infezioni.
44
Bisognerà aspettare il 1946
perché qualcuno si accorga della
grandezza dello studioso. Sulla ri-
vista “Minerva Medica” il farma-
cologo Pietro Benigno scrive che
“le sue ricerche sono condotte con
tale accuratezza di indagine da
meritare un posto fondamentale
nella ricerca dei fattori antibioti-
ci”. Un anno dopo l’ufficiale me-
dico Giuseppe Pezzi ritrova l’arti-
colo del 1895 e rende pubblica la
vicenda. Non sarà sufficiente a re-
stituire a Tiberio il suo posto nella
storia ma almeno la sua figura co-
mincerà lentamente a uscire dal- Fig. 16
l’oblio. Nel corso del tempo gli sa-
rà intitolata qualche strada (a Fuorigrotta), a Sepino una lapida ricorda (fig. 15) che
fu «Primo nella scienza, postumo nella fama», l’università del Molise darà il suo no-
me a un Dipartimento, e nel 2006 i nipoti Vincenzo Martines e Anna Zuppa Covelli
pubblicheranno il libro “La vita e i diari di Vincenzo Tiberio”; infine il 9 febbraio del
2011 sul “Corriere della Sera” esce un articolo intitolato “La penicillina? Una sco-
perta italiana”. Un po’ di luce in fondo al pozzo (fig. 16).
45
Capitolo 5
Correggiamo ora i dati anagrafici di alcuni pittori del Seicento, partendo dal ce-
lebre Massimo Stanzione, autore di splendidi dipinti che ritraggono “nature” polpo-
se fanciulle dall’epidermide porcellanata (fig. 1). I dati biografici del pittore sono
ancora avvolti dal mistero e si basano unicamente
su quanto asserito dal De Dominici, il quale riferi-
sce che egli nacque ad Orta di Atella nel 1585 (ma
probabilmente la data va spostata in avanti di qual-
che anno) e muore durante la peste del 1656, a tal
punto che più di uno studioso ha voluto identificare
nel famoso quadro (fig. 2) di Micco Spadaro raffi-
gurante la piazza del Mercatello, in basso a destra,
l’artista mentre esala l’ultimo respiro dopo aver ri-
cevuto l’estrema unzione. Tale data è in contrasto
con quanto segnalato da numerose guide ottocente-
sche (Catalani, Nobile) che parlano di una tela del
pittore siglata e datata 1658, ancora oggi presente
nella chiesa di S. Pietro in Vinculis, anche se pur-
troppo mutila nella parte inferiore.
Avendo accennato al Gargiulo, autore di impor-
tanti rappresentazioni di cronaca cittadina e di scene
di martirio (fig. 3) vogliamo cogliere l’occasione per
correggere l’anno della morte dell’artista, prendendo
in esame: Sullo stato delle arti a Napoli, uno scritto Tav. 1 - Massimo Stanzione,
fatto conoscere dal Ceci, che Pietro Andreini inviò al Morte di Cleopatra,
cardinale Leopoldo De Medici, in cui dichiarava che 1640 ca. San Pietroburgo,
“Micco Spadaro, pittore di figurine e di paesi, morì Hermitage Museum
che sono tre anni”. Il Ceci riteneva che tale nota fos-
se stata inviata nel 1678, ma grazie alle diligenti ricerche del Ruotolo, pubblicate nel
1982, si è identificato il giorno esatto nel 20 dicembre 1675, per cui la data della morte
è lapalissiano che debba retrocedere al 1672, come da noi già suggerito da alcuni anni
a pagina 100 della nostra opera “Il secolo d’oro della pittura napoletana”.
Di Agostino Beltrano, marito di Annella De Rosa e di cui presentiamo un inedito
autoritratto (fig. 4) abbiamo già parlato, quando abbiamo riportato la favola dell’uc-
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cisione della moglie partorita
dalla fertile fantasia del De
Dominici.
Esaminiamo ora una «Im-
macolata Concezione» (fig. 5)
allogata in S. Maria la Nova
sulla destra della parete del co-
ro, la quale per evidenti motivi
rappresentativi è databile a
non prima del 1662. Essa in-
fatti raffigura il papa Alessan-
dro VII e l’imperatore Filippo
Tav. 2 - Domenico Gargiulo -
V, che si incontrarono l’otto di-
Piazza Mercatello durante la peste del 1656, cembre del 1661 e sancirono
Napoli, museo di San Martino ufficialmente l’iconografia
dell’Immacolata Concezione.
Questa attribuzione sposterebbe di molto in avanti la data della morte del Beltra-
no, forse fino al 1665 indicato dal De Dominici, in forte contrasto con il 1656 comu-
nemente accettato dagli studiosi.
Tra i luoghi misteriosi di Napoli, intrisi di antiche leggende e stupefacenti miste-
ri, la Cappella Sansevero (tav. 6), situata nel centro antico della città, occupa un po-
sto di rilievo, perché legata indisso-
lubilmente alla figura del proprieta-
rio, il celebre principe (tav. 7), rite-
nuto da sempre un incrocio tra scien-
ziato pazzo e mago stregone e che re-
centi ricerche stanno ampiamente ri-
valutando, riproponendone la figura
come quella di un profondo conosci-
tore di segreti alchemici, uomo di
grande cultura ed ai vertici della po-
tente massoneria partenopea.
Da sempre la fantasia popolare è
stata eccitata dalla presenza, nei sot-
terranei della Cappella, di due sche-
letri (tav. 8) con un sistema cardio Tav. 3 - Domenico Gargiulo - Decapitazione San
Gennaro nella Solfatara di Pozzuoli,
circolatorio in stupefacente stato di
Napoli, collezione della Ragione
conservazione e si è vociferato che
fossero stati creati dallo stesso prin-
cipe, iniettando una segreta mistura nelle vene di due suoi servitori, ancora vivi, pie-
trificati in tal modo per l’eternità. Alcune recenti ricerche di medici napoletani ten-
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dono a considerare i due scheletri, almeno parzial-
mente, semplici macchine anatomiche, degli artefatti
per quanto mirabili, ma non vogliamo parlare di que-
sto argomento, che tratteremo in seguito, bensì del
famosissimo Cristo velato, opera di Giuseppe San-
martino.
Lo scultore è pre-
sente con molte sue
opere in molte chiese
napoletane, realizza-
zioni di buona, a volte
ottima fattura, ma solo
Tav. 4 - Autoritratto di Agostino
una volta egli raggiun-
Beltrano ge livelli sovraumani
di abilità e perfezione
assoluta: nel Cristo ve-
lato (tav. 9-10), un vero e proprio prodigio tecnico,
che permette di vedere chiaramente sotto un velo di
marmo le fattezze di nostro Signore.
Questo unicum, oltre a far giungere a Napoli folle
di visitatori da tutto il mondo aveva incuriosito appas- Tav. 5 -Agostino Beltrano,
sionati d’arte e cultori di segreti alchemici. Si mormo- Immacolata Concezione con
rava di un intervento diretto del principe nella realiz- Alessandro VII e Filippo V
Napoli, S. Maria la Nova
zazione dello straordinario lenzuolo trasparente…, fi-
no a quando, tempo fa, una studiosa napoletana, Clara
Miccinelli (tav. 11), aveva
pubblicato alcuni documenti
notarili comprovanti l’antica
leggenda, ma la serietà della
comunicazione si perse nei
meandri di una troppo pervi-
cace disamina esoterica del-
l’argomento, per cui l’impor-
tante notizia non è stata valu-
tata e recepita dagli studiosi
di storia dell’arte.
Abbiamo personalmente
controllato il documento, con-
servato nell’archivio napoleta-
no e stilato dal notaio Liborio
Tav. 6 - Immagine d’insieme Cappella Sansevero Scala il 25 novembre 1752, tra
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Raimondo di Sangro ed il Sanmartino, nel
quale i due contraenti si accordano sulla rea-
lizzazione della scultura e sul segreto da
mantenere. Trascriviamo alcuni passi ine-
quivocabili:” ad apprestare una Sindone di
tela tessuta, la quale doverà essere depositata
sovra la scultura acciò dipoichè esso Princi-
pe l’haverà lavorata secondo sua propria
creazione; e cioè una deposizione di strato
minuzioso di marmo composito in grana fi-
nissima sovrapposto al velo. Il quale strato
di marmo dell’idea del signor Principe farà
apparire per sua finezza il sembiante di no-
stro Signore dinotante come fosse scolpito di
tutto con la statua. Viceversa il sig. Joseph S.
Martino si obbliga alla pulitura ed allustratu-
ra della Sindone e a non svelare al compi-
mento di essa statua la maniera escogitata
dal Principe per ricovrire la statua”.
Tav. 7 - Principe Sansevero Un altro documento reperito dalla stu-
diosa ci rende nota la formula segreta del
principe per la sua stupefacente creazione:”
Calcina viva nuova 10 libbre, acqua barilli 4, carbone di frassino. Covri la grata del-
la fornace co’ carboni accesi a fiamma di brace con l’ausilio di mantici a basso ven-
to. Cala il modello da covrire in una vasca
ammattonata, indi covrilo con velo sottilissi-
mo di spezial tessuto bagnato con acqua e
calcina…. Sarà il velo come di marmo dive-
nuto al naturale e il sembiante del modello
trasparire”.
I due documenti dimostrano oramai in
maniera inequivocabile, nonostante non sia-
no noti a gran parte degli studiosi, i limiti
dell’abilità del Sanmartino ed aumentano a
dismisura la fama del principe. Probabil-
mente, anche se al momento mancano i ri-
scontri cartacei, pure le altre due sculture ve-
late della Cappella: la Pudicizia (tav.12) del
Corradini ed il Disinganno(tav. 13) del Quei-
rolo sono state eseguite con la collaborazio-
ne del principe, anche se va segnalato che il Tav. 8 - Macchine anatomiche
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Tav. 9 - Cristo velato
Corradini, giunto a Napoli in tarda età, aveva già eseguito statue dotate di velature
molto abili, come l’omonima Pudicizia conservata al Louvre.
In tempi più recenti, un documento nell’Archivio Storico del Banco di Napoli, a
detta di alcuni studiosi, ha testimoniato che il velo della scultura è esclusivamente da
attribuire al genio scultoreo del Sanmartino.
Passiamo ora alla culinaria affermando che uno dei luoghi comuni più diffusi,
ma anche meno precisi, è quello che riguarda la radice povera e popolare della cuci-
na napoletana. In realtà, a partire dalla seconda metà del ’700, in città si è avuta una
vera e propria rivoluzione gastronomica segnata dalla crescente influenza della
Francia e dall’incrocio delle tecniche parigine con le materie prime del territorio ol-
tre che della pasta. Sono stati i monzu, cuochi di corte e delle cucine aristocratiche, i
protagonisti di questa ondata, perché se l’Italia ha conosciuto la nouvelle cuisine ne-
gli anni ’70, le tecniche francesi sono arrivate a Napoli e in Sicilia quasi due secoli
prima.
Ma in cosa consiste
l’influenza della Fran-
cia nella cucina napole-
tana a cavallo tra ’700 e
’800?
In due aspetti fon-
damentali: il primo co-
stituito dalla tecnica di
utilizzo dei prodotti che
punta agli accostamenti
e all’arricchimento pro-
Tav. 10 - Cristo velato (particolare del volto) gressivo del piatto, una
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Tav. 11 - Clara Miccinelli
51
ricette come la mousse di tonno ai
fagiolini nella quale entrano, pen-
sate, ben 200 grammi di maionese
e 70 grammi di panna montata.
Resta un quesito antropologico
non di poco conto: come mai a
Napoli in cucina i poveri hanno
«vinto» sui ricchi? In una parola,
perché la gastronomia campana si
ispira alle preparazioni di strada o
Tav. 14 - Trionfo di Maccheroni a quelle vegetali elaborate ai tem-
pi della fame atavica del popolo
napoletano e non a queste sontuo-
se preparazioni presentate nelle tavole dei
nobili? Forse la prima risposta che si può da-
re è nella perdita progressiva di importanza
del ruolo sociale dell’aristocrazia napoleta-
na, passata in poco meno di un secolo da un
ruolo di assoluta preminenza europea a
quello di consumo della rendita fondiaria e
di difesa dei privilegi senza avere più la ca-
pacità di governo.
Al tempo stesso la cucina della classe
borghese, peraltro in città mai egemone cul-
turalmente e socialmente, è per antonomasia
figlia dell’omologazione oltre che dell’inap- Tav. 15 - Rosanna Marziale
petenza salutista. Inoltre, dobbiamo dirlo,
questa cucina ricca di grassi e di salse è as-
solutamente difficile da sostenere con i ritmi attuali di vita, i tempi ristretti per cuci-
nare, e le preoccupazioni dietetiche. Insomma, si presenta come una cucina poco at-
tuale in un momento in cui i ricchi mangiano
quello che mangiavano i poveri (verdure) e i
poveri quello che mangiavano i ricchi (la
carne). Così questa cucina al momento viene
coltivata quasi come una lingua morta, ricca
di fascino per chi la conosce, ma assoluta-
mente ininfluente nella vita quotidiana di
tutti i giorni. Eppure, ne siamo sicuri, i gio-
vani cuochi potrebbero trarre più di una ispi-
razione da queste costruzioni gastronomi-
Tav. 16 - Masterchef logo che, piatti pensati per stupire le tavolate.
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Capitolo 6
“I fischi del San Carlo a Caruso? Una bufala” ce lo conferma Francesco Canessa
(fig. 1), ex sovrintendente del teatro, appassionato melomane e ricercatore, nel suo
libro Ridi pagliaccio (fig. 2) dove ristabili-
sce la verità e sfata le leggende metropolita-
ne diventate storia col passare degli anni, a
partire dal rapporto che Caruso ebbe con la
sua città e il suo teatro.
“Questa storia dei fischi – dice Canessa
– non è affatto vera, è stata tramandata senza
che nessuno si prendesse cura di verificare”.
Detto fatto è partita la ricerca sui giornali
dell’epoca, ma anche su archivi americani e
Fig. 1 - Francesco Canessa
italiani. “Mi sono divertito e ho trovato
quello che
cercavo”. Ecco così riportati già nel capitolo
d’apertura i commenti dei giornali napoletani al de-
butto di Don Enrico nell’”Elisir d’amore” (dicem-
bre 1901), compreso quello su “Il Pungolo” di Sa-
verio Procida dove sono enumerate le perplessità
sulla scelta di Caruso di cantare quell’opera, peral-
tro applaudita in sala con tanto di bis dell’aria più
celebre, “Una furtiva lacrima”.
In realtà le cronache del 31 Dicembre 1901 e
del 5 Gennaio 1902 su “Il Pungolo” (disponibili
all’Emeroteca Tucci di Napoli), il quotidiano che
monitorava attentamente la vita teatrale di Napoli,
riportano dell’emozione che irretì il tenore nel pri-
mo atto, rotta dagli applausi sempre crescenti fino
alla richiesta del bis.
“Quello che più mi dispiace – insiste Canessa –
è che quell’equivoco di fondo ha prodotto una va-
Fig. 2 - Libro stissima letteratura sul rapporto di Caruso (fig. 3)
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con Napoli, il fatto che egli abbia giurato di
non cantare più al San Carlo (fig. 4), l’addio
polemico del figlio incompreso, un episodio
falso finito anche in tv nella fiction dedicata
alla sua vita”. La verità, secondo lo studioso,
è che Caruso s’era trasferito negli Stati Uniti
dove era diventato una star e poco tempo
aveva per cantare non solo a Napoli, ma in
tutti i teatri italiani. Tra l’altro, in America,
Caruso era diventato un simbolo dell’italia-
nità (fig. 5) e soprattutto un ambasciatore
della cultura italiana attraverso l’opera lirica
in un’epoca in cui l’Italia stava diventando
oltreoceano sinonimo di mafia.
Ciò non impedisce all’autore, critio mu-
sicale ed ex sovrintendente del San Carlo, di
Fig. 3 - Enrico Caruso trasferire nel suo libro anche la sua compe-
tenza musicale, e di spiegare bene la sostan-
za, la qualità, la novità della voce di Caruso,
il perché della sua fama e il mistero di una perfezione attinta a prezzo di ferrea vo-
lontà da lui che, figlio della Napoli più povera, non aveva potuto giovarsi di un’edu-
cazione regolare. Il segreto di Caruso potrebbe stare proprio “in questa formazione
atipica e sostanzialmente anarchica”. Ecco, per dire, la leggendaria esibizione del
1908 al Met, dove
Caruso-Radames do-
mina i tre si bemolle
dell’aria “Celeste Ai-
da” che “sono e sa-
ranno per qualsiasi
tenore un ostacolo
difficile da supera-
re”. Ed ecco i suoi
rapporti coi direttori
d’orchestra, in pri-
mis Toscanini, cogli
impresari e con gli
altri cantanti, dai na-
poletani d’America
Scotti e Amato, a
Scialiapin, alla bel-
lissima Lina Cava- Fig. 4 - San Carlo
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lieri (fig. 6), che nel 1906, duet-
tando con lui nella “Fedora” di
Giordano, allorché Enrico pro-
nunciò la frase “Fedora io
t’amo!” gli cade tra le braccia e
davvero gli scoccò un bacio ap-
passionato mentre calava il sipa-
rio e gli altri molti di cui qui si
racconta.
Canessa, con puntiglio e
acribia, demolisce alcuni luoghi
comuni duri a morire. Come il
supposto “anatema” del tenore
nei confronti della sua città dopo
i fischi al debutto del 1901 con
“Elisir d’amore” (fig. 7). Per
l’autore è una “degenerazione
Fig. 5 - Enrico Caruso massima in stile Gomorra di un
autentico falso storico”, e per
spiegare come andarono le cose rilegge a uno a uno i giornali dell’epoca, “uniche
fonti certe, evidentemente trascurate per colpa o dolo da chi non ha inteso rinunciare
a un pretesto narrativo tanto accattivante”.
A New York Caruso visse per 18 anni, vi celebrò i maggiori trionfi e vi conobbe
i momenti più difficili. L’Italia era la sua villa a Lastra a Signa, fuori Firenze, e ov-
viamente il golfo di Napoli, dove ven-
ne a morire. “Napoletano”, però, fu il
modo che scelse per sposare, a 45 anni,
la ventenne Dorothy Benjamin malgra-
do la fiera contrarietà del padre di lei:
una “fujuta” che precedette le nozze ri-
paratrici del 1918. E napoletane furono
le parole dette al fratello prima di spira-
re al Grand Hotel Vesuvio: “Giovà, af-
facciate ‘o balcone e salutame ’a mun-
tagna!”.
Vent’anni dopo, alla sua morte, fu Fig. 6 - Lina Cavalieri
proprio il barone Saverio Procida a
scrivere un’epigrafe su “Il Mattino”,
sottolineando il suo ruolo nella più spinosa vicenda artistica del tenore: “Dotato di
una voce di stupenda robustezza (e per averne tecnicamente fissato il carattere,
vent’anni fa, il grande artista mi votò un inestinguibile rancore, fino a non voler più
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cantare in Napoli e a
non voler comprendere
che nel mio rilievo
c’era il maggiore elogio
alla intensità della sua
espressione drammati-
ca), guidato da un senti-
mento che amplificava
sempre il contenuto liri-
co del personaggio, si-
curo dell’elasticità in-
comparabile dei suoni,
che vibravano nella go-
la, perché erano tem-
prati sulla sensibilità
Fig. 7 - Elisir d’amore quasi morbosa del suo
temperamento artistico,
scevro di pregiudizi sti-
listici, che non arrestavano mai la fiamma di cui il napoletano autentico a dispetto
della vernice transatlantica aspersa più sulle sue scarpe che sulla sua fantasia brucia-
va, tutto istinto e intuito, tutto estemporaneità di sensazione, il tenore che non ebbe
emuli nel suo tempo e poté per antonomasia accettare per lui soltanto la lettera maiu-
scola della chiave in cui cantò, fu il prototipo del tenore moderno. Egli incarnò il
realismo musicale, fu il vocabolario della nuova lingua».
Rimanendo in campo musicale trattiamo ora de La canzone del Piave (fig. 8),
conosciuta anche come La leggenda del Piave, una delle più celebri canzoni patriot-
tiche italiane. Il brano fu scritto nel 1918 dal maestro Ermete Giovanni Gaeta (fig. 9)
(noto con lo pseudonimo di E.A. Mario).
Durante la seconda guerra mondiale, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, il
governo italiano l’adottò provvisoriamen-
te come inno nazionale, poiché si pensò
fosse giusto sostituire la Marcia Reale con
un canto che ricordasse la vittoria dell’Ita-
lia nel primo conflitto mondiale. La mo-
narchia italiana era infatti stata messa in
discussione per aver consentito l’instau-
rarsi della dittatura fascista. La canzone
del Piave ebbe la funzione di inno nazio-
nale italiano fino al 12 ottobre 1946,
quando fu sostituita da Il Canto degli Ita-
liani di Goffredo Mameli e Michele No- Fig. 8 - Lo spartito de La leggenda del Piave
56
varo. L’inno nazionale definitivo in sosti-
tuzione del provvisorio Inno di Mameli
avrebbe dovuto essere proprio La Canzo-
ne del Piave, ma il Presidente del Consi-
glio Alcide De Gasperi non avrebbe cal-
deggiato la candidatura della canzone per-
ché offeso da Gaeta che si rifiutò di com-
porre l’inno ufficiale della Democrazia
Cristiana.
I fatti storici che ispirarono l’autore
risalgono nell’ambito della 1° guerra
mondiale (fig. 10) al giugno del 1918,
quando l’Impero austro-ungarico decise
di sferrare un grande attacco, ricordato
Fig. 9 - E. A. Mario - Ermete Giovanni Gaeta
con il nome di “Battaglia del solstizio” sul
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fronte del fiume Piave per piegare definitivamente l’esercito italiano, già reduce dal-
la sconfitta di Caporetto (fig. 11-12-13). La Landwehr (l’esercito imperiale austria-
co) si avvicinò pertanto alle località venete delle Grave di Papadopoli e del Montel-
lo, ma fu costretta ad arrestarsi a
causa della piena del fiume. Ebbe
così inizio la resistenza delle For-
ze armate del Regno d’Italia, che
costrinse gli austro-ungarici a ri-
piegare.
Il 4 luglio del 1918, la 3ª Ar-
mata del Regio Esercito Italiano
occupò le zone tra il Piave vecchio
ed il Piave nuovo. Durante lo svol-
gersi della battaglia morirono
84.600 militari italiani e 149.000 Fig. 11 - Piave
militari austro-ungarici. In occa-
sione dell’offensiva finale italiana dopo la battaglia di Vittorio Veneto, avvenuta nel-
l’ottobre del 1918, il fronte del Piave fu nuovamente teatro di scontri tra l’Austria-
Ungheria e l’Italia. Dopo una tenace resistenza iniziale, in concomitanza con lo sfal-
damento politico in corso nell’Impero, l’esercito austro-ungarico si disgregò rapida-
mente, consentendo alle truppe italiane di sfondare le linee nemiche (fig. 14).
La leggenda del Piave fu composta nel giugno 1918 subito dopo la battaglia del
solstizio, da Ermete Alessandro Mario, pseudonimo di Ermete Giovanni Gaeta, un
prolifico autore di canzoni napoletane che spaziava dalle canzonette alle canzoni
militari. Ben presto
venne fatta cono-
scere ai soldati dal
cantante Enrico
Demma (Raffaele
Gattordo). L’inno
contribuì a ridare
morale alle truppe
italiane, al punto
che il generale Ar-
mando Diaz inviò
un telegramma al-
l’autore nel quale
sosteneva che aveva
giovato alla riscossa
nazionale più di
Fig. 12 - Piave trincea quanto avesse potu-
58
to fare lui stesso: «La vostra
leggenda del Piave al fronte è
più di un generale!». Venne
poi pubblicata da Giovanni
Gaeta con lo pseudonimo di E.
A. Mario il 20 settembre del
1918, circa quaranta giorni
prima della fine delle ostilità.
Il testo e la musica, che
fanno pensare ad una canzone
patriottica con la funzione di
incitare alla battaglia, hanno
l’andamento colto e ricercato
di altre canzoni che già aveva-
no fatto conoscere Giovanni
Gaeta nell’ambiente del caba-
ret; sue sono anche Vipera, Le
rose rosse, Santa Lucia luntana Fig. 13 - L’incitazione patriottica Tutti Eroi!
(fig. 15), Balocchi e profumi. O il Piave o tutti accoppati!,
La funzione che ebbe La leg- opera del generale dei Bersaglieri Ignazio Pisciotta
genda del Piave nel primo do-
poguerra fu quello di idealizzare la Grande Guerra; farne dimenticare le atrocità, le
sofferenze e i lutti che l’avevano caratterizzata.
Grazie a Pietro Gargano, critico musicale e penna storica de Il Mattino, possia-
mo ora sfatare alcuni luoghi comuni duri a resistere.
Il primo è che l’autore non scrisse la leggenda del Piave (fig.16) per celebrare
una vittoria bensì per auspicare una riscossa dopo l’onta di Caporetto. Egli voleva
recarsi personalmente al fronte, ma gli fu impedito, affidò allora all’amico bersaglie-
re Raffaele Gottardo, in arte Enrico Demma, la missione di divulgare il testo tra i
combattenti. L’effetto fu straordi-
nario al punto che Armando Diaz
dichiarò:”al fronte la Leggenda va-
le più di un generale”.
Il secondo luogo comune da
cancellare è legato al nome di chi
lanciò la canzone in teatro, che tutti
indicano quello di Anna Fougez,
mentre l’autore ha sempre ricorda-
to che fu Gina De Chamery a pro-
porlo a Piedigrotta il 13 agosto del
Fig. 14 - Bollettino di guerra 1918 nel minuscolo teatro Rossini.
59
Fig. 15 - Santa Lucia luntana
60
Capitolo 7
La perdita del ruolo di capitale dopo l’unità d’Italia è stato per Napoli l’inizio di
una decadenza che ancora non si è fermata dopo 150 anni. Dai primati positivi ed
erano tantissimi, la città è passata a quelli negativi, mentre una sistematica opera di
falsificazione della realtà è stata portata avanti da storici collusi col potere, il cui ver-
bo distorto è stato propagandato in tutti i libri, divenendo programma di insegna-
mento nelle scuole.
I conquistatori piemontesi cambiarono i nomi a strade e piazze per cancellare
ogni traccia del passato, imponendo toponimi legati alla loro dinastia ed al nuovo
corso degli avvenimenti.
L’unica possibilità di riscatto e di ripresa per Napoli ed i napoletani è oggi legato
alla volontà di riappropriarsi del suo passato glorioso e della loro identità perduta.
Interminabili furono i
record del Regno delle
due Sicilie al cospetto di
quelli negativi di oggi, da
capitale della monnezza a
territorio incontrastato
della criminalità organiz-
zata.
Un segno tangibile di
inversione di tendenza
sarebbe quello di cambia-
re il nome di alcune stra-
de, per cancellare le trac-
fig. 1 - Fergola Salvatore - Inaugurazione della Napoli Portici
ce della colonizzazione
piemontese avvenuta con
la truffa dell’Unità d’Italia: piazza del Plebiscito dovrebbe tornare al toponimo di
Largo di Palazzo, via dei Mille andrebbe mutata in corso Gianbattista Basile o me-
glio ancora Achille Lauro, piazza Garibaldi, tolta al famigerato eroe dei due mondi,
origine di tutti i nostri guai, va decisamente intitolata al 3 ottobre 1839, giorno del-
61
l’inaugurazione della prima linea ferrovia-
ria italiana (fig. 1-2), la Napoli Portici,
mentre il corso Vittorio Emanuele, la pri-
ma tangenziale del mondo, aspetta ancora
giustizia e la dedica al nome del suo idea-
tore, Ferdinando II (fig. 3), che la realizzò
in poco più di un anno.
Infatti nel 1853 il re borbone Ferdinan-
do II realizzava in pochi mesi un’arteria di
cinque chilometri (fig. 4-5), che, superan-
Fig. 2 - Inaugurazione della ferrovia Napoli- do delicati problemi orografici, metteva in
Portici - Caserta Palazzo Reale, quadreria collegamento la parte occidentale della
città con la parte orientale, permettendo
l’urbanizzazione di vaste aree.
L’opera fu apprezzata in tutta Europa per le soluzioni tecniche e la velocità di
esecuzione. I napoletani cavallerescamente vollero dedicarla alla regina Maria Tere-
sa, ma il toponimo ebbe breve durata, perché subito dopo l’unità d’Italia, i Savoia
decisero che un nuovo nome: corso Vittorio Emanuele, dovesse ricordare il loro re
conquistatore dell’antico regno, an-
che se la strada era stata realizzata
da un altro sovrano.
Questa appropriazione indebita è
passata sotto silenzio per 150 anni,
ma è giunto il momento per fare giu-
stizia di questi soprusi del passato,
grazie al certosino lavoro di corag-
giosi storici che, lentamente, ci stan-
no insegnando a rivalutare la nostra
storia gloriosa.
Un invito perentorio va avanzato
perciò al sindaco di voler dedicare
questa strada a chi l’ha ideata e rea-
lizzata nell’interesse della sua amata
città: Ferdinando II.
Identico discorso va fatto per il
biglietto da visita che la città offre ai
forestieri, la quale si è sempre chia-
mata della Ferrovia, anche se i napo-
letani preferivano chiamarla da’ sta-
zione (fig. 6). Poi giunse Garibaldi
con i piemontesi è la musica cambiò, Fig. 3 - Statua Ferdinando II
62
ma soprattutto cominciò l’opera di falsi-
ficazione sistematica della nostra storia;
infatti il luogo così caro ai napoletani as-
sunse prima, nel 1891, la denominazione
di piazza dell’Unità d’Italia, per divenire
poi, nel 1914, in coincidenza con l’inau-
gurazione della statua dell’eroe dei due
mondi, piazza Garibaldi.
Ricordo ancora con commozione
quando alla testa di un gruppo di cittadi-
Fig. 4 - Attilio Pratella ni, esasperati dalle lentezze burocratiche,
Corso Vittorio Emaneuele fisicamente sovrapposi a quelle del co-
mune targhe nuove di zecca con l’indica-
zione di piazza 3 ottobre 1839, una data
fatidica della storia napoletana, che i nostri colonizzatori hanno fatto di tutto per farci
dimenticare. In quel lontano giorno, prima
in Italia e seconda al mondo, sfrecciò la
prima ferrovia italiana: la Napoli-Portici.
Avevo informato stampa e televisioni
delle nostre intenzioni e scelsi come giorno
il 4 luglio, bicentenario della nascita di Ga-
ribaldi. Presa in prestito una scaletta da un
negoziante di tessuti, applicai la nuova
scritta ed improvvisai un discorso alla folla,
immortalato da 12 emittenti private, che
trasmisero in differita l’episodio agli spetta-
tori di diverse regioni, mentre i giornali ne
parlarono il giorno dopo entusiasti. La noti-
zia della burla giunse fino in Francia sulle
pagine di Le Monde. Due vigili urbani, un
uomo ed una donna, incuriositi dall’assem-
bramento, chiesero timidamente alla folla
cosa stesse succedendo. Qualcuno rispose:
“Quel signore ha cambiato il nome alla
piazza”; “Allora va bene, tutto a posto”. Le
nuove targhe sono rimaste in loco per mesi,
senza che nessuna autorità intervenisse e
solo la pioggia le ha portato via.
L’anno scorso l’impresa è stata ripetu-
ta da un’organizzazione neo borbonica, Fig. 5 - Attilio Pratella
sempre senza riuscire a smuovere l’ammi- Corso Vittorio Emaneuele
63
nistrazione comunale dal suo
torpore criminale.
L’unica possibilità di ri-
scatto e di ripresa per Napoli ed
i napoletani è oggi legato alla
volontà di riappropriarsi del
suo passato glorioso e della lo-
ro identità perduta.
Attendere che a ciò provve-
dano le istituzioni è pura uto-
Fig. 6 - Vecchia stazione di Napoli pia, per cui solo dei liberi citta-
dini possono sanare una palese
ingiustizia.
Tutto il mondo deve sapere che i napoletani sono gente antica e paziente, ma che
in passato la città ha rifiutato l’Inquisizione e dato i natali a Masaniello; essa non
vuole recidere le radici col passato e vuole un futuro migliore.
Abbiamo alle spalle una storia gloriosa di cui siamo fieri, passeggiamo sulle
strade selciate dove posò il piede Pitagora, ci affacciamo ai dirupi di Capri appog-
giandoci allo stesso masso che protesse Tiberio dall’abisso, cantiamo ancora antiche
melodie contaminate dalla melopea fenicia ed araba, ma soprattutto sappiamo anco-
ra distinguere tra il clamore clacsonante delle auto sfreccianti per via Caracciolo ed
il frangersi del mare sulla scogliera sottostante.
Avere salde tradizioni e ripetere antichi riti con ingenua fedeltà è il segreto e la
forza dei Napoletani, gelosi del loro passato ed arbitri del loro futuro, costretti a vi-
vere, purtroppo, in un interminabile e soffocante presente, del quale ci siamo scoc-
ciati e da oggi vogliamo dive-
nire attivi artefici del nostro
destino.
Palazzo Donn’Anna (fig.
7-8), una delle dimore più fa-
mose della città, è la location
dove, complice la fertile fan-
tasia di Matilde Serao, sono
ambientate una serie di leg-
gende erotiche, che hanno co-
me protagoniste le due regine
Giovanna I (fig. 9-10) e Gio-
vanna II (fig. 11), vissute
l’una nel Trecento e l’altra
nel Quattrocento, alcune cen-
tinaia di anni prima della co- Fig. 7 - Palazzo Donn’Anna
64
struzione dell’edificio, che risale
alla fine del XVII secolo.
Nella memoria popolare ed an-
che tra gli studiosi più accreditati si
confondono le figure delle due so-
vrane, che in comune avevano una
condotta sessuale quanto mai disi-
nibita, ma ciò che si racconta deve
essere ambientato nei sotterranei
del Maschio angioino, complice un
famelico coccodrillo, che faceva
piazza pulita dei numerosi amanti
delle regine, dopo aver espletato le Fig. 8 - Palazzo Donn’Anna
pulsioni sessuali più sfrenate.
Le origini del palazzo risalgono alla fine degli anni trenta del 1600, quando ven-
ne innalzato per la volontà di donna Anna Carafa (fig. 12), consorte del viceré Rami-
ro Núñez de Guzmán, duca di Medina de las Torres (fig. 13). Il progetto per la realiz-
zazione fu commissionato al più importante architetto della città di quel periodo,
Cosimo Fanzago, che nel 1642 approntò un disegno secondo i canoni del barocco
napoletano che prevedesse tra le altre cose anche la realizzazione di un doppio punto
d’ingresso, uno sul mare ed uno da una via carrozzabile che si estendeva lungo la co-
sta di Posillipo. Per la costruzione del palazzo, fu necessario demolire una preesi-
stente abitazione cinquecentesca (villa Bonifacio). Il Fanzago, però, non riuscì a
completare l’opera per via della prematura morte di donn’Anna, avvenuta in un con-
testo di insorgenza popolare a causa della temporanea caduta del viceregno spagno-
lo, con la conseguente fuga del marito della stessa verso Madrid (1648).
L’edificio rimasto incompiuto assunse lo spettacolare fascino di una rovina antica
confusa fra i resti delle ville romane, che caratterizzano il litorale di Posillipo e fra gli
anfratti delle grotte.
Il palazzo subì alcu-
ni danni durante la rivol-
ta di Masaniello del
1647 e durante il terre-
moto del 1688.
Il palazzo è lo scena-
rio di una delle più cele-
bri leggende napoletane
scritte da Matilde Serao.
Nel libro Leggende na-
poletane la scrittrice così
Fig. 9 - Giovanna I lo dipingeva:
65
«Il bigio palazzo si erge nel
mare. Non è diroccato, ma non fu
mai finito; non cade, non cadrà,
poiché la forte brezza marina soli-
difica ed imbruna le muraglie,
poiché l’onda del mare non è per-
fida come quella dei laghi e dei
fiumi, assalta ma non corrode. Le
finestre alte, larghe, senza vetri,
rassomigliano ad occhi senza pen-
siero; nei portoni dove sono
scomparsi gli scalini della soglia,
entra scherzando e ridendo il flut-
to azzurro, incrosta sulla pietra le
sue conchiglie, mette l’arena nei
Fig. 10 - Giovanna I cortili, lasciandovi la verde e luci-
da piantagione delle alghe. Di
notte il palazzo diventa nero, in-
tensamente nero; si serena il cielo sul suo capo, rifulgono le alte e bellissime stelle,
fosforeggia il mare di Posillipo, dalle ville perdute nei boschetti escono canti malin-
conici d’amore e le malinconiche note del mandolino: il palazzo rimane cupo e sotto
le sue volte fragoreggia l’onda marina…».
Nelle credenze popolari Donn’Anna viene confusa con la famosa e discussa regina
Giovanna d’Angiò che qui avrebbe incontrato i suoi giovani amanti, scelti fra prestanti
pescatori e con i quali trascorreva appassionate notti di amore, per poi ammazzarli al-
l’alba facendoli precipitare dal palazzo; la leggenda
vuole che le anime di questi sventurati giovanotti tutto-
ra si aggirino nei sotterranei dell’antica dimora, affac-
ciandosi al mare ed emettendo lamenti. Altri invece
raccontano che la regina facesse uscire il suo amante
con una barca a remi dall’entrata che dà sul mare, quel-
la che oggi è possibile vedere dalla spiaggia, tuttora
usata dagli inquilini per accedere alle imbarcazioni.
Un’altra leggenda metropolitana, riportata dalla
stessa Matilde Serao, narra di un fantasma della gio-
vane e bellissima Mercedes de las Torres che in una
scena teatrale baciò il nobile Gaetano di Casapenna,
amante della viceregina Anna Carafa. La giovane, ni-
pote della nobildonna Carafa, scomparve misteriosa-
mente. Così conclude la Serao in merito alla leggen-
da di “Palazzo Donn’Anna”: Fig. 11 - Giovanna II
66
«Quei fantasmi sono quelli degli
amanti? O divini, divini fantasmi!
Perché non possiamo anche noi, co-
me voi, spasimare d’amore anche
dopo la morte?».
Per Raffaele La Capria, che ne
fece uno dei luoghi del suo “Ferito a
morte, si tratta di una «maestosa
mole cadente e quasi una rovina, ma
bellissima, al cospetto del mare».
Vogliamo concludere proponen-
do la soluzione di un mistero, che ap-
passiona decine di migliaia di lettori,
anche se è di una stupidità assoluta:
scoprire l’identità di Elena Ferrante
(fig.14), lo pseudonimo dietro al qua-
le si nasconde la scrittrice (o lo scrit-
tore) più venduto degli ultimi anni so-
Fig. 12 - Anna Carafa prattutto sul mercato anglo sassone.
Elena Ferrante, scrittrice italia-
na pubblicata in tutto il mondo, consigliata perfino
da Michelle Obama, è stata identificata, dopo scru-
polose indagini fiscali con Anita Raja (fig. 15). Ma
chi è Anita Raja? Nella realtà è una traduttrice dal
tedesco – già collaboratrice della casa editrice e/o –
, moglie di un altro protagonista delle lettere, lo
scrittore Domenico Starnone (fig. 16), anch’egli in-
dicato in passato come possibile “penna” di questo
fenomeno letterario.
Tutto inizia con lo scoop di Claudio Gatti, usci-
to sul Domenicale del Sole 24 Ore e in contempo-
ranea sul New York Review of Books, il Frankfur-
ter Allgemeine Zeitung e Mediapart.
Il giornalista ha utilizzato quelle che chiama
“evidenze finanziarie” ovvero ha fatto i conti in ta-
sca alla traduttrice e a suo marito, incrociando i lo-
ro introiti con i bilanci della casa editrice, che pub-
blica i libri della scrittrice fantasma. Man mano che
questi ultimi salivano, arrivando a circa 7 milioni
di euro, anche i compensi della Raja sarebbero lie- Fig. 13 - Vicerè Ramiro Ramiro
vitati, aumentando del 150%, con acquisti di case Núñez de Guzmán
67
Fig. 15 - Anita Raja
68
Capitolo 8
69
partamento detto ‘della fenice’
(come indicato nelle note di
una guida del ’700 e come rife-
rito da alcuni viaggiatori), per
poi essere trasportate successi-
vamente nella cappella.
Guardandole con attenzio-
ne, si rimane stupiti dalla per-
fezione e accuratezza degli in-
trecci, come se davvero fosse
il risultato di un orrendo sacri-
ficio.
A completare il sinistro al-
lestimento, fino al secolo scor-
so era presente il corpo di un
feto, poi trafugato, che sem-
brava aver subito lo stesso pro-
cedimento alchemico.
Si racconta che la realizza-
zione delle stesse fu attuata an-
che con l’aiuto dell’anatomista
palermitano Giuseppe Salerno,
nella seconda metà del ’700.
E qui l’arcano e l’insolito
cominciano a sfilacciarsi, dato
Fig. 3 - Principe Sansevero che un contratto depositato
presso l’Archivio Notarile di
Napoli sottolineerebbe un ac-
cordo tra il principe e il medico, col primo che si sarebbe impegnato unicamente a
fornire filo di ferro e cera per realizzare le
opere.
Nel 2008 alcuni ricercatori dell’Uni-
versity College London (UCL) hanno
eseguito alcune analisi sulle ‘Macchine’,
dichiarando che gli scheletri (fig. 4-5) so-
no genuini mentre i sistemi circolatori so-
no realizzati artificialmente appunto con
filo metallico e cera colorata.
Anche un’analisi del 2014 effettuata
da medici dell’ospedale San Gennaro ha
riportato i medesimi risultati. Infatti, un Fig. 4 - Macchine anatomiche, particolare
70
gruppo di cardiologi, capitanato dal
prof. Galzerano, peraltro sulla base di
una semplice ricognizione visiva, ha
rilevato un errore nella ricostruzione
dell’apparato circolatorio (fig. 6), un
difetto piccolo ma decisivo: nessun
uomo avrebbe potuto vivere con quel-
la «malformazione».
Oggi sappiamo con certezza che il
principe li avrebbe solo comprati, gra-
zie ad un libro di Sergio Attanasio,
che fa luce anche sulle due macchine
anatomiche.
L’autore, tra l’altro, ricorda come
furono descritte nella «Breve Nota»
del 1766: «… si veggono due mac-
chine anatomiche, o, per meglio dire,
due scheletri, d’un maschio, e d’una
femmina, ne’ quali si osservano tutte
le vene e tutte le arterie de’ Corpi
umani, fatte per injezione, che; per
essere tutti intieri, e, per diligenza,
Fig. 5 - Macchine anatomiche (testa)
con cui sono stati lavorati, si possono
71
Fig. 7 - Jusepe de Ribera - San Gennaro Fig. 8 - Artemisia Gentileschi
esce illeso dalla fornace San Gennaro nell’anfiteatro di Pozzuoli,
1646, Napoli, Cappella del tesoro 1636 - Pozzuoli, cattedrale
di San Gennaro
Tutto ha inizio in Sicilia, scrive Russo De Gregorio nel 1762: «Il 5 maggio del
1756... Giuseppe Salerno palermitano mostrò uno scheletro elaboratissimo da ogni
parte. Questo, costruito con impegno e con arte di opere meccaniche mostrava
l’osteografia dell’uomo e insieme l’angiologia, per un numero complessivo di 261
ossa».
Attanasio, inoltre, ricorda che la Real Accademia Medica Palermitana «non era
comunque nuova a sperimentazioni in questo campo, difatti, nel 1753 un altro ana-
tomista, Paolo Graffeo, aveva costruito “un uomo e una donna con il feto (...) che
erano conservati e posti in bella mostra nei locali dell’Università in teche decorate
da pietre preziose». Dunque, nella Palermo di metà ’700 si realizzavano delle per-
fette riproduzioni del corpo umano. E quando la notizia giungerà al re Carlo, il so-
vrano chiederà di organizzare «una lezione ad un pubblico consesso di nobili e let-
terati» a Napoli. E, spiega ancora lo studioso napoletano, al convegno fu invitato
anche Sansevero (che era amico personale del re), il quale «dopo aver visto la me-
ravigliosa macchina del Salerno non si fece sfuggire la ghiotta occasione di cono-
scere questa opera meccanica e il suo creatore». Non solo. Quando seppe che vole-
72
va portare a Bologna la
macchina, «ne propose
subito l’acquisto per
esporlo nella galleria
del suo palazzo, appe-
na passato il giorno
dello spettacolo, il
principe di San Severo
mecenate dei letterati,
stabilì di conservare
questo mirabile schele-
tro nella sua ammire-
vole pinacoteca ed at-
tribuì all’autore del- Fig. 9 - Sventolio
l’opera una pensione
splendida, vita natural durante».
Va ricordato che dopo l’acquisto, i due scheletri non furono collocati nella chie-
sa (dove si vedono oggi), ma nell’appartamento del Principe. Dove, nel 1775, li ve-
drà il marchese De Sade: «… Questi appartamenti – scrisse – sono in verità ornati da
affreschi di Beltisar (Belisario Corenzio) pieni di freschezza e di piacevolezza: ma è
tutto. In una di queste sale si vedono due scheletri piuttosto curiosi».
Un modello dunque di straordinaria precisione per lo studio dell’anatomia, ma
anche lo «spettacolo» del corpo umano come non si era mai visto prima. Inevitabile
che il Principe ne rimanesse conquistato e decidesse di acquistare prima l’uomo e
poi la donna con il feto (che poi andrà perduto). Leggiamo da una lettera del 1762:
«L’autore di queste sta-
tue fu Giuseppe Saler-
no nato in Palermo nel
1728 (…) Conoscendo
però la tendenza, che il
principe... mostrava
verso simili cose, glielo
portò in Napoli, e n’eb-
be la pensione annua di
onze cinquanta; sebbe-
ne fu rimproverato per
non averlo lasciato alla
sua patria…». Ironia
della sorte, infatti, al
Salerno «non fu ricono-
Fig. 10 - Sventolio
sciuta giusta fama de-
73
gna della sua opera». Non
solo. L’anatomista paler-
mitano – che morirà pro-
prio per le conseguenze di
una depressione – sarebbe
stato oscurato dalle pre-
ponderante fama del San-
severo. In attesa che si re-
stituisca allo studioso sici-
liano quel che merita, c’è
da accogliere con soddi-
sfazione la ricerca del pro-
fessor Attanasio, un lavoro
Fig. 11 - Papa Francesco con il cardinale Sepe che apre nuovi spiragli di
74
Fig. 13 - Championnet
75
lare e sovrannaturale nello stesso tempo. Unti del Signore, ma pure da san Gennaro.
In un’occasione ben precisa, fuori dalle tre date canoniche e significative, lo sciogli-
mento è stato imposto con la forza delle armi. È il celebre episodio del 1799, quando
il generale Championnet (fig. 12-13) per dare la legittimazione più all’occupazione
francese che alla Repubblica Napoletana, visto che il sangue ritardava a compiere il
prodigio, minacciò i religiosi. Secondo il racconto molto romanzato di quel geniac-
cio di Alexandre Dumas, il liquido nella teca prontamente si squagliò. Al primo pa-
trono fu immediatamente appiccicata, dai lazzari e dai sanfedisti, l’etichetta di gia-
cobino. Ma a ben leggere, con il senno di poi, probabilmente fu un segnale per gli in-
genui rivoluzionari. Da martire a martiri in pectore. Volete la consacrazione del san-
gue? E prendetevela, ma poi non venite a lamentarvi che finite sul patibolo e alla fi-
ne, al massimo, vi dedicano una piazza, sebbene salottiera, con una colonna e quat-
tro leoni (fig. 14).
Fino ad ora abbiamo riportato testualmente uno scritto di Pietro Treccagnoli, una
delle penne più sofisticate de Il Mattino e soprattutto valente napoletanista, il quale
accetta senza riserve la favola del generale francese che induce sotto la minaccia dei
fucili San Gennaro ha manifestare il suo prodigio (fig. 15). La cosa grave è che a
questa falsità crede anche Giuseppe Galasso, uno dei più celebri storici italiani, co-
me ha di recente manifestato in pubblico nel teatro Bellini nel corso di un’affollata
conferenza.
Dobbiamo essere grati a Maurizio Ponticello che, nel suo recente libro dedicato
al patrono napoletano ha dedicato un corposo capitolo all’episodio, sottolineando
che tra le carte ufficiali della Deputazione del Tesoro, dove puntigliosamente sono
76
annotati tutti gli scioglimenti
dal 1389 ad oggi, non vi è al-
cuna traccia del prodigioso
evento “a comando” citato vi-
ceversa su tutti i libri di storia.
Quando si parla di San
Gennaro a Napoli e si mettono
in luce falsità ed errori, biso-
gna stare attenti, perché il pa-
trono gode della stima svisce-
rata non solo del popolo, ma
anche di molti intellettuali.
Per scoprire uno degli erro-
ri più abusati: Napoli città dei
Fig. 16 - Domenico Gargiulo sangui, basta aver frequentato
Decapitazione di San Gennaro nella Solfatara di Pozzuoli
con profitto le elementari, ap-
Napoli, collezione della Ragione
prendendo che la parola sangue
non possiede il plurale; per ac-
certarsi che la decapitazione del santo(fig. 16), avvenuta secondo la leggenda il 19 set-
tembre del 305, regnante l’imperatore Diocleziano, bisogna aver frequentato le scuole
medie ed appreso durante le ore dedicate alla storia che a quella data l’imperatore era
diverso; infine per intendere l’errore di liquefazione del grumo di sangue, bisogna aver
frequentato le lezioni di fisica al liceo, acquisendo la nozione precisa di liquefazione,
che consta nel passaggio di un corpo dallo stato gassoso allo stato liquido.
Vorrei concludere questa breve carrellata sul presunto prodigio, non parliamo
mai di miracolo, perché la stessa Chiesa non lo riconosce come tale, proponendo al
lettore una mia missiva sull’argomento, pubblicata nel 2015 su numerosi giornali, in
primis il settimanale L’espresso, nella quale mettevo in risalto(e da allora il fenome-
no si è ripetuto costantemente ad ogni scadenza canonica o fuori programma) che il
sangue prelevato dalla cassaforte è già sciolto, cosa che probabilmente avviene du-
rante l’anno decine di volte e basterebbe posizionare una micro telecamera a raggi
infrarossi nella cassaforte per accorgersi del ripetersi a catena dell’evento. Per il pre-
stigio di San Gennaro sarebbe un brutto colpo, ma finalmente la nostra città potreb-
be entrare a testa alta nel mondo contemporaneo.
77
hanno ripetuto il prodigio (non chiamiamolo miracolo, perché anche la Chiesa non
lo riconosce) divenuto oramai molto, troppo frequente.
Lo stesso pontefice a marzo era stato molto riservato sul fenomeno e pare che fi-
nalmente, grazie al suo coraggio, si è prossimi ad una pronuncia ufficiale sui mira-
coli… in serie che si producono a Medjugorie, dove hanno dato luogo ad un turismo
religioso ed un giro di affari da far impallidire la stessa Lourdes.
In attesa che indagini serie, eseguite da una commissione internazionale di
scienziati, sulle tante ampolle di sangue, appartenenti a santi meno famosi, ma so-
prattutto di proprietà di nobili famiglie napoletane, possa chiarire definitivamente la
natura del fenomeno, sarebbe troppo indiscreto collocare una micro telecamera nella
cassaforte dove sono conservate le ampolle del patrono di Napoli ed osservare se per
caso durante i mesi trascorsi tra un prodigio e l’altro, la liquefazione non si ripeta
continuamente e non unicamente nelle occasioni canoniche?
78
Capitolo 9
Negli ultimi decenni i mass media, tutti di proprietà monopolistica del Nord,
hanno non solo falsificato i libri di storia, ma hanno cercato di diffondere lo stereoti-
po di un Meridione costituito da fannulloni e parassiti, alle cui esigenze debbono
provvedere le regioni settentrionali, prospere e laboriose.
Solo di recente alcuni seri ricercatori,
come Gennaro De Crescenzo (fig. 1), assi-
duo frequentatore di archivi ed alcuni
scrittori come Pino Aprile, autore di un
pamphlet di successo, che coniuga dati
storici inoppugnabili ad una travolgente
vena polemica (fig. 2), hanno cercato di ri-
leggere con onestà gli avvenimenti del
passato, soprattutto il fenomeno del bri-
gantaggio, che vide un tacito accordo tra i Fig. 1 - Gennaro De Crescenzo
notabili latifondisti e la borghesia impren-
ditoriale del Nord.
Le campagne erano in rivolta ed il brigantaggio faceva del Sud un vero e proprio
Far West.
Furono i soliti gattopardi, padroni dei voti delle masse popolari, ad aderire alle
scelte politico-economiche post-unitarie, privilegiando finanziariamente lo sviluppo
delle industrie padane a costo di penalizzare per sempre ogni possibilità di sviluppo
del Meridione, i cui abitanti si videro costretti, a decine di milioni, ad abbracciare la
scelta dell’emigrazione.
Fu una diaspora di dimensioni bibliche, un vero e proprio genocidio del quale
vanamente troverete anche un accenno nella storiografia ufficiale.
Il dato più importante da cui bisogna partire è che all’indomani del plebiscito,
quando il nuovo regime cominciò ad assumere i primi provvedimenti finanziari, si
rese conto che il Regno delle due Sicilie aveva in cassa 443 milioni, più del doppio
dei bilanci di tutti gli altri Stati della penisola che, tutti assieme, raggranellavano 220
milioni.
79
Tutto ciò a dimo-
strazione lampante
che l’economia era più
che florida, esportan-
do legname, grano,
frutta, olio, primizie,
vini pregiati, carne,
uova, pasta, latte ed
agrumi, garantendo un
costante flusso di va-
luta estera.
E se passiamo dal-
l’agricoltura all’indu-
stria il divario era an-
Fig. 2 - Nostalgia e orgoglio cora più accentuato,
dalla produzione di
pelletteria agli strumenti di precisione, mentre la grandiosa fabbrica di Pietrarsa sfor-
nava a getto continuo colossali macchinari, dalle locomotive alle macchine a vapore,
dalle gru ai ponti di ferro alle rotaie, a parte pezzi di artiglieria, bombe e granate.
Nel frattempo i cantieri di Castellammare producevano centinaia di navi che fa-
cevano della flotta borbonica una delle più importanti del Mediterraneo, oltre a mol-
te altre commissionate dall’ estero.
Nella zona di Amalfi era tutto un susseguirsi di cartiere e di opifici tessili e non
poche erano le risorse minerarie; a parte lo zolfo in Sicilia, si estraeva ferro, piombo,
antracite e talco.
Ma i veri primati di Na-
poli indiscussi sono nel cam-
po della cultura, dell’edilizia
e della scienza. Accenniamo
ai principali:
Nel 1738 si diede inizio
ai lavori per la Reggia di Ca-
podimonte.
Nel 1751 Ferdinando Fu-
ga ebbe l’incarico per la co-
struzione dell’Albergo dei
Poveri (fig. 3), una struttura
gigantesca destinata ad acco-
gliere tutti i poveri del Regno.
Nel 1737, in soli sei me-
si, quarant’anni prima della Fig. 3 - Napoli, Albergo dei poveri
80
Scala di Milano, si completò
il Teatro San Carlo (fig. 4),
che divenne l’indiscusso
tempio della lirica europea.
Nel 1738 vennero alla
luce i parchi archeologici di
Ercolano e di Pompei, che
attirarono per decenni gli en-
tusiasti visitatori del Grand
Tour.
Nel 1743 fu fondata la
celeberrima Fabbrica di por-
cellane di Capodimonte.
Fig. 4 - Teatro San Carlo
Nel 1771 fu affidato il
compito a Luigi Vanvitelli di
costruire a Caserta una reggia (fig. 5) più bella e sfarzosa di quella di Versailles.
Nel 1778 cominciò a funzionare a Palazzo Reale la celebre Fabbrica degli araz-
zi. L’anno successivo nacque la manifattura di San Leucio, una singolare fabbrica
governata da rivoluzionarie regole socializzatrici.
Nel 1798 la spiaggia di Chiaia si trasformò in una splendida Villa Reale. L’anno
successivo sorsero i colossali Granili.
Nel 1818 prese il mare il primo battello a vapore e l’anno successivo fu edificato
a Capodimonte il primo Osservatorio astronomico (fig. 6) d’Europa.
Nel 1837 Napoli fu la prima città italiana ad avere l’illuminazione a gas. Ma la
grande impresa fu il 3 ottobre 1839 l’inaugurazione della linea ferroviaria Napoli-
Portici, la seconda al mondo, alla quale in breve si aggiunsero altri tratti che misero
in comunicazione la capitale con Caserta, Capua, Cancello, Nola e Sarno. La rete
stradale nel 1855 era
di ben 4587 miglia.
Nel 1841 sorse ad
Ercolano l’Osservato-
rio Vesuviano. Nel
1852 nacque la prima
linea telegrafica Na-
poli-Gaeta ed in breve
furono in contatto tut-
te le principali città,
comprese Reggio Ca-
labria e Messina attra-
verso una linea sotto-
Fig. 5 - Reggia di Caserta marina.
81
Nel 1845 si tenne il VII Con-
gresso degli Scienziati. I presidi sa-
nitari erano all’avanguardia in Eu-
ropa ed importante fu anche la fun-
zione dei Monti di Pietà che contra-
starono attivamente il fenomeno
dello strozzinaggio.
In campo culturale ricordiamo
l’Accademia delle Belle Arti, il fa-
moso Conservatorio di Musica e
una prestigiosa Università.
Molteplici furono le attività ar-
Fig. 6 - Osservatorio astronomico tigianali, dalla coniazione di mone-
te alla legatoria di lusso, dalla lavo-
razione del corallo e della maiolica
all’intaglio dell’avorio e all’elaborazione di gioielli d’oro e argento.
Potremmo continuare a lungo, ma vogliamo concludere con i tanti teatri, più di
Parigi, che erano sempre stracolmi e testimoniavano la gioia di vivere di un popolo
che scaricava così i suoi timori e le sue insoddisfazioni ed i quotidiani stampati ogni
giorno, più di Londra.
Vogliamo ora proporre al lettore delle riflessioni sul fenomeno dell’emigrazione,
intrecciate a ricordi sulla storia italiana ed a considerazioni sui nuovi flussi che inte-
ressano il nostro paese.
Dopo la repressione del brigantaggio l’economia meridionale subì un vistoso
tracollo e per molti, quasi tutti, l’unico modo per sopravvivere fu quello di lasciare
la propria terra per procacciarsi il pane quotidiano e dare un futuro ai propri figli. Lo
stato sabaudo, dopo aver combattuto la rivolta con metodi militari, rendendosi re-
sponsabile di eccidi spaventosi, incoraggiava questo silenzioso genocidio del quale
invano cercheremo notizie nei libri di storia.
La meta preferita era l’America e nel corso di pochi decenni oltre 25 milioni di
Italiani sono stati costretti all’emi-
grazione oltre oceano e soltanto po-
chissimi sono ritornati; la maggior
parte di questi disperati proveniva
dalle regioni meridionali salvo una
sparuta pattuglia di veneti. Il punto
di partenza era il porto di Napoli
(fig. 7) da dove partivano i famosi
“bastimenti” carichi fino all’invero-
simile di un’umanità lacera e spa-
ventata. Fig. 7 - Palazzo della Immacolatella nel porto di Napoli
82
“Ah, ce ne costa lacrime st’America a nui napuli-
tane… “ è il primo verso di una celebre canzonetta:
“Lacrime napulitane” (fig. 8), composta nel 1925 da
Libero Bovio (fig. 9), in cui l’autore cercò di sintetiz-
zare il dolore e la paura di un giovane emigrante
sperduto nell’immensa solitudine di New York. Il
protagonista, bisogna precisarlo, si era deciso ad at-
traversare l’oceano per un tradimento della donna
amata, un motivo futile rispetto a quello che aveva
spinto al grande passo milioni di connazionali.
Un’altra celebre canzonetta del 1919 “Santa Lu-
cia lontana” (fig. 10) parte proprio con: “Partono i
bastimenti”. L’autore è E. A. Mario, celebre per aver
scritto “La leggenda del Piave”.
L’abbondanza di composizioni canore sull’argo- Fig. 8 - Lacrime napulitane
mento non deve sorprendere perché l’emigrante,
scorrendogli la melodia nelle vene, reggeva una vali-
gia di cartone ma quasi sempre portava a tracolla una fisarmonica.
Continuavano a celebrare le proprie feste come la processione di San Gennaro
ed organizzavano la festa di Piedigrotta, nella quale fu lanciata “Core ingrato” com-
posta nel 1911 da Cordiferro e Cardillo.
Straordinaria è poi la vicenda di Gilda Mignonette (fig. 11) che, nel 1926, si tra-
sferì dalla natia Duchesca alla rumorosa Little Italy e venne eletta a furor di popolo
“La regina degli emigranti” grazie al successo planetario della sua “’A cartulina ’e
Napule” (fig. 12).
I nostri connazionali, dopo un interminabile navigazione vissuta nel degrado, ve-
nivano muniti di cosiddetto “Passaporto rosso” e venivano sbarcati nell’isolotto di
Ellis Island (fig.13), posto davanti a New York, dove
la polizia li sottoponeva ad un controllo simile a quello
che si riserva al bestiame. Chi superava la selezione,
lentamente con l’aiuto di parenti o amici già da tempo
sul posto, riusciva ad arrangiare una sistemazione ed a
trovare un lavoro, sempre faticoso e sfibrante.
A qualcuno la fortuna arrideva ed ecco alcuni di-
ventare magnati, artisti, persino santi, ma anche gan-
gster e mafiosi. Ma a fronte di un’organizzazione cri-
minale come la Mano nera, di origine siciliana, a
combatterla vi era un super poliziotto, Joe Petrosino
(fig. 14), figlio di emigranti originari di Padula.
E se Al Capone (fig. 15) era figlio di emigranti
Fig. 9 - Libero Bovio campani egualmente erano di origine italiana Fiorello
83
La Guardia, che diventerà sindaco di New
York, o Frank Sinatra, celebre cantante, o
Frank Capra, uno dei più celebri registi,
oltre a tanti altri scrittori, poeti e saggisti
di altissimo livello. Generazioni di italiani
che, inclusi coloro che avevano scelto co-
me meta Argentina e Brasile, sono stati
una notevole fonte di ricchezza per il no-
stro paese. Valga un solo esempio: tra il
1900 e il 1922 i soli meridionali, tramite il
Banco di Napoli e quello di Sicilia, spedi-
rono ai loro parenti rimasti in patria ben 20
miliardi di lire oro e si calcola che una
eguale quantità di denaro sia stata spedita
per posta o consegnata a mano. Un fiume
di soldi che ha permesso di sopravvivere a
milioni di diseredati.
Con il fascismo il fenomeno rallentò
vistosamente per riprendere negli anni ’60
Fig. 10 - Santa Lucia luntana
84
rà di varare un gigante-
sco piano Marshall per
creare, soprattutto in
Africa, condizioni di so-
pravvivenza investendo
nell’irrigazione, nella
sanità e nell’istruzione.
Sono disperati che ri-
schiano la vita tra le on-
de, dopo aver percorso a
piedi centinaia se non
Fig. 12 - Celebre canzone migliaia di chilometri
nel deserto per raggiun-
gere la costa libica dove
vengono taglieggiati da autentici negrieri che li spogliano di ogni oggetto prezio-
so, oltre a pretendere cifre vergognose per fargli rischiare la vita su barconi rattop-
pati, pronti ad affondare alla prima onda più alta del solito. Nessuno saprà mai le
dimensioni di quel gigantesco cimitero sottomarino che raccoglie pietosamente i
resti di decine di migliaia di uomini, donne e bambini che sognavano la terra pro-
messa.
Per i fortunati che toccano il territorio italiano sono pronte strutture simili più ad
un lager che a centri di accoglienza dove, stipati fino all’inverosimile, attendono per
mesi sotto al sole e se non sono profughi lo Stato tenta in tutti i modi di rimpatriarli.
Un’altra porta d’ingresso è quella orientale, preferita dalle popolazioni slave e
dagli ucraini. Molti
vengono con visti tu-
ristici e poi scompaio-
no nel nulla, cercando
a qualsiasi prezzo un
lavoro per sopravvi-
vere: badante, mano-
vale, contadino.
Una serie di leggi
scriteriate ha cercato
negli anni di reprime-
re unicamente il feno-
meno invece di tenta-
re di regolarlo, attra-
verso quote annuali
secondo le richieste
del mercato, come si Fig. 13 - Ellis island
85
comportano molti paesi dagli Stati
Uniti all’Australia.
Questo stolto comportamento, oggi
che la storia si ripete all’incontrario
con legioni di disperati che vedono nel-
le nostre città e nelle nostre campagne
una sorta di paradiso terrestre, dipende
dall’aver rimosso gli anni in cui l’Italia
era terra di migranti e di non aver av-
viato un serio programma di integra-
zione, addirittura nemmeno per i figli
Fig. 14 - Joe Petrosino, francobollo degli stranieri in regola nati in Italia ai
quali non viene riconosciuta la cittadi-
nanza.
Il problema dell’integrazione tra italiani ed il fiume di stranieri che, anno dopo
anno, sempre più affluiscono nel nostro paese, in un solo luogo ha trovato piena ap-
plicazione: nei penitenziari, soprattutto delle grandi città: Roma, Napoli, Milano, nei
quali ormai gli “alieni” (ma sono nostri fratelli) costituiscono la maggioranza.
Nel buio delle celle vigono regole di solidarietà sconosciute nel mondo esterno
cosiddetto civile; tutti si considerano membri di una grande famiglia e chi non cono-
Fig. 15 - Al Capone
sce la nostra lingua la impara in fretta acquisendo anche la cadenza dialettale locale.
Un esempio virtuoso di cui tenere conto e da perseguire perché non si può anda-
re contro il corso della storia.
Noi abbiamo bisogno della loro energia e voglia di conquistare il benessere ed è
una fortuna non una calamità che molti scelgano l’Italia, antica terra di emigrazione,
divenuta oggi la terra promessa.
86
Il nostro passato è dimenticato, seppellito nel più profondo inconscio complici le
istituzioni che non hanno realizzato un museo che ci rammenti gli anni in cui erava-
mo carne da macello, pronta a qualsiasi lavoro, anche il più umile e pericoloso. Un
museo dell’emigrazione per ricordare il passato e per spegnere in noi qualsiasi seme
di razzismo e di becero leghismo. E quale sede più degna del porto di Napoli dove
per un’eternità sono partiti i bastimenti carichi di disperazione e di nostalgia, di an-
sia di riscatto e di antica dignità.
Vorrei concludere riproponendo una mia lettera (fig. 16), intitolata Favoletta per
bambini, che nel 2006 venne pubblicata dai principali giornali italiani.
Prima che a scuola i nostri figli imparino la storia risorgimentale sui libri scritti dai
vincitori, vogliamo provare a raccontare loro una favola, la sera prima di addormentar-
si, quando finalmente si sono spenti televisione, computer e videogiochi?
Un giorno un piccolo re valdostano piemontese, che non parlava italiano ma
francese, che portava il nome di una regione della Francia, la Savoia e le cui casse
statali erano poco meno
che disastrate decise di
voler diventare il re di
tutti gli italiani, dalle Al-
pi alla Sicilia, in un mo-
mento storico che il con-
cetto di Italia era noto
solo a Mazzini ed a po-
chi altri intellettuali.
Avrebbe volentieri
usufruito di un’investitu-
ra divina, ma gli unti dal
Signore erano di là da ve-
nire e nelle alte sfere, al-
Fig. 16 - Incontro di Teano
meno ad ovest del monte
Ararat, da secoli non si
condividevano menzogne così sfacciate. Si decise ad adoperare metodi sbrigativi ed
efficaci e si rivolse ad un guerrafondaio di professione, nativo di Nizza e dal carisma
indiscutibile. Lo armò, gli fornì denaro e protezione e lo inviò a liberare… ed a civiliz-
zare il Regno delle due Sicilie ed a cacciare i Borbone. Fu necessaria qualche strage,
alcuni massacri, numerose violenze: Bronte, l’Aspromonte, ecc., ma ne valse la pena.
Il nuovo re non era mai stato a sud di Roma, non conosceva Amalfi o Barletta, a
stento sapeva che la Sicilia era un’isola, ma ne ignorava la lunga storia, certo aveva
sentito parlare di Napoli, che, a differenza di Torino, piccola città provinciale, era
una grande capitale europea dell’arte e della cultura. Ma tutte queste considerazioni
sono trascurabili quando, non richiesti, si devono liberare (ma da cosa?) intere popo-
lazioni.
87
Terminata l’opera di civilizzazione, si provvide a trasferire nelle casse piemon-
tesi il Tesoro napoletano e a distruggere in poco tempo l’industria locale e ad impo-
verire le risorse naturali ed il territorio. Si convinsero, nell’arco di alcuni decenni, al-
cune decine di milioni di meridionali che in America si viveva meglio ed era il caso
di trasferirsi nel nuovo mondo. Un genocidio in piena regola di cui invano troverete
traccia nei libri di storia.
La favoletta è terminata, il bambino dorme, ma speriamo che quando si sveglierà
ricorderà qualcosa del racconto.
88
Capitolo 10
La nascita del cinema italiano è avvenuta all’ombra del Vesuvio, anzi, ad essere
più precisi, sulla verde (allora) collina del Vomero, quando un secolo fa sorgeva la
prima casa discografica made in Italy.
Si tratta di un altro dei tanti primati della città di cui si è perso il ricordo, perché
non basta certo una piccola targa per imprimere nella mente del distratto viandante
quella straordinaria avventura rappresentata per anni da studios all’avanguardia e ge-
nerazioni di tecnici ed artisti alternatisi nella produzione di molteplici pellicole proiet-
tate nei cinematografi di tutta la penisola.
Siamo ai primi del Novecento, in un
momento di grandi cambiamenti a Napoli,
che cerca di digerire la perdita del ruolo di
capitale, attivandosi nel cambiare il volto
della città attraverso il piccone del Risana-
mento, cercando di liberarsi dalla morsa del
malaffare con l’inchiesta Saredo, che met-
terà in luce un perverso intreccio di interes-
si tra politica e camorra, purtroppo perpe-
tuatosi fino ai nostri giorni. Sono i giorni
della nascita dell’Ilva, che fornirà lavoro a
migliaia di addetti, collaborando alla cre-
scita di una coscienza operaia, ma che pri-
verà per sempre i cittadini di una spiaggia
formidabile, sono gli anni della Belle Epo-
que, dei divertimenti folli, del pullulare di
Fig. 1 - Lapide Gustavo Lombardo
fermenti artistici e letterari in perfetta sinto-
nia con i circoli culturali europei.
In questo fervore creativo si colloca la figura di Gustavo Lombardo (fig. 1), un
giovane studente universitario, che dopo un’esperienza nel campo del noleggio dei
film, una novità assoluta perché allora gli esercenti dovevano acquistarli, rilevò gli
stabilimenti della Poli film, ed ampliandoli pose le fondamenta per la nascita di una
Cinecittà partenopea.
89
In poco tempo si
gireranno oltre cin-
quanta pellicole, carat-
terizzate non solo da
un’ambientazione lo-
cale, ma anche da un
respiro nazionale, le
quali vedranno tra le
principali interpreti
Leda Gys (fig. 2), de-
stinata a divenire una
delle più celebri attrici
del cinema italiano, al-
l’epoca rigorosamente
Fig. 2 - Leda Gys muto e la moglie del
suo produttore.
Alcuni film erano delle traduzioni per lo schermo di celebri sceneggiate e lo
sfondo per il racconto è rappresentato dal lungomare, dai vicoli, dalle feste popolari,
dal porto, che in quei tristi anni significava emigrazione verso l’America, la meta
preferita anche di tanti film accolti con un entusiasmo delirante dalle comunità ol-
treoceano, non solo dai napoletani, ma da tutti i meridionali, i quali riconoscevano
ancora in Napoli la loro capitale morale.
Spesso famosi tenori seguivano la tournee
offrendo la loro voce per la colonna sonora,
ma gli spettatori si accontentavano di poco e
nonostante il muto, le immagini avevano una
tale forza da sfociare nel sonoro…
In pochi anni in città si moltiplicano le
case di produzione più o meno piccole, quasi
tutte a livello artigianale, a volte addirittura a
conduzione familiare, tra queste ricordiamo
la Vesuvio film di Roberto Troncone sorta
nel 1908 in una ridente villetta del Vomero,
con i suoi attrezzati teatri di posa e le sue di-
ve come la mitica Francesca Bertini (fig. 3).
All’inizio degli anni Venti, la Dora Film (fig.
4) dei Notari (Nicola nelle vesti di produtto-
re, regista e operatore, sua moglie Elvira (fig.
5) in quelle di soggettista e regista ed il figlio
Eduardo, col soprannome di Gennariello, in
quelle di attore) sopravvisse alla crisi del- Fig. 3 - Locandina cinematografica
90
l’epoca conquistando le folle de-
gli emigrati in America. Le se-
quenze dei celebri A santa notte o
È piccerella si sincronizzavano
sull’accompagnamento del piano-
forte, mentre le didascalie espri-
mevano con un lessico che imita-
va la forma spezzata del dialetto.
Il bianco e nero stilizzava una Na-
poli insieme arcadica e tragica,
mentre gli attori recitano con sen-
timentale impeto. Si gira quasi Fig. 4 - Dora film
tutto all’esterno, perché negli in-
terni vi è un insormontabile pro-
blema di illuminazione.
In contemporanea alla produzione di film sorgono come funghi i luoghi della
fruizione: i cinematografi. La prima a nascere è la Sala Recanati, sorta nel 1897, a
cui seguirono la Sala Roma in Galleria, il Salon Parisien in piazza Municipio, il Vit-
toria in via Roma e l’Olympia in via Chiaia.
Tra le altre merita un cenno la Sala Cattaneo, nata dalla trasformazione di uno
squallido baraccone dove si esibivano donne barbute ed uomini nerboruti. Il proprie-
tario si arricchì rapidamente, aprì un nuovo locale in via Poerio: la Sala Iride e si co-
struì a Posillipo una splendida dimora, divenuta oggi l’ospedale Fatebenefratelli.
Egli fu anche l’artefice del primo tentativo di dare voce al muto collocando due
attori ai lati dello schermo con degli altoparlanti al posto delle orchestrine, che ag-
giungevano un tocco di musica ad alcune scene.
Poi nel 1928 la casa cinematografica di Lombardo si trasferisce a Roma dove
sorgono con investimenti dello Stato grandi stabilimenti ed il sogno della Hollywo-
od del Vesuvio tramonta tristemente, ma il cinema continuerà a nutrirsi della napole-
tanità come di una linfa vitale e vizi e difetti dei napoletani faranno da musa ispira-
trice ad infiniti film di grande successo, da Le quattro giornate di Napoli a Il camor-
rista, da Carosello napoletano a La Sfida, da L’oro di Napoli a Le Mani sulla città e
potremmo continuare a lungo, anche escludendo i più di cento film di Totò, un epife-
nomeno, un marziano, che va considerato come un pianeta a parte. Il cinema napole-
tano è stato un infinito palcoscenico di situazioni e sentimenti ed ha rispecchiato fi-
no in fondo la sua innata carica di pathos. Fantasia ed ironia, antica saggezza e gran-
de euforia, ma anche solidarietà e sofferenza si amalgamarono sapientemente con la
poeticità delle sceneggiature, la varietà dei temi, la genialità artigianale, l’arte innata
e versatile dei grandi interpreti e l’indiscutibile spettacolarità dei panorami. Dal feli-
ce connubio tra la musica, le arti, la poesia, il teatro ed il cinema è risultato un affa-
scinante prorompente messaggio culturale che subito si è diffuso fuori dal contesto
91
partenopeo, per dive-
nire universale e sim-
bolico dell’essere Ita-
liani. La contradditto-
ria energia sprigiona-
ta dalla città, tante
volte deprecata, è sta-
ta infatti capace di
produrre per il cine-
Fig. 5 - Elvira Notari
ma un patrimonio
inestimabile di imma-
gini, che narrano storie indissolubilmente impregnate di cruda realtà, capricciosa
fantasia e sferzante ironia, antica saggezza e facile euforia.
Nel dopoguerra vi sarà un curioso rigurgito con la velleitaria rinascita della Par-
tenope film ad opera di Achille Lauro, l’ineffabile Comandante, che produrrà un
film studiato apposta per Eliana Merolla (fig. 6), una bonazza della quale il vecchio
armatore si era infatuato e che sposerà una volta divenuto vedovo.
Rossellini in Paisà dipinge il senso dell’abbandono morale, del degrado, ma an-
che del desiderio di rinascere, suscitati dalla guerra fascista. Stessi temi sviluppati da
Eduardo nella poetica Napoli milionaria. Vittorio De Sica gira L’oro di Napoli, tratto
dai racconti dello scrittore Giuseppe Marotta. Ettore Giannini confeziona il capola-
voro di Carosello napoletano (1953), che riesce a fondere lo spirito “alto” e quello
“basso” dell’anima popolare napoletana: uno spettacolo totale, in cui canto, danza e
recitazione s’intrecciano finemente in uno sfavillante caleidoscopio di storia e natu-
ra, sogno e realtà. Con La sfida, premiato alla Mostra di Venezia del 1958, France-
sco Rosi coniuga denuncia e suspense con un rigore ed una tensione degni del noir
americano e cinque anni dopo, con Le mani sulla città, accentua l’indignazione civi-
le puntando il dito contro l’intreccio politico che favorisce il malaffare.
Accanto ai film d’autore, esplode un nuovo boom di film popolari: un gran nu-
mero di film a basso costo, facile presa e grande guadagno, sprezzantemente definiti
dalla critica “lacrimevoli”, che però venivano incontro al desiderio del pubblico di
ritrovarsi con il proprio dialetto, le proprie canzoni, i propri volti e di appassionarsi a
storie verosimili quanto improbabili, prevedibili quanto commoventi. I MaIaspina di
Roberto Amoroso, costato due milioni di lire, ne incasserà trecentottanta, di cui qua-
rantacinque provenienti da due sale di New York.
Segnato dalle critiche, il cinema napoletano si avviava intanto al tramonto. Il pa-
norama produttivo diventa man mano desolato. Si distingue ancora Salvatore Pisci-
celli con Immacolata e Concetta (1979) e Le occasioni di Rosa (1981) o Antonio Ca-
puano con le sue desolanti denunce sociali.
Il film napoletano ha perso la battaglia contro una critica che non voleva più “so-
le, pizza e mandolino” (ma cosa voleva?) e si è rifugiato nel piccolo schermo dove
92
ogni giorno, c’è spazio per Totò, Peppino De Filippo, Tina Pica e tanti altri eroi della
napoletanità: I due orfanelli, Totò al giro d’Italia, Fifa e arena, Totò cerca casa, L’im-
peratore di Capri, Totò cerca moglie... in questi vilipesi capolavori di massa il fuoco
della vita e della recita si bruciano nel trionfo della vitalità sottoproletaria, che non si
piega alla speranze, né apre verso un lieto fine. L’arte d’arrangiarsi, la fame, l’im-
broglio, la beffa, l’avidità sessuale perenne dichiarano guerra a tutte le istituzioni:
Totò resta così per sempre il grande ambasciatore della napoletanità non addomesti-
cata, il portabandiera irredimibile dell’indiavolata vitalità del sottosviluppo parteno-
peo, che è cinema e dramma nello stesso tempo.
La radio non ha primati da vantare, perché le prime trasmissioni ufficiali italiane
partirono da Roma il 6 ottobre 1924, mentre Radio Napoli nacque, dopo alcuni mesi
di esperimenti, il 28 ottobre 1926, prima in un appartamento di via Cesario Console
e poi in una sede più adeguata in via Egiziaca a Pizzofalcone, dove dispose di un’or-
chestra stabile per la canzone napoletana.
Anche la prima televisione privata nasce a Napoli, nonostante le pretese avanza-
te da Tele Biella. Il merito di questo altro primato che può vantare la città è del vul-
canico ingegnere ed inventore partenopeo Pietrangelo Gregorio (fig. 7), il quale, il
23 dicembre del 1966, attivò il segnale via cavo di Telediffusione italiana – Telena-
poli, il cui marchio venne ufficialmente registrato 4 anni dopo, il 17 dicembre 1970;
per trasformarsi poi nel 1976 in Napoli Canale 21, grazie al sostegno economico
dell’editore Andrea Torino.
L’ingegnere fu un rivoluzionario del tubo catodico, in un momento in cui impe-
rava solitario il monopolio della televisione di Stato. Egli trasformò un cantinato in
uno studio televisivo e sperimentò una televisione alternativa di quartiere, realizzata
da un cittadino per i cittadini, dando a tutti la possibilità di esprimersi.
Gregorio, ancora attivo nel settore della web tv, come ci rievoca in un’intervista
esclusiva, collegò ad un amplificatore le antenne del palazzo di piazza Cavour dove
abitava e poi fece degli accordi con
gli esercizi commerciali della zona,
molti dei quali allestirono delle sale
per assistere alle trasmissioni, che oc-
cupavano alcune ore serali e si basa-
vano su notizie locali, canzoni, bar-
zellette, cabaret e piccoli messaggi
pubblicitari. Erano periodi eroici, non
si poteva registrare e tutto avveniva
in diretta. In contemporanea debutta-
vano sull’emittente gruppi comici de-
stinati a divenire famosi come i Cara-
binieri di Lucia Cassini, Renato Ruti-
gliano ed Aldo De Martino. Fig. 6 - Eliana Merolla
93
Poi venne Filo diretto una trasmissione
innovativa durante la quale si telefonava al
pubblico che diveniva il vero protagonista,
lamentandosi di ciò che non funzionava in
città ed a volte chiedendo aiuto. Le istituzio-
ni, prima guardinghe, in seguito erano attente
ai contenuti del programma ed a volte esaudi-
vano le richieste pubbliche degli spettatori.
Gregorio è anche l’autore della prima tra-
smissione a colori, avvenuta il 24 maggio
1971 ed è titolare di oltre 300 invenzioni di
cui ha depositato il brevetto.
Nel 1973 Telenapoli poteva vantarsi di
essere la più importante televisione via cavo
d’Europa, contando su 380 chilometri di ca-
vo, 6 studi televisivi e 150 dipendenti, tra cui
15 giornalisti.
Fig. 7 - L’ingegner Gregorio Poi con la liberalizzazione dell’etere e
nello studio di Telenapoli l’abolizione della diffusione via cavo tutto
con Pasquale Squitieri e Claudia Cardinale cambiò. Le televisioni libere divennero com-
merciali, entrò in campo Berlusconi ed il mer-
cato cambiò per sempre per divenire ciò che, nel bene e nel male, è ai nostri giorni.
Sul finire del XIX secolo, quando Parigi divenne il simbolo del divertimento e
della vita spensierata, i caffè chantant valicarono le Alpi per essere importati anche
in Italia. La novità esplose a Napoli, dove l’epoca d’oro del caffè concerto coincise
con quella della canzone napoletana. Nel 1890 per merito dei fratelli Marino, che ca-
pirono l’importanza di un’attività commerciale redditizia da unire al fascino della
rappresentazione dal vivo, venne infatti inaugurato l’elegante Salone Margherita
(fig. 8), incastonato nella Galleria Umberto I.
L’idea fu vincente e ricalcò totalmente
il modello francese, persino nella lingua
utilizzata: non solo i cartelloni erano scritti
in francese, ma anche i contratti degli arti-
sti e il menu. I camerieri in livrea parlava-
no sempre in francese, così come gli spet-
tatori: gli artisti, poi, fintamente d’oltralpe,
ricalcavano i nomi d’arte in onore ai divi e
alle vedettes parigine. È chiaro come la
clientela che affollasse il Salone Margheri-
ta non fosse gente del popolino: in ogni ca- Fig. 8 - Salone Margherita
so, per i più disparati gusti, sorsero altri ca- in una stampa dello ’800
94
fè concert come l’elegante Gambrinus, l’Eden, il Rossini, l’Alambra, l’Eldorado, il
Partenope, la Sala Napoli ed altri ancora che ricalcavano spesso, anche nel nome, i
cafè chantant (fig. 9) parigini. Anche altri bar di Napoli, che in passato non presenta-
vano spettacoli, si adattarono al gusto del momento presentando numeri di varietà
misti a canzoni.
Solitamente gli spettacoli proposti erano presentati in successione, con un inter-
vallo tra primo e secondo tempo del susseguirsi di rappresentazioni. Solo verso la fi-
ne del primo tempo qualche perso-
naggio noto appariva in scena ma il
clou veniva raggiunto al termine,
quando il divo eseguiva il suo nume-
ro. Importanti e famosi artisti che
iniziarono la loro carriera proprio
nei caffè concerto furono Anna Fou-
gez (fig. 10), Lina Cavalieri, Lydia
Johnson, Leopoldo Fregoli, Ettore
Petrolini, Raffaele Viviani.
Il cafè-chantant divenne in Italia
non solo un luogo ed un genere tea-
trale, ma anche qui, come in Francia,
il simbolo della bella vita e della
spensieratezza, nel pieno della coin-
cidenza con la Belle èpoque (fig. 11).
Al successo della canzone napo-
letana si accompagna la nascita del
cafè chantant con l’inaugurazione
del Salone Margherita, una settima-
na dopo l’apertura della Galleria
Umberto I, che in breve diverrà il
cuore pulsante della cultura e della Fig. 9 - Cafè chantant in un disegno di Galante
mondanità cittadina. Il nuovo locale
occuperà gli spazi sotterranei ed ot-
tenne in breve lasso di tempo un successo internazionale, grazie al coraggio impren-
ditoriale dei fratelli Marino, che sul loro palcoscenico fecero sfilare le più celebri ve-
dettes internazionali, come la Bella Otero (fig. 12) o Cleo de Mérode, alle quali si af-
fiancarono non meno brave ed affascinanti prime donne indigene, che, pur sfoggian-
do modelli e pseudonimi francesi, in onore del paese dove era nato quel tipo di spet-
tacolo, erano originarie del Vasto o del Pallonetto.
Assursero a grande notorietà anche molti comici come Gill, Pasquariello e Mal-
dacea o magnifiche cantanti, tra le quali spiccava il nome di Elvira Donnarumma, la
prediletta di Libero Bovio.
95
Sciantosa (fig. 13) deriva dal francese
chanteuse che vuol dire cantante, ma anche
primadonna, attrazione, fantasia: quella che
oggi si definirebbe una star.
Sull’esempio del cafè chantant di Parigi,
negli anni che precedettero la prima guerra
mondiale, a Napoli furoreggiò il caffè con-
certo, con protagonista, appunto, le scianto-
se. Per essere il più possibile simili alle colle-
ghe d’oltralpe, le indigene adottavano nomi
d’arte francesizzanti e gli autori di canzoni
ironizzavano volentieri su questa moda. Nac-
quero così “A frangesa” di Mario Costa nel
1894, “Lily Kangy” del 1905 (la macchietta
di successo di Nicola Maldacea) e infine la
famosa “Ninì Tirabusciò” (fig. 14), un nome
Fig. 10 -Anna Fougez ed un cognome certo più eleganti di Nina Ca-
vatappi. Questa leggendaria figura fu creata
nel 1911 da Califano e Gambardella e negli
anni Sessanta il ritornello, che fu il cavallo di battaglia di Gennaro Pasquariello,
venne rilanciato in televisione e al cinema da Monica Vitti in veste di sciantosa. In
epoca più vicina a noi le gustose tiritere di Ninì Tirabusciò sono state rivisitate da
Mirna Doris, autentica vedette dell’avanspettacolo, dalla dosata ironia e dal gustoso
piglio popolaresco.
Il successo del cinema fu tale che anche il mitico Salone Margherita fu costretto
ad inserire, all’interno della programmazione serale, alcuni minuti di proiezione di
un film. Una consuetudine che si ripeterà dopo circa 50 anni con l’avvento della te-
levisione: infatti, a dimostrazione che ogni nuovo mezzo espressivo cerca di scalza-
re il precedente, il giovedì se-
ra tutti i cinematografi inter-
rompevano la pellicola in
corso per permettere al pub-
blico di seguire la puntata di
“Lascia o raddoppia” con un
allora giovanissimo, ma già
irresistibile, Mike Bongiorno.
Poco tempo dopo l’inau-
gurazione della Galleria Um-
berto I, al suo interno fu aper-
to il Caffè Calzona. Ben pre-
sto i napoletani impararono a Fig. 11 - Bella epoque
96
conoscerlo per le serate di gala e i luculliani
banchetti ufficiali che vi si tenevano.
Fu qui che, al ritorno da Parigi, fu festeg-
giata Matilde Serao per il successo raccolto
in terra francese e fu al Calzona che, per la
prima volta sul palcoscenico di un Cafè
chantant napoletano, ancor prima che al Sa-
lone Margherita, si esibirono le girls. Era la
mezzanotte del 31dicembre 1899, quando 12
bellissime ragazze, con il loro balletto, un po’
osè per quei tempi, salutarono l’Ottocento
come il secolo d’oro appena concluso e die-
dero il benvenuto al neonato Novecento.
Ma gli spettacoli di varietà nel Caffè del-
Fig. 12 - Bella Otero
la Galleria non costituivano un avvenimento
eccezionale: erano in programma ogni sera.
Il piccolo palcoscenico, posto proprio al centro e rivolto verso Via Santa Brigida, fu
calcato da personaggi dello spettacolo rimasti famosi, in particolare dalla coppia
Scarano Moretti, cioè il padre e la madre di Tecla Scarano. Gli spettacoli del Calzo-
na avevano tale successo di pubblico che anche i giornali dell’epoca, spesso, ne pub-
blicavano le recensioni. Di solito, i critici dei quotidiani seguivano solo le prime dei
lavori in scena nei numerosissimi teatri napoletani.
Anche il Caffè della Galleria, per i prezzi particolarmente bassi che praticava e
per gli spettacoli gratuiti e di buon livello, era divenuto un punto d’incontro tra le
classi ricche e quelle meno abbienti. Con la spesa di soli tre soldini si prendeva il
caffè seduto al tavolino e si
poteva trascorrere l’intera se-
rata a godersi lo spettacolo.
C’era chi, più fortunato,
poteva assistere dalle finestre
del suo ufficio al primo pia-
no. Era il caso di Matilde Se-
rao che, dalla redazione del Il
Giorno, tra uno scritto e l’al-
tro, volgeva volentieri lo
sguardo verso il piccolo pal-
coscenico del Calzona.
Il Caffè, con la sua attivi-
tà di spettacoli e con il suo
pubblico eterogeneo, fornì lo
Fig. 13 - Sciantosa spunto ad una macchietta, in-
97
ventata dal cronista mondano del
Mattino Ugo Ricci. La interpretò l’at-
tore Nicola Maldacea (fig. 15) nel vi-
cinissimo Salone Margherita. Nel dia-
logo si magnificavano le caratteristi-
che del locale: <In fatto di cafè, pre-
sentemente, non v’è di meglio d’ ‘o
Cafè Calzona…/ Questa è la mia mo-
desta opinione: sempre secondo il
mio modo ‘e vedè>.
Fig. 14 - Ninì Tirabusciò, In realtà qualcosa di meglio dove-
la donna che inventò la mossa va esserci se è vero che pian piano il
Calzona perse la parte più consistente
della sua clientela in favore di altri lo-
cali, in particolare, a beneficio dei soliti Gambrinus e Salone Margherita.
In questi anni, dopo Ninì Tirabusciò, nata dalla penna prolifica di Aniello Califa-
no, Ferdinando Russo firma il primo fascicolo della Piedigrotta e, grazie alla casa di-
scografica Polyphon, annunzia l’ambizioso progetto di esportare la canzone napole-
tana in tutto il mondo.
Giungeranno così per i siti più
lontani la poetica del nostro animo so-
gnante, l’idea di un mare divino, di un
sole ammaliante, della nostre armonie
gentili ed accattivanti.
Il fenomeno dei cafè chantant na-
poletani fu tale che in breve tempo co-
minciò ad espandersi nelle altre grandi
città italiane. La prima città ad intro-
durli a sua volta fu Roma. Il perché di
tale diffusione non deve stupire: così
come a Napoli, anche a Roma, a Cata-
nia, a Milano, a Torino ed in molte altre
città letterate d’Italia si riunivano spes-
so, nei bar e nelle trattorie, cantanti e
poeti che, nel corso di riunioni semipri-
vate, si dedicavano al canto ed alla de-
clamazione di poesie. Questa forma ar-
tigianale di spettacolo fu il fertile terre-
no su cui si basò il successo dei caffè-
concerto, che negli ultimi anni del 1800
aprirono anche nella Capitale. Fig. 15 - Nicola Maldacea
98
Sempre i fratelli Marino, già proprietari del Salone Margherita di Napoli,
inaugurarono nella Capitale due nuovi locali: un altro Salone Margherita e, suc-
cessivamente, il Teatro Sala Umberto. A questi seguirono numerosi altri cafè
chantant dai nomi altisonanti ed esotici (non proprio tutti: il primo caffè concer-
to della città, aperto in Via Nazionale, portava il poco allegro nome di “Cassa da
morto”).
Vorremmo concludere delineando la figura
di Ersilia Sampieri (fig. 16), al secolo Ersilia
Amorosi, la prima diva del cafè chantant. Tori-
nese di nascita e napoletana di adozione, usò la
sua fama e la sua ricchezza per aiutare i biso-
gnosi. Era orfana dei genitori, che le lasciarono
un solo capitale: una prorompente bellezza ed
una bella voce. Dopo aver lavorato in una com-
pagnia di bambini, la Lillipuziana, in breve si
trovò ad esibire nei locali del lungomare di
Marsiglia. A Napoli si trasferì a 17 anni e, con
il nome di Piccola Andalusa, si esibiva alla Bir-
reria dell’Incoronata, cantando in napoletano,
francese e spagnolo. Divideva il palco con gio-
vani di grande talento come Elvira Donnarum-
ma ed il macchiettista Davide Tatangelo. Alla
fine girava col piattino per le offerte, facendo
intravedere il seno. Passò poi al Caffè Scotto
Jonno e da lì spiccò il volo per esibirsi nei loca-
li italiani più rinomati con puntate anche al-
l’estero.
Nel 1901, quando i fratelli Marino la scrittu-
rarono al Salone Margherita, era già una diva. Vi
rimase sei anni, alternando esibizioni a Parigi e
Londra, dove venne definita la “Sarah Bernhard
del caffè concerto”, mentre Edoardo Scarfoglio
preferiva l’epiteto di “la Fenice della Fenice”.
Gli impresari le misero a disposizione un
secondo camerino, dove procurava lavoro, tro- Fig. 16 - Ersilia Sampieri
vava un letto in ospedale, facilitava permessi ed
esoneri ai militari: tutto solo per umanità.
Su di lei circolavano svariate leggende: amante di un rampollo di casa Savoia o
membro della massoneria.
Di lei si innamorò perdutamente Libero Bovio, che le dedicò una struggente
poesia.
99
Nel 1907 sposò Mister Muscolo, un lottatore acrobata gelosissimo, che le vietò
le attività benefiche e la portò in breve alla separazione ed alla solitudine.
A Parigi fece innamorare un petroliere e durante una tournée in Medio Oriente,
conquistò un pascià disposto a follie pur di averla nel suo harem.
Resse la scena fino ai 45 anni e piano piano, finiti i risparmi, per sopravvivere si
improvvisò chiromante con studio a Roma. Resistette 12 anni, poi finì all’ospizio
dove si spense a 78 anni nel 1955.
100
Capitolo 11
101
Le colpe di queste infinite
epidemie, che fanno somiglia-
re Napoli ad una città del terzo
mondo, vanno equamente di-
vise tra amministratori ed am-
ministrati, presenti e passati.
Nei secoli nessuno è riuscito a
regolare la crescita tumultuosa
della città, cercando di limita-
re la sproporzione tra numero
degli abitanti e superficie a di-
sposizione, per cui una quota
significativa della popolazione
è costretta a sopravvivere in
condizioni precarie, sia che
Fig. 2 - Pianta della zona del Rettifilo occupi degli squallidi bassi nei
vicoli senza luce del centro
antico o i disumani casermoni delle periferie da Scampia a Secondigliano.
Un esempio storico di amministrazione mirata alla speculazione ed a privilegia-
re le classi sociali più agiate è fornito dall’operazione del Risanamento, che seguì al-
l’ennesima epidemia del 1884, la quale provocò nel solo capoluogo 7000 vittime del
colera. Anche allora, come si è pervicacemente ripetuto in seguito, speculatori di
ogni risma, politici corrotti o corruttibili, usurai e profittatori si diedero appuntamen-
to per sfruttare l’emergenza, un’abitudine inveterata, che in tempi più vicini ha addi-
rittura programmato la gigantesca struttura della protezione civile, autorizzata ad
agire al di fuori di ogni regola concorsuale ed edilizia.
Ma torniamo al passato: nella mastodontica opera di ristrutturazione del Risana-
mento vennero abbattute 17000 abitazioni e scomparvero sotto i colpi di piccone an-
che 64 chiese, 144 strade e 56 fondachi (fig. 1). Prese forma il Rettifilo lungo quasi
due chilometri, che tagliò letteralmente in due il ventre di Napoli (fig. 2), ma non si
costruirono come promesso case economiche, per cui la popolazione più povera fu
costretta a ritornare nei bassi con l’unica differenza che dove abitavano in sei o otto,
dovettero arrangiarsi in dieci o dodici. Nel frattempo il mercato immobiliare entrò in
fibrillazione con aumenti vertiginosi dei prezzi e guadagni stratosferici per i soliti
speculatori, tra i quali si distinsero i piemontesi, che realizzarono una fortuna tra ap-
palti e subappalti.
Ne derivò una celebre inchiesta, venne istituita una commissione, che mise in lu-
ce l’intreccio tra malaffare e politica, ma non si riuscì a condannare nessuno.
La storia si è ripetuta altre volte e sempre con gli stessi risultati, per cui non ci
resta che attendere la prossima epidemia, nel frattempo ci dobbiamo contentare di
una diffusione di epatite virale che non ha eguali nel mondo occidentale.
102
Lasciamo da parte i ricordi perso-
nali e parliamo ora della gigantesca
operazione di speculazione finanziaria
che interessò la città di Napoli dopo il
1884.
Il dibattito sull’ urbanistica conti-
nua a essere problematicamente vivo
nella città. Tuttavia restano stranamente
poco conosciute o non approfondite al-
cune vicende come quella del “Risana-
mento” nella Napoli della seconda metà
dell’Ottocento. Essa presenta agganci e
riflessi con il grande piano di ristruttu-
razione di Parigi (1852-1869), realizza-
to dal barone urbanista Haussmann su
commissione di Napoleone III . Sembra
quindi interessante riportare alla memo-
ria le caratteristiche dell’operazione
“Risanamento”, che seguì al colera
Fig. 3 - Statua di Nicola Amore a piazza Vittoria
scoppiato a Napoli nel 1884 e si concre-
tizzò nel primo programma di sventra-
mento del centro storico di Napoli.
Si può denominare il “quartiere angioino” l’area costituita dai cosiddetti “quar-
tieri bassi”, oggetto dell’ operazione “Risana-
mento”: Porto, Pendino, Mercato e Vicaria.
«Bisogna sventrare Napoli» fu lo slogan che
supportò la richiesta al governo del sindaco Ni-
cola Amore (fig. 3) della Legge speciale per
Napoli, approvata nel 1885. E lo slogan ripete-
va l’ esclamazione del presidente del Consiglio
dei ministri, Agostino Depretis (fig. 4), venuto
a Napoli assieme a re Umberto I (fig. 5) nell’
anno del colera. Essa richiamava il titolo del ro-
manzo della Serao (fig. 6): “Il ventre di Napoli”
(fig. 7) (1884), che sollecitava a gran voce il
salvifico intervento nel ventre infetto della cit-
tà. Il programma urbanistico rifletteva la cultu-
ra dell’Ottocento, in cui non era ancora sorto il
problema dei valori ambientali e della tutela dei
centri storici. Pertanto i predetti quartieri mal-
sani e da bonificare - non vi erano né acqua né Fig. 4 - Agostino Depretis
103
fogne, quindi le condizioni igienico sa-
nitarie erano pessime - furono risanati
con lo “sventramento” senza alcuna re-
mora etico sociale circa la sorte degli
abitanti. Questa la classe politica “in-
telligente e aperta”. In sostanza, la clas-
se dirigente borghese identificava solo
nella rendita fondiaria la più concreta
forma di reddito rifiutando la conver-
sione industriale e commerciale della
rendita che avrebbe potuto determinare
anche l’evoluzione sociale. Perciò la
distruzione dei quartieri “bassi” assicu-
rava l’acquisizione dei suoli per lucrare
nuove rendite immobiliari. Del resto
anche gli intellettuali sostennero l’in-
tervento (persino Benedetto Croce, che
poi a cose fatte si ricredette). Ma senti-
te cosa esclama Raffaele D’ Ambra
Fig. 5 - Umberto I
(“Napoli antica”, 1889, con funeree il-
lustrazioni “a ricordo” di squarci dei
quartieri da sventrare). Egli esorta a
espellere la plebe dal centro storico «perché le evoluzioni sociali e sanitarie lo esigo-
no irreparabilmente». La sezione di Architettura degli “Scienziati Artisti e Letterati”
giudicò Castel dell’ Ovo letteralmente «un rudere che non ha più ragione di essere in
piedi». Per fortuna il Comune non mise in atto tale ridicolo giudizio. La commissio-
ne comunale per la conserva-
zione dei monumenti si accon-
tentò che venissero trasferiti
nel Museo di Donnaregina di-
pinti, statue e sepolcri delle 63
chiese e cappelle destinate alla
demolizione (fig. 8) sorvolan-
do che erano per lo più di età
medievale. Nel 1886 fu appro-
vato il progetto dell’ ingegnere
capo del comune Giambarba,
che prevedeva una grande e
larga strada, il Rettifilo (fig.
9): l’ asse attorno a cui ruotava
l’ intera operazione di sventra- Fig. 6 - Matilde Serao
104
mento. Era la riproposta del modello ur-
banistico parigino realizzato a Parigi da
Haussmann, dopo il tremendo incendio
che distrusse quella città. Già l’architetto
Alvino aveva proposto un analogo pro-
getto, ma si levò la voce isolata di Luigi
Settembrini (1868), il quale opponendosi
dichiarò che il modello parigino risponde-
va al programma del dispotismo di Napo-
leone III, che aveva bisogno di strade lar-
ghe per sedare i moti di rivolta popolare e
«per caricare il popolo con la cavalleria e
la mitraglia». Proponeva invece «di boni-
ficare i quartieri popolari gradatamente e
diradando man mano quelle affollate abi-
tazioni ». Ma tornando al “Risanamento”
lo stesso Giambarba nel 1887 scrive allar-
mato: «La febbre dell’acquisto dei terreni
ha invaso gli speculatori, si sono comprati
fondi duplicandone il valore e ciò ha me- Fig. 7 - Il ventre di Napoli
nato a un aumento sensibile nei prezzi di
rivendita delle aree edificabili». Insomma
l’operazione si convertì da un intervento di pubblica utilità a una colossale specula-
zione edilizia privata. E il Comune, per evitare di farsi carico della tutela degli abi-
tanti non abbienti, favorì la nascita della “Società per il Risanamento” che provvide
subito a “gettare sul lastrico” migliaia di famiglie: 87.500 abitanti circa vennero
“sradicati”. I più fortunati si trasferirono in periferia, gli altri si ammassarono nei vi-
coli limitrofi e persino nelle grotte sul pendio di monte Echia. Con sgomento la Se-
rao pubblicò, dieci anni dopo, un se-
condo libro, il “Paravento”, e così defi-
nì la cortina dei grandi palazzi borghesi
che servivano a nascondere l’accre-
sciuta miseria e l’abbandono del popo-
lo napoletano. Infine tale tragedia so-
ciale non ha ispirato alcun romanzo, né
dramma teatrale, né opera lirica, che
sarebbe potuta essere rappresentata al
San Carlo, a proposito del quale si at-
tende da tempo un rilancio.
Approfondiamo ulteriormente l’ar-
Fig. 8 - Fontana di Mezzocannone gomento.
105
Con il nome di Risana-
mento ci si riferisce al grande
intervento urbanistico che mu-
tò radicalmente e definitiva-
mente il volto della maggior
parte dei quartieri storici, in al-
cuni casi (Chiaia, Pendino,
Porto, Mercato, Vicaria) sosti-
tuendo quasi totalmente le
preesistenze, talvolta anche di
gran valore storico o artistico,
con nuovi edifici, nuove piaz-
ze, nuove strade.
Fig. 9 - Il Rettifilo, corso Umberto I
L’intervento, ipotizzato sin
dalla metà dell’Ottocento, fu
portato a compimento a segui-
to di una gravissima epidemia di colera, avvenuta nel 1884. Sotto la spinta del sinda-
co di allora, Nicola Amore, nel 1885 fu approvata la Legge per il risanamento della
città di Napoli e il 15 dicembre 1888 venne fondata la Società pel Risanamento di
Napoli (confluita dopo varie vicissitudini nella Risanamento S.p.a.): allo scopo di ri-
solvere il problema del degrado di alcune zone della città che era stato, secondo il
sindaco Amore, la principale causa del diffondersi del colera.
Si decise l’abbattimento di numerosi edifici per fare posto al corso Umberto, alle
piazze Nicola Amore e Giovanni Bovio, alias piazza Borsa (fig. 10), via A. Depretis
e alla Galleria Umberto I (fig. 11). In realtà alle spalle dei grandi palazzi umbertini la
situazione rimase immutata: essi infatti servirono a nascondere il degrado e la pover-
tà di quei rioni piuttosto che a risolverne i problemi.
Nonostante gli studi e i progetti per una risistemazione urbanistica della città,
e nonostante il colera fos-
se scoppiato ben tre volte
in meno di un ventennio
(nel 1855, nel 1866 e nel
1873) una nuova epidemia
si diffuse nel settembre
1884 con estrema violen-
za nei quartieri bassi e
propagandosi in misura
minore anche nel resto
della città. Per la prima
volta, sulla scorta del-
l’emozione provocata nel- Fig. 10 - Piazza della Borsa
106
l’opinione pubblica nazionale
dalla tragedia, si delineò quin-
di un intervento governativo
che risolvesse definitivamente
gli annosi mali della città.
Agostino Depretis, presidente
del Consiglio, dichiarò allora
solennemente che era neces-
sario “Sventrare Napoli” (fig.
12), coniando così il neologi-
smo sventramento (ispirato
dalla lettura della prima edi-
zione de “Il Ventre di Napoli” Fig. 11 - Galleria Umberto I
di Matilde Serao) che si appli-
cò da quel momento alla principale operazione di bonifica da effettuare; termine
che poi fu esteso a tutte gli interventi urbanistici simili compiuti in Italia in quegli
stessi anni.
In occasione della visita di Umberto I ai cittadini colpiti dal morbo, si parlò della
bonifica dei quartieri bassi. Fu allora che si delinearono i principali interventi da rea-
lizzare, tra cui la creazione di un’efficace rete fognaria per eliminare il pericolo
dell’inquinamento del suolo per le infiltrazioni delle acque infette. Era inoltre neces-
sario ottenere un’abbondante erogazione d’acqua attraverso l’esecuzione dell’ac-
quedotto del Serino e pianificare lo sventramento e la bonifica dei quartieri bassi, da
ottenersi mediante una strada principale dalla stazione centrale al centro cittadino e
una rete viaria minore ad essa afferente che favorisse la circolazione verso l’interno
della brezza marina; inoltre si auspicava la creazione di un quartiere di espansione a
nord della città.
Si trattava, come si è visto, del
rilancio di temi ricorrenti da decenni,
questa volta imposti dalla gravità cui
era pervenuta la situazione igienica.
La necessità inderogabile di una bo-
nifica della città e in particolare dei
quartieri bassi era avvertita dalla
classe dirigente, ma, purtroppo, ogni
soluzione al problema era rimasta,
per tutte le amministrazioni che si
erano susseguite, allo stato di enun-
ciato programmatico, essendone la
fase esecutiva perennemente impedi-
Fig. 12 - Piazza della Selleria ta da difficoltà di carattere politico
107
ed economico. La situazione economica era d’altra parte gravissima, dato che il Co-
mune era stato costretto, dopo l’Unità d’Italia, a farsi carico di tutte le spese prece-
denti al 1860, compreso il passaggio dall’illuminazione ad olio a quella a gas e le
spese di esproprio dei terreni di Corso Vittorio Emanuele e Corso Garibaldi. Il pro-
blema della sistemazione della rete fognaria non era mai stato adeguatamente af-
frontato.
Il 19 ottobre 1884 Adolfo Giambarba (futuro responsabile dell’elaborazione dei
progetti) presentò al sindaco un progetto accompagnato da relazione e computi me-
trici, nonché da dati statistici circa lo stato dei fabbricati, la destinazione del suolo e
delle abitazioni, per il risanamento dei quartieri bassi e l’ampliamento ad oriente
della città. Il progetto di Giambarba polarizzò l’attenzione del Consiglio comunale
e dell’opinione pubblica: in esso, la bonifica era perseguita attraverso una strada ret-
tilinea – che sventrava i quartieri Porto, Pendino e Mercato – con inizio in via Medi-
na, al suo incrocio con via San Bartolomeo, ove si creava una piazza ottagonale da
cui partiva una strada verso via Toledo. Lungo il suo percorso erano previste sedici
strade ortogonali ed altre parallele ad esse, dando luogo ad una trama viaria che inci-
deva su buona parte del tessuto urbano preesistente; si prevedeva, inoltre, un amplia-
mento della zona portuale tramite colmate.
Per le strade afferenti a Piazza Garibaldi era prevista un’ampiezza di 30 metri e una
fascia di esproprio di 50 metri mentre per le traverse del Rettifilo una larghezza di 12
metri; il livello del piano stradale era innalzato di 3 metri e mezzo, adoperando il mate-
riale delle demolizioni, onde costruire una nuova rete fognaria. A completare il disegno
del nuovo piano, il Corso Garibaldi era prolungato sino all’Albergo dei Poveri.
Altre polemiche nacquero poi circa la ristrutturazione del sistema fognario, ma
finalmente, nel giugno del 1884, la proposta di Giambarba fu approvata e, il 17 feb-
braio 1885, confermata. Il 10 maggio dello stesso anno si ottenne un altro importan-
te risultato ai fini del risanamento cittadino, con l’inaugurazione dell’acquedotto del
Serino.
Il 27 novembre 1884 il presidente del consiglio Agostino Depretis presentò alla
Camera dei deputati un disegno di legge in quindici articoli costituenti i “Provvedi-
menti per Napoli”, che fu promulgata il 15 gennaio 1885.
Fu quindi denunciato, per la prima volta e già prima dell’inizio dei lavori, l’ef-
fetto della legge 1885: essa aveva provocato a Napoli una speculazione sui suoli fino
ad allora sconosciuta. Il consigliere Enrico Arlotta enfaticamente dichiarò: “Dopo
l’invasione colerica e l’iniziativa del Municipio per combattere le cause di tanta
sciagura, la speculazione di tutta Italia si è riversata sulla Città di Napoli. La specu-
lazione che a volte ha colpito i valori dello Stato, altre il debito pubblico, oggi ha
preso di mira i suoli edificatori”. E il Giambarba confermando, aggiunse: “La febbre
dell’acquisto dei terreni su larga scala ha invaso gli speculatori, si sono comprati
fondi decuplicandone il valore e ciò doveva menare ad un aumento sensibile nei
prezzi di rivendita delle aree edificabili”.
108
La speculazione e la possibilità di imponenti lavori avevano del tutto trasforma-
to il mercato edilizio napoletano: grosse società immobiliari avevano, infatti, intuito
la possibilità di proficui investimenti, generando negli amministratori cittadini il ti-
more di superare le spese previste, dal momento che gli espropri costituivano la vo-
ce passiva di maggiore entità.
Essendo stati i cento milioni previsti dalla legge dilazionati in dodici rate annua-
li, sarebbe stato logico considerare il valore delle espropriazioni al momento del-
l’erogazione delle rate: ciò era però improponibile, a causa del continuo aumento di
valore dei suoli. Era impossibile avere elementi certi di valutazione, né d’altra parte,
si poteva contrarre un nuovo prestito che anticipasse la sovvenzione da parte dello
Stato, poiché una simile situazione avrebbe comportato il pagamento di interessi che
avrebbero gravato con nuove tasse sui contribuenti napoletani.
Era dunque necessario un solo concessionario che si assumesse i tre punti essen-
ziali dell’opera (espropriazioni, proprietà dei suoli, nuove costruzioni) con tutti i ri-
schi che comportavano: le espropriazioni potevano superare i cento milioni (senza
contare i lavori per le fognature); era richiesto un rapido svolgimento, poiché il rim-
borso era previsto in 10 anni; era necessario, evidentemente, cedere al concessiona-
rio i suoli di risulta per le nuove costruzioni, al fine di consentirgli di ricavare un uti-
le dai lavori.
Il concessionario prescelto doveva inoltre coincidere con una società anonima
“potente e vigorosa”, di cui si sperava facessero parte finanziatori locali, che posse-
desse il capitale iniziale di 30 milioni necessario per cominciare le espropriazioni.
Un rigoroso capitolato avrebbe cautelato i rapporti tra il Comune e la società, al fine
di salvaguardare gli interessi dei proprietari dei fabbricati da espropriare.
Per evitare che il concessionario costruisse prima nei nuovi quartieri, dove il
guadagno era certo e non vi erano fabbricati da espropriare (nella realtà si verifiche-
rà proprio l’opposto, costruendo nelle zone centrali e trascurando le aree di amplia-
mento), il Comune si impegnava a controllare che fossero edificate abitazioni eco-
nomiche nel quartiere orientale, secondo quanto già previsto da Ferdinando II.
Si giunse così al capitolato in 40 articoli approvato dalla giunta comunale il 2
marzo 1887, sindaco era ancora Nicola Amore.
Vediamo ora come interpreta la vicenda Angelo Forgione, un giovane quanto
preparato napoletanista, a cui diamo la parola. Egli parte da lontano.
LA SPECULAZIONE EDILIZIA
109
Paradigmatica la questione del
lungomare di Chiaja che, subito do-
po l’Unità, perse la sua spiaggia e
tutto l’ambiente naturale fin lì cele-
brato, per far posto, tra feroci pole-
miche, a una colmata su cui fu co-
struita l’ampia e pur elegante strada
di via Caracciolo e gli edifici sulla
riviera. Le spese dell’opera se le ac-
Fig. 13 - S. Lucia, colmata
collò l’imprenditore privato belga
Ermanno Du Mesnil, in cambio di
suoli edificabili e di un consistente sussidio. Corse il rischio di essere demolito per-
sino il Castel dell’Ovo, lasciato all’abbandono (fino al 1975) e minacciato dal deli-
rio della Sezione di Architettura degli Scienziati, Letterati ed Artisti di Napoli, ope-
rante in consiglio comunale, che indicò le linee guida dell’intervento generale sen-
za alcun rispetto per le testimonianze del passato. Il maniero sul mare fu definito
“brutto e ormai inutile…, un rudere che non ha più ragione di essere in piedi”. Così
scrissero i tecnici nel progetto generale del 1873 con cui proposero anche la cancel-
lazione di un simbolo storico identitario, il luogo dove la città ebbe origine, per far
spazio a un nuovo rione. Fortunatamente, al proposito non fu dato seguito, pur re-
stando emblematico della nuova “sensibilità” in materia di tutela dei beni culturali.
I nuovi palazzi sorsero dirimpetto, su un’ulteriore colmata che annientò anche la
spiaggia di Santa Lucia (fig. 13). La naturale morfologia costiera della città che
aveva affascinato l’Europa fu completamente cancellata, senza alcuna valutazione
di impatto ambientale.
L’identità andò via con i controversi lavori sul lungomare e quelli più ampi del
Risanamento di Napoli, un’operazione governativa per la soluzione dei problemi
igienico-sanitari che avevano causato una violenta epidemia di colera di provenien-
za francese nel 1884; un complesso intervento urbanistico che donò alla città un più
sicuro sistema fognario, il completamento dell’acquedotto del Serino, nuovi quartie-
ri, eleganti e più agevoli strade e palazzi signorili, ma dietro il quale, in realtà, si na-
scondeva il pretesto per una colossale speculazione edilizia privata d’epoca umberti-
na. Da spartire c’era una torta di denaro pubblico da più di centotrenta milioni di
quell’epoca, tutti e subito. E allora, al grido di «bisogna sventrare Napoli», si trovò il
modo per allontanare circa novantamila persone meno abbienti dai suoli pregiati. Il
piano iniziale di “pubblica utilità”, che prevedeva la bonifica dei quartieri bassi a ri-
dosso dell’area portuale con la realizzazione di nuove costruzioni popolari, fu indi-
rizzato verso abitazioni più costose, stravolto in corso d’opera con una variante di
progetto senza alcun vantaggio per il Municipio, approvata su forte pressione delle
società immobiliari e finanziarie piemontesi e romane: la Società Generale di Credi-
to Mobiliare Italiano, la Banca Subalpina e la Società Fratelli Marsiglia di Torino; la
110
Banca Generale e l’Immobiliare dei Lavori di Utilità Pubblica ed Agricola di Roma.
Senza dimenticare la Banca Tiberina, di Torino (fig. 14), che si era assicurata i terre-
ni e la costruzione del nuovo rione residenziale del Vomero, nell’ambito della stessa
legge. Il capitale, completamente esterno alla città, prima fece da parte il Municipio,
strappandogli il controllo della città, e poi attuò solo in parte la bonifica. Tutto si
rivelò come occasione per una pura operazione di sfruttamento dei suoli, che
non si fermò neanche di fronte al preventivo obbligo scritto di denunciare il ritrova-
mento di reperti di interesse storico-artistico che avrebbe causato la sospensione dei
lavori. Tutte le testimonianze del passato presenti nelle aree dei lavori ne fecero le
spese, tra cui una sessantina di chiese anche d’epoca medievale e il notissimo teatro
San Carlino a largo
del Castello (fig. 15).
I vecchi inquilini fu-
rono costretti a so-
vraffollare i rioni de-
gradati a ridosso delle
nuove abitazioni, ele-
ganti e inaccessibili,
allargando un’atavica
caratteristica del tes-
suto sociale cittadino
e creando una diversa
criticità in quei luo-
ghi: ricchi e poveri
negli stessi quartieri
ma separati da strade
Fig. 14 - Banca Tiberina
di demarcazione so-
ciale, a Santa Lucia
come al nuovo “Rettifilo”. Le polemiche sugli appalti portarono alle dimissioni del
sindaco Nicola Amore, già discusso questore nei fatti luttuosi di Pietrarsa dell’ago-
sto 1863, che dovette difendersi dalle accuse di aver favorito le banche torinesi nei
lavori di bonifica e la società svizzera “Geisser” nell’acquisto di suoli edificabili
della città. Ulrich Geisser aveva scalato l’alta finanza grazie ai solidi legami stretti
con Cavour e controllava le azioni della Banca Tiberina di Torino, istituto proprieta-
rio di alcuni suoli a Chiaja, oltre che al Vomero, che speculò anche a Roma nello svi-
luppo della nuova capitale del Regno d’Italia. In un momento di crisi economica, il
trasferimento di ingenti capitali nelle due importanti città, l’eccessivo sfruttamento
dei terreni in tutto il Paese, l’affarismo sfrenato e la disinvolta concessione di prestiti
agli speculatori edilizi generarono una crisi del sistema bancario che culminò nel
crollo del settore edile e nel fallimento degli istituti di investimento ai quali la Banca
Romana aveva elargito prestiti a lungo termine. Per coprire le enormi perdite, l’isti-
111
tuto di credito capitolino forzò l’emissione di moneta senza autorizzazione e stampò
un ingentissimo quantitativo di banconote con un numero di serie identico ad altre
emesse precedentemente, riservandone una parte per pagare politici e giornalisti.
L’iniziale insabbiatura non servì a scongiurare uno scandalo di dimensioni enormi,
uno dei primi della storia d’Italia, che svelò un’alleanza strategica tra aristocratici
proprietari terrieri e banche settentrionali catapultate su speculazioni a breve termi-
ne. Una colossale truffa in cui furono implicati Francesco Crispi, Giovanni Giolitti e
una ventina di parlamentari, nonché, seppur indirettamente, il re Umberto di Savoia,
fortemente indebitato proprio con la Banca Romana. Il processo farsa del 1894 pro-
dusse un colpo di spugna con cui fu salvata l’alta politica del Regno italiano dei Sa-
voia. I giudici denunciarono la sparizione di importanti documenti comprovanti la
colpevolezza degli
imputati. Stessa fine
avevano fatto gli
incartamenti di una
Commissione d’in-
chiesta che nel 1864
aveva indagato sulle
grosse speculazioni
attorno alla costruzio-
ne e all’esercizio del-
le reti ferroviarie me-
ridionali, cedute dal
governo di Torino alla
compagnia finanzia-
ria privata Bastogi,
Fig. 15 - Teatro San Carlino torinese, che le aveva
subappaltate vantag-
giosamente e clande-
stinamente, sostituendosi al governo nell’approvare un contratto con destinatari di-
versi da quelli indicati dal ministero. Il capitale fu ripartito tra le banche del Nord,
con Torino, Milano e Livorno che presero la fetta più grande. Il politico e industriale
livornese Pietro Bastogi, amico del Cavour, era stato l’ispiratore della manovra che
gli aveva fruttato un grossissimo margine. Costretto a dimettersi, fu “premiato” col
titolo di conte da Vittorio Emanuele II e continuò la sua attività di guida dei grandi
banchieri settentrionali, rendendosi abile tessitore anche nella descritta speculazione
edilizia di Napoli, Roma, Milano e altre città. Le ferrovie meridionali restarono al
palo: sparirono i progetti di collegamento orizzontale tra Tirreno e Adriatico e, per
spostare le merci, furono unite verticalmente a quelle settentrionali che nel frattem-
po si svilupparono intensamente con la regia di un’altra guida delle banche del
Nord, un altro amico di Cavour, quel Carlo Bombrini per cui il Mezzogiorno non
112
avrebbe dovuto più essere in grado d’intraprendere. Fu lui, comproprietario dell’An-
saldo, a coordinare le famigerate banche nel finanziamento delle imprese settentrio-
nali. Una di queste, il Credito Mobiliare di Torino, finanziò il piemontese Francesco
Cirio nell’ascesa della sua industria conserviera, cui fu concesso un contratto agevo-
lato dalle Società Ferrovie Alta Italia per la spedizione all’estero di migliaia di vago-
ni di alimenti. Cirio rastrellò pelati e prodotti della terra nelle zone agricole del Na-
poletano, del Casertano e del Salernitano ed ebbe piena disponibilità della rete ferro-
viaria a costi irrisori e contro ogni norma di concorrenza leale, divenendo un caso di-
scusso ripetutamente in varie sedute di un’altra specifica Commissione parlamenta-
re d’inchiesta del 1878 sull’esercizio delle ferrovie. Bastogi e Bombrini, questi era-
no gli amici di Cavour che inaugurarono le fortune imprenditoriali del Nord; e non
c’è da stupirsi delle parole che Vittorio Emanuele II pronunciò al plenipotenziario
inglese Augustus Paget:
«Ci sono due modi per governare gli italiani: con le baionette o con la corruzione.»
Usò le une e l’altra il “re galantuomo” che, alla sua morte, lasciò debiti personali
per quaranta milioni di lire (circa quarantacinque milioni di euro di oggi) e molti sche-
letri nell’armadio. Con questi ed
altri scandali, al sorgere del-
l’Unità, fu inaugurata l’esecra-
bile commistione tra finanza e
politica. Così è nata l’Italia delle
tangenti; come poteva diventare
un Paese diverso?
Napoli, intanto, iniziava a
collassare, colpita dal costo
della vita triplicato, in un Mez-
zogiorno che, producendo un
reddito pari al 22% di quello
complessivo italiano, versava il
36% del relativo gettito tributa-
rio. Nel 1898 si registrarono tu- Fig. 16 - Lamont Young
multi per il caro vita, cartina di
tornasole di una ex capitale che
veniva messa in ginocchio dalle politiche del Regno d’Italia e che iniziava a regi-
strare il fenomeno sconosciuto e progressivo dell’emigrazione. Nel dicembre del-
l’anno seguente, il settimanale socialista La Propaganda denunciò la corruzione e il
clientelismo dell’amministrazione cittadina nell’ambito degli interminabili lavori
del Risanamento. Fu istituita la già citata Commissione Saredo, che fece luce sugli
intrecci tra amministrazione locale e “alta camorra”, mettendo a nudo il disinteresse
dei governi di Torino, Firenze e Roma per la città e per il Sud nei primi quarant’anni
di Unità.
113
La speculazione edilizia e la cattiva amministrazione inghiottirono alcune anti-
cipatrici proposte urbanistiche di straordinario valore, su tutte quelle di Lamont
Young (fig. 16), architetto eclettico e urbanista napoletano di origini scozzesi, tal-
mente fervido da partorire progetti innovativi e pionieristici mai realizzati. Lui sì
che idealizzò un vero abbellimento della città, sfruttandone le potenzialità e non i
suoli. Già nel 1872, presentò i disegni della metropolitana di Napoli che prevedeva-
no la costruzione di una strada ferrata sotterranea, con strutture sopraelevate in alcu-
ni tratti, di connessione tra Bagnoli, Posillipo, Vomero, San Ferdinando e Capodi-
monte. Di cultura fortemente progressista, stimolò uno sviluppo sostenibile del turi-
smo e propose i disegni del “Rione Venezia”, un nuovo quartiere che da Santa Lucia,
lungo la costa di Posillipo avrebbe dovuto collegare Napoli con i Campi Flegrei at-
traverso un canale navigabile con battelli, sfociando a Bagnoli in un quartiere resi-
denziale a scarsa densità abitativa fornito di stabilimenti balneari e termali, alberghi,
un giardino zoologico, giardini, zone terrazzate, ville degradanti verso il mare, nego-
zi e un palazzo di cristallo con un lago e delle isolette. Le sue intuizioni avrebbero
modificato il corso della storia urbanistico turistica di Napoli, ma tutti i suoi proget-
ti, a parte quelli di alcuni noti edifici cittadini, rimasero su carta. Entrò in un violento
contrasto con la Banca Tiberina di Torino, che avviò la realizzazione delle funicolari
di Chiaia e di Montesanto, in conflitto con i prospetti dell’urbanista, e gli espropriò
nel 1886 un suolo di proprietà tra i tanti confiscati per costruire la stazione di via Ci-
marosa. Per l’atteggiamento contrario all’affarismo che poco apportava alla città,
Young fu completamente boicottato dall’imprenditoria operante, che poco stimava e
che gli diede amare delusioni, conducendolo al disperato suicidio, seppur a vecchia-
ia sopraggiunta, nella sua Villa Ebe alle rampe di Pizzofalcone. I progetti della ferro-
via Cumana, del passante ferroviario tra Gianturco e Pozzuoli e delle successive gal-
lerie cittadine verso la zona flegrea sarebbero stati ispirati alla sua “utopia”; a Ba-
gnoli, il cui nome indica i trascorsi turistico termali, sarebbero poi sorte a inizio No-
vecento le acciaierie che avrebbero annullato e deturpato una grande risorsa turistica
del territorio.
114
Capitolo 12
Rivisitiamo il Risorgimento
115
del genocidio degli indiani, in
quelli francesi indagare sugli
aspetti più oscuri del coloniali-
smo,in quelli tedeschi sapere tutto
sul nazismo. Da noi nel 1967, do-
po i prescritti 50 anni di segretez-
za, abbiamo potuto meditare sulla
dolorosa disfatta di Caporetto, ma
sulla ”conquista” del Sud da parte
del Nord vige ancora un silenzio
assordante ed una vergognosa
chiusura degli archivi pubblici alla
consultazione!
Fig. 2 - Pino Aprile E vorremmo proseguire con
un nostro scritto, che fu pubblicato
nell’editoriale dei lettori de “La
Stampa” e con una lettera al direttore accolta da numerosi quotidiani.
La nostalgia dei primati perduti e l’orgoglio neoborbonico
Abbiamo esposto in un altro capitolo i numerosi primati che facevano di Napoli
una grande capitale europea nel campo delle arti figurative, della scienza e della ur-
banistica; soprattutto all’epoca di due re illuminati, come Carlo III e Ferdinando II,
per cui non ci ripeteremo.
Vogliamo solo sottolineare come non solo i mass media, ma anche la storiografia
ufficiale, ha cercato di propagandare l’immagine di un meridione arretrato e fannullo-
ne, perpetuando una sorta di damnatio memoriae, che solo in tempi recenti, grazie
all’opera di volenterosi studiosi, sta riacquistando la verità storica degli avvenimenti.
Alcuni libri, come “Terroni” di Pino Aprile (fig. 2) e la nascita di alcuni movi-
menti filo borbonici, ha dato uno scossone decisivo alla marea inarrestabile di men-
zogne e falsificazioni, con una miscela di dati storici e di vivace vena polemica.
A parte libri e riviste, è
su internet che molte asso-
ciazioni hanno trovato mo-
do di esprimersi, con mai-
ling list di decine di mi-
gliaia di contatti.
Vogliamo ricordare, il
Partito del sud, Insorgenza
civile, Associazione neo-
borbonica, Comitati due Si-
cilie, Orgoglio meridionale
(fig. 3). Fig. 3 - Italia confine sud
116
La prima nacque venti anni fa e tra i fondatori vi era anche il compianto Riccar-
do Pazzaglia (fig. 4), il quale, nello scegliere il nome dell’associazione: neoborboni-
ci, intese di fare una provocazione per identificare la protesta del Sud con qualcosa
che precedeva l’Unità, acclarando che non tutto ciò che vi era prima del 1861 era ne-
gativo.
Gennaro De Crescenzo attualmente presidente dei neoborbonici, è professore di
storia e frequentatore di archivi. Un appassionato che contesta il pregiudizio acriti-
co, la storia divisa a fette tra buoni e cattivi, come invece sostiene Aldo Cazzullo a
proposito della guerra civile del brigantaggio. Certo alcune forme di estraneità per lo
Stato nel sud sono ereditate delle modalità con cui fu costruita la nostra nazione: im-
posta dall’alto, voluta e realizzata da un’élite, estranea alle popolazioni rurali, come
sostennero già Gramsci e in parte Croce. Le classi dirigenti di allora, i notabili lati-
fondisti, fusero subito i loro interessi con quelli della borghesia imprenditoriale del
Nord, temendo che quella rivoluzione politica potesse diventare anche sociale. Le
campagne erano in rivolta,
la guerra contadina, il bri-
gantaggio, faceva del Sud
il vero Far west dell’Italia
appena nata. Furono i gat-
topardi di sempre, che
muovevano voti e influen-
zavano masse popolari, a
controllare il Mezzogior-
no. E aderirono alle scelte
politico-economiche dei
primi anni dell’unità, privi-
legiando industrie e finan- Fig. 4 - Riccardo Pazzaglia
ze del Nord anche a costo
di penalizzare le necessità di sviluppo del Sud. La storia a una direzione non fa mai
bene e sono convinto che nessuno al Sud pensa ad una secessione, ha nostalgia per i
Borbone, o è contro l’unità. L’orgoglio meridionale di oggi comincia dalla rilettura,
con documenti, di come diventammo una sola nazione. Non si tratta di dividere, ma
di unire. Se si conoscono meglio i percorsi e le identità differenti del processo risor-
gimentale si ritroveranno forse le ragioni per tenere insieme nord e sud d’Italia che,
ignorando le rispettive storie, diffidano l’uno dell’altro, guardandosi con pregiudi-
zio. Cominciamo al Sud: inutile abbandonarsi alla retorica a rovescio del meridiona-
le sempre e comunque migliore degli altri. Certo, le scelte dei primi anni di unità
danneggiarono il Mezzogiorno, ma 150 anni dopo va superata la sterile autocommi-
serazione, la delega delle responsabilità. Partendo dalla rilettura più onesta di storie
e culture del passato, l’orgoglio meridionale deve diventare coscienza che oggi più
che mai è necessario l’impegno e la serietà di tutti. Neoborbonici e non.
117
MILLE GIOVANI AL GIORNO DA 150 ANNI
150 anni fa mille giovani garibaldini si imbarcarono da Quarto (fig. 5-6-7) per
andare al sud a fare l’Italia, da allora ogni giorno, ininterrottamente, mille giovani
sono costretti a compiere il percorso inverso dal sud verso il nord, alla ricerca di un
lavoro e di un futuro decente, perché la vecchia patria non esiste più e la nuova non
ha voluto o non è stata in
grado di procurarglielo.
L’emorragia continua
imperterrita con alti e bas-
si; una sorta di genocidio
silenzioso che raggiunse
un picco negli anni Sessan-
ta, ma che da tempo ha ri-
preso lena, privando le re-
gioni meridionali delle mi-
gliori energie, dei laureati
con lode e di tutti coloro
Fig. 5 - Partenza dei Mille da Quarto che si sentono ingabbiati
nelle maglie di una società
pietrificata.
Tante generazioni perdute che hanno lasciato il sud in balia di politici corrotti,
amministratori inefficienti ed eterne caricature di Masaniello.
Il fiume di denaro pubblico che lo Stato ha elargito per decenni è stato clamorosa-
mente dilapidato, usato, non per investimenti produttivi, ma unicamente per consolida-
re un vacuo consenso elettora-
le, perpetuando il proliferare di
squallide oligarchie locali, di
cricche e di camarille colluse
con la criminalità organizzata.
E mentre ogni anno tre-
centomila garibaldini alla ro-
vescia sono costretti a lasciare
gli affetti ed il luogo natio per
cercare altrove la dignità di
esistere, l’incubo della crisi
economica e del federalismo
fiscale rischia di far deflagra-
re una situazione esplosiva te-
nuta in coma da flussi di dena-
ro a perdere. Fig. 6 - Giuseppe Garibaldi
118
Se l’idea di eguaglianza e di solidarietà do-
vesse cedere il passo ad una deriva separatista
al sud non resterà che cercare di capeggiare una
federazione di stati rivieraschi del Mediterra-
neo, di mettersi a capo di popoli disperati,
avendo come punti di riferimento non più Ro-
ma, Milano e Bruxelles, bensì Tripoli, Algeri
ed Alessandria d’Egitto.
Ho sempre sottolineato l’assurdità del vin-
colo del segreto militare, che non ha termini pe-
rentori, a differenza del segreto di Stato che de-
Fig. 7 - Regno delle due Sicilie
cade dopo 50 anni e posso testimoniarlo perso-
nalmente, perché fui il primo a consultare, tra-
scorsi 10 lustri, il carteggio amoroso tra Claretta Petacci e Mussolini (fig. 8), conser-
vato presso la biblioteca na-
zionale di Napoli.
In particolare vorrei sotto-
lineare che grazie a me cono-
sciamo la verità sulla strage di
Ustica (fig. 9) perché dopo la
pubblicazione della mia mis-
siva “Una strage che grida
vendetta”, che uscì su 11 tra
giornali e riviste, finalmente
si seguì il mio consiglio e
compulsando i tracciati radar
della porta aerei americana,
alla rada nel golfo di Napoli la
notte del fattaccio, si è saputa
Fig. 8 - Claretta Petacci e Benito Mussolini
la imbarazzante verità, anche
se in seguito i mass media
hanno fatto di tutto per farla
dimenticare.
Rileggiamola assieme
Una strage che grida vendetta
A giorni saranno trenta anni dalla strage di Ustica, uno dei tanti misteri che sof-
focano la nostra storia recente, sulla quale si è detto e non detto e sono stati versati
fiumi di parole inutili.
A ricordare la triste ricorrenza nessuna cerimonia ufficiale, le interviste reticenti ai
politici dell’epoca, che sanno e non dicono ed un bel libro di Rosario Priore, il giudice
che indagò a lungo, ostacolato in ogni modo, sulla tragica esplosione del Dc9 dell’Ita-
119
via e sulla morte di ottanta per-
sone.
Ma trovare la verità non
dovrebbe essere difficile e mi
permetto di consigliare la via
da percorrere a chi volesse,
giornalista o magistrato, sape-
re cosa successe realmente nei
nostri cieli.
Gli Americani conoscono
da sempre l’esatto svolgersi
degli avvenimenti, anche se
hanno sempre rifiutato di col-
Fig. 9 - Relitto aereo
laborare. A Napoli, alla rada,
stazionava una portaerei che
con i suoi radar teneva sotto controllo tutto il Mediterraneo, mentre dall’alto ai satel-
liti non sfugge un metro quadrato di territorio; tutto registrato e conservato.
Negli Stati Uniti esiste una legge sacrosanta a baluardo della libertà d’informa-
zione:il Freedom of Information Act, che consente al semplice cittadino di accedere
direttamente ai documenti, anche all’epoca riservati, della pubblica amministrazione
civile e militare.
Le informazioni che ci interessano sono lì che attendono di essere compulsate, ci
sarà qualcuno di buona volontà che vorrà adoperarsi per farci conoscere la verità?
In particolare mi interessa parlare ora di Fenestrelle e dopo alcune notizie sulle
quali siamo tutti d’accordo: dove si trova, quando è stata costruita, etc., lasceremo la
parola a coloro che hanno cercato di fare luce su una pagina oscura della nostra sto-
ria, in particolare ad uno stu-
dioso nordico per cui inso-
spettabile.
La Fortezza di Fenestrelle
(fig. 10-11), più comunemen-
te nota come Forte di Fene-
strelle, è un complesso fortifi-
cato eretto dal secolo XVIII al
secolo XIX in località Fene-
strelle in Val Chisone (città
metropolitana di Torino).
Per le sue dimensioni e il
suo sviluppo lungo tutto il
fianco sinistro della valle, la
fortezza è anche detta la gran- Fig. 10 - Fenestrelle
120
de muraglia piemontese (fig.
12). Dal 1999 è diventata il
simbolo della Provincia di To-
rino e nel 2007 il World Monu-
ments Fund l’ha inserita nella
lista dei 100 siti storico-ar-
cheologici di rilevanza mon-
diale più a rischio (insieme ad
altri 4 siti italiani).
Il forte fu anche una pri-
gione militare in cui furono
rinchiusi, oltre ai militari che
avevano commesso crimini o
Fig. 11 - Fenestrelle
gravi infrazioni al regolamen-
to, anche i soldati di quegli
eserciti che erano stati attaccati dal Regno di Sardegna prima e dal Regno d’Italia in
seguito, durante il Risorgimento e i primi decenni del XX secolo; in particolare au-
striaci ed italiani degli stati preunitari che avevano combattuto durante le guerre d’in-
dipendenza, componenti del disciolto Esercito delle Due Sicilie fatti prigionieri du-
rante gli anni dell’unificazione risorgimentale del Sud Italia, 6 garibaldini in seguito
ai falliti tentativi di Garibaldi di occupare lo Stato della Chiesa, 462 soldati dell’Eser-
cito pontificio dopo la presa di Roma, militari austro-ungarici durante la prima guerra
mondiale. I detenuti del bagno penale erano reclusi in camerate comuni.
Negli ultimi anni il forte di Fenestrelle è passato agli onori della cronaca a causa
della “denuncia” da parte di una certa storiografia re-
visionista, secondo cui nel carcere, nel decennio tra il
1860 e il 1870, furono deportati militari dell’ex Re-
gno delle Due Sicilie, il cui numero andrebbe dai
24.000 fino alle più grandi stime di 120.000 uomini,
la cui colpa sarebbe stata quella di essersi opposti alla
conquista e alla successiva annessione delle Due Si-
cilie al neonato Regno d’Italia. Sempre secondo la
medesima storiografia, i reclusi sarebbero stati tenuti
in pessime condizioni (fig. 13). Il 22 agosto 1861 ci
fu un tentativo di ribellione in cui i reclusi in rivolta
avrebbero cercato di assumere il controllo della for-
tezza. L’insurrezione sarebbe stata sventata in manie-
ra quasi fortuita dalle autorità piemontesi ed avrebbe
avuto come solo risultato l’inasprimento delle pene.
La definizione di Fenestrelle quale “campo di
Fig. 12 - Fenestrelle concentramento” da parte di autori revisionisti ha
121
stimolato la ricerca storica da parte di studiosi
piemontesi, che smentiscono gran parte delle ac-
cuse presentate da movimenti revisionisti che
sarebbero state inverosimilmente ingigantite
quando non direttamente inventate.
Lo storico Alessandro Barbero, che ha defi-
nito la vicenda di Fenestrelle “un’invenzione
storiografica e mediatica”, consultando i docu-
menti originali dell’epoca, ha verificato come i
prigionieri dell’ex esercito borbonico effettiva-
mente detenuti nel forte furono poco più di mille
e di questi solo 4 morirono durante la prigionia.
Barbero ha sostenuto quindi: che la fortezza fu
solo una delle strutture in cui furono momenta-
neamente detenuti “anche” militari del Regno
delle Due Sicilie; che le condizioni di vita non
erano peggiori di quelle degli altri luoghi di de-
tenzione; che la documentazione, sia militare,
Fig. 13 - Lager sia amministrativa, sia parrocchiale, sul numero
dei detenuti, sul numero delle morti e loro cause,
sulle modalità di seppellimento è ampia e rin-
tracciabile. L’affermazione che con la morte i corpi dei detenuti venissero disciolti
nella calce viva (collocata in una grande vasca situata nel retro della chiesa del For-
te) viene confutata con l’osservazione che la calce viva non fu utilizzata per fare
scomparire i prigionieri, in quanto non capace di sciogliere cadaveri; il fatto che essa
fosse bensì “posta sui cadaveri era la prassi cui tutte le sepolture dovevano essere
soggette per motivi d’igiene, all’epoca”. In sostanza, per Barbero, quanto avvenne a
Fenestrelle deve essere molto ri-
dimensionato e, comunque, an-
cora di più scientificamente stu-
diato, sebbene egli riconosca che
tali eventi siano da inquadrarsi
nei sussulti, anche dolorosi, del
neonato Stato italiano.
Juri Bossuto, consigliere re-
gionale piemontese di Rifonda-
zione Comunista, in un libro del
2012 (“Le catene dei Savoia”,
scritto con Luca Costanzo, Ed. Il
Punto) ridimensiona notevol-
mente il numero delle vittime, Fig. 14 - Lapide Fenestrelle
122
riportandone solo quattro nel no-
vembre del 1860 e tende a smen-
tire il maltrattamento ai danni
dei prigionieri borbonici, poiché
sarebbero stati assistiti con vitto
e cure sanitarie. Sulle mura del
Forte è stata affissa una targa
(fig. 14) a “ricordo” dei fatti de-
nunciati mentre, nel 2016, il sito
monumentale è stato oggetto di
manifestazioni ad opera di attivi-
sti neoborbonici (fig. 15).
E concludiamo in bellezza
Fig. 15 - Manifestazione Fenestrelle
riportando un articolo di Ales-
sandro Morelli
In questo periodo c’è un gran parlare delle varie Foibe, Campi di concentramen-
to nazisti (lager), gulag staliniani e in Italia tutti si dicono commossi e tutti sono
pronti a ricordare.
Ebbene, almeno queste vittime hanno un testo scolastico di Storia che li menzio-
na, una stele e una lapide per il ricordo; invece c’è qualcuno che è stato barbaramen-
te ucciso ma nessuno si ricorda di loro.
Sto parlando dei soldati dell’ex Regno delle Due Sicilie deportati nei campi di
concentramento del Nord.
Fino a qualche decennio or sono nessuno scriveva di questo, poi poco per volta
vennero a galla delle notizie storiche sempre più precise e abbinate alla ricerca di al-
cuni “irriducibili” duo-siciliani si riuscì a scoprire la dura realtà.
Finalmente il 23 gennaio scorso un quoti-
diano nazionale, “L’Indipendente” (fig. 16) si
ricorda di loro: I LAGER DEI SAVOIA il tito-
lo principale e come sottotitolo: Dal sud del-
l’Italia furono deportati in migliaia. Gli “inci-
vili beduini” morirono in fortezze e galere del
nord. Il numero esatto delle vittime nessuno lo
sa perché i registri furono distrutti.
La storia inizia proprio nel 1860, l’esercito
piemontese scende nel sud e ci fu una guerra
regolare ed irregolare; tutti i soldati dell’allora Fig. 16 - Giornale
123
esercito duo-siciliano combatterono regolarmente. Poi, dopo la caduta di Gaeta, la
guerra finì con la vittoria dell’esercito piemontese e c’era il problema dei soldati fat-
ti prigionieri. All’inizio l’allora primo ministro, il barone Ricasoli, propose al gover-
no argentino l’affitto delle gelide terre della Patagonia dove deportare i soldati meri-
dionali. Il governo argentino rifiutò l’offerta e forse, senza saperlo, riuscirono a
bloccare la più criminale deportazione di massa della storia. Allora si decise di inter-
narli nelle fortezze del Nord-Italia; le prime deportazioni incominciarono nell’otto-
bre del 1860. Stipati come bestie sulle navi, furono fatti sbarcare a Genova, da dove,
attraversando laceri e affamati la via Assarotti, venivano smistati in vari campi di
concentramento istituiti a Fenestrelle, S. Maurizio Canavese, Alessandria, nel forte
S. Benigno in Genova, a Milano, a Bergamo e in varie altre località del nord. In quei
luoghi, appena coperti di cenci di tela, vissero in condizioni terribili. Per oltre dieci
anni, oltre 40.000, rei solo di aver tenuto fede al loro giuramento, morirono per fame
stenti e malattie.
Quelli deportati a Fenetrelle, ufficiali, sottufficiali e soldati semplici, subirono il
trattamento più feroce; il 22 Agosto 1861 tentarono anche una rivolta per impadro-
nirsi della fortezza. La rivolta fu scoperta prima dell’azione e il tentativo ebbe come
risultato l’inasprimento delle pene con i più costretti con una palla al piede da 16
kg., ceppi e catene. Pochissimi riuscirono a sopravvivere: la vita in quelle condizio-
ni, anche per le gelide temperature invernali a 1.600 metri d’altezza che dovevano
sopportare senza alcun riparo, non superava i tre mesi. La liberazione avveniva solo
con la morte e i corpi venivano disciolti nella calce viva.
Ancora oggi, nell’archivio storico della fortezza, ci sono i registri dei prigionieri
e ognuno di loro porta la dicitura “prigionieri di guerra” in francese con le date
(1861, 1862) di un’Italia già unita.
Oggi i libri di testo osannano i vari Garibaldi, Cavour, Re Vittorio Emanuele II,
ma nessuno si ricorda di questi meridionali, nostri avi, morti senza onore, senza
tombe, senza ricordo, neanche una stele alla memoria.
Se una nazione si ritiene democratica è anche giusto che divulga ai suoi concitta-
dini la vera storia e soprattutto che vengano ricordati i primi centri di deportazione
di massa.
Queste brevi note dovrebbero soprattutto far riflettere gli innumerevoli meridio-
nali che vivono e producono al nord – non ci riferiamo solo agli operai ma anche ai
laureati e gente cosiddetta di cultura – e che vituperano spesso la loro terra d’origine.
124
Capitolo 13
A Napoli il 2017, nel cinquantenario della morte, è stato dedicato all’ indimenti-
cabile Totò (fig. 1), dal Maggio dei monumenti ad alcune grandi mostre (fig. 2), che
però hanno trascurato alcuni aspetti essenziali della sua biografia, alla pari delle de-
cine di libri (fig. 3) su di lui usciti durante l’anno. Sono parentesi importanti, che non
possono essere più trascurate:
dalla sua presunta nobiltà, a chi
fu dedicata la canzone Malafem-
mina (fig. 4), oltre ad alcuni
dubbi sulla completa autografia
della celebre poesia A’ livella
(fig. 5).
Sono quesiti che ho da tem-
po risolto, grazie alla testimo-
nianza del suo compianto cugino
Federico (fig. 6), due volte rela-
tore ed abituale frequentatore del
mitico cenacolo culturale di mia Fig. 1 - Totò monarchico
moglie Elvira, che per oltre 10
anni si è tenuto ogni mercoledì
nei saloni della mia villa di Po-
sillipo (fig. 7-8).
Ho trattato dell’argomento il 27 luglio del 2002 nella pagina culturale del quoti-
diano Cronache di Napoli di cui all’epoca ero responsabile e lo scritto è stato poi ri-
preso nelle pagine del mio libro Le ragioni di della Ragione, pubblicato nel 2005.
Riproponiamo ai lettori il testo dell’articolo dal titolo eloquente e vogliamo ri-
cordare un dettaglio: l’usanza di applaudire la salma del defunto, all’uscita della
chiesa, dopo la messa, nacque spontaneamente ai funerali di Totò (fig. 9-10), tenutisi
a piazza Mercato ed ai quali parteciparono commosse 50.000 persone, tra cui il sot-
toscritto.
Principe del sorriso sì, Altezza imperiale da oggi non più. Un libro su Napoli e la
napoletanità che non dedichi un capitolo a Totò non si può nemmeno immaginare,
125
ma su di lui sono stati
scritti decine di volumi,
per cui è difficile ag-
giungere qualcosa di ori-
ginale.
Faremo tesoro di al-
cune interviste che ab-
biamo avuto modo di fa-
Fig. 2 - Tre mostre su Totò
re alcuni anni fa alla fi-
glia e ad un cugino del
grande artista per parlare del museo del quale da decenni, ad ogni tornata elettorale, si
annuncia l’apertura e della presunta nobiltà del principe, sulla quale possiamo presen-
tare documenti decisivi
che dimostrano che si
tratta di uno scartiloffio.
Negli ultimi giorni
le pagine dei quotidiani
napoletani si sono infit-
tite di altalenanti notizie
sulla casa natale di Totò
(fig. 11) che cambiava
proprietario, mettendo a
repentaglio il destino di
due anziani coniugi ul-
traottuagenari, da decen-
ni custodi fedeli ed a ri-
chiesta dispensatori di
memorie sui primi vagiti
ed i primissimi anni del-
l’immortale attore. Si Fig. 3 - I libri su Totò
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vero luogo di nascita del
principe della risata,
bensì l’evento sarebbe
avvenuto nel palazzo
adiacente, oppure che i
nuovi proprietari, dopo
un sogno premonitore,
erano intenzionati a far-
ne un Vittoriale di ri-
membranze. Tanto casi-
no sui giornali ha dato
come sempre l’occasio-
ne alle autorità politiche
di occupare la scena, im- Fig. 5 - Totò poesia
ponendo tardivi vincoli
di destinazione alla po-
vera casetta o blaterando vanamente sull’imminente apertura del museo dedicato ad
Antonio De Curtis nello storico palazzo dello Spagnolo. Apertura della quale da an-
ni si parla come prossima in comunicati stampa diramati a gara ad ogni ricorrenza
dal Comune e dalla Regione, ridondanti di paroloni, ma vuoti come consuetudine di
pragmatismo.
A tal proposito abbiamo voluto sapere come realmente sta la situazione dalla vi-
va voce della figlia dell’artista (fig. 12), la quale ci ha concesso un’intervista:
“È tutta colpa di un cesso”, così ha esordito la signora Liliana in un romanesco
stretto e cacofonico lontano mille miglia dalle sonorità onomatopeiche del nostro
vernacolo.
“Un cesso?” “Certo, il museo si trova agli ultimi piani del palazzo ed è perciò
necessario un ascensore; a tale scopo ne ho fatto approntare la tromba già da tempo,
ma mentre i mesi e gli anni passano per le lungaggi-
ni burocratiche un inquilino del palazzo ha deciso
di costruirvi abusivamente all’interno un cesso. Co-
se che capitano solo a Napoli”
“È fiduciosa nell’inaugurazione autunnale?”
“Lo spero con i dovuti scongiuri e quando apri-
rà io sarò in prima fila nell’organizzazione con se-
minari, dibattiti ed incontri con i giovani. Sarà un
museo molto vivo e Totò sarà contento”
“Si riuscirà a riempire tutti i locali?”
“Certamente c’è molto materiale, sarà anche ri-
costruita la stanza dove nacque mio padre”
Fig. 6 - Federico De Curtis Da parte nostra speriamo che a ciò che metterà
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a disposizione la signora
De Curtis, si riuscirà ad
aggiungere il contenuto
di quel famoso baule
(fig. 13), oggi proprietà
del figlio di un cugino
dell’attore, da poco
scomparso, un certo Fe-
derico Clemente. Il bau-
le, conservato a Pollena-
trocchia è ritenuto poco
meno di un reliquario,
Fig. 7 - Salotto Elvira infatti la richiesta del
proprietario è di 800 mi-
lioni delle vecchie lire, una cifra cospicua per la quale bisogna sperare nell’interven-
to delle Istituzioni. Quando tutto sarà pronto il museo costituirà un’attrazione molto
forte per i napoletani e per i forestieri, per cui si tratterà pur sempre di un buon inve-
stimento.
Questi episodi di attualità invitano a parlare di nuovo di Totò, una figura ormai
entrata di diritto nella leggenda, ma dopo i fiumi d’inchiostro versati sull’argomento
in decine di libri che hanno saturato da tempo le scansie delle librerie degli appassio-
nati, non è lecito scriverne ancora se non si è in grado di aggiungere qualche novità.
Ed è quello che ci proponiamo di fare grazie all’amicizia che nutriamo da anni con
un cugino dell’indimenticabile attore: il maestro Federico De Curtis.
Prima di discutere della nobiltà dell’artista vorremmo spendere qualche parola
su un aspetto trascurato
dell’arte di Totò: il sur-
realismo.
Il genio di Totò è
universale ed incom-
mensurabile, ma la sua
fama è sempre stata cir-
coscritta ai confini patri,
colpa di una critica mio-
pe, quando l’attore era
in attività, di traduzioni
e doppiaggi a dir poco
deleteri e di una distri-
buzione all’estero mal-
destra ed approssimati-
va. Fig. 8 - Salotto Elvira
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Negli ultimi anni grandi
rassegne in Europa ed oltreo-
ceano sui suoi film più celebri
hanno in parte colmato questa
grave lacuna, ma forse è trop-
po tardi per portare in tutto il
mondo il suo umorismo strari-
pante, la sua figura dinoccolu-
ta, la sua maschera comica e
tragica allo stesso tempo, de-
gna della fama e dell’immorta-
lità di un archetipo greco. Il
ritmo dei suoi film mostra i se- Fig. 9 - Funerali
gni del tempo, né più né meno
della produzione di mitici personaggi come Chaplin o Gianni e Pinotto ed è un pec-
cato che dalla sua immutata vitalità possano continuare a trarre linfa vitale solo gli
Italiani e pochi altri.
Il Totò surreale che si esprime già nei suoi film più antichi e nel suo teatro, del
quale purtroppo non è rimasta che una labile traccia, è stata sottovalutata anche dalla
critica più attenta. Nei trattati di cinematografia infatti si parla soltanto di Bunuel e
delle sue impeccabili creazioni e non vi è un solo rigo sul funambolismo verbale di
Totò, che avrebbe fatto impazzire i fondatori del surrealismo, i quali avrebbero sicu-
ramente incluso qualcuna delle sue battute nel Manifesto del nuovo verbo.
I due orfanelli (fig. 14), uno dei suoi primi film, in coppia con Campanini, ne è la
lampante dimostrazione. L’altro giorno è stato messo in onda dalla televisione ed ho
potuto gustarlo credo
per la centesima volta.
Quelle sue battute al ful-
micotone, immerse in
un’atmosfera onirica,
cariche di antica saggez-
za invitano alla medita-
zione ed acquistano
smalto ed attualità col
passare del tempo. Sono
degne di un’antologia da
studiare in tutte le scuo-
le. Ne rammento qualcu-
na per la gioia della ster-
minata platea dei suoi
Fig. 10 - Tomba di Totò ammiratori:
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Ai generosi cavalieri
corsi a salvarlo nelle ve-
sti di Napoleone.
“Ma quando mai co-
loro che provocano le
guerre corrono dei peri-
coli”
All’amico che gli
manifestava stupore nel
constatare che i cattivi
vengono premiati ed i
Fig. 11 -Targa casa natale di Totò buoni vengono castigati.
“Ma di cosa ti preoc-
cupi la vita è un sogno”
Ed infine all’abate Faria che lo invitava a scappare
“Ma perché debbo scappare, sono innocente”
“Proprio perché sei innocente devi avere paura della giustizia!”
Una frase scultorea che ho fatto mia di recente, mentre moderavo la presentazio-
ne di un libro in presenza di magistrati di altissimo rango e che mi ha permesso di fa-
re un figurone.
Ma ritorniamo al racconto del cugino di Totò, il quale con squisita gentilezza ci
ha fornito una serie di notizie che, integrate da alcune ricerche genealogiche, ci per-
mette oggi di escludere categoricamente la nobiltà tanto agognata da Totò, perché lo
riscattava da un triste passato di figlio di N.N.
Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Commneno Porfirogenito Gagliardi
de Curtis di Bisanzio, Altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano
Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e d’Illiria, principe di Costantinopo-
li, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponto, di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, con-
te e duca di Drivasto e di Durazzo, così amava definirsi il grande Totò, il quale pur di
fregiarsi di questi altisonanti titoli nobiliari spese una fortuna, ma senza rimpianti.
Questa sfilza di titoli, a cui tanto teneva il
Principe del sorriso non furono altro che il
frutto di un raggiro ad opera di un tal Pellicani,
esperto di araldica oggi ottantenne ma ancora
attivo con studio a Roma e a Milano.
Il primo a sentire puzza di bruciato e odore
di truffa fu Indro Montanelli e lo esplicitò in
un suo articolo, ma all’epoca non vi erano le
prove inoppugnabili dello scartiloffio.
Oggi viceversa sono disponibili due ben
distinti alberi genealogici, uno di Totò e della Fig. 12 - Liliana De Curtis
130
sua famiglia e l’altro di un tal Ca-
millo de Curtis, un gentiluomo di
settantanove anni, da anni residente
a Caracas, legittimo erede dei pom-
posi titoli nobiliari, assunti in epoca
remota da un suo avo tale Gaspare
de Curtis.
Il Pellicani, che tra l’altro, come
ci ha assicurato il colonnello Bella- Fig. 13 - Baule
ti, è stato per un periodo ospite dello
Stato…creò, secondo quanto riferi-
toci dal tenore De Curtis, che da decenni s’interessa alla vicenda, documenti dubbi,
quali una sentenza del Tribunale di Avezzano emessa nel 1914, pochi mesi prima
che un cataclisma devastasse la città, distruggendo la cittadella giudiziaria ed altre
due sentenze, l’una del 1945, l’altra del 1946, del Tribunale di Napoli, oggi conser-
vate all’Archivio di Stato, completamente diverse nella grafia da tutte le altre carte
contenute nel faldone ed inoltre pare combinò artatamente le due discendenze car-
pendo l’ingenuità del grande artista che, una volta riconosciuta la sua preclara di-
scendenza, fino alla morte amò di-
stinguere la maschera, irriverente
scoppiettante e canzonatoria, dal No-
bile, gentile, educato e distaccato da-
gli eventi e dalle passioni. Pubbli-
chiamo per la prima volta questi due
alberi genealogici, uno dei quali inda-
gato fino al 1750 e dal loro esame è
incontrovertibile che il marchese Ca-
millo de Curtis appartiene ad una di-
versa schiatta.
Ciò che abbiamo riferito sulla ba-
se delle confidenze del maestro Fede-
rico, non sposta naturalmente una vir-
gola nella straripante venerazione con
cui legioni di estimatori ricordano il
grande, inimitabile, immortale artista
e tra questi ai primi posti, teniamo a
precisare a scanso di equivoci, sta il
sottoscritto, il quale ha rivisto ogni
film di Totò non meno di quaranta -
cinquanta volte ed è in grado di ripe-
Fig. 14 - Locandina, I due orfanelli terne a memoria qualsiasi battuta, tut-
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te le poesie e tutte le canzoni. Ma a pro-
posito di canzoni, trovandoci, vogliamo
rendere pubbliche altre confidenze forni-
teci gentilmente dal parente dell’attore,
cugino di secondo grado, il quale, a ri-
guardo dell’indimenticabile canzone
“Malafemmina” (fig. 15) tiene a precisare
che la stessa fu dedicata alla moglie Dia-
na, ancora oggi vivente e non a Silvana
Pampanini (fig. 16), che l’idea della me-
lodia Totò la prese da una analoga canzo-
ne dello zio, padre del maestro Federico,
ed infine che a ritoccare musica e parole
misero mano il maestro Bonagura e Gia-
como Rondinella. E per terminare anche
la famosa “Livella”si mormora fosse stata
corretta… da Mario Stefanile.
Fig. 15 - Locandina
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