Napoletanità Arte Miti e Riti A Napoli Volume4
Napoletanità Arte Miti e Riti A Napoli Volume4
Napoletanità Arte Miti e Riti A Napoli Volume4
Prefazione
Correva l'anno 2012 quando vide la luce il I tomo di Napoletanità arte miti e riti a
Napoli, seguito a distanza di un anno dal II tomo (entrambi a cura dell'editore Clean),
più volte ristampati e disponibili ancora oggi in tutte le librerie italiane.
Nel 2015 comparve il III tomo, da tempo esaurito e consultabile (come lo sono anche
gli altri due) soltanto sul web.
Da tempo volevo concludere degnamente questo affascinante percorso nel ventre
della napoletanità, esplorata in ogni angolo, anche il più recondito, attraverso 200
capitoli, illustrati da oltre 2000 foto, per cui ho partorito l'ultimo volume di questa
tetralogia e ritengo che questa mia entusiasmante fatica letteraria possa dirsi
conclusa.
In questo volume il primo e l'ultimo capitolo hanno un sapore autobiografico: il 1°
descrive la mia ultra decennale attività di indefesso illustratore delle bellezze
artistiche della città, attraverso una serie infinita di visite guidate a chiese, palazzi,
musei e mostre, oltre a ripercorrere la storia del leggendario cenacolo culturale, che si
è tenuto ogni settimana nei saloni della mia villa posillipina, i primi 10 anni sotto la
regia della mia adorata moglie Elvira, poscia di me medesimo.
L'ultimo capitolo è una sorta di amarcord avventuroso nelle ville prestigiose che si
affacciano su Posillipo, nessuna esclusa.
In questi anni ha guidato costantemente la mia penna l'amore sviscerato che nutro
verso la città che ha avuto l'onore di darmi i natali e che in un futuro, il più lontano
possibile, conserverà la mia misera carcassa, mentre per il mio spirito è giustamente
prevista l'immortalità
1
Indice
2
La collina dei poeti
A lezione di vernacolo
Bagni di mare, ma si parliamone sotto la pioggia
Come era bello il Lido Napoli
Come era bella Villa Beck
Una grande squadra per una città appassionata
Anna Maria Cirillo la regina delle lettere
Raffaele Pisani, strenuo difensore della lingua napoletana
Le ville di Posillipo, quanti ricordi, quanta malinconia
3
Le memorabili visite guidate ed il leggendario salotto culturale
Sono circa 30 anni che nel fine settimana organizzo delle visite guidate a chiese,
monumenti, mostre, palazzi storici etc, quale presidente a vita e ad honorem della
famigerata associazione Amici delle chiese napoletane.
In passato dividevo il vasto pubblico in due tronconi con una visita alle 10 e 30 ed
un'altra alle 12, dopo la quale ci recavamo in una bettola per consumare un lauto
pasto, nel quale si distingueva per la sua famelica voracità un personaggio dalle
dimensioni debordanti: Giorgio Pollio.
Spesso ci recavamo fuori Napoli, non solo in località della Campania; Caserta, Portici
(fig.1) Salerno, Sorrento, etc, ma spesso ci siamo recati a Roma ed anche a Firenze e
Milano per visitare importanti mostre. Erano altri tempi, oggi gran parte del mio
pubblico, per quanto costituito da professori, professionisti e imprenditori non
sgancia un becco di un quattrino neanche sotto minaccia.
Spesso ho fatto aprire luoghi negati alla fruizione, tra cui voglio ricordare Villa
Rosebery, la celebre residenza del Presidente della Repubblica, che potemmo visitare
grazie a un mio amico: Emanuele Leone, nipote dell'omonimo Presidente. Ciò
avveniva molti anni prima che il Fai organizzasse sporadicamente visite a cui per
accedere bisogna iscriversi all'organizzazione, sganciando 50 euro.
Anche questo anno ho fatto intervenire il ministro per poter visitare la chiesa della
Nunziatella, un tesoro d'arte negato alla fruizione di turisti e napoletani.
Tra le visite del passato che meritano di essere ricordate vi è quella nella quale feci da
Cicerone a big della cultura italiana dell'epoca: Giulio Andreotti, Umberto Eco,
Marcello Dell’ Utri, Oliviero Diliberto e tanti altri vip che ebbero l'onore di visitare
Capodimonte sotto la guida del sottoscritto e conservo gelosamente i libri che mi
dedicarono Andreotti e lo stesso Eco.
4
Nel 2006 in occasione della mostra: Caravaggio, l'ultimo tempo, che si tenne sempre
a Capodimonte, dovetti organizzare ben 12 puntate, perché tra i visitatori vi era
sempre una preside, premurosa della cultura dei suoi sottomessi, che mi pregava di
tenere una visita per i suoi studenti poi, immancabile, la presidentessa del Soroptimist
o un presidente di un Rotary o di un Lions, che mi imploravano di ammaestrare i loro
iscritti.
Nel corso di una di queste visite partimmo in 80 - 90 persone, ma dopo poche decine
di minuti eravamo divenuti centinaia, per cui la direzione del museo, invidiosa del
mio straordinario successo, fingendo di temere per l'incolumità dei dipinti esposti,
inviò due carabinieri per sciogliere l'assembramento. I due militari quando giunsero
al mio cospetto si accorsero con grande meraviglia che, alla mia destra vi era il
procuratore generale della Repubblica ed alla mia destra il Questore, per cui non
osarono fiatare. Io li affrontai baldanzoso: "Ecco altri due visitatori, mettetevi in fila e
cercate di imparare qualcosa".
Un altro episodio che merita di essere ricordato è quando con un passaparola
organizzai nel museo di San Martino una visita guidata per i tassisti napoletani, che
accorsero a frotte clacsonanti ed entusiasti.
Tra gli episodi più recenti voglio ricordare uno avvenuto l'anno scorso al museo
archeologico, quando le guide autorizzate chiamarono i vigili urbani per mettere fine
alla mia visita, scambiandomi per un abusivo. Io spiegai loro con santa pazienza che
ero in un luogo pubblico con i miei amici, i quali avevano pagato il biglietto di
ingresso, ma non versavano niente nelle mie tasche per le mie spiegazioni, che tra
l'altro sono impagabili. Spiegai loro che nessuno mi poteva impedire in un luogo
pubblico di parlare e che se avessero insistito ad importunarmi avrei chiamato i
carabinieri per identificarli e li avrei denunciati per stalking. Appena estrassi il mio
cellulare d'antiquariato dalla tasca e accennai a comporre le prime cifre se la diedero
a gambe, mormorando perdonateci.
Viceversa in una visita l'anno scorso nella chiesa di San Giovanni a Carbonara una
pattuglia della benemerita dovette realmente intervenire. Mi ero recato nella chiesa in
avanscoperta alcuni giorni prima e avevo notato che i pochi custodi, invece di
controllare i tesori d'arte a loro affidati, prendevano comodamente il sole sfogliando
stupide riviste come Novella Duemila ed Eva Tremila. Nel cominciare il percorso
accennai a queste insane abitudini e uno dei custodi dalle dimensioni erculee
cominciò ad urlare minaccioso facendo accorrere i suoi colleghi. Non mi persi
d'animo e chiamai immediatamente il 112, chiedendo un intervento immediato,
altrimenti avrei chiamato il 113. Ma loro mi assicurarono: "Non preoccupatevi
abbiamo una volante a pochi metri interverrà immediatamente". Ed infatti pochi
minuti e sul posto vi erano quattro esponenti delle forze dell'ordine di cui uno alto
5
due metri. Nel frattempo era intervenuto anche il parroco ed alcuni delinquenti
chiamati dai custodi. Chiesi perentorio di identificare quei volti patibolari che
cercavano di intimidirmi, li avrei denunciati alla magistratura e soprattutto li avrei
fatti licenziare dal sindaco, del quale sono amico. Il custode arrossì per lo spavento ed
il parroco prese le sue difese affermando: "Illustre professore, se questo delinquente
vi chiede scusa e vi bacia la mano siete disposto a perdonarlo?". "Certamente e ci
faremo assieme anche una pizza". A questo punto uno dei carabinieri chiese:
"Maestro facciamo da anni servizio nella zona e non abbiamo mai visitato la chiesa,
possiamo unirci alla vostra visita?" "Accomodatevi" risposi tanto nella zona i
criminali non esistono.
Questo anno siamo alla trentunesima visita, abbiamo avuto il record di presenze
quando abbiamo visitato la caserma Salvo D'Acquisto, già monastero della chiesa di
San Potito. Eravamo 151, conosco il numero preciso perché abbiamo dovuto fornire
alla porta l'elenco delle generalità dei partecipanti.
Le visite proseguiranno fino a giugno inoltrato, per riprendere a settembre, almeno
per coloro che saranno ancora in vita.
Prima di cambiare argomento vi propongo una serie di foto di visite del passato e del
presente, in attesa del futuro (fig. da 2 ad 12).
6
fig. 3 visita chiesa Monteoliveto
7
fig. 5 - Achille e signora sotto terra
fig. 6 -Achille ed Elvira a San Potito, fuori palazzo spuntatore - 16 aprile 2007
8
fig. 8 - All'uscita del Canalone
9
fig. 10 - Achille con due seguaci
10
fig. 12b -Chiesa di San Potito 10 marzo 2018
11
aperti per l’occasione, spesso dopo un oblio di decenni e non mancavano spedizioni
lontano da Napoli, a Roma, Firenze, Milano, Salerno, Ischia, Capri, in occasione di
importanti rassegne artistiche.
Dopo una sosta forzata nel 2008 la sua riapertura era attesa con spasmodica
fibrillazione dai tanti amici del mercoledì, ansiosi di poter partecipare alle cerimonie
del tempio del sapere e finalmente nel 2014 ha ripreso a funzionare a pieno ritmo di
venerdì, abolendo le inutili abboffate, ora l’unico cibo è la cultura che elargisco
personalmente con generosità e dovizia di particolari.
12
La Tavola Strozzi e la vera storia del sacco edilizio
Tavola Strozzi
Muraglia cinese
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dei singoli, trascurando, com’è nostra scellerata abitudine, quelli della collettività.
Non si è mai smesso di costruire, basta, per convincersene, recarsi nei quartieri
periferici (Soccavo, Pianura, Secondigliano)cresciuti a dismisura o nell’immenso
hinterland partenopeo,da Quarto flegreo ai comuni della penisola sorrentina, che
stringe oramai in una morsa implacabile la città, costretta a sopravvivere con densità
di popolazione superiori a tutte le più affollate metropoli asiatiche e con un traffico
impazzito, con inestricabili ingorghi a croce uncinata, da fare impallidire a confronto
qualunque altro concorrente. Si sono costruite le case le une vicino alle altre, spinti
certamente dal profitto, ma anche perché il napoletano,geneticamente abituato
al“gomito a gomito”, prova un’intollerabile vertigine quando può allargare lo sguardo
su un panorama senza trovare la casa dirimpettaia, senza poter contare su
un’economia da vicolo, una socializzazione da cortile, tutto sommato una cultura da
casbah. Solo così possiamo cercare di spiegarci l’esistenza di mostri serpentino si
come via Jannelli o via San Giacomo dei Capri ed altri agglomerati sorti nel Vomero
alto, dove i suoli costavano poco o niente e si poteva tranquillamente speculare anche
costruendo a distanza più civile gli edifici.
Nonostante il cambio di padrone, l’atmosfera di Palazzo San Giacomo non cambia,
perché Correra, commissario prefettizio inviato dal governo per preparare le elezioni,
comincia a tessere una trama sottile con l’entourage di costruttori e speculatori che
gravitavano intorno al comandante.
Una vera e propria corte dei miracoli, abituata a feroci contrattazioni sottobanco che
cercava di disciplinare attraverso il rubinetto dei fidi e delle fidejussioni bancarie,
concesse da istituti di credito, in primis il Banco di Napoli, saldamente in pugno alla
Democrazia Cristiana. Correra doveva gestire per pochi mesi l’ordinaria
amministrazione e preparare la nuova consultazione elettorale, regnò viceversa
incontrastato per quasi tre anni, divenendo il vero padrone della città. La febbre
edilizia raggiunse temperature da cavallo e ben si espresse nell’erezione del
grattacielo della “cattolica”, in pieno centro cittadino,salutata dall’onorevole
democristiano Mario Riccio, il medesimo che aveva attaccato in Parlamento lauro per
il suo eccessivo impegno edificatorio,con frasi talmente toccanti da commuovere
l’uditorio presente all’inaugurazione. Tra il numeroso pubblico, impettiti in prima fila
i colonnelli del nuovo potere, sordi alle civili proteste, che Francesco Compagna
manifestava nei suoi articoli sulla rivista “Nord e Sud”.
Mentre si progettava lo sventramento dei Quartieri Spagnoli per creare un nuovo
Rione Carità, le nuove edificazioni cominciano a coprire ogni spazio libero. Sono
questi i veri anni delle “Mani sulla città”, quando costruttori senza scrupoli,
trasferitesi in massa dalla corte laurina al nuovo potere, come Mario Ottieri, scaricano
sul territorio urbano volumi edificati mai visti in precedenza; per essere più precisi:
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oltre diecimila vani in meno di due anni per una massa di duecentomila quintali di
cemento e quasi cinquantamila di ferro (dati riguardanti il solo Ottieri).
Le sue imprese distruggono l’armonia del centro più antico, come nella storica piazza
Mercato, dove l’orrendo palazzaccio, sorto in pochi mesi,fa tuttora rivoltare nella
tomba i tanti napoletani illustri, alle cui gloriose gesta è legata la sacralità dei luoghi.
Anche nella città nuova, al Vomero, si pongono saldamente le basi della perpetua
invivibilità, erigendo monumenti alla vergogna, come la stupefacente “muraglia
cinese” di via Aniello Falcone, che ancora oggi molti si ostinano a collegarne la
costruzione agli anni delle amministrazioni laurine. (citiamo ad esempio tra i tanti: la
“Storia fotografica di Napoli”,a cura di Attilio Wanderlingh con testi di Ermanno
Corsi oppure il“Vomero” di Giancarlo Alisio, nei quali placidamente si addossa a
Lauro la realizzazione della “muraglia cinese”).
Il kafkiano episodio di manomissione fisica del piano regolatore avviene negli anni
della gestione Correra. L’accaduto è noto, ma vale la pena ricordarlo per perpetuarne
la memoria. Le tavole del piano regolatore del 1939, all’epoca vigente, erano
conservate in tre esemplari, al Comune, all’Archivio di Stato ed al Ministero dei
Lavori Pubblici. I soliti ignoti, non essendo a conoscenza della terza copia, depositata
a Roma, agiscono in più tempi impunemente sulle prime due, cambiando a più riprese
i colori che identificano la destinazione delle varie aree della città. Il verde delle zone
agricole diventa così il giallo delle zone edificatorie. Un caso emblematico è
costituito dai terreni dove sorgerà il secondo Policlinico, che, comprati per tre soldi,
frutteranno cifre iperboliche agli speculatori.
I mandanti di queste continue manomissioni, ai limiti dell’incredulità, si procacciano
preventivamente a prezzo vile i terreni agricoli e poi,dopo il colpo di bacchetta
magica,anzi di pastello, scaricano milioni di metri cubi di palazzi sui suoli rigenerati,
guadagnando cifre da capogiro. L’intrallazzo andò avanti a lungo, fino a quando,
fortuitamente, venne scoperta l’esistenza della terza copia. Fu quindi aperto un
procedimento penale, ma naturalmente i colpevoli non furono mai identificati,
rimanendo perciò impuniti, anche se tutti sapevano chi fossero. Una vicenda
assolutamente irripetibile nella storia urbanistica di qualunque città.
Don Alfredo creò allora un’arma ancora più micidiale, che dava tra l’altro
un’etichetta di legalità al comportamento degli speculatori edilizi. Diede infatti luogo
ad un numero imprecisato di deroghe al piano regolatore da lui stesso proposto. erano
le famigerate e troppo presto dimenticate“varianti Correra” che legalizzeranno ogni
tipo di scempio,perpetrato dai costruttori. Il commissario prefettizio si serviva infatti
di un escamotage che è stato rivelato dall’urbanista Antonio Guizzi, il quale, per
inciso, fu consulente per la sceneggiatura del film “Le mani sulla città” e per anni si è
battuto, inascoltato dai mass media, per ripristinare la verità storica su quegli anni
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difficili per la nostra città. Le licenze venivano concesse in variazione al piano
regolatore cittadino e cominciavano tutte in tal guisa: “Visto il voto espresso il 26
luglio1958 dal consiglio superiore dei lavori pubblici, si rilascia…”.
A pagare un perpetuo tributo a questo scellerato comportamento sarà tutta la città,
che ancora oggi, dopo oltre quarant’anni, soffre per quei lontani abusi. in particolare
ne uscirono devastati i quartieri più moderni:Posillipo, Vomero, Arenella e
Fuorigrotta.
Mentre nelle fertili campagne di Soccavo si mette mano ai primi lavori per la nascita
del rione Traiano, nel 1960 il prefetto Correra, rinnova una convenzione con la
Speme, una società nata per urbanizzare la collina di Posillipo, non senza averla
dotata preliminarmente della quarta funicolare. Il sodalizio doveva costruire
palazzine popolari per dare una casa ai pescatori e ai contadini e a tale scopo godeva
anche di esenzioni fiscali e di sovvenzioni pubbliche, ma, strada facendo, realizzò
parchi residenziali con rifiniture di lusso e prezzi di vendita che raggiungevano i dieci
milioni a vano, fuori dalla portata dei ceti meno abbienti. La Speme riesce anche ad
ottenere il permesso di raddoppiare quasi l’altezza degli edifici e in pochi anni
completa sulla collina, cara agli ozi degli antichi romani, oltre quindicimila vani.
Finalmente si riesce a definire la data delle nuove consultazioni elettorali:il 6
novembre, dopo quasi tre anni di commissariamento. Un vero scandalo!
Ma la speculazione continuerà imperterrita fino ai nostri giorni, vedendo criminalità
organizzata e politici collusi. non è più storia, ma cronaca ed i risultati sono sotto i
nostri occhi.
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Un grattacielo napoletano
18
Lo splendore del Grand Tour
Goethe
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spettacolari, soprattutto quando il protagonista assoluto è il Vesuvio con le sue
fiamme implacabili che incutono rispetto e terrore.
Tra la folla anonima di una pletora di artisti artigiani spiccano alcuni nomi come
quelli di Saverio della Gatta e Alessandro d’Anna, i quali non sfigurano al cospetto di
colleghi più famosi quali Pietro Fabris o lo stesso Hackert, i cui dipinti facevano da
modelli ed erano molto imitati.
Un genere particolare fu quello delle gouaches, che raggiunsero un livello molto alto
grazie a Camillo De Vito e Gioacchino La Pira, specialista in paesaggi notturni e che
ebbero successo fino alla prima metà dell’Ottocento, andando poi scemando di
importanza per la pedissequa ripetizione seriale dei soggetti rappresentati.
Il mercato stimolato dal Grand Tour farà da traino anche alla feconda stagione della
Scuola di Posillipo, marcata da ben più alti intenti compositivi e da una puntigliosa
analisi della luce.
Ad attrarre i visitatori a Napoli, oltre ai reperti archeologici che febbrilmente
venivano alla luce ad Ercolano e Pompei, furono la spettacolare seduzione
dell’inquietante sfondo dei vulcani più famosi dall’antichità: il Vesuvio ed i Campi
Flegrei, un mare incantato dai riflessi magici, il verde di colline di tufo giallo che
scivolano verso la costa, il pittoresco intrigo di vicoli e piazzette percorsi da
un’umanità rumorosa e gaudente.
Nella seconda metà dell’Ottocento per i viaggiatori del Grand Tour era d’obbligo una
visita del cimitero monumentale per poter fruire di uno straordinario patrimonio di
storia e arte. Una situazione oggi completamente cambiata al punto di trasformare la
percezione della morte e conseguentemente il camposanto da tempio della memoria e
degli affetti in luogo di dolore da visitare in fretta e da dimenticare non appena
rientrati nella città dei vivi.
Napoli è una città di chiese e di scale, come annotò nel suo taccuino un anonimo
vedutista ottocentesco di passaggio in città all’epoca del Grand Tour.
Controversa, come è noto, l’immagine storica del Mezzogiorno, divisa come è agli
occhi di chi la visita non meno che agli occhi dei suoi stessi abitanti, tra il fascino di
una terra benedetta dagli dei, l’insidia di un mondo posto al confine tra la barbarie e
la civiltà. Tanto più agisce questa contraddizione se a guardare il Sud sono i sudditi di
una nazione che si prepara a costruire il più imponente sistema imperiale e il più
ramificato sistema di alleanze, influenze, egemonie, dell’età contemporanea. Il libro
si presenta oggi alle 17,30 al rettorato dell’Orientale, Palazzo du Mesnil, in via
Chiatamone.
Gli inglesi non sono più, o non sono più solo, gli emozionati viaggiatori del Grand
Tour, scolari affamati di lezioni di bello. Gli eroi sono i contemporanei di Waterloo,
forse vi hanno combattuto, certamente ne hanno acquisito la bellezza che deriva,
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dopo quella storica vittoria, di aver trionfato di un avversario della grandezza di
Napoleone Bonaparte, aprendosi la via ad un dominio più che secolare sul mondo
conosciuto.
Questa condizione li rende, fatalmente meno svagati: gli inglesi perdono l’innocenza
di chi cerca lontano da sé le risposte che il suo contesto non può dargli. Cominciano a
viaggiare con qualche verità in tasca: i loro occhi selezionano già con rapidità a volte
eccessiva ciò che ha ragione di stare al di qua della barra della civiltà. Le prime tappe
di questo percorso vengono segnate in quelli che, prima dell’avventura napoleonica,
erano stati i luoghi preferiti di una sperimentazione dell’immaginario obbligato ora a
cedere il passo alla pratica, assai più prosaica, dell’egemonia. E nel mutamento,
tuttavia, si racchiude qualche interessante novità. Il nuovo sguardo dell’Inghilterra
civilizzatrice e romantica al tempo stesso, quando ora si rivolge al Sud, piuttosto che
alle pietre, preferisce soffermarsi sugli uomini. All’ammirazione per le rovine si
accompagna, e spesso si sostituisce, la conoscenza incuriosita per gli abitanti di
abbandonati villaggi delle Calabrie, per donne e uomini a cui una società ingiusta e
arretrata regala condizioni di vita che l’Europa ha cominciato, sia pur lentamente, ad
allontanare da sé. Il Grand Tour si fa, insomma, politico, diventa, soprattutto dopo la
rivoluzione del 1820-21, l’occasione d’una denuncia civile.
E’ in questo momento che si determina peraltro quel rapporto stretto tra il giudizio
del viaggiatore e quello di coloro che nel Regno di Napoli vivono per effetto della
loro funzione: diplomatici di diversa formazione e ruolo, ai quali compete la
responsabilità di indicare alla Corte di San Giacomo la migliore condotta da assumere
nelle ricorrenti crisi attraversate dal Regno borbonico, alcune delle quali – come
accade, nel 1820, appunto, come accadrà negli anni Quaranta con la «guerra degli
zolfi» - minacciano persino di incidere sugli equilibri europei.
In parte siamo di fronte alle prime avvisaglie di quello stereotipo della “palla al
piede”.
In parte forse prevalente, però, si produce il risultato di un ingresso del Mezzogiorno
d’Italia nella modernità politica europea, nel senso che viene perdendosi rapidamente
l’alternativa, tutta estetizzante, tra «paradiso» e «diavoli» e si comincia a pensare al
problema di una arretratezza che non può essere esotismo o nostalgia, ma necessità di
riscatto. Il Mezzogiorno in idea, si trasforma, insomma, in un terreno di battaglie
politiche, dove ci sono – come è giusto che sia – i «buoni» e i «cattivi», non distinti
da dolcezza o malvagità dell’animo, ma dalla scelta che ciascuno – a cominciare dalla
dinastia regnante – fa rispetto ai nuovi lessici, alle lezioni di una nuova storia di cui i
«romantici» inglesi si rivelano allora non scolari, ma maestri, anzi padroni.
Dopo gli inglesi osserviamo il comportamento dei viaggiatori francesi.
21
Il padre domenicano Jean Baptiste Labat,nel secondo e lungo soggiorno in Italia dal
1709 al ’16, visita anche Napoli, e si reca alla Certosa di San Martino presentandosi
come americano e chiede al frate che lo accoglie di visitare la collezione di piante e
vedute. La guida a questa richiesta lo riconosce come francese , visto che – aggiunge
– molti francesi hanno visitato la collezione ed evidentemente glielo hanno riferito.
E’ importante questa testimonianza perché da essa si deducono due informazioni di
rilevante interesse: nella Certosa c’era una collezione di piante e vedute, nota anche
agli stranieri. La collezione, dal tempo di Gino Doria, è ancora oggi a San Martino.
Labat purtroppo verifica il pessimo stato di conservazione di piante e vedute che le
rendono quasi inutilizzabili, ma il suo dialoghetto è ben significativo di come si
muovessero alla conoscenza della città i viaggiatori del suo tempo i quali si
informavano su guide e testi storico-artistici, ma non mancavano di servirsi di quelle
testimonianze iconografiche disponibili sul mercato librario e antiquario. Lo stesso
Labat è inequivocabile al riguardo e segnala un errore che ha riscontrato nella
vedutina di Nicolas de Fer (1701) allegata all’Atlas Curieux edito a Parigi tra il 1700
e il 1705 in sei fascicoli, di cui si serve. Il belvedere che offre la collina di San
Martino è, dunque, il panorama per eccellenza e a tal riguardo le pagine che il Journal
vi dedica non si contano: da Nicolas Bé
nard che giunge a Napoli nel 1617, a Gragler de Liverdis, al giovane Colbert futuro
marchese di Seignalay, per non dire ovviamente di Maximilien Misson.
Pertanto si può dire che la topologia impone la veduta della città: l’altezza di
Sant’Elmo e la sua baricentrica posizione rispetto all’intero contesto paesistico del
golfo ne fa un topos obbligato.
Si crea divaricazione evidente tra i modelli visivi e modelli letterari: tra linguaggio
verbale e immagine visiva. Il sincretismo dell’immagine esige che le vedute che
s’affermano, quantunque differenziate, impongano comunque una veduta frontale,
sempre opposta al Castello di Sant’Elmo, il quale è cuspide di una ideale piramide e
diviene mezzeria del corpo della città. Come in un gioco degli specchi i due testi si
confrontano, si rimirano da due osservatori disposti lungo uno stesso asse
d’equilibrio. Il disegnatore ed il topografo calano sulla città come il volo radente di
un uccello, il viaggiatore la descrive per erba, si muove come una talpa e attraversa i
cunicoli del corpo urbano alla ricerca delle tane che gli sono più congeniali per poi
attestarsi sulla collina di Sant’Elmo.
L’immagine visiva cerca una sua sincretica compiutezza, il linguaggio verbale dirama
le sue sonde lungo itinerari che si sfioccano nelle diverse direzioni del tessuto
metropolitano. Ma entrambi questi sistemi di classificazione vanno alla ricerca di un
loro discorso. Anche lo scrittore è alla ricerca di una sintesi per introdurre il lettore
alla città, così come il disegnatore ha bisogno di un profilo, di un contorno, per
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definire i caratteri morfologici ed urbani: ma il primo guarda dentro, l’altro fuori. La
città è dunque contesa da una convergente attenzione: da un lato la veduta tende a
restituire i contorni geografici dello spazio urbano, dall’altro il testo letterario penetra
nello spessore del tempo vale a dire indaga la storia e i miti che si sono sedimentati
nelle viscere di chiese, strade e palazzi.
Ovviamente non tutte queste testimonianze sono omogenee e uniformi: ad esempio lo
Jouvin de Rochefort preferisce una passeggiata lungo la marina che gli consente di
vedere tutta la città dal basso. La veduta dal molo o, meglio ancora dal mare è quella
privilegiata dalla «Tavola Strozzi» di Francesco Rosselli al Baratta e poi ancora per
tutto il Settecento.
Una conferma del fatto che il paesaggio visto dai viaggiatori sia un luogo mentale,
cioè una formalizzazione concettuale della città indagata attraverso un testo letterario,
ci è data indirettamente dal resoconto di viaggio di Jean-Jacques Bouchard (1606-
1641): spirito inquieto e scrittore brillante, frequenterà a Parigi l’ambiente dei
libertini, fu amico del filosofo Gassendi e di Guy de la Brosse, a Roma – dove morì –
frequentò i più esclusivi circoli eruditi. Bouchard dice che egli non scrive niente «que
ce qui n’a point encore estè escrit du tout, ou qui ne l’a pas estè bien» o che non abbia
visto «de mes propres yeus» e quel che vede è molto importante.
Afferma di servirsi di libri, ma non di copiarli: pratica evidentemente corrente che,
peraltro, potremmo documentare ad abundantiam. E cita le sue fonti: pur usando
come guide i testi di Cluverius, Capaccio, Summonte ed il celebre Mercurius Italicus
la sua descrizione è così personale ed attenta ai particolari più vivi ed originali che ci
sorprende per la sua modernità. Ci son dei momenti in cui l’incisione di Baratta ed il
suo testo sembrano l’uno il riflesso dell’altro, e non è un caso che il resoconto di
viaggio di Bouchard nel 1631 segue di soli tre anni la stampa della veduta ed
aggiunge una interessantissima descrizione delle carte.
Parlando di Spaccanapoli, Bouchard sottolinea che essa incrociandosi con via Toledo
quadripartisce la città. Ricorda poi le strade lungo il mare, e quelle che si inoltrano
nel cuore più antico. Elenca le piazze tra le quali individua quelle che emergevano
soprattutto per le loro funzioni più che per le dimensioni, che Napoli non è mai stata
città dalle grandi piazze.
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gouache
gouache
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Il mito del Vesuvio
Il Vesuvio con la sua mole maestosa è presente in ogni veduta del golfo di Napoli,
ripreso con il celebre pino di via Orazio in infinite cartoline. Ma la sua unicità è
fornita dal connubio creatosi da sempre tra l’attività eruttiva e gli insediamenti umani,
tra natura e storia.
E di questa peculiarità sono testimoni numerose leggende, i racconti di cronisti e di
viaggiatori, i versi dei poeti ed il pennello dei pittori.
I vari cicli eruttivi hanno cambiato radicalmente la struttura dei luoghi e provocato
cicli di vita-morte nella natura e sui nuclei abitati limitrofi.
Il Vesuvio è l’unico vulcano attivo dell’Europa continentale, circondato da 20
comuni per un totale di 700.000 abitanti.
Sin dai tempi antichi le pendici del Vulcano, tra lo scomparso fiume Sebeto a nord ed
il Sarno a sud sono state intensamente abitate per la fertilità delle terre, prima ancora
dei Romani da Osci, Sanniti e Greci.
Fu sotto l’impero di Augusto che, attraverso cospicui investimenti, si colonizzarono
le terre, assegnandole ai veterani, si crearono due importanti vie di comunicazione: la
Nocera-Napoli e la Nola-Pompei e sorsero grandi città come Pompei, Ercolano e
Stabbia, oltre ad una fitta rete di ville rustiche.
Strabone, storico e geografo greco, vissuto prima di Cristo, ci fornisce una dettagliata
descrizione del Vesuvio in uno dei 17 libri della sua opera: Geographia.
La disastrosa eruzione del 79 d.C. che distrusse Pompei, Ercolano e Stabia ci è nota
grazie a due lettere indirizzate a Tacito da Plinio il giovane. In meno di 24 ore
l’eruzione creò il vuoto attorno a sé e lo struggente e desolato paesaggio che venne a
crearsi fu descritto da Marziale in un suo epigramma.
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Hic est pampineis viridis modo Vesbius umbris,
Presserat hic madidos nobilis uva lacus:
Haec iuga, quam Nysae colles, plus Bacchus amavit,
Hoc nuper Satyri monte dedere choros.
Haec Veneris sedes, Lacedaemone gratior illi,
Hic locus Herculeo numine clarus erat.
Cuncta iacent flammis et tristi mersa favilla:
Nec superi vellent hoc licuisse sibi.
Marziale - Epigrammi - Liber IV - 44
Ecco il Vesuvio, poc'anzi verdeggiante
di vigneti ombrosi,
qui un'uva pregiata
faceva traboccare le tinozze;
Bacco amò questi balzi
più dei colli di Nisa,
su questo monte i Satiri in passato
sciolsero le lor danze;
questa, di Sparta più gradita,
era di Venere la sede,
questo era il luogo rinomato
per il nome di Ercole.
Or tutto giace sommerso
in fiamme ed in tristo lapillo:
ora non vorrebbero gli dèi
che fosse stato loro consentito
d'esercitare qui tanto potere.
Grazie a fondi stanziati dall’imperatore Tito si avviò una lenta opera di ricostruzione
e si creò anche una grande strada litoranea, antenate della attuale S.S.18,
Nell’immaginario collettivo si cominciò ad associare il fuoco con il regno dei morti e
l’eruzione come la manifestazione della collera divina.
Nel medioevo, la religione cristiana demonizzò sempre più il vulcano, ma ne trovò un
adeguato domatore in San Gennaro, patrono di Napoli al quale fu accreditato un
intervento salvifico in occasione delle eruzioni del 472 e del 512.
Venne« e sviluppasi una letteratura sull’argomento e varie leggende, ai limiti della
mitologia, come quella dell’amore impossibile tra il giovane Vesuvio e la fanciulla
Crapa (Capri), che vennero trasformati in monte ed isola.
un’altra celebre eruzione iniziò nella notte tra il 15 ed il 16 dicembre del 1631, per la
quale rinvio alle pagine del capitolo “San Gennaro il Sebeto e l’eruzione del 1631” ed
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alla relativa copertina del mio libro “Napoletanità arte miti e riti a Napoli” 1°
tomo (consultabile su internet).
Lo straordinario interesse internazionale intorno al Vesuvio toccò il suo apice al
periodo del Gran Tour, la consuetudine dei viaggi di istruzione dell’Europa
continentale da parte dei giovani aristocratici Inglesi.
C’è stato un tempo in cui i viaggiatori si dirigevano verso Napoli soprattutto per
ragioni scientifiche, in particolare per studiare un fenomeno come quello del Vesuvio.
Già Plinio , nel primo secolo,si inerpicò sul vulcano solo per descrivere una eruzione
a fin di .scienza, pagando con la morte questa sete di conoscenza. Ma da allora, e «
fino ai primi decenni del Settecento, i resoconti delle escursioni ebbero
essenzialmente un carattere erudito o pseudo scientifico, e descrivevano le cause dei
fenomeni vulcanici, le caratteristiche strutturali del cratere o quelle dei minerali e
delle ceneri, e poi i percorsi delle lave o l'aspetto elle fratture», come scrive Lucio
Fino in Il Vesuvio del Grand Tour, sottolineando che spesso gli esploratori del,
vulcano neanche soggiornavano a Napoli attratti solo dallo studio dal vivo del
Vesuvio.
Poi succede qualcosa, probabilmente a cominciare dall'eco della rivolta di
Masaniello, e dalla seconda metà diciassettesimo secolo in poi la figura del Vesuvio
viene associata a un popolo che si è rivelato «infuocato» come un fiume di lava, Via
via allora, con il passare del tempo, anche il Vesuvio, a furia di essere descritto
celebrato e mitizzato, finisce : per diventare un elemento di folclore, stimolando
interpretazioni di ogni genere fino ad assurgere a simbolo di tante e opposte
caratteristiche del popolo napoletano. Fino suggerisce addirittura la possibilità che
solo a partire dal Settecento, ma soprattutto i napoletani abbiano imparato a guardare
con autentico coinvolgimento emotivo quel monticello così lontano, che ogni tanto
sfoggiava un pennacchio. Un simile cambio di prospettiva, d'altra parte, è dipeso
anche dalla esplosione delle mille descrizioni del Vesuvio stavolta non più dettate da
un approfondimento scientifico, ma da esigenze letterarie. «Così il Vesuvio cominciò
a rivelare elementi di suggestione capaci di catapultarlo alle origini del tempo, al caos
primordiale, ai primi momenti della creazione», e allora assistiamo al passaggio di
categoria del nostro vulcano: da elemento di studio a stereotipo, avvicinato dunque a
concetti nel contempo suggestivi e pericolosi come quello del «sublime», che
affascina, e del «Pittoresco», che appiattisce ogni sfumatura e vincola sempre al
medesimo giudizio.
Per avere una idea di tutti i resoconti vesuviani tra il 1500 e il l800, basta sfogliare il
libro di Fino, con citazioni da Tolstoj a Goethe, da De Sade a Dumas, da Andersen a
Ruskin, da Dickens a Twain. Ma ciò che rende unica questa edizione così pregiata ed
elegante, sono anche le raffigurazioni, a volte inedite o poco note, che gli stessi
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scrittori diedero del sublime Vesuvio i reinventandolo artisticamente. A stupire sono
soprattutto le riproduzioni di Goethe e di Andersen. Il primo nel 1767. raffigurò con
un acquerello una eruzione del Vesuvio utilizzando colori un arcobaleno di colori
così vari e uno stile così personale da apparire, oggi, un dipinto ante-litteram di Andy
Warhol.
Christian Andersen, invece, fu autore di tre schizzi a matita e inchiostro nei primi
decenni dell'Ottocento, e in uno di questi, che ha una essenzialità di stile e di tratti
strabiliante, la striscia di lava raffigurata non può non far pensare alla silhouette della
sua più celebre creazione, la Sirenetta, quasi come se questa si distendesse alle
pendici del Vesuvio. D'altra parte, anche la Sirena sarebbe diventata con il tempo uno
dei simboli di Napoli, e chissà se il favolista danese, nell'ispirazione per il suo
disegno, non riuscì a far convivere il suo immaginario personale, da cui avrebbe
ricavato la protagonista di una delle favole per bambini più celebri, con un secondo
elemento prettamente partenopeo ma ancora poco conosciuto dai viaggiatori europei.
Un’altra opera famosa sono I Campi Phlegraei illustrati da Pietro Fabris e scritti da
William Hamilton.
Verso il 1870 un finanziere volle costruire una funicolare che raggiungesse il cratere
ed incaricò l’ingegnere Olivieri del progetto e della direzione dei lavori. La
costruzione generò discussioni accese ed una celebre canzone: Funiculì funiculà,
scritta e musicata da Turco e Denza.
Il fecondo dibattito scientifico sviluppatosi nel Settecento con illuministi del calibro
di Genovesi e Galiani indusse il re Ferdinando II a realizzare nel 1841 l’Osservatorio
Vesuviano, da allora molto attivo nello studio dell’attività vulcanica.
Durante anni recenti si sono verificati due episodi significativi: l’ultima eruzione, che
risale al 1944 e tanto spaventò gli alleati ed il fenomeno del bradisismo di Pozzuoli.
Si sono alternati alla direzione celebri scienziati: Gasparini dal 1977 al 1993,
Giuseppe Luongo ed infine Lucia Civetta, gradita ospite come relatrice del salotto di
mia moglie Elvira.
Dal 1944 ad oggi il Vesuvio è apparentemente tranquillo, attira visitatori, ma nello
stesso tempo ha subito un boom di discariche abusive di rifiuti.
Nel 1991 è stato istituito il Parco naturale del Vesuvio comprendente 13 dei venti
comuni limitrofi, si sono creati sentieri e periodicamente vi sono feste ed escursioni,
tutte attività che potrebbero incrementare favorevolmente i flussi turistici.
La folla di visitatori al cratere ed il record di abusi edilizi. Il trionfo dei prodotti tipici
e l'assedio dell'immondizia. Il Parco nazionale del Vesuvio lascia la maggiore età
(istituito nel 1985) con un carico di paradossi: un'area protetta che attira centinaia di
migliaia di persone e che viene vissuta dai suoi abitanti come una specie di prigione.
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Troppi vincoli, troppe restrizioni: i Vesuviani non amano il loro Parco e il risultato è
che in 18 anni di vita il non li ha arricchiti.
Chiudono gli alberghi e annaspano i bed and breakfast nonostante i turisti non
manchino. Anzi, nel 2013; è stato stabilito un primato: al cratere di Ercolano, la così
detta "quota mille", è arrivato il maggior numero di visitatori degli ultimi anni.
500mila biglietti staccati ai quali vanno aggiunti; gli escursionisti abusivi, che
entrano nella riserva naturale senza pagare. E del resto, la storia del Parco Vesuvio è
anche un lungo elenco di abusi, prova ne siano le 100 ordinanze di demolizione
emanate nell'ultimo anno e i 457 reati ai danni del patrimonio ambientale commessi
negli ultimi tre anni. 18 anni dopo la sua fondazione, il Parco è a svolta. Cambia il
presidente, dopo la gestione di Ugo Leone, docente universitario napoletano dal
carattere mite e i modi gentili. Un uomo tutt' altro che vulcanico, "scaduto" il 31
dicembre ma che più probabilmente resterà in sella per almeno altri due mesi. Il
nuovo presidente deve essere, infatti. nominato; dal ministro dell'Ambiente d'intesa
con il presidente della Regione. Poi la nomina deve essere ratificata dalle
commissioni Ambiente di Carnera e Senato. «L'ente Parco è ad un bivio, tra
inesorabile declino e rilancio. Le condizioni per il rilancio dell’ente sono diverse e
complesse, ma sicuramente tra queste condizioni, vi è quella di essere guidato da
residente e da un consiglio dire con una chiara visione dei problemi da risolvere e
delle possibili soluzioni. È doveroso che associazioni, comitati, cittadinanza
variamente attiva, facciano sentire la loro voce proponendo alla attenzione del
Ministro persone che per storia, competenza, passione civile e capacità possano
legittimamente essere candidate a ricoprire incarichi direttivi al vertice dell'ente
Parco», hanno scritto in un documento quelli di «Cittadini per il Parco», un
movimento presieduto da Giovanni Marino, che dirige anche il consorzio del
pomodorino del piennolo.
Chi si è già insediato è il nuovo presidente della comunità dei 13 sindaci del Parco, il
primo cittadino di, Ottaviano Luca Capasso. Proprio ad Ottaviano, città di chiese e
tesori artistici nascosti, c'era un albergo, l'Augustus che ha chiuso i battenti dopo
decenni. Il rilancio del Parco è il cruccio di Capasso: «La natura deve essere
rispettata: i vincoli servono a questo ed è giusto che ci siano. Ma il Parco Vesuvio è
soprattutto un’opportunità di sviluppo turistico ed economico e noi dobbiamo
lavorare affinché questo concetto sia recepito da chi vive nell'area protetta. Penso ad
uno snellimento di alcuni regolamenti e alla possibilità di dare vita ad iniziative
turistiche con maggiore facilità, i seppure nel rispetto dell'ambiente e , delle regole».
Meno lacci e lacciuoli. Con l'industria che stagna, l'economia del turismo è l'ultima
speranza per chi abita, alle falde del Vesuvio. Ma la strada è impervia. La superficie
protetta del Parco è di 8482 ettari, all'interno dei quali c'è di tutto. Quattro discariche
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di Stato, per esempio, che attendono ancora di essere bonificate: due a Terzigno, una
ad Ercolano, l'altra a Somma Vesuviana. Centinaia quelle illegali. Ma l'elenco degli
illeciti è lungo, passa per i bracconieri e arriva fino ai ladri di legname, che fanno
razzie nella pineta di Terzigno. Del resto, dentro la pineta di Terzigno fino al 1985
c'era perfino una pista di motocross. Un circuito battuto dagli sportivi. di tutta Italia
fino a quando non fu istituita l'area protetta. Poi, fine delle trasmissioni: le moto in un
Parco nazionale proprio non possono correre. Nemmeno i cani se è per questo. Nel
maggio del 2012 ad; un'associazione fu negato il permesso di organizzare ima
passeggiata lungo i sentieri dell'area protetta in. compagnia degli amici a 4 zampe.
La legge è restrittiva ma i fondi per la valorizzazione del territorio sono molti. Dal
PIT Vesevo (piano integrato territoriale) sono arrivati più o meno 60 milioni; dai
PIRAP (per lo sviluppo delle aree rurali) dovrebbero arrivarne altri 10. Decine di
progetti che hanno lasciato tracce "trascurabili nel Parco e comunque non sufficienti a
superare i paradossi vesuviani. L'ultimo è quello del personale dell'ente: 15
dipendenti e nemmeno un architetto o un ingegnere nell'ufficio tecnico. Non
possiamo fare nemmeno i progetti per mettere a posto i sentieri», commenta amaro il
direttore Gennaro Esposito.
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La Civiltà del Caffè
Fumante, macchiato, amaro, schiumato: una tazzina del tradizionale elisir dei due
sorsi non si rifiuta mai nel corso della giornata. La chiacchiera è intanto assicurata e
con essa una ventata di buonumore.
Non è solo la silhouette di una tazzina fumante a richiamare quella del Vesuvio. Il
rito del caffè è intrecciato da sempre ai costumi dei napoletani, che hanno non solo il
primato del maggior consumo di caffè, ma anche dei modi di prepararlo e delle
occasioni di cui sono soliti degustarlo. Ma il segreto di un buon caffè, al di là di ogni
possibile alchimia, sta tutto nell’aroma che si sprigiona dal chicco, ovvero in una
miscela di qualità.
‘A tazzulella ‘e cafè’ è per il napoletano un rituale che scandisce le ore, accompagna
il risveglio al mattino, l’incontro con un amico, la visita di un ospite, l’incontro
d’affari, la pausa dal lavoro, completa il pranzo e talvolta la cena.
Intenditori al primo assaggio, meglio ancora, al solo sentire l’aroma
Sola a Napule ‘o sanno fa
Le tre C: comme, cazz, coce
Trasformare il rito quotidiano del caffè in un vero culto
Un espresso ad arte si riconosce già al primo sguardo: la crema deve essere di colore
nocciola e di tessitura finissima. All’olfatto poi ha un profumo intenso, che evidenzia
note di fiore, frutta, pane tostato e cioccolato, tutte sensazioni che si avvertono anche
dopo l’assaggio, nell’aroma che permane per secondi, a volte minuti. Il gusto è
rotondo, consistente, vellutato, l’acido e l’amaro risultano bilanciati senza che vi sia
prevalenza dell’uno sull’altro. Fondamentalmente anche la tazzina di ceramica
bianca: 25ml è la dose esatta per la quale occorrono 25 secondi, ma berlo in un
bicchiere di plastica è una vera bestemmia.
‘Na tazzulella ‘e cafè acconcia a vocca, si sa addolcisce la bocca e, talvolta, anche
l’anima. Uno dei pochi lasciti della nostra cultura popolare non ancora fagocitati dalla
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melma globale del Ventunesimo secolo è stato celebrato ieri, non solo in Italia, ma in
mezzo mondo: il caffè sospeso. Quella civilissima usanza secondo la quale
l’avventore agiato entra in un bar paga per sé un caffè e ne anticipa il pagamento di
un altro, per uno sconosciuto (molto) meno agiato che, entrando più tardi, dovesse
chiedere al cassiere: «C’è un pagato?».
La faccenda può intenerirci o farci sorridere, naturalmente, perché rimanda agli
stenti, agli aromi antichi della Napoli edoardiana o addirittura scarpettiana,
esattamente da dove origina. Giovani scrittori allergici alla retorica localistica e
disincantati giornalisti napoletani sostengono ormai che questa radice partenopea sia
leggenda metropolitana. Eppure in tanti sembrano prendere sul serio sia l’usanza sia
la leggenda se ieri mattina, nell’Agenda Europa della France Presse, dopo l’annuncio
di un discorso di Draghi e prima di una notizia da Bucarest, si potevano leggere le
seguenti righe: «Il 10 Dicembre, giornata mondiale dei diritti dell’uomo, è anche
quella del caffè sospeso (in italiano nel testo francese ndr), una tradizione
napoletana…». Già, anche la concomitanza con la celebrazione dei diritti dell’uomo
può farci sorridere: troppa grazia San Gennaro. Eppure, pensateci, nel freddo vuoto
della crisi planetaria, un caffè caldo offerto da chi non conosciamo è ben più d’una
bevanda: è un diritto dell’uomo a sperare in un mondo migliore almeno per il tempo
d’un sorso. In Italia 58 bar, da Trieste a Lampedusa (laggiù c’è il mitico Royal,
approdo sicuro e gratuito per i migranti), aderiscono alla rete del caffè sospeso, cui
sono agganciati eventi, spettacoli, reading, l’idea profondo del mutuo soccorso; altri
tre locali si sono associati dall’estero (Spagna, Svezia, Brasile). Ma basta farsi un
giretto online e aprire il sito anglofono Coffee Sharing per scoprire che 195 bar di
138 città in diciannove nazioni hanno adottato il suspended coffee, «tradizione nata
nella città dell’Italia meridionale, Napoli» (riecco la famosa leggenda). Il fenomeno
ha contagiato gli indignati francesi, decine di caffè bulgari, il Tam Tam Cafè di
Quebec e il Fritkot Bompa di Ixelles, Bruxelles, che ha mantenuto il principio, ma ha
sostituito il caffè con le più popolari frites (le buonissime e pesantissime patatine).
La chiave di lettura partenopea aiuta tuttavia a comprendere meglio il senso della
tradizione che al Nord, pur declinata con intenti nobilissimi, diventa qualcosa di
molto vicino all’elemosina a distanza, un gesto di altruismo che ci eviti però il
contatto con la miseria, una sorta di obolo a effetto ritardato. Nulla di più lontano
dall’originario intento del caffè pagato. Forme di generosità differita, addirittura il
pasto sospeso in trattoria, le troviamo già nella Roma povera ma bella del
neorealismo e del dopoguerra. E persino in quella di fine anni Trenta se nei Ragazzi
di via Panisperna di Amelio vediamo una vecchina che, affacciandosi ad un locale
chiede «c’è un sospeso?». L’usanza è stata poi messa in sonno dai decenni del
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benessere, ma è evidente come la crisi la stia riproponendo ed ampliando con la forza
della disperazione: pizza in sospeso, panino in sospeso, aiuto per chi soffre.
Nella sua accezione napoletana, tuttavia, chi soffre è, all’origine, il benefattore e
l’atto di beneficenza serve ad alleviarne la solitudine, che è forse il senso ultimo del
tendere la mano agli altri. Luciano De Crescenzo, che ha dedicato alla questione un
bel libro, racconta la storia di un avvocato della Pignasecca il quale, vincendo un
terno al lotto e non avendo persone care con cui festeggiare ordinò al barista di offrire
da bere a chiunque fosse entrato quella sera dopo di lui. Altri collocano l’origine
dell’usanza nel rione Sanità dell’ottocento. Ciò che non cambia è il senso, che è
socializzazione, accoglienza, partecipazione. Chi entra per secondo, con quel caffè
pagato, entrerà per qualche momento pure nella comunità, nei codici, nei sentimenti
che appartengono a chi lo ha preceduto al bancone. Almeno questo succedeva nella
Napoli in cui Eduardo diceva che il caffè è« la poesia della vita». Legenda napoletana
o verità storica, noi vogliamo credere che sia ancora così, per tutti, almeno per un
giorno.
La nuova guerra del caffè si combatte a colpi di alleanze industriali e di ricorsi in
tribunale sul fronte più caldo del mercato dell’espresso: quello delle cialde. Le
aziende Illy e Kimbo hanno appena sottoscritto un accordo del tutto inedito in un
settore, dove la concorrenza è stata sempre spietata. Insieme, entrano nel segmento
delle capsule, con macchine prodotte dalla Indesit e sfidano i due colossi della
Nespresso (controllato dalla multinazionale Nestlè) e della Lavazza, un nome
simbolo del made in Italy.
E’ una mossa che spariglia il tavolo del caffè, dettata da due fattori decisivi:
innanzitutto la dimensione dei gruppi in concorrenza, e poi l’andamento dei consumi.
Illy e Kimbo, la tradizione triestina e napoletana del caffè, sono due nani rispetto ai
due colossi della Nestlè, che nel 2013 si avvia a fatturare 4,8 miliardi di euro,
nell’area dell’espresso e della Lavazza a quota 1,3 miliardi di euro. E dunque per
lanciare una sfida così impegnativa, che prevede enormi investimenti nel marketing e
nella pubblicità, dovevano per forza trovare un accordo industriale e commerciale.
Quanto al mercato, la novità consiste nel fatto che mentre i consumi del caffè della
moka sono in contrazione, con una discesa ai livelli più bassi degli ultimi sei anni,
quelli delle cialde volano ad un ritmo del 22 percento l’anno. Uno spazio enorme si è
aperto, laddove la crisi invece non risparmia neanche il rito del caffè al bar.
Intanto la mitica Bialetti, la caffettiera dell’omino con i baffi compie 80 anni e si
prepara a festeggiare. A Omegna, sulle rive del lago d’Orta dove è nata nel 1933, è in
calendario una serie di iniziative. Un prisma di alluminio composto da due cilindri
sfaccettati, avvitati tra di loro e un beccuccio rivolto verso il basso: questo l’aspetto
della moka ideata da Alfonso Bialetti, una singolare forma ottagonale, mutata poco
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nel corso degli anni. Un’idea che ebbe osservando le donne mentre lavavano i panni
sulle rive del lago: sotto il mastello, col fondo bucato, mettevano cenere e sapone che,
a contatto con l’acqua, bolliva facendo schiuma e salendo verso la parte superiore
dove c’erano i panni lavati. Carosello fece poi il resto.
In Italia gli ottantuno percento dei bevitori di caffè ne consumano fino a tre tazzine al
giorno. Dove? Prevalentemente al bar, ma anche nelle case dove il rito del caffè
coinvolge ancora più della metà della popolazione italiana. La crisi, però, sta
modificando gli stili di vita, anche i più radicati e le cialde rappresentano
nell’immaginario del consumatore un modo per risparmiare senza rinunciare alla
qualità del prodotto. Da qui il boom, con una vendita nel 2012 di 2,2 tonnellate di
caffè consumate in cialde monodose. Ma il mercato del caffè è globale per
definizione, e l’Italia, nonostante le nostre abitudini, è ancora un piccolo mercato, il
sesto in Europa dopo i paesi del Nord dove il caffè non ha le sembianze del “ristretto”
quanto il gusto di una confezione “lunga”, da tazza per il latte. E puntando lo sguardo
alle tendenze sui mercati internazionali, si scopre che proprio il settore delle cialde
diventerà sempre più strategico e quindi più competitivo.
Attualmente nel mondo si bevono quattro miliardi di tazzine di caffè al giorno, un
consumo superato soltanto dall’acqua, e la moka resta saldamente la prima fonte di
acquisti. Ma sono le capsule che volano nelle statistiche: nel 2012, secondo i dati di
Euromonitor International, il mercato globale delle cialde valeva 8 miliardi di
dollari, nel 2015 supererà la soglia di 12 miliardi di dollari. Una progressione
importante e una straordinaria opportunità per i marchi del made in Italy, che hanno
bisogno di esportare per mantenere livelli di ricavi e di profitti sostenibili.
E attorno al mercato della cialda le aziende italiane possono far valere i loro migliori
punti di forza in termini di competizione: la qualità del prodotto di base, la
tecnologia sempre più evoluta delle macchine con gamma molto ampia di modelli, il
design di stile italiano ancora considerato insuperabile. Resta, in questo scenario, un
punto di debolezza del made in Italy del caffè: l’eccessiva frammentazione del
settore. Attualmente le aziende di torrefazione italiane sono 716, alcune anche di
piccole dimensioni e con sbocchi soltanto sul mercato domestico. Sono troppe e
l’alleanza tra Illy e Kimbo è solo un primo segnale di aggregazioni che saranno
sempre più spinte.
La guerra del caffè, infine, ha le sue code nelle aule dei tribunali di mezzo mondo,
dove continuamente si discutono ricorsi per concorrenza sleale e per le imitazioni dei
prodotti con politiche di dumping. La Nespresso ha una squadra di avvocati che si
occupano solo di questi contenziosi e non sempre riesce a spuntarla in sede di
giudizio. La multinazionale svizzera ha perso, per esempio, cause molto importanti
contro catene di grandi magazzini come la Demer e la Migros, che vendevano le
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capsule compatibili con le macchine Nespresso a un prezzo però inferiore del
cinquanta percento. E adesso deve fare i conti con l’ultimo e insidioso attacco che
arriva dalla multinazionale Mondelez International, l’azienda numero due al mondo
per la produzione di macchine per il caffè.
La Mondelez ha annunciato l’intenzione di mettere sul mercato, entro la fine del
2013, nuove capsule low cost compatibili con tutti i tipi di macchine per le cialde, a
conferma del fatto che la guerra del caffè si combatte senza esclusione di colpi e con
sempre nuovi protagonisti.
Il rischio per il made in Italy diventa enorme, senza la massa critica necessaria per
affrontare la sfida le aziende rischiano di essere marginali nel segmento più
promettente del mercato. E di ritrovarsi costrette a una resa che si traduce poi nella
cessione dell’impresa ai grandi gruppi stranieri.
Sarebbe molto triste e non ci resterebbe che consolarci con una “tazzulella ‘e cafè”
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Il popolo delle scale
Il Petraio
Prima di procedere alla lettura consiglio di consultare in rete il capitolo “Su e giù per
le antiche scale” contenuto nel III tomo del mio “Napoletanità, arte, miti e riti a
Napoli”.
Proviamo a visitare alcuni di questi percorsi ed a conoscere coloro che li abitano da
generazioni.
Lasciata alle spalle la Funicolare centrale e Piazza Fuga si comincia la nostra
camminata, tra le scale illustri o decadute con obiettivo il mare, dovete lasciar perdere
le pur necessarie magie segrete del liberty; mettervi alle spalle via Luigia Sanfelice,
via Donizetti (con le sue scale che, ripulite, avrebbero fatto impazzire Wanda Osiris)
e via Palizzi introdotta dalla villa di Eduardo Scarpetta, «La Santarella»: dal titolo di
quella commedia che lo arricchì. «Qui rido io» è scritto su un muro. Costeggiate la
candida villa Hertha che durante l'ultima, guerra fu prima comando tedesco e poi
comando alleato e prendete le scale per ritrovi in un altrove fatto di terrazzini ruffiani,
piccoli giardini di agrumi, palazzine restaurate di fresco ma pure edifici cadenti,
come molari cariati. Vi girate a guardare in alto e siete sovrastati da mura che vi
paiono ancora imponenti e da prospettive inedite di Castel Sant’ Elmo. A trafiggervi
è, comunque, lo spazio illimitato che scorgete appena Il parapetto sostituisce un
portone. Si può giocare ad identificare gli edifici più famosi e le cupole delle chiese.
Il Petraio è stato il punto ove si sono recati tanti pittori dell’Ottocento che hanno
lasciato vedute indimenticabili, a noi resta la gioia di scattare foto memorabili da
postare su Facebook per gli amici.
Incontriamo un gruppo di “lavoratori” alla ricerca di ferro, travi, elettrodomestici,
bulloni, una fatica improba, ma bisogna pur campare.
Gli abitanti dei bassi sono felici, perché la mattina quando aprono la finestra vedono
il paradiso e volentieri si accollano l’obbligo di tenere pulita la strada, nella quale
l’ultimo spazzino è stato visto anni fa.
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Un abitante indica un terraneo dove una volta vi era una cantina ”Assunta ‘a
Barbosa”, che apparteneva alla famiglia proprietaria di “Zi Teresa”. Vi fu una lite ed
una scissione e lei aprì una trattoria quassù, è stata aperta per molti anni e spopolava.
Portò con sé una immagine di Sant’ Anna che è ancora sul posto.
Lungo tutto il Petraio vivono almeno duemila persone. Un paese nella città. «Siamo
tutelati dall’Unesco, come la Pedamentina e le rampe San Francesco».
«In questa casa qua sotto ha soggiornato Goethe, un tempo; si chiamava Villa Di
Rienzo». Attorno c'è un giardino terrazzato. È in vendita, ma si accontenterebbero
anche di fittarla. «Quassù sono cominciate le Quattro Giornate di Napoli». C'è
persino, una scena nel film di Nanni Loy, nel quale risuona il grido: «Pe’ criature d’o
Petraio».
Più giù,-prima di arrivare alla cesura del corso Vittorio Emanuele che separa, Come
un torrente, due sponde quasi opposte, ci sono i gradoni di Santa Maria Apparente,
alle spalle della chiesa omonima.
Il corso Vittorio Emanuele, era tutt’uno, un tempo con il Petraio, ora è altro. Un altro
mondo. Si discende qualche rampa e ci si ritrova su una via ripida, anch’essa a
gradoni, malmessi e viscidamente scivolosi per. la pioggia. Un cartello ammonitore
consiglia come comportarsi: “Stateve accorti che vi ciaccate”, gli abitanti chiamano
affettuosamente quel tratto via Rompicollo. Un provvidenziale corrimano aiuta
anziani ed invalidi a salire e scendere senza troppi danni. Ulteriore protezione è
offerta da una piccola edicola colma di ex-voto con una immagine di San Ciro,
invocato ed intervenuto senza indugio in occasione di scoppi e smottamenti.
L’illuminazione lascia a desiderare, ma scippi e rapine qui sono sconosciuti, la gente
è tranquilla e tutti si conoscono da sempre. Mentre la società si disintegra la comunità
con i suoi legami parentali e di amicizia diventa sempre più salda.
I palazzi antichi hanno tutti i cortili, adoperati come parcheggio di quei pochi scooter
che riescono ad arrampicarsi lungo le scale.
Appoggiato alle mura un antico crocifisso tutto annerito dagli insulti del tempo.
Protetto da una tettoia, è diventato la casa di un gatto. La sua lettiera (una semplice
cassa di legno) è accanto a un lumino elettrico acceso saecula saeculorum. Un mazzo
di fiori. La foto di un defunto. Accanto una sedia Sfasciata. É l'eterna natura morta
della Napoli che profana il sacro e sacralizza profano. Ignora la differenza, una sorta
di panteismo assimilato senza aver digerito Spinoza.
Quello che è accaduto alla chiesa di Santa Maria di Betlemme, più sotto, appena
dietro alle vetrine scintillanti di via dei Mille, che nascondono, come un sipario, o un
sudario, il ventre incancrenito della città, è roba da manuale del degrado. Salita i
Betlemme è una ferita infetta. Se un posto lo chiamate Betlemme, poi che cosa vi,
aspettate, se non una grotta da ricovero, un presepe sgarrupato? A fare da pus c'è la
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chiesa sconsacrata, sovrastata dal palazzo dei Veterani: uno scandalo nel cuore di
Chiaia snobisticamente distratta. Tutto il complesso secentesco era dei domenicani.
La chiesa è ora del Demanio ed è affidata alla Nuova Orchestra Scarlatti, diretta dal
clarinettista Gaetano Russo. Tra non molto sarà lasciata, perché è stata messa in
vendita: per 400mila euro. Quando sono arrivati i musicisti hanno trovato di tutto.
Una discarica marcescente: negli scantinati c’era il deposito di water, bidet lavandini
e vasche da bagno di un idraulico.
La porta è socchiusa, come le meraviglie che nasconde. Nella chiesa seicentesca di
Santa Maria di Betlemme ci si entra con facilità, a un paio di minuti di «piedicolare»
dalle «scale, rompicollo». Però., una volta entrati, in i chiesa, gli occhi stupiti non
sanno dove guardare. Non sanno se lasciarsi catturare dalla bellezza dell'altare, dalle
crepe preoccupanti, dal degrado dell'intonaco ammuffito e sfasciato, dai palloni usati
un tempo per le partite con il crocifisso a fare da palo o dal pc che sotto alla Madonna
nella cappella laterale. Poi, si sente una voce. Quella di Gaetano Russo, maestro della
Nuova orchestra, Scarlatti. Racconta di quando trovò, un mitra nell'intercapedine.
Allora, lo stupore decide dove dirigersi.
«La Chiesa non è stata restaurata continua Russo, che è stato il primo clarinettista
dell'orchestra Scarlatti della Rai fino al 1992 - Noi però l'abbiamo pulita. Quando ci
siamo entrati, nel 2002, qui c'era di tutto, materassi un imputriditi, vetri rotti e resti
cene. Una discarica. C’erano stati extracomunitari. Gli ovali sono stati rubati. Qua e
là, palloni di cuoio a parte, si trovano spartiti e strumenti musicali: un organo sulla
navata destra e un tamburo dietro l’altare regna una atmosfera dimessa. Tutt’attorno
all' edificio religioso si sviluppa, come un mastodonte precipitato da un’epoca dove
storia e preistoria si prendevano a cornate, il palazzo che sorse sulla preesistente villa
del , magistrato Carlo Tappia. Si alza per: nove piani. Mai registrato al catasto e da
sempre occupato abusivamente. Dell’antico chiostro restano pochi elementi, per il
resto è uno sfascio: un rudere che potrebbe fare la sua figura a le Vele di Scampia.Dal
lato della salita Santa Maria Apparente c’è un fondaco ridotto a garage. Molte
vecchie porte sono state tompagnate. In alto s’intravede qualche casa abitata. Su un
balcone c’è un carrello vuoto da supermercato. Un appartamento è sventrato, un altro
espone jeans ad asciugare. Dovunque auto parcheggiate. Dal lato della salita
Betlemme, accanto alla chiesa, c’è un antico arco di piperno, sui gradini sono
cresciute pianticelle già primaverili. A sinistra, una scala stretta porta verso il
campanile in parte abitato. A destra, un tempo era tutto murato. Ma hanno aperto un
varco enorme per accedere alle larghe scale che portano ai piani alti. È, senza
eufemismi, un gabinetto pubblico e contemporaneamente un dormitorio. Materassi
lerci ovunque, ed un ricovero per mendicanti. Ai lati stanzette devastate. Al primo
piano è tutto puntellato. È un antro. Il peggiore degli incubi di Piranesi. Il pericolo
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che tutto possa cedere sotto i piedi i lo avverti a ogni passo, e pesa più del silenzio. È
un'ascesa all'Inferno, un piano dopo i l'altro, una bolgia dopo l'altra, un girone dopo
l'altro.
Veterani è il nome più appropriato che si poteva dare a un luogo smisurato come
questo. Chi sopravvive qui, anche un solo giorno, merita la medaglia al merito
incivile. Chi invece non vuole combattere nessuna guerra guarda e passa. La città
dolente è dietro gli scintillii sempre più spenti delle boutique e dei brand più ambiti.
Dall’alto del Petraio tutto questo resta. invisibile. Le nervature malate di Giùnapoli
non si distinguono. Tutto, da lassù, fa paesaggio. L'azzurro copre le cicatrici putride
come zucchero a velo. È solo un effetto ottico al quale non sono sfuggiti neanche i
viaggiatori più accorti. Solo pochi di loro, i più acuti o i più cinici, hanno saputo dire
quanta miseria nascondessero i fondali di cartapesta. Ma pure quanto dolore restasse
a imputridire e nessuna acqua riusciva a trascinarlo via. Perché è un dolore che non si
lava.
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Edicola votiva
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esterno Ex Chiesa di Santa Maria in Betlemme
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La Santella
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esterno palazzo dei Veterani
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interno palazzo dei Veterani
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Lasagne, vino e chiacchiere
Il Carnevale di Napoli; è soprattutto una lunga pernacchia alla fame. Nella città dello
straordinario quotidiano, dove l’ordine nasce dall’equilibrio ritrovato giorno per
giorno e non da regole borghesi a cui inchinarsi, l’unica vera evasione era
l’abbondanza di un giorno a contraltare alla perenne ricerca di cibo.
Una condizione materiale che è ricordo del passato, ma non per tutti, di cui sono
evidenti le tracce proprio in questa giornata: stranamente il Carnevale in città non
sembra avere una tradizione da raccontare forte come il Natale e la stessa Pasqua. La
festa, ripetiamo, è a tavola dove la lasagna opulenta, scostumata, esagerata riesce ad
accogliere tutti i sogni dell'immaginario della fame, dalla carne delle polpettine al
formaggio, alle uova e al salame. Ecco dunque che mai come in questo caso la vera
festa è celebrata da un piatto che viene ripetuto infinite volte da tempi non meglio
precisati e che sicuramente ha una sua origine nella scuola dei monzù di inizio
Ottocento.
A furia di tornare indietro, scopriamo che persino Cicerone ne andava ghiotto e che
Cecco Angiolieri verseggiava contro chi "dell'altrui farina fa lasagne". Ma
fermiamoci a un secolo e mezzo fa e ricordiamo con affetto gastronomico addirittura
un re, Francesco II detto Re Lasagna, proprio a causa della smisurata passione per
questo piatto che per il napoletano e emblema stesso del Carnevale.
Cibo regale, la lasagna, quasi certamente frutto del genio dei monzù di origine
francese a servizio della corte borbonica, sempre amanti di una cucina sontuosa e
ricca di ingredienti. Ma anche piatto trasgressivo, memoria della Cuccagna, rito
apotropaico che esorcizza una fame secolare. Nella lasagna, dice qualcuno, più ci
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metti e più ci trovi. Però ciascuno ha la sua, ciascuno a Napoli ne dà una diversa
interpretazione, premesso che - almeno due volte, il primo e l'ultimo giorno di
Carnevale - nelle case era tradizione e in parte lo è ancora preparare la “lasagna
napoletana”, infiltrata speciale dalle antiche tavole bolognesi ma trasformata al punto
da rendersi quasi irriconoscibile., agli occhi di quelli del Nord.
Esiste una lasagna doc? Jeanne Carola Francesconi, maestra di cucina, un classico
che si ama e non si contesta, propende per un ragù né troppo chiaro né troppo scuro,
per una ricotta abbondante ma senza esagerare e -fuor di discussione- per la
indispensabile presenza delle cervellatine. Salsicce più grandi no? E i dubbi sono
ancora tanti: mozzarella o fiordilatte? Sfoglia all'uovo o sfoglia di semola? Uova sode
sì o no? E il salame? Le varianti possibili possono confondere i meno esperti, meglio
chiedere lumi a una regina della lasagna di tradizione, Gena Iodice del ristorante La
Marchesella, erede di una famiglia che in tre generazioni ha fatto la storia della
ristorazione a Giugliano. Per la lasagna di Gena nel periodo di Carnevale i clienti
fanno la fila, una ragione ci sarà.
«Prima di tutto la pasta la faccio a mano. Farina, uova, sale secondo la dose canonica:
ogni 100 grammi un uovo e un pizzico di sale».
E già siamo fuori dai ricettari antichi che prevedono solo acqua e semola o la sfoglia
festonata di Gragnano, quella che usa lo chef di stretta tradizione Antonio Tubelli.
Ma procediamo.
«Il mio ragù è classico, tirato per sette/otto ore, e misto: braciola di manzo e braciola
di cotica, tracchie, salsiccia, spezzatino di vitello. Le polpettine sono miste e le friggo
a parte».
la ricotta? «Rigorosamente di bufala. Non uso il fiordilatte ma la provola. Mozzarella
assolutamente no, troppa acqua». Le uova? «A Giugliano e in generale nell'hinterland
le uova sono legate unicamente alla tavola di Pasqua, perciò non hanno nulla a che
fare con i riti del Carnevale. Perciò uova no e neanche il salame».
Strato dopo strato, la lasagna di Gena s’innalza nella teglia. Farcita a dovere viene
messa in forno a cottura lenta, non aggressiva, prima a 150 gradi poi a 180 per quasi
un’ora, il tempo di diventare croccante in superficie, di formare una crosta
«arruscatella». Molti gli affezionati che la definiscono quasi perfetta, una delle
migliori che si possono gustare in Campania.
A chi ama le novità, Gena Iodice regala anche lasagne di Carnevale alternative: con
zucca, salsiccia, provola e funghi porcini; con carciofi, baccalà e provola; con
gamberi, asparagi e provola. I più tradizionalisti storceranno il naso, ma anche queste
varianti sono molto richieste.
Del resto, non dimentichiamo che le lasagne di Carnevale di Ippolito Cavalcanti duca
di Buonvicino, anno Domini 1839 per la sua Cucina teorico-pratica, sono diverse. E
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tra queste ce n’è una, gustosissima, senza ricotta. E un’altra con béchamel, uova sode,
fegatini di pollo, funghi, piselli e tartufi. Più ci metti e più ci trovi.
Per dirla con Facebook la lasagna sta a Carnevale in una relazione complicata. E si,
mica è tanto facile stabilire quale sia la versione più tradizionale che più tradizionale
non sì può. Ci sarà sempre un purista che giurerà sul possesso della ricetta più
autentica e più antica: quella con la pasta di semola o quella con la sfoglia; quella
quella con il ragù e le polpettine; quella con il salame e le cervelatine; quella del
Corrado o quella del Duca di Buonvicino.
E allora abbiamo pensato di redigere una piccola guida per trovare in città, e nel resto
della regione, la tavola imbandita, tra giovedì e martedì grasso, con la lasagna, se non
proprio la più tradizionale, almeno la più buona. Cominciamo con lo storico
ristorante Umberto, in via Alabardieri, cuore pulsante della città. Qui la famiglia Di
Porzio da sempre sceglie ‘o Ragù, la provola, la ricotta, le polpettine di maiale fritte e
la salsiccia per farcire la riccia trafilata in Bronzo.
Pure Francesco Parrella alla Teverna do’ Re che sta di fianco al Teatro Mercadante,
preferisce la riccia e la farcisce sia con salame che con salsiccia. Le polpette, poi,
sono quelle con pinoli e uva passa, come piacevano, egli dice,proprio a Re
Ferdinando. A via Nicotera la signora Antonietta nella sua La Mattonella sono già
due settimane che propone la classica lasagna dove sono racchiusi i profumi e i sapori
della cucina dei Munzù, i cuochi al servizio delle famiglie napoletane più ricche.
Lungo la Riviera di Chiaia a Napoli. Mia Antonella Rossi opta per la sfoglia all' uovo
tirata a mano che raccoglie gli stessi ingredienti. Niente besciamella, ma ricotta di
bufala e un pizzico di pepe profumato e stimolante.
Anche all'Osteria La Chitarra sulle Rampe di San Giovanni Maggiore, dove qualche
volta, mentre si mangia, si suona e si canta ancora come ai bei tempi, tutto è
racchiuso nella sfoglia, ma il cuoco patron Peppe Maiorano dice che la differenza sta
nel ragù lasciato pippiare da Annarita fin quasi all'infinito. Alla Taverna Santa Chiara
che sta all’ombra del campanile dell'omonima basilica, si celebra il lasagna-day. Due
giorni pieni, interamente dedicati a questo piatto. Insomma ci saranno il trionfo della
tradizione e, per dolce, l'elogio del migliaccio. Da non perdere. Fuori porta basta
spostarsi a Giugliano dove Gena Iodice e il marito Tommaso a La Marchesella
garantiscono una delle più golose farciture; c'è ogni ben di dio “senza sparagno”,
come si dice da queste parti, mentre le complici trachiulelle arricchiscono la salsa. A
Palma Campania si può andare da Alberolungo, simpatica trattoria moderna. La
lasagna è quella gragnanese di semola riccia. Uova sode e polpettine in abbondanza,
ma soprattutto cottura nel forno a legna, cosicché, sostiene Camillo Di Palma, gli
aromi e i sentori fumè sono più che garantiti.
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Montesarchio poco lontano dalle Forche Caudine e qui Daniele Roviezzo nel suo bel
ristorantino Rovi propone la vera ricetta di mammà. la sfoglia è fatta soltanto di
semola e acqua. E dalla lagana fresca su laganaturo si ricavano le lasagne. Si fa così
nel Sannio; le trafile stanno nelle mani delle donne ed il risultato, in quanto a
morbidezza, è più che scontato.
A Valva, dalle parti di Contursi Terme, nell'Osteria Arbustico si potrà fare, infine, un
tuffo nella cucina d'autore, fra le specialità del territorio: tutti ingredienti da filiera
corta, a cominciare dalle carni di vitella e di maiale, dai salumi e dai latticini usati per
farcire la sfoglia tirata con acqua, semola, uova intere, Un’insolita sosta in stile
tradizionale che mette in stand-by la ricerca e la creatività di Cristiar Torsiello. Sarà,
perciò, una belle sorpresa, ma è Carnevale e come dicevano i Latini: semel in anno
licet, almeno una volta all’anno è consentito. Febbraio è il mese per provare con
gusto i primi sorsi dell'ultima vendemmia. Sopravvive ancora il rito dell'uccisione del
maiale, dall'isola di Ischia all'Irpinia, dal Cilento al Sannio. E poi c'è la lasagna di
Carnevale napoletana, un piatto grasso, ricchissimo, succulento, che negli ultimi anni
è diventato ancora più ricco grazie alla possibilità di trovare facilmente gli ingredienti
necessari. Non ci sono dubbi che i piatti italiani di tradizione preferiscono i vini di
territorio. Certo, si possono anche provare altre strade, ma si tratta di ipotesi cerebrali
spesso caricaturale, come proporre il nebbiolo della Valtellina sulla lasagna
napoletana.
Meglio affidarsi invece alla sapienza degli antichi, confortata dalla tecnica dei
sommelier, per dirigersi verso prodotti del territorio. A Napoli c'è solo l'imbarazzo
della scelta perché tutte le doc offrono una comodo e facile possibilità di
abbinamento. Certamente il Gragnano è in pole position grazie all’azione sgrassante
del frizzantino che lo rende molto utile anche sulla pizza. Ormai ce ne sono di
buonissimi, da lovine a Pimonte a Grotta del Sole a Quarto, e ancora Sannino sul
Vesuvio, giusto per citare i più famosi. È anche l'occasione per provare il primo sorso
del millesimo 2013.
Per questo piatto servono vini molto freschi, di corpo, tannici. Molto bene anche il
Piedirosso, quello che entra della doc Lacryma Christi (Villa Dora, Cantina del
Vesuvio, Sorrentino, Cantine Olivella, ma anche Feudi, Mastroberardino e Michele
Romano) appare più indicato per la sua essenzialità e soprattutto per la nota
amarognola finale assolutamente necessaria per liberare la bocca dal boccone. Più
delicato quello dei Campi Flegrei (ancora Grotta del Sole, Agnanum, Contrada
Salandra, Cantine Astroni, lovino), magari da spendere su una lasagna dal sugo non
troppo elaborato come vuole la tradizione dura e pura.
E nelle altre province? Qui prevale l’Aglianico sicuramente, ma è bene sceglierlo
giovane, quando è ancora squilibrato proprio per fargli trovare la giusta
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compensazione nel piatto. La scelta è davvero sterminata, sfogliando la guida Slow
Wine indichiamo al volo i base di Mastroberardino, Montesole, Donnachiara,
D'Antiche Terre, Villa Raiano facilmente reperibili ovunque.
Buono anche, per chi ama i gusti più decisi, Buccenere di Giacomo Pastore, il
Gioviano della cantina il Cancelliere, Zì Feli. cella di Ciro Picariello e 'o Calice rosso
di Molettieri.
Nel Sannio puntare sul base della Guardiense, oppure sui rossi di Aia dei Colombi,
Fontanavecchia, Torre dei Chiusi, Venditti, Ciabrelli, Cautiero, Fattoria La Rivolta.
Infine nel Casertano il Castello delle Femmine di Terre del Principe e il Riccio Rosso
di Alepa mentre nel Salernitano l’Aglianico di Rotolo e Bacioilcielo di De Conciliis
rispondono alla grande. Come anche la Tintilia a Tramonti:
Reale, Apicella, San Francesco, Monte di Grazia. Oppure i rossi di Raffaele Palma e
Marisa Cuomo. E Ischia? Le fiches tornano al Piedirosso con Pietratorcia e
D'Ambra.
Insomma: provincia che vai, abbinamento che trovi. E per chi è fuori regione puntare
su Gaglioppo in Calabria, Nero di Troia e Negroamaro in Puglia e, ovviamente, su
Aglianico del Vulture in Basilicata o Tintilia nel Molise.
Certo non vorremmo che le regole entrassero anche nel piacere della tavola. Però
sapere come abbinare il vino al cibo ci aiuta di sicuro a far godere fino in fondo il
nostro gusto. È tempo di lasagna di Carnevale e a Napoli ci piace accompagnarla con
un buon bicchiere di Gragnano bevuto fresco, intorno ai 14 gadi. quasi come un
bianco. È poi un rosso che in famiglia piace a tutti per il suo corpo agile e per quella
semplicità di linguaggio che lo rende facilmente comprensibile. Si fa quindi bere e
ribere con leggerezza, favorendo la giusta convivialità che deve animare la tavola di
chi ha scelto di mangiare la lasagna. Un po' per rispettare la tradizione del periodo di
Carnevale, un po' perché non vuole perdere un'occasione così golosa. Il Gragnano,
poi, è il primo vino della nuova andata, il nostro novello di cui si stava perdendo
traccia e che per fortuna adesso è recuperato con grande perizia dalle cantine
napoletane.
La lasagna napoletana può essere sicuramente incoronata come regina del Carnevale
in Campania. Piatto molto ricco che precedeva i quaranta giorni di magra della
Quaresima.
Tanta opulenza, dovuta all'utilizzo di ragù di carne, formaggio e uova sode, il tutto
vestito di sfoglie di pasta, ben si sposa ad una birra artigianale ben strutturata, ma che
abbia armi affilate per poter sgrassare il palato. Nel nostro abbinamento ci
indirizzeremo quindi verso un'ambrata o un'ambrata scura che utilizzi, quindi, malti
caramello, giustamente tostati - un'eccessiva tostatura potrebbe infatti fare a pugni
con ingredienti come il pomodoro - che le conferiranno sensazioni e struttura tali da
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reggere la ricchezza delle carni e del ragù. Ma non basta. La nostra birra, dicevamo,
dovrà avere anche la capacità di "ripulire" il palato, magari con una nota agrumata o
con una piacevole sensazione vegetale di luppolo. Ancora, non dovrà assolutamente
essere stucchevole. Quindi meglio prediligere un prodotto dall'amaro secco e deciso e
con una buona carbonatazione, dal momento che le bollicine aiutano la beverinità.
Per quanto riguarda l’alcol, sarebbe preferibile non eccedere, mantenendosi tra i 6 ei
7 gradi.
In Campania i birrifici, sempre attenti alle risorse e alle tradizioni del territorio,
prestano molta attenzione agli abbinamenti delle loro birre soprattutto, ma non solo,
in relazione ad una cucina locale. Nella 'gamma dei loro prodotti troviamo birre da
abbinare a pietanze di pesce, di carne, a formaggi o addirittura birre da fine pasto.
E per finire piccoli consigli taglia calorie per una scorpacciata light. Tentazioni
culinarie in arrivo. Carnevale culla del grasso: come restare in forma senza perdere il
piacere del gusto? Sembra davvero impossibile resistere a un buon piatto di lasagne
fumanti, a una manciata di chiacchiere fragranti inzuppate nel cioccolato, alle frittelle
o castagnole ricche di crema e zucchero a velo, a una fetta di dolce migliaccio.
Golosità ricche di calorie che a volte poi lasciano sensi di colpa e desideri sfrenati di
digiuno. Per evitare tutto ciò senza però rinunciare o piangere sul latte versato, basta
mettere in atto i consigli degli esperti e perché no lasciarsi andare in golosità e
tentazioni mangiando tutto, salvando gusto e piacere del palato. Si proprio così
mangiare non è peccato: l’importante è fare piccoli assaggi,dosi ridotte e alzarsi da
tavola con un pizzico di appetito ancora. Come travestire in maschera le pietanze con
piccoli accorgimenti, illudendosi di mangiare le stesse cose ma con molti meno
grassi? Ecco alcuni suggerimenti. Per iniziare: prima del pasto assumente una bella e
ricca insalata poi la lasagna alla napoletana con ragù, ricotta, polpettine fritte e uova
sode può essere rivisitata con sugo non soffritto senza carne grassa, ricotta magra,
polpette stufate nella salsa. Un’altra ricetta leggera è la lasagna verde, versione
vegetariana ai carciofi o con le verdure a seconda nel gusto, che sia zucca, asparagi,
funghi, zucchine. La procedura è semplice: stufare le verdure senza soffriggere, fare
una besciamella semplice con latte scremato, sostituire olio al burro e mescolare con
ricotta magra.
Dal salato si passa al dolce con alchimie di aromi e sapori. li migliaccio, tipica torta
napoletana per il martedì grasso fatto con semolino, latte, ricotta, uova, zucchero,
burro, può essere rivisitato utilizzando latte scremato e ricotta magra. Anche per i
dolci di carnevale esiste un modo per ridurre notevolmente quasi della metà l'apporto
calorico, semplicemente sostituendo la frittura con la cottura al forno. Iniziamo dalle
chiacchiere: c'è una versione senza uova e senza burro con solo poco olio, farina,
zucchero, lievito, scorza di arancia e limone, volendo anche un po' di marsala, cotte
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rigorosamente al forno, con la metà delle calorie rispetto alle chiacchiere fritte nella
sugna ricche di uova e burro. Ovviamente non si può perdere la tradizione delle
chiacchiere inzuppate nel sanguinaccio, ma in una versione riduci calorie: basta farlo
a casa utilizzando cioccolato fondente, che fa bruciare i grassi e fa bene all'umore.
Inoltre. secondo studi condotti la cioccolata fondente è ricca di flavonoidi che aiutano
a mantenere l'elasticità dei vasi sanguigni, contribuendo al normale flusso di sangue.
lasagna
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chiacchiere, i sapori del Carnevale a Napoli
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300.000 Fujentes festeggiano la Madonna dell'Arco
Per fare una sortita nel medioevo o ancora più indietro all’epoca della colonizzazione
della Magna Grecia non è necessaria alcuna mirabolante macchina del tempo, basta
recarsi il lunedì in Albis a Sant’Anastasia al santuario della Madonna dell’Arco ed
assistere al rito dei Fujentes, una tradizione che sfida i secoli, un rito collettivo tra
furore e superstizione, che sopravvive imperterrito alle sirene della modernizzazione.
A due passi dalle fabbriche di auto e di componenti aerospaziali per la Nasa, una
moltitudine di pellegrini di tutte le età provenienti da ogni angolo della Campania
accorre vestita di bianco, a piedi scalzi e sventolando variopinti stendardi tappezzati
di banconote.
Una imprevedibile umanità che vive fuori dalla logica e dalla storia celebra ogni anno
imperterrita un rito pasquale contaminato dalle antiche festività pagane, una
resurrezione di Cristo, che si coniuga con il rifiorire della natura e delle messi. Quasi
duecentomila persone si mettono in moto all’alba e corrono per ore fino a
raggiungere l’immagine della Madonna conservata nel celebre santuario, costruito
sulle fondamenta di un antico tempio pagano, per sfruttarne imperscrutabili linee di
forza, un segreto tenuto gelosamente celato dagli antichi costruttori.
Al canto di nenie mielose e ritmiche litanie, che ricordano la melopea fenice ed araba,
ingagliardite da uno squassante rullio di tamburi, i pellegrini arrivano alla meta
esausti, moltissimi in trance, alcuni strisciando con la lingua a terra, quindi, dopo
l’adorazione, cominciano con rinnovato vigore la via del ritorno, intervallando il
percorso con soste dedicate a vorticanti tarantelle ed estenuanti tammurriate.
Il rito è uno stupefacente fossile vivente di antichi culti praticati su lontane sponde di
quello che fu il Mare nostrum, dalla Grecia al nord Africa, fino alla lontana
Andalusia.
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Dall’alba al tramonto è una marea incontenibile di arcaiche energie sopite che
esplodono all’improvviso tra pianti, preghiere, implorazioni disperate e voci
assordanti, che rimembrano il richiamo del muezzin e le tradizionali grida dei
venditori ambulanti.
A questa folla dolente ed esaltata negli ultimi anni si sono affiancati migliaia di nuovi
arrivati: filippini, polacchi, latino americani e tantissimi rom, a tangibile
dimostrazione della capacità delle antiche tradizioni di calamitare sorprendentemente
sempre nuovi devoti.
Questi originali pellegrini chiedono spesso una grazia alla Madonna e sono prodighi
di ex voto, un fiume in piena conservato nella chiesa dal Cinquecento ad oggi. Spesso
si richiede la fertilità, come reclamavano le fanciulle sterili che si affollavano ai piedi
della dea Cibele o nei secoli successivi baciavano ardentemente il pesce di Nicolò,
ma negli ultimi anni, segno dei tempi mutati, si implora sempre più spesso di liberarsi
dal flagello della droga, una nuova esigenza testimoniata dalle numerose siringhe
d’argento appese in bacheca tra gli ex voto, come se un sottile filo volesse collegare
nell’immaginario popolare le austere Matres matutae, oggi visibili nel museo di
Capua alle coraggiose madri dolorose presenti nelle squallide periferie dove la vita è
lotta e molti vengono travolti.
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La città degli immigrati e della trasgressione
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tira fuori una boccetta. “Me ne accatto solo medicine. Devono passare un guaio tutti
quanti”. E la sfilza della maledizione non risparmia mare e monti. Si fa il solito
capannello marottiano. Certo non siamo al Pallonetto degli anni Cinquanta, ma in
questi vicoli Napoli resta eterna, dannata e redenta, contemporaneamente. Il
commercio prova a cambiare discorso. “La vedete quella chiesa?” Indica
un’inferriata, schiacciata da un piano fatiscente, con due finestre scassate e il tufo
sporco che esce dalla crosta scabbiosa. E’ Santa Maria dell’Arco al La vinaio. “La, ha
detto il prete, hanno battezzato Masaniello”. La signora Francesca non sa chi è
Masaniello, ma non lo risparmia: “Masaniello? Adda passà nu guaio pur’isso”. Il
capopolo non è stato fatto cristiano la’. La chiesa è settecentesca, ma dopo la
distruzione nel 1943, di Santa Caterina in Foro Magno, al Mercato, dove davvero il
rivoltoso del Seicento fu battezzato, ne ha raccolto il titolo. “Resta sempre la chiesa
di Masaniello” s’impunta il negoziante che finge di ignorare il raddoppio della
pensionata: “Adda passa’ o stesso nu guaio”.
I guai a via Sopramuro si vendono sfusi e a pacchetti. Un tempo c’è passata la Storia,
ora ci passa la Geografia. Ma qualcuno resiste, come l’antica selleria Vitale. Tra
questi vicoli insonni, un tempo cavalieri e cavallai venivano a rifornirsi di borse ed
accessori. Lavoravano la pelle come pochi. Adesso la memoria è affidata a Danilo
Esposito e famiglia. Ti aspetti che nell’antro odoroso di cuoio entri qualche cowboy.
Bisogna accontentarsi di due donne, neanche amazzoni, arabe, la mamma con il velo
e la ragazza, tendenza oversize, stretta in un jeans borchiato, capelli ossigenati e un
italiano fluente. Tratta lei. Ma per il resto, conoscere l’italiano serve a poco. Quasi
tutti i negozi sono gestiti da stranieri: quello di sciarpe e cappellini accanto alla
pizzeria ha un cartello scritto a mano con i caratteri indiani, il barbiere ha un’insegna
araba. C’è, però, una merceria e bigiotteria italiana: si chiama “Renzi”. E’ chiusa per
lo spacco. Davanti ci passa la pensionata dell’insulina. La tentazione è forte. Signora
Francesca, ma Renzi lo conoscete, vi piace? “Ma chi è? Quello nuovo? Si nun ce
aumenta ‘a pensione adda passà nu guaio pur’isso”. E’ il Lavinaio, maledizione.
Se ci portiamo in zona Forcella, da sempre regno del contrabbando i giovani sono alla
ricerca disperata di un lavoro, mentre la crisi ha colpito anche la camorra con un calo
vertiginoso degli affari illeciti al punto che alcuni ex pusher trovano più conveniente
vendere pane a domicilio.
Ce lo racconta Emanuele, 24 anni e uno scooter. Consegna pane a domicilio. E’ la
versione moderna del carrettino ambulante. La signora dal vecchio e intufato palazzo
di vico Scassacocchi acala (manda giù), il paniere (non è più di paglia, ma di plastica
gialla), lui infila pagnotte e panini e prende i soldi. Ha circa 150 clienti privati. “Ma il
grosso mi viene da ristoranti e supermercati” spiega. “Sono una ventina”. Racconta:
“Mi sveglio la mattina alle sei, vado dai fornitori, prendo il pane, lo metto nei sacchi
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e comincio i primi giri. Ho aperto una partita Iva e ora guadagno 2500 euro lordi al
mese”. Alla faccia del sasiccio. “Ho cominciato quattro anni fa, è un’impresa
avviata”. Be’, non siamo precipitati nel “Buddha delle periferie” di Hanif Kureishi,
ma, ormai, un’altra Napoli te la senti respirare addosso e non è solo l’alito impastato
di vino, a prima mattina, del barbone arabo che ti chiede l’elemosina in un dialetto
misterioso. Ora, c’è chi s’è dato una mossa e come ufficio ha soltanto uno scooter e
chi sbatte la testa dalla mattina alla sera per portare a casa, onestamente (sostiene) la
campata. Nel ventre eternamente gonfio della città, la tragedia è spruzzata di
commedia, come un acino di uva passa negli involtini al ragù. E la saggezza antica di
Eduardo che prova a disinnescare i petardi pulp di Quentin Tarantino. Se ti infili in
un cortile scopri un’umanità che ha tanta voglia di sfogarsi. “Cercate qualcuno?”.
Cerchiamo voi. E loro sono i vecchi e nuovi disoccupati.
Da queste parti, la cassa integrazione si chiama mamma e papà. “Quando non ci
saranno più i genitori a dare soldi ai figli sposati” spiega calmo Michele, 47 anni,
mosca bianca che ha un lavoro da dipendente pubblico (ma è qui che passeggia)
“quando sarà, imploderà tutto, imploderà proprio, si ammoscia tutto il sistema o sarà
la guerra civile. Diventeremo una favelas brasiliana. Io mi sento un privilegiato
perché, una pensione, ringraziando la Madonna, la vedrò”. Per tutto il resto c’è
Mamma Card. Prima si puntava su altre madri protettive e oppressive. Mater
Camorra. E nei discorsi che si rincorrono in questi edifici sgarrupati serpeggia la
nostalgia per il clan potenti. Pure loro starebbero pagando la crisi che lascia sempre
meno ossi da rodere. Meno affari, occorre riconvertirsi e ridurre i ranghi. Si salvi chi
può, magari faticando, come i mitici abitanti marottiani di vico Zuroli: sulle insegne
stradali è scritto vico dei (e non degli) Zuroli, pure la grammatica è indipendente a
Forcella. Non ci sono ladri e assassini qui, scriveva il cantore del’”Oro di Napoli”,
semmai i pezzenti lavorano. In mancanza di meglio.
In fondo ai gradini decrepiti del vico decine di bambini biondi, ragazzi scuri, uomini
chiari e donne brune tutti assiepati in pochi centimetri. In sottofondo, un flauto che
suona e mille panni stesi. Le case, o meglio le grotte, sono caotiche e degradate. Ogni
ingresso porta il nome (curioso per i rom) di una città diversa. Maria, 18 anni, sposata
da tre, occhi chiarissimi e lunghi capelli neri, è adagiata su un letto in una di queste
grotte. La si raggiunge solo dopo aver percorso il resto della tana. Appena entrati, il
primo odore è quello della candeggina, sparsa per lavare via l’olezzo. Quando ci si
addentra, però, l’odore di candeggina si trasforma in puzza di umido e chissà
cos’altro, all’altezza dei fili elettrici scoperti e pericolosi nell’atrio-cucinino-salotto.
Come si vive qui? “Mio marito ed io ci siamo trasferiti da poco, cambiamo casa ogni
tanto, C’è puzza e fa freddo, ma non fa niente. In questo posto abita tanta gente del
mio paese e ci riscaldiamo stando insieme”. Tra l’ex-regno dei Giuliano e via dei
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Tribunali, da decenni sono diminuiti i banchetti delle bionde di contrabbando, ora
tirano di più le brune, ma in carne e ossa, arabe e domenicane. I bassi affittati agli
stranieri sono da tempo un business collaudato. Antri, scarrafunere come quelli
dipinti dai versi di Salvatore Di Giacomo. Non c’è niente da sventrare e da inventare.
Buttate fuori le poco redditizie vecchiette dedite a estenuanti rosari, ora i bassi li
affittano alle prostitute e ai migranti. Pure qui, come a Porta Nolana, esercitano le
straniere. E pure qui le nordafricane sono le più richieste e le meglio pagate. Eppure,
di resti medievali se ne cadono questi vicoli dediti ai piaceri del kebab e della pizza
fritta al soffritto. A via Nicola dei Caserti ogni muro ne conserva una traccia. Sono
reliquie di un passato disprezzato perché ignorato. Come il proverbiale Cippo a
Forcella, a piazza Calenda, proprio davanti al Trianon. In tanti a Napoli, per indicare
qualcosa di antico o desueto sbottano con un “ma s’arricorda ‘o Cippo a Forcella”.
Chi se ne ricorda, però? Perché quel fosso circolare che conserva una scheggia delle
mura greche è immondezzaio ciclicamente svuotato e ciclicamente riempito.
Spuntoni come denti pieni di tartaro verde, muschio nutrito dal degrado. E
tutt’attorno lattine di aranciata, pacchetti vuoti di sigarette, bottiglie di birra, sedie
rotte, cartoni per pizze d’asporto, persino un casco da motociclista e un botto (un
cipolline) inesploso: sta la da Capodanno. Roba recente, a osservare il resto. Ci
resterà a lungo.
La mondezza sfusa e a mucchi è la nostra zella quotidiana, con cassonetti piazzati in
modo strategicamente deturpante. Ce ne sono tre o quattro proprio di fronte al Pio
monte della Misericordia che conserva le “Sette opere di Misericordia”, il più bel
Caravaggio del mondo, e sotto l’obelisco di San Gennaro. Ma più giù, non sono
sufficienti i due messi davanti a Santa Maria della Pace: ora è comunale ed è
diventata la chiesa degli Uniati, i cattolici ucraini di rito bizantino che ogni girono di
festa riempiono la navata come un uovo. Madonne bizantine e san Giuseppe Moscati.
Orari delle messe in cirillico e richieste di lavoro da badanti. Nella cupola ammuffita
svolazzano piccioni entrati dai finestroni rotti. All’esterno ci sono i due cassonetti
Asia, poco usati, perché il grosso lo buttano fuori, a far corona tutt’attorno. Sono
televisori rotti, lavandini, materassi.
Ci spostiamo di poco e da Piazza Bellini cumuli di bottiglie e spazzatura quasi
colmano le mura greche. Ancora pochi passi e siamo in piazza Cavour dove sventola
su un albero un materasso vecchio utilizzato dai barboni, mentre la fontana stracolma
di mondezza.
Un tuffo al cuore per me che la ricordo quando bambino frequentavo il Frobeliano,
linda e pinta e con alcune paparelle che nuotavano felici.
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E finalmente entriamo nella Sanità brulicante di pizzerie con la sua anima
aristocratica e plebea, con palazzi scenografici in stato di abbandono totale, ambulanti
africani ed una pletora di preti coraggio.
Di giorno non vedi i disperati che hanno abbandonato i loro giacigli notturno ma ne
cogli le orme, fatte di tracce puteolenti di urina mista a birra e se sei sensibile puoi
percepire il loro dolore per una vita indegna di essere vissuta.
Per tutti può valere la storia di Tamara 75 anni, ucraina: al suo paese era una
impiegata, oggi è un’impiagata, una misera barbona con cicatrici sul corpo e
nell’anima. Non torna a casa dove ha una figlia ingegnere, vuole soltanto chiudere la
sua esistenza al sole tiepido di Napoli.
Si entra nei vicoli turandosi il naso e si potrebbero visitare antiche testimonianze.
A Napoli per ritrovare la Storia, una torre aragonese o una traccia dell’ultima guerra,
devi farti spazio tra i garage. E’, comunque, uno schiaffo e una lezione per la cultura
antiquaria, derisa da Nietzsche. A Napoli si fa di tutto affinché i morti seppelliscano i
vivi, ma alla Sanità non ci riescono. La vita è più forte. Una forza che viene da
lontano, perché può risalire, persino, al III secolo avanti Cristo, alla città ellenista,
coperta da palazzi alti quattro piani. Sono gli Ipogei dei Togati, gestiti da Carlo
Leggieri di Celanapoli che ha una sua lapidaria ricetta: “Il futuro è la memoria”.
Salita dei Cinesi, nel tuorlo della Sanità, profuma di pellicole. Si sente l’odore di
Totò, di Sofia Loren, di Eduardo De Filippo, di Vittorio De Sica: di protagonisti del
grande schermo che hanno girato qui alcune delle scene più invidiate nel mondo.
Però c’è pure odore di mondezza, dato che il famoso palazzo da cui il Principe de
Curtis, con un coraggioso gesto di ribellione, lanciava la roba del guappo ne “L’Oro
di Napoli” è una discarica famosa come il film. Prima c’era legno. Ora si è aperto un
deposito di televisori. Non si vendono, si buttano solo.
Passa di li’ Nedo Novi, giovane film maker della Sanità. Vive in mezzo ai luoghi
delle scene tanto sognate. Ma di onirico, questi posti, hanno conservato il ricordo e il
colpo d’occhio di un quadro di lontananza. “Il progetto del parco è partito proprio per
l’importanza storico-cinema-tografica di questo posto, con la spinta anche di Sofia
Loren. Ci sono stati set importanti: “Ieri, Oggi e Domani”, “Sabato, Domenica e
Lunedì”, “L’Oro di Napoli”. Tutta la zona è permeata di cinema degli anni d’oro.
L’ultimo episodio risale alla fine degli anni ’90. Antonio Captano girò qui danese
Nunzio 14 anni a maggio con Bentivoglio”,. Un peccato che ci sia una discarica
qui…”Tutta la zona è abbandonata, queste sono pietre semplici. Vorrei creare un
percorso turistico-formativo e cinematografico che percorra la storia filmica della
Sanità: dai Vergini fino ad arrivare ai gradini Cinesi che sono un punto focale per i
lavori di De Sica, Totò, Mastroianni, Loren ed altri”. Tanto per fare una piccola
mappa delle pellicole nella Sanità: piazza San Vincenzo, per la scena del
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“pazzariello” di Toto’. Via Santa Maria Antesecula, set de “L’Oro di Napoli” e di
“Ieri, Oggi e Domani”. La casa di Sofia Loren, nel film, sta lì vicino, sulla salita dei
Cagnazzi, una terra di confine tra la Napoli collinare di Capodimonte e la Napoli del
popolo. Nella stessa pellicola, a Mastroianni, sotto sforzo per le performance sessuali
con Sofia Loren (moglie nel film), scappano di mano le arance sui gradini Cinesi.
Senza contare il palazzo di Carminiello, che nella scena in questione chiama a
raccolta il popolo e canta a squarciagola “Carminiello se ne va”. Speriamo che
dall’oro di Napoli se ne vadano pure i rifiuti.
Nel Purgatorio a livello strada ci trovi la solita sfilza di bassi, abitati da rom. M qui
funziona una sorta di divisione, una pacifica balcanizzazione degli spazi: i cingalesi
da una parte, i pakistani da un’altra. Scie di coriandoli e cardamomo. Più giù i
polacchi. Più su i romeni. E se butti un occhio dietro una porta di via Santa Maria
Antesecula, la sorella minore della primogenita di Forcella, dietro il cartello
“Ricariche Tim” e il cardellino in gabbia, come in una lirica vernacolare, vedi un
negozio. “Torno subito” c’è scritto. E’ tutto aperto e nessuno ne approfitta. Più giù
c’è un’altra pizzeria, famosissima, “Concettina ai tre santi”.
Inutile chiedere, sono sant’Alfonso, sant’Anna e san Vincenzo, ‘o Munacone. C’è un
via vai di abitanti della Sanità. “Ma vengono da tutta Napoli” commenta orgoglioso il
giovane gestore, Ciro Oliva, che segue le orme della nonna.
Mestieri scomparsi, mentre riaffiora una civiltà antichissima che otto metri sotto la
Sanità ha lasciato, secondo Leggieri, almeno 200 monumenti funebri, in parte
saccheggiati già al tempo del Viceregno, quando il rione cresceva e si moltiplicava.
E vogliamo concludere con un messaggio di speranza con le parole del nostro amico
Leggieri.
Un altorilievo che raffigura piedi e gambe di una coppia di nobili di età ellenistica. Al
loro fianco la sagoma di una pantera, sempre scolpita, che lega il luogo ai culti
dionisiaci. Siamo nel seminterrato di un palazzo della Sanità, in via Santa Maria
Antesaecula alla Sanità al numero 129. Un palazzo abitato, di 4 piani. Carlo Leggieri,
50 anni, dell’associazione culturale Cela Napoli, ci racconta i tesori storici sepolti, gli
ipogei segreti che lui cura e studia da 20 anni. “Potrebbero essercene almeno altri 200
di altorilievi di questo tipo, nei dintorni di piazza Cavour. La necropoli si estende
almeno per 1 km. Sono le tombe dei maggiorenti della città di Napoli”.
Chi veniva sepolto qui?
“Qui c’è il cimitero monumentale dell’antica Neapolis. Le tombe di coloro che
determinavano la politica della città nei millenni passati.
Risalgono ad un periodo databile tra la fine del IV secolo e l’inizio III secolo a.C.
Una necropoli precedente alle catacombe, che invece risalgono a secoli successivi
alla nascita di Cristo”.
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Poi cosa è successo?
“Le tombe sono state utilizzate per circa 5 secoli. Poi la città è stata interessata da una
serie di fenomeni alluvionali che sono penetrati nel sottosuolo per circa 10 metri.
Fino a dieci anni fa c’era un calzolaio. Il piano pavimentale copriva l’accesso a
questa scala. Il sito è stato riscoperto nelle verifiche sismiche in seguito al terremoto
dell’80. Ci si trova di tutto ora. Da una vecchia automobile della Walt Disney alle
bottiglie di Coca-Cola. Il nostro prossimo obiettivo è quello di rimuovere i materiali
alluvionati, infatti, potrebbero celarsi altre tombe. Ora siamo all’interno della camera
funeraria, a 8 metri e mezzo di profondità. Sotto ai nostri piedi, dovremmo trovare
sarcofagi lungo le pareti”.
Come mai in pochi conoscono l’ipogeo dei togati?
“E’ una realtà misconosciuta. Ai Vergini-Sanità ci sono 80 presenze monumentali. In
qualsiasi altro luogo al mondo questo sarebbe un sito culturale di eccellenza. Siti di
questo genere, in tutto il bacino del Mediterraneo, hanno solo due o tre confronti, in
ambiente micro-asiatico. E basta. Questo sito non ha niente a che vedere nemmeno
con la Napoli sotterranea”.
Quante persone riuscite a portare qui a scoprire questo tesoro?
“Duemila persone all’anno, mediamente. Poche. Specialmente studiosi stranieri e
qualche scolaresca”.
Sono state tante le spese negli anni?
“Se avessi la metà di quello che ho speso avrei messo qualche soldino da parte.
Orientativamente, direi che ho speso sui 50mila euro, ma non ho assolutamente scopo
di lucro”.
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una edicola a Forcella
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Tutti i volti della povertà a Napoli
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rappresentatività, ritengono che la mancanza di lavoro sia il secondo problema più
grave che affligge la città, preceduto soltanto dal «disinteresse per il bene comune».
Secondo il 54 per cento degli intervistati la crisi economica punisce gli anziani, ma
per il 43,9 per cento le vittime sono soprattutto le famiglie. «La povertà oggi colpisce
soprattutto i nuclei familiari. La crisi delle; reti parentali ha messo in difficoltà quello
che per anni era stato il primo ammortizzatore sociale. Le difficoltà in passato sono
spesso state superate grazie al cosiddetto welfare familiare. C'era l'anziano che si
occupava dei bambini, ma anche la famiglia intera che si occupava degli anziani. La
mancanza di politiche di sostegno ha mandato in frantumi questo modello».
E a farne le spese sono gli emarginati. Spiega Benedetta Ferone della Comunità di
Sant'Egidio: «Noi raggiungiamo quotidianamente ottocento persone. Fino a qualche
mese fa avvicinavamo soprattutto immigrati, anziani, barboni. Adesso le cose stanno
cambiando. Di notte distribuiamo i pasti in strada. Da qualche settimana viene a
chiederci un piatto caldo la moglie di un uomo finito agli arresti domiciliari. Poi c'è la
mamma di due bambini abbandonata dal marito. Ci sono i pensionati che non
arrivano a fine mese. Gente che fino a poco fa riusciva a sbarcare il lunario e che
adesso non ha nemmeno un piatto da mettere in tavola. Arriva di notte senza farsi
notare, vergognandosi di una povertà che solo ora comincia a conoscere».
Lo strumento principale per superare la crisi, secondo gli intervistati, è la lotta alla
camorra che impedisce lo sviluppo economico del territorio (34 per cento) seguito
dalla formazione dei giovani (29,8 per cento) ritenuta sempre più importante in un
mercato diventato spietato e dove la battaglia per accaparrarsi un lavoro è ormai
spiegata. «Lavoravo a nero in un supermercato - racconta Giuseppe - poi ho avuto un
incidente domestico e sono restato a casa per diverse settimane. Il mio posto è stato
preso da uno straniero. Da anni mi giro da un grande magazzino all'altro. Non mi
chiedono nemmeno quello che so fare, ma vogliono sapere solo che stipendio voglio.
Chiedo 500, 600 euro. Ma loro trovano sempre un filippino o un rumeno che si
accontenta di meno». Ancora a nero, ovviamente. E nella giungla creata dal lavoro
separato dai diritti si conta un numero crescente di rinunciatari. Salvatore ha ormai
deposto le armi: «Lavoravo in una macelleria - dice - sono stato licenziato. Mia
moglie mi ha lasciato e io ho deciso di vivere da solo, in strada, giorno per giorno.
Non ce la faccio più a combattere e a perdere sempre».
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Le storie dei nuovi poveri sono tante e tutte commuoventi.
«Due affitti da pagare, non mi resta che venire qui»
Marco ha 44 anni e due figli. Da quando si è separato dalla moglie vive in un centro
di accoglienza e frequenta le mense delle parrocchie. Eppure un tempo aveva un buon
lavoro da tecnico specializzato, una vita normale. Jeans e giubbino scuri, anfibi e
sciarpa al collo non assomiglia neanche lontanamente a un barbone. Eppure. «Eppure
della mia vita di un tempo non è rimasto niente. Tutto distrutto, spazzato via in pochi
mesi. Lavoravo al montaggio di impianti termotecnici. Poi sono stato licenziato e
adesso vado avanti con contratti e contrattini. Tutti a termine, naturalmente. A volte
riesco a mettere insieme tre o quattro mesi di stipendio all'anno, quando va male
anche meno». Troppo poco per pagare due affitti. «Quando posso racconta - verso a
mia moglie gli alimenti che le debbo per Maria Pia che ha quindici anni e studia al
liceo linguistico. Il ragazzo più grande, invece, ha venti anni e sta cercando di entrare
in Aeronautica. Loro vanno avanti tra quello che posso dare io, quello che mette
insieme la mia ex e l'aiuto che arriva dalla sua famiglia. In qualche modo riescono a
sopravvivere e spero che i ragazzi possano anche sistemarsi. lo mi arrangio come
posso, tiro avanti alla meno peggio, vivo alla giornata. Quando lavoro va meglio, ma
le occasioni sono sempre più rare». Fortunatamente per lui, come per tutti gli altri, ci
sono le mense luna trentina) e i dormitori (una ventina) organizzati dalle associazioni
di volontariato. La comunità di Sant'Egidio ha realizzato «Dove» una guida con
l'elenco dei posti dove rifugiarsi, ma anche quell'elenco rischia di essere decimato: i,
fondi scarseggiano per tutti. «Fortunatamente c'è il «binario della solidarietà» che
offre vestiti, docce, e laboratori che ci permettono di sopravvivere e anche di
guadagnare qualcosa - spiega Marco - In strada c'è chi ruba, chi si prostituisce e chi,
come me, si arrangia».
«In libreria dopo pranzo, così leggo senza spendere»
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Lo incontro alla mensa della parrocchia, ma per raccontarmi la sua storia mi dà
appuntamento alla libreria Feltrinelli dove lui passa i pomeriggi per leggere
tranquillo. Antonio ha poco più di sessanta anni, per anni ha lavorato come perito di
una compagnia assicurativa, poi la malattia e la crisi lo hanno spinto nel mondo di chi
non riesce ad arrivare a fine mese. «Un tempo arrivavo a casa della gente con il
libretto degli assegni - racconta - e consegnavo anche rimborsi milionari. Vivevo nel
centro storico e mio figlio frequentava una scuola privata». Poi nel 2004 è stato
colpito da un ictus e trenta anni di servizio non sono bastati ad assicurargli una
pensione decente «La compagnia per la quale lavoravo aveva dichiarato bancarotta
per due volte e quindi io mi sono trovato a ricominciare sempre daccapo». Risultato:
una pensione da seicento euro. «Di affitto ne pagavo mille e due. Così mi sono
trovato a non potermi permettere più l'appartamento dove abitavo. A quel punto,
persa la casa, la mia famiglia si è sfasciata. Mia moglie e mio figlio, che all' epoca
studiava al liceo scientifico, sono andati a vivere da mia suocera in Calabria. lo sono
rimasto a Napoli e sono diventato ospite fisso di mio cugino. Poi il ragazzo si è
diplomato e ho sperato che le cose si aggiustassero, ma non è ancora riuscito a
trovare un lavoro nonostante i suoi sforzi e i nostri tentativi di trovare qualcuno che lo
raccomandasse». La vita di Antonio si è stabilizzata in un tran tran desolato. «Per non
pesare sui miei parenti vado alla mensa parrocchiale. Ma là si mangia , male, mai una
fettina di carne, mai un piatto cucinato come si deve», spiega. i pomeriggi, invece, li
passa quasi tutti in libreria «La lettura è sempre stata una mia passione». Ogni tanto
arriva la moglie a fargli visita. O gli telefona il figlio sul telefonino al quale non ha
mai rinunciato: «Ieri mi ha chiamato e mi ha detto: se non ci mandi dei soldi siamo
costretti a staccare la spina del frigorifero. Ma io non sono più in grado di aiutare
nessuno, nemmeno me stesso».
Vorrei chiudere con un’esperienza personale risalente al 1998. Ogni anno con mia
moglie Elvira organizzavamo un torneo di poker a cui partecipavano 54 amici che si
svolgeva nel corso di un week-end, con un monte premi di circa 10 milioni tra quote
di iscrizione e rientri. Essendo i partecipanti tutti facoltosi, stabilii di sostituire i
premi in denaro con delle semplici coppe per destinare l’incasso in beneficenza. Tra
gli enti il primo anno scelsi il Don Orione, l’istituto dei ciechi e le suore di Madre
Teresa di Calcutta, dove mi recai personalmente, facendo la fila assieme ai disperati
che volevano consumare un pasto, i quali, vedendo un volto nuovo, cercarono di
cacciarmi. Arrivato al cospetto della Madre Superiora: una teutonica di bell’aspetto, a
differenza delle consorelle, tutte poco piacevoli e provenienti dal terzo mondo, versai
il denaro in contanti sulla sua scrivania e chiesi una ricevuta. «Perché offri questi
soldi?», . «Perché ne ho troppi», . «Ed a cosa serve la ricevuta?», «Semplicemente
per mostrarla ai miei amici, che generosamente hanno contribuito».
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Ingiurie bonarie: Babbasoni, Scualarci e Curnutoni
Queste benevoli ingiurie sono declinate al maschile a cominciare dal titolo, che
richiama un ciccione con le mani appoggiate sui fianchi che fa venire in mente,
appunto, la carta napoletana in questione. Se il vostro peggior nemico invece vi da
l’idea di un individuo deforme, rachitico e brutto, potete chiamarlo «squaquecchio»
o «scunciglio» o «scatobbio». Se prevalere è la bruttezza, l’espressione più adatta è:
«sibrutto comme ‘a fammma e notte», mentre se abbiamo a che fare con un tipo
insignificante, allora «cazzillo» e «cazzetiello» sono perfetti. Più ricercata è la parola
«scicchignacco», spesso usata nel modo di dire, ancora più ricercato «scicchignacco
int’ ‘a butteglia», immortalata nella canzone di Raffaele Viviani «A rumba d’ ‘e
scugnizzi». Lo «schicchignacco» deriva dalla fusione di due parole, «cicco», che
significa maiale e «gnacca», che significa macchia, sgorbio.
In fin dei conti però, quando si vuole inquadrare in una battuta qualcuno che ci è
davvero antipatico e, ai nostri occhi, non può che risultare brutto e stupido, non
possiamo che dirgli «si io caccio ‘o culo e tu ‘a faccia, ci pigliano pe’ gemelli».
Anche per gli uomini bassini la vita a Napoli riserva un bel po’ di offese. Si possono
chiamare «scazzuoppoli», ma soprattutto si possono prendere in giro con un bel
numero di detti. Dopo aver urlato contro costui «Sì accussi curto ca…» si può
concludere con tre varianti: «ca può scupà allert sott ‘o lietto’», «ca quanno te faie
‘a doccia, l’acqua ‘n capo t’arriva fredda», «ca te faie ‘o bagno ‘int ‘o bidè».
Nell’ambito dei difetti fisici, però il napoletano si sbizzarrisce con i grassi
(babbasoni, pachialoni, vuttazzielli) e con i magri (spellacchione, spilapippa,
struncone, scaluorcio). Altra categoria messa sempre in croce a Napoli è quella dei
cornuti. Se uno di questi si sta aggiustando i capelli davanti a noi, possiamo dirli con
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estrema eleganza e una dolce punta di ironia: «allustrate ‘o cornicione», ma se
proprio vogliamo rimanere nel vago e non infierire, ci resta sempre la possibilità di:
«tiene nù bell’ cappiell’ d’uosso».
«Curto e male ‘ncavato» è il peggiore dei complimenti che possa essere rivolto a un
napoletano, il quale, oltre che di bassa statura è mal sagomato.
«Scicchignacco ‘ncopp ‘a votta» oltre alla bassa statura il nostro interlocutore è
anche goffo. «Figli ‘e ‘ntrocchia», un complimento vero, un omaggio alla scaltrezza.
«Giorgio Cutugno» si dice di personaggio che assume atteggiamenti da guappo.
«Ommo ‘e ciappa» dicasi di uomo di vaglia e ritegno, in contrasto con l’opinione di
Zazzera, che la ciappa non sia l’abbottonatura della toga, ma più volgarmente ‘a
vrachetta.
«Fessarie e cafè» dicasi di persone che affermano cose di nessuna importanza.
«Cu ‘na man annante e una areto» di persone che debbono togliersi di scena
sconfitti.
«E pizziche ‘ncoppa ‘a panza» persona che è costretta a rassegnarsi.
«Palla corta» di persona che non ha raggiunto il suo obiettivo.
«Tene a capa pe’ spartere ‘e recchie» uno stupido privo d’intelligenza.
«’O gallo ‘ncoppa a munnezza» il presuntuoso che si da troppe arie.
«Sfruculià ‘a mozzarella ‘e San Giuseppe», «Sfruculià ‘o pasticci otto» locuzioni
entrambi da riferirsi ad un provocatore.
Potremo continuare a lungo a dimostrazione che il napoletano non è un dialetto, ma
una vera lingua dalle peculiarità linguistiche e dal ricco vocabolario. Il vernacolo è
ricco di locuzioni derivate dalla saggezza popolare, che costituiscono l’espressione
più pregnante della napoletanità.
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Una vendita all’asta memorabile
Martirio di Sant'Orsola
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sopra citato, anche di un Van Dyck e di una favolosa serie di sette arazzi appartenuta
al Re Sole, anch’essa acquistata da Lauro.
Non era certo il valore venale dell'opera, né tanto meno i suoi notevoli pregi artistici,
ad attirare Lauro, bensì una circostanza fortuita che poteva costargli la vita.
La tela in questione era gelosamente conservata a capo del letto matrimoniale, un po'
per devozione e un po' (non si sa mai) per protezione...
Erano gli anni della felicità coniugale e Lauro cercava ogni sera, anche se a tarda ora,
dopo una giornata di lavoro intensissima, di ritornare al fianco dell'amata mogliettina.
Una sera, non potendo rincasare per improcrastinabili impegni nella capitale, volle
farsi raggiungere da Angelina in albergo. Non capitava quasi mai, ma in quella
occasione fu irremovibile e diede precise istruzioni al suo fidato autista.
La notte, alle 3 in punto, un tonfo pauroso nella camera da letto della villa di via
Crispi fece sobbalzare la servitù, che di corsa si recò a vedere cosa fosse accaduto. Il
chiodo che reggeva il celebre quadro aveva ceduto di schianto sotto il peso di
un'imponente cornice di varie decine di chili e la Madonnina, tanto osannata, col suo
Bambinello e San Francesco, era caduta sul cuscino di Achille, che sarebbe rimasto
ucciso sul colpo.
La devozione di Lauro verso la sacra immagine da quel giorno crebbe a dismisura,
quasi a generare una sindrome di Stendhal e con lo sguardo verso di essa, implorante,
egli, un giorno lontano, avrebbe esalato l'ultimo respiro, sicuro che la protezione della
preziosa Madonna sarebbe proseguita anche nell'altro mondo, nel quale, come tutti
noi, aveva una gran paura ad entrare.
Per inciso, il dipinto, notificato dallo Stato ed identificato in seguito dagli studiosi
come opera di Rutilio Manetti, prestigioso pittore del Seicento senese, ha seguito il
triste destino di tutti i beni materiali di don Achille: disperso nella memorabile asta
del 1984.
Oggi troneggia in un esclusivo salotto posillipino, molto ammirato ma privo di
devozione, proprietà di un disincantato e miscredente professionista napoletano, dai
gusti artistici raffinati. E passiamo a trattare ora del capitolo più vergognoso del dopo
Lauro, costituito dalla vendita all’asta dei suoi beni materiali, svoltasi nella famosa
villa di Via Crispi. La grande vendita, la più importante realizzata a Napoli negli
ultimi cinquant'anni, fu organizzata dalla Finarte e dalla Semenzato (FI.SE) che si
consorziarono per amministrare il grande incanto.
Quattro sedute (25-26 ottobre 1984), due pomeriggi e due serate furono necessari per
battere i quasi mille lotti (962) e la vendita fu preceduta da cinque giorni di libero
accesso alla villa per potere esaminare la merce...
Non sembrò vero alla scalcinata borghesia napoletana ed all'aristocrazia decaduta,
che lo avevano sempre osteggiato anatemizzandolo e che da Lauro erano state sempre
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tenute alla larga, potere invadere, novelli sciacalli, vociando il sacro tempio, salire gli
scaloni della sua casa, entrare con protervia in ogni angolo, intrufolarsi nelle camere
da letto, provare gli effetti intimi del Comandante, anch'essi vergognosamente messi
in vendita e descritti sul catalogo (lotti 480-481), dal vecchio frac alla camicia da
notte di donna Angelina. E tutti ridevano, schiamazzavano, ricordavano
motteggiando episodi della vita del padrone di casa, deridendone i difetti ed
oscurandone le virtù, un epicedio in piena regola perpetrato nel disprezzo più
assoluto.
Accanto a chi credeva di fare un buon affare, collezionista o antiquario che fosse,
sedeva un pubblico ansioso unicamente di assistere in diretta al massacro di un mito.
Gli astanti, quasi mille persone, erano assiepati nei tre piani della villa collegati tra
loro da giganteschi schermi, dove il principe dei battitori, Marco Semenzato, con
glaciale professionalità, assegnava velocemente i lotti, al suono implacabile e ritmico
di un martelletto. Non vi era tempo per riflettere, le offerte si susseguivano con ritmo
vertiginoso, era per molti un nuovo gioco, mai praticato prima, ben più emozionante
di una rischiosa mano di poker.
Molti erano alla ricerca di un feticcio da poter portare a casa, un oggetto, anche di
scarso valore venale, che fosse però appartenuto all'illustre personaggio. Fu perciò
grande la delusione quando il secondo lotto, un modestissimo bacile da pediluvio,
pomposamente descritto: ovale in rame buccellato con piedi a zampa ferina del XIX
sec., partente da una stima di appena diecimila lire, raggiunse in un battibaleno un
milione e centomila lire e venne aggiudicato tra le proteste di alcuni che intendevano
insistere facendo offerte ancora più sostanziose.
Oltre a centinaia di pezzi di scarso valore, oggetti di uso quotidiano o di arredo delle
camere secondarie,vi erano straordinari pezzi di antiquariato come un Olindo e
Sofronia di Mattia Preti, esitato per duecento milioni o un procace busto marmoreo,
opera di Francesco Jerace, una Victa dal seno prorompente e dall'algida e provocante
bellezza, e la Sacra Famiglia, notificata dallo Stato, proveniente dalla collezione
Doria-D'Angri, alla quale abbiamo prima accennato.
Gioiello assoluto della vendita era la serie indivisibile dei sei splendidi arazzi prodotti
a Beauvais nel 1692 rappresentanti episodi della vita di Luigi XIV, il Re Sole.
Una fortunosa circostanza volle che ad acquistare questo lotto fosse un famoso
nefrologo napoletano, desideroso che la sua, la nostra Città, non venisse orbata di una
così cospicua gemma da essere invidiata da tanti musei (purtroppo, nel 1998, questo
prestigioso lotto è stato posto di nuovo all'incanto a Venezia dalla casa d'aste
Semenzato ed aggiudicato ad un ignoto acquirente, dall'accento settentrionale, per la
cifra di tre miliardi e mezzo).
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Viceversa, traslocò al nord, in casa di un industriale brianzolo, il biliardo sul quale
aveva giocato l'ammiraglio Nelson e nella villa romana di un noto attore lo
spettacolare secrétaire impiallacciato in piuma di mogano, aggiudicato per sessantasei
milioni.
Pur di potere offrire il the alle amiche nei saloni della sua villa posillipina, nel noto
servizio di porcellana dipinta a mano, arricchito dalla descrizione di una complessa
storia mitologica sulle tazze e sui piattini, non badò a spese la leggiadra moglie di un
famoso ginecologo.
In poche ore un secolo di vita e di rimembranze si dispersero vorticosamente,
lasciando la villa, un giorno piena di vita e pulsante di febbrili attività, in un vuoto ed
un silenzio spettrale.
Si ricavarono circa due miliardi, ma il sacrificio ed il massacro di tanti ricordi servì a
ben poco, una goccia nel mare magnum del fallimento di un colossale impero, la cui
distruzione pesa come un macigno sulla coscienza di molti e costituì senza ombra di
dubbio il vero motivo della seconda morte di Achille Lauro.
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Napoli, Via Crispi: villa Lauro sequestrata
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Tradizioni culinarie pasquali: pastiera e casatiello
di Marina della Ragione
La pastiera è una torta di pasta frolla farcita con un impasto a base di ricotta,
zucchero, uova, grano bollito nel latte e aromi che, stando alla ricetta classica, sono:
cannella, canditi e scorze d'arancia.
Le massaie napoletane la preparano solitamente il giovedì santo (quando per cena si
mangia la zuppa di cozze) o il giorno seguente, anche se è possibile acquistarla in
tutte le pasticcerie della città.
La Pastiera e Partenope - C'è una leggenda che lega la pastiera alla sirena più famosa
di Napoli. Il dolce proviene infatti dalle usanze pagane e dalle offerte votive della
primavera. Probabilmente la leggenda è legata al culto di Cerere, divinità materna
della terra e della fertilità, le cui sacerdotesse usavano portare un uovo in processione.
L'uovo è infatti, nell'allegoria classica, simbolo di rinascita, poi ereditato dalla
tradizione cristiana. E proprio nei conventi dei vari ordini cristiani, come avvenne per
la "Santa Rosa" nel convento di Furore, la ricetta fu perfezionata giungendo a noi così
come la conosciamo oggi. Particolarmente famosa divenne la pastiera delle suore del
convento di San Gregorio Armeno. Tornando al legame tra la pastiera e la sirena, la
leggenda vuole che gli abitanti della città decisero un bel giorno di ringraziare la
sirena dopo aver ascoltato uno dei suoi dolci e melodiosi canti. Per ringraziarla, sette
belle fanciulle furono incaricate di consegnarle doni della natura: farina, ricotta, uova,
grano, acqua di fiori d'arancio, spezie e zucchero. La sirena consegnò le offerte agli
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dei che, rimescolando "divinamente" gli ingredienti, li restituirono sotto forma di
pastiera. E come per il Casatiello anche la pastiera trova menzione ne La Gatta
Cenerentola di Giambattista Basile, una delle fiabe del Pentamerone.
La ricetta del casatiello è leggermente differente da quella del suo gemello
eterozigote, l’altrettanto noto tortano, in quanto quest’ultimoviene consumato
regolarmente durante tutto l’anno. Simbolo della Pasqua, invece, il casatiello si
ripresenta esclusivamente nella festa dedicata alla resurrezione. Com’è evidente, la
data di questa celebrazione cambia ogni anno, ma la sua tradizione culinaria, ben
radicata nella nostra società, resta sempre la stessa!
Vi è anche una terza ricetta, quella del casatiello vesuviano, leggermente diversa dal
casatiello napoletano di cui sopra parlavamo.
In realtà, casatiello e tortano si distinguono per un’ulteriore caratteristica: l’uso delle
uova. Nel casatiello le uova vengono inserite con l’intero guscio a metà tra l’impasto
e l’esterno; nel tortano esse, invece, dopo essere state rassodate e sgusciate, sono
disposte totalmente all’interno dell’impasto.
Ma perché queste diverse disposizioni? In particolare la forma del casatiello (e
dunque anche le modalità d’inserimento delle uova), in questo modo, ne spiega bene
il consumo prettamente pasquale: esso è simbolo della corona di spine alla quale fu
costretto Gesù; in più le uova sono ricoperte da una croce di pasta, proprio a ricordare
il martirio da Lui subito. Per essere più precisi, l’uovo in sé simboleggia proprio la
resurrezione di Cristo, che rinasce così come il pulcino allo schiudersi del guscio.
E non solo, ma anche altri componenti hanno un legame particolare con il sacro
cristiano ed il profano pagano: ad esempio, il pecorino si ottiene con il latte di pecora,
di cui si nutre il piccolo di pecora, ovvero l’ agnello, e l’agnello, prima di essere
simbolo della carne del Salvatore, era sacrificato agli dei per i loro rituali pagani.
Questa torta salata prende il nome in prestito dal termine dialettale “formaggio”; tra
gli altri, uno degli ingredienti principali di tale prelibatezza. Un rustico antichissimo
che si nasconde anche tra le righe di celebri racconti quale “La Gatta Cenerentola” di
Giambattista Basile del XVII secolo.
Del casatiello esistono numerose altre varianti non salate, bensì dolci, una
particolarmente degna di nota è quella tipica dell’isola di Procida, attorno alla quale
ruota un mistero: il mistero degli ingredienti. Ogni famiglia, infatti, possiede una
ricetta antica e tradizionale che si tramanda di padre in figlio e non viene rivelata né a
parenti né ad amici.
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Il dramma delle due guerre
Se gli orrori della Seconda guerra mondiale hanno avuto straordinari narratori italiani
e spesso Napoli, con Malaparte e Lewis, è stata al centro di questi scritti, a detta della
critica il primo conflitto bellico del ’15-’18 non ha mai avuto una degna declinazione
narrativa. Forse però bisogna ricredersi, e anche in questo caso Napoli gioca il suo
ruolo. Basta leggere, in una preziosa edizione appena arrivata in libreria, La paura e
altri racconti della Grande guerra di Federico De Roberto, noto finora soprattutto per
il suo romanzo I vicerè – finora perché da oggi in poi non si potrà non tenere conto di
questi suoi testi quando si parlerà degli orrori della Prima guerra mondiale, e in
generale di tutte le guerre.
De Roberto nacque a Napoli nel 1861, quando da pochissimo si era compiuta l’Unità,
e nella sua infanzia ascoltò gli insegnamenti di un padre che di mestiere faceva
proprio il soldato, ufficiale di stato maggiore agli ordini di Francesco II. Dunque ebbe
modo di crescere nutrendosi delle aspirazioni dei popoli a sentirsi nuovi protagonisti
di un nuovo Stato, ma anche ascoltando i racconti militari di un padre che proprio
delle esperienze di guerre napoletane aveva fatto il suo mondo da tramandare al
figlio. Il sapore di questa infanzia napoletana con sottofondo di fanfare militari si
ravvisa spesso in questa raccolta, il cui tema principale fu affrontato dall’autore per la
prima volta in diverse pubblicazioni stampate nel 1919 dall’editore napoletano
Treves. Non a caso, anche qui, ci troviamo in presenza di un “libraio napoletano”,
che durante la guerra riesce a rifornire di libri il Capitano Tancredi; si ravvisa spesso
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anche la figura di un moderno Pulcinella dietro il comportamento di alcuni soldati
raccontati tra il serio e il faceto; capita che gli spaghetti siano una trappola per
prigionieri. Di questi racconti, il più amaro è Il rifugio, storia di un disertore e della
sua fucilazione raccontata da un ufficiale ospitato per caso proprio dai genitori del
soldato fucilato; il più toccante è La paura, dove l’orrore della guerra contagia anche
la natura, a sua volta percepita come un elemento mostruoso. Lo stile è secco e
diretto, ma si avverte un sottofondo tragicomico, a tratti grottesco, che ha il merito di
anticipare l’unica rappresentazione artisticamente valida della Grande guerra,
l’omonimo film di Monicelli.
De Roberto racconta la quotidianità squallida e deprimente dei commilitoni e il loro
sacrificio, mandati al macello da condottieri ottusi e impreparati. Questi chiamano
uno ad uno i loro soldati e ordinano di lanciarsi all’attacco mandandoli incontro a
morte certa. Prima di obbedire, ognuno si esprime nel proprio dialetto, ancora
incapaci di comprendersi a vicenda. In questa raccolta di scritti siamo in presenza di
un grande affresco sulla bestialità della guerra: dove “la natura aspra e crudele,
impervia e tenebrosa del paesaggio- fa sfondo a inutili eroismi e patetiche diserzioni,
e l’uso virtuosistico dei diversi dialetti, oltre a confermare l’attitudine plurilinguistica
della scrittura derobertiana, testimonia di una unità nazionale irrealizzata”.
E se la “Grande guerra” fu vissuta da lontano, salvo qualche sporadica apparizione di
minacciosi dirigibili, attraverso il pianto disperato per i tanti napoletani caduti al
fronte, la seconda guerra mondiale vide la popolazione protagonista e la città
martellata da oltre 100 bombardamenti.
Cannoni puntati sulle case alle falde del Vesuvio. E dietro il vulcano che erutta fumo,
in gara inconsapevole con i carri armati della Quinta Armata statunitense in marcia
tra pietre di lava e macerie sul colle dei Camaldoli. E’ l’avanzata degli Alleati, una
guerra di liberazione che si allungherà in calvario per i liberati. E’ l’immagine,
inedita e muta, scelta come copertina e contraltare delle Voci dalla guerra, raccolte a
Torre del Greco. Un libro, cento testimonianze, il racconto corale di una città negli
anni 1940-1945.
“Ma sai che per i nostri ragazzi Mussolini è lontano come Giulio Cesare?”. E’ iniziata
così. Chiacchiere di quattro professoresse in pensione: Lina De Luca, Lucia Forlano,
Anna Maria Galdi, Anna Maria Incaldi. Confidenze. Ricordi. Agendine paterne
frugate nei cassetti. Documenti rispolverati all’archivio storico del Comune. E la
scoperta di un sentimento condiviso: il rammarico per la memoria perduta nei figli e
negli alunni, inconsapevoli come quel Vesuvio con lo sbuffo. Così la deformazione
professionale diventa avventura: riproviamoci noi, a insegnar loro cos’è successo nel
luogo in cui vivono. Settant’anni fa. “Primo ottobre 1943: percorrendo via Nazionale,
gli americani entrano in Torre del Greco”. E’ l’appunto olografo sull’agenda di
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Domenico Forlano. E’ uno spartiacque. Fasullo. Il prima e il dopo accomunati dai
lutti e le privazioni della guerra. Perché, come spiega Flavio Russo nell’efficace
ricostruzione dell’”operazione Avanlanche”, che fa da prefazione al volume, tra lo
sbarco degli Alleati a Salerno e l’agguerrita resistenza della X Armata germanica,
“per le popolazioni dei tanti abitati che si vennero a trovare sulla direttrice
dell’avanzata fu l’inizio del martirio, alla mercè del vecchio alleato disperato quanto
feroce e senza alcun aiuto da parte del nuovo, diffidente quanto guardingo”.
La gente di Torre lotta e muore. Nelle Vocidallaguerra, le storie di chi ce l’ha fatta e
chi no. Ma non è una spoon river in salsa vesuviana, questo libro pubblicato dalle
Edizioni Scientifiche e Artistiche per volontà dell’Associazione culturale Arcobaleno
con il contributo del Comune di Torre del Greco e della Banca di Credito Popolare.
E’, semplicemente, “la nostra città che si racconta”, secondo l’orgoglio pudico delle
autrici.
“Chi ha perso ‘na creatura?”. Teresa è nata nell’estate del ’43. In un ricovero. Lo
stesso in cui la madre corre, con lei neonata infagottata in braccio. E’ un attimo, la
“mappata” si apre. Teresa non c’è più. La madre lo scopre nel rifugio, Con orrore. E
subito con sollievo, quando ascolta il tam tam delle voci che arrivano dalla strada.
Qualcuno ha salvato Teresa. E tutta Torre fa coro per restituire la bambina alla
madre. “Chi ha perso ‘na creatura?”. Perse per sempre, invece, le piccole orfane di
Santa Geltrude sepolte sotto le bombe del 13 settembre. E qui il racconto, tratto
dall’archivio tornese, si fa raccapricciante. I cadaveri dilaniati e smembrati vengono
raccolti alla rinfusa dai vigili. Non c’è tempo per la pietà. Neppure per la precisione.
Nove mesi dopo, una lettera della madre superiora lamenta che dalle macerie “esala
un lezzo di carne in putrefazione”. I vigili tornano, scavano, dopo un tempo lungo
quanto una gravidanza si potrà dare sepoltura anche alle orfanelle uccise due volte
dalle bombe e dall’oblio.
E’ un mondo spietato quello narrato nelle Voci dalla guerra. Ma anche no. C’è spazio
per la solidarietà. La gentilezza. La poesia, pure. Ad esempio quella dei versi con cui
Salvatore Argenziano rievoca “un momento di misticismo”. Accade giù al porto,
“abbasciammare”, sotto gli occhi stupiti dei torresi. Indiani con i turbanti scendono
dalla jeep, in corteo portano sugli scogli la salma di un compagno avvolta in un
sudario. Le danno fuoco. Nenie sommesse intorno alle fiamme. “Sotto la ferrovia la
folla tace, come in un anfiteatro, in attesa di un insolito spettacolo”. E’ un funerale
d’altre latitudini. I torresi capiscono. E partecipano. Il rito è un vassoio che gira con
del cibo. “In tanti spettatori dagli scogli si avvicinano per partecipare alla inattesa
esotica mensa”.
Torre del Greco non dimentica le sue “voci dalla guerra”. Anzi, le moltiplica. E’
l’effetto cascata dei ricordi. E’ la contagiosa e salvifica voglia di testimoniare, perché,
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come scrivono le autrici prendendo a prestito Kabil Gibran, “il ricordo è un modo
d’incontrarsi, a Yotte. Ogni volta che il libro viene presentato, in un circolo, una sala
parrocchiale o una scuola – saltano fuori altre storie, altri ricordi, altri documenti,
altre persone che sanno. E che vogliono raccogliere il monito di De Luca, Forlano,
Galdi e Incaldi: pronunciare ai ragazzi d’oggi “parole che ritornano a parlare”.
La fotografia di Robert Capa coincide con l’immaginario di guerra del Novecento.
Eppure, rispetto al già noto e universalmente riconosciuto, l’archivio Capa di New
York raccoglie e conserva una serie di immagini circolate molto meno, almeno poco
viste, che possono raccontare diversamente o moltiplicare i punti di vista. Alcune di
queste riguardano l’Italia del 1943-44, appartengono all’Italia Meridionale, a Napoli
e Palermo, raccontano di un territorio per lo più contadino e di una popolazione
sofferente, dell’incontro con le truppe alleate, di una vita quotidiana durissima e di
città massacrate dalle bombe. L’occhio di Capa accompagna le truppe alleate, da
Monreale a Troina, fino a Cassino, segue pedinando i combattimenti sul Valico di
Chiunzi, fotografa gli appostamenti degli alleati e i prigionieri tedeschi, racconta
l’incontro con un’Italia essenzialmente povera e contadina e la trasformazione degli
spazi dettate dalle esigenze della guerra.
C’è una sequenza bella che potrebbe evocare le staged photograpy contemporanea:
mostra una chiesa di Maiori trasformata in ospedale per i feriti, una sagrestia che
assume le sembianze di una sala operatoria, dove con luci, lettini e strutture di
emergenza l’intervento è ancora in corso. Insieme c’è lo scontro e il possibile
incontro, i soldati americani accolti festosamente per le strade di Monreale e la fuga
dai luoghi dove impazza il combattimento nelle campagne che circondano
Montecassino, i cingolati alleati che si incrociano con gli asinelli dei contadini
meridionali. Naturalmente Napoli, con una sua parte importante, nel quotidiano di
ristrettezze e povertà. Tradotto essenzialmente da donne, anziani e bambini in fila per
l’acqua con le bocce di vetro in spalla in una foto che ricorda gli scatti della Farm
Security Administration durante la grande depressione americana. O ancora con la
posta centrale ridotta ad una montagna immensa di macerie. Distrutta da una bomba
ad orologeria lasciata dai tedeschi ad un esercito di americani a spostare pietra su
pietra. Al fianco di una scena tragica e famosa anche grazie alle fotografie di Capa e
pubblicata da “Life” l’8 settembre del ’43, con la disperazione e la pietà delle madri
al funerale dei ragazzi vittime dei combattimenti delle Quattro Giornate di Napoli.
Nel suo racconto diventerà questa l’immagine che accompagna il suo arrivo in
Europa: le venti bare troppo piccole, per contenere anche i piedi dei bambini.
A settant’anni di distanza dallo sbarco degli alleati in Italia, le fotografie di Andre
Friedmann, ebreo ungherese, consegnato alla storia con il nome di Robert Capa,
ricostruiscono una guerra fatta di gente comune, di soldati e civili, vittime di una
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stessa strage. L’obiettivo di Capa tratta tutti con la stessa solidarietà, possa essere la
guerra in Indovina o la guerra civile spagnola, e si vede per esempio in una sequenza
dedicata ad Agrigento, dove sulle stesse macerie dei palazzi passano e si arrampicano
i bambini, i soldati stranieri, e le donne anziane vestite rigorosamente di nero.
Monte di Dio si erge alta sul cunicolo che stiamo per scendere: la scala del Settecento
ci porterà giù per oltre venti metri. Il palazzo soprastante e i palazzi vicini, forse una
gran parte del quartiere, L’ha usata per cercare scampo durante gli interminabili
quattro anni di bombardamenti subiti da Napoli nell’ultima guerra. La sala in cui
entriamo era adibita a studio veterinario – gabbiette per animali, grossi lavatoi e, sulle
mattonelle bianche, le foto degli anni di guerra, i bombardamenti, i rifugiati – quindi
ci ha abitato un falegname – casa e puteca. Scendiamo nelle strette spire delle scale e
subito la domanda affiora: come facevano di corsa, spaventati, i vecchi e i bambini
oltre agli adulti, a non cadere lungo queste scale? Giunti nel primo, arioso spazio
sotterraneo: i napoletani arrivavano giù rotti, gambe e braccia spezzate, come minimo
feriti. E i grandi antri dell’acquedotto della Bolla, le cave antiche dei cavamonti, i
passaggi dei pozzari – nella tradizione popolare diventati monacielli a causa delle
improvvise comparse notturne dagli anfratti del sottosuolo – si trasformavano subito
in ospedale da campo. Ad attrezzare gli spazi l’UNPA, Unione Nazionale Protezione
Antiarea, che nelle antiche cisterne e nelle cave realizzò allacciamenti di luce, allargò
i passaggi, costruì i bagni: latrine col buco o latrine con i water, più chic, per il
quartiere Chiaia, dove il Tunnel spunta, in via Domenico Morelli. E poi gli spazi per
le partorienti, la calce per coprire il tufo che dopo qualche ora manda esalazioni: i
rifugiati restavano spesso giorni e settimane sottoterra, specie i più anziani che a
salire e scendere ad ogni allarme non ce la facevano proprio. Racconta la nostra dolce
ed entusiasta guida che qualche testimone sopravvissuto è venuto in visita al Tunnel:
erano bambini fra il ’40 e il ’44. Si divertivano, beati loro, a vivere l’avventura
sotterranea, la fuga dalle abitudini, il ritrovarsi tutti insieme con gli altri bambini del
quartiere sottratti in parte allo stretto controllo dei genitori, alla scuola, alle case.
Qualcuno ha segnato il suo nome e ora controlla dov’è e lo ritrova nel punto esatto in
cui lo ricordava, inciso nella parete: è più in basso, commenta. Tutta la nostra
infanzia si è svolta più in basso e non finiamo mai di stupirci d’essere diventati alti, di
averlo potuto fare, nel caso di chi è sopravvissuto. “Noi vivi”, si legge a grandi lettere
sul fondo di una delle caverne, fra i resti pompeiani dei tetti di guerra, delle lettighe
per gli per gli ammalati, persino dei giocattoli – minuscole carrozzine per bambole –
rimasti a testimoniare il passato. Questa scritta potrebbe essere la nostra lapide di
oggi, una lapide senza marmi, senza bellurie, tutta disperazione, come un urlo di
spavento o di sollievo, di speranza. Ma la città è piena di lapidi in ogni punto in cui
sono morti cittadini inermi sotto i bombardamenti inglesi, americani e tedeschi.
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Napoli è la città d’Italia più danneggiata dai quattro sganci di bombe – sempre
primati sgradevoli – in quanto porto strategico, ponte nel Mediterraneo, base navale
militare.
Si muore in pieno giorno nei tram, ancora seduti e diretti verso una meta che mai si
raggiungerà, a scuola e nelle strade, cercando la via per una delle mille scale
sotterranee che punteggiano la città scavata dalle acque e dagli uomini. Si muore
sotto le ventiquattromila bombe lanciate in centotrenta incursioni, per un totale mai
certo di ventimila vittime con conseguente distruzione del quaranta per cento delle
case della città. Ancora fino al decennio scorso si sono restaurate, abbattute e riaperte
strade – vedi via Marina – e i quattrocento ricoveri napoletani, oggi in parte visibili
nei percorsi turistici e archeologici della città sommersa, conservano ogni segno, ogni
ombra di morte.
La lapide più famosa, simbolica, è quella posta dentro Santa Chiara, bombardata il 4
agosto 1943, scambiata per obiettivo militare a causa del grande tetto o forse
bombardata comunque, nonostante i segnali messi per indicare chiese, palazzi storici,
l’Archivio di Stato.
“Dopo secoli di glorie questo tempio dalla guerra distrutto risorge ara di pace nel
cuore di Napoli antica ed accoglie nomi e memorie di quanti versarono il sangue in
auspicio di amore tra i popoli, il 4 agosto 1953”. La chiesa che i secoli avevano reso
barocca e stuccata tornava gotica, le are dei re danneggiate, gli affreschi
irrimediabilmente persi. Lo stesso giorno, poiché il bombardamento coprì l’intera
città, in vico Fiorentine a Chiaia: “Unione cattolica operaia. M.SS. dell’Arco ai caduti
del 4 agosto 1943” Una bella lapide con il bombardamento aereo ritratto nel marmo,
che fa’ il paio con la lapide in via Poggioreale, 52: “Ai caduti civili della zona
industriale che dal profondo abisso delle iniquità umane irrorando il cammino di
sangue innocente assursero alla gloria dei cieli”. Anche qui, una lapide con aerei in
volo e macerie. E in via Reggia di Portici, 9: “Ai caduti Rione S.Erasmo militari e
civili della guerra 1940-1943 l’Ass.S.Gennaro dei sinistrati del III° Granili memore
del loro sublime sacrificio – 19 settembre 1953”. E ancora in via San Biagio dei
Librai: “Ai caduti della parrocchia di S. Gennaro all’Olmo nella guerra 1940-’44 sul
campo di battaglia, nelle incursioni (seguono molti nomi) il parroco abate e il gruppo
uomini cattolici Giuseppe Moscati posero”. L’anno è il 1948. L’anno prima, nel ’47,
è posta la lapide di via Giuseppe Marotta: “La Sezione Porto con infinita pietà ed
affetto ricorda i suoi caduti civili vittime innocenti delle atroci incursioni aeree
dell’infausto periodo 1940-1944”. E chissà quante altre ora me ne sfuggono, a
tracciare sprofondamenti, crolli di mura nei rifugi seppelliti dalle macerie come
accadde a via Salvator Rosa, l’11 gennaio 1943, dove il ricovero crollò e fu ricoperto
dalla calce nell’impossibilita’ di recuperare i corpi.
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Fa caldo sottoterra. Lungo i percorsi della Bolla inseguiamo il tracciato del livello
delle acque, incontriamo le ossa di un cagnetto morto lungo un corridoio, alziamo la
testa a verificare i pozzari riuscivano a passare in corridoi larghi appena una trentina
di centimetri e ad arrampicarsi mani e piedi per altezze vertiginose, sfruttando i buchi
a scala dei cavamonti. Ma il freddo della paura e il tepore della solidarietà che pure i
napoletani seppero sviluppare nei rifugi – nessuno rubava le borsette con gli Oro
Saiwa, nessuno toglieva il cibo all’altro, nessuno sottraeva un bene al proprio vicino
– non ci lascia . A giorni qui sotto si aprirà un percorso “avventura” e gli speologi
porteranno i visitatori a scoprire profondità acquatiche del Tunnel lungo l’acquedotto
del Carmignano.
Una grande occasione per rivisitare i giorni del dolore e della paura.
I morti ed i vivi della città di sotto ci aspettano.
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contadini a Troina dopo la liberazione
il sottosuolo
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La furia di un popolo incazzato
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Questi versi immortali di Totò rendono meglio che le immagini del celebre film di
Nanny Loy una delle più belle pagine della storia napoletana contemporanea: la
gloriosa rivolta di popolo del settembre 1943.
Settantasei ore di guerriglia urbana; alcune migliaia di cittadini appartenenti alle più
diverse fasce sociali e generazionali (civili e militari, uomini, donne, ragazzi) in vario
modo coinvolti negli scontri a fuoco; centinaia di morti e feriti: è stata questa la
risposta di un popolo alla fame, alla paura, all'insicurezza, all'inesorabile flagello
della guerra, all'ondata di terrore scatenata dai tedeschi con la collaborazione dei
fascisti locali.
Il 12 settembre 1943 i soldati tedeschi entravano nell'università, saccheggiavano,
asportavano, attrezzature scientifiche, sparavano colpi di mitragliatrice all’impazzata
e infine appiccavano il fuoco. Intanto avevano rastrellato tutta la popolazione dei
dintorni l'avevano obbligata a schierarsi di fronte alle Scale dell'università, dove
avevano condotto un marinaio accusato di aver lanciato una bomba contro i tedeschi.
Un uomo in borghese, italiano, controllava e dava ordini alla popolazione. «E lui ci
ordinò di inginocchiarci davanti al rogo e davanti a tanta rovina additandoci il
disgraziato marinaio (...) Tre sgherri all'ordine del superiore, con fucili sparavano
addosso all'infelice, il quale cadde rantolando, poi uno dei tre assassini freddò con un
colpo magistrale alla nuca il poveretto (...) L'uomo in borghese ci fece cenno che
dovevamo applaudire alla sentenza pronunciata, cosa che una porzione fece, altri
accennò al battimano ma non lo eseguì». Questo è il racconto (che il custode
dell'ateneo fece allora alla commissione d’inchiesta alleata.
Si tratta di uno degli eventi più duri e significativi dell'occupazione tedesca, breve ma
violentissima, che si svolse a Napoli tra l'8 settembre e il primo ottobre del 1943.
Quello stesso giorno a piazza Borsa erano stati fucilati 6 ostaggi fra cui due finanzieri
e due carabinieri, 8 militari erano stati uccisi di fronte al palazzo dell'ammiragliato.
Quattordici carabinieri venivano fatti prigionieri, obbligati a marciare fino a Teverola
e fucilati dopo aver loro imposto di scavarsi la fossa. Ma non erano solo i militari a
combattere e morire, tutta la città era attraversata da conflitti a fuoco e molte erano le
vittime.
Dopo seguirono una serie di ordini e azioni di grande durezza, che portarono alla vera
e propria insurrezione: l'imposizione dello stato d'assedio, l'ordine di sgomberare la
fascia costiera, quello rivolto agli uomini nati fra il 1910 e il 1925 di presentarsi per il
lavoro obbligatorio e infine, di fronte alla disobbedienza diffusa, l'ordine del 26
settembre di operate un rastrellamento a tappeto con la forza. A questo punto i
giovani si organizzarono per resistere, aiutati dal resto della popolazione. «Quelli mi
cercavano, mi volevano portare prigioniero schiavo. Se mi vogliono, mi devono
portare morto! Orizzontalmente! lo dissi».
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Un’analisi ravvicinata dei combattimenti apre squarci cruciali sull'insurrezione
napoletana, portando alla luce uno spazio sociale articolato, uomini donne; e ragazzi
con obbiettivi, luoghi da difendere. La lotta contro le razzie degli uomini, il conflitto
sul cibo e sui beni materiali, la difesa dei luoghi simboli e cruciali per la vita del
quartiere e della città, unite alla ribellione contro la guerra e le antiche prepotenze dei
fascisti, sono all'origine di un’insurrezione che mostra così tutta la sua
politicizzazione .
I Napoletani furono coraggiosi non ci pensarono due volte ad armarsi e a combattere
contro i tedeschi, e lo fecero sulla base di spinte concrete, come in tutte le altre varie
parti d'Italia, e di una forte e antica identità territoriale. Nel settembre del 1943 l'Italia
era probabilmente molto più unita e simile di quanto si sia pensato fino ad ora.
Saranno i due anni successivi a dividere strade e animi e a spingere nell'oblio le
pagine della resistenza meridionale.
Napoli. «Abbiamo finto, avimme sempe fatto apposta, ambiguità a quintali: doppio
gioco, doppia faccia, doppio cuore. per paura - ma 'a verità è che v'avesseme voluto
sempe sputà 'n faccia! Jatevenne, rikkiune». I ricchioni in questione sono i tedeschi in
fuga da Napoli nel settembre 1943, e poiché siamo a teatro (che allude sempre al
presente) sono anche i fantasmi secolari della città. Inutile stare a elencarli, perché
Napoli è il luogo comune del male civico: della plebe che non si è fatta popolo, della
classe dirigente che non ha diretto, ma spadroneggiato, della camorra, della
munnezza. Fenomeni universali esposti con barocca grandiosità. «Napoli è lo
spaventapasseri d'Italia, tutto qui» dice Enzo Moscato, che ha scritto, dirige e
interpreta Napoli '43, un cunto leggendario e corale delle Quattro giornate (28
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settembre – 1° ottobre) in cui la città impartì all'esercito tedesco l'unica, bruciante,
sconfitta popolare.
Un’insurrezione in principio sottovalutata dalla storiografia ufficiale, perché difficile
da inquadrare negli schemi della lotta partigiana e ancor più di quella di classe. Poca
ideologia, passaparola da un quartiere all'altro, tank bloccati nei vicoli stretti e cessi
lanciati dalle finestre, combattenti poco armati e sassaiole di scugnizzi. È una
memoria rimossa, scomoda, perché il popolo che si è liberato dai Tedeschi si è poi
arreso a un regime collaborazionista con mala politica, corruzione, criminalità,
violenza, arretratezza.
Anche oggi i Napoletani dovrebbero insorgere ma purtroppo «c'è stata la mutazione
antropologica: Pasolini diceva che Napoli, con il suo atteggiamento fuori dalla storia,
non l'avrebbe subita. Ma non è vero. È stata colonizzata dalla peggiore modernità: le
vaiasse stanno tutte su Facebook».
«Nessun partito, tra l'8 e il 27 settembre, esisteva a Napoli, o fu in grado di preparare
una insurrezione, né la preparò». Ma già verso la sera del 27 settembre, a
Capodimonte, «un gruppo di coraggiosi faceva prigionieri sei soldati tedeschi e sei
fascisti ( ... ) Verso il mezzogiorno, invece, del 28 settembre la città era in fiamme e i
colpi dei fucili e delle bombe a mano sibilavano e crepitavano in tutti i rioni».
Mentre comparivano navi angloamericane a Capri, impossibilitate ad avanzare a
causa delle mine, e la V armata americana si avvicinava a Napoli, centinaia di
combattenti comparvero al Vomero e al Museo, decine e decine al Vasto alla
ferrovia, a Montecalvario, a via Foria, i tedeschi avevano autoblinde, mitragliatrici.
alcuni carri armati e cannoni. i napoletani soprattutto fucili e bombe a mano. Ad
aiutare i tedeschi accorsero parecchi fascisti, come cecchini soprattutto,
Il comando tedesco restò incerto tra l'accelerazione della fuga di fronte all'avanzata
anglo-americana e il castigo per i rivoltosi che, fra l'altro, tenevano sotto assedio una
cinquantina di soldati. asserragliati al campo sportivo del Vomero con 47 ostaggi. Le
barricate impedirono ai carri armati tedeschi di scendere dalle alture nel centro di
Napoli. ormai sotto il controllo dei patrioti.
Il comandante Scholl, deciso a lasciare la città, avviò una trattativa con gli insorti. e il
30 settembre chiese una scorta di patrioti che li accompagnassero, per garantirne
l'incolumità. «Se non che, a notte alta, assai prima dell'ora stabilita, il colonnello
tedesco con gli ufficiali e gli uomini addetti al Comando, aveva lasciato la sua
residenza, e si era avviato fuori della città, abbandonando al loro destino i colleghi
dell'albergo Bologna, insieme con il Magg. Sakau e i soldati. che il giorno innanzi
avevano combattuto al Campo Sportivo!»,
Ancora il 1° ottobre però da Capodimonte un cannone tedesco continuò a sparare sul
centro antico, ammazzando e ferendo passanti e donne in cerca di pane. Gruppi di
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fascisti continuarono a sparare tra il Vomero e Montecalvario, poi scomparvero.
Verso le 11 per tutta Napoli si sparse la voce che i primi reparti americani. su
automezzi pieni di polvere, erano entrati in città.
Napoli aveva cacciato i tedeschi. in una «concordia perfetta», antinazista e
antifascista, di partigiani liberali e comunisti. militari e scugnizzi. professionisti e
operai, uomini e donne. All'eroismo della rivolta popolare e civile seguì la
disperazione e la fame nel terribile biennio 1944-45, dominato dal mercato nero, dal
contrabbando, dalla prostituzione, Come ebbe a scrivere il grande regista John
Huston, allora capitano della V Armata, che girava documentari di propaganda: «Gli
uomini e le donne di Napoli erano un popolo diseredato, affamato, disperato, disposto
a fare assolutamente tutto per sopravvivere. L'anima della gente era stata stuprata, Era
veramente una città senza Dio».
Al referendum del 1946 la città delle Quattro Giornate darà l'8O per cento dei voti
alla monarchia.
L'insicurezza reale o percepita a - Napoli è un capitolo a parte. Reso più fumoso da
un repentino silenzio dell'autorità costituita. I cronisti di nera lamentano una certa
reticenza: è sparito il mattinale della questura che aggiornava sui reati. E’ stato
acquisito anche un dispositivo, il Tetra, che cripta le comunicazioni radio e impedisce
la gloriosa pratica dell'intercettazione per arrivare sul delitto prima dalla Volante. E
guai a chiedere un favore a un amico poliziotto: ogni contatto è tracciabile. Ma il
pugno di ferro sull'informazione non riduce i reati di strada, che la crisi e il vuoto di
potere ai vertici della camorra alimentano. Mentre spaccio, estorsioni, usura
criminalità economica procedono con odiosa indifferenza per arresti e sequestri.
E’ cambiato anche il numero degli abitanti cinquantamila in meno nell'ultimo
decennio. Si è gridato allo spopolamento di una delle città più popolose al mondo.
«Non è un fenomeno recente: Napoli perde abitanti dal1971 un calo connesso alla
deindustrializzazione. Oggi le motivazioni sono legate soprattutto alla casa. Giovani
coppie che non possono permettersi un appartamento in città e si spostano in
provincia, famiglie sfrattate o che non riescono a pagare il mutuo. Resistono i
benestanti e gli inquilini delle case popolari, che a Napoli sono tante, il 13 per cento
dell'edilizia abitava.
Una tendenza non tanto diversa da quella delle altre grandi città, ma l'esodo dei
giovani in cerca del lavoro, quello sì, è allarmante e non quantificabile: «Manutentori
e laureati, partono tutti. Va a finire che restano quelli che non hanno neanche i soldi
per il treno e i figli di papà più mediocri che ne ereditano le professioni». Anche lo
spartiacque del terremoto è un luogo comune, ma non in questi termini: «La pioggia
di soldi per la ricostruzione ha introdotto un sistema economico fondato
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sulla accelerata circolazione finanziaria: con Ciriaco ce n'era per tutti e l'edilizia era il
motorino d'avviamento della finanziarizzazione dell'economia». Così addio al lavoro;
tutti rentier (che vivono di rendita) o morti fame. E adesso? «Lo sa che scugnizzo ha,
un'etimologia piemontese? Viene da gugnin, parola usata dai carabinieri sabaudi per
definire i monelli. Ecco, dovremmo liberarci di quell'esotismo che ci ha affibbiato il
Nord e che abbiamo introiettato così bene. Potremmo anche smettere di voler essere
come Bologna e tentare di essere al meglio di Napoli. Senza aspettare uomini del
destino che ci infondano la fiducia dall'alto o procacciatori di fondi, l'unico ruolo che
la nostra classe dirigente ha saputo svolgere, senza prendersi un rischio o una
responsabilità».
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In un mare di storia e di bellezza
01-Capri, la piazzetta
La bellezza del golfo di Napoli è accresciuta dalle stupende isole che gli fanno da
corona: Capri, Ischia e Procida, in rigoroso ordine alfabetico. Una romana, l’altra
greca, le prime due gareggiano per bellezza, monumenti e cucina. Due gemelle
diverse, amate in egual misura da vip e turisti mordi e fuggi, con le loro attrazioni
celebri in tutto il mondo, in grado di calamitare fiumane di visitatori, dalla Grotta
Azzurra a Villa Jovis, dalle terme Poseidon ai giardini della Mortella, senza
dimenticare l’incanto di Procida con l’Oasi di Vivara, dove il tempo sembra essersi
fermato.
Napoli, senza le sue isole che la contornano e lo stretto legame che ogni giorno si
rinnova, non sarebbe la stessa, privata di quella preziosa corona di gemme che la
circonda; distinte per la loro diversa conformazione in “virgiliane” quelle flegree,
tufacee ed “omeriche” quelle della costiera sorrentina, “dolomitica” Capri.
Gli abitanti delle isole presentano caratteristiche comuni, influenzate dal mare che li
delimita, il quale determina anche un particolare sviluppo dell’economia, della vita
sociale, delle tradizioni civili e religiose.
Nel microcosmo isolano assume un ruolo trainante la formazione scolastica di
matrice marinaresca con prevalenza di istituti nautici e professionali marittimi, i culti
religiosi indirizzati alla venerazione di santi in qualunque modo legati alle acque,
come San Francesco di Paola o Santa Restituta, le tradizioni popolari, con processioni
caratterizzate da parziali percorsi tra le onde, come per la festa di San Vito, mentre le
chiese sono piene di ex voto e quadretti d’argomento marinaro, ma, soprattutto, le
attività commerciali ed artigianali, prima di essere soppiantate dalle attività turistiche,
ruotano quasi tutte intorno al mare, dall’armamento navale alla pesca.
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Ogni isolano subisce un’attrazione fatale con il proprio scoglio e, se deve recarsi sulla
terraferma per acquisti od altre incombenze, non vede l’ora di tornare a casa ed è
attaccato alla sua isola più che un cittadino alla sua città o un paesano alla sua
cittadina.
Tratteremo brevemente delle isole più celebri, cui dedicheremo dei capitoli più
dettagliati e ci interesseremo di alcune isole minori, poco note ma non meno degne di
essere conosciute.
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cui azzurro doveva essere assoluto: ma un po’ di quell’azzurro sopravvive ed anche
chi imperatore non è può adesso sbarcare a Capri e godersi il vento che fischia tra i
resti di Villa Jovis e l’acqua ancora limpida tra le rocce sottostanti.
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06-Ischia, la Mortella
Ischia, prima dei Romani, era colonia greca e più tardi è stata interessata dai flussi
turistici, specialmente tedeschi. Tra i turisti affezionati un posto di rilievo è occupato
dalla cancelliera Angela Merkel, da decenni habituè dell’isola, da quando, in quel di
Sant’Angelo, prendeva il sole “nature”: oggi, dopo aver pagato regolarmente il
biglietto dell’aliscafo, va a cenare a casa dell’amico Jacono, il maitre licenziato
dall’albergo in cui trascorre da anni le sue vacanze, ancora in grado di preparare per
lei ed il marito gustosi manicaretti.
Rimanendo in ambito gastronomico, si può andare ad Ischia o a Capri anche soltanto
per gustare le prelibatezze della tradizione culinaria partenopea, dalla spigola al
calamaro, dai timballi di maccheroni al ragù fino alle deliziose pastiere, mentre Ischia
è famosa per il coniglio, cotto lentamente nel coccio secondo svariati modi al punto
che ogni casa crede di essere l’unica titolare della vera ed unica ricetta, tramandata da
generazioni.
A Capri, basta lasciarsi alle spalle la “piazzetta” per scoprire un’isola selvaggia,
aspra, profumata di ginestre e mirto, con un boschetto mediterraneo che non ha niente
di lezioso, attraverso il quale si entra davvero nell’altra Capri, quella non solita,
quella dei fichi dal sapore di miele del poeta Rilke e delle bizzarrie di Malaparte, e tra
curve e sentieri, che danno il capogiro, si potrà ricordare che a Capri soggiornava
Lenin che, mentre giocava a scacchi, immaginava la rivoluzione, e con lui tutti gli
espatriati d’Europa, che venivano qui a curarsi malattie e tristezze e, soprattutto, a
godersi la vita.
Anche Ischia, isola verde per eccellenza, ha i suoi trionfi di bouganville e gelsomini.
Che dire dei giardini Poseidon dove le vasche si susseguono a picco sul mare e si
passa dal tiepido amniotico al caldo vulcanico ed al fresco dolce, mollemente adagiati
nell’acqua termale su cui galleggiano petali di rose? E se proprio volete un tocco di
chic, abbiamo ancora il giardino della Mortella, il giardino del raffinato sir William
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Walton, musicista e gaudente, davvero splendido. In alto sul mare di Forio, è un
delicato e metamorfico delirio di piante tropicali che nella terra calda prosperano
felici, mescolando orchidee rarissime a palme arcane: pochi passi in mezzo a questi
tropici mediterranei e ci si trova in un altro mondo, in un’epoca in cui la bellezza si
trasformava in musica della realtà.
08-Vivara
Senza dilungarci ulteriormente, passiamo ora a descrivere isole minori, come Nisida e
Vivara o minuscole come San Martino, La Gaiola e Rovigliano.
Nisida, pur piccola, ha una storia ricca di episodi significativi. Nei tempi antichi,
probabilmente, era collegata alla spiaggia di Coroglio attraverso un piccolo istmo,
divenuto ponte soltanto nel 1934.
In epoca romana vi era un castrum di proprietà di Lucullo: qui Bruto e Cassio
tramarono per l’uccisione di Cesare e Porzia, figlia di Catone, si suicidò.
Durante il medioevo vi sorse un monastero detto di Sant’Angelo de zippio. Proprietà
della Chiesa napoletana, fu acquistato nel 1553 dal duca d’Amalfi i cui discendenti
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eressero nel 1635 il castello, tuttora esistente, che, nel 1814, per effetto delle
normative emanate da Murat, passò al demanio.
Sotto i Borbone fu ampliato il porto ed il castello, destinato a penitenziario, ospitò
Settembrini, Spaventa e Poerio.
Trasformato in reclusorio per i minori, fu visitato da Eduardo De Filippo, una volta
divenuto senatore a vita. Eduardo riteneva che il processo di redenzione per i ristretti
dovesse passare attraverso l’impegno in un laboratorio teatrale, auspicio che, morto
l’illustre commediografo, ha trovato parziale applicazione con l’istituzione di una
scuola di scenografia.
Diverse sono state le ipotesi di rilancio turistico di Nisida, dall’idea di aprirvi un
casinò a quella di venderla ad una società intenzionata ad aprirvi un villaggio
turistico.
Purtroppo la situazione dei luoghi, inclusa la contigua spiaggia di Coroglio, è
disastrosa e l’ipotesi di crearvi un “parco marino del Mediterraneo”, dopo il
calamitoso rogo di Città della Scienza, è destinata a rimanere una vaga chimera.
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10-Nisida
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Per un breve periodo la Gaiola fu di Gianni Agnelli, che vi impiantò un eliporto, poi
fu la volta di Paul Getty, cui rapirono il nipote Paul Getty junior, al quale fu tagliato
un orecchio per costringere il vecchio nonno a pagare il riscatto. L’ultimo
proprietario fu l’assicuratore d’assalto Gianpasquale Grappone, finito in galera per
bancarotta. Per prudenza, dopo di lui, non si è più presentato nessun acquirente
privato e la proprietà è passata ad un ente pubblico protettore della fauna marina.
11-Gaiola
12-fortezza di Rovigliano
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I vicoli di Caravaggio e di Ribera
Nel budello scuro del Cerriglio, tra chiese abbandonate, vicoli puteolenti e palazzi
nobiliari in rovina, si possono ancora vedere nei volti dei popolani, oramai mischiati
agli extracomunitari in un coacervo inestricabile le creature cupe immortalate dal
pennello di Ribera, mentre a pochi passi rivive l’atmosfera della celebre taverna dove
Caravaggio fu raggiunto dai sicari inviati dai familiari di Rainuccio Tomasoni,
l’uomo da lui ucciso a Roma per un futile litigio e lo ridussero talmente male che i
giornali dell’epoca scrissero addirittura che il lobardo era morto per le ferite
dell’aggressione. Caravaggio non era l'unico artista a frequentare il Cerriglio (che
probabilmente si chiama così perché c'era un piccolo albero di "cerro" a delimitare la
zona). Dei tavoli della taverna hanno parlato, nei secoli, anche Giovan Battista Della
Porta, Giambattista Basile, Sgruttendio, Giovan Battista del Tufo, Carlo Celano,
Giulio Cesare Cortese, Emmanuele Bidera, Vincenzo D'Auria, Benedetto Croce. Pare
che sulla porta della locanda fossero riportati questi versi popolari: «Magnammo,
amice mieje, e po' vevimmonfino ca stace ll'uoglio a la lucerna: Chi sa' si all'auto
munno nc’è vedimmo! Chi sa' si all'auto munno nc'è taverna!».
Cerriglio: un posto pieno di storia popolare e grande arte. Non a caso, c'è un'altra
espressione, attribuita al cuoco della Taverna del Cerriglio: «è ffritto 'o ffecato». Sta a
significare, per metafora, «ormai le cose sono andate così». Eppure, a parte lo spirito
e la storia, non tutti i turisti si accorgono di quanto Caravaggio sia parte integrante del
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centro antico della città. Percorrendo questo angolo dimenticato ci si interroga sul
destino di quella che fu una antica capitale uno sguardo alle tante edicole votive e si
intravedono gli spetti di un lontano passato, sembra di poter vedere il cammino di re
Ladislao e dei sovrani borbonici, di Matilde Serao e di Malaparte.
Piazza Borsa alle spalle si sale lungo viuzze protette da archi tra lamiere divelte e
monnezza ubiquitaria, fino a raggiungere la quattrocentesca chiesa di San Pietro in
Vinculis, chiusa da un tempo infinito, saccheggiata ed oltraggiata dentro e fuori. Una
zona popolare oggi colonizzata dai Cingalesi gente pacifica, commista a studenti
universitari fuori sede. Più avanti vico San Geronimo dei Ciechi, naturalmente senza
sbocco e vico Melofiocco, puntellato dal terremoto del 1980. un odore pungente di
marcio, forse perché il mare, prima che i lavori del Risanamento lo facessero arretrare
arrivava fino a queste mura portando merci e odori dal lontano Oriente.
Mura strette che danno l’impressione di palazzi grandiosi, oltraggiati dalle lenzuola
stese tutto l’anno a tutte le ore.
All’improvviso, vicino all’Orientale lo splendido portale della cappella Pappacoda e
ti convinci che il passato possa essere un viatico per il futuro.
Quassù, il mare non lo immagini neanche più. Lo si avvista dagli attici che si
rincorrono da un tetto all'altro. A livello di strada, invece, tra palazzi sontuosi, così
vicini che quasi si compenetrano come un disegno dalle prospettive allucinate di
Escher, la nobiltà non è ancora precipitata nella miseria, ma a tratti ne ha l'aspetto. Le
botteghe sono a misura di quartiere. il salurniere, il fruttivendolo, la merceria, la
piccola officina, l'artigiano si alternano a qualche negozio etnico a beneficio degli
studenti. Turisti se ne vedono pochi, facce straniere quante ne volete: universitari o
immigrati. Eppure, se la bellezza e la memoria scuotessero gli animi, facessero
mettere mano alla tasca, sveltissero le burocrazie, Napoli offrirebbe su un piatto
d'argento una delle sue anime più misteriose. Del resto siamo poco lontani dall'insula
di Santa Chiara. Zona dove al posto dei pazziarielli di buona memoria è ora dominata
dagli artisti di strada «Fanno feste, si mangia, si beve e da qua partono i loro
spettacoli per le vie della città. Da quando ci sono loro, c'è di nuovo allegria. E pure
qualche turista». Basta poco.
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la flagellazione del caravaggio
murales
vicolo
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Per Palazzo Penne, invece, il tempo non basta mai. Da dodici anni è al centro di una
vicenda di ordinari paradossi, con il corollario di carta bollata e processi. Quando la
strada dei Banchi Nuovi si allarga in piazza Teodoro Monticelli, per presentarvi sulla
sinistra la gialla facciata delle chiesa dei santi Demetrio e Bonifacio, scoprite la
sagoma grigia del palazzetto del segretario di re Ladislao, Antonio Penne, uomo di
penna, di nome e di fatto. Bugnato toscano e portale ribassato alla maniera
durazzesca. Un capolavoro. Ma solo il portale è stato ripulito e fa l'effetto di una
passata di rossetto su un viso decrepito. Dietro la facciata c'è un numero enorme di
stanze, su tre piani: si arrampicano fin sotto la cupola della chiesa. Dodici anni fa fu
acquistato dalla Regione Campania. Era ridotto a rudere. Ora è pure peggio. Nel 2004
la Regione lo ha ceduto, in comodato d'uso all'Orientale, per fame un polo
universitario d'eccellenza, con laboratori, aule per seminari e convegni. L'avete mai
visto? Lungaggini, appelli (del presidente Giorgio Napolitano), indagini (dell'Unesco
e della magistratura) e il Palazzo sta ancora tutto sporco, pieno di monnezza, come il
mare della canzone di Pino Daniele, è «Nisciuno 'o pò guardà».
Di fronte Palazzo Penne si può ancora leggere su una lapide un ammonimento
sanzionatorio di Ferdinando IV del 1773 contro chi lasciava rifiuti per strada. Pena
prevista la galera. Se fosse ancora valido Poggioreale dovrebbe decuplicarsi. Una
lapide simile, anteriore di venti anni (1753), collocata durante il regno di Carlo, padre
di Ferdinando, è all'imbocco del Cerriglio, accanto a un'officina meccanica.
Da quassù di vede la stretta ferita del Pendino Santa Barbara che riporta giù a Sedile
di Porto. Strada letteraria per eccellenza. Presa a simbolo del degrado sociale e
umano. Già dall'imbocca, prima delle bitte di pipemo che lo restringono a esclusivo
uso pedonale, folklore e creatività si danno la mano, ma alla maniera napoletana,
trasformandosi in rifiuto. C'è un casaruoppolo di legno, tutto pittato di azzurro Calcio
Napoli. Dentro, chiuso da un catenaccio, resiste occultato il chiosco di marmo di
Nennella, un' istituzione cittadina. Al suo banco dell'acqua, fino a 15 anni fa quando è
scomparsa, si sono abbeverati migliaia e migliaia di passanti. Lei stessa è stata
immortalata in decine di fotografie. Ora non c' è più, ma il chiosco resiste, sebbene
ridotto a custode di un cumulo di rifiuti che gli cresce sotto. Un colto sanzionatore ha
lasciato una scritta in franco- napoletano: «Ceci n'est pas une monnezza». È una
parafrasi del celebre «Ceci n'est pas une pipe» («Questa non è una pipa») di Magritte.
E infatti non era una pipa, ma un quadro. Questa, invece, è proprio monnezza.
Qui, lo sversamento incontrollato era un'abitudine che scandalizzò Matilde Serao:
«Da una parte e dall'altra abitano femmine disgraziate, che ne hanno fatto un loro
dominio e, per odio di infelici disoccupate, nel giorno e per cupo odio contro 1'uomo,
buttano dalla finestra, su chi passa, bucce di fichi, di cocomero, spazzatura, torsoli di
spighe: e tutto resta, su questi gradini, così che la gente pulita non osa passarvi più».
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Tutta questa zuzzimma adesso non c'è, ma neanche riluce di pulizia. Non ci sono più
neanche le nane che Curzio Malaparte immortalò nella sua «Pelle»: «Son così
piccole, che giungono a stento al ginocchio di un uomo di media statura. Sono laide e
grinzose; fra le più brutte nane .che siano al mondo».
Continua la ricerca del punto esatto dove vi era la famosa taverna del Cerriglio.
Niente da fare il punto esatto non lo troviamo anche se ci aiuta ciò che scriveva sul
finire dell’Ottocento Salvatore Di Giacomo, pencolante tra la nostalgia dei vicoli
opachi e il disgusto dei fondachi verdi: «La via larga e nuova del Rettifilo ha ingoiato
il Cerriglio grande ov'ella principia, da San Giuseppe. Il piccolo Cerriglio è murato, e
i tempi nuovi e il novello commercio milanese in Napoli gli han piantato davanti il
negozio del signor Carsana».
La via s'inerpica in vuoto riempito solo da scooter parcheggiati o distrutti e
abbandonati. Qua e là resti di spazzatura. È uno scorcio spettrale a ridosso della
frenetica piazza Bovio. Più che un ritorno al passato, all'epoca in cui questi minuscoli
sentieri tra mura servivano a proteggere la città dai temuti attacchi dal mare, sembra
di essere precipitati in un futuro inquietante, come se si passeggiasse negli angoli più
segreti di Capri o Positano dopo un bombardamento che avesse messo a tacere per
sempre le voci di dentro che sussurrasse: «Senza bellezza non c' è salvezza».
E vorremo concludere con un ricordo giovanile: sfidando il tempo è ancora attivo il
Casino di Santa Chiara (leggi sul web il mio articolo che racconta la sua storia)
brulicante di vita è solo cambiata la nazionalità delle “signorine”.
palazzo Penne
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La Madonna Nera li protegge
la Madonna di Montevergine
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Manco dal Santuario di Montevergine dal 1994 e non ho potuto ammirare il
capolavoro di Montano d’Arezzo restituito allo splendore dei suoi colori originari.
Mi recai dopo aver trascorso alcuni giorni in terapia intensiva nella limitrofa clinica
Malzoni, in una sorta se non di ringraziamento, di pellegrinaggio spirituale. Rimasi
colpito che la quasi totalità dei monaci erano di pelle nera e mi chiesi: “Quando un
Papa africano?”.
Tra le storie millenarie d'Italia, non va dimenticata quella dell'Abbazia di
Montevergine: consacrata nel 1126, era stata individuata qualche anno prima da san
Guglielmo da Vercelli al culmine di un luogo solitario, fatto per mistici di ferro: la
cima del Monte Partenio, nel cuore dell' Irpinia, che domina Avellino e le sue valli da
una delle più belle vette d'Italia.
La Madonna in Maestà con il Bambino Gesù” di Montano d'Arezzo – documentata
sin dal 1310 – simbolo per secoli di una devozione tutt'ora ininterrotta, è stata
restaurata. Dopo mezzo secolo in cui, posta a venti
metri d'altezza nella nuova chiesa novecentesca dell'Abbazia - non certo un
capolavoro dell'architettura del Novecento - la grande tavola di Montano (quattro
metri e sessanta centimetri per due e trentadue!) tornerà nella Cappella Imperiale
della magnifica Chiesa antica dell'Abbazia.
Come a volte accade, se la devozione per la “Maestà” di Montano d'Arezzo non ha
conosciuto pause, è la percezione del suo significato nella storia dell'arte d'Italia
ancor oggi a latitare.
Ma chi era Montano d' Arezzo? Formatosi nel cantiere della Basilica superiore di
Assisi intorno 1280, Montano dialoga con il Cimabue della Crocifissione nel
transetto e con lo stesso Giotto ed è da quest'ultimo e dal romano Pietro Cavallini che
egli matura i fondamenti del suo stile.
Giunto a Napoli alla fine del Duecento, Montano sarà trai principali artisti della Corte
di Carlo II d'Angiò, lavorando al Duomo e a San Lorenzo Maggiore. A Montevergine
andrà per conto di Filippo d'Angiò, Principe di Taranto, che ricompenserà l'artista
donandogli dei terreni.
Da vicino la “Maestà” di Montano emana un impatto straordinario. Riportarla nella
sua sede originaria, a pochi metri dagli occhi dei visitatori, è un atto storicamente
dovuto, che li Protegge ripristina un rapporto corretto tra l'opera e il suo pubblico e ne
ripropone appieno il significato, nel senso più alto del termine.
All’opera, tanto venerata dai fedeli, non viene riconosciuta l’importanza che merita
nella storia dell’arte.
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Giuseppe Bonito: il femmminiello
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nel favorito dell’Imperatore. Il popolo gay incontra da sempre la sua Signora, la
Mamma Schiavona "che tutto concede e tutto perdona".
L'intera costellazione raccolta sotto la sigla LGBT {Lesbiche, Gay, Bisessuali e
Transgender) diventa di fatto la nuova protagonista di un antichissimo pellegrinaggio
in onore della Vergine. Secondo la leggenda fu proprio lei, nel 1256, a salvare due
giovani omosessuali che, in seguito allo scandalo provocato dalla loro relazione,
erano stati legati a un albero e abbandonati a morire di stenti sulla montagna. Il
miracolo fu visto come un segno di tolleranza soprannaturale e da allora i femminielli
divennero devotissimi della Madonna di Montevergine.
Ma in realtà, questa balza vertiginosa, sospesa tra nidi d'aquile e tane di lupi, è da
sempre meta prediletta di una umanità en travesti. Infatti, molti secoli prima di Cristo
a salire quassù erano i Coribanti, i preti eunuchi di Cibele, la grande madre nera,
simbolo femminile della natura.
Il suo tempio sorgeva proprio dove adesso c'è il santuario mariano. I sacerdoti si
eviravano ritualmente per offrire il loro sesso in dono alla dea e rinascere con una
nuova identità. Si vestivano da donne con sete gialle, arancione, rosa colori
sgargianti. Si truccavano pesantemente gli occhi e attraversavano in gruppo le città
suscitando un misto di curiosità morbosa e di scandalo, anche per il loro erotismo
esibito e la sfrontatezza delle loro provocazioni sessuali. Insomma queste processioni
orgiastiche a base di canti, balli e suoni di tamburo erano in qualche modo i Gay
Pride dell'antichità.
E proprio come allora, anche ora l'esagerazione è di rito. Travestimenti, canzoni,
suoni, crepitio di nacchere e battito di tammorre accompagnano l'ingresso in chiesa.
Poi il silenzio cala improvviso e si leva alta un'invocazione salmodiante, tra la litania
del muezin e il grido dei venditori, che chiama a raccolta le figlie della Mamma
schiavona, facendo risuonare nel presente un'eco mediterranea lontana. A intonarl è
il noto artista folk Marcello Colasurdo, ex operaio dell'Alenia di Pomigliano d'Arco, a
lungo frontman del Gruppo musicale E' Zezi cantore ufficiale della galassia LGBT.
"Non c'è uomo che non sia femmina e non c'è femmina che non sia uomo", ripete
come un mantra.
Mentre all'esterno il rito lascia affiorare tutto il suo fondo pagano e le figure sensuali
della tammurriata ricordano in maniera impressionante le danze degli affreschi
pompeiani. Veli volteggianti, fianchi roteanti, gesti ammiccanti. Pier Paolo Pasolini,
stregato dal fascino arcaico di queste nenie rituali, nel 1960 volle registrarle
personalmente dalla viva voce delle devote per usarle come colonna sonora del suo
Decameron. E ancor prima, Zavattini e De Sica parteciparono al pellegrinaggio dei
femminielli quando erano in cerca di ispirazioni per L'oro di Napoli. Il carattere
pagano del culto ha spess provocato scontri con l'autorità ecclesiastica. In due
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occasioni, nel 2002 e nel 2010, l'abate del santuario ha scacciato i gay dalla chiesa
scagliando su di loro un vero e proprio anatema. Che, ha suscitato lo sdegno del
mondo progressista e non solo. Ma i coribanti di oggi non si lasciano intimidire da
diktat così poco evangelici. Loro vogliono bene alla Madonna e la Madonna vuoi
bene a loro, il resto non conta. E si mostrano ogni anno più determinati nel
trasformare il pellegrinaggio in occasione politica, in piattaforma democratica di lotta
contro l'omofobia che ancora affligge il nostro paese. Tra i più agguerriti Porpora
Marcasciano (presidente del MIT - movimento identità trasgender - di Bologna), e
Vladimir Luxuria. Che ogni anno sale a Montevergine per onorare la Madonna nera.
Perché, tiene a dire, "da secoli le persone diverse si sono riconosciute in questa
Madonna diversa. Una madre che guarda solo nel nostro cuore e non si interessa
all'involucro che lo contiene". Così la rivendicazione dei nuovi diritti fa suo un
simbolo ancestrale. Avvicinando i due lembi estremi della storia. Un passato
millenario e un futuro necessario. E al di là di tutti i distinguo politically correct e
delle nuove sigle identitarie, quel giorno si diventa tutti femminielli. Anime femmine
in corpi mutanti. Diversamente uguali nel nome della Madre.
Il femminiello dal popolino è volgarmente chiamato “ricchione” dal popolino, che
ignora di adoperare un termine assai antico e di origine spagnola. Furono infatti i
nostri dominatori per tanti secoli ad introdurre, all'inizio del Cinquecento, nel dialetto
di Napoli, la parola orejones, con la quale si indicavano gli omosessuali, eredi della
dinastia incaica, che si facevano forare ed allungare i lobi delle orecchie come segno
distintivo.
Naturalmente personaggi dal sesso mascherato erano già presenti presso di noi da
migliaia di anni e dobbiamo tornare molto indietro nel tempo, se vogliamo
comprendere fenomeni che ancor oggi resistono nella nostra cultura, pur con le
dovute trasformazioni.
Un esempio paradigmatico di quanto profonde siano le radici di antiche pratiche
appartenenti al mondo dei travestiti, esistenti ancora oggi, anche se difficilmente
visibili, avendo nel tempo acquisito il carattere della massima riservatezza, è
costituito dalla cosiddetta “Figliata d''e femminielli”. Essa non è altro che un rituale
derivante dall'antico rito della fecondità, praticato per secoli nella nostra città. La
figliata si svolge segretamente alle pendici del Vesuvio, a Torre del Greco, ed è stata
descritta accuratamente con accenti vivaci da Malaparte nel suo libro La pelle e dalla
regista Cavani nell'omonimo film.
Questa originale iniziazione ad una femminilità particolare prevedeva un utilizzo di
segrete conoscenze alchemiche, oggi perdute ed avveniva durante periodici
festeggiamenti per l'avvenuta nascita del "maschiofemmina", dagli iniziati chiamata
Rebis, res + bis, cosa doppia. Il rituale, descritto nella Napoli esoterica di
113
Buonoconto, richiedeva la presenza di un ermafrodito, l'unica creatura che contenesse
i due elementi in cui è suddivisa tutta la natura. I Greci ritenevano divino
l'ermafrodito, perché figlio della bellezza (Afrodite) e della forza (Ermes).
Naturalmente nel tempo la purezza ideale dell'ermafrodito alchemico s è in parte
smarrita, sostituita dalla più materiale ambiguità del femminiello, ma l'antica
memoria del rito non è andata del tutto smarrita conserva immutata ancora oggi la
forte carica simbolica, che suggestiona a tal punto alcuni soggetti, da fargli provare le
stesse emozioni ed i lancinanti dolori del parto.
Sdraiato sul lettino ed assistito dalle parenti, il femminiello vive le ore del travaglio
ed il momento del parto.
Alcuni soggetti si immedesimano a tal punto nel rituale, da presentare, per effetto di
una profonda quanto inconscia memoria ancestrale, tutti i segni della sofferenza con
un'evidenza sconcertante, dall'accelerazione del battito cardiaco alla sudorazione, dal
pallore anemico alle contrazioni dei muscoli addominali. Durante le doglie le parenti
accompagnano il travaglio con ritmiche litanie, la cui origine si perde nella notte dei
tempi, dal trivolo vattuto, letteralmente dolore picchiato, al classico taluorno, un triste
accompagnamento vocale delle veglie mortuarie, caratterizzato da una lamentazione
ritmica, scandita da colpi portati alle guance dalle due mani contemporaneamente,
mentre la testa oscilla ampiamente avanti e indietro. Nell'acme della figliata, il
femminiello simbolicamente espelle dalle cosce un bambolotto di pezza (di legno a
forma di fallo, secondo Malaparte, che asserisce di aver assistito ad una figliata)
accolto con grande gioia dalle comari, che accolgono trionfante il neofita nella loro
ambigua comunità, offrendo in abbondanza agli astanti vermouth e babà.
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ragazzo travestito
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Cominciò a svilupparsi intorno al 1530 ed in quell'area vennero progressivamente
localizzati tutti i postriboli partenopei. Infine,in un editto emanato nel 1781,
l'Imbrecciata fu riconosciuta come l'unico quartiere dove era ammesso il meretricio.
Nel 1855, per evitare sconfinamenti, la zona fu delimitata da un alto muro di cinta
con un solo cancello d'accesso, presidiato dalla polizia, che faceva cessare ogni
attività poco prima della mezzanotte.
Questa segregazione durò fino al 1876, quando fu consentita la prostituzione anche in
altri quartieri.
Nell'ambito di questo rione off limits vi era una strada frequentata solo dai travestiti,
che si chiamava per l'appunto vico Femminelle, toponimo che tramutò prima in via
Lorenzo Giustiniani ed oggi via Pietro Antonio Lettieri.
A questa strada malfamata dedicò un intero capitolo Abele De Blasio, medico e
scrittore, autore di un ancora letto e consultato Nel paese della camorra.
Un'attenzione resa obbligatoria nel discettare di onorata società perché, già dal
Settecento, tutto il quartiere era caduto sotto il controllo della malavita organizzata.
Sotto la dominazione spagnola, impregnata di un cattolicesimo rigoroso e perbenista,
gli omosessuali erano ghettizzati e tenuti sotto stretta osservazione. Non sappiamo
quanti fossero, ma sappiamo che, se colti in flagranza, venivano puniti.
Il 17 febbraio 1504 Ferdinando III, detto il cattolico, promulgò una legge che
prevedeva pene severe non solo per gli omosessuali, ma anche per chiunque si fosse
abbandonato ad atti di sodomia. Ad aumentare la severità delle sanzioni ci pensò poi
Filippo II, il quale, il 28 luglio 1571, fece approvare una legge, che puniva addirittura
i baroni, se gli stessi, nell'amministrare giustizia nei loro possedimenti, si fossero
dimostrati indulgenti verso i cultori della via aborale.
Soltanto nell'Ottocento, dopo l'Unità, il clima divenne più liberale e Napoli da
capitale di un regno divenne, per anni, capitale dell'omosessualità europea, con una
prostituzione maschile in grado di soddisfare i desideri inconfessabili di ricchi
viaggiatori stranieri provenienti dai quattro angoli del globo, alcuni dei quali celebri
artisti e letterati.
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Un editto da salvare
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IN QUESTO LUOGO DEVONO
FERMARSI I CARRI E LE SOME
CHE FANNO RITORNO DALLA
MATURAZIONE DE CANAPI
E LINI SEGUITA NEL LAGO
DI AGNANO.
PER GLI CONTRAVENTORI HA
STABILITO IL RE D.G. LA PENA
DI DUE MESI DI CARCERE NELLA
PRIMA VOLTA E NELLA SECONDA
QUELLA DELLA PERDITA DE CARRI BOVI E SOME
IL TRIBUNALE GENERALE DELLA
PUBBLICA SALUTE PER ESECUZIONE
DEL SUDDETTO REAL COMANDO E
PER NOTIZIA DI TUTTI HA FATTO
INCIDERE IN MARMO LA PRESENTE
ISCRIZIONE, NAPOLI DA S.LORENZO
LI 23 LUGLIO 1789.
IL SOPRAINTENDENTE E DEPUTATI
DEL TRIBUNALE DELLA GENERALE SALUTE
FILIPPO MAZZOCCHI
MAZZEO D’AFFLITTO DI ROCCA GLORIOSA
IL PRINCIPE DI S. AGATA
GIOVAN BATTISTA CAPUANO
ORAZIO CAPECELATRO
DOTTOR GAETANO DANDOLFI
DOTTOR OTTAVIO M. BUONO
DOTTOR FERDINANDO FARODI
DOTTOR NICOLA GRAZIUSO CONSEGR.
Come si può notare dalle foto, la stele versa in condizioni pietose e certamente non ha
futuro se non si interviene con tempestività e opportunamente.
La scuola nei pressi del monumento, la Silio Italico, è un’autentica schifezza. Cose da
terzo mondo.
In un paese civile, tutta l’area (Piazza Pilastri, l’orrenda scuola, i fabbricati degradati
e – dulcis in fundo – la stele borbonica) necessitano con urgenza di un intervento di
restauro conservativo.
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L’amico Alfonso Pastore si è premurato di informare le autorità competenti,
ricevendo risposte vaghe, che riportiamo, sperando che la vicenda, grazie all’aiuto
dell’opinione pubblica, abbia una conclusione positiva.
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Il leggendario pino di Posillipo tra fotografie e dipinti
tav. 1 - Panorama
Il pino di Napoli (tav.1) era un albero, della specie Pinus pinea (pino domestico), che
fino agli anni Ottanta adornava gran parte delle cartoline con la veduta panoramica
della città di Napoli e del golfo partenopeo, con il Vesuvio a fare da sfondo,
un'immagine che lo ha reso tuttora un simbolo ben noto dell'oleografia napoletana. Si
trovava in prossimità della chiesa di Sant'Antonio a Posillipo (tav.2). In base
all'analisi delle raffigurazioni precedenti, dovrebbe essere stato piantato dopo il 1855,
o comunque divenuto adulto dopo tale data. Nonostante il valore storico, è stato
abbattuto nel 1984 perché malato. Ma dopo l'abbattimento dell'esemplare originario,
un nuovo pino di Napoli è stato piantato nel 1995 da Legambiente, che ogni anno
celebra la ricorrenza dell'evento.
121
E’ stato per anni l’albero più famoso al mondo, quello più fotografato (tav.3-4) e
ritratto nei dipinti di artisti più o meno illustri (tav.5–6). E’ il pino di Posillipo
l’albero che ha accompagnato i ricordi di viaggio di chi si recava a Napoli e
comprava le cartoline da spedire con i saluti. Dalla metà dell’Ottocento, l’albero ha
ascoltato i sospiri degli innamorati e ispirato canzoni e poesie. La Scuola di Posillipo,
coi suoi pittori, costituisce oggi un prezioso documento circa lo “stato dei luoghi” del
Napoletano negli anni di metà Ottocento. Comprese le condizioni paesaggistiche di
Posillipo. Secondo l’autorevole National Geographic, il pino di Posillipo che si
affacciava sul golfo di Napoli, per anni è stato l’albero più famoso d’Italia.
E per farlo conoscere ai nostri lettori vogliamo ispirarci ad un brano di Paliotti, scritto
in occasione dell’abbattimento del celebre pino di Posillipo, immortalato in milioni di
cartoline.
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Fu abbattuto nel 1984, ormai vecchio e ammalato. Aveva resistito 129 anni, ritratto
da pittori e fotografi fino a diventare il simbolo della città.
Un disegno di Giacinto Gigante, senza il pino, permette di stabilirne la data di nascita
sul declivio prossimo alla chiesa di Sant’Antonio a Posillipo.
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tav. 4 - Il pino di Posillipo in una foto
Che tristezza !
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tav. 5 - Veduta-di Napoli con il pino
tav. 7 -Cartolina
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Elogio del ragù
Per le nostre mamme la cucina era il cuore della casa. Vi passavano ore vicino ai
fornelli preparando cibi e inventando nuove pietanze per far piacere ai mariti e
ottenerne l' elogio. Una piccola innocente ambizione di spose e al tempo stesso una
prova di passione casalinga. L'ora di pranzo e l'ora di cena erano il momento dell'
indivisibilità familiare. La tavola era il nostro altare. Intorno ad essa padre, madre,
figli grandi e figli piccoli si componevano in un' unità sacrale. Le vecchie mamme
avevano la fierezza delle brave massaie e anche se si facevano aiutare da una buona
donna di servizio, la guida della cucina spettava a loro, un privilegio a cui tenevano
come a un titolo nobiliare. La donna di servizio badava al governo della casa; in
cucina ci stava solo per dare una mano alla padrona nelle incombenze minori e ne
approfittava per apprendere i segreti dell' arte culinaria. Imparava a controllare la
giusta cottura degli spaghetti, operazione tra le piu' difficili, preparava le verdure,
passava i pomodori a setaccio per la salsa, puliva il prezzemolo, coglieva il basilico
bello fresco dal vaso e spezzava i maccheroni per la "genovese".
Per spiegare cosa vuol dire "spezzare i maccheroni" e cos' è la "genovese", dobbiamo
attingere alla dottrina di Gabriele Benincasa, studioso anche di storia gastronomica.
La parola "maccherone" in origine era il nome generico di una qualsiasi forma di
pasta. Una volta, nell' uso corrente, per maccheroni s' intendeva quella pasta lunga,
tonda con un buco in mezzo. A quei tempi non c'erano né "maltagliati" né i
"rigatoni". C'erano invece le "zite", che si ricavavano dal maccherone tenendolo con
la sinistra mentre con la destra lo si spezzava al punto giusto, in modo da ottenere una
misura uniforme.
Delle "zite" ebbe anche ad occuparsi Antonio Baldini in uno di quegli elzeviri che
pubblicava sul "Corriere" sotto il titolo di Tastiera, un genere di deliziose
divagazioni, ora serie ora scherzose. Quella volta lo scrittore, per far capire meglio ai
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lettori cos' erano i maccheroni spezzati, cambiò il titolo e dalla famosa "Tastiera"
passò all'accattivante "Pastiera". Per la "genovese", piatto tipicamente napoletano, il
discorso e' diverso. Essa non ha niente a che fare ne' con Genova ne' con i genovesi: il
Benincasa azzarda l' ipotesi che l' origine del nome sia dovuta a Ginevra (Gene' ve e
genevoise). A tale conclusione lo studioso e' arrivato ricordando la lunga presenza
delle guarnigioni svizzere al servizio dei Borboni, i quali preferirono sempre gli
svizzeri del Cantone francese, appunto quello di Ginevra. Ufficiali e soldati portarono
così a Napoli le proprie abitudini culinarie come l' uso della cipolla cucinata in varie
maniere a cominciare dalla "soupe a' l' oignon". Infatti nella "genovese" napoletana la
cipolla è la base.
Trascrivo la ricetta, tale e quale, dai "Consigli per la buona tavola alla moglie di un
amico" del grande libraio napoletano Alfredo Casella, amico di Croce, di Anatole
France e di tutta la letteratura italiana. Prima si fa rosolare un pezzettino di cipolla
con una testa di sedano; poi si mette un pezzo di carne nel tegame e lo si riempie di
cipolle tagliate fini facendole consumare a fuoco lento, fino a disfarsi completamente.
Allora si aggiungono un bicchierino di vino bianco e un bicchiere d' acqua e, a chi
piace, una grattatina di noce moscata. Man mano che il sugo si amalgama, diventando
cremoso e di colore biondo dorato, per la casa si diffonde un odorino "da far
resuscitare i morti", come dice Casella. Solo osservando queste vecchie liturgie, le
nostre mamme hanno potuto mantenere i sapori antichi dei cibi, tramandando una
delle piu' preziose tradizioni del Mezzogiorno. Quello per la cucina era un loro vero
amore, fatto di dedizione e di pazienza. Perché senza la pazienza nessuna donna
avrebbe mai potuto preparare un ragù come quello indicato da Eduardo nella
commedia Sabato, domenica e lunedì . Un ragu' infatti puo' durare anche tre giorni. A
causa mia si cominciava a farlo la sera del sabato. La mamma dava l' avvio facendo
soffriggere la cipolla assieme al pezzo di carne nel tegame di creta e riempiendolo poi
di salsa di pomodoro. Quindi chiamava Nennella, la nostra donna di servizio,
incaricandola di badare al ragù . Orgogliosa della missione affidatale, Nennella non si
muoveva piu' dai fornelli. Per ore e ore, seduta su una sedia, girava col mestolo
lentamente nel tegame che andava a fuoco lento, aggiungendo acqua man mano che
la salsa tendeva a farsi densa. A una certa ora smetteva per ricominciare al mattino
della domenica fino al "momento sublime" del ragù . Ma qual è il "momento
sublime"? L'ha descritto nel suo saggio Partenope in cucina un letterato, Mario
Stefanile. E' quando la carne ben cotta e insaporita "ceda al suo sugo ogni sua piu'
lieve e segreta fragranza, rosolandosi, baciandosi, cuocendosi, fino a diventare
tenerissima. E' quello il momento che la salsa si raddensa, si scurisce, perde ogni
asprezza e ogni crudezza e si fa ricca, vellutata, morbida". Il ragù è il profumo di
Napoli, ma è anche il ricordo della domenica, tutti i figli intorno al tavolo con papa' e
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mamma nella stanza da pranzo, con la lampada a scorrimento al centro. Con la pasta
che restava (di proposito se n'era cucinata di più ) si faceva la "frittata" alla sera o per
il giorno dopo. Mia madre diceva che per farla riuscire bene era meglio far "riposare"
i maccheroni conditi, per un po' di ore, in modo che la pasta potesse assorbire il sugo
del ragu' . Nel Sud, la frittata di maccheroni e' considerata il cibo degli angeli. Il mio
ricordo e' legato al trambusto e ai litigi che nascevano fra noi ragazzi quando la
mamma faceva le porzioni. Misuravamo con gli occhi la grandezza delle fette e
cominciavamo a protestare: "Io ne ho avuto meno, lui ne ha di più ...". "Non è vero, la
mia è più stretta!". "La finite o non la finite?", interrompeva dolcemente arrrabbiata
mia madre, ma visibilmente contenta per il nostro desiderio insaziabile. Nella mia
memoria quelle sere restano l'immagine di un'infanzia felice.
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I Luciani un popolo a parte
Per decenni i luciani sono stati un popolo dentro un altro popolo. Gli abitanti di Santa
Lucia, infatti, ci hanno sempre tenuto a rimarcare la loro forte identità, sottolineando
le differenze con i napoletani, o quanto meno la capacità di riassumere, nei suoi
estremi, ogni aspetto del popolo partenopeo. Per esempio si sentivano, loro sì, gente
di mare , che viveva unicamente per il mare e del mare. Le più belle acquafrescaie
venivano da là, così come i marinai più esperti e i venditori di pesce più prelibato, per
non parlare dei più forniti ostricari e dei più astuti venditori ambulanti di polipi,
gamberi, datteri di mare, vongole, conchiglie, cannolicchi e caffettere. E che dire
delle luciane, che potevano essere bellissime, come le più affascinanti dame di corte,
e bruttissime, come misere abitanti dei bassi allora esistenti in città? Nel primo caso,
«sbucano a sciami dai vicoletti e corrono su la via grande, innanzi al mare, così come
si trovano abbigliate, nei mesi di caldo. Belle ragazze robuste, bruno dorate, dai neri e
crespi capelli, dalle corte gonne dalle quali appaiono procaci le ben tornite gambe»,
nel secondo caso, si tratta di «donne mature, tutte rughe, sciatte, vecchie innanzi
tempo, scalze, trascinantisi dietro non meno di quattro o cinque demoni nudi. Talune
hanno enormi pance ballonzolanti, altre, avvolte in cenci, hanno l’apparenza di
contorti tronchi». L’occhio clinico è di Ferdinando Russo, e questa considerazione è
riportata in un suo trattato dal titolo eloquente, appunto, di Santa Lucia, che dopo più
di un secolo di oblio è appena tornato in libreria.
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Questa Santa Lucia descritta da Russo come appariva alla fine dell’Ottocento, «ha
costituito una vera e propria Icona della napoletanità: letteratura, poesia, testi di
vecchie canzoni sembrano averne quasi logorato il ricordo, diluito nelle descrizioni di
genere. Eppure questo testo di Russo, conosciuto per lo più come autore di canzoni e
poesie, forse è la più autentica, la più viva ricostruzione storica e antropologica di un
quartiere e di una filosofia di vita». Non mancano nel libro, ovviamente, aneddoti,
descrizioni di personaggi sui generis e curiosità. Tra queste ultime, addirittura si
scopre che Santa Lucia aveva anche i suoi piatti tipici: il polpo detto appunto alla
luciana, la minestra verde mmaretata e la mulignana c’’o ddoce. Il primo piatto,
racconta Russo, ha un sapore inconfondibile, anche per merito del polpo e di come
viene pulito, bollito e poi condito; per quanto riguarda la minestra verde mmaretata,
anche se si tratta di una pietanza tradizionale, ben nota ai napoletani, «quella
preparata dai luciani è superiore alle altre»; pare che uno dei suoi segreti fosse quello
di usare, per maritare gli ingredienti, code e cotenne di porco salato. La mulignana
c’’o ddoce, invece, ha la particolarità di essere una sorta di timballo di melanzane,
tagliate finissime, e sistemate su uno strato di cioccolata, cedro candito, uva passa.
Tra i personaggi immortalati spicca fra tutti il venditore di ostriche proprietario di un
bancariello sull’allora lungomare, che aveva piazzato il seguente cartello: «Ostricaro
fu Giovanni». «Evidentemente» commenta Russo «il modesto figliuolo aveva avuto
la nobilissima idea di glorificare il venerato genitore e aveva dimenticato di
consacrarne il cognome! Giova chiosarla l’immensità di quella ditta? Quel Giovanni
anonimo, per l’anonimo figliuolo, ha una fama mondiale!».
Per secoli per i luciani i festeggiamenti erano l’occasione per esternare la loro
diversità, allontanarsi anche per un solo giorno da una vita difficile era un momento
di felicità. L’illusione di mutare stato sociale cambiando semplicemente abito.
Nella festa della ‘nzegna gli indigeni si vestivano da re, regina e nobili e dai vicoli del
Pallonetto si portavano verso Piazza del Plebiscito, creando un corteo che imitava
quello reale. Ricevuto l’omaggio del sovrano, che lanciava monete ai componenti
dell’originale processione, proseguivano lungo via Santa Lucia per fare tappa nella
chiesa di Santa Maria della Catena. Quindi si portavano sul lungomare dove si
buttavano a mare alla spasmodica ricerca di una cassa.
Una volta trovata, la festa si concludeva tra un tripudio di fuochi pirotecnici, musica e
danze. Una usanza che è durata fino al periodo laurino.
In occasione di particolari festeggiamenti: nascite, battesimi e matrimoni i luciani
amavano indossare abiti di “gala”. Quelli più ricchi sfoggiavano il cosiddetto
“albernuzzo di telettà”, una specie di cappa, adornato di nastri colorati, mentre i più
poveri avevano calzoni di lino, una camiciola di lana e sul capo un berretto rosso. Le
donne vestivano un corpetto ed un grembiale ricco di merletti, mentre i capelli erano
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acconciati alla spagnola con il “tuppo”, una sorta di chignon. Le donne maritate
sfoggiavano un drappo di seta d’oro, mentre le contadine abbellivano il capo con un
fazzoletto colorato.
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Segni misteriosi sulla pietra
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Armato di taccuino e macchina fotografica, il medico-Indiana Jones s’è fatto tutto il
percorso aragonese. «Naso all’aria», racconta, «confrontandomi con le supposizioni
di chi mi vedeva in giro, cominciai a rivisitare i massi di piperno di altre torri, con i
soli limiti di penetrazione del mio sguardo e della loro dislocazione e accessibilità»
perché gran parte della fortificazione è ormai all’interno di palazzi privati o è stata
abbattuta o è stata sommersa da superfetazioni architettoniche.
L’anamnesi di Raineri è stata scrupolosa ed ha partorito una relazione
documentatissima nella quale si legge il resoconto delle sue esplorazioni nella
metropoli dei segni che avrebbe fatto la felicità di un Roland Barthes in cerca del
grado zero della testimonianza operaia. «Niente scorsi sui massi della piccola Torre
Duchesca a vico Santa Maria a Formiello», scrive, «né sulla vicina Torre Sant’Anna.
Porta Capuana ed il tratto di mura tra Torre Onore e Torre Gloria fu ricchissimo di
reperti, visibili ad occhio nudo e ad altezza d’uomo. La stessa scarsezza di risultati
l’ebbi per porta Nolana, anche se la grafia di quello che può sembrare un’intera
parola sconosciuta, alla base della Torre Fede, mi ha lasciato sconcertato».
Oltre che sulle torri aragonesi, i segni lapicidi sono presenti in Campania sull’abbazia
di San Guglielmo al Goleto e sulla cattedrale di Sant’Antonino a Sant’Angelo dei
Lombardi e sull’abbazia di Santa Maria di Realvalle a Scafati.
Ma in una metropoli perennemente affollata e costruita su se stessa, ogni angolo
racchiude un segreto, un messaggio, una pietra parlante. «L’importante è cominciare
a capirne la lingua», commenta Raineri, che, molto probabilmente, è solo quella del
lavoro.
Al fianco di scritte pseudocriptiche, ve ne sono altre, perfettamente leggibili, ma delle
quali ci sfugge il significato, come quella che s’incontra nel porticato del chiostro
dell’ex dimora dei Caracciolo, i cui locali sono stati utilizzati negli ultimi anni dai
giudici di pace per i loro uffici.
Cogliamo l’occasione per descrivere il mastodontico edificio che ospita la scritta,
posto sull’ultimo tratto di via Tribunali, l’unico in stile tardo gotico ed unico che
ricorda l’architettura catalana.
L’edificio era stato disegnato dal grande architetto dell’arca funebre di re Ladislao a
San Giovanni a Carbonara, Andrea Ciccione, e ne sopravvissero, come si vede, l’arco
d’ingresso, il pianterreno del primo chiostro e la porta della sala di ricevimento, in
origine sacello gentilizio di Sergianni e fino al diciottesimo secolo ricchissima
cappella, detta “il tesoro”, dove si nominavano i nuovi magistrati del vicino tribunale.
Oggi, ad abitare il complesso, è il Comune di Napoli con i suoi uffici, sezione San
Lorenzo, quartiere Forcella. Al primo piano i corridoi con gl’infissi in legno e le
vetrate mostrano ancora il disegno ospedaliero. Qui erano ricoverate persone fino a
pochi decenni fa: gli ultimi anziani pazienti ne sono usciti nel 1970.
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Il Lazzaretto, sala maestosa, sgombra dai letti o dai pagliericci che si dovevano usare
per appestati, malati di tifo ed altri pazienti colpiti da epidemia, è un trionfo di luce.
Una separazione architettonica con timpano distingue la corsia dalla sala chirurgica o
gabinetto medico.
Oggi, al posto dei tavoli anatomici, c’è una piccola sala conferenze su cui troneggia
una lapide dedicata a Mariano Semmola. Tutta la sala del Lazzaretto è circondata a
mezza altezza da una lunga balconata da cui passare cibo e rimedi ai malati con cui
non si poteva entrare in contatto. Qui si curavano, tolte le epidemie, le diffusissime
malattie veneree e della pelle (nel 1888 vi fu istituito un reparto dermoceltico).
Pochi anni fa in questa sala, infinitamente lunga ed infinitamente alta, sessanta metri,
per dieci, per sei, è stata girata una fiction dedicata al medico santo Giuseppe
Moscati, interpretato da Beppe Fiorello. Due anni fa, con la venuta a Napoli, in
occasione del Napoli Teatro Festival, del grande regista spagnolo Enrique Vargas, il
Lazzaretto diventò spazio teatrale, oscurato ed irriconoscibile, un lungo ventre di
balena dove si avveravano visioni felliniane, gomitoli di cotone e ragnatele, morti e
voci del passato e feste mobili che avvolgevano lo spettatore in un’esperienza
irripetibile: un bell’esorcismo per un luogo del potere diventato luogo di sofferenza
ed infine, luogo d’arte.
Il bellissimo palazzo, che era stato simbolo del potere di Sergianni Caracciolo su
Napoli e sulla regina Giovanna II, sede di feste ed intrighi, manifesto della potenza
degli uomini nuovi sulle antiche dinastie, acquistato dai frati Ospedalieri nel 1587,si
trasformò in ospedale, per necessità. Giaceva in abbandono da un secolo, infiltrato da
case private, tanto che le liti fra vicini produssero un morto, come testimonia la lapide
minacciosa,ancora oggi presente, voluta da un diffamato, in un lato del cortile: «Dio
m’arrassa da invidia canina da mali vicini, et da bugia d’homo dabbene». Questa
frase si presta a varie interpretazioni: potrebbe essere una preghiera od una delle tante
invocazioni scaturite dalla filosofia dei napoletani. Viene anche citata dal Chiarini ed
una leggenda vuole che se i frati dell’ospedale avessero tolto la targa, il possesso
della donazione sarebbe passato all’ospedale Incurabili.
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01-Mario Buonoconto
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03-chiesa del Gesù nuovo
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06-porta Capuana
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09-segni, particolare della foto n08
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12-sala del Lazzaretto
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15-Ospedale Santa Maria della Pace, Achille della Ragione 17 marzo 2007
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Sanremo impazza. I neomelodici stravincono
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In epoca recente molte melodie hanno affrontato il tema della latitanza e dei pentiti,
descritti come il male assoluto da combattere con ogni mezzo.
Lisa Castaldi in “Femmina d’onore” tratta il ruolo assunto dalle donne nella camorra,
mentre Gianni Vezzosi ci fornisce un ritratto reale quanto spietato del killer.
Da questi cantanti dai capelli colorati, dal petto depilato e dal volto sempre
abbronzato si potrà pure sorridere, ma dai loro testi, intrisi di malinconia e di
esaltazione, si può apprendere della napoletanità più che da decine di editoriali scritti
da giornalisti paludati ma spesso poco informati.
O’ killer
Accomencio a ‘jurnata
facenn male
a chesta città.
‘Ncopp a motocicletta
co’ casco mise
e pronto a ‘ sparà,
u’ sang fridd
e senza pietà
me siente stanco
bastardo e perduto già
(Gianni Vezzosi)
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Mergellina ed il lungomare più bello del mondo
Celebrata nei secoli per la sua bellezza da pittori e poeti, la zona è stata
completamente modificata dalle colmate che hanno avanzato la linea costiera nella
seconda metà del XIX secolo, trasformando l'antica via Mergellina, che correva lungo
la riva del mare a partire dalla Riviera di Chiaia, in una strada interna su cui
affacciarono i nuovi palazzi di stile eclettico del viale Elena, oggi viale Gramsci.
Mergellina(in napoletano Margellìna) è una zona della città di Napoli, nel quartiere
Chiaia, che si estende tra il largo Sermoneta e la Torretta, lambendo Piedigrotta e la
Riviera di Chiaia. Si trova in riva al mare, ai piedi della collina di Posillipo. Il suo
stesso nome è legato alla posizione sul Golfo: deriva infatti forse dal termine
"mergoglino" (uccello acquatico), oppure prende nome da Mergoglino, un giovane
pescatore che si era innamorato di una sirena.
L'ultimo intervento sul lungomare di Mergellina fu negli anni Trenta del XX secolo,
quando fu realizzata la colmata che permise il prolungamento di via Caracciolo (che
divenne il nuovo lungomare di Mergellina) fino al largo Sermoneta e dunque a via
Posillipo. Sulla colmata nel 1939 fu posta la fontana del Sebeto.
Dal porticciolo di Mergellina (un tempo di pescatori, oggi turistico, con il molo Luise
che funge da luogo di passeggio sul mare) partono quotidianamente gli aliscafi per le
isole del golfo.
Mergellina è caratterizzata anche dalle rampe di Sant'Antonio, sistemate dal viceré
Medina de Las Torres nel 1643, che salgono dal limite nord di piazza Sannazaro e
prendono il nome dalla chiesa di Sant'Antonio a Posillipo, situata sulla loro sommità.
Sono inoltre presenti l'antica Fontana del Leone (detta anche del Mergoglino) lungo
via Mergellina, l'ottocentesca Fontana della Sirena in piazza Sannazaro e la chiesa di
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Santa Maria del Parto, fondata (su un podere avuto in dono da Federico d'Aragona)
dal poeta Jacopo Sannazaro, ivi sepolto. Il tempio si trova al di sopra di rinomati
ristoranti meta per i buongustai della città e non, tra i quali spicca il rinomato
Carminuccio a Mergellina celebre taverna di pescatori a conduzione familiare.
Mergellina occupa lo spazio incluso tra l’inizio di via Posillipo e la fine della Villa
comunale nei secoli è sempre stato tra i più belli della città. Non è soltanto il nostro
parere, ma anche quello di illustri poeti e scrittori del passato che lo hanno affermato,
da Plinio a Tacito, da Boccaccio a Goethe, da D’Annunzio a Virgilio, che vi abitò
stabilmente, scrivendo, ispirato dal clima dolcissimo e dal paesaggio irripetibile, le
Georgiche, un inno immortale alla vita ed alla natura.
Oggi purtroppo come tanti angoli della città è stato devastato dal traffico incessante,
una serie infinita di bancarelle, i cartelloni pubblicitari ed una frequentazione poco
raccomandabile.
Un tempo vi erano soltanto laboriosi pescatori, con le loro barchette, indispensabile
strumento di lavoro, sulla spiaggia ed allegri tarallari, che offrivano a napoletani e
turisti i loro prodotti, appena sfornati, croccanti e saporiti.
Via Caracciolo è la lunga e larga promenade di Napoli: un lungomare che parte da
Mergellina e arriva a piazza Vittoria, fiancheggiando la Villa comunale e la Riviera
di Chiaia, antica spiaggia della città.
Il suo nome ricorda l'ammiraglio Francesco Caracciolo, eroe della Repubblica
Partenopea, impiccato nel 1799 da Nelson all'albero maestro della sua nave e gettato
nelle acque del golfo di Napoli, il cui cadavere riemerse e fu raccolto sul litorale di
Santa Lucia.
Solitamente strada a scorrimento veloce, ma con ampi marciapiedi per passeggiare,
fare sport e respirare aria di mare, la strada si popola di famiglie, bambini, sportivi,
saltimbanchi e artisti di strada nelle saltuarie domeniche in cui viene chiusa al
traffico, e dedicata allo svago dei cittadini.
Fino alla fine dell'800, il mare giungeva quasi fino ai palazzi della Riviera di Chiaia;
poi si decise di colmare la spiaggia, creando questa nuova strada, dedicata
all'ammiraglio napoletano del Settecento, uno dei personaggi della Rivoluzione del
1799. Le scogliere presero così il posto della sabbia, eccezion fatta per alcuni lembi
di spiaggia sopravvissuti, in corrispondenza delle celebri rotonde. Creata su una
colmata nel 1869-80, la grande strada è considerata una delle più belle litoranee del
mondo e corre fino a Mergellina con visioni panoramiche sulla città e sulle colline
del Vomero e di Posillipo.
È separata dal mare solo da alcune scogliere artificiali, che hanno preso il posto delle
antiche spiagge di cui restano solo alcuni frammenti in prossimità delle rotonde; un
progetto del Comune di Napoli prevede per il futuro la ricostituzione dell'arenile.
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Dotata di ampi marciapiedi, veniva chiusa al traffico e dedicata allo svago dei
cittadini la domenica. Attualmente, la strada è aperta al transito veicolare in entrambe
le direzioni con due corsie per senso di marcia con annessa pista ciclabile sul lato
mare. Il tratto di strada che va da Piazza della Repubblica fino alla confluenza di
Viale Dhorn (comunemente chiamata "rotonda Diaz"), è dal 6 maggio 2013 area
pedonale. A metà percorso si apre la rotonda Diaz, un ampio spazio circolare detto
così per la presenza del monumento equestre al generale Armando Diaz, opera del
1936 di Francesco Nagni e Gino Cancellotti, affiancato da due grandi fontane
circolari.
Costruita nel 1883 è ritenuta una passeggiata da favola, non solo dagli indigeni, ma
anche da illustri personaggi del passato e dai turisti, che ancora si avventurano a
visitare la città.
In precedenza la costa era caratterizzata da un susseguirsi di piccole spiagge, anfratti
rocciosi e piccole rade, mentre affianco alle poche casette di pescatori, dominavano
solenni dei pini secolari.
La città con la creazione della nuova arteria acquistò in modernità, ma dovette
perdere un paesaggio bucolico impareggiabile.
Un discorso a parte merita il mercatino dell’antiquariato, che si svolge in alcuni fine
settimana nei vialoni della Villa comunale, un appuntamento vivace che, nato in
sordina, ha conquistato in breve tempo la fiducia dei collezionisti napoletani e
soprattutto ha fatto avvicinare alla passione per l’antico ampie fasce di neofiti. La
merce esposta è la più varia: mobili e ceramiche, quadri e vasi, croste e cianfrusaglie,
tappeti, statue, cartoline, manifesti, libri antichi e moderni, telefoni d’epoca e
giradischi rotti, e chi più e ha più ne metta. Ogni tanto ci scappa l’affare per
l’intenditore, più spesso capita l’imbrusatura per chi si avvicina per la prima volta a
questo tipo di mercatini.
Gli espositori non sono solo napoletani, ma vengono da tutta la Campania ed anche
da altre regioni.
Qualche domenica, con il sole ed il divieto di circolazione, la folla è straripante e gli
affari per i commercianti vanno a gonfie vele.
I libri antichi dalle preziose copertine sono offerti in numerose bancarelle e l’occhio
del conoscitore spesso riesce a fiutare il pezzo di pregio sfuggito allo stesso
commerciante. Molto è anche il ciarpame e tutta una serie di cose inutili che sembra
incredibile possa trovare un acquirente, ma molti sono i frequentatori di bocca buona
ed alla fine ogni oggetto, se ha pazienza, trova la sua collocazione.
Le vendite sono facilitate dall’atmosfera incantevole di una splendida villa baciata dal
mare, l’elemento regolatore della visibilità e della vivibilità dell’intera città e della
spettacolare via Caracciolo, la strada, senza false modestie, più bella del mondo.
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Via Caracciolo, la regina tra le strade napoletane, si sviluppa per buona parte del
lungomare napoletano, congiungendo Mergellina alla zona di S. Lucia, protraendosi,
pur cambiando denominazione, fino a via Acton.
La zona di S. Lucia è una delle più belle ed eleganti della città di cui rappresenta
un’efficace sintesi di storia e costume. Dall’isolotto di Megaride dove Lucullo
imbastiva sfarzose tavolate con pranzi succulenti alla mole imponente del Castel
dell’Ovo, fino al Chiatamone, al Pallonetto ed al Borgo marinaro palpitanti di vita,
dove nell’Ottocento si accalcavano caratteristici venditori di acque sulfuree nelle
originali mummarelle e di freschissimi frutti di mare.
Un luogo dove nel nono secolo a. C. nasce la stessa città di Napoli, anche se l’aspetto
odierno è quello determinato dalla coraggiosa colmata verso il mare, eseguita nei
primi anni del Novecento, che ha permesso di acquistare spazio vitale.
Ed inoltre una miscellanea di personaggi dalle dive del caffè chantant ai
contrabbandieri, da impeccabili viveur ad artisti e scrittori, oltre a personaggi
leggendari: Zi Teresa, Marotta e Ranieri ed i grandi della Terra riuniti nei grandi
alberghi per il mitico G7.
Riportiamo una nostra lettera, pubblicata dai principali giornali nazionali: “Amore,
non 6 un sogno, ma una splendida realtà, perciò posso sognarti”, questa frase è incisa
su uno scoglio di via Caracciolo e leggendola anche io ho voluto sognare ed ho
immaginato la strada più bella del mondo trasformata in un’arteria ad otto corsie con
una spiaggia lunga chilometri e decine di migliaia di bagnanti accorsi da ogni angolo
della Terra a rosolarsi al sole.
Un sogno malizioso, ma non proibito, che potrebbe diventare realtà con una spesa un
decimo di quella preventivata per la bonifica di Bagnoli, se una volta tanto politici e
mass media facessero fronte comune per assicurare alla città una risorsa prodigiosa in
grado, oltre al prestigio planetario, di assicurare migliaia di posti di lavoro ed un
futuro ai giovani costretti ad un esodo di dimensioni bibliche.
E su questa bellezza che tutti ci invidiano, concludiamo, per la gioia dei
neoborbonici, con una favoletta.
Un bambino passeggia in compagnia dei genitori sul celebre lungomare e chiede al
padre perché al famoso ammiraglio è stata intitolata una strada così importante.
“Perché era un martire del ’99 figliolo” - risponde il padre – “e cosa ha fatto per
divenirlo?” – chiede ingenuo il pargoletto – “ha tradito il suo re!”.
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Elogio del Pomodoro: L’oro rosso del Sud
Quando ero ragazzo facevo i bagni a Lucrino, al Lido Napoli e verso l’ora di pranzo,
mi spingevo verso la spiaggia libera, dove, salendo alcuni gradini si trovava la casa di
un vecchio artigiano, il quale, appena mi vedeva, mi salutava togliendosi il cappello e
mi invitava ad entrare: “vuoi favorire?” Accompagnato da un sorriso affabile.
Non mangiava mai né carne, né pesce, ma sempre un’insalata mista: cipolle, basilico,
peperoni, qualche oliva, qualche acciuga, ma soprattutto pomodori, tanti, tantissimi
pomodori che stesso lui produceva nei pochi metri quadrati che circondavano la sua
casetta, in compagnia di tre secolari alberi di ulivo.
Con grande pazienza rubava la terra ai sassi, rafforzava muretti, livellava il terreno,
sbriciolava zolle, piantava canne ed annaffiava, con parsimonia, i suoi amati
pomodori.
Per lui il pomodoro costituiva il cibo più prelibato, non la salsa, né la pasta o il riso,
che considerava eccessi da signori, ma da solo, puro, con un po’ d’olio e un po’ di
sale.
Il pomodoro è il frutto supremo del Mediterraneo, indorato, accarezzato dai raggi del
sole, che favoriscono lo sviluppo della polpa, sostanziosa, in cui affondare i denti, la
pelle delicata, i semi, il profumo, il colore rosso come il fuoco. Mangiandolo si può
assaggiare il sapore del sole, trasformato per incanto in una pianta.
Insieme al cattolicesimo, ha costituito l’essenza della nostra civiltà mediterranea,
stemperando gli eccessi ascetici della religione, invocando indulgenza per i nostri
peccati, non solo di gola, ricordandoci che noi siamo, in primo luogo, dei corpi.
Oggi i pomodori di una volta non esistono più, quelli che vengono portati a tavola, in
qualsiasi regione, hanno quasi tutti la stessa forma, mentre il vero pomodoro ha forme
diverse, complicate, con spaccature e screziature multiple e talvolta generose
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espressioni barocche, che tanto piacevano ai pittori napoletani del seicento, tanto abili
nel trasfonderli sulla tela da farci percepire il gusto saporoso.
Con la fine del pomodoro tradizionale abbiamo perso molto più di quanto
immaginiamo, una volta la polpa, il succo ed il colore entravano nel cervello,
irrorandolo, come il pomodoro veniva irrorato e penetrato dal sole.
Dobbiamo consolarci al pensiero che, sull’altra sponda del Mare Nostrum, dalla quale
oggi ci dividono anacronistici scontri di civiltà, pomodori eccellenti come quelli di
una volta, vengono coltivati nelle oasi del Sahara, vicino alle palme. Lì per fortuna
l’acqua è poca, le rare sorgenti scorrono pigramente, per inabissarsi tra le profondità
del deserto.
L’Italia è tra i massimi produttori dell’oro rosso, ma consumiamo gran parte di ciò
che nasce dalle nostre fertili terre, specie al Sud.
L’Olanda è la maggiore esportatrice, nel 2012 ne ha venduto all’estero per quasi 2
miliardi di euro, nonostante il terreno destinato alla coltivazione è di soli 1700 ettari,
a fronte delle superfici italiane di 16.000 ettari, mentre quello da inscatolare supera i
75.000.
Fino alla metà dell’ottocento i maccheroni e gli spaghetti si mangiavano solo in
bianco, cosparsi di formaggio. Quando si cominciò ad operare la salsa, sorse la
difficoltà delle forchette, le quali avevano solo tre denti ed afferravano la pasta
facendo scivolare il condimento. Perciò incoraggiato da Ferdinando II di Borbone, il
ciambellano di corte inventò una forchetta a quattro rebbi, molto più efficace.
Prima dell’arrivo della salsa di pomodoro, per dare un sapore aspretto ai sughi si
adoperavano le arance.
Cirio, il primo a mettere i pomodori in scatola, nel 1856, fu Francesco Cirio,
manovale piemontese di Nizza Monferrato. Impiantò un’industria a Torino nel 1867 e
presentò i suoi prodotti all’Esposizione Universale di Parigi e iniziò a esportare in
tutto il mondo (il re Umberto I gli diede la “Commenda della Corona d’Italia”). Nel
1981, però, l’azienda fallì provocando il crollo del Credito Mobiliare, principale
finanziatore. Francesco Cirio allora emigrò a Napoli e nel 1894 aprì la nuova sede a
San Giovanni a Teduccio. Nel 1990, anno della sua morte, l’azienda da lui fondata,
era la più importante d’Europa.
Negli Stati Uniti, gli americani tassavano la verdura ma non la frutta, fatto che aveva
acceso una disputa intorno alla vera natura del pomodoro. Così il 10 Maggio 1893, la
Corte Suprema degli Stati Uniti stabilì che il pomodoro era una verdura e, in base alla
cosiddetta «legge bastarda» del 1893, andava tassato al 10%. Sentenza sbagliata, i
pomodori, essendo il prodotto della fecondazione dell’ovario, rientrano in pieno nella
definizione botanica di «frutto».
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Attraverso tecniche d’ incrocio delle specie e combinando differentemente il licopene
e la clorofilla presente sulla buccia, si sono ottenute colorazioni diverse: pomodori di
colore marrone scuro (Nero di Crimea), verde-avorio (Green Zebra), rosso- arancio
con striature bianche (Tigerella) e viola (Sun Black).
Nei laboratori dell’università della Florida, a Gainesville, è nato il pomodoro perfetto:
rosso intenso, profumato, saporito e resistenti agli effetti deleteri della refrigerazione
e del trasporto. I ricercatori hanno prima centrifugato i vari tipi di pomodoro coltivati
nelle serre americane, ne hanno estratto i composti aromatici e li hanno quantificati e
classificati. In seguito hanno sviluppato ibridi che esaltassero al massimo il meglio,
riducendo al minimo il peggio.
Harry J. Klee, responsabile dell’èquipe di ricerca, è convinto che tra 4-5 anni il
prodotto sarà pronto per la coltivazione a fini commerciali.
In conclusione mi permetto di avanzare una timida proposta. Non vi è da qualche
parte un audace imprenditore, capace di far rinascere i pomodori? Non ci vogliono
grossi capitali, soltanto semi eccellenti, poca acqua, tanto sole, diligenza, attenzione e
tanto tanto amore.
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ARTE NASCOSTA, ARTE DISPREZZATA
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02-Teatro romano di Neapolis, capitello
Cosa lega i “bassi” di Napoli a Nerone? Era lì il teatro in cui debuttò l’imperatore
romano che amava recitare. Finora solo una porzione è visibile, come spuntata per
miracolo fra gli altri caseggiati che lo circondano, ma a breve ricominceranno gli
scavi ed entro il 2015 avremo una visione più completa.
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Riportare alla luce quello che tutti chiamano “il teatro di Nerone” è particolarmente
difficile proprio perché, a cominciare dai Greci, che qui avevano l’acropoli e l’agorà,
tutti si sono insediati in questi vicoli. Non c’è casa che non nasconda in un vano
sotterraneo qualche traccia del teatro. La “media cavea”, il settore centrale
dell’edificio, è stata riportata alla luce con relativa facilità perché spuntava da uno
spazio libero diventato discarica. Se ne conosceva l’esistenza dall’Ottocento ma solo
nel 2004 il Comune e la soprintendenza sono intervenuti insieme per acquisire locali
tutt’intorno ed eseguire una ricerca sistematica, disegnando quella che era
l’estensione originaria: un edificio che poteva ospitare circa 5000 spettatori.
Quanto oggi è visibile comprende uno spicchio della “media cavea”, tre gradini della
sottostante “ima cavea” ed i grandiosi vani di accesso. Si entra da via San Paolo e si
prosegue nel cortile di un palazzo cinquecentesco per sbucare infine all’aperto dove
ci sono le gradinate. Tutto intorno, tracce di marmi colorati, di affreschi e resti
riconducibili a scuderie, cisterne, tipografie, forni: vecchie e nuove botteghe che si
sono avvicendate tra via San Paolo e vicolo dell’Anticaglia. «E’ uno di quei
monumenti attraverso il quale si può leggere gran parte della stratificazione edilizia
partenopea. Secondo il progetto di recupero il teatro non verrà isolato da quanto è
stato costruito intorno; cortili, archi, soffitti, resteranno a testimoniare l’evoluzione di
un intero complesso urbano, con uno scopo ambizioso: riqualificare il centro storico e
consentire agli abitanti di riappropriarsi della storia del quartiere e della città».
Per tutti questo è il teatro di Nerone (al potere dal 54 al 68 dopo Cristo). Ma lo è
davvero? Le fonti letterarie concordano nel collocare a Napoli la prima esibizione in
pubblico dell’imperatore, che interpretava brani di tragedie accompagnandosi con la
cetra. Aveva scelto per il suo esordio questa città perché manteneva tradizioni greche
e vi si apprezzava chi preferiva arte e musica alle guerre di conquista, lontano dai
severi senatori dell’Urbe che ritenevano poco virile l’educazione ellenica per i
giovani romani, e ancor di più le esibizioni sul palcoscenico dell’imperatore.
L’edificio in corso di scavo però non è quello che ospitò Nerone perché le tecniche
edilizie e le ceramiche risalgono a qualche decennio più tardi. Tuttavia «non si può
escludere l’esistenza di un edificio precedente, forse di dimensioni più ridotte e con
un diverso orientamento».
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05-Anfiteatro romano di Pausylipon
06-Purgatorio ad Arco
I prossimi interventi riguarderanno uno scavo di circa sei metri per raggiungere il
piano dell’orchestra e, grazie ad espropri di ambienti che si affacciano di fronte ed a
155
lato della cavea, si potrà ritrovare ciò che si è conservato della scena originaria. Il
“fronsscenae” era una quinta prospettica rivestita di marmi colorati che comprendeva
nicchie e statue. Di sicuro i materiali pregiati saranno stati asportati già anticamente
ma, in passato, è stato ritrovato un bel capitello e «dalle nuove ricerche potrebbero
emergere ulteriori elementi architettonici delle decorazioni».
Un’altra struttura teatrale misconosciuta è sita a Posillipo, in proprietà privata, e,
nonostante sia perfettamente conservata, nessuno può visitarla. Una rarità
archeologica negata alla fruizione. Quanti napoletani conoscono la misteriosa Grotta
di Seiano o hanno mai sentito parlare del grandioso teatro della Gaiola?
Solo da qualche anno la grotta è stata restaurata ed i visitatori hanno così potuto
riscoprire l’intatta bellezza della Cala di Trentaremi, la suggestione del percorso nella
penombra della cripta fino alla luce della verdeggiante valletta della Gaiola,
l’imponente mole del teatro, il paesaggio straordinario del golfo che si domina dal
porticato accanto all’Odeon.
Un altro percorso affascinante è costituito dalla parte sottostante alla chiesa del
Purgatorio ad Arco, ricca di dipinti barocchi, dedicata al culto delle anime del
Purgatorio.
Questo è probabilmente l’edificio napoletano più affascinante e misterioso del centro
antico, riconoscibile per la presenza, davanti alla facciata principale, di tre teschi in
bronzo intrecciati, come da tradizione, con altrettante coppie di tibie (il quarto fu
rubato e mai più ritrovato agli inizi del secolo scorso), sistemati su quattro paracarri
di pietra.
Importanti sono i tesori contenuti nel sottostante ipogeo: un’area cimiteriale del XVII
secolo dove sono conservati teschi, ossa, nicchie sepolcrali ed antiche sepolture nella
terra, oltre ad un’innumerevole quantità di “ex voto”, cioè lettere ed oggetti vari
lasciati in dono, per esaudire una richiesta o come ringraziamento per una grazia
ricevuta. E non mancano, tra questi, le richieste di suggerimenti molto più prosaici di
numeri da giocare o da suggerire nel sempre popolare gioco del Lotto. L’itinerario
serale, indubbiamente all’insegna della fugace e labile frontiera tra religiosità e
superstizione e tra fede e credenza popolare, non potrà che avere il suo massimo
motivo d’attrazione nella cosiddetta Terrasanta, cioè il terreno dove venivano
seppelliti i defunti in attesa del Paradiso. Vi domina, in un loculo appena illuminato,
il piccolo teschio, coperto da un velo nuziale, della giovane Lucia D’Amore, figlia
del principe di Ruffano Domenico D’Amore, morta nel 1798 in un naufragio
abbracciata al suo sposo, il marchese Giacomo Santomago, o deceduta, più
banalmente, di tubercolosi.
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08-Tempio della Scorziata
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nobili di Napoli, dai Mastrilli, che la fecero costruire, ai Carmignano, i Caracciolo ed
i Muscettola.
La chiesa della Scorziata, in vico Cinquesanti, è dedicata alla presentazione di Maria
al Tempio. Fu fondata con annesso conservatorio nel 1579 da tre nobildonne
napoletane, Giovanna Scorziata e Lucia ed Agata Paparo.
Nel XVIII secolo il complesso fu oggetto di rifacimento che le conferì l’attuale
aspetto e nel XX secolo fu affidato all’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento
all’Avvocata.
Già dal 1993 tante le devastazioni ed i furti all’interno della chiesa, dove furono
razziate opere d’arte di gran valore.
In alto, sull’altare in totale degrado, che un tempo doveva ospitare l’immagine di una
Vergine, s’erge l’icona dipinta di una donna. Una figura inquietante, il ritratto di una
ragazza seduta, ricoperta di abiti ottocenteschi, nello sguardo un che di diabolico, i
capelli corvini, il seno nudo ed un crocifisso nero tra le dita. Un’icona che si staglia
su un enorme drappo all’interno del semidistrutto Sacro Tempio della Scorziata, una
delle tante chiese negate del centro storico di Napoli. L’opera è stata installata diversi
giorni fa e porta la firma di Zilda, noto streetartist di Rennes, considerato il “Bansky
francese”. Lo stesso Zilda, già presente a Napoli con diversi “graffiti“ tra piazza
Bellini e Santa Chiara - oggi distrutti o rimossi dal maltempo - ha confermato che
l’opera è la sua e che si tratta di una rielaborazione del quadro “Meditazione” di
Francesco Hayez.
Si svela così l’enigma legato ad recente raid nella Scorziata da parte di alcuni giovani
stranieri. L’allarme era scattato lo scorso 21 gennaio quando due ragazzi avevano
chiesto aiuto a carabinieri e polizia dopo che un gruppo di “strani turisti” s’era
intrufolato nell’edificio con telecamere e macchine fotografiche. Il gruppo era
composto da quattro ragazzi ed una ragazza, d’origine francese.
Gli intrusi nel monumento alle spalle di piazza San Gaetano, già devastato da un
incendio il 17 gennaio 2012, avevano dunque “fini artistici” e non erano né predatori
d’arte, né satanisti. Anche all’esterno della chiesa, sulla cancellata, è stato appeso un
ritratto di donna, più piccolo di quello all’interno, alla cui base è stato avvolto un
drappo verde. Un’altra immagine straniante, il cui significato è tutto da interpretare.
Un tentativo, forse, di dare un po’ di “colore” ed una briciola di senso ad un luogo
d’arte lasciato nella più vergognosa distruzione da più di trent’anni, con infiltrazioni
d’acqua ovunque, macerie sparse al suolo, ed alle cui spalle si ergono le rovine di un
ospizio per anziani abbandonato durante il sisma dell’80. Un regno di devastazione
capace, ad ogni modo, di far restare ancora a bocca aperta.
A lasciare stupiti non c’è solo il dipinto sull’altare ma, soprattutto, vi è un affresco
raffigurante la Crocifissione di Cristo, ritratto in mezzo alla Madonna e San Giovanni
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dolenti, d’autore ignoto, che sta letteralmente scomparendo nell’umido e pericolante
ipogeo della chiesa.
L’edificio della Scorziata è forse l’emblema del degrado nel centro storico.
Nonostante questo, nessuno ha pensato di andare a guardare o a salvare
quell’immagine antica che potrebbe raccontare un’altra storia di Napoli, fatta d’arte
antica, ben prima dell’avvento dei moderni streetartist.
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frate Alfonso. Una loro foto è conservata amorevolmente da Attanasio che l’ha
decorata con la coroncina di un rosario. «Li ho sempre tenuti qui con me» confessa.
«Questa loro foto la porto a Soccavo dove, tra qualche giorno, i nuovi locali saranno
già pronti e potrò quindi trasferirmi». I tempi per salvare gli arredi che, sempre
secondo la relazione della soprintendenza, «rappresentano un interessante esempio di
artigianato locale in stile Impero», stringono. «Diciamo che abbiamo tempo fino a
fine mese» chiarisce il dottore. «Chi vuole non perda tempo, si faccia avanti». Anche
il pavimento, marmo raro ormai introvabile, andrebbe salvato. Potrebbe essere più
difficile collocarlo, ma è anch’esso un pezzo della storia del quartiere Stella. Chissà
quanti passi incerti, frettolosi e ansiosi, l’avranno calpestato, cercando e aspettando
un rimedio che scaturisse da quelle scansie, alleviando il dolore di un giorno o di una
vita».
14-Fra' Nicola
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I Quartieri Spagnoli tra tradizione e tentazione
I Quartieri Spagnoli, con la loro forma squadrata a reticolo, stretti tra via Toledo e
corso Vittorio Emanuele, nascono nel Cinquecento per decisione dell’illuminato
Vicerè Don Pedro di Toledo, che stabilì di acquartieravi le sue truppe, lì dove era
tutto un trionfo di gelsi(‘e cieueze), luogo ideale, tra le fresche frasche di
appuntamenti clandestini e mercenari.
Una sorta di predestinazione del suo futuro, caratterizzato da una sessualità
promiscua. Più che il cuore della città, come spesso vengono definiti, ne costituiscono
le visceri, ribollenti delle passioni di una popolazione viva e solare. Il terremoto del
1980 ha costituito una sorta di cesura tra passato e presente, con i segni del sisma
ancora presenti come una cicatrice sanguinante ed una mutazione antropologica dei
residenti, che hanno lasciato il passo a numerosi immigrati.
Una strada dal nome accattivante la percorre parallelamente a via Toledo, da via
Sergente Maggiore, dove erano localizzati i più rinomati casini della città, fino alle
propaggini di Piazza carità.
Le numerose traverse restituiscono l’anima più segreta della napoletanità e molte
portano nomi graziosi: Giardinetto, Tre Re, Tre Regine.
In passato, quando in tutta Europa i palazzi avevano pochi piani ed i grattaceli
nessuno nemmeno li immaginava, i forestieri rimanevano stupiti per l’altezza degli
edifici, che davano l’impressione di voler sfidare il cielo.
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Lauro, dopo la costruzione del nuovo Rione Carità voleva trasformare i Quartieri
Spagnoli in una nuova City, ma non vi riuscì e dopo di lui hanno tentato altri
speculatori in veste di filantropi, ma le antiche case stanno ancora lì incastonate l’una
al fianco dell’altra, con uno spazio utile alla circolazione, che si riduce giorno dopo
giorno, tra la spazzatura ubiquitaria, cassette della frutta e vasche di pescivendoli,
oltre allo spazio di cui si appropriano abusivamente gli abitanti dei bassi, che limitano
con paletti e catene lo spazio per parcheggiare auto a motorini. Una stretta mortale
che impedisce di accorrere alle ambulanze ed ai mezzi dei pompieri, come quando
nel 1985 un rovinoso incendio sterminò una famiglia senza che nessuno potesse
aiutarli.
Durante l’ultima guerra affluivano in massa i militari Americani in cerca di prostitute,
sono gli ultimi “turisti” che si sono avventurati tra questi vicoli, anche se sono sorti
alcuni Bed & Breakfast ed ogni tanto si avventura qualche forestiero alla ricerca di
emozioni.
I Napoletani si spingono meno timorosi e frequentano i due antichi teatri: Il Nuovo e
la Galleria Toledo o degustano cibi tradizionali in alcune accorsate trattorie. Il
massimo che può capitare è uno scippo, mentre del tutto assenti sono le sparatorie,
per il serrato controllo sul territorio operato dal clan Mariano.
Da poco, con l’apertura della stazione Toledo della Metropolitana, con l’ardita uscita
svincolo di Montecalvario, ci si sente più legati alla mobilità, anche se i passeggeri
che sfruttano questa opportunità sono un numero esiguo, non più di 200 al giorno, a
fronte dei 10000 della stazione a valle. Vi sono più persone (bel 1600) nella
gigantesca installazione fotografica di Oliviero Toscani che adorna la piattaforma
mobile, che utenti del nuovo mezzo di comunicazione.
Una presenza momentaneamente simbolica, ma che rappresenta un valido
investimento per far sentire il quartiere come presenza viva e palpitante della città.
Napoli ha ora la stazione più bela d’Europa, un luogo magico ed affascinante da cui
non vorresti mai uscire, che ti folgora per il tripudio di colori presi dal mare, dal
cielo, dal sole. Anche tutte le altre stazioni sono luoghi di bellezza ed arte che
stupiscono e coinvolgono, favorendo incontri e riflessioni. Non ascolteremo mai
questa notizia in televisione, né la leggeremo sui grandi quotidiani, impegnati
quotidianamente a sottolineare solo gli aspetti negativi.
Il quartiere è stato sempre famoso per i Femminielli, personaggi leggendari, fragili e
sfacciati allo stesso tempo.
I femminielli, appunto. Eroi di vita e di leggenda. Esseri fragili e forti che ancora
resistono in questo labirinto per altri versi (e ci arriveremo) dedicato ai riti strazianti
ed esaltanti della fertilità. Qui c'è ancora la Tarantina, vive in un basso di vico Lungo
Gelso. È stato il mito della sconnessa dolce vita napoletana, ma anche di quella
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cinematografica romana, quella di Federico Fellini, Marcello Mastroianni, Pier Paolo
Pasolini, Alberto Moravia, ma anche di un distinto Goffredo Parise. La Tarantina, al
secolo, Carmelo Cosma, a marzo compirà 78 anni ed è stata l'ape regina dell'universo
LGBT, lesbiche, gay, bisessuali e transgender, quando ancora non li chiamavano
così, ma, se andava bene, solo e sempre femminielli. La Tarantina ha raccontato la
sua vita di misteri gloriosi in un libretto uscito in autunno (stampato da Onde Corte:
«La Tarantina e la sua"dolce" vita»). E niente altro vuole aggiungere su quel mondo
trasgressivo e tollerante, popolare e aristocratico, trucido e intellettuale che si è
dissolto da decenni. La frattura fu il terremoto dell' Ottanta, con una camorra accecata
dall’arricchimento immediato e dall’arrivo a vagonate di eroina e poi di cocaina.
Anche Esmeralda, molto più giovane della Tarantina, rimpiange il tempo perduto,
come un’Albertine lacera e lacerata. È seduta al tavolino di un caffè e sorseggia
l'ennesima tazzina, insieme alle arniche di segreti e di pettegolezzi, in un vicolo dove
si fanno strada gli scooter, in sciame ronzante e i furgoni affumicanti dei commerci
senza sosta.
È difficile sfuggire all’oleografia a buon mercato quando si mescola una dose di
Patroni Griffi, un'altra di Mastriani, qualche frame di Quentin: Tarantino o di un
poliziottesco anni Settanta, una spruzzata di note dell' archiviata new wave vesuviana,
si agita con lo sciroppo neomelodico e l’aperitivo è servito.
Si vedono le sale scommesse che spuntano come funghi. Si vedono gli altarini
popolari che si alternano alla street art di Cyop&Kaf. Si vedono auto parcheggiate in
spazi privatizzati che non lasciano un angolo libero dove piazzare un bidone della
raccolta differenziata. Si vedono scalini alternati a basolato, e insieme s’inerpicano
verso San Martino che spunta, come in uno stordente gioco a nascondino, un vicolo sì
e uno no. Si vede l'alveare che di sera si svuota di ragazzi tatuati con la cresta e
ragazze alliccatissime con una preferenza per il corvino e lampadato: si avventano in
scooter su Chiaia e Toledo a far vasche da centauri senza casco. L'altra città o la vera
città.
Ma poi, se ti aggiri in questa foresta pietrificata di tufo e piperno, vedi che il crollo è
all' ordine del giorno, gli edifici storici sbarrati sono più di quelli aperti. È chiusa
persino la stessa Speranzella in un mondo che di speranze ne avrebbe bisogno assai.
Ii nome ufficiale dell'anagrafe storico-ecc1esiatica è Santa Rita della Speranzella,
perché qui si venera la risolutrice dei casi impossibili. «E sbarrata da mesi per lavori.
Ora è chiusa, ma prima quante messe e quante feste, soprattutto per santa Rita. La
monaca di Cascia è invocata da chi vuole un figlio, sebbene la vera salvatrice delle
donne apparentemente sterili ha il suo tempio poco lontano: è santa Maria Francesca
delle Cinque Piaghe, patrona dei Quartieri, nata e vissuta qui nel Settecento. Fatta
santa da Pio IX, poco dopo l'Unità d'Italia, è festeggiata il 6 ottobre. In quel giorno,
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ma anche il 6 di ogni mese, nella piccola chiesa di vico Tre Re a Toledo, un edifico
ad angolo che, se non lo cerchi, passerebbe inosservato, c'è la processione delle
aspiranti puerpere. Tutte smaniose di accomodarsi per qualche minuto sulla sedia che
fu della santa. È ritenuta miracolosa. Vi si sedeva Maria Francesca per cercare
sollievo ai dolori e alle piaghe. Chi si accomoda ora chiede, invece, una grazia, recita
la sua preghiera e poi a casa, presumibilmente, non si astiene dalle pratiche umane,
troppo umane, necessarie, ma evidentemente non sufficienti. «Ne arrivano da
tutt'Italia. Si sfogano narrando della loro inesauribile voglia di maternità. Si
confrontano. Le hanno tentate tutte. Proviamo anche con le Cinque Piaghe, non si sa
mai. E non poteva esserci luogo più appropriato dei Quartieri per i riti della fertilità,
perché la vita qui è prorompente e bambini, soprattutto di pomeriggio, ne vedi
dovunque. Nascono tutti qui. Qui, dove le mamme ,le matriarche che non la fanno
buona a nessuno, sono giovanissime e le nonne, spesso e volentieri, hanno passato da
poco i quarant’anni, hanno la stessa età delle pellegrine che, sedute, invocano la
grazia di poter preparare pappine e cambiare pannolini.
Sacro e profano sono pane quotidiano in questo scorcio della Napoli devota alla vita.
Fino a non molti anni fa era consuetudine affidare i neonati alle braccia dei
femminielli, perché era ritenuti di buon augurio: una forma antifrastica di
iniziazione? E chi lo sa? Non bisogna farsi troppe domande. La verità, quassù, ama
travestirsi. L'apparenza può tutto. Del resto anche la Lili Kangy della canzone
omonima, che tutti pigliavano per francese o per spagnola, era nata al Conte di Mola,
uno dei leggendari vicoli appesi a mezza collina. L'insegna della strada è quasi
nascosta dai tubi di un palazzo in restauro, uno dei pochi, perché ne avrebbero
bisogno tutti, per eliminare, almeno dalle facciate, la patina della zella. Alle targhe
toponomastiche fanno concorrenza i cartelli scritti a mano o stampati che,
gentilmente o minacciosamente, invitano a non depositare monnezza in ogni angolo.
Anche perché, dicono in coro da ogni basso, 'e scupature, quando pure vengono,
stanno seduti a leggere il giornale. Gli spazzini hanno sempre gli occhi puntati
addosso. Le avvisaglie di ogni crisi della monnezza sono avvertite prima nei
Quartieri. Epicentro delle emergenze. E allora gli abitanti fanno scivolare la zella giù
a Toledo, restituiscono con gli interessi quanto hanno preso. Per quanto possano
essere spagnoli, sono pur sempre quartieri napoletani. Ne hanno viste di ogni colore e
hanno imparato qualsiasi lingua, a cominciare da quella bastarda dei marinai
americani che, fino a buona parte degli anni Ottanta, si addentravano nei vicoli
ruffiani, in cerca di piaceri carnali ambosessi, per finire ubriachi e in mutande sotto
un androne. E mentre tra i vicoli il sound neomelodico è sommerso dai ritmi meticci
l’allegria trionfa sulla malinconia e la vita, faticosamente, continua.
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Consiglio di consultare in rete “Il misterioso mondo dei femminelli” e “I riti della
fertilità” contenuti nei tomi I e II del mio libro: Napoletanità, arte, miti e riti a Napoli.
femminielli in pensione
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Tradizioni per la festa di Sant Antonio Abate
“’E cippe” ‘e Sant’Antuono ed il Sud si accende di magia tra i riti ed i miti, che, nati
da una contaminazione tra paganesimo e cristianesimo, continuano ad avere una salda
tradizione, vi sono gli imponenti falò, i cosiddetti fucaroni, i quali, non solo a Napoli,
ma soprattutto in provincia, dall’Irpinia al Salento, celebrano Sant Antonio Abate,
fondatore del monachesimo e protettore degli animali da stalla e da cortile.
Essi sono la lampante dimostrazione del persistere di un’Italia contadina, attaccata ad
cultura semplice e genuina, che non si è fatta assorbire dalle sirene della modernità.
Questi eventi lignei sono collocati tra il solstizio d’inverno e l’equinozio di primavera
e, salvo rare eccezioni, trovano collocazione nella notte tra 16 e 17 gennaio.
Ad esempio a Cascano di Sessa Aurunca si preparano enormi ceppi ed il fuoco arde
impetuoso nella notte, mentre la popolazione consuma le rituali coccetelle (piccoli
pani rotondi) e menestrelle (legumi cotti lentamente in apposite pentole di coccio). Il
tutto generosamente annaffiato da un ottimo vino rosso, antico vanto del paese. Il
fuoco nelle feste contadine prevede l’offerta, mentre a Napoli il sacrificio. Non
rappresenta la gioia per qualcosa che accadrà, ma la speranza che non accada.
In provincia vi è una lunga e meticolosa preparazione all’avvento mentre a Napoli in
tutti i vicoli si bruciano improvvisati falò: vecchie sedie, tavoli sgangherati e tutte le
suppellettili lignee. E’ evidente la volontà purificatrice.
Da bambino ricordo che mi spaventavo nel vedere in un cortile dove si affacciavano
delle finestre della mia casa di Salvator Rosa le fiamme arrivare ai secondi piani per
ore, mentre uomini e donne sembravano assatanati e si davano ad urla sguaiate miste
ad implorazioni religiose.
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Tra le tante località dove la cerimonia viene celebrata in maniera spettacolare vi è
Novoli a Sud di Lecce, dove la tradizione risale al XV secolo e fa venire in mente il
lavoro certosino delle formiche. Alla costruzione della gigantesca architettura conica
partecipano 100 maestri pignai, i quali passano le fascine ai costruttori fino a dar
luogo ad una struttura alta 25 metri, che costituisce il falò più alto del Mediterraneo.
Contemporaneamente vi è un fantasmagorico spettacolo pirotecnico e concerti di
musica popolare in grado di attirare 60-70 mila persone da tutto il Salento.
Un po’ più a Nord a Grottaglie l’omaggio ardente viene riservato oltre che al monaco
ad un altro Santo Egiziano: Ciro, il cui culto fu portato a Napoli nel 1707, anche qui
si predispone una struttura cupoliforme sulla cui sommità si pone una grande icona
del Santo.
Dal Salento ci portiamo in Irpinia, nella valle dell’Ofanto, a Nusco, famosa per aver
dato i natali al ministro De Mita, dove, oltre alle fiamme, persiste la tradizione di
allevare dei porcellini, che poi daranno luogo a delle crapulente orge alimentari, in
memoria dionisiaci dell’antica Grecia. Vi sono poi gare di balli di tarantella
montemaranese e sfilate di diavoli, a simboleggiare quelli che tentarono il Santo
durante il suo eremitaggio nel deserto. La cenere viene poi raccolta e sparsa nei
campi per garantirne la fertilità.
Nella provincia di Napoli dobbiamo ricordare i grandi falò di Somma Vesuviana e
Cicciano, anche qui allietati da balli e poderose mangiate con annesse libagioni.
Infine l’ultima tappa di questo tour ci porta in Molise, dove a Castelnuovo al
Volturno, il fuoco viene appiccato l’ultima domenica di Carnevale, quando nel buio
della sera va in scena l’antichissimo rituale dell’uomo cervo, riconducibile alle
mascherate greche, romane e sannite. Tra suoni di campanacci, urla di janare
(streghe nel dialetto locale) che danzano attorno al fuoco, esplode il grido “gl’cieru!
Gl’cieru” e dalla montagna l’uomo cervo accompagnato dalla cerva, rappresentazione
del male, che inizia ad incutere timore, fino a quando un cacciatore uccide 2 feroci
creature.
Sono tutte testimonianze ancora molto sentite dalle popolazioni locali, che
ripropongono l’antico messaggio del fuoco che brucia, chiudendo l’inverno e dando il
benvenuto alla primavera, stagione propizia per le campagne.
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L’epopea de Il Mattino
Quando nasce il Mattino in città vi è una vera e propria “Cascata di piombo” con la
presenza di ben 10 quotidiani, oltre a numerosi periodici, per un totale di 72000 copie
al giorno vendute su una popolazione di 500.000 abitanti, di cui soltanto 100.000
sapevano leggere. Il Roma vendeva 20.000 copie, Il Corriere di Napoli 15.000, Il
Pungolo 8.000, Il Piccolo 4.000: In poco meno di 10 anni Il Mattino raggiunse una
tiratura di 33.000 copie. Sono cifre sbalorditive, tenendo conto che già all’epoca era
diffusa la lettura “a sbafo” ed i saloni di barbiere, oltre a sede di discussione, erano
frequentati da decine di persone interessate unicamente a dare uno sguardo al
giornale. Lo stesso capitava nei numerosi circoli cittadini dove i soci, trascorrevano
ore in una vera e propria rassegna stampa tra le varie testate.
Il Mattino fu fondato il 16 marzo del 1892 da Edoardo Scarfoglio, 32 anni, giornalista
e poeta di ispirazione carducciana e dalla moglie, Matilde Serao, 36 anni, scrittrice. i
due sposati nel 1885 costituivano una coppia affiatata, avendo lavorato assieme per 4
anni nel Corriere di Napoli, del ricchissimo banchiere livornese Matteo Schilizzi,
ricordato da un enorme monumento funerario in stile egizio a via Posillipo.
Essi investirono la liquidazione di 86.000 lire per dar voce alla nuova testata, che,
come quasi tutti i giornali partenopei stabilì la sua sede operativa in Vico Rotto San
Carlo all’Angiportico Galleria, dove rimase fino al 1960, per trasferirsi poi in via
Chiatamone 65, dove si trova attualmente.
I collaboratori furono sin dall’inizio firme illustri: Ferdinando Russo alla cronaca,
Roberto Bracco alla critica teatrale, Corrado Ricciper l’arte ed alla critica letteraria
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Federico Verdinois, il quale pochi anni prima, al “Corriere del Mattino” aveva ideato
una pagina completamente dedicata alla cultura, in notevole anticipo su Alberto
Bergamini, ufficialmente ritenuto il creatore della terza pagina, quando nel 1901,
dedicò un intero foglio del “Giornale d’Italia” alla prima della Francesca da Rimini al
teatro Costanzi di Roma.
Sin dalle prime copie il lettore correva a leggere i fondi firmati Tartarin di scarfoglio
ed i Mosconi, firmati Gibus di Donna Matilde. un modello, imitato da molti altri
giornali fino ai giorni nostri, che si caratterizzava per la varietà dei temi, trattati in
maniera disincantata ed irriverente.
Negli anni altre firme prestigiose collaborarono con Il Mattino: Carducci, Giacosa,
Nitti e lo stesso D’Annunzio, con il quale anni prima a Roma Scarfoglio si era sfidato
a duello, per poi divenire amico.
Pubblichiamo il primo editoriale di Scarfoglio il quale, al vertice degli impegni della
testata pone la difesa dei diritti del Mezzogiorno:
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giornalistica ha trovato di più perfetto e di più potente, è già pronto. Questo piccolo
miracolo di celerità mi pone in grado di rispondere pienamente, sin dal primo giorno,
alla grande simpatia che il pubblico meridionale mi ha dimostrato; e di riprendere,
senza una esitazione né un dubbio, la via che ho dovuto per poco tempo interrompere.
La via è lunga e scabrosa: ma il mio coraggio è grande, e la mia buona volontà
infinita!
il Mattino rappresentò una vera e propria novità per scelte culturali. Sin dal secondo
numero comparsero in appendice romanzi come Bell Ami di Guy De Maupassant i
Fratelli Karamazov di Dostovskij, Pierret di Honorè De Balzac ed il Trionfo della
morte di Gabriele D’Annunzio.
Matilde Serao
Il Vate
175
Interessante è anche leggere la prima teorizzazione del superuomo di Gabriele
D’Annunzio comparsa il 25 settembre 1892.
La forza è la prima legge della natura, indistruttibile, inabolibile. La disciplina è la
superior virtù dell’uomo libero. Il mondo non può essere costituito se non su la forza,
tanto nei secoli di civiltà quanto nelle epoche di barbarie. Se fossero distrutte da un
altro diluvio deucalionico tutte le razze terrestri e sorgessero nuove generazioni dalle
pietre, come nell’antica favola, gli uomini si batterebbero tra loro appena espressi
dalla Terra generatrice, finché uno, il più valido, non riuscisse a imperar sugli altri.
(…)
La forza è dunque ancora la suprema legge. E così deve essere ed è bene che così sia
fino al termine dei secoli. L'eguaglianza e la giustizia sono due astrazioni vane, e le
dottrine che ne derivano sono inaccettabili dagli uomini superiori. L'aristocrazia
nuova si formerà dunque ricollocando nel suo posto d'onore il sentimento della
potenza, levandosi sopra il bene e sopra il male. Secondo la dottrina di Federico
Nietzsche, una fra le ragioni del general decadimento sta in questo: che l'Europa
intera ha ricevuta la sua definitiva impronta dalla nozione del bene e del male presa
nel senso della morale degli schiavi. Due sono le morali: quella dei "nobili" e quella
del gregge servile (...).
Ma purtroppo la morale degli schiavi ha vinto l'altra. Questa morale dunque non è che
l'istinto del gregge. Gli uomini superiori, lasciando agli ingenui i tentativi di
migliorare le sorti della moltitudine e di praticare la virtù cristiana della carità,
intenderanno tutti i loro sforzi a distruggerla. Giova forse prolungare la vita dei
miserabili? A che? Preoccuparsi della folla a detrimento dei «nobili» non sarebbe
come trascurare gli arbusti più vigorosi, in una selva, per curare qualche virgulto
povero di linfa o qualche erba vile?
Gli uomini saranno divisi in due razze. Alla superiore, elevatasi per la pura energia
della sua volontà, tutto sarà permesso; alla inferiore, nulla o ben poco. La più gran
somma di benessere sarà per i privilegiati, che la loro nobiltà personale farà degni di
tutti i privilegi.
176
Il Mattino fu un giornale battagliero, aggressivo coraggioso, ostile al
parlamentarismo e al movimento operaio, interprete degli umori del ceto medio
pronto ad appagare le cause del meridionalismo.
La linea del giornale si precisò, peraltro, in senso imperialistico, colonialistico,
filogermanico, militarista in politica estera; si qualificò come molto vicina a interessi
agrari e finanziari e ostile alle rivendicazioni del movimento operaio, ma badando
sempre a tenersi su linee più o meno governative. Non era, però, tutto oro quello che
riluceva. La vicinanza del giornale ad alcuni equivoci ambienti cittadini e a gruppi
politico-amministrativi molto discussi non giovò né al giornale, né al prestigio dello
stesso Scarfoglio. La vivacissima presa di posizione contro i governi di fine secolo e
la loro linea autoritaria e repressiva e la intransigente difesa della libertà di stampa
giovarono, tuttavia, alla crescita del giornale che nel primo quindicennio del ‘900
attraversò la sua fase più felice.
«Il Mattino», dalle 13.000 copie degli inizi, giunse allora a 70.000, superando tutti gli
altri giornali napoletani e meridionali e collocandosi al quarto posto fra quelli di tutta
Italia. Le sue caratteristiche rimasero, nel complesso, e con poche innovazioni, quelle
che ne assicurarono il primo successo. In quegli stessi anni la voce del giornale
napoletano risuonò molto ascoltata a Roma e nei più influenti circoli nazionali di vari
settori; ed era da questa voce che si deduceva «quel che si diceva a Napoli». La salda
struttura ormai assunta dal giornale consentì anche di superare la scissione della
Serao dal giornale, di cui era stata a lungo ispiratrice e protagonista; e il fatto che la
sua concorrenza non nuocesse al giornale del marito è, a suo modo, una conferma
della solidità raggiunta dal «Mattino». Fu, infine, pure allora che il giornale si
identificò più che mai col tipo di cultura prevalente nel Mezzogiorno, e coi ceti,
specialmente borghesi, più sensibili a quella cultura, che fu detta «scarfoglismo», e
che non fu il meglio della storia intellettuale ed etico-politica del Sud.
La guerra di Libia nel 1911-12 sembrò dare soddisfazione alla linea del giornale. La
vittoria del blocco popolare, massonico e riformatore nelle elezioni amministrative di
Napoli del 1914, che ruppe un lunga egemonia del blocco clerico-moderato,
dimostrò, però, che le cose non andavano per «Il Mattino» come i suoi successi
facevano sperare, né le tirature del giornale superarono più il tetto delle 60-70.000
copie. La posizione neutralistica e filo-germanica assunta allo scoppio della guerra
segnò, infine,.una netta battuta d'arresto delle sue fortune.
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una venditrice di giornali nel 1951
L'opera di Scarfoglio, scomparso nel 1917 (a soli 57 anni), fu proseguita dai figli
Paolo e Carlo. Dopo la guerra essi appoggiarono il fascismo e Mussolini, ma ciò non
li salvò dalla manomissione fascista di tutta, in pratica, la stampa italiana. Il giornale,
che nel 1924, come nel 1898, difese strenuamente la libertà di stampa, finì, con altri
giornali napoletani, nelle mani del Banco di Napoli e di alcuni privati fra i quali
l'armatore Achille Lauro.
All'indomani del fascismo e della nuova guerra un'altra testata, il «Risorgimento»,
sostituì quelle già in vita a Napoli. Poi, dopo un po', «Il Mattino», in cui Lauro non
aveva più parte, riprese le pubblicazioni, e ritrovò negli anni '50, sotto la direzione di
Giovanni Ansaldo, fortune editoriali e autorevolezza. Dopo di lui, il cammino non fu
facile, anche perché si è sempre privilegiata una linea troppo vicina e positiva rispetto
ai poteri e all'establishment locale. Roberto Ciuni seppe, però, dare alla testata nuovo
e grande vigore. Nel terremoto del 1980 il giornale ritrovò i suoi accenti migliori e fu
davvero la voce del Sud. Seguirono di nuovo anni meno vigorosi, finché nella
tempesta politica del 1992-1994 ci si ritrovò, e non - per caso, in forti difficoltà, che
la, pur breve, direzione di Sergio Zavoli aggravò non poco. Dopo, è cominciata, una
risalita, che prosegue tuttora, condizionata da una crisi generale della «carta
stampata» e dalle fortune di inserti napoletani dei maggiori giornali italiani, ma che
salvaguarda un grande patrimonio di memorie di identità napoletana, indubbiamente
simbolo e segno della vitalità napoletana.
La coppia fondatrice si separò nel 1902. la Serao fondò un nuovo quotidiano: Il
Giorno. Scarfoglio pagò la sua opposizione alla guerra e si congedò dai lettori il
178
1917. Nello stesso il 6 ottobre morì, Il Mattino uscì listato a lutto ed a piena pagina:
Tartarin è morto.
Quando il 25 luglio del 1927 se ne andò donna Matilde, tutta Napoli seguì il suo
funerale lungo tutto il percorso tra la sua casa alla Riviera di Chiaia fino al cimitero
di Poggioreale.
Lynotipe
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Fattura e malocchio, non è vero ma ci credo
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in contemporanea sul limone, che lentamente appassiva, assumendo una consistenza
lignea, mentre la vittima cominciava ad avvertire i terribili sintomi previsti dalla
fattura.
Per rendere più efficace il maleficio si adoperava un’immagine antropomorfa di cera
sulla quale si infilzavano sottili spilloni, che inducevano di riflesso atroci dolori nella
vittima, fino alla definitiva liquefazione della bambola che veniva gettata nel fuoco,
provocando la morte del soggetto.
Solo la fattucchiera che aveva preparato la formula mortale poteva annullare il
maleficio ed a volte la si riusciva a convincere, pagando grosse somme di denaro.
Possiamo constatare che nelle fatture “buone” nel rituale sono presenti sempre 4
elementi fondamentali: terra, acqua, fuoco ed aria, mentre la presenza di vittime
viventi, siano animali o uomini, dà luogo ad un rito mortale.
Le vecchie fattucchiere sono state oggi degnamente sostituite dalle zingare ed una di
queste mi ha rivelato dei segreti resi noti per la prima volta.
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maglia con il tessuto interno per tre volte. Si usa anche la fede: la riscaldi, la passi
sull’occhio per tre volte.
Non possiamo concludere il capitolo senza un cenno alla figura del “sicciaro”,
termine adoperato per indicare una figura che porta sfortuna e che ha avuto una
magistrale trasposizione cinematografica da parte di Totò nell’episodio dall’afrore
pirandelliano della “Patente”. Questi individui vestono sempre di nero il colore del
liquido spruzzato dalla seppia, il quale è alla base di un gustoso piatto della tradizione
marinare partenopea: “’e linguine c’’o niro ‘e seccia”. E non appena avvistati dal
popolino sono oggetto di scongiuri e toccamenti vari, dal ferro alle corna, ma il vero
napoletano utilizzerà un qualcosa che mai lo abbandona e crederà di salvarsi
strofinandosi energicamente i genitali, memoria ancestrale dei riti priapici e poderosi
contenitori di seme vitale.
A Napoli il pesce, oltre a contenere importanti principi vitali (fino agli omega 3, oggi
tanto di moda), è il termine con cui si indica anche l’organo sessuale maschile ed è un
simbolo del mare da cui per secoli è dipesa la possibilità di mangiare, per la
popolazione.
Il dito e il corno
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Napoli capitale delle arti sanitarie
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«Un'esposizione senza precedenti nel suo genere» la definisce Gennaro Rispoli,
fondatore e direttore del museo, «che offre al visitatore la possibilità di godere del
racconto, caratterizzato da un tono divulgativo e a tratti ludico, dell'incredibile storia
della cure rivolte alla dentatura degli uomini, dal Seicento al Dopoguerra». Gli
Incurabili come luogo di questa esposizione non è stato scelto a caso, perché è
proprio nella cittadella sanitaria di Caponapoli, dedicata alla cura dei malati sin dal
Medioevo, che alcuni protagonisti della storia della medicina, come Filippo Ingrassia
e Marco Aurelio Severino, hanno riconosciuto per primi una dignità scientifica a
quella che fino ad allora era una pratica considerata di secondo piano. Sempre agli
Incurabili, poi, un altro luminare della medicina, Domenico Cotugno, alla fine del
'700 si interessò ai nervi mandibolare e linguale, e alla relazione esistente tra il dolore
al dente e quello all’orecchio.
E del resto proprio a Napoli, quasi un secolo prima, nel 1632, il barbiere Cintio
d’Amato aveva pubblicato il “Nuova et utilissima prattica”, ossia il primo libro in
lingua italiana in cui la materia odontoiatrica è trattata in maniera molte estesa
indipendentemente dalla medicina generale e dalla chirurgia, affrontando soprattutto
gli aspetti igienici ed estetici, compresi i suggerimenti per il trattamento delle gengive
e il modo di mantenere i denti bianchi e senza tartaro. Ma Napoli detiene altri primati,
anche più recenti, nell’ambito della cura dei denti: qui nel dopoguerra si insegnò per
la prima volta in Italia la chirurgia maxillo-facciale, mentre nel 1957 parola prima
vera campagna di igiene orale senza precedenti nel resto del Paese.
Ma ciò che colpisce di più è la mostra, con l’esposizione inedita degli strumenti un
tempo utilizzati dal dentista. Grazie alla ricchissima "Collezione Gombos" è possibile
osservare - con un misto di terrore mettendosi nei panni di chi ha avuto mal di denti
prima di noi, ma anche di sollievo per averla scampata bella - centinaia di pezzi tra
macchinari d'epoca, antichi ferri per estrazione, attrezzature rare, campioni di caucciù
usati un tempo come resina per le protesi, vecchie stampe, fotografie, libri e,
ovviamente, denti di ogni foggia e provenienza. «Certi ferri del mestiere erano di una
brutalità incredibile» sottolinea Fernando Gombos, «basti pensare al pellicano, uno
strumento che si inseriva tra le radici da estrarre e, facendo leva sul mento o sui
tessuti circostanti, strappava letteralmente il dente. Oggi è una passeggiata, le nostre
paure di andare dal dentista sono solo un retaggio culturale».
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La figura del cavadenti in una terracotta del presepe
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«Lo scritto di Cirillo è un vero e proprio consulto» precisa Armone Caruso, «datato
20 aprile 1780. La lettera, dalla grafia minuta, si compone di quattro pagine, ed è
indirizzata a una donna, appartenente molto probabilmente a una casata allora ben in
vista. L'importanza della scoperta, oltre che per desumere le conoscenze mediche di
allora, consiste anche nell'unicità, al momento, di pervenire a uno scritto "sui generis"
del Cirillo: difatti, a differenza di Domenico Cotugno, di cui ci sono pervenuti
numerosi consulti e testimonianze, su Cirillo era impensabile fino ad oggi anche solo
pensare di poter recuperare un documento del genere».
Nella lettera ritrovata, Cirillo risponde alle richieste di cura di una nobildonna, la cui
nazionalità è ancora ignota ma presumibilmente si tratta di una donna italiana che, in
base a una prima analisi del testo, dopo una gravidanza ha contratto un virus e
lamenta la paralisi degli arti inferiori. il medico non si sottrae alla richiesta e così
organizza una terapia per farla guarire, consigliandole siero di latte, un emetico, un
lassativo e dei bagni agli arti inferiori.
Si tenga conto che Cirillo, oltre che per le sue competenze botaniche e la sua
partecipazione alla Repubblica partenopea, era un medico che, pur operando nel
Settecento, si ispirava a un’etica professionale che solo di recente ha trovato ampia
diffusione. «Cirillo si può considerare un medico ante-litteram, anche per quella sua
visione della sanità che cerca di rendere sempre più umanizzata, mettendo al centro di
ogni intervento il paziente, la sua sensibilità, la sua condizione psicologica prima che
fisica. Se si pensa che oggi, per portare avanti questo principio, si tengono addirittura
dei corsi universitari di umanizzazione della sanità, si capirà ancor di più quanto sia
importante questa scoperta».
La lettera sarà esposta prossimamente nell'apposita"Sala Cirillo" costituitasi presso il
museo delle Arti Sanitarie e di Storia della medicina dell' ospedale Incurabili, nell'
ambito del quale Armone Caruso è il coordinatore del gruppo dedicato al medico
napoletano. «Questa sala del Museo è stata concepita proprio con l'intento di
promuovere la figura di Cirillo, quale esponente di una cultura . scientifica e medica
di indiscusso valore nel panorama nazionale e internazionale, cercando quindi di
mettere in luce gli aspetti poco noti di colui che è stato un grande medico, un illustre
scienziato, un botanico di fama e un eroe».
Tra i prossimi progetti di ricerca storico-medica, ideati e curati dal museo delle Arti
sanitarie e dal Gruppo Cirillo, ci sono convegni scientifici e appuntamenti artistici di
diverso genere, ma tutti accomunati dal perseguimento di una opera di salvaguardia e
di valorizzazione del patrimonio scientifico-culturale cittadino, soprattutto attraverso
la ripresa e la restituzione di quei personaggi, come Cirillo, che nella storia hanno
contribuito a decisive conquiste per l'umanità.
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Domenico Cirillo studioso e botanico ritratto in una stampa d'epoca
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Il mito romantico dei briganti
«Il popolo, in Italia, è abitualmente dedito alla lettura dei poemetti in cui sono
ricordate le circostanze notevoli della vita dei banditi più famosi: gli piace ciò che vi
è in quella di eroico, ed esso finisce col nutrire per loro un’ammirazione assai vicina
al sentimento che, nell’antichità, i Greci provavano per alcuni loro semidei.»
Così Stendhal, di passaggio per l’Italia, annotò nel suo saggetto I briganti in Italia,
confluito nell’opera Passeggiate romane pubblicata nel 1829. Non fu immune, il
francese, che pure dai briganti fu rapinato sulla via Appia, dal fascino che costoro
esercitavano sui letterati del Grand Tour: nelle loro memorie si cristallizzava il mito
romantico del fuorilegge, diventato un topos letterario negli scritti di Irving , Byron e
Scott che definirono l’immagine eroica del brigante: uomo di indomata indole che
difende i ceti più deboli contro i soprusi dei potenti. La genìa dei Robin Hood, degli
Zorro, la Primula Rossa, Fra Diavolo è tutta riconducibile a questo prototipo di
difensore delle povere genti: un uomo che un tempo viveva nel consesso civile ma
che, per un torto subito, si rifugia nei monti, nel fitto delle boscaglie, da dove sferra
attacchi sanguinari ai suoi nemici, mosso, il più delle volte, da personalissimi motivi
più che da un progetto politico.
La costruzione romantica del mito del brigante obbedisce in realtà a una cornice
narrativa in cui si ripetono i medesimi schemi. Così le gesta banditesche diventano
miti astorici, la cui suggestione dura tutt’oggi.
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Un capitolo a parte costituiscono le storie di donne che si diedero alla macchia per
seguire i loro uomini. Fra costoro, di straordinaria bellezza, c’è la casertana
Michelina di Cesare che nel 1863 sposò il bandito Francesco Guerra, diventando così,
da meschina ladra di capre, leggendaria regina di briganti. Si rifugiarono, i due sposi
malandrini, sulle colline di Vallemarina; di qui piombavano a valle, depredavano le
abitazioni dei “galantuomini” di San Castrese o del celebre possidente Cordecchia,
finché il ministero dell’Interno sguinzagliò sulle loro orme il generale Pallavicini, il
più noto cacciatore di briganti. Ne scaturì battaglia ferocissima, con tanto di
dispiegata artiglieria, nei pressi di Roccamonfina. I disperati si rifugiarono nelle
cavità degli alberi secolari, furono scovati e uccisi. Il cadavere di Michelina, con una
messinscena di raffinata ferocia, venne esposto sotto il sole su un carrello nella piazza
di Mignano: era Domenica, e quel cadavere penzolante servì da monito alle genti che
andavano a messa, tra cui molti simpatizzavano per i briganti che catalizzavano la
rabbia antipiemontese e le nostalgie borboniche degli uomini del Meridione.
L’ostensione del cadavere di Michelina fu in realtà l’ordinaria espressione della
repressione delle autorità, la cui ferocia non era minore di quella brigantesca.
Ruffiani e cacciatori di taglie (celebri quelli al soldo dei Dogi veneziani) praticavano
facilmente il taglio della testa. Un vile manutengolo, per scampare la galera, promise
la testa dei briganti Giacomo Purra e Giuseppina Gizzi al sindaco di Bracigliano:
spiccò la testa dei due amanti con un coltello da macellaio e le consegnò al sindaco
che, dopo averle fatte imbalsamare, le collocò in un’urna nel suo ufficio. Al riguardo,
divenne leggenda narrata l’epigrafe che il brigante Carmine Oddo gli ritorse contro:
memento mori, sindaco.
Uomini violenti, banditi o eroi popolari? A tutt’oggi il fenomeno storico del
brigantaggio meridionale attende una risposta chiara ed esaustiva.
Una storia dei briganti nel Regno di Napoli deve partire dalla dominazione aragonese
e dipanarsi fino alle vicende collegate all’unità d’Italia.
Visti nel rapporto con le masse popolari, i proprietari terrieri e le autorità, i briganti
napoletani si presentano ora come il frutto della miseria e dell’ansia di riscatto dei
contadini, ora come strumento nelle mani dei Borbone.
Di sicuro Marco Sciarra Angiolillo, Fra Diavolo, Carmine Crocco, Ninco Nanco e
persino brigantesse come Nicolina Licciardi (che non furono inferiori ai loro
compagni per efferatezza e crudeltà) sono stati sempre aiutati ed amati dai contadini,
che li hanno resi immortali nella fantasia e nelle leggende popolari.
Sin dalla prima metà del Quattrocento, durante il Regno degli Aragonesi, vi furono
ribellioni spontanee da parte dei contadini verso i proprietari terrieri.
Una delle prime fu organizzata da Antonio Centelles, che cosituì una sorta di esercito,
a cui si opposero le truppe di Ferrante d’Aragona, figlio naturale di Alfonso. I
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contadini si rifiutavano di pagare i tributi regi, ma vennero massacrati nel 1459 nella
piana di Santa Eufemia.
Il fenomeno non si spense ed un altro capopopolo, Marco Berardi, nel 1599, riuscì a
sconfiggere le truppe regie a Crotone, nonostante da alcuni anni il conte di Olivares
avesse emanato un editto con il quale si condannavano a morte i rivoltosi e si
istituivano delle taglie di 100 ducati sulle teste dei contumaci. Seguirono altre
ordinanze ancora più severe, come la Prammatica del duca d’Alba nel 1622.
Anche durante il dominio degli austriaci, che succedettero al vicereame spagnolo, le
rivolte non si fermarono e numerose erano le bande che incutevano timore, tra ruberie
e razzie.
Nel 1734 salì al potere la dinastia dei Borbone con Carlo III, che nulla riuscì contro il
dilagare del banditismo, il quale si accentuò durante il regno del figlio Ferdinando,
nonostante l’opera meritoria del Ministro Tanucci. Anzi, durante gli anni in cui fu
sovrano, si sviluppò la leggenda di Angiolillo, le cui gesta ispirarono dei canti
popolari in auge per tutto l’Ottocento.
Sul finire del Settecento vi fu la temporanea caduta di Re Ferdinando, l’avvento delle
truppe francesi ed il sorgere della Repubblica Partenopea il 23 gennaio del 1799.
Ci pensò il Cardinale Ruffo a riconquistare il trono, muovendo dalla Calabria a capo
di un esercito, composto da briganti, contadini e delinquenti comuni che, in omaggio
alla Santa Fede, furono chiamati Sanfedisti. Da questa guerra, efferata e truculenta
uscirono i primi nomi di briganti “politici”. Tra questi spicca la figura di Fra Diavolo,
alias Don Michele Pezza, come si firmava negli editti che emanava nella veste di
comandante della regia truppa.
Era il re delle montagne, dove dettava legge. Si unì alle truppe del Cardinale Ruffo e
dopo la Restaurazione il sovrano lo nominò duca di Cassano, elargendogli un
vitalizio annuo di 3000 ducati.
Anche sotto Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat il brigantaggio divampò e fu
duramente represso. Nel 1806 venne catturato e condannato alla forca Fra Diavolo,
impiccagione avvenuta a Piazza Mercato e gli fu permesso per l’occasione di
indossare l’uniforme dell’esercito borbonico ed il titolo di duca di Cassano al collo.
Durante l’opera di repressione furono catturati anche Taccone, che rientrò a Potenza
in groppa ad un asino con un cartello infamante al collo e Quagliarella, che, tradito
dai compagni, venne ucciso dai contadini, desiderosi di intascare la taglia.
E giungiamo così alla grande stagione del brigantaggio postunitario sulla quale il
giudizio degli storici è ancora controverso.
Fino ad ora si trattava di rivolte di contadini e di bande dedite al saccheggio, lo
smembramento dell’esercito volontario garibaldino, la mancata concessione delle
terre demaniali a chi vi lavorava ed un governo centrale a Torino sordo alle
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rivendicazioni, diedero luogo ad un brigantaggio politico, incoraggiato da una deriva
neoborbonica e favorito dalla conformazione geografica del Meridione, tutto boschi e
monti, difficile da controllare.
A partire dall’inverno del 1861 cominciarono ad organizzarsi bande di briganti che
agivano colpendo i grossi proprietari terrieri, collusi col governo e le scarne
guarnigioni, che non riuscivano a tenere sotto controllo il territorio.
Uno dei nomi di spicco fu Carmine Crocco, già caporale dell’esercito borbonico, dal
quale aveva disertato. Uomo astuto, molto amato dalle donne, diede filo da torcere
all’esercito sabaudo, fregiandosi del titolo di generale della reazione borbonica.
Alla sua banda si affiancò Ninco Nanco, proveniente dal disciolto esercito
garibaldino, dal quale portò molti fucili. Il suo regno era la cittadina di Melfi, da dove
iniziò la sua marcia, occupando città, aprendo carceri e saccheggiando le casse
comunali. Giunse fino all’avellinese, conquistando sempre nuovi adepti.
Il brigantaggio dilagava anche nel casertano e nel beneventano ed in tutta la Calabria,
per cui a Napoli arrivò con molta truppa il generale Cialdini, che cominciò ad
intensificare l’opera di repressione, con rappresaglie verso le popolazioni che si erano
schierate con i rivoltosi. Una tra le pagine più sanguinose fu scritta a Pontelandolfo,
dove essendo stati uccisi 45 soldati, un battaglione dei Bersaglieri mise a ferro e
fuoco l’intero paese.
Se il cuore del brigantaggio fu la Basilicata, anche Napoli ebbe un suo condottiero,
un certo Pilone, così sopranominato perché molto peloso. Agiva alle porte della città
nel Vesuviano e fu autore di combattimenti ed imprese sensazionali, che lo portarono
a rifugiarsi nello Stato Pontificio, dove conobbe le galere papaline, da cui scappò e fu
ospitato per alcuni mesi dall’esule Francesco II, che abitava a Palazzo Farnese.
Chiuse le sue avventure ucciso in un’imboscata a Via Foria.
La storia ricorda anche un fenomeno di brigantaggio “nobilitato”, i cosiddetti
Cavalieri di Francesco II, i quali si proponevano di restaurare il deposto Regno
Borbonico. Furono organizzati da due generali, Vial e Clary e finanziati dal Principe
di Scilla. Fu la stessa intrepida ex regina Maria Sofia, che, indossando abiti maschili,
riunì a Roma i capibanda più famosi, convincendoli a partecipare al folle progetto.
Lo Stato Pontificio vedeva con occhio benevolo l’operazione, obbligando alcuni
conventi ad ospitare e proteggere personaggi come Chiavone, Crocco e Ninco Nanco.
Nell’estate del 1861 il comando fu assunto da uno spagnolo, Josè Borjes, il quale,
dopo essersi incontrato con Crocco, con 1200 uomini, discese dal Vulture, iniziando
una delle più memorabili imprese di brigantaggio postunitario, ma sorpreso da un
drappello di Bersaglieri, venne fucilato a Tagliacozzo.
Altri cavalieri stranieri meno noti subirono la stessa sorte, dimostrando eroismo nel
momento fatale, come il marchese belga De Trazegnies, che rifiutò la benda davanti
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al plotone di esecuzione o il conte di Kalckreuth, che chiese, accontentato, di poter
comandare lui stesso i soldati impegnati a fucilarlo. (Una scena tra comico e
romantico che ci rammenta Totò in uno dei suoi celebri film).
Il brigantaggio divenne una spina nel fianco del Governo Ricasoli, che diede precise
direttive per mettere fine al fenomeno. Cominciò una severa opera di
repressione,accentuatasi quando, nel 1863, il governo aprì una commissione
d’inchiesta, da cui scaturì la relazione Massari, la quale fornì una precisa carta
geografica della disposizione delle bande.
Come atto legislativo nell’agosto del 1863 fu varata la legge Pica, che spostò ai
tribunali militari la competenza e considerò colpevoli anche parenti e manutengoli dei
banditi. Furono stabiliti anche cospicui premi per i delatori.
Intorno al 1870 l’opera di sterminio poteva dirsi conclusa. Uno dei colpi più
significativi venne inferto grazie al tradimento di Giuseppe Caruso, già luogotenente
di Crocco, al quale il generale Pallavicini offrì l’immunità. Egli conosceva bene i
nascondigli. Lo stesso Crocco, vedendosi braccato, si rifugiò a Roma dove però
venne arrestato e trovato dalle autorità italiane nel carcere di Paliano.Fu processato a
Potenza e condannato all’ergastolo che scontò a Portoferraio, dove morì nel 1905.
Pallavicini riconobbe non poche doti militari ad alcuni dei più famosi capibanda e la
loro generosità verso i contadini, i quali li onorarono rendendoli immortali nei loro
canti.
Le storie dei briganti più famosi, affidate alla tradizione orale nei secoli, ha
trasformato la realtà in fantasia, la ferocia in leggenda. A Napoli, per tutto il
Novecento, cantastorie girovaghi ne narravano le eroiche gesta, alla pari dei paladini
di Rinaldo. Una letteratura popolare invisa alle classi dominanti. In anni successivi
poeti e scrittori hanno rivisitato il mito, tra questi Rocco Scotellaro nei suoi libri fa
emergere le misere condizioni dei contadini ed il sogno infranto di uno stato che si
prendesse cura delle masse rurali.
E Carlo Levi nel suo celebre Cristo si è fermato a Eboli,descrivendo le terre del
silenzio e della solitudine, negò a queste anche il conforto di un Dio pietoso,
fermatosi ai confini di un mondo dimenticato.
De Roberto ne I Viceré traccia un grandioso affresco storico in cui si dipanano le
speranze deluse dall’impresa garibaldina.
Un mondo contadino, nel quale “tutto cambia affinché nulla cambi” è il filo
conduttore del romanzo di Tomasi di Lampedusa: Il Gattopardo.
E possiamo concludere con I Terroni di Pino Aprile e siamo oramai ai nostri giorni.
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Voglio sposarmi da Don Raffaè
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indagini per commercio di alimenti adulterati e abusi edilizi, fino ai rapporti con la
Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. Insomma, non proprio un esempio da
esportare.
Un esplosivo articolo di Claudio Pappainni pubblicato su L’Espressso ha scoperto gli
altarini ed ha reso note molte cose sul “Boss dei Matrimoni”, al secolo Antonio
Polese.
Polese, coinvolto nel maxiblitz contro la Nuova camorra organizzata del 1983, fu
processato perché ritenuto, insieme ad altri tre soci, implicato nella compravendita
del Palazzo del Principe di Ottaviano, il famigerato Castello di Cutolo confiscato nel
1991 dallo Stato, dove don Raffaè teneva i suoi summit. A gestire l'operazione era
stata la Immobiliare Il Castello, di cui oggi risulta amministratore unico Adolfo
Greco, imprenditore che, dopo il maxiprocesso, fu pure coinvolto nell'affare Cirillo
(l'ex assessore regionale della Dc rapito nel 1981 dalla Brigate Rosse): aveva
accompagnato nel carcere di Ascoli il funzionario del Sisde Giorgio Criscuolo, per le
trattative intavolate con il boss per il rilascio del politico campano. Un altro socio era
Agostino Abagnale, nipote di Alfonso Rosanova, ritenuto il cassiere e il riciclatore di
Cutolo: era il ras di Sant' Antonio Abate, proprio il comune dove sorge "La Sonrisa".
Dal reality al thriller. «Ai piedi del Vulcano sorge un luogo da favola dove il tempo
sembra essersi fermato", recita la voce fuori campo che apre la finestra su ogni nuova
puntata del" boss delle cerimonie", tra il luccichio delle paillettes e i tacchi dodici, la
gigantografia di Mario Merola e le immagini della suite dove ha dormito Sofia
Loren.
Le parole di Pappaianni rivelano una sorta di intrigo e ci portano indietro nel tempo
agli anni dei Misteri d’Italia. E il tempo deve essersi fermato pure per Raffaele
Cutolo, quando apre lo scrigno dei suoi ricordi durante un colloquio in prigione con
la nipote Roberta, la figlia del primogenito del boss assassinato nel 1990. Il colloquio,
come consuetudine per chi è sottoposto al regime di carcere duro del 41bis, è
videoregistrato: un altro reality, stavolta tra le mura del penitenziario. Siamo nel
2010. Ironia della sorte, quel giorno è un di gennaio: come la data delle prima
assoluta in tv del "boss delle cerimonie". Roberta racconta al nonno di suo fratello,
rimasto senza lavoro. Il boss, irrequieto, la indirizza «dall'avvocato Cesaro di
Sant'Antimo che è diventato importantissimo ... e mi deve tanto ... faceva il mio
autista, figurati!».
Gli atti finiscono nel corposo fascicolo su cui si fonda la richiesta di arresto per Luigi
Cesaro, Giggino ‘a Purpetta, il deputato amico di Berlusconi che in quei giorni è
presidente della Provincia di Napoli. Un'istanza da due anni ancora nelle mani di un
gip del Tribunale di Napoli.
194
Quel giorno, nel carcere di Voghera, il dialogo non si limita, tuttavia, al solo nome di
Cesaro: «Io vorrei uscire un paio di mesi per mettere a posto a te e a Raffaele. E
anche a Mauro, per l'amor di Dio!»,è lo sfogo del padrino, che mai come in quel
momento appare come un animale ferito rinchiuso in una gabbia. "Potrei fare mille e
mille cose. Vedi, c'è una località dove comprammo un vecchio rudere spagnolo, 700
milioni no? ... Adesso vale sessanta miliardi (lire). Eravamo quattro soci, no Tre
stanno lì Dove fanno il festival della canzone ... », aggiunge. «A Sanremo?», chiede
la nipote a don Raffaè. Cutolo fa cenno di no con il capo, poi pronuncia una parola
impercettibile.
Quale è l'investimento del grande capo camorrista sfuggito alle confische? Un'ipotesi
investigativa porta dritto al Grand Hotel La Sonrisa, la location del "boss delle
cerimonie", finito sotto sequestro tra il 1984 e il 1989 perché ritenuto il frutto di
attività illecite legate all'organizzazione cutoliane.
Anche il riferimento al festival canoro pare portare al castello prediletto dalle coppie
campane che convolano a nozze. È lì infatti che per trent'anni, fino al 2012, si è
celebrato un appuntamento fisso con la canzone napoletana, trasmesso pure da
RaiUno. i soci della Sonrisa spa - quattro milioni di fatturato nel 2012 per 41mila
euro di utile sono effettivamente tre, come ricorda Curalo. E, a quanto risulta a
"l'Espresso", a trasformare quel rudere nel castello spagnoleggiante di oggi sarebbe
stata la società "Il Castello", la stessa che gestì la compravendita del maniero di
Cutolo a Ottaviano finita sotto inchiesta anni fa. Realtà e fantasia, canzoni e
matrimoni, lecito ed illecito vanno tranquillamente a braccetto, come da sempre
all’ombra del Vesuvio.
Antonio Polese
195
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Un decumano dimenticato
L'arco dell'anticaglia
Napoli è l’unica città moderna occidentale che abbia conservato nel centro antico la
rigida struttura ippodamea con una suddivisione in decumani tagliati
perpendicolarmente da cardini. Il decumano superiore, nonostante il nome, non solo
nell’antica definizione, ma soprattutto per una abbondanza di reperti di grande
interesse è completamente trascurato dal flusso turistico e sconosciuto agli stessi
Napoletani.
Tutti passeggiano per Spaccanapoli, attenti a scansare motorini, scippatori e
questuanti, attirati dalle vetrine dei numerosi esercizi commerciali. E solo pochi si
avventurano lungo i cardini contorti che conducono verso l’antica Acropoli di
Neapolis e verso la così detta “Anticaglia”, un nome che già sembra definire una serie
di ruderi sconnessi, difficilmente recuperabili alla fruizione pubblica. Una serie di
saracinesche serrate da tempo ed ogni tanto una piccola bottega artigianale, di testardi
che hanno voluto continuare mestieri con scarsa clientela.
E poi una serie di bassi, nei quali da alcuni anni è in atto una sorprendente mutazione
antropologica. Infatti nei terranei fronte strada o collocati in decrepiti cortili, stanno
scomparendo i migranti: Arabi, Africani, Pakistani, ed Ucraini, i quali si stanno
spostando verso Porta Nolana e Forcella, zone dense di commerci, quasi tutti illegali
ed al loro posto stanno tornando a vivere i Napoletani: giovani coppie, che non
possono permettersi altro o lavoratori che al nord hanno perso il lavoro ed hanno
dovuto tristemente fare ritorno ai patri lidi.
Il costo di un basso è tra i 400 ed i 500 euro, per un massimo di 40mq, ma la maggior
parte è più piccola. A fronte delle dimensioni non mancano gli accessori, dalla
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parabola all’aria condizionata ed il mobilio, anche se di Ikea, è moderno e funzionale.
Gli affitti sono tutti rigorosamente al nero.
Uno di questi, come ci racconta Treccagnoli, in una esaustiva inchiesta su Il Mattino,
abita con la figlia un anziano pensionato dal nome illustre Derogatis, discendente dal
luogotenente del Regno della due Sicilie.
Gli immigrati oltre a trasferirsi in altri quartieri più commerciali, salgono ai piani
superiori, perché possono permettersi un affitto più alto e come condomini hanno
studenti universitari fuori sede, mentre, timidamente comincia a comparire qualche
Bed e Breakfast, per forestieri di miti pretese.
Per queste strade dove la Storia ha abdicato, ma la vita non si arrende, il motorino
strombazzante è il padrone del tempo e del suono, costringe a gridare anche se sei a
due passi dal tuo interlocutore. Gli scooter possono addirittura trasformarsi in un
informe cumulo di monnezza. Rifiuto speciale e ingombrante. Proprio fuori il
convento di Santa Maria di Gerusalemme, le famose Trentatré, sotto il cartellone
turistico, è ammucchiato, abbandonato, buttato via un numero imprecisato di
motorette, intere e a pezzi, parzialmente coperte da un telone. A occhio e croce
saranno una ventina. Stringono ancor di più la meschina carreggiata. Se provate a
chiedere che ci fanno qui ricavate solo una raffica di alzate di spalle. Nessuno sa.
omertà su due ruote. Forse; mormora qualcuno senza neanche guardarvi in faccia,
un'officina di meccanico ha chiuso e ha pensato di sgomberare, buttando tutto in
mezzo alla strada. Se vi serve un pezzo di ricambio sapete dove andare a cercarlo: in
questo scasso illegale e improvvisato; Ma lo fate a vostro rischio e pericolo.
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degrado lungo il decumano superiore
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Un basso accessiato
Nacque a Barcellona nel 1463, a vent' anni andò in sposa a Giovanni Longo, ministro
del re di Napoli Ferdinando III il Cattolico. Lo seguì sotto il Vesuvio nel 1506, fu
moglie dolce e madre paziente. Un anno dopo le nozze il marito ripartì per Madrid
col suo sovrano, lei decise di restare. Nel 1509 una lettera dalla Spagna le annunziò
ch'era rimasta vedova. La sua vita era già un calvario per i dolori tormentosi alle mani
e per una semiparalisi, non si sa se causati da una grave forma di artrite reumatoide o
da un veleno mescolato al cibo da una serva gelosa. Trovò conforto nella fede. Nel
1516 intraprese il viaggio della speranza al santuario della Santa Casa di Loreto. Il 16
giugno, in quella chiesa, un lungo brivido annunciò la guarigione. Rispettando un
voto, dedicò il resto della vita alla cura dei malati ed entrò nel Terzo ordine secolare
di San Francesco col nome di Maria Lorenza. Per alcuni anni s'impegnò nelle corsie
del dolore, soprattutto nell'ospedale di San Nicola al Molo Piliero, nei pressi di del
Maschio Angioino. Erano tempi orrendi, la popolazione falcidiata da guerre,
epidemie; carestie, soprusi continui. Medici e assistenti facevano il possibile, ma
mancava un struttura che potesse accogliere un più vasto numero d'infermi.
La svolta avvenne nel 1518 grazie all'incontro col notaio genovese Ettore Vernazza,
vagante in mezza Italia per promuovere l'opera degli Incurabili. La parola non stava a
indicare persone condannate dalle malattie inguaribili, bensì coloro che erano sottratti
alle cure dalla miseria: i poveri, insomma. In un primo tempo Maria si schermì, poi
l'idea in lei si trasformò in missione. Nella zona del Carmine già esisteva il primo
Incurabili napoletano ma era angusto, insufficiente. Maria chiese aiuto, come
invocando la carità, ad amici potenti. In soli due anni la struttura era ben delineata.
L'inaugurazione avvenne il 23 marzo 1522.
La struttura era all'avanguardia, fin dall'inizio c'erano reparti specialistici e servizi
moderni: cucine, forno per il pane, farmacie, macello, guardaroba, biblioteca, una
scuola medica di primo livello con un teatro anatomico, un servizio di interpreti per
gli stranieri. Un punto di orgoglio per la città, una calamita per la Compagnia dei
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Bianchi, famosa per la triste assistenza ai condannati a morte, portati agli Incurabili
dopo l'esecuzione. Finalmente i napoletani e gli altri infermi venuti dal Sud erano
uguali almeno di fronte alla malattia. L'ospedale ottenne subito numerosi privilegi
papali. Su tutto vigilava Maria, con compito di rettora. Restò formalmente in carica
per dieci anni.
Nel 1533, insediatisi a Napoli i Chierici Regolari Teatini, scelse come suo confessore
Gaetano di Thiene, futuro santo. Fu lui a spingerla a entrare in clausura. Il 19
febbraio 1535, con la bolla Debitum Pastoralis Officii, la donna fu autorizzata da
Papa Paolo III a fondare un nuovo monastero sottoposto alla Regola di Santa Chiara,
ebbe il nome di Santa Maria in Gerusalemme. La prima sede fu in alcuni locali
annessi agli Incurabili ceduti da Maria Ajerba, duchessa di Tennoli e grande amica di
Maria. Presto il convento fu detto delle Pentite, poiché le consorelle erano prostitute
guarite dalla sifilide e convertite. Il 30 aprile 1536, con la bolla Alias nos, il pontefice
concesse di portare il numero delle monache a trentatré, quanti furono gli anni di vita
di Gesù. Era diventata badessa e, dopo aver riformato la sanità, inseriva elementi
novità anche nella vita monastica. Aveva saputo dimostrare che fede e scienza non
sono inconciliabili.
Nel 1538 le monache lasciarono la sede provvisoria per la chiesa di Santa . Maria
della Stalletta, trasformato nel protomonastero di Santa Maria in Gerusalemme: la
direzione delle monache passò ai frati Cappuccini, di cui le religiose adottarono le
costituzioni ed assunsero il nome.
Gli anni correvano e la salute declinava, tornò la paralisi. Nel 1539 Maria rinunciò al
ruolo di badessa. Morì tre anni dopo. Il popolo non ebbe dubbi: era una santa. Ne
ebbe ulteriore prova quando il suo corpo fu disseppellito per porvi accanto quello di
Maria Ajerha: si sprigionò un intenso odore di viola, come quello che accompagnò
Padre Pio. Invece santa non diventò e non è ancora diventata, dopo cinque secoli. Il
processo ordinario informativo fu aperto a Napoli solo nel 1880, dodici anni dopo
Leone XIII incardinò la causa, i processi apostolici sulle virtù furono impiantati a
Napoli dal 1893 al 1904. Il Postulatore generali dei Cappuccini, padre Florio Tessari,
nel 2004 inviò una sollecitazione al cardinale Giordano. Ora il processo di
beatificazione sembra ben avviato. Ma la gente non ne ha bisogno, continua a non
aver dubbi, basta rileggere !'iscrizione negli Incurabili: «Qualsiasi donna, ricca o
povera, patrizia o plebea, indigena o straniera, purché incinta bussi e le sarà aperto».
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Il mitico Canalone
Molti napoletani hanno sentito parlare del Canalone, quasi nessuno lo ha mai
percorso, pochi sanno localizzarlo.
Per me esso era leggendario perché mia madre, da bambina, siamo negli anni venti
del secolo scorso, lo scendeva e saliva ogni giorno per andare a scuola, cosa
impensabile oggi che non facciamo un passo per nessun motivo, condannandoci anzi
tempo ad obesità ed arteriosclerosi.
Questo tortuoso tragitto (per il Tuttocittà Salita Villanova) mette in comunicazione
via Manzoni con via Posillipo, attraversando da sotto via Petrarca all’altezza dei
Gesuiti.
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Il primo tratto è a gradoni, che dolcemente scendono a valle, costeggiando
lussureggianti giardini dove il tempo pare si sia fermato, il secondo è una serie di
ripidi scalini che in un battibaleno conducono all’arrivo.
Per tutta la passeggiata, che dura non più di quindici minuti, scorci di panorama
mozzafiato ed angoli bucolici inaspettati. Bisogna però tollerare un po’ di rovi ed un
po’ di spazzatura portata dalla pioggia, ma di monnezza, almeno in questi giorni,
forse ne troviamo altrettanta nella elegante e centralissima via dei Mille.
Questa originale passeggiata ha costituito l’ultimo appuntamento della stagione per
gli Amici delle chiese napoletane, i quali, dopo lo scarpinetto si sono
abbondantemente rifocillati, a prezzo fisso, in un famoso ristorante, brindando alla
cultura, osannando il presidente e dandosi appuntamento a settembre per un nuovo
ciclo di visite delle bellezze napoletane.
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A sentire i partecipanti la discesa è da consigliare ed invitiamo tutti i lettori a fare la
prova. Per convincervi, la nostra parola d’onore ed una serie di foto su cui meditare.
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La collina dei poeti
Tra i luoghi più dimenticati di Napoli, che viceversa potrebbero costituire un potente
richiamo per i turisti, va annoverato al primo posto il parco Vergiliano, da non
confondere con quello Virgiliano, fino a poco fa paradiso per le coppiette in vena di
effusioni erotiche.
Esso, posto alle spalle della chiesa di Piedigrotta e nei pressi della maestosa stazione
di Mergellina, oggi umiliata a semplice fermata della metropolitana, ospita le tombe
di Virgilio e di Leopardi. Pochi sanno della sua esistenza, le automobili prima di
affrontare il buio della galleria laziale che le porterà a Fuorigrotta, lo costeggiano
distratte.
Dovrebbe cambiare il suo nome ed assumere più degnamente quello di collina dei
poeti; ne ospita infatti due tra i più grandi di tutti i tempi, vissuti in tempi diversi,
entrambi nati altrove, ma che hanno desiderato riposare per sempre a Napoli, una
città dove hanno vissuto a lungo.
Il luogo non è grande, ma la poesia ha bisogno di poco spazio, in un sonetto può
essere racchiuso l’intero universo, come loro ci hanno insegnato.
Si sale lentamente lungo un viale alberato ed i rumori scompaiono, anche i treni
diventano una lontana presenza. Dopo la seconda curva compare un grande mausoleo
su cui è inciso: Giacomo Leopardi. Ancora pochi passi e giungiamo ad una nicchia
che prende luce da due aperture; al centro un braciere ed una corona di alloro; qui
riposa Virgilio, morto a Brindisi, ma che espresse il desiderio di essere sepolto
all’ombra del Vesuvio.
Se ci inerpichiamo ancora arriviamo all’ingresso della Cripta napoletana, la
famigerata grotta dove per secoli si sono celebrati riti dionisiaci, per non dire
orgiastici, dove è nata la sfogliatella e la festa di Piedigrotta. Una galleria che,
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secondo la leggenda di Virgilio non solo poeta, ma anche mago, fu da lui costruita in
una sola notte, con l’auto di duemila diavoli.
Una grotta da dove nasce una parte cospicua della nostra storia e delle nostre
tradizioni e che noi napoletani continuiamo ad ignorarne la stessa esistenza.
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A lezione di vernacolo
A che munno è munno: Letteralmente da che mondo è mondo. E' una locuzione
temporale che si ritrova sempre quando, di fronte a certe situazioni, ci porgiamo con
una certa rassegnazione, le cose sono sempre state così e così devono andare.
Quando la cattiva sorte si accanisce contro una persona, si usa dire tene "a ciorta e
cazzette" cazzette dovrebbe, la cosa non è sicura, riferita ad un pene piccolo , che
serve solo per urinare e nient'altro. La tesi da me proposto è avvalorata dal fatto, che
in molti casi il detto viene proposto in un 'altra versione:a ciorta e cazzette jette a fa
pipi' e se ne carette.
Aggio truvato 'o vangelo avutato: Ad litteram: arrivare a vangelo voltato cioè gia'
letto, quindi la messa non è valida. Un tempo quando ancora la S. Messa era celebrata
in latino, il messale per la celebrazione della liturgia era collocato a destra del
celebrante; dopo la lettura dell'epistola il chierichetto provvedeva a spostarlo sulla
sinistra , posizionandolo per la lectio del vangelo; questo spostamento
popolarescamente era detto: s'è avutato 'o vangelo (si è girato il vangelo) volendo dire
che chi si fosse recato ad assistere alla celebrazione della Messa quando il messale si
fosse trovato sulla sn. del celebrante, vi giungeva troppo tardi, quasi fuori tempo
massimo e non assolveva al precetto domenicale; per traslato ed estensivamente la
locuzione è usata proprio per indicare che qualsiasi cosa la si stia facendo o la si sia
fatta fuori tempo massimo è stata fatta inutilmente e va quindi rifatta. L'espressione si
usa anche quando ci troviamo di fronte a delle situazioni diverse a quanto concordato
in precedenza.
FÀ ‘O RRE CUMMANNA A SCOPPOLE la si usa in famiglia quando ci si trova al
cospetto di qualcuno, quasi sempre il fratello maggiore , che usa cpmportarsi come un
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re che comanda(assestando) scappellotti. La scoppola è uno schiaffo dato a mano
aperta sulla nuca , che fa saltare la coppola che si ha in testa.
Farse 'a croce a mana smerza.Ad litteram: farsi la croce con la mano sinistra .E' una
espressione che si usa per sottolineare e/o commentare situazioni che sbalordiscono o
stupiscono talmente da indurci a farci la croce con la mano sbagliata.
Arrasso sia: Lontano sia, non sia mai. Il Bracale e noi concordiamo,
etimologicamente fa derivare quell'arrasso dall’arabo arah/arasa = lontano, aggettivo
cui è aggiunto il congiuntivo ottativo sia.
A via e vascio è un'altra locuzione che usiamo spesso , che sta per indicare una
persona che non è in casa
sta a via e vascio, o che si invita ad andare via , vattenne a via e vascio (di solito è la
madre che si rivolge al figlio che sta per casa 'int 'e piere e non le fa compiere i
mestieri di casa)
Caccià ‘e ccarte.No, non è come pensate, qui non si tratta di carte da gioco, ma di
documenti.Si tratta, iinfatti, di procurarsi le necessarie documentazioni burocratiche
per avviare una certa pratica o per portarla a compimento.
C' allucca a ffa?:Espressione usata per redimere il tono di una persona che, senza
vere motivazioni, alza la voce anche il proposito di far sentire. Il verbo alluccare
deriva dal latino ad loquor e vuol dire parlare in pubblico.
Fatte accattà 'a chi nun te sape! Ad litteram: lasciati comprare da chi non ti
conosce. E' l'espressione che la madre o il padre rivolge al figlio che in qualche modo
vuole circuirli o ingannarli, usando toni convincenti. L'invito vuol significare: rivolgi
altrove le tue mire; io so bene con chi sto contrattando.
Chi c 'ha cecate?ad litteram "chi ci ha accecati".Si usa quale imprecazione contro se
stessi per aver fatto qualcosa che ha arrecato a se stesso danno.
Coppa coppa: è una locuzione usata spesso anche dall'amico Lucio Musto , e si usa
quando si compie un'azione molto superficiale. Di solito le massaie quando fanno le
pulizie di casa in tutta fretta usano dire:"aggio fatta 'na cosa coppa coppa".
L'espressione viene anche usata per indicare un atto sessuale non completo, un
petting , insomma.
Dio 'o ssape e 'a Maronna 'o vvede locuzione che si usa per dire di una cosa di
difficile risoluzione, per cui sarebbe necessario che non ci fossero altri impedimenti.
E si si cazzo:si usa per dire questa cosa non la faro' mai , o ancora vediamo un po se
sei capace di fare .
'A capa nun s'à dda fà maje male paté! (La testa non va fatta mai patire ) bisogna
sempre assecondare le proprie inclinazioni, dando libero corso alle proprie idee.
Fà 'o paro e 'o sparo...(fare a pari e dispari) indica i continui tentennamenti, le
continue indecisioni di chi non sa assumersi mai una responsabilita'.
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Jamme bbelle ja' è un imperativo e sta per indicare " diamoci una smossa, non
poltriamo".
Maie pe cumanno"Mai per comando"Si usa questo modo di dire quando si chiede
un favore e/o di espletare un azione da realizzarsi nell immediato. In effetti sempre di
un comando si tratta, ma con l'espressione lo si addolcisce....
Fà carne 'e puorco.Ad litteram: far carne di porco.Trarre il massimo del profitto,
lucrare oltre il lecito o consentito, come chi si servisse della carne di maiale del quale,
è noto, non si butta via nulla.
L'espressione si usa anche per indicare le azioni di una donna di facili costumi :" se se
chella na fatte carne e puorco"
Tené ‘o pere a ll’everatenere o avere il piede all’erba nel significato di avere
l’occasione adatta.Qualcuno asserisce che ’esatta espressione napoletana che la
illustra sarebbe : tené o avé ‘o piere ‘a llepera" tenere o avere il piede da lepre"cioè
un piede veloce , noi invece siamo del parere che l'espressione tene' o pede all'evera
sia piu'esatta , poichè sta a significare che il piede scalzo si trovi molto piu' a suo agio
nell'erba che su di un ciottolato.
Se se belli cazzi:è un'espressione molto colorita e sta a significare :"quello che va
bene per te non va bene per me"pircio' 'o frate tuoio nun se ne fa niente!
Ditto 'nfatto:ad litteram "detto fatto"sta ad indicare come come l' azione addirittura
preceda il pensiero.
piglia' ncoppo o fatto:essere colti in flagrante. Era la tipica espressione di mia madre
quando mi acchiappava a prendere le monete dal suo borsellino.
Stammo all'evera:siamo al verde, siamo in miseria.Il verde non era solo quello
dell'erba , era anche il colore delle delle basi delle candele che si usavano per le aste
pubbliche. Quando la candela si era consumata ed era arrivata al verde l'asta era
finita.Secondo un’altra teoria, l’espressione deriverebbe da un’usanza medievale che
prevedeva l’accensione di una lanterna verde quando era pronto il cibo per una
speciale categoria di poveri, i “vergognosi”, coloro cioè che non erano nati poveri ma
che lo erano diventati e che per questo motivo non si adattavano alla questua
“normale”. Questa usanza permetteva loro di entrare nell’ente caritatevole in silenzio,
senza bussare, con minori probabilità di essere visti.
Solamente i poveri non avevano i soldi per comperare una candela nuova quando essa
era finita, cosicché la utilizzavano fino alla base, che, un tempo, era sempre di color
verde.
Altri studi hanno ipotizzato che il modo di dire derivi da un’antica usanza medievale,
che consisteva nel far portare un berretto verde ai falliti in segno di pubblico scherno.
A Padova si dà per certa l’origine della frase dalla sala verde dell’antico Caffè
Pedrocchi, dove per antica tradizione chiunque può accomodarsi senza consumare.
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Altri sostengono che l’espressione sia nata nelle case da gioco. Il giocatore che ha
perso tutte le sue fiches quando guarda il punto dove teneva il proprio gruzzoletto
vede solo il tavolo da gioco, tradizionalmente verde.
Altra teoria, emiliano romagnola, l’arrivare al verde nella buccia di una cocomero,
dopo aver consumato il rosso, raschiare il fondo arrivare alla fine.
A craje a craje comme a' curnacchia si usa per indicare colui che tenta sempre di
rimandare il proprio lavoro. Craie nel napoletano come nel pugliese significa domani
e viene dal latino cras appunto domani.Biscraje è dopodomani.La cornacchia c'entra
solo come verso.
Jì mettenno 'a fune 'e notte: è un'espressione che si usa quando il figlio cerca solo
soldi ai genitori , "ma che te cride che vache mettenne a fune ' e notte?" In effetti la
locuzione deriva dalla usanza di alcuni malavitosi che nottetempo erano soliti tendere
lungo le strade avvolte nel buio, una fune nella quale incespicavano passanti e
carrozze, che stramazzando a terra diventavano facilmente così oggetto di rapina .
ma fatte 'a dinto all'uocchie!:esclamazione con la quale si sottolinea il verificarsi di
una azione non vista, nonostante l'attenzione prestata
Se so' rutte 'e tiempe: questa è la classica espressione della madre che vuole che il
proprio figlio indossi qualcosa di pesante. La locuzione la si usa anche quando si
intenda sottolineare che una situazione sta mutando in peggio.
fa 'e riebbete cu 'a vocca: si dice a colui che per abitudine non mantiene le promesse.
Un'altra espressione che usava mia madre quando le dicevo "doppo me faccio e
scritte".
fa 'o scemo pe' nun jire 'a guerra:ecco un'altra espressione molto usata nelle famiglie
napoletane cje si usa quando si finge di non capire per evitare, se fa l'indiano
insomma.
franco 'e cerimonie:detto di chi non perde tempo con inutili preamboli e va
direttamente al sodo.
Quando cercavo di abbindolare mia nonna adducendo i piu' svariati motivi per
spillarle quattrini, mi sentivo sempre rispondere guaglio' io nun so PESCE ‘E
CANNUCCIA. Con questa metafora voleva farmi capire che lei non era propensa a
credere a tutto quello che io gli propinavo , cioè lei non era come i pescetti che
abboccano con facilita' a qualsiasi esca .
levà' 'o sale 'a fronte:questa era la classica espressione che usava mia nonna quando
io insistevo per avere qualcosa. Uanema me staie levanne o sale a fronte . Il sale era il
sudore e la locuzione vuole appunto significare di non aver più una goccia di sudore
da spendere.
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Bagni di mare, ma si parliamone sotto la pioggia
di Marina della Ragione
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AI Borgo Marinari, attaccato alla cosiddetta Batteria Spagnola di Castel dell’Ovo,
fino alla fine degli anni Cinquanta, funzionava il Bagno Eldorado. Grosso
stabilimento balneare, miracolosamente sopravvissuto all’attiguo e famosissimo Cafè
Chantant degli anni Venti, con una grande struttura in muratura a più piani integrata
nel periodo estivo anche da quella in legno, l’Eldorado rispondeva alle esigenze di un
variegato e numeroso pubblico prevalentemente costituito dagli abitanti del centro
storico di Napoli.
Alla radice di Posillipo il Sea Garden del marchese Andrea Chierchia era lo
stabilimento balneare dei vip dell’epoca. Risalendo la costa subito s’incontrava sulla
spiaggia prima di Palazzo Donn’Anna il grande Bagno Elena. Dall’altra parte del
Palazzo, sulla spiaggia e la scogliera sottostanti l’Istituto Padre Ludovico da Casoria,
il Bagno Sirena della famiglia Ciaramella era molto frequentato.
Rivafiorita era lo stabilimento balneare inventato dal commendator Alfonso Marino
che, ad ogni inverno, sistematicamente rosicchiava al mare spazi e volumi per
allargare sempre più la sua creatura.
A Marechiaro gli stabilimenti erano due, quello storico sotto la famosa “Fenestella” e
poi il più recente Lido delle Rose. Gli scogli di Villa Beck e della Gaiola erano
frequentati da pochi eletti considerati i fanatici dei bagni di mare allo stato naturale
puro.
A Coroglio, sulla grandissima e bianchissima spiaggia prospiciente l’Isola di Nisida,
era famoso il Lido delle Sirene e, per finire, arriviamo sulla spiaggia di Lucrino, al
Lido Napoli della famiglia Mailler. Questo stabilimento era frequentato soprattutto
dalla buona borghesia napoletana che con la ferrovia Cumana raggiungeva tutte le
mattine quella spiaggia.(A tal proposito vi consiglio di leggere in rete, digitandone il
titolo, un interessante articolo “Come era bello il lido Napoli” e trovandovi su
internet date uno sguardo anche a “Come era bella Villa Beck”, di cui abbiamo
parlato prima).
I costumi era castigati, il bikini pura fantascienza, in compenso il mare era pulito e
popolato da pesci che sguazzavano felici.
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Come era bello il Lido Napoli
Sono ritornato dopo oltre mezzo secolo al Lido Napoli, quanta nostalgia di tempi
felici, quando raggiungevo il mare con la Cumana da Montesanto con mia madre e
mio fratello Carlo ogni giorno dalle 10 alle 17 ed erano gioco, mare e sole senza sorta
di interruzione, ad eccezione di un pasto frugale consumato all’ombra della cabina,
che tenevamo fittata dal 15 giugno al 15 settembre.
Mia madre preparava delle irripetibili frittate di maccheroni e dei panzarotti da
schianto, innaffiati da Coca Cola e gassosa a volontà. Mio padre non amava il mare,
bensì il lavoro(erano altri tempi, che mai più torneranno); trascorreva tutto il giorno
in ufficio alla sede centrale del Banco di Napoli di via Toledo, dove era direttore
della sezione di credito industriale e la sera verso le 19, ben oltre il consueto orario di
lavoro, ritornava a piedi a casa(abitavamo in via Salvator Rosa) per cenare tutti
assieme.
Ricordo che il mare alcuni giorni era già sporco come oggi, perché alla rada
sostavano delle petroliere, che ogni tanto lavavano le cisterne, per cui a riva
giungevano macchie di nafta da far impallidire la odierna schiuma di detersivi non
biodegradabili tanto di moda oggi. In genere però l’acqua era limpida e fare il bagno
una gioia immensa, alternata a fabbricare castelli di sabbia e pescare telline.
Le tracine erano molto diffuse e calpestarne una era un’esperienza imbarazzante,
perché dotate di aculei pungenti, attraverso i quali diffondevano un veleno che
procurava per ore dolori lancinanti.
A 800 metri dalla riva esisteva una torre, detta di Pulcinella. I più grandi la
raggiungevano a nuoto, in gare settimanali, nelle quali eccelleva mio fratello Carlo,
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valente nuotatore ed il compianto Federico Ricciardi, detto Rirì, a differenza di Elio
Fusco e Guglielmo Benigno, costantemente ultimi.
Io mi divertivo a giocare a bocce, ero praticamente imbattibile, da quando undicenne
vinsi la prima coppa Ceceniello.
Alcune ore le occupavo a raccogliere bottiglie vuote di vetro, per le quali si pagava
un deposito di 10 lire. Ne raccoglievo tante da ricavare 300 – 400 lire al giorno, in un
periodo in cui la raccolta differenziata era di là da venire; più o meno come oggi.
Ricordo le selezioni per il concorso Ondina Sport Sud e la volta che vinse Ornella
Peroni, una nostra amica che portammo al successo con un tifo da stadio.
All’epoca, siamo negli anni Cinquanta, vi erano tre fermate del treno, in
corrispondenza di vari ingressi, dei quali persiste oggi un solo scheletro della struttura
in cemento armato, che incute profonda tristezza. Ma la vera differenza sta nelle
cabine, centinaia e centinaia, nelle quali si depositavano costumi e secchielli, oggi
completamente scomparse, sostituite da anonimi spogliatoi.
I treni passavano regolarmente ogni 15 minuti, oggi sono una presenza sporadica,
tutti massacrati dalle insulse scritte dei writers, da tempo un flagello ubiquitario.
I bagnini erano tanti, ma anche oggi sono numerosi, giovani, aitanti e con una
canottiera rossa per distinguerli a distanza.
La vera differenza è costituita nello stabilimento attuale da una spettacolare piscina,
che permette di fare il bagno anche quando il mare è poco invitante.
Concludiamo questo tuffo tra passato e presente con una considerazione sui
frequentatori: una volta la migliore borghesia napoletana, che ignorava cosa fosse la
villeggiatura, oggi un pubblico che la brama, ma non può permettersela, molti volti
patibolari, ma tutto sommato brava gente.
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Come era bella Villa Beck
Villa imperiale
Parlare di uno stabilimento balneare del passato con una punta di malinconia può
sembrare fuori luogo in un momento storico per Napoli caratterizzato da una vera e
propria Caporetto sul fronte della balneazione, dalla mappatella beach di via
Caracciolo alla spiaggia di Coroglio, trasudante in egual misura di amianto e
monnezza, mentre l’acqua dove immergersi varia tra il giallo ed il marrone, a cui si
aggiunge in superficie una schiuma non biodegradabile accompagnata da bottiglie di
plastica di marche italiane ed estere.
Eppure pochi decenni fa la situazione era ben diversa e la villeggiatura inutile anche
per le famiglie benestanti che potevano tranquillamente bagnarsi a pochi passi di
casa.
Ma torniamo a Villa Beck, oggi Villa Imperiale e spostiamoci indietro ai primi anni
Sessanta quando la frequentavo “dal mare”, tuffandomi dagli scogli di Marechiaro e
raggiungendola con vigorose bracciate. Una abitudine virtuosa che negli anni
successivi mi permise di diventare affezionato cliente, a luglio ed agosto, della
celeberrima Canzone del mare di Capri, partendo dalla scogliera di Marina piccola.
All’epoca Villa Beck era affollata dal fior fiore della gioventù bene di Posillipo e via
dei Mille, si potevano ammirare le più belle ragazze della città, assiepate sugli scogli
in posizioni strategiche sin dalle prime ore del mattino, a mostrare grazie naturali
nascoste gli altri mesi dell’anno. E non vi erano trucchi, la chirurgia estetica era di là
da venire, per cui se il seno era procace ci si poteva fidare. Si stringevano amicizie ed
il tempo trascorreva veloce, tra un bagno di sole ed uno nelle acque ancora fresche e
limpide, nelle quali si potevano distinguere le sagome sfuggenti di pesci di varie
dimensioni.
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Ho cercato di fare qualche ricerca storica sulla nascita dello stabilimento e se
funzionasse durante il Ventennio, ma ho incontrato grosse difficoltà, pur interrogando
le mie zie nonagenarie Giuseppina, Elena e Adele, frequentatrici negli anni Trenta del
limitrofo Lido Marechiaro. Mi hanno assicurato che sugli scogli posti dopo la Casa
degli spiriti non hanno mai visto anima viva e neppure i fantasmi che secondo la
leggenda presidiano i luoghi da 2000 anni.
L’origine del nome potrebbe derivare da Villa Bechi, citata in un testo ottocentesco
da Alvino o da due non ben identificate sorelle Beck, forse di origine teutonica,
proprietarie dei terreni a monte della scogliera nei primi anni del Novecento. Invito
chi ne sapesse di più a contattarmi.
E veniamo ai nostri giorni: oggi il nome è cambiato in Villa Imperiale ed è diventato,
grazie alla famiglia Varriale, che lo amministra da quasi 25 anni, il lido più caro e più
accogliente della città. Da tempo è sorta una accogliente piscina per placare le ansie
natatorie di coloro che non si fidano delle oscure acque marine e l’età media dei
frequentatori è salita di mezzo secolo. Sui lettini posti ad un passo dalle onde
troneggiano antiche matrone dalla voce altisonante, che si raccontano
vicendevolmente a tutte le ore pettegolezzi di vario genere, pochi i bambini impegnati
a trastullarsi in piscina, completamente scomparsa la generazione intermedia, quella
dai venti ai cinquanta anni.
L’attrazione maggiore è costituita dal bar ristorante, a picco sul mare, dove si
svolgono eventi e ricevimenti da favola, costituendo una location ambita per sponsali,
comunioni e genetliaci.
Tutti lo conoscono, almeno di fama, una ristretta elitè può frequentarlo in tempi di
crisi economica ed è un vero peccato.
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Una grande squadra per una città appassionata
Pelè e Maradona
Il calcio, almeno per i tifosi napoletani, perciò per gran parte della popolazione, non è
soltanto un gioco, ma una vera e propria mania, a volte una malattia, in grado di
esaltare la fantasia, ringalluzzire l’orgoglio, suscitare passioni sfrenate e creare miti e
rivalità che sfidano il tempo diventando leggenda, come quella tra Maradona e Pelè.
Il sommo Diego vivrà a lungo nella memoria collettiva dei napoletani, che non
finiranno mai di ringraziarlo per aver riscattato l’onore ferito di una città, umiliata per
decenni dallo strapotere delle squadre del nord e per aver vinto due scudetti, impresa
mai riuscita nemmeno ai tempi di Vinicio e del comandante Lauro o di Sivori ed
Altafini.
“Meglio di Pelè, forse Gesù e qualche volta Dio”, lo definiva entusiasta Menotti, il
commissario tecnico della nazionale argentina, una definizione che tutti i tifosi
partenopei condividerebbero entusiasti.
Ma partiamo dal principio, sul finire del 1904, quando in un palazzo di Via
Sanseverino, non lontani da quella che sarà la casa di Benedetto Croce, un gruppo di
appassionati guidati dall’ingegnere Ernesto Bruschini, fondò il Naples Cricket and
Football, utilizzando un anglismo in omaggio ai soci albionici: Potts e Bayon.
Nella prima formazione cinque britannici, due tedeschi, un danese, uno svizzero, un
belga, tre italiani.
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Fino al 1926 si chiamerà Internaples, per diventare Napoli per volontà del presidente,
il mitico Giorgio Ascarelli e per ordine di un antianglofilo per eccellenza: il cavaliere
Benito Mussolini.
Il primo campionato fu un disastro: un solo punto in classifica, sette gol realizzati a
fronte di sessantuno incassati.. Il cavallo, emblema della città, diventa
inevitabilmente “’O ciuccio”. Emerge, però, un grande campione, Attila Sallustro,
che diventerà l’idolo dei tifosi, ma anche il sogno proibito di tante belle ragazze. Il
presidente Ascarelli gli regalò una Balilla 521.
Le partite in trasferta vengono seguite nella Galleria Umberto dove due giornalisti
sono collegati telefonicamente e forniscono informazioni in tempo reale, una sorta di
radiocronaca ante litteram.
Il campionato da undici diventa a diciotto squadre e per rinforzare la squadra arriva
un grande allenatore, Willy Garbut e forti giocatori destinati a divenire famosi come
Vojak, mitica mezzala.
I tifosi crescevano di numero e fu necessario uno stadio adeguato, che venne costruito
al Rione Luzzatti, con tribune in legno in grado di contenere diecimila spettatori.
Il presidente Ascarelli non lo potè godere a lungo, fulminato da una Peritonite
perforante. Durante il “ventennio” lo stadio, per le origine ebree di Ascarelli, assunse
il nome di “Partenopeo”.
L’abilità di Sallustro cresce come la sua fama di rubacuori: sposerà, infatti, Lucy
D’Albert, splendida soubrette di diciotto anni, che aveva fatto innamorare anche il
Principe Umberto. Nel 1934 il Napoli con il terzo posto in classifica acquisisce il
diritto di partecipare alla Coppa Europa.
A rinforzare la squadra arriva un giovane portiere, Sentimenti, che diventerà una
leggenda. Il suo stipendio era modesto ma un giorno, mentre era sotto la doccia, gli
arrivò una busta con mille lire (una grossa cifra all’epoca), omaggio di un tifoso
anonimo: Achille Lauro.
La storia del Napoli si intrecciò con quella del mitico Comandante ed il connubio
durerà decenni. Il rapporto tra Lauro ed il Napoli nasce in epoca fascista, nel 1935, ed
è avvolto nella leggenda.
La squadra aveva avuto un grande presidente: Ascarelli, alla cui memoria era
intitolato lo stadio partenopeo. Uomo di grandi capacità, animato da una sana
passione, aveva per quei tempi un grande difetto:era ebreo, di conseguenza aveva
dovuto passare la mano.
Un giorno, siamo nel periodo in cui il fascismo ha raggiunto il massimo consenso tra
gli Italiani, il Federale della città, incontrando Lauro, gli si avvicina tutto trafelato e
gli confida:"Domani debbo partire per l'Africa a servire la patria, ma prima di andare
voglio affidarti la mia creatura".
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Lauro annuì e, recatosi a casa, disse ad Angelina di preparare una stanza con una
culla, perché per un po' di tempo sarebbe dovuta venire a vivere con loro la
creatura...del Federale. Angelina replicò meravigliata:"Ma se non è neanche sposato!"
"Che debbo dirti, amore mio, prepariamola lo stesso, sarà forse per un figlio segreto".
Grande fu perciò lo stupore dei due quando l'indomani, di buon'ora,si videro a casa il
vice del Federale, con una borsa colma di documenti, esclamare:"Vi consegno la
creatura del Federale: i titoli di proprietà della società calcio Napoli".
E don Achille, mentre ancora scartabellava stupito i fogli protocollo, pieni di timbri e
di bolli,si sentì richiedere un modesto contributo di trecentomila lire!(all'epoca una
cifra cospicua) per accettare il regalo. Fin qui la vicenda romanzata, raccontata con
garbo dalla penna di Serena Romano. Seguiranno i fatti, perché Lauro colse subito la
palla al balzo, intuendo la grande importanza che può avere il controllo di una
squadra di calcio nel cuore di decine di migliaia di tifosi.
Salvo un intervallo legato agli eventi bellici ed alla confusione del dopo guerra, don
Achille conserverà la carica di presidente effettivo o onorario fino alla morte, per
quasi 50 anni, contribuendo nella buona e nella cattiva sorte alle fortune di una delle
squadre più amate del mondo.
Fu più famoso del mitico Ascarelli, il primo presidente che guidò la società quando,
nel 1926, si affacciò alla serie A.
Presidente dal 1936 al 1940 e dal 1952 al 1954, preferì in seguito regnare da dietro le
quinte come presidente onorario,agendo dall'alto attraverso persone di sua fiducia.
Lauro fece la gavetta come vicepresidente in un anno di transizione per la squadra,
che aveva cambiato allenatore, passando da Garbutt ad un nuovo straniero
l'ungherese Csapkay, nel mentre cominciava tristemente a declinare la stella di Attila
Sallustro, il più grande e il più osannato giocatore del Napoli di tutti i tempi. Quello
del 1934-35 fu l'ultimo campionato che vide il mitico Attila condottiero dell'attacco:
infatti, giocò ancora per altri due anni nel ruolo di ala destra ma era oramai un idolo
al tramonto per una folla che si era esaltata per le sue straordinarie prestazioni.
Deluse rimarranno anche frotte di signore e signorine che avevano seguito con il fiato
sospeso le sue scorribande sentimentali, mentre il tempo inesorabile solcava di rughe
il suo splendido volto negli anni del tramonto, trascorsi come funzionario e conclusi
come direttore dello stadio San Paolo a Fuorigrotta, che in questi giorni si blatera di
voler dedicare a Maradona, dimenticando questo grande giocatore del
passato,partenopeo purosangue, il quale, a differenza del pibe de oro, è stato sempre
un modello di correttezza in campo e soprattutto fuori di esso. La società durante
l'estate fu pervasa da un sacro furore di crescita, con un'impegnativa campagna
acquisti, favorita dall'ingresso come soci di facoltosi imprenditori. Il presidente,
l'ingegner Savarese, incalzato dal prestigio di Lauro, viene indotto alle dimissioni e
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comincia, con la nomina al suo posto, il lungo regno di don Achille: è il 1936. Sono
gli anni in cui era entrato da poco in funzione il nuovo stadio napoletano, tra i più
moderni e funzionali d'Europa.Esso mise a riposo lo stadio vomerese, sorgendo,in
muratura, lì dove esisteva il vecchio campo in legno di Giorgio Ascarelli, il
presidentissimo, al quale non potette essere intitolato il nuovo impianto per le sue
origini ebraiche. Erano infatti gli anni in cui i pregiudizi razziali, per compiacere
Hitler, entrarono, pur se tiepidamente, anche nell'accondiscendente e generoso animo
napoletano. Lo stadio fu chiamato “Partenopeo”, tra il disappunto dei tifosi, che
interpretarono l'episodio come un vero affronto alla memoria del grande presidente
del Napoli, da poco deceduto, la cui persecuzione proseguì purtroppo anche dopo la
morte. La situazione economica della società non era brillante,ma Lauro, uomo
d'azione, poco incline a compromessi e mezze misure, esordì come presidente con la
frase, divenuta celebre,"O dentro o fuori, che significa stare a metà?".Parole
paradigmatiche di un indirizzo economico che caratterizzerà a lungo
l'amministrazione della società. Per il Napoli fu uno scossone, una salutare
rivoluzione nel delicato rapporto tra giocatori e dirigenza. Mattia, il nuovo allenatore,
accettò senza fiatare la lista di proscrizione impostagli da Lauro. Andarono via tutti i
giocatori che avevano piantato grane, alcuni anche di valore. La classifica fu modesta
e Lauro continuò nei tagli, cercando rinforzi su tutti i fronti. Anche il campionato
successivo non fu particolarmente brillante ed il Comandante, infuriato, se la prese
con l'allenatore che licenziò in tronco. La squadra era deludente ed entrò in crisi il
rapporto con don Achille, il quale,amareggiato anche per le numerose critiche alla
sua conduzione definita dittatoriale,lasciò la società nelle mani dell'ingegner Del
Pozzo, mentre all'orizzonte incombevano minacciosi venti di guerra. Prima
dell'infuriare dei combattimenti e della sospensione del campionato, il Napoli
mestamente subirà l'onta della prima retrocessione nella serie cadetta. Durante i tristi
anni del conflitto non ci sarà tempo e voglia di pensare allo sport. Sono anni di lutti,
di dolore, di tessere annonarie, con la morte sempre in agguato. Cadranno in frantumi
tanti sogni con la morte di tanti giovani,cadranno case e palazzi, andrà giù a terra
anche il mitico stadio Ascarelli, i cui resti subiranno l'affronto di ulteriori mutilazioni
quando i Napoletani, disperati, ne ruberanno anche il ferro. La guerra stravolgerà non
solo le mura della città ma lascerà ferite profonde ed a lungo sanguinanti nelle carni
martoriate dei Napoletani, eufemisticamente liberati... dalle orde di soldati
marocchini e senegalesi,invasa dalle am-lire e costretta a sopravvivere, con
contrabbandi e sotterfugi, in uno squallido scenario di sciuscià e puttane. Si troverà lo
stesso il coraggio e la volontà di ripartire da zero, con gli stadi distrutti dai
bombardamenti ed ogni spazio libero occupato con tracotanza dai liberatori...ai quali
bisognava chiedere il permesso anche per un'innocente partita di pallone. Nel dopo
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guerra le sorti del Napoli sono altalenanti e sembrarono allo sbando con la morte
improvvisa per infarto del suo presidente Musolino.
A gran voce si invocava il ritorno di Lauro, il quale non seppe resistere a lungo a
quanti lo pregavano di tornare alla testa della navicella azzurra. Don Achille mise
generosamente mano al portafoglio e acquistò numerosi giocatori, fornendo
all'allenatore Monzeglio una rosa molto ricca e la possibilità di svariate soluzioni
tecniche. Arrivarono in squadra Vitali e Pesaola, l'indimenticabile Petisso.
Con il nuovo presidente subentrò giustamente l'euforia dello squadrone,per l'impegno
profuso da Lauro,uomo politico di primo piano e sportivo entusiasta, ma quel che più
conta,ricchissimo e conscio dell'importanza strategica di identificarsi con una squadra
amata da centinaia di migliaia di persone. I suoi lacchè coniarono a tal proposito uno
slogan efficacissimo:"Per un grande Napoli, per una grande Napoli, vota Achille
Lauro numero uno di Stella e Corona".
I risultati furono gratificanti, ma il Comandante, come sempre, preparava la zampata
del leone:l'acquisto storico di mister 105 milioni, Hasse Jeppson.
Erano i tempi di Pesaola, il valoroso Petisso,che ha fatto di Napoli la sua seconda
patria. L'incontro con Lauro, l'intesa a prima vista, grazie ad una reciproca simpatia
ed un amore che dura ancora. Bruno giunse in città in viaggio di nozze con la bella
moglie, miss Novara,percorrerà un' interminabile carriera, prima come calciatore, poi
come allenatore, per finire come cittadino napoletano integerrimo.
Superò con la sua forza di volontà gravissimi incidenti di gioco,era un coagulo di
passionalità e tecnica, carattere indomito e grande umanità.
Fu autore di un goal spettacolare, da antologia,i cui fantastici fotogrammi
compariranno per anni nella sigla delle rubriche sportive della televisione.
I tifosi napoletani impazzirono alla notizia dell'acquisto di Jeppson, mentre la stampa
nazionale gridò ipocritamente allo scandalo.
L'asso scandivano aveva sostituito Nordhal al comando dell'attacco della nazionale
svedese, all'epoca una delle più forti al mondo. Dotato di grandi qualità tecniche, dal
dribbling irresistibile ad una rara potenza di tiro anche di testa, si era messo in luce
proprio contro i colori azzurri ai campionati del mondo brasiliani. Era giunto in Italia
l'anno precedente acquistato dall'Atalanta,alla quale si dovettero sborsare i
famigerati105 milioni, una cifra record, a lungo nel Guiness dei primati.
Settantacinque milioni furono versati ufficialmente alla società orobica,mentre trenta
furono pagati in Svizzera, che cominciava a trasformarsi in un paradiso dell'evasione
fiscale. Tre anni splendidi ,non privi però di furibondi diverbi col Comandante, che
alla fine lo regalò al suo amico, il conte Lotti. Divenne rapidamente un divo, casa di
lusso al viale Elena,matrimonio da favola con Emma,giovane, bella e, soprattutto,
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ricchissima, assidua frequentazione dei circoli nautici più esclusivi e porte aperte
nelle splendide ville posillipine dei potenti della città.
Lauro si conquistò nel cuore dei tifosi una storica ed imperitura benemerenza, mentre
l'allenatore Monzeglio,avendo a disposizione uno dei più forti centravanti europei,
riuscirà ad ottenere il quarto posto in classifica, la seconda miglior prestazione mai
ottenuta fino ad allora dal"Ciuccio".Nel successivo campionato il portiere Bugatti e
Posio conquistano la maglia della nazionale, anche se Lauro è costretto ad intervenire
energicamente per ristabilire l'ordine nello spogliatoio dove erano scoppiate infantili
rivalità. I goal dell'asso svedese sono spesso spettacolari, ma il Napoli non riesce mai
a combattere per le prime posizioni, riserva di caccia dei club del ricco nord.
Lentamente declina anche la stella di Amadei e si avverte la necessità di un nuovo
fenomeno da affiancare a Jeppson .E questo nuovo astro arriverà dal Brasile, dalla
gloriosa squadra del Botofago: si chiamerà Louis de Menezes Vinicius,ma per i tifosi
sarà semplicemente Vinicio, anzi per meglio dire "O lione" per la irruenta foga con
cui si divincolava dagli avversari in area di rigore. Nativo di Belo Horizonte, divenne
rapidamente una leggenda ed ancora oggi, a distanza di decenni ha un posto stabile
nel cuore dei napoletani. Il suo matrimonio fu da favola, ripreso da tutti i rotocalchi.
Compare di nozze naturalmente Achille Lauro, splendida la cornice: la superba
chiesa di San Francesco di Paola.Una folla simile a Napoli non si vedeva dalle nozze
di Umberto di Savoia con MariaJosè.
I compagni si affrettavano a passargli la palla e la folla entusiasta lo accompagnava
con il suo urlo fin sotto la rete avversaria. Molte partite sono rimaste memorabili per i
suoi goal e le sue azioni irresistibili, che facevano esaltare i tifosi, che durante la
settimana amavano rievocare le gesta del loro beniamino. Purtroppo la coesistenza
con Jeppson, che avrebbe potuto regalare al Napoli il primo scudetto,si rivelò
impossibile. Erano due giocatori straordinari ma di temperamento e di scuola agli
antipodi:freddo e calcolatore lo svedese, esuberante e pieno di vitalità il brasiliano. Ai
differenti caratteri si associava poi la diversità linguistica, che produceva spesso
equivoci.
Erano gli anni delle frequenti invasioni di campo da parte di tifosi esasperati dalle
decisioni arbitrali,che provocavano alla squadra pesanti squalifiche,rese ancora più
severe perché Lauro,per invidia ed ostilità politica, non godeva di simpatia presso gli
organi federali. Dopo un'ennesima pesante squalifica lo stadio del Vomero fu dotato
di un'ampia recinzione, che lo faceva tristemente somigliare ad una gabbia di leoni o
ad un moderno Colosseo,animato dalle gesta di moderni gladiatori in lotta per la
conquista della palla.
A quel periodo appartengono storiche vittorie, come la doppia sconfitta inflitta alla
Juventus stellare di Sivori e Charles, a lungo campione d'Italia,ma umiliata quell'anno
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tre a uno a Torino e quattro a tre al Vomero. Monzeglio era un allenatore
abilissimo,ma per tutti viene il momento dell'addio. La familiarità che si era
instaurata tra lui ed i giocatori gli aveva fatto perdere autorità e la disciplina ne
soffriva, tanto da provocare una vera e propria congiura contro di lui. Egli non
tollerava discussioni sulle sue scelte tecniche,neanche da parte del Comandante, e
questa cocciutaggine provocherà il suo licenziamento.
Lauro era il primo dei tifosi e come questi volubile,in cuor suo avrebbe preferito
Amadei come allenatore ed alla prima occasione propizia licenziò in tronco il vecchio
gentiluomo piemontese, dando luogo all'originale figura dell'allenatore-giocatore.
Amadei, a differenza del suo predecessore, penderà dalle labbra del suo
padrone,consultato quotidianamente alle prime luci dell'alba nella villa di via Crispi;
ascolterà, sottomesso, di gioco, uomini, tattica, avversari. Si affiderà ai guizzi ed alle
irresistibili serpentine di Vinicio, ai suoi dribbling ed alla capacità, più volte
dimostrata, di mettere K.O. da solo anche le squadre più forti. Il brasiliano segnerà
carrette di goal, classificandosi secondo nella classifica dei cannonieri, che riuscirà a
vincere,con altra casacca, alla veneranda età di trentasette anni.
Amadei otterrà anche un quarto posto,ma Lauro si aspettava di più e gli consegnò il
benservito assumendo Frossi, il famigerato" dottor sottile", che portò a Napoli, oltre
ad una disciplina ferrea, il suo ben noto catenaccio. Il nuovo allenatore poteva vantare
un pedigree di tutto rispetto,ma la fortuna non gli fu alleata e don Achille diede,
convinto, la colpa alle lenti nere che il mister portava giorno e notte. Nel frattempo il
Napoli lasciò il glorioso stadio del Vomero per trasferirsi al San Paolo, un impianto
modernissimo da 100.000 posti adeguato allo straripante entusiasmo della folla
partenopea. Il primo scontro contro i campionissimi della Juventus: era il 6 dicembre
1959, vittoria beneaugurante degli azzurri.
Il nuovo stadio riuscì ad arginare il vergognoso fenomeno della caccia all'arbitro da
parte della teppaglia più facinorosa. Leggendario il salvataggio da parte di Lauro in
persona del direttore di gara De Marchi: catturato dalla folla inferocita fu liberato
dall'oratoria del Comandante all'apice della fama:"Fitient e merda iatevenn e case
vostre".Nonostante i cambi continui di allenatori ed un parco giocatori tutto sommato
dignitoso, il Napoli conosce l'onta della retrocessione in serie B.
In squadra ci sono giocatori di rilievo nazionale, dal portiere Bugatti agli attaccanti
Pivatelli e Gratton,ma le sconfitte sono continue.
Si è rotta l'armonia nella società e le quotazioni di Lauro presidentissimo azzurro
calano vertiginosamente. Ogni partita è un corteo di fischi, frutto anche della mutata
situazione politica della città.
227
Si chiama alla guida della squadra Attila Sallustro, un’ illustre bandiera, sperando che
possa rappresentare uno stimolo per tutti, ma purtroppo si precipita verso il baratro
giorno dopo giorno.
Si pagano gravi errori nella conduzione tecnica, tra cui la rinuncia ad un giocatore
come Vinicio, frettolosamente giudicato finito, il quale, viceversa, giocherà ancora
per molti anni ad altissimo livello, vincendo trentasettenne la classifica dei capo
cannonieri.
E la partenza di Vinicio rappresentò per Lauro un dolore continuo, che si riacutizzava
al racconto dell'eroiche gesta del suo figlioccio.Mal consigliato, ripeteva
continuamente sconsolato:"Mi avevano detto che era finito, che strunz so' stato".
Il Comandante aveva speso in dieci anni oltre due miliardi, per trovarsi con la
squadra in serie B e con un gruppo di giocatori del valore di nemmeno duecento
milioni. Ma non si dà per vinto, mette la mano al portafoglio e prepara uno
squadrone, che affida a Baldi, allenatore famoso per aver traghettato più di una
squadra dall'inferno della serie cadetta al paradiso della serie A.
Nonostante i rinforzi, l'inizio del campionato è disastroso e la squadra si trova a
combattere per non retrocedere in serie C (anche i nostri padri hanno sofferto!).
Baldi, inascoltato dai giocatori, chiede sconfortato di essere sostituito. Il
Comandante, in una caotica riunione a casa sua con i più stretti collaboratori, decide
di correre ai ripari. Convoca Pesaola , che stava imparando il mestiere di allenatore al
timone di una compagine di serie D e gli affida fiducioso il comando del Napoli. Il
Petisso dà la carica alla squadra, instaurando un clima di concordia tra i giocatori. Le
vittorie cominciano a fioccare e nell'ultima partita, vincendo per uno a zero a
Verona,nella tana dei leghisti ante litteram, il Napoli conquista la sospirata
promozione.
Residuerà una coda di velenose polemiche, con l'accusa, mai dimostrata, di
corruzione del portiere avversario da parte di alcuni tifosi partenopei.
Ma la permanenza in A sarà di breve durata. Il San Paolo diventerà terra di conquista
anche da parte delle provinciali,ansiose di dimostrare a giocatori milionari come si
gioca con impegno.
Lo stadio,ritenuto inespugnabile, grazie al medioevale fossato di protezione,sarà
violato dai tifosi inviperiti, che,con furbizia, supereranno l'ostacolo con l'ausilio dei
tabelloni pubblicitari abbattuti, che fungeranno da passerella verso l'arbitro. I danni
saranno ingenti, con decine di feriti e centinaia di milioni distrutti in pochi minuti.
Non ci sarà giorno più nero nella storia del Napoli ed anche per Lauro il calo
d'immagine sarà devastante, con una perdita di voti di tipo emorragico. La sua lista,
abituata a maggioranze assolute schiaccianti, raggiungerà un misero 11%.
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La situazione societaria divenne estremamente caotica e Lauro, amareggiato, fece
capire chiaramente che si era stancato di continuare a sopportare da solo il peso della
squadra. In tutti questi anni il presidente del sodalizio era stato Alfonso Cuomo, un
industriale conserviero,ma egli era semplicemente un prestanome, perché tutte le
decisioni venivano prese dal Comandante.
Dalla barca che affonda scappa anche don Achille,la situazione della società è
disperata. Il prefetto viene interessato dal governo a cercare una soluzione e si crea
una diversa struttura proprietaria.
Nasce così la prima società per azioni nel mondo del calcio, largamente in anticipo
sulle norme federali, con un capitale nominale di 120 milioni così suddiviso:40% a
Lauro, 22% a Corcione, un costruttore e 34% a Roberto Fiore, che sarà per un breve
periodo presidente del Napoli.
Nella nostra città giunsero due grandi giocatori: Sivori ed Altafini, grazie
all'interessamento di Lauro,che convinse Agnelli a svendere l'asso argentino in
cambio di un contratto per la fornitura dei motori di due transatlantici gemelli.
I due funamboli fecero impazzire la folla che rimpinguò le casse del Napoli, battendo
ogni record nazionale di abbonamenti:oltre un miliardo. Un quarto posto e l'anno
successivo addirittura secondi alle spalle del Milan. Mentre la squadra finalmente
raccoglie lusinghieri successi sul campo, la società soffre di rivalità e lotte interne. Il
presidente Fiore, messo in minoranza dal gruppo laurino, è costretto a rassegnare le
dimissioni. Il 17 dicembre 1967 lascia il suo posto a Gioacchino,il figlio terribile
di don Achille.Egli condurrà una gestione paternalistica, sotto l'ala protettrice del
padre-padrone, con il portafoglio sempre pronto e, quando non bastava, con il libretto
degli assegni.
"Premi e stipendi saranno sempre garantiti , nessuna preoccupazione economica"
soleva ripetere fino alla noia. Arriveranno, grazie a lui, grandi giocatori come Claudio
Sala e Barison ed in porta il plurinazionale Dino Zoff.
Gioacchino seppe instaurare un buon rapporto con i giocatori che appestava
benevolmente negli spogliatoi dopo la partita con i suoi inseparabili sigari cubani,
procurati per lui dal fornitore personale del" Lidermaximo", il barbutissimo Fidel.
Un male incurabile lo stroncò ancora giovane, con un solo rimpianto:non aver
regalato lo scudetto al meraviglioso pubblico napoletano.
Dopo un breve interregno di Antonio Corcione, si prepara a comparire sulla scena la
figura di un giovane ingegnere, costruttore, amante delle auto velocissime e stregato
dal calcio:Corrado Ferlaino. Il suo impero durerà 33 anni e finalmente porterà lo
scudetto, ben due volte, all'ombra del Vesuvio.
Seppe conquistarsi la presidenza con abilità, in un consiglio dove due fazioni, una
favorevole a Lauro e l'altra contraria, si contendevano la presidenza. Il rappresentante
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del Comandante, l'avvocato Diamante, gli diede fiducia, perché a don Achille era
piaciuto quel giovane così deciso.
Ferlaino riuscì a procurarsi il pacchetto azionario di Corcione e poi anche quello di
Fiore.
Rocambolesco l'acquisto della quota in possesso della vedova Corcione, abitante ad
un settimo piano. Mentre Fiore saliva comodamente in ascensore, l'ingegnere,
memore del suo passato di atleta, percorrendo di corsa le scale, arrivò per primo e
concluse l'affare.
Lauro non avrà più da quel momento una posizione di rilievo nella società, rimarrà
presidente a vita, ma il destino del Napoli rimarrà saldamente nelle mani di Ferlaino,
che, tra i tanti meriti, porterà nella nostra città Armando Maradona, i cui magici piedi
faranno letteralmente impazzire i tifosi.
Lauro ha senza dubbio segnato un'epoca. Di lui non si può non ricordare la grande
personalità. A lui si deve lo stimolo per la costruzione dello stadio San Paolo
Ebbe sempre grande personalità e seppe sempre porsi davanti ad uomini e fatti, nella
buona e nella cattiva sorte, con grande determinazione.
Nella sconfitta conservava sempre una grande dignità.
Ha vissuto la vita del calcio Napoli per oltre 40 anni con risultati alterni, ma sempre
con la stessa passione. Aveva una visione romantica del calcio, non solo come fatto
tecnico, ma soprattutto come spettacolo per il pubblico che fa grandi sacrifici
economici per andare allo stadio.
Acuta ricostruzione storica di un testimone d'eccezione, l'ingegnere Corrado Ferlaino,
presidente del Napoli per oltre 30 anni, l'uomo degli scudetti e di Maradona.
Il 17 maggio 1942 è la data di un episodio unico negli annali del calcio. Il vecchio e
glorioso stadio Ascarelli, ignaro del tremendo bombardamento dell'anno successivo
che lo avrebbe ridotto ad un cumulo di macerie, assistette ad una memorabile sfida tra
portieri, che erano fratelli e vestivano casacche diverse.
Le squadre, il Napoli ed il Modena, i due estremi difensori a confronto, Sentimenti II
e Sentimenti IV.Viene assegnato un rigore decisivo, ma nessuno degli attaccanti se la
sente di sfidare Sentimenti II,che si era conquistato una leggendaria fama
di"ammazzarigorista", parando consecutivamente 12 penalty, tirati da specialisti
famosi, tra i quali: Frossi, Meazza e Piola.
Dall'altra parte del campo si fa avanti allora l'altro portiere, il fratello Sentimenti
IV,che dopo una breve rincorsa, novello Caino, trafigge il germano con un tiro
all'incrocio dei pali, interrompendo una imbattibilità giustamente divenuta mitica.
Era lo stesso Lauro a raccontare spesso questo irripetibile scontro,rimembrando tempi
eroici, quando gli allenamenti erano quasi quotidianamente interrotti dal lugubre
suono delle sirene e la vita di tutti era legata ad un filo.
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Sentimenti II,"Cherry", per i tifosi, è stato uno dei più grandi portieri italiani di tutti i
tempi, ma aveva un carattere litigioso,tanto da venire varie volte espulso, evenienza
rarissima per un portiere.
In uno di questi casi gli viene decurtato il premio di partita: mille lire, una cifra
cospicua a quei tempi, quando si sognava e si cantava di poterle avere…una volta al
mese.
Sallustro chiede ai dirigenti di poter rinunciare al suo premio in favore del compagno
e questi, colpiti dalla sua generosità, perdonano il gesto d'intemperanza del portiere e
gli assegnano il premio che gli spettava. Una favola d'altri tempi,quando l'amicizia
prevaleva sul denaro. Il regno di Corrado Ferlaino durerà, come abbiamo detto,oltre
trent’anni e porterà, grazie al grande colpo, l’acquisto di Maradona, a due scudetti
che faranno letteralmente impazzire la città.
La campagna abbonamenti batte ogni record con settantamila blocchetti venduti, si
giocava costantemente con lo stadio esaurito in ogni ordine di posti. Al centro
dell’attacco un bomber pagato due miliardi: Beppe Savoldi.
Sallustro e Ascarelli
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Lauro presidente
Vinicio
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Anna Maria Cirillo la regina delle lettere
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sfuggire la possibilità di curiosare fra le migliaia di titoli che parlano di Napoli e della
sua storia.
“Sono numerosi gli studiosi, i ricercatori e i semplici acquirenti che affollano questo
locale – afferma orgogliosa Anna Maria Cirillo – e si tratta, nella maggioranza dei
casi, di persone colte con cui è sempre piacevole scambiare quattro chiacchiere; e
quando un volume non è presente negli scaffali o in deposito possiamo sempre
procurarlo in tempi rapidi, anche se si tratta di editori minori, tirature limitate o di
opere di difficile reperimento e naturalmente, disponendo di un sito web, la vendita
avviene anche online”.
Oltre al sito, cliccato giorno e notte, la signora possiede una corposa mailing list di
appassionati cultori di libri su Napoli e la napoletanità, ai quali periodicamente
spedisce le novità. Una tecnica al passo con i tempi, che permette di vendere, mentre
le altre librerie chiudono, per lasciare spazio a centri commerciali ed outlet, dove
l’elettronica fa da padrona e la cultura è stata irrimediabilmente esorcizzata.
Storia antica, moderna e contemporanea, curiosità, letteratura e poesia, musica e arte,
cataloghi e pubblicazioni periodiche, una nutrita sezione borbonica con autori
coraggiosi che stanno contribuendo alla riscrittura e alla revisione di una storia che
per troppo tempo ha taciuto la verità, rappresentano il nocciolo duro di una volontà
che, ad ogni costo, vuole salvaguardare i pilastri della conoscenza e della storia patria
contrapponendosi all’ignoranza imperante.
Fa onore il senso di appartenenza al territorio oltre che al peculiare tessuto culturale
partenopeo il fatto che mentre in molti fuggono dalla città per cercare fortuna
all’estero la nostra regina, pur avendone più volte avuto la possibilità, ha deciso di
non muoversi e di realizzare il sogno di suo padre che già dagli anni ’50 si occupava
di libri.
E comunque il territorio su cui insiste la libreria Neapolis è depositario di una
speciale vocazione che ci pare riassunta brillantemente in una frase riferita da un
turista britannico: “the educational level of a people is measured by how it preserves
its cultural memory” e la gente del posto, nonostante le difficoltà economiche
congiunturali e i problemi sociali diventati ormai strutturali continua a conservare la
tradizione e la memoria del passato, non smettendo mai di sperare nel futuro.
“Sono per la politica dei piccoli passi – aggiunge la Cirillo introducendo un elemento
di sincera speranza in un futuro che non può non realizzarsi in una città vitale e
capace di resistere alle avversità - e le mega infrastrutture potranno servire pure ma in
un secondo momento e non all’inizio di un processo di ripresa dell’identità culturale
di una città”.
Parole queste di una donna coraggiosa e determinata, e ci permettiamo di aggiungere
affascinante, che ci sentiamo pienamente di condividere.
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Dimenticavo [email protected] – 081 5514337
la libreria Neapolis
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la libreria Neapolis
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Raffaele Pisani, strenuo difensore della lingua napoletana
Raffaele Pisani
Debbo premettere che Raffaele per me non è un semplice amico, ma poco meno di un
fratello, il quale, senza conoscermi personalmente, mi ha confortato e tangibilmente
aiutato in un momento difficile della mia vita. Non ci conosciamo, ho detto, ma è
come ci conoscessimo da sempre, perché ci lega indissolubilmente l’amore per
Napoli, per le sue canzoni, per le sue poesie, per le sue tradizioni.
Raffaele Pisani è senza dubbio oggi uno degli autori più ispirati e fecondi della
poesia napoletana, attento a che la cultura popolare, ben espressa nel vernacolo, non
vada dispersa. Operazione che lo vede da sempre in prima linea attraverso testi
fondamentale, quali Poesie napoletane per le scuole elementari e medie, di cui è
uscita una nuova edizione a cura della Cuecm, una selezione accurata di testi che
include i grandi classici italiani. Ogni poesia ha un suo corredo didattico, spunti di
riflessione, l’invito le frasi in disegni, un esaustivo vocabolario. Una sezione è
dedicata alla traduzione in vernacolo dei grandi testi della letteratura italiana, da
Dante a Manzoni.
Il libro insiste sulla necessità di portare la conoscenza della lingua di Partenope tra i
banchi, affinché un enorme patrimonio venga conosciuto e valorizzato.
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Tempo fa un europarlamentare napoletano, Enzo Rivellini, ha pronunciato un
discorso a Strasburgo, ad una seduta dell’europarlamento, in perfetto vernacolo,
scatenando il panico tra gli interpreti e lo stupore dei colleghi. Intervistato dalla
stampa internazionale candidamente ha affermato che il napoletano non può essere
assolutamente considerato un dialetto, bensì una lingua a tutti gli effetti, con la sua
grammatica e la sua letteratura ed, aggiungeremo noi, con un suo patrimonio canoro
conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo, grazie ad alcuni celebri ambasciatori, tra i
quali, negli ultimi anni, il compianto Pavarotti.
La parlata di Basile, di Viviani, di Eduardo non è certo sottocultura, perché essa è
stata definita nei secoli da Vico ”lingua filosofica”, da Galiani ”il volgare illustre
d’Italia degno degli ingegni più vivaci”, da Croce “gran parte dell’anima nostra”
senza parlare della poesia animata da vivacità e fantasia, passione ed amore, in grado
di essere intesa anche da chi non ne riconosce correttamente le parole.
Un altro terreno fertile che ci permette di apprezzare la nobiltà del napoletano sono i
numerosi proverbi, frammenti di saggezza antica, come li definiva Aristotele, che
mettono in evidenza come il napoletano sia una lingua, non un dialetto, con la sua
grammatica e la sua letteratura, ma come tutti gli idiomi ha debiti verso le parlate
precedenti, principalmente il latino. Per molti proverbi napoletani corrisponde
un’antica dizione nella nobile lingua di Cesare e di Cicerone.
Nel folclore napoletano, pregno di filosofia e di sentenze ammonitrici esiste un
immenso patrimonio di modi di dire, spesso in rima, frequentemente dedicati alla
donna, che rappresentano l’espressione di una civiltà prevalentemente contadina.
Questi motti sono assurti a dignità letteraria soprattutto nel Seicento ed affrontano
con occhio bonario le infinite sfaccettature dell’esistenza e per la donna esaltano i
piaceri ed i dolori della vita coniugale, le tentazioni della carne, il rapporto con i figli
ed il marito, il rispetto di un ferreo codice morale. Alcune immagini posseggono
un’icastica potenza, mentre il linguaggio, spesso scollacciato e pittoresco, garantisce
una meditazione comica ed accattivante. Dagli adagi napoletani traspare, rispetto a
quelli toscani, un’impostazione più benevola e meno graffiante ed una maggiore
considerazione delle qualità muliebri, dall’illibatezza alla fedeltà, dal maternità alla
riservatezza.
La lingua napoletana non è altro che il volgare latino della regione, come il toscano
per la Toscana, al quale si sono poi sovrapposte le parlate degli invasori. Una vera
novità, infatti basta sfogliare qualsiasi vocabolario etimologico del nostro vernacolo
per constatare come per la maggior parte delle parole sia stata ipotizzata una radice
spagnola o francese.
Abbiamo divagato troppo, ritorniamo a Raffaele, dal 1981 in dolce esilio d’amore a
Catania.
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Nato ad Agerola nel 1941, fratello del pittore Gianni, diplomato geometra, cominciò
a scrivere versi in attesa di un lavoro, ma trovatolo, non ha mai smesso.
Frequentò a lungo la casa di E. A. Mario, di cui ha seguito l’esempio. Oltre a scrivere
poesie è stato un antesignano dei graffiti, quando nel 1980, col permesso del sindaco
Valenzi, traccio 100 metri di rime su un muro di via Stazio.
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Le ville di Posillipo, quanti ricordi, quanta malinconia
In questo percorso narrativo intendo condividere con i lettori una serie di ricordi
legati alla frequentazione delle principali ville di Posillipo, una sorta di amarcord che
copra 6 chilometri e 60 anni.
Forse non esiste a Napoli nessuno che ha avuto il privilegio come me di godere
dell’amicizia o della conoscenza degli eredi di un patrimonio di pietre e di cultura,
che dall’epoca imperiale è giunto a noi e che tutti dovremmo conoscere, ma
soprattutto salvare dall’incuria degli uomini e dalla furia devastatrice del tempo.
Per chi volesse conoscere in maniera esaustiva la storia delle ville descritte in questa
veloce carrellata, non ha che da consultare i celebri libri scritti sull’argomento, quali
quello di Renato De Fusco, uscito nel 1990, ma ancora in commercio, o la bibbia su
Posillipo, il monumentale volume di Italo Ferraro, dalla lettura esaltante e dal costo
esorbitante.
Il racconto comincia lì dove sorgeva la villa di Vedio Pollione, divenuto ricco col
commercio del grano ed amico dell’imperatore Augusto ed in epoca moderna la
dimora di Ambrosio, anche lui re del grano e sodale del potente ministro Cirino
Pomicino. E fu proprio il braccio destro di Andreotti a favorire il nostro incontro per
visionare uno spettacolare quadro di Luca Giordano (fig.1) e preparare il relativo
expertise.
Dopo aver ammirato il dipinto e sorbito un eccellente caffè, il padrone di casa
candidamente chiese: “Vogliamo andare a teatro?”.
"Vi è qualche spettacolo interessante da vedere all'Augusteo o al Diana?"
"Intendevo visitare il mio teatro personale".
Con grande meraviglia ci recammo in un'area contigua alla sua villa dove potemmo
ammirare, ben conservato, uno splendido teatro in grado di contenere 2.000 spettatori
(fig.2), un Odeion e altre strutture di sommo interesse archeologico, da un ninfeo a
delle antiche terme.
240
fig. 1 - Luca Giordano-Jezabel divorata dai cani
Negli anni, per fortuna dei napoletani e per sfortuna del nostro anfitrione, il monarca
del grano incappò in una serie di disavventure giudiziarie, che si conclusero con
l'esproprio delle sue proprietà, le quali, passate allo Stato, sono ora di godimento
pubblico e sono visitabili ogni giorno, basta percorrere da via Coroglio, l’imponente
Grotta di Seiano realizzata in epoca romana dall’architetto Lucio Cocceio, che fu
riportata alla luce, riaperta e riadattata nel 1840 da Ferdinando II di Borbone. Il
traforo, della lunghezza di circa 780 metri, attraversa la collina tufacea di Posillipo,
collegando l’area di Bagnoli e dei Campi Flegrei con il Parco sommerso della
Gaiola.
Il colpo di grazia al percorso terreno del nostro ospite fu la sua morte violenta: ucciso
dalla servitù, che voleva rubare i gioielli di famiglia.
241
fig. 3 - Isolotto della Gaiola
242
fig. 5 - Villa Imperiale
Non parleremo di Villa Imperiale (fig.5) per la quale invito i lettori a leggere il mio
articolo riguardante l'accorsato stabilimento balneare: Com'era bella villa Beck
(consultabile su internet digitandone il titolo).
Continuando il nostro percorso verso via Caracciolo e superato il villaggio di
Marechiaro, c'imbattiamo, all'altezza del famigerato Scoglione, regno incontrastato di
bagnanti di basso rango, amanti della frittata di maccheroni e della parmigiana di
melanzane, che consumano tra un tuffo ed il rito dell'abbronzatura, nella tenuta
Capasso: una enorme superficie verde di oltre 100.000 metri quadrati la quale,
dall'alto protrude, tra cespugli di fiori ed il cinguettio degli uccelli, sulla linea del
mare, costeggiando un'antica scalinata, sconosciuta quanto utile, che permette di
raggiungere il mare da via Posillipo.
243
fig. 7 - Villa Capasso
Il bordo della proprietà è costellato da una serie di ville e villette (fig.6) che
permettono di ascoltare il fragore delle onde, di percepire l'odore del salmastro e
godere di un panorama mozzafiato. Un paradiso terrestre che da poco è stato scoperto
da un'importante rivista internazionale che gli ha dedicato la copertina (fig.7).
Il capostipite della dinastia Arturo Capasso è stato per me sempre, più che un amico,
un fratello maggiore, da cui prendere esempio ed accogliere i consigli. Ci separavano
12 anni di età e di saggezza. E’ stato l’anima del salotto culturale di mia moglie
Elvira; mai un’assenza in 10 anni, sempre attento in prima fila con la moglie
Marianna. Da lui partivano le domande e gli interventi più stimolanti, che inducevano
i relatori ad approfondire gli argomenti. Ha collaborato con le sue personali amicizie
a far intervenire personaggi famosi e con il suo entusiasmo elettrizzava il pubblico.
Ufficialmente la sua attività era dirigere il suo negozio di tessuti con 40 dipendenti in
zona Mercato, ma egli da intellettuale raffinato amava leggere e scrivere. Giornalista
professionista aveva collaborato ad importanti testate, dal settimanale Gente alla
gloriosa rivista Scena Illustrata, sulla quale mi invitò a scrivere dal 1994,
collaborazione che da venti anni non si è mai interrotta. Perfetto conoscitore delle
lingue, aveva soggiornato come borsista in Unione Sovietica, diventando un acuto
osservatore della realtà comunista, che ha riportato in alcuni suoi libri. Una figlia
architetto, 3 nipoti, una splendida villa a Posillipo sul mare con ettari di verde, che in
parte coltivava, vestendo alla perfezione i panni del contadino, per dismetterli la sera
e, novello Macchiavelli, indossarne di eleganti per dialogare con gli Antichi e con i
giganti della letteratura russa che amava svisceratamente.
Da qualche anno, dopo una malattia sopportata con paziente rassegnazione, ha
lasciato questa valle di lacrime. Almeno ufficialmente, forse per gli altri, per me vivrà
per sempre nel mio cuore, dove ha un posto di riguardo.
ogni sera Arturo veniva trovarmi nel mio giaciglio a Rebibbia, a rendere lieti i miei
sogni, a farmi compagnia, mitigando la mia tristezza. Discutevamo affacciati verso il
mare nella sua splendida villa o passeggiavamo ad occhi chiusi per via Caracciolo e
da napoletani veraci sapevamo distinguere chiaramente tra il fragore delle auto
clacsonanti ed il frangersi delle onde sulla scogliera di Mergellina
244
fig. 8 - Villa Fattorusso
245
da mia moglie Elvira nella nostra villa e noi, per ricambiare, ogni tanto accettavamo i
suoi inviti per un tuffo esaltante.
Prima di proseguire il nostro percorso vorrei parlare del degrado di tante ville, le più
fortunate divenute anonimi condomini, le altre in preda indifese alla caducità del
tempo.
E pensare che li definivano «casini», quei superbi palazzi che degradano sul mare di
246
Posillipo. Mica per offesa, casino stava per delizia, nel linguaggio di fine '700 che
lusingava la villeggiatura borghese. Oggi sono un tesoro in gabbia, ingoiato da flutti
ed erosioni, offeso dall' illegalità. Una cartolina da godere in rada. Proprio così, la
magia non bacia più quei fiordi blu che disegnavano la splendida mappa delle cale di
Posillipo, dalla Gaiola a Palazzo Donn' Anna, tra grotte romane e ville imperiali. Chi
ricorda la spiaggia del Cenito, ricercatissima fino a qualche tempo fa? Di quei
granelli resta un esile brandello. Ed il molo vicino alla Villa della Grotta San
Giovanni? Ora è una piattaforma di sporcizia e desolazione. Resta la fama di quelle
cale d' autore, da ammirare al largo o da scrutare dietro cancelli sbarrati. Come la
Grotta Romana (fig.10), ex tempio sacro, oggi sembra abitata da fantasmi.
Antichissima, nacque come caverna preistorica, celebrata poi dai romani, infine dalla
nobiltà. Diede il nome ad un famoso locale notturno, il luogo più ambito dal re d'
Egitto Faruk, e da una giovane Gloria Christian. Tutto finito, anche il vecchio
stabilimento in legno è sparito. Svanito come il Lido del Sole, glorioso bagno
pubblico gestito dal poeta Salvatore Serino, tra Villa Mazziotti (fig.11) e Villa
Martinelli (fig.12). Antonio Esposito, barbiere caro ad Antonio Bassolino, se le
ricorda tutte, anche Villa Lauro. «Su una striscia di spiaggia si giocava allo
«scannapopolo», 10 contro dieci, 40 anni fa, quando a Posillipo si cominciò a pescare
con il ferro dell' ombrello e la molla delle mutande. E che pesca, tiravamo su
sparaglioni e mazzoni a volontà». La leggenda ha sfiorato la cala di San Pietro a' due
frati, meta ambita, protetta da due celebri scogli, si raccontava avesse ospitato una
cappellina dedicata all' Apostolo. Di quegli scogli, spianati dalla furia del mare, non
resta nulla. E' sempre off limits Villa D' Avalos, come Villa Peirce, divorate dall'
invidia dei natanti in rada.
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fig. 14 -Monnezza a mare
Nell' ex ospizio di Villa Marino, un tempo Bagno dei Preti, il principe di Piemonte
Umberto si tuffava qui, tra Riva Fiorita (fig.13) e Villa Volpicelli, insieme ai
“guaglioni” E nelle 5 grotte aperte sul mare si costruivano apparecchi da
bombardamenti di giorno e di sera, sopra la piattaforma, si ballava al suono del mare.
A vederla quella piattaforma, sembra una base abbandonata. Come le cabine. Il mare
una cloaca (fig.14).
248
fig. 16 - Bagno Elena
A cala Selvina, qualcuno provò ad aprire un locale al pubblico: attirò gli scafi dei
contrabbandieri in gita domenicale. Chiuse presto. E Villa Rosebery? Chi provasse ad
espugnarla s' imbatterà in motoscafi d' altura, carabinieri e polizia segreta, a guardia
della residenza presidenziale. In quegli anfratti marini, cari ai viaggiatori del Nord e
agli antichi romani, gli stabilimenti «aperti» si contano. Sopravvive il più antico,
Bagno Elen (fig.15–16), 160 anni di storia e un lenzuolo di sabbia per godere (nel
caos) la vista sul Golfo. Villa Imperiale, splendido scrigno con piscine di acqua salata
protetto dalla Villa degli Spiriti di Pollione ospitò Giulio Cesare e Tiberio: oggi è il
lido più ambito di Napoli, forse perché frequentato dal sottoscritto.
Continuiamo il nostro percorso e ci imbattiamo in Parco Rivalta, una serie di ville che
degradano verso il mare a valle di piazza Salvatore Di Giacomo.
Una delle più belle (fig.17), negli anni Settanta, era abitata dall’ultimo discendente
249
della famiglia Caflisch, (fig.18), un tempo proprietaria di tutto il fondo, che occupava
il piano terra, mentre il primo piano era la casa dello scrittore Luigi Compagnone, il
quale, dotato di una vasta biblioteca, ebbe l’onore di aiutarmi nella preparazione in
occasione della mia partecipazione a Rischiatutto, per la quale invito a consultare i
seguenti link
https://www.youtube.com/watch?v=vwnqj9Klw7s
https://www.youtube.com/watch?v=qWfp73WeQBU
In seguito mi permise di conoscere villa Lucia (fig.19), fantastica quanto
misconosciuta, all’epoca dimora del pittore Paolo Ricci, dove periodicamente si
tenevano cenacoli letterari, durante i quali ho avuto occasione di dialogare con
personaggi come Eduardo De Filippo e Maurizio Valenzi.
Passiamo ora ad una dimora da sogno dove abita l’ultima regina di Napoli, la mitica
fondatrice di Napoli ’99.
Mirella Stampa con il marito Maurizio Barraco vive a Posillipo a Villa Emma, detta
Villa delle Cannonate (fig.20) perché fu scambiata per un fortilizio nemico dalle navi
spagnole che cannoneggiavano la città. La dimora settecentesca, confina con Villa
Rosbery, residenza napoletana del Presidente della Repubblica ed è arroccata a picco
sul mare di fronte all’isola di Capri, isolata dalla città da un immenso parco di pini,
oleandri, gigantesche piante di ibiscus in fiore e delicati esemplari di peonie rosse dal
profumo tenue ed indimenticabile.
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fig. 20 - Villa Barracco
Al primo piano una serie di saloni con centinaia di quadri alle pareti, porcellane
preziose e mobili d’epoca; al secondo piano le camere da letto.
Nella cornice di questa splendida villa nasce come evento mondano Napoli ’99 con
una festa principesca che raccoglie i fuochi d’artificio dell’alta società ed i toni seri
degli studiosi chiamati a raccolta per la nascita di una Fondazione che rappresenta un
atto di amore per la splendida città del golfo e del Vesuvio, ridotta a pezzi dalle
amministrazioni comunali e dallo sfruttamento di tutte le risorse umane e naturali.
«Erano secoli che non si vedeva tanta bella gente a Napoli» mormorano in coro gli
esperti di mondanità. «Riviviamo i tempi favolosi in cui Capri agli inizi degli anni
Sessanta era la regina incontrastata del jet set internazionale».
Quattrocento invitati (tra cui il sottoscritto infiltrato) partecipano alla grande festa che
i Barracco danno nella loro stupenda villa di Posillipo con tutto il mare del golfo ai
suoi piedi, per tenere a battesimo la neonata Fondazione.
Le più blasonate famiglie del nord quali i Cicogna, i Volpe di Misurata, i Valeri
Manera si incontrano con le più famose di Napoli e del meridione, quali i Serra di
Cassano, i Leonetti, i Del Balzo di Presenzano, i Pignatelli, i Capece Minutolo ed i
Caracciolo. I grossi magnati dell’industria e della finanza quali i Bagnasco, i Nesi, i
Romiti entrano a confronto col fior fiore degli intellettuali di tutta Europa da Jaques
Le Goff a Ignacio Mattè Blanco, da George Vallet a Maurice Ajnard.
A ricevere ed intrattenere il fior fiore della «intellighenzia» straniera è presente una
pattuglia comprendente tutti i più bei nomi della cultura italiana: da Giulio Carlo
Argan a Salvatore Accardo, da Cesare Brandi a Domenico de Masi da Luigi Nono a
Renzo Piano, da Roberto De Simone a Luigi Firpo, da Maurizio Scaparro a Vittorio
Gregotti.
Tutti assieme ad ipotizzare degli scenari di risanamento per la realtà napoletana che
in passato fu faro del pensiero umano da Gian Battista Vico a Benedetto Croce.
251
fig. 21 - Villa Rosebery
252
Gli interni (fig.23) sono elegantemente arredati ed espongono alle pareti numerosi
dipinti di pregio.
Per un tempo infinito il luogo è stato inaccessibile e si gridò al miracolo quando negli
anni Novanta fui in grado di organizzare per i miei amici una visita guidata da me
medesimo, grazie al mio amico Emanuele Leone, nipote dell’omonimo presidente.
Da qualche anno il Fai riesce ad organizzare sporadicamente delle visite, ma solo per
gli iscritti all’associazione in regola con i pagamenti annuali.
Villa Volpicelli (fig.24), più famosa come villa Palladini, è da molti anni conosciuta
perché il suo soleggiatissimo terrazzo ed il lussureggiante giardino, confinante con
quello di villa Rosebery, funzionano da set per le riprese della più seguita soap opera
della televisione: Un posto al sole, della quale da anni non perdo una puntata, per cui,
grazie alle mie conoscenze altolocate, sono riuscito a conoscere i principali attori ed a
vederli in azione dal vivo: una emozione indimenticabile, che ho condiviso con mia
figlia Marina, anche lei patita della trasmissione.
Conoscevo la villa da oltre 50 anni, perché, grazie ad un mio amico, Giosi
Campanino, un estroso personaggio di cui da anni ho perso le tracce, partecipai il 31
dicembre del 1967 ad un indimenticabile veglione nella sfarzosa dimora del celebre
scienziato Eduardo Caianiello, massimo esperto di cibernetica ed in egual misura di
253
fuochi artificiali, che sparò in quantità industriale dalla spettacolare balconata a picco
sul mare del suo appartamento.
Villa Gallotti (fig.25) è una villa nobiliare inserita in un parco privato cui si accede
attraverso un lungo viale immerso nel verde. Al termine di una tortuosa stradina, che
congiunge la collina posillipina al mare, un muraglione in tufo, dotato di merli e
scalette di collegamento con la riva e al quale è attaccato un piccolo molo, delimita la
254
proprietà, che da tempo è divisa tra più famiglie ed un rampollo di una di queste: i
Mayrhofer è stato mio compagno alle elementari e più volte mi ha invitato alle feste
per i suoi compleanni.Negli anni successivi mi è capitato sporadicamente di accettare
l’invito a cena di Frida Kasslatter, che abitava uno degli appartamenti sul mare e
soprattutto esercitava con successo il più antico mestiere del mondo, dettaglio per me
trascurabile a fronte della sua abilità nel preparare deliziose pietanze, per cui i nostri
incontri erano esclusivamente culinari…
Pochi colpi di remo e si arriva in un porticciolo (fig.26) al cui interno c’è una
sorgente d’acqua frizzante; ecco Villa Pierce (fig.27), nota anche come Villa Lauro,
costruita nel 1842 ed acquisita dai Pierce nel 1909.
In questa residenza si rifugiò per un breve periodo Giuseppe Garibaldi, ormai vecchio
e infermo, ma soprattutto era lo sbocco a mare del mitico Comandante. Anche questa
villa è stata utilizzata per rappresentare l’esterno di villa Palladini nella famosa soap
opera Rai Un posto al Sole.
Per molti anni vi sono stati gli studi di Canale 21, la più importante emittente privata
campana, alle cui trasmissioni ho spesso partecipato come ospite.
fig. 28 - Villad'Avalos
255
illustri dinastie napoletane. Un suo antenato, Fernando Francesco D'Avalos, guidò
alla vittoria, nel 1525 l’armata imperiale spagnola contro l'esercito francese,
comandato personalmente dal re Francesco I nella famosa battaglia di Pavia,
immortalata in una serie di splendidi arazzi (fig.29) esposti nel museo di
Capodimonte.
Il nobile, da poco scomparso, amava viceversa combattere sul talamo e mi fu molto
grato per avergli presentato Maria Pia M. che divenne la sua prediletta. In cambio mi
presentò alcune nobildonne di gentile aspetto e di facili costumi con le quali trascorsi
ore liete e produttive, stando però attento a non riprodurmi.
256
fig. 32 -Villa Roccaromana
Poco dopo incontriamo la villa Roccaromana (fig.32) con la sua pagoda di stile
orientale e la gigantesca caverna abitata da pallidi fantasmi ed intravediamo la zona
di San Pietro ai due frati sulla quale fioriscono numerose leggende.
Il mare da via Posillipo si raggiunge percorrendo circa 200 gradini (fig.33) e si arriva
a dove abitava Eugenio Buontempo, il famigerato imprenditore pupillo di Craxi. Egli
occupava un vasto appartamento (fig.34) a pelo d’acqua, per cui al posto delle
persiane aveva delle gigantesche saracinesche.Ho visitato la sua casa, ricca di dipinti
e mobili di pregio, oltre ad una ricca biblioteca nel 1991, in un momento drammatico
per il proprietario, latitante, mentre Semenzato preparava una memorabile asta per
vendere i suoi tesori, nella quale mi aggiudicai molti lotti, ma soprattutto un vero
capolavoro degno di un museo: Il Pescatorello di Vincenzo Gemito (fig.35), che da
allora riceve gli ospiti che visitano i saloni della mia villa
257
fig. 34 - San Pietro ai due frati
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fig. 36 - Villa Pavoncelli
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fig. 38 - Ospizio marino
Ed eccoci arrivati alla mole maestosa di Palazzo Donn'Anna (fig.40), costruito alla
fine degli anni Trenta del 1600, quando venne innalzato per la volontà di donna Anna
Carafa, consorte del viceré Ramiro Núñez de Guzmán, duca di Medina de las Torres.
Il progetto per la realizzazione fu commissionato al più importante architetto della
città di quel periodo, Cosimo Fanzago, che nel 1642 approntò un disegno secondo i
canoni del barocco napoletano, che prevedesse tra le altre cose anche la realizzazione
di un doppio punto d'ingresso, uno sul mare ed uno da una via carrozzabile che si
estendeva lungo la costa di Posillipo (che conduce al cortile interno dell'edificio). Per
la costruzione del palazzo, fu necessario demolire una preesistente abitazione
cinquecentesca. Il Fanzago, però, non riuscì a completare l'opera per via della
prematura morte di donn'Anna, avvenuta in un contesto di insorgenza popolare a
causa della temporanea caduta del viceregno spagnolo, con la conseguente fuga del
marito della stessa verso Madrid nel 1648. L'edificio rimasto incompiuto assunse lo
spettacolare fascino di una rovina antica confusa fra i resti delle ville romane che
caratterizzano il litorale di Posillipo e fra gli anfratti delle grotte. Nell'interno, di
notevole interesse è il teatro (fig.41), aperto verso il mare e dal quale si gode un bel
panorama della città partenopea, a lungo sede della Fondazione culturale Ezio De
260
Felice, normalmente chiuso, ma di recente da me visitato in occasione della
presentazione di un libro di Silvio Perrella.
Il palazzo subì alcuni danni durante la rivolta di Masaniello del 1647 e durante il
terremoto del 1688. Nel corso del XIX secolo sono stati numerosi i passaggi di
proprietà che hanno visto i legittimi proprietari provare di volta in volta a modificare
la destinazione d'uso della struttura, facendola diventare prima una fabbrica di
cristalli nel 1824 e poi un albergo (con l'acquisto dei Geisser nel 1870 circa). Negli
anni successivi si sono succeduti ancora altri proprietari, come la Banca d'Italia nel
1894 ed i Genevois due anni più tardi.
L'edificio non è oggi visitabile e non costituisce alcun polo museale, in quanto
interamente utilizzato come abitazione privata, diviso in vari condomini.
Naturalmente questa ferrea regola non vale per il sottoscritto, che conosce numerosi
proprietari, dalla valente chirurga plastica Michela Ascione al celebre scienziato
Andrea Ballabio, ma l’amicizia più importante è con Maria Carla Lamberti, già
compagna di palestra di mia moglie Elvira.
261
La gentile signora abita col marito la mitica casa (fig.42) di Raffaele La Capria,
dotata di una spettacolare balconata fronte mare e l’anno scorso ha cortesemente
accolto una sessantina di miei amici delle visite guidate, che organizzo ogni
settimana. Tutti rimasero stupefatti, non solo per il panorama unico, ma perché il
mare, limpido come ai Caraibi, era pieno di pesci guizzanti, a tal punto che esclamai:
“ Maria Carla ti sei messa in cerimonie, per i miei amici hai fatto splendere il sole in
pieno inverno e attirato qui tutti i pesci del golfo, sei più potente di una dea”.
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fig. 44- Circolo Nautico Posillipo
E siamo così arrivati al glorioso Circolo Nautico Posillipo (fig.44), ben visibile per
l’enorme scogliera che lo circonda e per il verde e rosso dei colori sociali.
Tra le abitudini dei napoletani vi è stata sempre quella di associarsi per discutere,
divertirsi, ma soprattutto per combattere il terrore della solitudine, stando tutti
assieme. Tali organizzazioni esistevano anche nell’antica Grecia e presso i Romani e
prosperarono un po’ dovunque durante il Medioevo ed il Rinascimento, ma fiorirono
maggiormente a Londra ed in Francia durante e dopo la rivoluzione, avendo carattere
prevalentemente politico.
A Napoli la nascita del primo circolo risale al 7 maggio del 1778, negli anni
successivi i circoli sorgeranno a Napoli come funghi, per ultimo nel 1925, il
Giovinezza, che nel dopoguerra, rammentando un’imbarazzante canzoncina fascista:
“Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza”, fu ribattezzato Posillipo. E fu un
cambiamento quanto mai opportuno, perché al di la delle opinabili opportunità
politiche, la frequentazione era, come in gran parte delle altre associazioni, da parte
di signore d’annata e signori ultramaturi(in primis il mio amico Sabino), impegnati in
defatiganti tornei di burraco, fumando e spettegolando, personaggi che della
giovinezza hanno un pallido ricordo.
Un momento di esaltante elevazione culturale il Posillipo lo visse nel 2007 in
occasione della presentazione del mio libro Il seno nell’arte, relatori il giornalista
Luciano Scateni ed il presidente del sodalizio Antonio Mazzone. Fece seguito, per gli
oltre 200 presenti una cena gustosa offerta dal circolo. Per chi volesse consultare il
libro può digitare in rete http://www.guidecampania.cm/seno/
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fig. 45 - Villa Doria d'Angri (vista dal mare)
Dobbiamo ora accennare ad alcune ville poste sul lato destro di via Posillipo, come
villa Doria D’Angri (fig.45). Si tratta della più importante villa neoclassica della
zona: fu voluta dal principe Marcantonio Doria d'Angri (1809 – 1837) esponente di
spicco della famiglia di origini ; i lavori furono completati nel 1833; la fece erigere
dall'architetto Bartolomeo Grasso. La struttura sembra che fuoriesca dalla roccia;
essa, infatti, è stata appositamente concepita su un grande banco tufaceo, con il quale
sembra formare un solo corpo architettonico. Il progetto primitivo, oggi, lievemente
alterato dalle aggiunte e dai rimaneggiamenti successivi, prevedeva un'architettura a
due piani su un alto basamento a tre ordini di arcate, decorati a bugne in stucco.
L'ultimo elemento tecnico regge l'ampia terrazza che circonda l'intera struttura e su
cui verte, su ciascun lato, un loggiato con quattro colonne ioniche. I terrazzi laterali
erano dei giardini pensili con giochi d'acqua e fontane, gli esterni proseguivano lungo
le rampe che salivano sulla collina formando dei giardini di Delizie tanto erano belli e
ricchi di fiori e piante di elevato pregio. Gli spazi interni sono stati lavorati da
Guglielmo Bechi, ai quali donò delle originali decorazioni a motivi pompeiani, ma
anche degli specchi, maioliche, stucchi, ecc... La struttura monumentale possiede
anche una pregevole pagoda ottagonale, realizzata da Antonio Francesconi.
La villa oggi è sede dell'Università degli Studi di Napoli Parthenope, ma per decenni
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è stata la sede dell’Istituto S. Dorotea ed ha avuto l’onore di essere frequentato dalle
mie figlie Tiziana e Marina, per cui ricordo i colloqui con i docenti che avvenivano in
ambienti di gran pregio architettonico.
Passiamo ora a villa Ruffo della Scaletta (fig.46). Vi si accede da via Petrarca 40 e
attraverso una lunga rampa da via Posillipo 204 a monte dell’accesso a villa Craven.
Il corpo principale è rigorosamente neoclassico, mentre l’insieme degli elementi
disseminati in giardino e lungo la rampa sono neogotici. Sono inoltre presenti una
cappella e un nicchione, entrambi in precario stato di conservazione.
Per anni l’appartamento più prestigioso della villa era occupato dal console di
Spagna, il quale frequentemente vi teneva delle feste a cui veniva invitato il corpo
consolare, le autorità cittadine e gli intellettuali di spicco. Con mia moglie Elvira
eravamo una presenza costante e ricordo ancora un ricevimento in cui la mia eletta
consorte sfoggiò un abito di Escada, dall’eleganza straripante e dal costo tale, che
rischiai di passare da miliardario a milionario.
Il viaggio si conclude in gloria con un breve accenno alla modesta villa (fig.47) che
dal 1980 è la mia casa, dolce casa: 5 piani, 800mq, 1000 di giardino. L’indirizzo? Lo
potete leggere da soli (fig.48).
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fig. 48 - Targa Achille
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