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Yves Semen

La spiritualità coniugale
secondo Giovanni Paolo II
Prefazione del
Card. Philippe Barbanti

SAN PAOLO
Prefazione

Durante i primi anni del suo pontificato, fra il 1979


e il 1984, Giovanni Paolo II ha offerto alla Chiesa e al
mondo —in 129 Udienze generali del mercoledì —un ric­
chissimo insegnamento sul corpo e sul matrimonio.
Nutrita dalla sua esperienza come cappellano degli stu­
denti e dai suoi lavori come professore di teologia morale
e di etica sociale nel Seminario di Cracovia e alla Facoltà
di teologia di Lublino, la sua teologia del corpo offre una
risposta luminosa ad un sempre maggior numero di per­
sone in cerca di orientamento e di senso.
Si è riscontrato infatti, negli ultimi anni, un crescente
interesse rivolto a tale ambito della teologia (e non sob fra
i cristiani). Questa tendenza —ancora più evidente negli
Stati Uniti, rispetto all’Europa, come testimonia l'impat­
to delle pubblicazioni di Christopher West e Cari Ander­
son —sembra confermare il giudizio di George Weigel il
quale, nella sua celebre biografia: Testimone della spe­
ranza. La vita di Giovanni Paolo II1, a proposito della
teologia del corpo scrive: «Essa sarà probabilmente guar­
data come una svolta, non solo nella teologia cattolica, ma
anche nella storia delpensiero moderno».

1 Ed. it. Mondadori, 2 voli., 2005.

7
La teologia del corpo traduce in un linguaggio talvolta
complesso —e tuttavia alla portata dei nostri contempora­
nei, se lo si rende loro accessibile —le belle affermazioni
del concilio Vaticano II sul matrimonio cristiano, presen­
tato come una vocazione a pieno titolo, in grado di orien­
tare gli sposi su un cammino di santità. Le recenti beati­
ficazioni dei coniugi Beltrame Quattrocchi da parte di
Giovanni Paolo II, nel 2001, e dei coniugi Martin da
parte di Benedetto XVI, nel 2008, costituiscono una sti­
molante testimonianza.
Proprio per questo i coniugi cristiani hanno il diritto di
ricevere e di poter dispiegare una spiritualità in piena con­
sonanza con la vocazione matrimoniale. In linea con lepro­
poste avanzate da diversi movimenti cristiani, quest’opera
di Yves Semen può dirsi il seguito ideale del suo precedente
lavoro: La sessualità secondo Giovanni Paolo II2. La sua
originalità consiste nelproporre una spiritualità specifica-
mente coniugalefondata sulla teologia del corpo delinea­
ta da Giovanni Paolo II.
Qui ci viene offerto un magnifico percorso —al contem­
po esigente e liberante —dal quale emana ilprofumo evan­
gelico di una certa novità sul corpo, sul matrimonio, sul­
l’amore, sulla sessualità. La persona umana è considerata
integralmente, in tutte le sue dimensioni: corpo, mente e
anima, in sintonia con la illuminante espressione di san
Paolo: «Il Dio della pace vi santifichi interamente, e tutta
la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irre­
prensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo»
(lTs 5,23).
Yves Semen ci rende accessibile il ricco insegnamento

2 Ed. it. San Paolo, 2007, 3a ed.

8
teologico di Giovanni Paolo IIsul corpo, distribuito in tre­
dici capitoli, opiuttosto “schemi”, a sottolineare che si trat­
ta più di suggerimenti, ipotesi di azione e di riflessione,
che non di risposte in sé concluse. Un orientamento al
quale gli uomini e le donne di oggi sono particolarmente
sensibili, come sottolineava il papa: «Questa teologia del
corpo è indispensabile per comprendere in maniera ade­
guata l’enunciato del magistero della Chiesa contempora­
nea» (Udienza dell’8 aprile 1981). In questo senso, essa è
destinata a svolgere un ruolo essenziale nella “nuova evan­
gelizzazione” in cui la Chiesa, serva della grandezza della
vocazione dell’uomo, gli ricorda che è amato infinitamen­
te da Dio, salvato da Gesù Cristo, chiamato a realizzarsi
nell’amore.
In appendice a quest’opera i lettori troveranno un pre­
zioso “Compendio di teologia del corpo”, presentata nelle
sue linee principali, meritevoli di essere approfondite e as­
similate. Ci auguriamo che numerosi sposi sappiano trar­
ne un rinnovamento interiore e ne comunichino la ric­
chezza oltre i confini della loro famiglia.
Ho apprezzato il fatto che il decimo schema sia intito­
lato: “Gli sposi e ilprete”. M i ha colpito questa bella affer­
mazione: «Gli sposi e il prete sono chiamati a offrirsi un
mutuo sostegno nella donazione di sé. Il prete potrà vede­
re, negli sposi, l’espressione viva della sua consacrazione,
come gli sposipotranno riconoscere nelprete la figura per­
fetta dello sposo». Un magnifico cammino da percorrere
insieme, nel dono di sé, nell’amore: «L’amore non avrà
mai fine» (ICor 13,8).

Card. P hilippe B arbarin


Arcivescovo di Lione

9
Introduzione

UNA SPIRITUALITÀ
PER LE PERSONE SPOSATE

«Coloro che cercano il compimento della propria


vocazione umana e cristiana nel matrimonio, prima
di tutto sono chiamati a fare di questa “teologia del
corpo”, di cui troviamo il “principio” nei primi capi­
toli del libro della Genesi, il contenuto della loro vita
e del loro comportamento».
(G iovanni Paolo II, Udienza del 2 aprile 1980)

Il concilio Vaticano II ha giustamente insistito sul


fatto che la Chiesa non è costituita solo dalla ge­
rarchica ecclesiastica —sacerdoti e vescovi - ma dal­
l’insieme dei battezzati. Una verità splendidamente
confermata e sviluppata da Giovanni Paolo II nell’esor­
tazione apostolica Christifideles laici (1988). Ora, poi­
ché nella comunità cristiana i laici sono di gran lunga
i più numerosi, le persone sposate rappresentano la
schiacciante maggioranza del popolo di Dio. E tutta­
via, mentre la letteratura spirituale abbonda, e persi­
no sovrabbonda, nei confronti della spiritualità sacer­
dotale o religiosa, essa si rivela ben povera in tema di
spiritualità coniugale. Di conseguenza, è la porzione
più consistente del popolo cristiano a trovarsi sprov­
vista di una spiritualità specificamente adeguata al suo

11
stato di vita e alla sua vocazione. Non vi è un parados­
so monumentale - quasi scandaloso - nel fatto che le
persone sposate, quando sono in cerca di una spiritua­
lità, si vedano costrette a nutrirsi di una spiritualità
per celibi e nubili?
Già alla vigilia del concilio Vaticano II, nel 1962,
padre Henri Caffarel (1903-1996), fondatore in Fran­
cia del movimento di spiritualità coniugale Equipes
Notre-Dame, non esitava a scrivere: «La Chiesa non può
accontentarsi di pensare ai “laici” come se fossero tutti
dei celibi, che vivono isolatamente; deve anche - e, in
un certo senso, innanzitutto —interrogarsi sulle fami­
glie cristiane, sul modo in cui il matrimonio cristiano
è vissuto e compreso nella cattolicità di oggi»1. Oggi-
giorno, quasi mezzo secolo più tardi, le cose sono dav­
vero cambiate? Da cosa dipende se la spiritualità coniu­
gale continua a presentarsi come il parente povero della
spiritualità cristiana?
Sembra che la Chiesa per diversi secoli abbia fatica­
to a riconoscere nel matrimonio un’autentica vocazio­
ne cristiana nel senso pieno del termine, una chiamata
in grado di condurre, quelli che vi corrispondono, ad
una vera santità laicale. Ciò è dovuto, forse, alla diffi­
coltà che la Chiesa ha incontrato nel far proprio il vero
significato della sessualità umana. Si deve riconoscere,
con Xavier Lacroix, che mentre il cristianesimo - reli­
gione del corpo, in quanto religione fondata sull’incar­
nazione del Verbo di Dio - non può disprezzare il
corpo senza rinnegare se stesso, «sembra abbia invece
integrato il corpo sofferente, il corpo che lavora, il

1L’Anneau d’Or, nn. 105-106, maggio/agosto 1962, pp. 179-180.

12
corpo che celebra, con molta più facilità di quanto sia
riuscito a fare con il corpo che gioisce»2. Da parte sua,
Giovanni Paolo II non esita ad affermare che «per il cri­
stianesimo il corpo e la sessualità rimangono dei valo­
ri sempre troppo poco apprezzati»3.
Pur riconoscendo a padre Caffarel e alle Equipes
Notre-Dame il merito di aver aperto audaci e magnifi­
che piste colme di speranza, fino ad epoca recente è
mancato alla spiritualità coniugale il sostrato teologico
in grado di validarla, e ciò l’ha condannata a rimanere
allo stadio delle intuizioni. Ed è precisamente questa
mancanza che viene colmata dalla teologia del corpo di
Giovanni Paolo II. Finalmente la spiritualità coniuga­
le dispone di un solco teologico ben tracciato, a parti­
re dal quale può edificarsi e dispiegarsi. L’avvento di
questa teologia del corpo costituisce un apporto teolo­
gico capitale: è il più vasto insegnamento mai offerto da
un papa su un unico tema in tutta la storia della Chie­
sa. Ben ottocento pagine di testo! E tuttavia, venticin­
que anni dopo la conclusione dell’insegnamento papa­
le, la teologia del corpo rimane sottovalutata dalla
maggior parte dei pastori della Chiesa e da un nume­
ro ancor più considerevole di laici sposati. Tutto ciò
lascia perplessi e permette di misurare la colossale opera
di comunicazione che rimane da compiere.
Sta di fatto che con la teologia del corpo proposta
da papa Wojtyla il matrimonio è ormai stabilito non
come una vocazione di serie B, ma come una delle due
possibili vie di realizzazione della persona attraverso il

2 X. Lacroix, L’avenir, cest Vautre, Cerf, 2000, p. 145.


3 Catechesi del 22 ottobre 1980, n. 3.

13
dono di sé. La costituzione conciliare Gaudium et spes,
sulla “Chiesa nel mondo contemporaneo”, afferma con
forza: «L’uomo, il quale in terra è la sola creatura che
Iddio abbia voluto per se stesso, non può ritrovarsi pie­
namente se non attraverso un dono sincero di sé»4. Il
compimento di questo dono, nel quale la persona è
chiamata a realizzarsi, può avvenire grazie alla consacra­
zione nel celibato “per il Regno” o attraverso la consa­
crazione nel matrimonio. «In definitiva - dice Giovan­
ni Paolo II - la natura dell’uno e dell’altro amore (nella
vita coniugale o nel celibato consacrato) è sponsale,
cioè espressa attraverso il dono totale di sé. L’uno e l’al­
tro amore tendono ad esprimere quel significato spon­
sale del corpo che è dal principio iscritto nella stessa
struttura personale dell’uomo e della donna»5.
Queste due vie - matrimonio o verginità —possono
condurre alla santità nella misura in cui diventano ri­
sposta ad un richiamo risuonato nel cuore della perso­
na. Se la Chiesa per secoli, e a giusto titolo, ha tenuto
in grande onore la consacrazione nella vita religiosa,
probabilmente è giunta l’ora di scoprire le grandezze e
i meriti dell’altra via, quella della consacrazione di sé
nel matrimonio. Già il papa Pio XI nell’enciclica sul
matrimonio, Casti connubii (1931), scriveva che gli spo­
si sono «comeconsacrati da un vero e grande sacramen­
to» (I, 3). Forse è giunta l’ora di sopprimere questo “co­
me” prudente e limitativo. Inoltre, occorre che le persone
sposate possano fare affidamento su una spiritualità

4 GS, n. 24: una formulazione che peraltro deve molto al futuro


Giovanni Paolo II.
5 Catechesi del 14 aprile 1982, n. 4.

14
rispondente alla loro vocazione specifica. Quasi pro­
feticamente, nelle sue riflessioni anticipatrici del con­
cilio, padre Caffarel diceva: «Non basta ricordare ai
cristiani sposati che il matrimonio non è uno “stato
d’imperfezione”. Occorre anche presentare loro una
dottrina ascetica e mistica, una “spiritualità” elaborata
non a partire dalla vita monastica, ma a partire dal loro
stato di vita, con le sue esigenze, le sue difficoltà, le sue
grazie —e che ciò avvenga con il loro concorso»6.
E necessario pure che gli sposi cristiani dispongano
di modelli e figure di santi divenuti tali in ragione della
perfezione della loro vita nello stato matrimoniale. An­
che a questo riguardo Giovanni Paolo II ha operato da
innovatore, beatificando nel 2001 gli sposi Luigi e
Maria Beltrame Quattrocchi, prima coppia in tutta la
storia della Chiesa a essere additata ad esempio in ra­
gione della santità della propria vita coniugale. E quin­
di chiaro, ormai, che si può essere santi non malgrado
il matrimonio, come forse si pensava un po’ troppo
facilmente, ma grazie al matrimonio.
Lo scopo di quest’opera, dunque, è di proporre dei
percorsi di spiritualità coniugale attinti alla fonte della
teologia del corpo di cui Giovanni Paolo II ha fatto
dono alla Chiesa del XXI secolo... e non del XX secolo.
Bisogna infatti riconoscere che la grande catechesi sulla
teologia del corpo, con la quale Giovanni Paolo II ha
inaugurato il suo pontificato, è rimasta in una certa
misura nascosta sotto il moggio per tutto il periodo del
suo pontificato. Vi sono ragioni oggettive per questo, in
particolare la sua difficoltà concettuale; inoltre, il fatto

6 L’Anneau d’Or, cit., p. 186.

15
che tale insegnamento sia stato offerto attraverso il ca­
nale discreto delle Udienze generali del mercoledì, un
magistero apparentemente “di grado inferiore”, pur
sempre ufficiale, ma meno solenne; infine, il fatto che
Giovanni Paolo II, intraprendendo quest’insegnamen­
to a partire dal settembre del 1979, non abbia indicato
sin dall’inizio le sue intenzioni, né il disegno d’insieme.
Non è questo il luogo per dibattere le ragioni che
possono avere indotto Giovanni Paolo II ad agire così,
ma possiamo a buon diritto condividere il giudizio di
George Weigel, quando qualificava la teologia del cor­
po di Giovanni Paolo II come una «bomba teologica a
orologeria, che potrebbe esplodere con effetti spettaco­
lari nel corso del terzo millennio della Chiesa»7. Una
valutazione dal sapore profetico - formulata nel 1999,
quasi cinque anni prima della morte del pontefice -
così completata: «Forse la teologia del corpo di Gio­
vanni Paolo II, fonte di controversie, verrà presa in
considerazione solo quando egli stesso sarà uscito di
scena. [...] Quando questo accadrà, forse nel XXI seco­
lo, la teologia del corpo sarà probabilmente guardata
come un’autentica svolta, non solo nella teologia catto­
lica, ma anche nella storia del pensiero moderno»8.
È finalmente giunto il tempo, a oltre venticinque an­
ni dalla conclusione dell’insegnamento papale, in cui
vedremo schiudersi una spiritualità coniugale avente
come base «la redenzione del corpo e il carattere sacra­
mentale del matrimonio»9- titolo sotto il quale lo stes­

7 G. Weigel, op. cit.


8 Ivi.
9 Udienza del 28 novembre 1984, n. 1.

16
so Giovanni Paolo II proponeva di raccogliere l’insie­
me delle sue catechesi? Ce lo auguriamo, e la presente
opera avrà raggiunto pienamente il suo scopo se potrà,
sia pure in minima parte, contribuire a tale scopo.
Questo libro, tuttavia, non vuole presentarsi come
un trattato sistematico di spiritualità coniugale. Le sue
mire sono assai più modeste: proporre delle piste a tut-
t’oggi ancora inesplorate, offrire una serie di schemi i
cui contorni dovranno essere ulteriormente precisati da
qualcuno più competente del loro autore. Ma nel loro
insieme questi schemi mirano a formare una sorta di
affresco, la cui unità e la cui coerenza sono assicurate
dallo sfondo teologico, innovativo e monumentale, rap­
presentato dalla teologia del corpo di Giovanni Paolo II.
Sta in questo l’originalità del presente lavoro, e il solo
merito che esso rivendica.
Ogni capitolo - una breve riflessione spoglia di ap­
parati concettuali astratti e costrittivi —evoca un tema
illuminato dall’insegnamento di Giovanni Paolo II prin­
cipalmente nelle Udienze del mercoledì (dal settembre
del 1979 al novembre del 1984), dedicate ad una cate­
chesi sistematica sul tema della teologia del corpo10;
non mancano riferimenti ai grandi testi del suo ponti­
ficato - encicliche, lettere, esortazioni - laddove richia­
mano quell’insegnamento in qualche modo “archetipi­

10 Ai fine di facilitare la lettura ed evitare rinvii sistematici alle note


piè di pagina - tranne che nella presente introduzione e nel Compendio
di teologia del corpo che figura in Appendice —le frequenti citazioni trat­
te dalle Udienze sono indicate direttamente nel corpo del testo, con la sola
data deirUdienza, senza precisazione del numero del paragrafo. I testi
integrali delle “Udienze del mercoledì” tenute da Giovanni Paolo II sono
reperibili su WWW.La Santa Sede - Il Santo Padre - Giovanni Paolo II -
Link U dienze.

17
co”, senza escludere luoghi significativi della sua opera
filosofica (Amore e responsabilità), poetica ( Trittico ro­
mano) e teatrale (La bottega delloreficé).
Sarà probabilmente fruttuoso leggere queste medi­
tazioni in due. I fidanzati potranno farne la trama di
un dialogo di approfondimento spirituale su quel dono
di sé al quale si stanno preparando. Gli sposi potranno
trovarvi delle fonti d’ispirazione per la loro preghiera
coniugale. I sacerdoti, e coloro che li affiancano negli
incontri di preparazione al matrimonio, potranno at­
tingervi temi di riflessione da proporre ai fidanzati.
Gli schemi che compongono questo lavoro non
richiedono necessariamente di essere letti in successio­
ne. Ogni capitoletto, e persino ogni paragrafo, può es­
sere affrontato in modo indipendente. Si spiegano così
i “collegamenti” riscontrabili fra i diversi capitoli: sono
intenzionali e non costituiscono delle ripetizioni. Si­
gnificano semplicemente - secondo un metodo abituale
a Giovanni Paolo II - che la stessa realtà è considerata
sotto una diversa angolazione, per trarne altre conse­
guenze. Non sfuggirà tuttavia una certa gradualità nel­
l’insieme dei capitoli: i temi vanno dal livello più ele­
mentare al più complesso.
Si troveranno anche accenni riguardanti la dimen­
sione intima del dono dei corpi. È un fatto normale e
non deve sorprendere, ancor meno turbare. La grande
sfida della vocazione al matrimonio è di giungere a
vivere, in una maniera unificata, le aspirazioni spiritua­
li e le realtà carnali. Una spiritualità coniugale che esal­
tasse una forma di spiritualismo disincarnato o allon­
tanasse gli sposi dalla pienezza dell’espressione fìsica
della loro unione, non meriterebbe la qualifica di co­

18
niugale e non sarebbe, infine, che una falsificazione. La
spiritualità coniugale deve trovare il modo di esprimer­
si, e persino di radicarsi, nel vissuto carnale dell’unio­
ne degli sposi. Incoraggiare una qualunque attitudine
dualistica a riguardo - l’anima da un lato, il corpo dal­
l’altro - non sarebbe conforme alle esigenze della voca­
zione matrimoniale e si iscriverebbe falsamente rispet­
to alle prospettive unificanti della teologia del corpo di
Giovanni Paolo II.
Tale è la posta in gioco di questo lavoro, nel suo ten­
tativo di fedeltà rispetto a ciò che Giovanni Paolo II ha
lasciato in eredità alla Chiesa del XXI secolo, esaltan­
do la vocazione del corpo umano: «Il corpo, infatti, e
soltanto esso, è capace di rendere visibile ciò che è invi­
sibile: lo spirituale e il divino. Esso è stato creato per
trasferire nella realtà visibile del mondo il mistero na­
scosto dall’eternità in Dio, e così esserne segno»11. Di
questa vocazione del corpo, gli sposi cristiani, più degli
altri membri della Chiesa, hanno la missione di essere
testimoni e profeti. Missione di una nobiltà immensa
e di un’urgenza totale, in un mondo che non compren­
de più il corpo umano e spesso lo considera più che al­
tro un oggetto da utilizzare.
Manifestare la dimensione del dono iscritta nel cor­
po umano; vivere l’unicità della vocazione personale al
dono di sé attraverso le espressioni del linguaggio del
corpo; testimoniare con tutta la propria vita le relazio­
ni nuziali di Cristo con la sua Chiesa... questa è la mis­
sione degli sposi cristiani e la fonte della spiritualità che
deve essere loro propria.

11 Catechesi del 20 febbraio 1980, n. 4.

19
Schema I

AFFINCHÉ IL MATRIMONIO
SIA UNA VOCAZIONE

«Il matrimonio corrisponde alla vocazione dei cri­


stiani solo quando rispecchia l’amore che Cristo-
Sposo dona alla Chiesa sua Sposa, e che la Chiesa
[...] cerca di ricambiare a Cristo».
(G iovanni Paolo II, Udienza del 18 agosto 1982)

Essere felici o donarsi?

Chi non vorrebbe essere felice nel matrimonio? Chi


non augura a due giovani sposi di trovare la felicità?
Non è, la felicità, il ritornello di tutti i messaggi in oc­
casione di un matrimonio, il tema ricorrente di tutti i
discorsi attorno alla tavola nuziale? È anche l’argomen­
to decisivo a cui ricorrono gli innamorati per far vale­
re le qualità dell’amato (o dell’amata) agli occhi dei loro
genitori: «È l’uomo/la donna della mia vita. Mi rende­
rà sicuramente felice!».
A ben riflettere, potrebbe annidarsi in tutto questo
un formidabile equivoco. Si può cercare appagamento
nel matrimonio in vista di una pienezza affettiva e sen­
timentale - atteggiamento in prevalenza femminile -,
o la soddisfazione dei propri bisogni sessuali - obietti­
vo in prevalenza maschile. Vi si possono ricercare sod­

21
disfazioni di ogni tipo, ivi compresa quella di uno sta­
tus sociale, la fuga da una solitudine affettiva troppo
pesante da sopportare, la conformazione ad un certo
modello di vita...
Simili propensioni si manifestano per lo più in quei
soggetti che cercano di sposarsi a tutti i costi. Si dice
che facciano “fuggire” gli altri da sé, e spesso è vero.
Questo non dipende dal fatto che tali persone siano
prive di qualità, ma semplicemente perché si tende a
diffidare di chi dà l’impressione - il più delle volte sen­
za che se ne renda conto - di volere esclusivamente l’al­
tro (l’altra) per sé. Ma a nessuno piace sentirsi strumen­
talizzato.
Non si può guardare ad un’altra persona solo come
ad un mezzo per soddisfare le proprie attese. Sta qui
l’ambiguità che insidia ogni amore: è il bene dell’altro
che ricerchiamo, oppure la nostra soddisfazione attra­
verso l’altro? Dietro la ricerca della felicità nel matri­
monio —di per sé niente affatto illegittima —che cosa
cerchiamo veramente? L’altro è desiderato in primo
luogo per se stesso, oppure solo in quanto strumento
per realizzare un nostro ideale di vita, quindi in rela­
zione a noi e a ciò che ci aspettiamo? A tutto questo
possono mescolarsi anche motivazioni spirituali: si può
vedere l’altro come un mezzo che ci aiuta a crescere sul
piano della vita di fede.
Il rischio, focalizzandoci su ciò che il matrimonio ci
può apportare, diventa —in maniera sottile ma reale -
quello di ricondurre l’altro a noi e di considerarlo uni­
camente in base a ciò che da lui possiamo ottenere.
Ora, l’altro è una persona, e come tale non può mai es­
sere ridotto al semplice rango di strumento. Si può obiet­

22
tare, forse, che questa ricerca di soddisfazione è recipro­
camente voluta. E allora? Ciò non eliminerà il rischio
che il matrimonio possa diventare uno stato di egoismo
a due.
La questione è molto delicata, poiché è evidente che
chiunque insegue innanzitutto nel matrimonio un cer­
to numero di soddisfazioni personali identificate con la
felicità, non lo fa con criterio machiavellico, cioè uni­
camente guidato da un calcolo cinico e freddo. Nella
nostra ricerca della felicità c’è qualcosa di perfettamen­
te legittimo: essere felice è l’obiettivo di ogni persona
normale. In ognuno di noi c’è un’inevitabile ambiva­
lenza fra la ricerca del bene altrui e quella del bene per­
sonale. Tutta la questione sta neU’orientamento fonda-
mentale della volontà. Che cosa cerco in primo luogo?
Me stesso e la soddisfazione delle mie attese, oppure il
bene concreto dell’altro, per lui stesso?
Giovanni Paolo II, aprendo la sua teologia del corpo,
analizza il racconto della Genesi mostrando come la
prima esperienza che Dio fa fare all’uomo, quando an­
cora non ha creato per lui la donna, sia quella della soli­
tudine. E così che l’uomo scopre di essere fatto per il
dono di sé, e sulla base di questa esperienza emerge in
lui la coscienza di essere “persona”. «Il dono rivela l’es­
senza stessa della persona. Quando Dio dice che “non
è bene che l’uomo sia solo” (Gn 2,18), afferma che “da
solo” l’uomo non realizza totalmente questa essenza. La
realizza soltanto esistendo “con qualcuno” e ancor più
profondamente e più completamente: esistendo “per
qualcuno”» (Udienza del 9 gennaio 1980). Il matrimo­
nio è, per l’uomo e per la donna, una maniera di realiz­
zare la propria vocazione di persone attraverso il dono

23
di sé. Ma non è la sola. Un’altra possibile via per l’au-
todonazione è il consacrarsi a Dio nella vita religiosa.
Il dono di sé nel matrimonio consente di realizzare la
propria vocazione di persone, e di conseguenza il com­
pimento della propria umanità. Ci soccorre qui un pas­
saggio fondamentale della costituzione conciliare
Gaudium et spes, a più riprese commentato da Giovanni
Paolo II: «L’uomo, il quale in terra è la sola creatura che
Dio abbia voluto per se stessa, non può ritrovarsi piena­
mente se non attraverso un dono sincero di sé» (n. 24).
Il matrimonio è dunque la grande occasione per
compiere l’offerta di noi stessi, e così realizzarci piena­
mente come uomo e come donna. E questo che deve
motivarci per il matrimonio: realizzare in pienezza il
dono di noi stessi. Questa finalità del matrimonio va
tenuta presente, nella mente e nel cuore, più di ogni
altra cosa quando decidiamo di sposarci. Il matrimo­
nio così concepito e voluto ci porterà probabilmente
tutto un insieme di soddisfazioni - e indubbiamente
anche una parte di croci e sofferenze -, ma queste sod­
disfazioni non saranno più volute e ricercate unicamen­
te in vista di noi stessi. Saranno accolte come un di più,
come una forma di sovrabbondanza del dono fonda-
mentale che abbiamo acconsentito a fare di noi stessi
per l’altro. In ciò consisterà la vera felicità, la nostra
piena realizzazione.

Stato o vocazione?

Il matrimonio è uno stato verso il quale ogni essere


umano tende naturalmente, oppure una vocazione nel

24
senso più forte e autentico del termine? Si è talvolta so­
stenuto che il matrimonio non sia una vera e propria
vocazione, in quanto ogni persona è per sua natura
fatta per il matrimonio. L’uomo è fatto per la donna,
la donna è fatta per l’uomo... quindi non deve interve­
nire alcuna scelta radicale in merito, essendo un dato
di natura. A differenza della vita religiosa e sacerdota­
le, la scelta matrimoniale non comporterebbe una chia­
mata speciale, di conseguenza sarebbe improprio con­
siderarla una vocazione cristiana. La questione non può
essere tanto semplice.
E incontestabile che il matrimonio sia una realtà a
cui ogni uomo e ogni donna sono naturalmente preor­
dinati. Tutta la nostra struttura psicosomatica ci fa
guardare al matrimonio come ad una condizione a cui
la natura umana ci chiama spontaneamente, e persino
imperiosamente. Decidendo di sposarci, abbiamo la
consapevolezza di rispondere al richiamo della nostra
affettività, della nostra sensibilità, ma non necessaria­
mente ad una speciale chiamata di Dio, com’è invece
nel caso di una vocazione religiosa o sacerdotale. Que­
sto spiega anche perché coloro che desiderano sposarsi,
ma non ci riescono, incorrono in un’acuta sofferenza.
Ora, se il matrimonio è soltanto la risposta ad un’incli­
nazione naturale, altro non è che uno stato di vita e
non la risposta ad una vocazione. E così che, probabil­
mente, considera il matrimonio la maggior parte di co­
loro che vi si impegnano, anche quando ne ricevono il
sacramento.
Tuttavia, nella prospettiva cristiana il matrimonio
può essere anche la risposta ad un’autentica vocazione,
ad una chiamata speciale di Dio. Non che Dio abbia

25
sovranamente destinato, da tutta l’eternità, per ciascu­
no e ciascuna di noi, una persona eletta riguardo alla
quale il nostro compito è di scoprire chi realmente sia.
Una simile visione del matrimonio è pericolosa e può
risultare fuorviarne: si vivrebbe con l’assillo di non “la­
sciarsi sfuggire l’occasione provvidenziale” e indovina­
re chi Dio ci abbia “riservato”. Il matrimonio si ridur­
rebbe ad una sorta di lotteria dove alcuni sarebbero più
fortunati di altri. E se insorgono delle difficoltà nella
vita coniugale, si tenderà ad attribuirle ad uno sfortu­
nato errore nella scelta del partner. È sicuramente più
sensato considerare la scelta del nostro coniuge come
un atto di ragione e di libertà. Una scelta da compiere
personalmente, sotto lo sguardo di Dio e con l’aiuto
della preghiera, e che Dio ratificherà impegnandosi in­
sieme con noi.
Si può dunque concepire il matrimonio come la ri­
sposta alla chiamata di Dio a fare dono di noi in que­
sta particolare forma di vita, intimamente consapevoli
che è Dio stesso che ci orienta verso tale vocazione. In
questa luce il matrimonio è da intendere come auten­
tica vocazione cristiana, con le sue intrinseche, straor­
dinarie esigenze. «Il matrimonio corrisponde alla voca­
zione dei cristiani solo quando rispecchia l’amore che
Cristo-Sposo dona alla Chiesa sua Sposa, e che la Chiesa
[...] cerca di ricambiare a Cristo» (Udienza del 18 ago­
sto 1982). Parole che esprimono un’esigenza radicale,
capace di far tremare chi si accosta al matrimonio. Esse
vanno prese alla lettera: se il matrimonio corrisponde
alla vocazione dei cristiani “solo quando...”, vuol dire
che al di fuori della condizione che Giovanni Paolo II
esprime con assoluta chiarezza, il matrimonio non cor­

26
risponde ad una genuina vocazione cristiana, ma si ri­
duce ad un semplice stato di vita.
Se il matrimonio cristiano è destinato a rispecchiare
«l’amore che Cristo-Sposo dona alla sua Chiesa(-Spo-
sa)» - un amore totale spinto sino all’offerta totale di
sé sulla croce - anche l’amore tra gli sposi cristiani è
chiamato all’assoluto del dono, che potrebbe richiedere
l’assoluto del sacrificio. Quanto all’amore che i mem­
bri della Chiesa si sforzano di ricambiare nei confron­
ti di Cristo, come non pensare a tutti i gesti d’amore
estremo espressi nel corso della storia dai martiri, dagli
eremiti, da quanti si sono santificati nella vita religio­
sa... come pure nella vita matrimoniale? Una realtà che
dà le vertigini! Eppure, è solo a condizione di confor­
marsi a queste esigenze totali dell’amore che il matrimo­
nio può dirsi una vocazione autenticamente cristiana.

Matrimonio o lavoro?

Se il matrimonio - inteso come assoluta donazione


di sé - può essere una vocazione per i cristiani, è chia­
ro che tutta la vita degli sposi va pensata e costruita
sulla base di questa risposta fondamentale alla chiama­
ta di Dio. In quest’ottica è possibile riflettere sui rap­
porti fra l’attività professionale e il matrimonio.
Siamo immersi in una cultura in cui molto viene sa­
crificato alla riuscita o semplicemente alle esigenze della
vita professionale. Si parla persino del lavoro come di
una vocazione! È fuor di dubbio che alcune professio­
ni sono particolarmente impegnative, ben più che dei
semplici mestieri. Pensiamo all’attività dei medici, al

27
mestiere delle armi, ai dirigenti d’impresa, all’esercizio
delle arti o della politica. Si sente parlare di “vocazione
militare/medica/politica”: è solo un modo di dire, op­
pure è l’invito ad una riflessione approfondita sui rap­
porti che i cristiani devono stabilire fra la loro attività
lavorativa e la vocazione al matrimonio? Come gestire
in maniera sana l’ordine delle priorità fra le esigenze
matrimoniali e quelle della professione, in particolare
quando questa, in ragione dei vincoli che impone, si
rivela “monopolizzante”?
Non esiste una risposta preconfezionata, ma i fidan­
zati non potranno sottrarsi ad una seria riflessione a
due su questo tema. Se il matrimonio è da essi consi­
derato come la risposta ad una chiamata al dono di sé,
in conformità al mutuo dono di Cristo e della Chiesa,
significa che tale vocazione deve realizzarsi anzitutto
nel quadro del loro matrimonio e della famiglia che
vanno a costituire. E questo che, prioritariamente, il Si­
gnore si aspetta da loro. Ciò non esclude che si assu­
mano altri impegni, talora anche costringenti, al di
fuori del quadro familiare, ma sempre in maniera ordi­
nata rispetto alla vocazione primaria del matrimonio.
Qualora però le esigenze professionali dell’uomo o
della donna fossero tali da ostacolare la loro prioritaria
dedizione nel matrimonio, si rendono assolutamente
necessarie alcune domande fondamentali. Non è inve­
rosimile pensare che alcuni obblighi radicali, correlati
a certe professioni particolarmente impegnative, com­
portino dei problemi di compatibilità rispetto alle esi­
genze primarie della vocazione matrimoniale.
La vita di un cristiano come Maurice Schumann
(1911-1998) ci ha mostrato come una dedizione piena

28
all’impegno politico possa comportare anche la rinun­
cia al matrimonio. Nell’ambito artistico, il fallimento
del matrimonio tardivo - a quarantanni - di Camille
Saint-Saèns (1835-1921) si può spiegare col fatto che
il grande musicista, del quale è peraltro nota la pro­
fondità di fede e di vita spirituale, non sia riuscito a
coniugare le esigenze della propria arte con quelle del
matrimonio. Si tratta evidentemente di casi estremi, e
quando si affronta il matrimonio non si deve diffidare
di tutte le professioni “monopolizzanti”, ma occorre
vigilare affinché l’ordine delle priorità non sia inverti­
to: «Il lavoro è innanzitutto “per l’uomo” e non l’uo­
mo “per il lavoro”», ricorda Giovanni Paolo II nella sua
enciclica sul lavoro umano (Laborem exercens, n. 6, 6).
Ogni attività professionale, qualunque sia, non può che
essere subordinata al matrimonio e alla famiglia, e mai
il contrario: «Nell’insieme si deve ricordare e affermare
che la famiglia costituisce uno dei più importanti ter­
mini di riferimento, secondo i quali deve essere forma­
to l’ordine socio-etico del lavoro umano» (ivi, n. 10, 2).
Sulla base di questo principio si possono accettare quei
compromessi di circostanza che possono condurre,
almeno temporaneamente, a delle concessioni, ma il
principio rimane: per un cristiano sposato la sua voca­
zione è innanzitutto il suo matrimonio, la sua famiglia.
Tutto il resto è relativo.
Cosa pensare di un religioso che fosse più dedito al­
l’attività esteriore, alle responsabilità che assume nella
propria comunità, che non alle esigenze della sua stes­
sa vita religiosa, forse sino a trascurare la preghiera? Si
racconta che anche quando le Missionarie della Carità,
sfinite dal servizio prestato ai moribondi per le vie di

29
Calcutta, cedevano Furia dopo l’altra a crisi di “bum-
out”, Madre Teresa non abbia mai abbassato la soglia di
esigenza della loro vita religiosa, ma abbia aggiunto
un’ora di adorazione quotidiana. Identica è la richiesta
nel matrimonio: in forza della loro vocazione gli sposi
devono contemperare ogni cosa, anche gli impegni più
nobili e apprezzabili, alle esigenze della vita matrimo­
niale. È ciò che ricordava Madre Teresa ad un impren­
ditore canadese che le chiedeva se dovesse donare tutti
i suoi beni per meglio conformarsi ai dettami del Van­
gelo: «Lei non può dare via tutto, perché non le appar­
tiene. Le è stato affidato in gestione. Ma può ammini­
strare tutto alla maniera di Gesù Cristo, introducendo
nella sua vita la gerarchia cristiana dell’amore. Essendo
lei sposato, questa gerarchia vede in primo piano sua
moglie, poi i figli e solo in seguito i dipendenti della
sua azienda».
A questo riguardo, gli sposi cristiani che vogliono vi­
vere in tutta verità le esigenze della loro vocazione sono
chiamati ad essere “segni di contraddizione” a fronte di
una diffusa cultura che tende a subordinare la vita della
famiglia agli impegni professionali. Ciò può anche
comportare la rinuncia a qualche opportunità di car­
riera, esigendo talvolta un coraggio quasi eroico. So­
prattutto occorre essere coscienti che nulla è più grande,
bello e nobile dell’educazione dei figli. Nella splendida
Lettera allefamiglie, scritta in occasione dell’Anno della
famiglia 1994, Giovanni Paolo II non esita a dire: «Par­
lando del lavoro in riferimento alla famiglia, è giusto
sottolineare l’importanza ed il peso dell’attività lavora­
tiva delle donne all’interno del nucleo familiare: essa
deve essere riconosciuta e valorizzata fino in fondo. La

30
“fatica” della donna, che dopo aver dato alla luce un
figlio lo nutre, lo cura e si occupa della sua educazio­
ne, specialmente nei primi anni, è così grande da non
temere il confronto con nessun lavoro professionale»
('Gratissimam sane, n. 17).
Si tratta però di un coraggio che non è richiesto sol­
tanto alle donne, le quali non possono essere le sole a
sacrificare la propria vita professionale aH’equilibrio
della famiglia e alle esigenze educative dei figli. Si ri­
chiede perciò un autentico discernimento spirituale,
che può essere attuato solo in due, nella comune pre­
ghiera. È in gioco la priorità nell’ordine dei fini: se gli
sposi considerano il loro matrimonio come la risposta
ad una vocazione cristiana, è a partire da esso che tutte
le altre dimensioni della loro vita devono essere affron­
tate, soppesate e ordinate.

31
Schema II

AMARE,
PERDONARE, PERDONARSI

«Mentre per la mentalità manichea il corpo e la


sessualità costituiscono, per così dire, un “anti-valo-
re”, per il cristianesimo essi rimangono sempre un
valore non abbastanza apprezzato».
(G iovanni Paolo II, Udienza del 22 ottobre 1980)

L’esperienza dei limiti

Il matrimonio è uno stato di vita nel quale non pos­


siamo fare a meno di sperimentare i nostri limiti: limi­
ti in noi, limiti nell’altro. La “scuola di vita” del matri­
monio è innanzitutto una scuola dei limiti. Limiti del
corpo, che non corrisponde mai ad un ideale. Limiti
del carattere, che ha i suoi difetti e le sue dipendenze
rispetto all’educazione ricevuta, alla storia vissuta, alle
ferite "subite. Limiti anche dell’intelligenza e persino
della vita di fede...
Questi limiti - sia i nostri, sia quelli altrui - dob­
biamo in primo luogo accettarli. Ancor più, dob­
biamo amarli. E per fare questo occorre cominciare
col perdonarli. Volere, o anche solo sperare di cam­
biare l ’altro è la grande illusione del matrimonio. L’al­
tro è ciò che è , con tutti i suoi limiti, ed è questo

33
“altro” - reale e non sognato o idealizzato —che dob­
biamo amare.
I limiti non si rivelano sempre immediatamente. Pe
quanti sforzi facciano i fidanzati per raccontarsi nella
verità, sappiamo bene come lo stato d’innamoramento
non favorisca la lucidità. Quando si è innamorati l’al­
tro appare dotato di tutte le migliori qualità, e riesce
quasi sempre difficile ai genitori o agli amici aprire gli
occhi dei giovani —ma devono necessariamente farlo? -
sui limiti, spesso evidenti, dell’eletto o dell’eletta. Ed è
solo dopo qualche anno di matrimonio, quando si spe-
gne la febbre amorosa, che i limiti vengono doloro­
samente alla luce. Sono soprattutto le ferite di natura
affettiva, sessuale o spirituale, subite nell’infanzia o nel­
l’adolescenza, che rivelano i loro effetti solo dopo di­
versi anni di vita in comune, e per lo più in maniera
inavvertita. La presa di coscienza di questi limiti può
ingenerare una crisi matrimoniale che può anche sfo­
ciare nella separazione. «Non è più la persona che ho
sposato!», si sente dire... E invece, sì!
È dunque cosa saggia e doverosa che i fidanzati si
impegnino a rivelarsi reciprocamente le proprie debo­
lezze e ferite, almeno quelle di cui hanno coscienza, e
che siano prese in seria considerazione. Ma non lo
saranno mai totalmente, per cui il “sì” del giorno del
matrimonio non può mai essere pronunciato con asso­
luta cognizione di causa. E come potrebbe esserlo? Ciò
supporrebbe non solo la capacità di manifestarsi piena­
mente, ma anche quella di conoscere pienamente se
stessi: cosa doppiamente impossibile. È questo che co­
stituisce il rischio dell’impegno matrimoniale... mentre
gli conferisce grandezza e nobiltà. Da qui deriva anche

34
il carattere inevitabilmente avventuroso del matrimo­
nio, sicché sperare di fondarsi solo sulle forze umane
per affrontarne le incertezze risulta pericolosamente
presuntuoso.
Il matrimonio mette inesorabilmente a nudo tutte le
nostre fragilità e i nostri limiti. Non si può “recitare”
in continuazione di fronte a chi condivide ogni giorno
con noi le circostanze più ordinarie e intime della vita.
«Nessuno è gran signore per il proprio servitore», reci­
ta l’adagio. Questo è ancor più vero per una moglie o
un marito! In questa luce, il matrimonio è una crude­
le, ma eccellente esperienza di verità rispetto a se stes­
si. E, di conseguenza, una scuola di umiltà.
Vivendo fianco a fianco, non è possibile camuffarsi
a lungo, e le protezioni che possiamo aver costruito
attorno ai nostri limiti crolleranno l’una dopo l’altra.
Ciò vale per i limiti del corpo (al risveglio mattutino il
trucco non è più perfetto...), come per quelli del carat­
tere (non si può ostentare all’infìnito una fìnta cordia­
lità verso i suoceri...). Ci sono i limiti dell’intelligenza
(si può brillare in società, ma si può essere miseramen­
te stupidi nelle situazioni ordinarie della vita), e quelli
dell’educazione (il personaggio grossolano che si cela
dietro a una patina di buone maniere non tarda a venir
fuori...). Altrettanto vale sul piano spirituale: nel corso
del fidanzamento si sono forse condivisi momenti di
fervore (ritiri, pellegrinaggi, veglie di preghiera...), che
col tempo possono lasciare spazio a tiepidezza e aridi­
tà spirituale.
La prima esigenza di una vita coniugale ben condot­
ta è l’accettazione dei nostri limiti: non certo per com­
piacersene, ma per riconoscerli come costitutivi di ciò

35
che in realtà noi siamo. La seconda è perdonarli, distin­
guendo quelli di cui non siamo responsabili da quelli
che la nostra negligenza, la pigrizia e una certa incuria
hanno contribuito ad accentuare e a radicare in noi.
È altrettanto necessario accettare i limiti della perso­
na che ci vive accanto, smettendo di idealizzarla, per
amarla nella realtà. Anch’essa si identifica - sotto un cer­
to aspetto - con i suoi limiti e le sue debolezze, e non
possiamo fare finta di niente, o illuderci che prima o poi
tutto possa cambiare in meglio. Questo però non vieta
di riservarle uno sguardo di speranza, soprattutto di fidu­
cia nella grazia di Dio che può operare meraviglie. Ma
non significa che l’altro debba cambiare per conformar­
si all’ideale di marito o di moglie che ci si è forgiato.

Il perdono, via del dono

Finché non avremo perdonato a noi stessi i nostri li­


miti e non avremo perdonato all’altro i suoi, non potre­
mo realizzare la verità del nostro donarci. Questo è par­
ticolarmente vero riguardo ai limiti del corpo: «Il corpo
rivela l’uomo. Questa formula concisa contiene già
tutto ciò che la scienza umana potrà mai dire sulla
struttura del corpo come organismo, sulla sua vitalità,
sulla sua particolare fisiologia sessuale, ecc.» (Udienza
del 14 novembre 1979). Il nostro corpo “dice” di noi,
ci racconta in quanto persone, e noi l’abbiamo ricevu­
to in dono per poterci a nostra volta donare. Non pos­
siamo però realizzare il dono di noi stessi senza aver
prima accettato come dono il nostro corpo. E accetta­
to così com’è, perché è il suo modo di dirci chi siamo.

36
Nel matrimonio il dono delle persone si esprime e
si compie attraverso il dono dei corpi. E questo com­
porta, preliminarmente, il riceversi e l’accettarsi nel pro­
prio corpo. Accettare di avere un corpo, senza sognarsi
puri spiriti (tentazione più femminile che maschile...),
esseri disincarnati fatti per un amore platonico, spiri­
tuale, attualizzabile solo come comunione di cuori e di
anime, prendendo le distanze dalle realtà della carne.
Questa tentazione manichea ha prodotto numerose
eresie fermamente combattute dalla Chiesa: catarismo,
encratismo, giansenismo...
Giovanni Paolo II è molto chiaro su questo punto,
e vi ritorna a più riprese, in particolare nell’esporre le
vere motivazioni per una scelta del celibato e nel com­
mentare le parole di Cristo a proposito dell’adulterio
commesso nel cuore (cfr. Mt 5,27-28). È significativa
questa insistenza del pontefice nel rifiutare radical­
mente ogni sospetto che possa gravare sulla dignità del
corpo e della sessualità: è in gioco la comprensione del­
l’essenza stessa dell’uomo e della sua vocazione nel pro­
getto di Dio. «Un atteggiamento manicheo dovrebbe
portare ad un “annientamento”, se non reale, almeno
intenzionale del corpo, ad una negazione del valore del
sesso umano, della mascolinità e femminilità della per­
sona umana, o perlomeno soltanto alla loro “tolleran­
za” nei limiti del “bisogno” delimitato dalla necessità
della procreazione. Invece, in base alle parole di Cristo
nel Discorso della montagna, \ ethos cristiano è caratte­
rizzato da una trasformazione della coscienza e degli at­
teggiamenti della persona umana, sia dell’uomo sia del­
la donna, tale da manifestare e realizzare il valore del
corpo e del sesso, secondo il disegno originario del

37
Creatore, posti al servizio della “comunione delle per­
sone” che è il substrato più profondo dell’etica e della
cultura umana» (Udienza del 22 ottobre 1980). E con­
clude con quest’affermazione inequivocabile: «Il modo
manicheo di intendere e di valutare il corpo e la sessua­
lità dell’uomo è essenzialmente estraneo al Vangelo».
Accettare di avere un corpo esige anche che si accet­
ti questo corpo, donato a noi da Dio, con le sue imper­
fezioni e i suoi limiti, poiché solo esso ci permette di
donarci. Esiste dunque una forma di perdono che deve
condurci ad una riconciliazione con noi stessi, per ac­
cettarci col nostro corpo reale e concreto. Senza que­
st’accettazione il nostro corpo, fatto per il dono, divie­
ne un ostacolo al nostro donarci: non ci si può donare
nel proprio corpo senza amare questo corpo.
Occorre inoltre accettare il corpo dell’altro, così co-
m’è, per poterlo ricevere pienamente in dono; e perdo­
nare all’altro i limiti del suo corpo al fine di poterlo
vedere come strumento del suo dono. Non si ribadirà
mai abbastanza gli inconvenienti causati dalle continue
idealizzazioni del corpo umano proposte dai media (ci­
nema, tv, riviste, pubblicità...): spettacolarizzano corpi
apparentemente perfetti, inducendoci a paragonare il
nostro, e quello della persona amata, a questi archetipi
ideali - raramente a nostro vantaggio! - facendoci desi­
derare di assomigliarvi. Un desiderio doppiamente in­
sensato. In primo luogo, perché quei corpi esibiti per
lo più non sono reali (foto ritoccate, trucchi, montag­
gi, immagini di sintesi...), ma il risultato di una finzio­
ne virtuale. Inoltre, il tentativo di conformarsi a quegli
standard sfocerebbe più che altro in una perdita di per­
sonalità.

38
È il nostro corpo, così com’è, a dirci chi veramente
siamo, e come tale dobbiamo accettarlo e amarlo. Noi
siamo il nostro corpo, come siamo la nostra anima. Ciò
vuol dire escludere ogni sforzo per valorizzare il corpo
e condannare ogni tentativo di correggerne i difetti?
Ovviamente no! La trascuratezza e la sciatteria fisica
non ci rendono più autenticamente noi stessi! Dobbia­
mo prenderci cura del nostro corpo con misura ed in­
telligenza... anche con un po’ di humour. Un trucco
discreto e appropriato può far risaltare vantaggiosa­
mente il colore degli occhi o l’intensità dello sguardo;
il buon taglio di un vestito potrà attenuare dei fianchi
un po’ troppo pronunciati; le lenti a contatto si rivele­
ranno talvolta più adatte di un paio di occhiali...
Tutto ciò è sano nella misura in cui ci aiuta ad amare
il corpo che ci è stato donato, in vista del dono di noi
stessi. Ed è in questo modo che dobbiamo guardare e
amare il corpo dell’altro: come un rivelatore, un “testi­
mone” della sua persona fatta per il dono. Si arriva così
ad amare anche certe “imperfezioni” del corpo dell’al­
tro, proprio perché sue, perché esprimono a loro modo
la sua unicità. Questo è un segno autentico della matu­
rità dell’amore.
Dobbiamo continuamente perdonare il nostro cor­
po, per amarlo di più e permettergli di donarsi meglio,
e perdonare il corpo dell’altro onde permettergli di
essere meglio accolto. Questo va fatto in ogni età della
vita, e lo sguardo rivolto al nostro corpo dev’essere eser­
citato sotto lo sguardo di Dio. L’educazione (o ri-edu­
cazione) dello sguardo è essenziale all’amore, poiché ci
permette di considerare realmente la persona amata
come un dono. Allora, le tracce lasciate nel corpo della

39
sposa dalle sue maternità non saranno più viste come
difetti, bensì come inviti a ringraziare per il dono che
significano; le rughe che prima o poi compaiono sul
volto dello sposo non saranno più causa di rimpianto,
bensì inviti alla contemplazione di una vita consuma­
ta nell’offerta... Gli sposi impareranno, a poco a poco,
a non considerare il loro corpo attraverso il riflesso del­
lo specchio, ma unicamente attraverso lo sguardo del­
l’altro, capace di meravigliarsi di fronte a una bellezza
unica, pari a nessun’altra.
Sarà lo sguardo della persona che ci ama a svelarci la
nostra vera bellezza. Solo gli sposi possono scambiarsi
quelle ammirevoli parole del Cantico dei Cantici: «Quan­
to sei bella, amata mia, quanto sei bella! / Gli occhi tuoi
sono come colombe. / Come sei bello, amato mio,
quanto grazioso!» (1,15-16). Questo modo di percepi­
re ed esprimere la bellezza unica dell’altro è il grande
tesoro degli sposi, il cuore del loro amore, il taberna­
colo sacro e segreto della loro intimità e del loro reci­
proco donarsi.

Perdono e comunione

Noi siamo fatti per la risurrezione, che sarà lo stato


della nostra vita “futura”. È l’attesa che esprimiamo
quando recitiamo il Creder. «Aspetto la risurrezione dei
morti e la vita del mondo che verrà». Questa è la nostra
speranza di cristiani, una certezza che proclamiano
nella fede. Il matrimonio, per coloro che hanno rice­
vuto questa vocazione, è la via attraverso la quale essi
si preparano a quella risurrezione che sarà il compi­

40
mento pieno della loro umanità: «Uno stato di fonda-
mentale “divinizzazione” della nostra umanità» (Udien­
za del 9 dicembre 1981).
Che cosa significa questo? Che nello “stato di risur­
rezione” l’uomo sperimenterà il compimento definiti­
vo del significato sponsale del suo corpo. Sarà aljeftache
tutta la sete di comunione e di donazione, che ci carat­
terizza in quanto persone chiamate al matrimonio, sarà
finalmente saziata dal donarsi di Dio a noi, a cui cor­
risponderà il dono totale di noi stessi a Lui. «La parte­
cipazione alla vita interiore [trinitaria] di Dio, penetra­
zione e permeazione di ciò che è essenzialmente umano
da parte di ciò che è essenzialmente divino, raggiunge­
rà allora il suo vertice [...]. Questa nuova spiritualizza­
zione sarà frutto della grazia, cioè del comunicarsi di
Dio, nella sua stessa divinità, non soltanto all’anima,
ma a tutta la soggettività psicosomatica dell’uomo»
(Udienza del dicembre 1981).
Il matrimonio è destinato a coltivare in noi questa
sete del dono totale, a educarla, a farla crescere e matu­
rare fino al suo pieno soddisfacimento, che solo Dio
può realizzare. In questo senso, il matrimonio è una
mediazione; una mediazione dalla quale si affrancano
coloro che hanno ricevuto la vocazione al celibato, chia­
mati a donarsi totalmente a Dio già su questa terra.
Infatti, il celibato “per il Regno” comporta che sin da
quaggiù si cerchi di prefigurare - necessariamente in
maniera imperfetta - quel dono totale di sé a Dio e
quell’accoglienza perfetta del dono di Dio, che si com­
piranno pienamente solo nel regno dei cieli, alla risur­
rezione dei corpi. Per coloro, invece, che hanno ricevu­
to la vocazione del matrimonio - e sono il maggior

41
numero - il loro stato di vita ha la funzione di prepa­
rarli all’avvento del Regno.
Tutta l’opera del matrimonio consiste nell’elimina-
re, ogni giorno un po’ di più, ciò che in noi è di osta­
colo alla comunione, nel prepararci a ricevere la pienez­
za del dono di Dio alla risurrezione, quando Egli stesso
estinguerà totalmente e per l’eternità la sete di comu­
nione iscritta fin dalle origini nei nostri cuori: «In se­
guito alla visione di Dio “faccia a faccia”, nascerà in lui
[l’ùomo] un amore di tale profondità e forza di concen­
trazione su Dio stesso, da assorbire completamente l’in­
tera sua soggettività psicosomatica» (Udienza del 16 di­
cembre 1981).
Questo è il fine ultimo e sublime del matrimonio sul
piano soprannaturale. Un fine che si realizza soprattut­
to nella profonda umiltà del perdono. Occorre passare
attraverso il perdono vicendevole, umilmente sollecitato
e generosamente accordato - «settanta volte sette» - così
da preservare la comunione sponsale ed eventualmen­
te rigenerarla, a fronte delle offese che con frequenza e
in vario modo può ricevere. Il perdono non si presume:
lo si chiede umilmente, lo si dice esplicitamente. Lo
sanno bene i monaci quando, al momento del cosid­
detto “capitolo delle colpe”, si inchinano e confessano
pubblicamente le loro mancanze contro l’esercizio della
carità fraterna e implorano il perdono. È come un mu­
ro di protezione che la saggezza monastica ha voluto
erigere contro le insidie che possono intaccare la vita di
fraternità e di comunione.
Il perdono è la condizione primaria della crescita
nella comunione sponsale. Senza di esso il matrimonio
rischia di ridursi ad una pura coesistenza, nell’indiffe­

42
renza reciproca, invece che realizzarsi come comunio­
ne reale e vitale delle anime, dei cuori e dei corpi. I gesti
di perdono che non sono stati richiesti o che non sono
stati concessi, sono simili alle acque sotterranee che mi­
nano poco alla volta le fondamenta di un edifìcio, pri­
ma di provocarne il crollo. Quando gli sposi si conce­
dono ndl'atto dell’unione dei corpi, ma senza aver
prima compiuto il gesto di verità del perdono recipro­
co, il loro donarsi non è altro che una falsificazione,
incapace di aprirli alla comunione vera. Il perdono è il
garante assoluto della fedeltà degli sposi, in quanto li
pone continuamente di fronte alle esigenze della veri­
tà della loro comunione. L’infedeltà coniugale spesso
non è che il risultato di perdoni che, non chiesti o non
concessi, hanno lasciato crescere fra gli sposi delle zone
d’ombra - troppe cose non dette, sofferenza, rancore,
frustrazione... - che divengono a poco a poco il terre­
no in cui attecchisce la menzogna.
Il perdono, mutuamente praticato, mantiene gli spo­
si in una costante esigenza di verità che rigenera di con­
tìnuo la loro fedeltà. La liturgia eucaristica ci educa al
perdono come atto preparatorio per la comunione con
Cristo, attraverso il riconoscimento delle colpe e la ri­
chiesta di perdono: Confesso... /Signore, non sono degno...
Di perdono in perdono, la comunione nel matrimo­
nio diviene più vera e più radicale, pur rimanendo sem­
pre imperfetta, e incrementa in noi la sete di quella
comunione più totale di cui Dio stesso, nell’ultimo
giorno, sarà al contempo l’oggetto e la causa.

43
Schema III

LA LITURGIA DEI CORPI

«Entrambi, l’uomo e la donna, allontanandosi dal­


la concupiscenza, trovano la giusta dimensione della
libertà del dono, unita alla femminilità e mascolinità
nel vero significato sponsale del corpo. Così la lingua
liturgica, cioè la lingua del sacramento e del “my-
sterium , diviene nella loro vita e convivenza “linguag­
gio del corpo” in tutta una profondità, semplicità e
bellezza fino a quel momento sconosciute. Su questa
via, la vita coniugale diviene in certo senso liturgia».
(G iovanni Paolo II, Udienza del 4 luglio 1984)

Il sacramento primordiale

«In questa dimensione si costituisce un primordiale


sacramento, inteso quale segno che trasmette efficace­
mente nel mondo visibile il mistero invisibile nascosto
in Dio dall’eternità. E questo è il mistero della Verità e
dell’Amore, il mistero della vita divina, alla quale l’uo­
mo partecipa realmente» (Udienza del 20 febbraio
1980). Così Giovanni Paolo II conclude il suo com­
mento sulla creazione dell’uomo e della donna secon­
do il racconto della Genesi.
Del progetto originario di Dio, nel cuore di ogni
uomo e di ogni donna risuona come “un’eco lontana”,

45
una sorta di nostalgia. Ed è ciò che provoca in noi la
sensazione —ben giusta - che la nostra sessualità com­
porti una certa grandezza, una certa nobiltà, nonostan­
te la consapevolezza del nostro peccato, delle nostre
ferite, della nostra miseria e povertà. E appunto al pro­
getto delle origini che Gesù si richiama nella sua rispo­
sta ai farisei che lo mettono alla prova a proposito del
ripudio della moglie (cfr. Mt 19,3-9). Quella stessa
risposta Cristo la darebbe anche all’uomo contempo­
raneo, a ciascuno di noi, «e lo farebbe forse in modo
tanto più deciso ed essenziale, in quanto la situazione
interiore e insieme culturale dell’uomo d’oggi sembra
allontanarsi da quel “principio” ed assumere forme e
dimensioni che divergono dall’immagine biblica del
“principio” in punti evidentemente sempre più distan­
ti» (Udienza del 2 aprile 1980).
L’eco lontana di quel “principio” testimonia nel no­
stro cuore la verità sulla sessualità umana, voluta per
esprimere visibilmente la comunione eterna delle Per­
sone divine. L’intera creazione è destinata a rivelare il
cuore di Dio, a essere una raggiante manifestazione
della sua essenza. Si può dunque parlare di “sacramen­
to” della creazione, nel senso ampio e primigenio della
parola: sacramento inteso come «svelamento del miste­
ro nascosto in Dio». Tutta la creazione, in quanto opera
che manifesta Dio, non può che essere buona. Lo testi­
monia l’asserzione che conclude ogni giorno della crea­
zione: «Dio vide che era cosa buona». Ma è al vertice
della sua opera, dopo aver realizzato il suo capolavoro
con la creazione dell’uomo e della donna, che «Dio vi­
de quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona»
(Gn 1,31). «Il matrimonio è sacramento in quanto par­

46
te integrante e, direi, punto centrale del “sacramento
della creazione”. In questo senso è sacramento primor­
diale» (Udienza del 6 ottobre 1982).
È questo progetto di Dio, il sogno d’amore dell’Eter-
no che continua ad animare il cuore dell’uomo, malgra­
do tutte le deturpazioni che il peccato originale non cessa
di infliggere all’amore umano. È l’eco lontana del “prin­
cipio” che dobbiamo riscoprire nel profondo del nostro
cuore, a condizione che sappiamo prestare orecchio alla
nostalgia di quella “purezza di cuore” di cui erano natu­
ralmente capaci l’uomo e la donna nel loro stato d’inno­
cenza. «Quest’armonia, e precisamente la “purezza di
cuore”, consentiva all’uomo e alla donna nello stato del­
l’innocenza originaria di sperimentare semplicemente (e
in un modo che originariamente li rendeva felici en­
trambi) la forza unitiva dei loro corpi, che era, per così
dire, il substrato “insospettabile” della loro unione per­
sonale o “communio personarum » (Udienza del 4 feb­
braio 1981). Il ritorno a quella purezza del cuore, nella
nostra condizione di umanità ferita dal peccato, non può
che essere opera della grazia di Dio in noi.
La grazia del sacramento matrimoniale, benché con­
ferisca una speciale forza per lottare contro il peccato delle
origini, non può cancellarne le conseguenze, che riman­
gono iscritte in noi sotto la forma della triplice concupi­
scenza evocata da san Giovanni (lGv 2,16: «concupi­
scenza della carne, concupiscenza degli occhi, superbia
della vita»). Ma può permetterci di ricalibrare il vissuto
della nostra sessualità rispetto al progetto originario di
Dio, e ciò persino attraverso le ferite del nostro cuore.
Riconoscere lo splendore del disegno di Dio sulla sessua­
lità umana, contemplarlo esercitandoci alla purezza del

47
cuore, è una prima tappa che ci permette di vivere l’unio­
ne dei corpi come una liturgia, come una celebrazione del
divino, e dunque di riconciliarci con la nostra sessualità,
piuttosto che contrastarla. La sessualità è fondamental­
mente buona, anche se il nostro cuore ferito ci rende dif­
fìcile coglierla e viverla nel suo significato integrale.
Attraverso di essa il Creatore ha voluto “esprimersi” nella
maniera più profonda e insieme più umile.
Una spiritualità coniugale autentica non potrà mai
proporsi come una sfida alla sessualità o come un suo
svilimento. La sessualità non è in noi una sorta di retag­
gio animalesco che saremmo condannati a esperire al
modo di una “sublimazione culturale”. Essa è il marchio
del divino in noi e continua ad avere la funzione che
aveva “al principio”: svelare il cuore trinitario di Dio.
Realizzarla concretamente, convincerci della fondamen­
tale bontà della nostra sessualità per riconciliarci con
essa, è la condizione primaria di ogni spiritualità coniu­
gale. Non è malgrado - e ancora meno contro - la nostra
.sessualità che dobbiamo, come sposi, crescere nella vita
spirituale, bensì mediante il suo esercizio ordinato, cioè
conforme alla sua finalità. A questa condizione, la nostra
vita sessuale non potrà essere una sorta di parentesi nella
nostra vita spirituale. Al contrario, sarà il cuore e come
il centro liturgico della nostra vita di sposi.

Non dividere quello che Dio ha congiunto

Nel brano evangelico in cui i farisei pongono la que­


stione del ripudio della moglie, Gesù, dopo aver ricor­
dato la creazione dell’uomo e della donna (“maschio e

48
femmina”), conclude la prima parte della sua risposta
in questi termini: «Così non sono più due, ma una sola
carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha
congiunto» (Mt 19,9). Tutta una tradizione ha inter­
pretato, opportunamente, questa risposta nel senso del­
la intangibilità dell’unione coniugale: l’uomo non può
arrogarsi il potere di separare coloro che si sono reci­
procamente consacrati nel matrimonio.
Alla luce delle origini, richiamate in due riprese in
questo passo evangelico, Gesù sembra voler dire qual­
cosa di ancor più profondo. Dio non ha inteso creare
un essere unicamente spirituale, a cui fosse in qualche
modo “affibbiato” un corpo. Ha invece voluto un esse­
re al contempo carnale e spirituale: non nel senso di
una “addizione” di due nature, una spirituale e l’altra
corporale, ma nel senso di un’unità sostanziale di corpo
e di spirito. Secondo il progetto creativo di Dio, l’uo­
mo non è un’anima “più” un corpo, o un’anima “in”
un corpo, come pensava Cartesio. Egli è “anima incar­
nata” e “carne spiritualizzata”. Ed è tale solo nell’unio­
ne con un altro principio - maschile per la donna, fem­
minile per l’uomo - che gli conferisce la sua piena
realtà ontologica. L’uomo non è pienamente umano
senza la donna, come la donna non è pienamente uma­
na senza l’uomo.
La presa di coscienza della realtà umana dell’uomo
e della donna si compie nell’unica carne (una caro), la
carne unita dell’uomo e della donna. E in questa unio­
ne, destinata alla comunione, che l’uomo e la donna
realizzano la pienezza della loro umanità. L’uomo è me­
scolanza di spirito e carne, ma la sua realtà carnale non
si esaurisce nella sola mascolinità o nella sola femmini­

49
lità. L’uomo non è pienamente corpo - un corpo fatto
per il dono - che nell’unione dei corpi, dove essi non
sono più due, ma un’unica carne. Sin dall’origine, è in
questa unità della carne che si esprime la pienezza della
loro umanità.
Non l’uomo singolarmente, né la donna singolarmen­
te, sono immagine di Dio, bensì l’uomo e la donna in
comunione nell’unica carne. «L’uomo è divenuto “im­
magine e somiglianza” di Dio non soltanto attraverso la
propria umanità, ma anche attraverso la comunione del­
le persone, che l’uomo e la donna formano sin dall’ini­
zio. [...] Egli, infatti, è fin “da principio” non soltanto
immagine in cui si rispecchia la solitudine di una Per­
sona che regge il mondo, ma anche, ed essenzialmente,
immagine di una imperscrutabile divina comunione di
Persone» (Udienza del 14 novembre 1979).
L’uomo non è immagine di Dio solo perché creatu­
ra dotata di spiritualità. Se l’immagine di Dio fosse una
qualifica conferita unicamente attraverso la spirituali­
tà, gli angeli, essendo puri spiriti, meriterebbero infini­
tamente più dell’uomo di essere qualificati come im­
magini di Dio. Ogni angelo è un riflesso sublime di
una dimensione deU’intelligenza divina, ma essere im­
magine di Dio è il privilegio dell’essere umano, uomo
e donna. Essendo Dio comunione eterna di Persone, la
sua immagine è fondamentalmente iscritta nella capa­
cità di comunione dell’uomo e della donna quando,
divenendo una sola carne, esprimono la totalità e l’as­
soluto del dono delle loro persone. «Questo potrebbe
costituire perfino l’aspetto teologico più profondo di
tutto ciò che si può dire dell’uomo» (ivi).
Il più modesto rappresentante della gerarchia ange­

50
lica è una creatura che supera smisuratamente, in intel­
ligenza, la totalità del genio dell’umanità. Il minimo ri­
flesso dell’intelligenza divina nell’intelligenza angelica
ci supera infinitamente. E tuttavia, l’angelo non dona
la vita... Egli può comunicare un’opera della sua intel­
ligenza, ma non può trasmettere la vita. L’uomo, inve­
ce, è capace di donare la vita del corpo e dello spirito.
In questo senso, egli è procreatore e partecipe dell’atti­
vità creatrice di Dio, che è Vita. Un privilegio straor­
dinario, di cui non godono gli angeli, benché sul piano
dell’essere siano assai più perfetti degli uomini.
Ogni unione dei corpi è celebrazione - liturgia -
della comunione esistente in Dio da tutta l’eternità. Le­
gando la sua immagine nell’unione dei corpi, Dio ha
voluto essere proclamato, glorificato, celebrato in que­
sta umiltà del dono. L’atto carnale, il gesto del donarsi
dei corpi, diventa un “racconto” di Dio, una sua cele­
brazione, una liturgia. Quest’assoluto del dono, l’uomo
non ha il diritto di infrangerlo.

La vocazione del corpo

Come concepire che Dio abbia voluto porre l’imma­


gine del suo stesso essere - una eterna comunione di
Persone - nell’umile espressione carnale del dono dei
corpi? Non sarebbe stato più opportuno che Dio met­
tesse la sua immagine in un’intelligenza pura, angelica?
Certo, ogni intelligenza angelica è un riflesso, sia pure
imperfetto, dell’intelligenza divina. L’essere stesso di Dio
non dimora però nella sua intelligenza, malgrado il suo
carattere incommensurabile, ma si esprime nel dono

51
totale che ogni Persona divina fa di sé nella Trinità: il
Padre, assoluto dono offerto / il Figlio, assoluto dono
ricevuto / lo Spirito, assoluto dono scambiato. È da
questo donarsi reciproco e assoluto delle Persone che
risulta la comunione eterna dell’amore trinitario, che è
il cuore stesso di Dio. È di questo dono, da cui sgorga
la comunione trinitaria, che il corpo umano è imma­
gine, recando il dono iscritto nella sua stessa struttura.
Il progetto d’amore di Dio su tutta la creazione era di
collocare al suo vertice l’unione carnale dell’uomo e
della donna, sicché in essa il mistero stesso di Dio fosse
“detto” e manifestato. «Il corpo, infatti, e soltanto esso,
è capace di rendere visibile ciò che è invisibile: lo spi­
rituale e il divino. Esso è stato creato per trasferire nella
realtà visibile del mondo il mistero nascosto dall’eter­
nità in Dio, e così esserne segno» (Udienza del 20 feb­
braio 1980).
Rendere visibile il mistero di Dio: questa è la voca­
zione del corpo umano fatto per un dono che si realiz­
za pienamente nell’unione carnale. «Il corpo, e soltan­
to esso...», non la sublime intelligenza dei cherubini,
che posseggono la perfezione della scienza di Dio, né
quella dei serafini, gli angeli che occupano il vertice
delle gerarchie celesti. Il corpo umano, e soltanto esso!
Quanto vi è di più umile, di più povero, persino di più
miserabile nel suo esprimersi —il dono dei corpi - è
stato elevato a epifania del divino. Sublimi le parole di
Giovanni Paolo II: «In questa dimensione del dono si
costituisce un primordiale sacramento, inteso quale se­
gno che trasmette efficacemente, nel mondo visibile, il
mistero invisibile nascosto in Dio dall’eternità. E que­
sto è il mistero della Verità e dell’Amore, il mistero del­

52
la vita divina, alla quale l’uomo partecipa realmente»
(Udienza del 20 febbraio 1980).
Prospettiva assolutamente incomprensibile per la lo­
gica mondana: il mistero del corpo legato al mistero di
Dio; un mistero che deve diventare oggetto di contem­
plazione. Gli sposi cristiani sono chiamati a essere i
profeti di questo splendore della vocazione del corpo
umano. Splendore e grandezza che si rivelano nel­
l’umiltà delle nostre espressioni carnali. Realtà e verità
assolutamente inaccessibili ad un’intelligenza orgoglio­
sa. Si comprende, allora, come il nemico di Dio - bu­
giardo e omicida sin dalle origini - avendo rifiutato il
progetto dell’incarnazione, si ingegni a rendere opaco
e inadeguato questo linguaggio del corpo, a falsificar­
ne il significato, al fine di indurre l’uomo a disperare
della vocazione eterna del suo corpo.
Ci è dunque proibito disprezzare o anche solo de­
nigrare il linguaggio del corpo. Dobbiamo invece ce­
lebrarlo e magnificarlo, proprio in ragione della sua
umiltà. Il corpo, ed esso solo, è fatto per dire ciò che è
indicibile. L’indicibile di Dio non può essere raggiun­
to dalla speculazione teologica, anche la più alta, la
quale può solo cercare di avvicinarlo. L’indicibile miste­
ro dell’amore eterno delle divine Persone può e dev’es­
sere “detto” attraverso la realtà carnale dell’unione dei
corpi. Una realtà che dà la vertigine! La vertigine di un
amore inesprimibile che si rivela nella piccolezza e non
nella grandezza, nell’umiltà del corpo e non nella subli­
mità dell’intelligenza.
Ad un simile mistero, più che il discorso teologico,
può tentare timidamente di avvicinarsi la poesia. É ciò
che fa Giovanni Paolo II nella sua ultima opera poeti­

53
ca, del 2003, meditando sulla raffigurazione michelan­
giolesca della creazione nella cappella Sistina: «Chi è
Lui? L’Indicibile. L’Esistenza che esiste da sé. L’Unico.
Il Creatore di tutto. Nello stesso tempo, comunione di
persone. In questa comunione si realizza un dono reci­
proco della pienezza di verità, di bene e di bellezza. Ma
- al di sopra di tutto - indicibile. E tuttavia ci parlava
di sé. Così come ha fatto creando l’uomo a sua imma­
gine e somiglianza. [...] “Uomo e donna li creò”. E ad
essi restava il dono ricevuto da Dio. Essi accolsero su
di sé - misura della loro umanità - questo mutuo dono
che è in lui» ( Trittico romano, 3).
E dunque immensa la responsabilità di quanti han­
no la vocazione del matrimonio: chiamati a manifesta­
re l’intima essenza di Dio attraverso la comunione rea­
lizzata nell’unica carne. In questa luce, il matrimonio
cristiano si rivela come l’esperienza concreta mediante
la quale il mistero stesso di Dio si rende un po’ più ac­
cessibile all’uomo. Se la liturgia è servizio e celebrazione
del divino, gli sposi cristiani, quando si fanno vicende­
vole dono di sé nell’“unica carne”, divengono - nel­
l’umiltà stessa del loro dono - “liturghi” per eccellenza.
Per loro tramite l’assoluto mistero di Dio è manifesta­
to e celebrato nella sua pienezza.

54
Schema IV

L’UMILTÀ
DELL’INCARNAZIONE

«L’originario significato della nudità corrisponde a


quella semplicità e pienezza di visione, nella quale la
comprensione del significato del corpo nasce quasi
nel cuore stesso della loro comunità-comunione».
(GIOVANNI Paolo II, Udienza del 2 gennaio 1980)

La nudità dei corpi

Il peccato originale ha ferito in profondità il cuor


dell’uomo e della donna, e da quel momento lo sguar­
do che essi rivolgono vicendevolmente ai loro corpi è
falsato. Nello stato d’innocenza originaria, “stato di
grazia” precedente al peccato, l’uomo e la donna sape­
vano riconoscere, nelle forme fisiche della loro masco­
linità e femminilità, degli inviti ad una pienezza di
comunione destinata a stabilirli concretamente nel loro
essere immagini della comunione d’amore delle Perso­
ne divine. Gli sguardi rivolti al corpo, e in particolare
alle sue fattezze sessuali, erano perfettamente puri e tra­
sparenti, per ambedue occasioni di vero giubilo, essen­
do segni rivelatori della loro vocazione di immagini di
Dio. La finalità di quei segni s’imponeva con serena e
splendida evidenza, sicché potevano essere celebrati

55
nella gioiosa condivisione in vista di ciò a cui il proget­
to divino li aveva destinati.
I corpi dell’uomo e della donna, nella loro divers
tà sessuale, consentivano la realizzazione della loro pie­
na identità in quanto immagini di Dio. L’espressione
biblica: «Tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie,
e non provavano vergogna» (Gn 2,25) indica la piena
consapevolezza della vera essenza del loro corpo e la
pace totale degli sguardi reciproci. In origine il corpo
manifesta pienamente la realtà dell’uomo e permette
che «l’uomo e la donna “comunichino” tra loro secon­
do quella “communio personarurn voluta dal Creatore
proprio per loro» (Udienza del 19 dicembre 1979).
L’assenza di vergogna attesta che essi riconoscono per­
fettamente il significato sponsale dei loro corpi, attra­
verso i quali possono realizzare il dono totale di sé. «Il
corpo, che esprime la femminilità “per” la mascolini­
tà e, viceversa, la mascolinità “per” la femminilità, ma­
nifesta la reciprocità e la comunione delle persone. La
esprime attraverso il dono come caratteristica fonda-
mentale dell’esistenza personale» (Udienza del 9 gen­
naio 1980).
Così Giovanni Paolo II evoca poeticamente la con­
dizione d’innocenza delle origini: «Nudi, tutti e due...
Finché conservarono quel dono, non ebbero vergogna.
Con il peccato verrà la vergogna, ma per il momento è
l’estasi a durare. Vivono, consapevoli di quel dono, an­
che se non sanno dargli un nome. Vivono di esso. Sono
puri» ( Trittico romano, 3). Ben diversi sono i loro sguar­
di dopo il peccato. Ormai, nelle forme della mascoli­
nità e della femminilità essi non vedono altro che la so­
miglianza con la sessualità animale... e ne provano

56
disagio e vergogna. E quelle forme vanno coperte, tan­
to sono diventate suscettibili di risvegliare non più un
richiamo al dono, ma uno sguardo di concupiscenza.
«Un tale estorcere all’altro essere umano il suo dono (al­
la donna da parte dell’uomo e viceversa) ed il ridurlo
interiormente a puro “oggetto per me”, dovrebbe ap­
punto segnare l’inizio della vergogna. Questa, infatti,
corrisponde ad una minaccia inferta al dono nella sua
personale intimità e testimonia il crollo interiore del­
l’innocenza nell’esperienza reciproca» (Udienza del 6
febbraio 1980). Non ci resta quindi che ritrovare, a po­
co a poco, lo sguardo delle origini, pazientemente, con
umiltà e fiducia.
Sappiamo quanto sia difficile, per gli sposi, offrirsi
allo sguardo vicendevole nella totale nudità del corpo.
La nudità ci disarma, ci priva di ogni protezione, ci
espone a una terribile vulnerabilità. Lo sanno bene i
torturatori, che cominciano col denudare i corpi per as­
servire le anime. I nazisti, come primo atto del loro
progetto disumanizzante verso quanti arrivavano nei
campi di sterminio, li costringevano a svestirsi. Nel­
l’esperienza matrimoniale, l’offrirsi nudi allo sguardo
del partner, con serenità di anima e di cuore, esige che
gli si conceda totale fiducia, nella certezza di non esse­
re giudicati, “soppesati” e criticati... bensì fatti oggetto
di ammirazione. E un’attitudine che esige una costan­
te rieducazione del cuore, specialmente nell’attuale cli­
ma culturale che non cessa di offrirci modelli standar­
dizzati di corpi da rivista patinata.
Particolarmente delicata, e non di rado disagevole,
può risultare la situazione della donna, quando il suo
corpo mostra le tracce delle maternità. Ha davvero bi­

57
sogno di molta fiducia nello sguardo del suo sposo, per
essere certa di non essere giudicata, ma piuttosto resa
partecipe di un’azione di grazie al cospetto delle stim­
mate impresse in lei dal dono della vita. Quale deli­
catezza deve esercitare lo sposo, onde trattenersi da
qualsiasi sguardo o commento inopportuno, che possa
attentare a ciò che di più delicato, intimo e vulnerabi­
le esiste nella comunione sponsale!
Al contrario, quando la spontaneità della comunio­
ne è stata ferita, o addirittura infranta, il primo rifles­
so è di sottrarre la propria nudità allo sguardo altrui.
Nel mezzo di una crisi o in una situazione di disagio,
diventa diffìcile spogliarsi in presenza dell’altro, prima
che un atto di sincera riconciliazione permetta di nuo­
vo che il suo sguardo si posi sul nostro corpo denudato.

La nudità delle anime

Se offrire serenamente la nudità del proprio corpo


allo sguardo del coniuge richiede una vera maturità del­
l’amore, ancora più la richiede la nudità delle anime.
Disvelare all’altro l’intimità della propria anima, con­
dividendo una preghiera vocale spontanea, indipen­
dentemente dalle formule consuete, esige una forma
compiuta di comunione, e pochi sposi se ne sentono
capaci. E tuttavia, cosa può significare un’intimità fi­
sica senza la comunione delle anime? Forse solo una
complicità nella voluttà, per non essersi nutrita alla sor­
gente? In questo senso, una piena comunione fìsica
non può fare a meno di radicarsi in una comunione
spirituale effettiva e regolarmente esercitata.

58
Quanti falsi pudori è necessario vincere! Quanti spo­
si accettano di spogliare i loro corpi, ma si rifiutano di
denudare le loro anime nella verità. Siamo allora certi
che la nudità del corpo sia considerata nella giusta luce?
C’è ragione d’interrogarsi su questo pudore spirituale,
contro il quale gli sposi devono combattere senza posa.
Perché è così difficile vincerlo, al punto che la conqui­
sta dell’intimità spirituale richiede una lotta quoti­
diana, lungo tutto l’arco della vita coniugale? Forse toc­
chiamo qui il cuore stesso del mistero dell’amore, nel
luogo in cui è in gioco la sua verità e, parimenti, la sua
maggiore vulnerabilità.
Per spiegare questa difficoltà, e anche giustificarla, si
potranno chiamare in causa un’educazione spirituale
troppo individualistica, le deviazioni di certe spiritua­
lità, i blocchi affettivi e tutto l’arsenale delle argomen­
tazioni psicologiche - fattori che hanno sicuramente il
loro valore -, ma il nocciolo della questione rimane
irrisolto. Il dato di fondo è che solo la comunione delle
anime può disporre alla verità dell’unione dei corpi, nel
rispetto integrale del suo significato.
Anche fra moglie e marito, anche fra sposi cristiani
vincolati dal sacramento, l’unione dei corpi può realiz­
zarsi sotto forma di seduzione o di dominio, quindi
nella falsificazione del linguaggio corporeo ereditata dal
peccato. Ma così non si esprime più il dono incondi­
zionato delle persone, non si realizza più la vocazione
“sponsale” del corpo umano - per riprendere un’espres­
sione cara a Giovanni Paolo II -, cioè l’appello al dono
totale di sé. La comunione vera delle anime, sperimen­
tata in una preghiera effettiva e condivisa, rende quasi
impossibile questa falsificazione del linguaggio del cor­

59
po, a meno che non si dia spazio all’ipocrisia di una
preghiera fittizia o soltanto formalistica.
La posta in gioco della nudità delle anime sta in que­
sto: favorire la verità del dono dei corpi e il rispetto as­
soluto del suo significato sponsale. Ma c’è anche la con­
tropartita: si esige un’assoluta fiducia reciproca, per
potersi offrire nella totale vulnerabilità e trasparenza.
L’accettazione della vulnerabilità di ciò che in noi è più
intimo, può rendere l’amore degli sposi più forte della
morte, come testimonia la storia biblica di Tobia e Sara,
i quali si offrono l’uno all’altra nella preghiera comune
prima di realizzare il dono dei corpi. «La preghiera di
Tobia (Tb 8,5-9) - commenta Giovanni Paolo II - che
è innanzitutto preghiera di lode e di ringraziamento,
poi di supplica, colloca il “linguaggio del corpo” sul ter­
reno dei termini essenziali della teologia del corpo. [...]
Si può dire che sotto questo aspetto il “linguaggio del
corpo” diventa il linguaggio dei ministri del sacramen­
to, consapevoli che nel patto coniugale si esprime e si
attua il mistero che ha la sua sorgente in Dio stesso. Il
loro patto coniugale è infatti l’immagine - e il primor­
diale sacramento dell’alleanza di Dio con l’uomo, con
il genere umano - di quell’alleanza che trae la sua ori­
gine dall’Amore eterno» (Udienza del 27 giugno 1984).
Prepararsi attraverso l’unione delle anime alla pienez­
za dell’unione dei corpi —una volta fatto il primo discer­
nimento sulla persona prescelta - è il percorso essenzia­
le di un serio fidanzamento. Sono le loro anime, che i
fidanzati devono imparare a denudare, per essere poi
capaci di denudare i loro corpi in una totale trasparenza
e libertà. L’esperienza insegna che, se non si compie que­
sto apprendistato durante il fidanzamento, sarà assai dif­

60
ficile intraprenderlo dopo il matrimonio. La capacità di
pregare insieme è una delle garanzie più sicure per un
matrimonio solido, e deve costituire per i fidanzati un
basilare elemento di verifica. È questa la roccia sulla
quale devono costruire il loro futuro matrimonio, e che
al momento opportuno permetterà loro di affrontare le
inevitabili prove di ogni vita coniugale.
Purtroppo, è proprio la preghiera in comune la pri­
ma cosa che gradatamente gli sposi tralasciano quando
la loro comunione inizia a sbiadire. Ci si riduce a pre­
gare semplicemente l’uno accanto all’altra, quando non
si può fare altrimenti (ad esempio durante la messa do­
menicale). Poi si passa a pregare ognuno per conto pro­
prio, avendo forse l’impressione di fare meglio... Una
funesta e pericolosa illusione. Gli sposi rischiano di
perdere di vista la comunione perfetta - delle anime e
dei corpi - alla quale sono chiamati, finendo col rasse­
gnarsi ad una semplice coesistenza, pur conservando
una buona relazione sul piano affettivo e sessuale: ma
si tratta di relazioni, non più di comunione.
È la nudità e l’unione delle anime, realizzata in pri­
mo luogo attraverso la preghiera in comune, a predispor­
re a quella estatica nudità e sacrale unione dei corpi - alla
luce e nel segno della croce - nel rispetto della vocazio­
ne al dono, come riverbero dell’offerta redentiva e nuzia­
le di Cristo/Sposo nei confronti della Chiesa/Sposa.

Il profetismo dei corpi

In quanto stato di vita che impegna non solo ad am­


mettere, ma a vivere concretamente le esigenze dell’in­

61
carnazione, il matrimonio è vera scuola di umiltà. Ac­
cettare di avere un corpo e di offrirlo in dono nell’umil­
tà dell’espressione carnale; realizzare l’intima comunione
con Dio in una vita spirituale vissuta in due; esprimere
l’amore attraverso i segni incarnati della tenerezza, con i
gesti più semplici e le effusioni carnali, che non sono
esclusivamente sessuali; accettare che l’amore sponsale si
completi nella trasmissione della vita, con tutto il suo
bagaglio di obblighi concreti... Attraverso tutte queste
esigenze, il matrimonio immerge coloro che vi sono
chiamati nella dimensione profonda del mistero cristia­
no, che è innanzitutto mistero d’incarnazione.
Nella prospettiva dell’incarnazione, tuttavia, gli spo­
si sono tenuti a qualcosa di più, hanno un ruolo del
tutto speciale rispetto a ciò che il corpo umano è chia­
mato a significare nel progetto di Dio. Attraverso le
parole e l’atto di autodonazione e di mutua accoglien­
za, grazie a cui diventano veri e propri “ministri del
sacramento”, gli sposi fanno riferimento al “linguaggio
del corpo”, che come ogni linguaggio dev’essere prati­
cato secondo verità: nel loro caso deve rispecchiare le
esigenze del dono di sé, integrale e senza riserve. «Sullo
sfondo delle parole pronunciate dai ministri del sacra­
mento del matrimonio, sta il perenne “linguaggio del
corpo”, a cui Dio “diede inizio” creando l’uomo quale
maschio e femmina: linguaggio che è stato rinnovato
da Cristo. Questo perenne “linguaggio del corpo” porta
in sé tutta la ricchezza e la profondità del Mistero: pri­
ma della creazione, poi della redenzione» (Udienza del
19 gennaio 1983).
Il linguaggio del corpo, utilizzato dagli sposi per espri­
mere il loro patto nuziale, è lo stesso della Bibbia: quel­

62
lo dell’alleanza originaria tra il Creatore e l’uomo nel
mistero della creazione; poi quello dell’antica alleanza
conclusa con Israele in Abramo, il cui carattere nuzia­
le sarà proclamato dai profeti (Osea, Ezechiele, Isaia);
infine, quello della nuova alleanza sponsale tra Cristo
e la Chiesa, come espressa dall’apostolo Paolo (cfr. Ef
5,21-33). «Non è lecito dimenticare che “il linguaggio
del corpo”, prima di essere pronunciato dalle labbra
degli sposi, ministri del matrimonio quale sacramento
della Chiesa, è stato pronunciato dalla parola del Dio
vivo, iniziando dal libro della Genesi, attraverso i Pro­
feti dell’antica alleanza, fino all’autore della lettera agli
Efesini» (ivi). In questo senso, gli sposi compiono, do­
nandosi l’uno all’altra, un atto di carattere profetico.
Infatti, attraverso il dono di sé, espresso con le parole del
consenso, confermato dalla consumazione del matrimo­
nio nell’unione dei corpi, affermano la loro partecipa­
zione alla missione profetica che Cristo ha affidato alla
Chiesa. Il profeta, ci ricorda il papa, «è qualcuno che
esprime con parole umane la verità che proviene da Dio,
che proferisce questa verità al posto di Dio, in suo nome
e, in un certo senso, sotto la sua autorità» (ivi). Attra­
verso l’umiltà del linguaggio dei corpi gli sposi sono real­
mente profeti.
Ma gli sposi permettono anche, in qualche modo, al
corpo di esprimersi a loro nome. «L’uomo —maschio o
femmina - non soltanto parla col linguaggio del corpo,
ma in un certo senso consente al corpo di parlare “per
lui” e “da parte di lui”: direi, a suo nome e con la sua
autorità personale. In tal modo, anche il concetto di
“profetismo del corpo” sembra essere fondato: il “pro­
feta”, infatti, è colui che parla “per” e “da parte di”: a

63
nome e con l’autorità di una. persona» (Udienza del 26
gennaio 1983). Quindi, il corpo degli sposi “parlerà
profeticamente” in nome di ciascuno di loro non solo
attraverso gli atti propri del dono sessuale, ma anche
attraverso ogni gesto di tenerezza, di affetto, di compas­
sione, di vicendevole accoglienza. Tutto questo è con­
tenuto, in maniera sintetica, nelle parole sacramentali
del consenso coniugale, ed è destinato a dispiegarsi
lungo tutta la vita degli sposi.
Profeti dell’alleanza fra Dio e l’umanità, fra Cristo e
la sua Chiesa, gli sposi hanno l’immensa responsabilità
di essere dei veri profeti, di permettere al corpo di eser­
citare la sua missione profetica, di essere in qualche
modo i guardiani della verità del linguaggio del corpo.
Non sia mai che essi, tradendo e alterando questo lin­
guaggio, vengano a trovarsi nella categoria dei “falsi pro­
feti” denunciati dalla Scrittura, coloro che conducono
alla morte il popolo di Dio. La loro immensa missione,
di partecipare in maniera eminente al mistero dell’incar­
nazione, passa attraverso l’accettazione dell’umiltà del
linguaggio del corpo e nel rispetto della sua verità.

64
Schema V

LE SOTTIGLIEZZE DELL’ADULTERIO

«Con la categoria del “cuore”, ognuno è indivi­


duato singolarmente ancor più che per nome, viene
raggiunto in ciò che lo determina in modo unico e
irripetibile».
(G iovanni Paolo II, Udienza del 6 agosto 1980)

L’adulterio del cuore

Il secondo elemento di quello che Giovanni Paolo II


definisce “trittico scritturistico” della teologia del corpo
è costituito dal passo del Discorso della montagna in
cui Gesù afferma: «Avete inteso che fu detto: Non com­
mettere adulterio. Ma io vi dico: chiunque guarda una
donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con
lei nel proprio cuore» (Mt 5,27-28).
Per il papa una traduzione più esatta di queste ulti­
me parole sarebbe: «...già l’ha resa adultera nel suo cuo­
re» (Udienza del 16 aprile 1980). Non solo tale tradu­
zione corrisponde meglio al testo latino della Vulgata
di san Girolamo ( “jam moechatus est eam in corde suo’),
ma mette in evidenza come il peccato di adulterio com­
messo nel cuore riguardi ogni uomo, non solo quello
sposato, e come, guardando in quel modo una donna

65
che non sia sua moglie, si ponga in una situazione di
adulterio interiore. Questa traduzione ha anche il van­
taggio di mostrare le possibili conseguenze sull’altra
persona di un peccato che a prima vista sembra coin­
volgere unicamente chi lo commette nel segreto del­
l’animo. Se il guardare una donna “per desiderarla” può
renderla a sua volta adultera nel suo cuore, è perché
quello sguardo non rimane neutro per lei, produce su
di lei qualche effetto, anche se l’atteggiamento interno
dell’uomo non si traduce in un atto esteriore. Lo sguar­
do che si rivolge ad un’altra persona non è mai total­
mente neutro, e se non è corretto può provocare uno
stato interiore della medesima natura.
Dicendo: «Chiunque guarda...», Gesù si rivolge a
ciascuno di noi —uomini e donne —non solo agli ascol­
tatori del suo tempo. «Quest’uomo è, in certo senso,
“ciascun” uomo, “ognuno” di noi. [...] Cristo si rivolge
all’uomo di un determinato momento della storia e,
insieme, a tutti gli uomini appartenenti alla stessa sto­
ria umana» (Udienza del 23 aprile 1980). Ma si rivolge
anche alla donna, poiché anche lei può posare sull’uo­
mo uno sguardo eticamente trasgressivo: «Che Cristo
si rivolga direttamente all’uomo come a colui che
“guarda una donna con desiderio”, non vuol dire che
le sue parole, nel loro senso etico, non si riferiscano an­
che alla donna» (ivi).
Giovanni Paolo II approfondisce tale aspetto in una
successiva udienza. «Le parole del Discorso della mon­
tagna ci consentono di stabilire un contatto con l’espe­
rienza interiore di quest’uomo quasi ad ogni latitudine
e longitudine geografica, nelle varie epoche, nei diver­
si condizionamenti sociali e culturali. L’uomo del no­

66
stro tempo si sente chiamato per nome da questo enun­
ciato di Cristo, non meno dell’uomo di “allora”, a cui
il Maestro direttamente si rivolgeva. [...] Forse proprio
in questo enunciato di Cristo, che qui sottoponiamo ad
analisi, ciò si manifesta con particolare chiarezza. In
virtù di questo enunciato, l’uomo di ogni tempo e di
ogni luogo si sente chiamato, in modo adeguato, con­
creto, irripetibile: perché appunto Cristo fa appello al
“cuore” umano, che non può essere soggetto ad alcuna
generalizzazione» (Udienza del 6 agosto 1980). E dun­
que nel cuore di ogni uomo e di ogni donna, nel più
profondo di noi stessi, che Cristo ci interpella con le
sue parole, lui che conosce meglio di ogni altro il segre­
to mistero del nostro cuore, le sue miserie e le sue gran­
dezze (cfr. Gv 2,25).
In che cosa consiste, esattamente, questo “adulterio
commesso nel cuore”? L’adulterio del corpo è qualcosa
di perfettamente chiaro: consiste, per chi è vincolato
dal patto matrimoniale, nel compiere gli atti della
donazione del corpo con una persona che non è sua
legittima sposa o suo legittimo sposo. Il peccato di
adulterio, formalmente condannato dal sesto coman­
damento, è evocato nell’Antico Testamento - in parti­
colare dai profeti Osea ed Ezechiele - per esprimere
l’infedeltà di Israele al suo patto d’alleanza con Jahvè.
Nel Discorso della montagna Gesù sorvola su tutte
le dispute riguardanti la proibizione dell’adulterio nella
Scrittura, per attirare l’attenzione su una nuova dimen­
sione dell’esigenza etica, ovvero sul “guardare per desi­
derare”. Perché? «Lo sguardo esprime ciò che è nel cuo­
re. Lo sguardo esprime, direi, l’uomo intero. Se in
generale si ritiene che l’uomo “agisce conformemente

67
a ciò che è” (operavi sequitur esse), Cristo in questo caso
vuol mettere in evidenza che l’uomo “guarda” confor­
memente a ciò che è: intueri sequitur esse. [...] Cristo
insegna, dunque, a considerare lo sguardo quasi come
soglia della verità interiore» (Udienza del 10 settembre
1980). Chi rivolge sull’altro uno sguardo “per deside­
rare”, entra nel registro della concupiscenza rispetto al
corpo, non in quello del suo significato sponsale. «“De­
siderare”, “guardare con concupiscenza”, indica un’espe­
rienza del valore del corpo il cui significato sponsale
smette di essere tale, in ragione della stessa concupi­
scenza» (ivi).
Occorre capire bene la natura del desiderio denun­
ciato da Cristo come causa dell’adulterio del cuore. Non
si tratta certo di quell’attrazione “eterna” che spinge
l’uomo verso la donna e la donna verso l’uomo. E una
realtà fondamentalmente buona, poiché iscritta da Dio
fin dalle origini nella struttura stessa dell’uomo e della
donna, chiamati ad una vocazione di comunione attra­
verso il reciproco dono di sé. «Essa libera nell’uomo
- o forse dovrebbe liberare - una gamma di desideri
spirituali e carnali di natura soprattutto personale e “di
comunione”, ai quali corrisponde una proporzionale
gerarchia di valori». Al contrario, prosegue il papa, il
“guardare per desiderare” messo in discussione da Gesù
si rivela «un inganno del cuore umano nei confronti
della perenne chiamata dell’uomo e della donna - una
chiamata che è stata rivelata nel mistero stesso della
creazione - alla comunione attraverso un dono recipro­
co» (Udienza del 17 settembre 1980).
In che cosa consiste questo inganno? Nel fatto che
il “guardare per desiderare” comporta una riduzione

68
intenzionale della persona al suo esclusivo valore ses­
suale, in riferimento alla soddisfazione che è possibile
trarne, e ciò attraverso una limitazione dell’orizzonte
dello spirito e del cuore. Giovanni Paolo II prosegue:
«La donna, per l’uomo che “guarda” così, cessa di esi­
stere come soggetto dell’eterna attrazione e comincia ad
essere solo oggetto di concupiscenza carnale. Una cosa,
infatti, è aver coscienza che il valore del sesso fa parte
di tutta la ricchezza di valori, con cui al maschio appa­
re l’essere femminile; e un’altra cosa è “ridurre” tutta la
ricchezza personale della femminilità a quell’unico va­
lore, cioè al sesso, come oggetto idoneo all’appagamen-
to della propria sessualità. Lo stesso ragionamento si
può fare nei riguardi di ciò che è la mascolinità per la
donna, sebbene le parole di Matteo 5,27-28 si riferisca­
no direttamente soltanto all’altro rapporto» (ivi).

L’adulterio interiore

L’adulterio del cuore esiste dal momento in cui, at­


traverso la ferita del peccato originale, la concupiscenza
si è introdotta nel cuore umano, minacciando il signi­
ficato sponsale del corpo. «Quanto più la concupiscen­
za domina il cuore, tanto meno questo sperimenta il
significato sponsale del corpo, e tanto meno diviene
sensibile al dono della persona, che nei rapporti reci­
proci dell’uomo e della donna esprime appunto quel
significato» (Udienza del 23 luglio 1980). Il corpo del­
l’uomo, per sua natura innocente, molto spesso è vit­
tima dello sviamento del cuore. Significa che bisogna
diffidare del cuore umano? «No! - risponde Giovanni

69
Paolo II. - Vuole semplicemente dire che dobbiamo
mantenerne il controllo».
Ciò è richiesto con particolare forza a coloro che so­
no impegnati nel matrimonio in virtù del patto di to­
tale donazione di sé al quale hanno acconsentito. Nel
matrimonio si promette al partner non solo l’esclusivi­
tà del proprio corpo, ma anche l’esclusività del proprio
cuore, benché si tratti di un cuore ferito e malato, con­
tinuamente bisognoso di essere curato e guarito attra­
verso il sacramento della misericordia. Le persone spo­
sate sono quindi tenute a esercitare una particolare
vigilanza sulla qualità dei loro sguardi rivolti ad altri
uomini e ad altre donne. In passato quest’atteggiamen­
to si definiva “modestia”, oggi forse è meglio chiamar­
lo “riserbo”: in effetti gli sposi sono totalmente riserva­
ti l’uno per l’altro.
E sufficiente, per soddisfare le esigenze della castità
coniugale, astenersi da quel “guardare per desiderare”
denunciato da Gesù? Si può ben ritenere che le esigen­
ze dell’esclusività e della fedeltà matrimoniale si spin­
gano anche oltre. L’adulterio del cuore consiste nel con­
siderare l’altro unicamente in vista della soddisfazione
sessuale che potrebbe procurare. Ma gli sposi possono
rendersi ugualmente colpevoli di “adulterio affettivo”
qualora si compiacciano eccessivamente della frequen­
tazione o dell’affetto di qualche persona che non sia lo­
ro coniuge, e ciò anche in assenza di una mira sessuale.
Che cosa, dunque, costituisce l’essenza dell’adul­
terio? Ciò che stabilisce e qualifica l’adulterio come
peccato è il fatto di rappresentare una rottura dell’alle­
anza personale che i due sposi hanno concluso con il
loro patto matrimoniale, un venir meno al giuramento

70
di fedeltà, un rinnegare l’impegno di riservarsi l’esclu­
sività delle loro relazioni coniugali. «Determiniamo la
peccaminosità dell’adulterio, ossia il suo male morale,
fondandoci sul principio della contrapposizione nei
riguardi di quel bene morale che è la fedeltà coniuga­
le, quel bene che può essere realizzato adeguatamente
soltanto nel rapporto esclusivo di entrambe le parti (cioè
nel rapporto coniugale di un uomo con una donna)»
(Udienza del 27 agosto 1980).
L’esclusività che gli sposi si concedono sui gesti del
dono dei corpi è la traduzione concreta del dono tota­
le delle loro persone —mente, cuore, corpo —, senza di
che quei gesti sarebbero solo una falsificazione del lin­
guaggio dei corpi, quindi una menzogna. L’infedeltà
materiale non è che un aspetto dell’adulterio, la sua
espressione fìsica, effettiva e verificabile. Si cade nel­
l’adulterio quando si consente di donare ad altri ciò che
dev’essere strettamente riservato al legittimo sposo o al­
la legittima sposa. Ecco perché l’intrattenere relazioni
affettive con persone al di fuori matrimonio può, in
alcuni casi, configurarsi come adulterio interiore. Deve
trattarsi, evidentemente, di relazioni affettive profonde
e coinvolgenti, per cui non è in alcun modo chiamata
in causa l’affettuosità che si può —e talvolta si deve -
esprimere nel proprio ambito familiare, nella cerchia
degli amici, nei rapporti sociali.
S’impone, a questo punto, qualche ulteriore rifles­
sione. Interroghiamoci, ad esempio, sulle relazioni af­
fettive con i genitori e sul rischio che queste possano
interferire negativamente sull’armonia della vita matri­
moniale. La Bibbia è chiara a tale proposito: «L’uomo
lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie,

71
e i due saranno un’unica carne» (Gn 2,24). Il compor­
tamento dei genitori/suoceri che non accettano di “per­
dere” i propri figli, come quello dei mariti o delle mogli
che non riescono a distaccarsi (non solo geografica­
mente...) dai propri genitori, possono intaccare l’esclu­
sività del vincolo coniugale al punto da costituire una
forma di adulterio. Con il matrimonio queste relazio­
ni affettive - pur restando legittime - esigono di essere
riconsiderate e vissute diversamente. Lo stesso discor­
so vale per le amicizie precedenti al matrimonio, che
dovrebbero essere proseguite in maniera differente, on­
de evitare che interferiscano negativamente sull’asso­
luta trasparenza ed esclusività della relazione sponsale
(anche quando non si trattasse di persone del sesso op­
posto). Parimenti, potrebbe configurarsi come adulte­
rio interiore un affetto eccessivo riservato ai figli, con
palese detrimento di quello dovuto allo sposo o alla
sposa. È forse un pericolo che insidia maggiormente le
madri, sovente in cerca di una compensazione alla
mediocrità della propria vita coniugale. Ma ciò non
può che indebolire ulteriormente un legame già dive­
nuto fragile.
Infine, pur trattandosi di un tema delicato, non van­
no trascurate possibili situazioni di adulterio interiore
anche sul piano spirituale. Può accadere che gli sposi
intrattengano individualmente, con un padre o una
guida spirituale, delle relazioni all’apparenza perfetta­
mente caste, ma che possono costituire una reale e in­
debita intrusione nella loro intimità coniugale. Senza
voler mettere in discussione l’opportunità e i benefìci
di un accompagnamento spirituale, è tuttavia lecito vi­
gilare su possibili deviazioni di un’intimità spirituale

72
che dovrebbe essere riservata esclusivamente allo sposo
o alla sposa. Al di fuori del sacramento della riconcilia­
zione, che deve necessariamente svolgersi a livello in­
dividuale, un’opzione di prudenza consiglierebbe, ove
possibile, la scelta di una guida spirituale comune per
ambedue gli sposi.

Adulterio con la propria sposa?

Nell’ultima parte del suo commento alle parole di


Gesù a proposito dell’adulterio, Giovanni Paolo II invi­
ta a spingersi oltre nell’esigenza della castità coniugale,
e ciò in forza delle parole stesse del Maestro. Si potreb­
be infatti ritenere che il “guardare per desiderare”, che
conduce ad un “adulterio del cuore”, sia imputabile a
chi guarda una donna che non sia sua moglie, mentre
non è chiamato in causa chi rivolga un tale sguardo alla
legittima sposa, nei confronti della quale non sarebbe
immaginabile né l’adulterio del corpo né quello del
cuore. Si potrebbe anche pensare che il guardare in
quella maniera la propria sposa sia un diritto e un pri­
vilegio conferito al marito dal patto coniugale.
Questo modo d’intendere le parole di Gesù sembra
a prima vista perfettamente chiaro e oggettivo, oltre
che in linea con la logica del Decalogo: il nono co-
mandamento, che impone di non desiderare la donna
d’altri, è completato dal sesto che vieta l’adulterio.
«Nondimeno - afferma Giovanni Paolo II - resta fon­
datamente in dubbio se questo ragionamento tenga
conto di tutti gli aspetti della rivelazione nonché della
teologia del corpo che debbono essere considerati, so­

73
prattutto quando vogliamo comprendere le parole di
Cristo» (Udienza del 1° ottobre 1980). E invita ad una
più approfondita considerazione delle implicazioni an­
tropologiche e teologiche del Discorso della montagna:
Cristo sa - e lui solo sa perfettamente - «cosa c’è nel
cuore dell’uomo» (Gv 2,25). Infatti, «Cristo prende in
considerazione non soltanto il reale stato giuridico del­
l’uomo e della donna in questione. Egli fa dipendere la
valutazione morale del “desiderio” soprattutto dalla
stessa dignità personale dell’uomo e della donna; e que­
sto ha la sua importanza sia quando si tratta di persone
non sposate, sia - e forse ancor più - quando sono co­
niugi, moglie e marito» (ivi).
In maniera molto incisiva il papa fa notare che, per
denunciare colui che si rende colpevole dell’adulterio
del cuore, Cristo non dice: «colui che guarda la donna
di un altro», oppure «colui che guarda una donna che
non è la sua», ma semplicemente e in modo generico:
«colui che guarda una donna». Di conseguenza, «l’adul­
terio commesso “nel cuore” non è circoscritto nei limi­
ti del rapporto interpersonale, i quali consentono di
individuare l’adulterio commesso “nel corpo”. Non so­
no tali limiti a decidere esclusivamente ed essenzial­
mente dell’adulterio commesso “nel cuore”, ma la na­
tura stessa della concupiscenza, espressa in questo caso
attraverso lo sguardo» (Udienza dell’8 ottobre 1980).
Ciò che costituisce l’adulterio del cuore è la natura stes­
sa dello sguardo rivolto ad altra persona per strumen­
talizzarla, asservendola al proprio appagamento; uno
sguardo che tenta di prendere laddove dovrebbe presie­
dere il rispetto assoluto della libertà di un dono; uno
sguardo, infine, che vorrebbe estorcere il dono all’altro

74
riducendolo intenzionalmente a puro oggetto. «L’uomo
che “guarda” in tal modo, come scrive Mt 5,27-28, “si
serve” della donna, della sua femminilità, per appagare
il proprio “istinto”. [...] In ciò consiste appunto l’adul­
terio “commesso nel cuore”. Tale adulterio “nel cuore”
l’uomo può commetterlo anche nei riguardi della pro­
pria moglie, se la tratta soltanto come oggetto di appa­
gamento dell’istinto» (ivi).
Va da sé che tutto ciò non vieta di considerare i valo­
ri erotici del corpo dell’altro e di lasciarsi attirare da
essi; ma deve trattarsi di un erotismo “integrale”, che
integra tutti i valori della persona e non solo quelli sen­
suali. È, in ogni caso, il rifiuto di ogni tentazione uti­
litaristica, che porterebbe a negare la persona in quan­
to soggetto per farla decadere al rango di oggetto, di
qualcosa da utilizzare. Sta tutto qui il problema posto
dall’utilitarismo sul piano morale, come già denuncia­
va Karol Wojtyla in Amore e responsabilità*: ridurre l’al­
tro a puro oggetto di piacere (utilitarismo edonistico)
oppure a semplice strumento di procreazione (utilita­
rismo rigoristico). E dunque chiaro che non basta, nel­
la maniera di vivere l’atto coniugale, rispettare la sua
potenziale apertura alla vita: persino a questo livello
non è esclusa l’ipotesi di una strumentalizzazione. Oc­
corre riconoscere il valore della persona che ci sta di
fronte, e tenerne conto nell’atteggiamento interiore e in
tutti i gesti concreti attuati nei suoi riguardi.
Si racconta che, al termine della catechesi nella quale
aveva affermato la possibilità di commettere adulterio
persino con la propria moglie, qualcuno abbia fatto no-

1Ed. it. Marietti, Genova-Milano 1983, 4a ed., pp. 25-28.

75
tare al papa che era sembrato molto esigente, forse an­
che troppo. Giovanni Paolo II avrebbe risposto: «Non
sono io a essere esigente, è Cristo...». Come del resto è
ben severa l’asserzione di Gesù riguardo a ciò che
potrebbe indurci al peccato: «Se il tuo occhio destro ti
è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te [...]. E
se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e
gettala via da te» (Mt 5,29-30). La castità coniugale
autentica esige dunque che gli sposi si conformino riso­
lutamente a quella purezza del cuore «che l’uomo ottie­
ne solo al prezzo di un’attitudine molto ferma nei
riguardi di tutto ciò che trae la sua origine nella con­
cupiscenza della carne» (Udienza dell’8 ottobre 1980).
Un’esigenza e insieme un invito a vivere integral­
mente i valori del corpo, per i quali non vi è alcuna
traccia di condanna nelle parole di Gesù Cristo. E una
deleteria mentalità manichea quella che conduce «ad
un “annientamento”, se non reale, almeno intenzionale
del corpo, ad una negazione del valore del sesso umano,
della mascolinità e femminilità della persona umana, o
perlomeno soltanto alla loro “tolleranza” nei limiti del
“bisogno” delimitato dalla necessità della procreazione»
(Udienza del 22 ottobre 1980).
E c’è una speranza nella vocazione del corpo umano
- vocazione stabilita da Dio fin dalle origini, e che per­
mane malgrado le insidie del peccato - che Giovanni
Paolo II esprime magnificamente nell’ultima parte del
suo commento alle parole di Gesù: «Queste parole sve­
lano non solamente un altro ethos, ma pure un’altra vi­
sione delle possibilità dell’uomo. È importante che egli,
proprio nel suo “cuore”, non si senta soltanto irrevoca­
bilmente accusato e dato in preda alla concupiscenza

76
della carne, ma che nello stesso cuore si senta chiama­
to con energia. Chiamato appunto a quel supremo va­
lore che è l’amore. Chiamato come persona nella veri­
tà della sua umanità, dunque anche nella verità della
sua mascolinità e femminilità, nella verità del suo cor­
po. Chiamato in quella verità che è patrimonio “dal
principio”, patrimonio del suo cuore, più profondo
della peccaminosità ereditata, più profondo della tripli­
ce concupiscenza» (Udienza del 29 ottobre 1980).

77
Schema VI

LE MATURAZIONI DELL’AMORE

«L’elemento fondamentale della spiritualità co­


niugale è l’amore effuso nei cuori degli sposi come
dono dello Spirito Santo. Gli sposi ricevono nel sa­
cramento questo dono insieme a una particolare
“consacrazione”».
(GIOVANNI Paolo II, Udienza del 14 novembre 1984)

La notte dei sensi

Tutti i grandi autori spirituali concordano nel rico­


noscere che la via mistica è disseminata di prove, le
quali costituiscono altrettante tappe di maturazione
della vita spirituale. Notti dei sensi, quando l’anima
non ha più il gusto della preghiera e la vita spirituale
sembra perdere tutto il suo sapore e la sua attrattiva;
notti dello spirito, che corrispondono a lunghe e dolo­
rose esperienze di oscurità della fede. San Giovanni del­
la Croce ha descritto molto bene questi stati, ma di re­
cente ci ha toccati forse di più la rivelazione di quella
terribile notte della fede attraversata da Madre Teresa,
che la indusse a scrivere: «Dicono che le anime all’in­
ferno soffrono pene eterne a causa della perdita di Dio.
Affronterebbero volentieri tutta quella sofferenza se aves­

79
sero soltanto una piccola speranza di possedere Dio.
Nella mia anima, io sento proprio quel terribile dolore
di perdita, che Dio non mi vuole, che Dio non è Dio,
che Dio non esiste veramente [...]. Questa oscurità mi
circonda da ogni lato. Non riesco a innalzare l’anima a
Dio. Nessuna luce né ispirazione entra nella mia ani­
ma. Parlo di amore per le anime, di tenero amore verso
Dio. Sulle mie labbra scorrono parole e io desidero con
profondo, struggente desiderio di credere in esse. [...]
Cielo... quale vuoto! Non un singolo pensiero del Cielo
mi entra nella mente, perché non c’è speranza»1. Ciò
nonostante, Madre Teresa non ha smesso mai di amare.
Perché anche la vita coniugale non dovrebbe com­
portare, in una certa misura, quelle prove di purifica­
zione che permettono all’amore di raggiungere la sua
piena maturità? Se l’esperienza coniugale è un’autenti­
ca via di santità, un cammino verso la perfezione del­
l’amore —accanto alla vita consacrata a Dio nella ver­
ginità (cfr. Familiaris consortio, n. 11) - come potrebbe
non essere esposta alle medesime esigenze di purifica­
zione della vocazione religiosa, sia pure secondo diffe­
renti modalità? Sarebbe anormale che non lo fosse, e se
una vita coniugale non conosce questo genere di prove,
è forse perché si mantiene ad un livello di mediocrità
nell’amore.
E piuttosto raro che la notte dei sensi faccia la sua
comparsa all’inizio della vita matrimoniale. Ai fidanzati
e ai giovani sposi, estasiati nei loro trasporti amorosi,
non resta che approfittarne! La notte dei sensi insorge

1 Lettera a padre Picachy, 3 sett. 1959, in Madre Teresa, Sii la mia


Luce, Rizzoli BUR, 2010, pp. 200s.

80
generalmente dopo un certo numero di anni, quando
si è andata smorzando l’intensità del sentimento amo­
roso. Nulla di più normale, anche al semplice livello
psicologico. Recenti ricerche di sessuologia hanno sta­
bilito che il “sentimento amoroso” è un fenomeno
complesso, legato ad una molteplicità di fattori, ma che
in media non sembra resistere per più di trentasei mesi.
È il caso di farsi prendere dal panico?
Non bisogna cadere nella trappola che identifica
l’amore con il sentimento amoroso: «Non sento più di
amarlo/di amarla... dunque non l’amo più!». S’impone
a questo riguardo una distinzione fondamentale. Molto
spesso, questo stato di apatia è la conseguenza di un
cedimento all’abitudine, alla pigrizia nell’amore. Ci si
è lasciati imbrigliare dalle preoccupazioni professiona­
li, dalla cura dei figli, da impegni di ogni tipo, finen­
do col dimenticare di prendersi del tempo per il pro­
prio rapporto di coppia. Bisogna a tutti i costi cercare
di riaccendere l’antica febbre d’amore, quel tempo bea­
to delle prime emozioni? Nulla lo vieta, e può perfino
essere auspicabile, se l’apatia è il risultato di negligen­
ze e dell’intiepidirsi dell’amore. Rimediarvi sarà certa­
mente salutare, talvolta assolutamente necessario.
E se, nonostante tutto, lo stato di apatia persiste? Al­
lora è giunto il momento di una purificazione del­
l’amore, che è una prova di maturità e nello stesso tem­
po di verità, l’occasione per scoprire che amare è molto
più che sentire di amare. Nell’analisi generale dell’amore
condotta in Amore e responsabilità2 Giovanni Paolo II
mostra come il sentimento amoroso non sia la forma

2 Op. cit., pp. 53-73.

81
compiuta dell’amore. Ve ne sono altre che lo superano
in profondità e in qualità. Nel sentimento amoroso,
ricercato unicamente per se stesso, può nascondersi una
sottile forma di ricerca di sé, ovvero una prevalente sod­
disfazione emotiva suscitata dalla persona che si preten­
de di amare. In realtà, si può amare se stessi mentre si
ama l’altro, e cercare nell’amore solo le emozioni pia­
cevoli che produce in noi. Queste non hanno nulla di
negativo in quanto tali, a patto che siano assunte e inte­
grate attraverso le forme più elevate dell’amore.
Limitandoci al piano della sensibilità e dell’affettivi­
tà, si rischia di rimanere in una forma immatura, per
non dire infantile, dell’amore. Essere innamorati non
vuol dire necessariamente amare nel significato più
profondo del termine. Il sentimento amoroso rimane
al livello della sensibilità e dell’affettività: l’altro è ricer­
cato nella misura che ci procura ciò di cui siamo man­
canti. Perciò è inevitabilmente esposto al rischio di re­
stare egocentrico, se non si apre a qualcosa di più alto.
Quand’è che si ama veramente? Quando si cerca
innanzitutto il bene dell’altro, cioè quando, in un moto
di altruismo, ci si “decentra” da se stessi. L’amore divie­
ne allora amore di benevolenza (“ben-volere”). E nella
misura in cui il bene dell’altro è voluto prioritariamen­
te, lo si può ricercare anche a detrimento delle proprie
soddisfazioni. L’amore di benevolenza supera la sfera
della semplice emotività per stabilirsi al livello della
volontà. In questo senso diviene realmente umano,
coinvolgendo la capacità specificamente umana di vo­
lere il bene in quanto tale.
Il sentimento amoroso è solo “sentito”, anche se può
essere coltivato; l’amore di benevolenza è “voluto”. Vo­

82
lendo innanzitutto il bene dell’altro, l’amore di bene­
volenza può condurre a sacrificare la propria volontà a
quella altrui, trovando in questo la propria gioia. In un
certo modo, l’amore di benevolenza consiste nel dire
all’altro: «Non quello che io voglio, ma quello che tu
vuoi...». Si è di fronte, se non ad una dimensione sacri­
ficale, perlomeno ad una dimensione oblativa.
Quando due persone si stabiliscono reciprocamente
nella disponibilità all’amore di benevolenza, sorge fra
loro quel tipo di relazione che chiamiamo “amicizia”.
La caratteristica degli amici veri sta nel volersi recipro­
camente bene, al punto di desiderare il bene dell’altro
prima del proprio. Gli sposi sono chiamati a vivere a
questo livello di amicizia, che così si qualifica come co­
niugale. L’amore di benevolenza non contraddice il sen­
timento amoroso, l’attrazione quasi irresistibile verso l’al­
tro. Al contrario, la assume, la integra, la orienta, e
mentre la controlla le conferisce un pegno di perenni­
tà. Il radicale orientamento altruistico che qualifica
l’amore di benevolenza costituisce una prima tappa nel­
la crescita dell’amore verso la sua maturità.
Il grado più alto dell’amore consiste nel totale dono
di sé, in quella dimensione che Giovanni Paolo II chia­
ma “amore sponsale”. «L’amore sponsale differisce da
tutti gli altri aspetti e forme dell’amore che abbiamo
analizzato. Consiste nel dono della persona. La sua
essenza è il dono di sé, del proprio “io”. [...] Tutti que­
sti modi di uscire da se stessi per andare verso un’altra
persona, avendo di mira il suo bene, non vanno così
come l’amore sponsale. “Donarsi” è più che “voler be­
ne”, anche nel caso in cui, grazie a questa volontà, un
altro “io” diventa in qualche modo il “mio”, come

83
avviene nell’amicizia»3. Si tratta di quella forma ultima
dell’amore alla quale gli sposi sono chiamati e a cui si
impegnano - spesso senza averne chiara coscienza -
attraverso la formula sacramentale del matrimonio.
Nella costituzione conciliare Gaudium et spes leggia­
mo: «L’uomo, il quale in terra è la sola creatura che
Iddio abbia voluto per se stesso, non può ritrovarsi pie­
namente se non attraverso un dono sincero di sé» (n. 24).
L’aggettivo “sincero” non si presta ad equivoci. Non va
inteso in maniera soggettivistica (sarebbe sincero un
dono soggettivamente sentito come tale, ma non cor­
rispondente alla verità oggettiva di quel dono), ma nel
suo significato più vero di “autenticità, integrità, ge­
nuinità, radicalità...”. In quanto persona, l’uomo si rea­
lizza compiutamente solo nel dono sincero e totale di sé,
senza riserve né limiti. È a questo dono che s’impegna­
no coloro che si consacrano nel matrimonio, similmen­
te a quanti si consacrano a Dio nella via del celibato.
I fidanzati, rapiti dallo slancio amoroso dei loro pr
mi incontri, possono non capire a fondo che, in forza
della loro vicendevole consacrazione, il matrimonio li
impegnerà a questo radicale dono di sé. Ma quando,
dopo un certo periodo di vita in comune, l’emozione di
un tempo si attenua o addirittura svanisce, ecco l’occa­
sione per capire in cosa consiste il senso profondo del
loro patto matrimoniale. La notte dei sensi può così
rivelarsi una salutare tappa di crescita nella maturità del­
l’amore. Diventa un invito a passare da un amore uni­
camente o eccessivamente sentito ad un amore oblativo,
nel quale troverà compimento la loro vocazione di per­

3 Amore e responsabilità, cit., p. 69.

84
sone. Potrà anche rifiorire un nuovo innamoramento:
tanto meglio! Ma non si crederà più che amare l’altro
significhi unicamente “sentire” di amarlo. Si sarà scoper­
to che l’amore, nella sua dimensione più vera e profon­
da, consiste nel dono di sé, totale e senza ritorno.

La notte dello spirito

Se l’amore degli sposi può approfondirsi e purificar­


si nella notte dei sensi, può anche essere chiamato ad
una forma ancora più radicale - e persino dolorosa -
di purificazione. Non solo si può non “sentire” che si
ama, ma anche non “sapere” più che si ama. Non si
comprende più il proprio matrimonio, né le ragioni
che hanno portato a sposare quella persona; si pensa di
aver sbagliato nella scelta del coniuge, o persino nella
scelta della vocazione; insorgono anche dei dubbi in
merito alla validità del matrimonio... Ora la notte in­
combe non soltanto sul piano della sensibilità o dell’af­
fettività, ma pure su quello dell’intelligenza: suprema
prova di crescita dell’amore, che ormai sopravvive
esclusivamente per la determinazione della volontà in
ordine alla fedeltà promessa. L’intelligenza non com­
prende più, oppure rifiuta di comprendere; sussiste so­
lo più la pura forza d’amore della volontà. È la prova
indicibile dell’amore, una prova di vita o di morte, una
lotta spirituale che esige in primo luogo il ricorso all’ar­
ma della preghiera.
Giovanni Paolo II parla dell’importanza della pre­
ghiera commentando, nell’udienza del 27 giugno 1984,
la storia biblica di Tobia e Sara. A motivo della male­

85
dizione che pesa su Sara, il loro matrimonio deve misu­
rarsi con la prova della vita e della morte: i due giova­
ni sposi «si trovano nella situazione in cui le forze del
bene e del male si combattono e si misurano recipro­
camente». In che modo escono vincitori da questa lot­
ta? Unicamente attraverso la preghiera, alla quale Tobia
invita Sara all’inizio della loro notte di nozze (cfr. Tb
8,5-8), che esprime la loro comune volontà di porre il
Signore Dio al centro e al principio della loro unione,
così da rivestirla della forza stessa di Dio. «La verità del­
l’amore degli sposi del Libro di Tobia non viene con­
fermata dalle parole espresse dal linguaggio del traspor­
to amoroso, come nel Cantico dei Cantici, ma dalle
scelte e dagli atti che assumono tutto il peso dell’esi­
stenza umana nell’unione di entrambi». Il papa conclu­
de: «In questa prova della vita e della morte vince la
vita, perché [...] l’amore, sorretto dalla preghiera, si
rivela più forte della morte».
La prova della notte dello spirito costringe gli sposi
a ricuperare il senso e la portata del loro impegno ma­
trimoniale: «Prometto di amarti fedelmente nella gioia
e nel dolore, nella salute e nella malattia...». Io conti­
nuo ad amarti fedelmente a dispetto di tutto: benché
non sappia più se ti amo, benché non sappia più se tu
mi ami, benché non comprenda più il nostro matrimo­
nio, benché la mia sensibilità sia in rivolta, benché te
ne voglia perché tu non mi comprendi, benché tu me
ne voglia perché io non comprendo te...
Resta la fedeltà assoluta, incondizionata, nonostan­
te tutto ciò che spingerebbe a rompere la promessa.
Una fedeltà onorata non “a motivo dei figli”, non per
paura di ciò che si dirà, né per conformismo familiare

86
e sociale... ma unicamente in ragione del dono di sé,
oblazione totale e senza ritorno, pronunciata in quel
giorno preciso e per sempre. Sta in questo la più alta
purificazione dell’amore e la prova suprema della veri­
tà. È il momento in cui il matrimonio resiste solo per
merito della volontà che continua a dire “sì”, mentre
l’intelligenza non afferra più le ragioni del patto d’amo­
re. Ma è anche il momento in cui il tentatore mette in
campo tutta la sua astuzia per scoraggiare gli sposi e di­
stoglierli, in molti modi possibili, dal tener fede alla
promessa del dono incondizionato di sé.
Una simile notte dello spirito l’ha conosciuta Gesù
nel momento culminante della sua offerta redentiva,
mentre sulla croce consumava il suo atto sponsale con
la Chiesa-Sposa: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai ab­
bandonato?» (Mt 27,46). Ma è proprio allora che Gesù
ha amato di più, che la sua oblazione ha raggiunto il
massimo grado di intensità. Gesù può chiedere ad al­
cuni sposi di accompagnarlo su questa via dell’amore
assoluto, come chiede ad alcune anime “prescelte” di
amarlo di un amore assolutamente puro e “senza ragio­
ne”. Questa prova, questa purificazione radicale del­
l’amore non è riservata alle anime mistiche. Anche agli
sposi Gesù può chiedere di amare, segretamente, come
lui ha amato. Una richiesta rivolta ad alcuni “privile­
giati” dell’amore di Cristo, a coloro dei quali Gesù co­
nosce la disponibilità a lasciarsi conformare al suo amo­
re redentivo.
È normale che si possa avere paura di questa estre­
ma, purificatrice prova dell’amore. Gesù stesso ne ha
provato sgomento. È lecito pensare che l’angoscia che
lo assalì nel Getsemani, fino a fargli sudare sangue, non

87
fosse causata in primo luogo dal pensiero delle soffe­
renze fisiche della Passione, ma piuttosto dalla notte
dello spirito che lo attendeva sul Golgota.
È comunque una prova che immette sulla via della
perfezione cristiana, rafforzando negli sposi le virtù teo­
logali della fede, della speranza, della carità. La fede,
quando è conservata nell’oscurità dell’intelligenza, rag­
giunge un alto grado di purezza; quando gli sposi ri­
mangono fedeli al loro “patto di fede”, pur non rico­
noscendone più le ragioni, è allora che il dono totale
di sé esprime tutto il suo valore. Si perfeziona anche la
virtù della speranza: la costanza del vicendevole donar­
si non poggia più sullo slancio della sensibilità e del­
l’affettività, né su motivazioni umane, ma unicamente
sulla grazia di Dio, donata irrevocabilmente nel sacra­
mento e di continuo rinnovata, perché possano in ogni
momento rispondere alle esigenze della loro vita in
comune. Infine, perfezione della carità, cioè del dono
d’amore, prescindendo da ogni sostegno della raziona­
lità. Persistere nell’amare, anche quando non si com­
prende più perché si deve amare, è la perfezione stessa
dell’amore, è lo stesso amore con cui Dio ama noi: un
amore “senza ragioni”.

«Finché morte non ci separi»

I giovani sposi qualche volta sognano, un po’ inge


nuamente, oltre che di poter trascorrere tutta la vita
insieme, anche di morire insieme... L’esperienza dice che
ciò accade assai di rado e che quasi tutte le coppie devo­
no affrontare, presto o tardi, la prova del distacco dalla

88
persona amata. Anche se le statistiche sulla speranza di
vita indicano che sono le donne ad avere maggiori pro­
babilità di andare incontro alla vedovanza, si tratta di
una prova alla quale entrambi gli sposi sono esposti.
Sarà, innanzitutto, una purificazione nell’ordine del­
l’affettività e della sensibilità. Non poter più condivi­
dere, com’è stato per numerosi anni, i mille dettagli
della vita quotidiana; l’improvviso venir meno della
presenza amorevole dell’essere amato, dei suoi gesti
d’affetto, della sua conversazione, della preghiera con­
divisa; non sentire più accanto a sé la persona con la
quale ci si è accompagnati per un’intera vita, divenen­
do sovente più che una sola carne... costituisce senz’al­
tro una terribile prova. E ciò anche qualora un tempo
di malattia abbia rappresentato come una preparazio­
ne al distacco, mentre peraltro rafforzava in maniera
misteriosa la loro vicinanza.
Sarà anche, e soprattutto, una prova della vita spiri­
tuale. Per due sposi che non hanno solo condotto delle
vite parallele, bensì hanno realizzato un’intima comunio­
ne sia dei corpi che dei cuori e delle anime, non è facile
ritornare ad una spiritualità da “singolo”. Ma non è detto
che ciò debba accadere. È infatti legittimo domandarsi
se la vedovanza debba comportare una spiritualità indi­
vidualizzata, oppure possa conservare un carattere coniu­
gale. In che modo? Si accetta certo a malincuore che,
dopo aver condiviso tante esperienze sul piano spiritua­
le, si debba da un giorno all’altro fare come se nulla sia
mai accaduto. Sarebbe non solo psicologicamente disu­
mano, ma anche spiritualmente assurdo.
Come può configurarsi una spiritualità della vedo­
vanza? Continuerà a essere una spiritualità di comunio­

89
ne? Non poche persone possono testimoniare come la
comunione con il coniuge scomparso si riveli ancora
più intensa, più reale di prima. È l’esperienza di cui
parla il grande scrittore cattolico Jean Guitton dopo la
morte della moglie: un passaggio dalla comunicazione
alla comunione. Di quale comunione si tratta? Sempli­
cemente, e realmente, di ciò che la Chiesa chiama “co­
munione dei santi”. Non un puro vivere nel ricordo,
perpetuamente ed emotivamente rivangato, della per­
sona cara che è venuta a mancare, ma un modo nuovo
di sperimentarne la presenza, un grado di condivisione
spirituale a volte persino superiore a quella realizzata in
precedenza. La morte dolorosamente separa... ma nel­
lo stesso tempo, misteriosamente, stabilisce gli sposi in
una nuova e più profonda dimensione comunicativa.
Così, la spiritualità propria della vedovanza si qualifica
come annuncio profetico di quella verità di fede che
professiamo nel Credo, intimamente legata alla fede
nella risurrezione. Una spiritualità di comunione che
continua a essere, in misura eminente, spiritualità co­
niugale. In un certo senso, è la suprema maturazione
dell’amore sponsale.
Il matrimonio, in realtà, annuncia la risurrezione dei
corpi al momento del ritorno glorioso del Cristo-Sposo.
La risurrezione significherà il pieno compimento della
nostra umanità attraverso la realizzazione perfetta del suo
essere psicosomatico, cioè della dimensione sia corpora­
le che spirituale della persona. E sarà anche la piena rea­
lizzazione della nostra umanità in quanto esseri chiama­
ti alla comunione: «Il “regno dei cieli” è certamente il
compimento definitivo delle aspirazioni di tutti gli
uomini, ai quali Cristo rivolge il suo messaggio: è la pie­

90
nezza del bene, che il cuore umano desidera oltre i limi­
ti di tutto ciò che può essere sua porzione nella vita ter­
rena, è la massima pienezza della gratificazione per l’uo­
mo da parte di Dio» (Udienza del 21 aprile 1982).
Allora verrà in piena evidenza che cosa significa “co­
munione dei santi”, di cui Dio stesso sarà il principio,
mediante il convergere di tutto il nostro essere sulla
conoscenza profonda di Lui, sul suo Essere trinitario.
La visione beatifica sarà principio della realizzazione
della comunione. «La concentrazione della conoscenza
e dell’amore su Dio stesso, nella comunione trinitaria
delle Persone, può trovare una risposta beatificante in
coloro che diverranno partecipi dell’“altro mondo” so­
lo attraverso il realizzarsi della comunione reciproca
commisurata a persone create. E per questo professia­
mo la fede nella “comunione dei santi” (icommunio san-
ctorum) e la professiamo in connessione organica con
la fede nella “risurrezione dei morti”» (Udienza del 16
dicembre 1981).
Un interrogativo che può assillare gli sposi, in par­
ticolare quelli che vivono in vedovanza, riguarda ciò
che accadrà alla fine, quando i morti risorgeranno. A
una domanda dei sadducei Gesù aveva risposto: «Alla
risurrezione infatti non si prende né moglie né marito,
ma si è come angeli nel cielo» (Mt 22,30). Poiché la
Chiesa, pur non incoraggiandoli, autorizza i vedovi e
le vedove a contrarre nuove nozze, si potrebbe ritenere
che il patto matrimoniale venga definitivamente meno
con la morte. Tale pensiero può causare una certa in­
quietudine spirituale, persino suscitare angoscia. Il ma­
trimonio avrebbe così poco senso e peso, al punto da
annullarsi nell’eternità alla quale siamo destinati?

91
Riflettiamo innanzitutto sulle modifiche apportate da
alcuni anni nel rito matrimoniale. La formula tradi­
zionale che si concludeva con le parole: «...finché morte
non ci separi», recita attualmente: «Con la grazia di Gesù
Cristo prometto di esserti fedele sempre... tutti i giorni
della mia vita / tutti i giorni della nostra vita». Un cam­
biamento non indifferente! Infatti, l’espressione «tutti i
giorni della nostra vita» si può anche intendere: «tutti i
giorni della nostra vita eterna, che è già iniziata quaggiù».
Occorre inoltre interpretare correttamente le parole di
Gesù, il quale non dice: «Alla risurrezione non si è più
marito e moglie», bensì: «Alla risurrezione non si prende
né moglie né marito», cioè non ci si sposa più. E la ragio­
ne è semplice: ciò che il matrimonio annuncia e signifi­
ca nella vita terrena sarà allora pienamente realizzato.
«Se in questa perfetta soggettività, pur conservando
nel loro corpo risorto, cioè glorioso, la mascolinità e la
femminilità, “non prenderanno moglie né marito”, ciò
si spiega non soltanto con la fine della storia, ma anche
- e soprattutto - con l’“autenticità escatologica” della
risposta a quel “comunicarsi” del Soggetto Divino, che
costituirà la beatificante esperienza del dono di se stesso
da parte di Dio, assolutamente superiore ad ogni espe­
rienza propria della vita terrena» (Udienza del 16 di­
cembre 1981). Pertanto, coloro che saranno stati spo­
sati in questa vita non smetteranno di esserlo nella
risurrezione, e quella comunione che hanno cercato di
realizzare nel corso della loro vita matrimoniale durerà
in eterno. Perciò Giovanni Paolo II può affermare: «Il
matrimonio possiede una sua piena congruenza e un
valore per il regno dei cieli, valore fondamentale, uni­
versale e ordinario» (Udienza del 31 marzo 1982).

92
Ma in base a quale tipo di relazione coloro che sono
stati sposati su questa terra continueranno a esserlo nel­
la risurrezione, nel regno dei cieli? E piuttosto arduo
dirlo: «È troppo evidente che - sulla base delle espe­
rienze e conoscenze dell’uomo nella temporalità, cioè
in “questo mondo” - è difficile costruire una immagi­
ne pienamente adeguata del “mondo futuro”» (Udienza
del 13 gennaio 1982). Infatti noi possiamo raffigurar­
ci il mondo futuro della risurrezione solo in maniera
molto approssimativa e imperfetta. È tuttavia interes­
sante come san Tommaso d’Aquino affermi che l’unio­
ne totale con Dio, che vivremo nella risurrezione, non
escluderà una prossimità particolare con alcune perso­
ne, una prossimità che sarà misurata dalla carità. Ciò
vuol dire che nella risurrezione saremo più vicini a colo­
ro che avremo maggiormente amato e dai quali saremo
stati più amati. È lecito pensare che sarà soprattutto il
caso di colui o colei a cui avremo offerto, e da cui avre­
mo ricevuto, nel matrimonio, l’amore più grande.
La vedovanza diventa così la grande occasione per
incrementare una spiritualità di comunione che non
cessa di essere coniugale. E tale è addirittura ad un gra­
do eminente. Vivendo in maniera particolarmente con­
sapevole questa particolare comunione con l’essere
amato, che continua a vivere in Dio nell’attesa della ri­
surrezione, i vedovi e le vedove possono diventare pro­
feti credibili della comunione dei santi.

93
Schema VII

LE CROCI
E LE SOFFERENZE

«Il marito e la moglie sono infatti “sottomessi l’un


l’altro”, sono vicendevolmente subordinati. [... ] La
comunità o unità che essi debbono costituire a motivo
del matrimonio, si realizza attraverso una reciproca
donazione, che è anche una sottomissione vicendevole,».
(G iovanni Paolo II, Udienza dell’ 11 agosto 1982)

La sottomissione vicendevole

È alla luce del rapporto nuziale tra Cristo e la Chiesa


che gli sposi devono intendere le loro relazioni nel ma­
trimonio. Questa luce è vividamente espressa in un
passo della lettera agli Efesini (5,21-33), che talvolta
viene riduttivamente considerato come un precetto di
“morale domestica”, per lo più a carico della donna:
«Le mogli siano sottomesse ai loro mariti» (come pure
in Col 3,18: «Voi, mogli, siate sottomesse ai mariti, co­
me conviene nel Signore»). Oltre che lettura riduttiva,
è anche travisante. Giovanni Paolo II, nel suo com­
mento, ritiene che san Paolo, pur non esprimendosi
esplicitamente, intenda che marito e moglie devono
sottomettersi scambievolmente, così da realizzare in
pienezza la verità del matrimonio.

95
A sostegno di questa interpretazione il papa offre
due ragioni. La prima è rappresentata dal fatto che la
moglie deve essere sottomessa al marito «come al Si­
gnore Gesù», e non come ad un padrone che impor­
rebbe un dominio unilaterale. «Esprimendosi così,
l’Autore [della lettera] non intende dire che il marito è
“padrone” della moglie e che il patto inter-personale
proprio del matrimonio è un patto di dominio del ma­
rito sulla moglie. Esprime, invece, un altro concetto:
cioè che la moglie, nel suo rapporto con Cristo - il
quale è per ambedue i coniugi unico Signore - può e
deve trovare la motivazione di quel rapporto con il
marito, che scaturisce dall’essenza stessa del matrimo­
nio e della famiglia» (Udienza dell’11 agosto 1982).
Inoltre, per una migliore comprensione del precetto,
occorre proseguire nella lettura: «E voi, mariti, amate
le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa
e ha dato se stesso per lei» (Ef 5,25). L’amore di Cristo
per la Chiesa si è concretizzato nel dono totale che lo
ha condotto sino al sacrificio della croce. L’amore del
marito verso la moglie deve dunque portarlo a offrirsi
per lei come Cristo si è offerto alla Chiesa per salvarla
mediante l’olocausto redentivo della sua vita. La ragio­
ne della sottomissione reciproca degli sposi sta, quin­
di, nell’amore che li unisce e che esprime tutta la sua
verità nel dono totale di sé. «L’amore esclude ogni gene­
re di sottomissione, per cui la moglie diverrebbe serva
o schiava del marito, oggetto di sottomissione unilate­
rale. L’amore fa sì che, contemporaneamente, anche il
marito è sottomesso alla moglie, e sottomesso in que­
sto al Signore stesso, così come la moglie al marito. La
comunità o unità che essi debbono costituire a motivo

96
del matrimonio, si realizza attraverso una reciproca do­
nazione, che è anche una sottomissione vicendevole»
(Udienza dell’11 agosto 1982).
E questa la croce che quotidianamente gli sposi de­
vono portare: immolare senza posa la loro volontà alla
volontà dell’altro, nell’amore e attraverso l’amore, in
ogni circostanza e ad ogni istante dire all’altro: «Non
ciò che voglio io... ma ciò che vuoi tu», con la stessa di­
sponibilità di Gesù, quando nell’agonia del Getsemani
aderì al volere del Padre suo. Il sacrifìcio della propria
volontà, nella sottomissione per amore, è un’autentica
via di santificazione nell’umile quotidianità della vita
matrimoniale. In ciò consiste anche la fonte della loro
gioia, quella medesima gioia che Gesù trae dalla sua
sottomissione al Padre: «Ma ora io vengo a te e dico
questo mentre sono nel mondo, perché abbiano in se
stessi la pienezza della mia gioia» (Gv 17,13).

L’inevitabile incompiutezza del dono

Se la gioia degli sposi consiste nella pienezza del do­


no, bisogna anche riconoscere che il dono non è mai
totale né mai costante. Questo causa una inevitabile sof­
ferenza, questo è un aspetto della croce degli sposi: si può
soffrire per l’incapacità a donarsi totalmente. Ci sono
talora ferite di ogni sorta, dovute forse all’educazione, a
violenze affettive o sessuali, che possono rendere molto
diffìcile il dono di sé. Si può soffrire anche a causa delle
limitazioni presenti nell’altro. Non sono poche le circo­
stanze della vita in grado di ostacolare il nostro dono: la
fatica della professione, la spossatezza dovuta forse a ma­

97
ternità troppo ravvicinate, le preoccupazioni per l’edu­
cazione dei figli, depressioni, malattie... Ma è soprattut­
to il nostro peccato la remora più frequente: egoismo,
pigrizia, ripiegamento su di sé, collera...
Quel desiderio del dono totale di noi stessi, che ci
ha portati a progettare il matrimonio, è troppo spesso
vanificato dalla realtà dell’esistenza quotidiana. Voleva­
mo donarci pienamente, sperando di essere ricambiati
senza misura, e invece facciamo esperienza di un dono
parziale, limitato, talvolta misero. Può anche emergere
la sensazione che il nostro dono, fatto senza calcoli e
riserve, senza attese di contropartita, venga “abusato” in
maniera egoistica, sfruttato per un vantaggio persona­
le. E ancora: il dono del corpo sviato dalla sua finalità,
il tradimento della fiducia, la mediocrità di una vita co­
niugale che avevamo sognato più bella e soddisfacente.
Queste sofferenze sono praticamente inevitabili, ed
è possibile accettarle solo associandole a quelle del Cri­
sto crocifisso. La croce è la più alta espressione di un
“amore non amato”, un amore senza limiti che non ha
ricevuto risposta, un dono che non è stato accolto. Gli
sposi non possono evitare di essere, l’uno per l’altro,
occasione di sofferenza: sofferenza che, se offerta, divie­
ne fecondità: «Possente è la sofferenza, quando è volon­
taria al pari del peccato» (P. Claudel, in L’annuncio a
Maria).
Il dono di sé nel matrimonio è “senza condizioni”
indipendentemente dal fatto che l’altro si doni a sua
volta... anche se lo si spera ardentemente. Ci si dona
nella vicendevole fiducia, totalmente, sperando che il
dono sia accolto, anche se non si può esserne certi in
maniera assoluta. In questo senso, ogni dono d’amore

98
è una scommessa nella fiducia e nella speranza. L’espe­
rienza dell’inevitabile incompiutezza del dono, in me
e nell’altro, ci obbliga a riconoscere che il matrimonio
- benché luogo dell’aspirazione alla comunione e via
della sua realizzazione - non può colmarci totalmente.
Dovremo sempre scontrarci con dei limiti. Possiamo
solo sperare di progredire nel dono di noi stessi, pur
senza mai realizzarlo pienamente, e ciò a causa delle
conseguenze in noi del peccato d’origine.
Non dobbiamo tuttavia disperare, né di noi né del­
l’altro. Ogni progresso nell’ordine del dono sarà occa­
sione per un’azione di grazie, pur nella consapevolezza
che, nonostante ogni sforzo, nessuno potrà mai colma­
re la sete di comunione totale presente nell’intimo del
nostro cuore; così come da parte nostra saremo sempre
incapaci di colmare la sete di qualcun altro. In tal sen­
so, gli sposi sono inevitabilmente “croce” l’uno per l’al­
tro: una croce che, se offerta, può risultare feconda.
Il matrimonio, in definitiva, si situa anche nella pro
spettiva di un’altra speranza, quella del dono di Dio,
l’Unico che può colmare totalmente le attese e la sete
del nostro cuore. L’attesa è quella del Regno.

Il fallimento

La croce più dolorosa, nella vita degli sposi, è rap­


presentata dal fallimento del loro matrimonio, con­
cluso o meno con una separazione. Le cause di questa
“sconfìtta” quasi mai sono uniche o unilaterali: pecca­
ti di egoismo, adulterio, accumulo di negligenze, pigri­
zia dell’amore, un donarsi privo di ardore che, mai rin­

99
novato a sufficienza, è andato drammaticamente esau­
rendosi. Le misere protezioni umane sulle quali si con­
tava - posizione sociale, reputazione, patrimonio co­
struito in comune, abitudinarietà della convivenza - si
rivelano illusorie e ingannevoli: l’amore è morto, e forse
irrimediabilmente.
In un lavoro teatrale della sua giovinezza, La bottega
dell’orefice (I960), Karol Wojtyla fa dire ad Anna, il cui
matrimonio minaccia il fallimento: «Stefano aveva smes­
so di abitare in me. Perché adesso questo silenzio, al
quale né l’uno né l’altra sa rimediare? Stefano è re­
sponsabile, mi sembra. Non riesco a trovare colpe in me.
La nostra vita si è trasformata in una penosa esistenza a
due, troviamo sempre meno posto l’uno nell’altra. Non
ci rimane che la somma dei doveri, convenzionale e
instabile». Alla fine, quando Stefano e Anna hanno evi­
tato per un soffio la separazione, è un misterioso perso­
naggio - Adamo... ovvero l’autore stesso - a trarre inse­
gnamento dalla loro esperienza: «La causa del dramma
bisogna ricercarla nel passato. C’è stato semplicemente
un errore. Le persone si lasciano trascinare da un amore
che credono assoluto e che invece non possiede le di­
mensioni dell’assoluto. E sono talmente vittime delle
loro illusioni, da non sentire neppure il bisogno di anco­
rare quell’amore all’Amore che possiede queste dimen­
sioni. Non è la passione in sé ad accecarli, ma la man­
canza di umiltà verso l’amore nella sua vera essenza. Se
sono consapevoli, si proteggono dal pericolo, enorme,
poiché la pressione della realtà è troppo forte, e l’amore
non è in grado di opporle resistenza».
Può accadere che qualche grave sconvolgimento - trau­
mi psicologici, un serio incidente, una profonda de­

100
pressione, un fallimento professionale, complicazioni
fìsiche inaccettabili, il suicidio di un figlio... - faccia­
no cadere a pezzi un matrimonio, senza che gli interes­
sati sappiano come rimediarvi. Si potranno dare giudi­
zi, mettere in luce varie cause... ma le realtà della vita
sovente sono molto più complesse. Uno dei due può
essere vittima “innocente” del tradimento e dell’abban­
dono da parte dell’altro, e ritrovarsi a portare in solitu­
dine tutto il carico dei figli. Una maggiore vigilanza,
più lucidità e preveggenza avrebbero forse aiutato a evi­
tare il disastro?
In casi del genere si può avere la sensazione di una
vita rovinata, ormai del tutto priva di senso. Una delle
reazioni più frequenti, quando gli sposi sono stati aper­
ti ad una visione di fede, è quella di collegare il falli­
mento del loro matrimonio a un “vizio” (o “nullità”)
d’origine. Una simile reazione si può interpretare come
un istintivo riflesso di difesa, un modo di trovare una
spiegazione ad un fatto che, altrimenti, sarebbe sempli­
cemente assurdo: se il nostro matrimonio è fallito, vuol
dire che non era “vero” matrimonio... Ci si rivolge allo­
ra alla Chiesa, sperando riconosca l’esistenza di una ini­
ziale causa invalidante, e quindi consenta di contrarre
un nuovo matrimonio. Non si può contestare che certi
matrimoni risultino effettivamente “nulli” per vizio
d’origine, mancando l’una o l’altra delle condizioni
fondamentali di validità (libero consenso, impegno di
fedeltà, disponibilità al dono della vita), e ciò soprat­
tutto se si considera la scarsa formazione cristiana di
molti aspiranti al sacramento del matrimonio.
Emerge qui un problema pastorale di primaria im­
portanza, una vera sfida per quanti si dedicano alla pre­

101
parazione dei fidanzati al matrimonio. Se il difetto di
consenso è il motivo più frequentemente invocato a
sostegno della nullità, si deve tuttavia riconoscere che
non si è mai abbastanza maturi o pronti per assumere
un impegno così grave come quello del matrimonio sa­
cramentale. Pertanto, se la scarsa maturità psicologica
e di valutazione dovesse costituire motivo sufficiente a
invalidare un matrimonio, praticamente tutti i matri­
moni sarebbero nulli. È ciò che Giovanni Paolo II, e
Benedetto XVI dopo di lui, hanno ritenuto di dover ri­
cordare ai giudici ecclesiastici, onde prevenire una certa
deriva lassista nel trattamento delle cause matrimoniali.
È una realtà dolorosa, ma anche un matrimonio pie­
namente valido può andare incontro al fallimento. Ciò
significa l’irruzione di una pesante, terribile croce nella
vita degli sposi che ne fanno esperienza. Se, come affer­
ma il concilio Vaticano II, «l’uomo non si realizza che
nel dono totale di sé» (Gaudium et spes, n. 24), e se il
matrimonio costituisce la via più comune e più abitua­
le per questo dono, il suo fallimento rappresenta la
negazione di ciò che definisce l’uomo nella maniera più
fondamentale, e per questa ragione costituisce il dram­
ma più atroce che possa colpire la vita di un uomo o
di una donna. Dunque, come pretendere di giudicare
quanti ritengono che questa croce, venuta a sconvolge­
re la loro vita, sia troppo pesante da portare, al punto
da volersi impegnare in una nuova unione, anche a co­
sto di precludersi l’accesso ai sacramenti?
Costoro, comunque, continueranno a essere ogget­
to di una particolare sollecitudine da parte della Chie­
sa, come testimoniano le parole di Giovanni Paolo II
nella Familiaris consortio: «Insieme col Sinodo, esorto

102
caldamente i pastori e l’intera comunità dei fedeli affin­
ché aiutino i divorziati, procurando con sollecita cari­
tà che non si considerino separati dalla Chiesa, poten­
do e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare
alla sua vita. Siano esortati ad ascoltare la parola di Dio,
a frequentare il sacrificio della Messa, a perseverare nel­
la preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle
iniziative della comunità in favore della giustizia, a edu­
care i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le
opere di penitenza, per implorare così, di giorno in
giorno, la grazia di Dio. La Chiesa preghi per loro, li
incoraggi, si dimostri madre misericordiosa e così li
sostenga nella fede e nella speranza» (n. 84 —cit. in Ca­
techismo della Chiesa Cattolica, n.1651)).
Nello stesso tempo, come non ammirare il coraggio
- talvolta confinante con l’eroismo - di quegli sposi
che, malgrado l’irrimediabile scacco, perseverano nella
loro fedeltà promessa per sempre, affrontano le difficol­
tà di una vita in solitudine; o quanti evitano la separa­
zione e mantengono una vita in comune anche se pri­
vata della vitalità dell’amore... In questo modo essi
diventano - nella luce del “grande mistero” evocato da
san Paolo nella lettera agli Efesini (5,32) - il segno vi­
vente di quell’assoluto amore che Cristo-Sposo conti­
nua a rivolgere alla Chiesa-Sposa, anche quando essa si
allontana dall’amore dello Sposo.

103
Schema Vili

LA GIOIA D EL D O N O

«E quando essi diventano “un solo corpo” —oh,


ammirevole unione —spuntano all’orizzonte di quel­
l’unione la paternità e la maternità. È allora che essi
risalgono alle sorgenti della vita che recano in sé».
(Giovanni P a o lo II, Trittico romano)

La gioia delle orìgini

Da dove proviene la “gioia di amare”? Perché una


vita nella quale non vi è, o non vi è più amore, è ine­
vitabilmente una vita triste e priva di gioia? La risposta
va ricercata alle origini stesse dell’umanità, in quella
che Giovanni Paolo II chiama «preistoria teologica del­
l’uomo» (Udienza del 26 settembre 1979), e a cui ri­
manda la Genesi raccontando le esperienze originarie
dell’uomo. Queste ci riguardano personalmente, poi­
ché mentre da un lato costituiscono le esperienze fon­
damentali dell’umanità, dall’altro rivelano qualcosa di
profondamente nostro, l’essenza di ciò che noi siamo,
come uomo e come donna. «Parlando delle originarie
esperienze umane, abbiamo in mente non tanto la loro
lontananza nel tempo, quanto piuttosto il loro signifi­
cato fondante. L’importante, quindi, non è che queste

105
esperienze appartengano alla preistoria dell’uomo (alla
sua “preistoria teologica”), ma che esse siano sempre
alla radice di ogni esperienza umana» (Udienza del 12
dicembre 1979). - L’esperienza originaria della nudità
è già stata evocata nello “Schema IV”; qui trattiamo
l’esperienza della solitudine originaria.
Nel secondo racconto della creazione Dio dice: «Non
è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18); ma prima di
concludere definitivamente la creazione dell’uomo,
plasmandolo come maschio e femmina, Jahvè fa sco­
prire all’uomo la sua solitudine nell’universo degli esse­
ri viventi, mentre lo invita a dare un nome a tutti gli
animali: «Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni
sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li
condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiama­
ti» (Gn 2,19). Si tratta di una sorta di “esame” che il
primo uomo supera dinanzi a Dio e dinanzi a se stes­
so, prendendo coscienza del fatto che è radicalmente
diverso da tutti gli esseri che popolano la terra e il cielo:
«Mediante tale “test”, l’uomo prende coscienza della
propria superiorità, e cioè che non può essere messo
alla pari con nessun’altra specie di esseri viventi sulla
terra» (Udienza del 10 ottobre 1979).
C’è un versante positivo in questa esperienza: se
l’uomo è capace di dare un nome agli animali, è per­
ché possiede una conoscenza perfetta del mondo della
natura (solo chi conosce è capace di dare un nome alle
cose), lo domina ed è in grado di governarlo. Ma c’è
anche un versante negativo: tra tutti gli animali che co­
nosce, non ne trova uno uguale a sé: «Ma l’uomo non
trovò un aiuto che gli corrispondesse» (Gn 2,20).
Ci interessa qui rimarcare il fatto che l’originario

106
Adam (= Tessere fatto di terra”, l’uomo senza conside­
razione del sesso, la donna non essendo ancora stata
creata) scopre che ciò che lo rende umano è l’aspirazio­
ne a donarsi ad un essere che sia suo omologo in uma­
nità, quindi capace di accoglierlo in quanto dono. Il
non trovare tra tutti gli animali questo particolare “al­
leato in umanità” costituisce l’esperienza dolorosa e
inquietante della sua solitudine nel mondo. Nel mo­
mento in cui si scopre “persona”, cioè come essere radi­
calmente diverso da tutti gli altri viventi, si accorge di
non potersi realizzare pienamente se non nel fare dono
di sé: «Infatti, nessuno di questi esseri (ammalia) offre
all’uomo le condizioni di base, che rendano possibile
esistere in una relazione di reciproco dono» (Udienza
del 9 gennaio 1980).
Il primo uomo scopre così che “essere persona” v
dire essere fatto per il dono di se stesso ad un altro “se
stesso”, e finché questo dono non può realizzarsi per la
mancanza di qualcuno in grado di riceverlo, egli non
può essere davvero se stesso, non può realizzarsi come
persona: «Il dono rivela, per così dire, una particolare
caratteristica dell’esistenza personale, anzi della stessa
essenza della persona. Quando Dio Jahvè dice che “non
è bene che l’uomo sia solo” (Gn 2,18), afferma che “da
solo” l’uomo non realizza totalmente questa essenza. La
realizza soltanto esistendo “con qualcuno” - e ancor
più profondamente e più completamente: esistendo
“per qualcuno”» (ivi). In questa esperienza della solitu­
dine originaria ritroviamo, come in controluce, la
splendida definizione dell’uomo offerta dal concilio
Vaticano II: «L’uomo, il quale in terra è la sola creatu­
ra che Iddio abbia voluto per se stesso, non può realiz­

107
zarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di
sé» ( Gaudium et spes, n. 24).
Si comprende allora la gioia - meglio ancora, il giu­
bilo - che s’impossessa dell’uomo dinanzi a colei che
Jahvè ha tratto dalla sua costola: «Questa volta è osso
dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà
donna, perché dall’uomo è stata tolta» (Gn 2,23). Non
è solo un grido d’ammirazione dinanzi allo splendore
del corpo della prima donna, è soprattutto lo scoppio
d’esultanza di chi può finalmente realizzarsi nel dono
di sé ad un’altra persona. «In questo modo, l’uomo
(maschio) manifesta per la prima volta gioia e perfino
esaltazione, di cui prima non aveva motivo, a causa
della mancanza di un essere simile a lui. La gioia per
l’altro essere umano, per il secondo “io”, domina nelle
parole dell’uomo (maschio) pronunziate alla vista della
donna (femmina)» (Udienza del 7 novembre 1979).
Solo ora la creazione dell’uomo è definitivamente com­
piuta: «La completa e definitiva creazione dell’uomo...
si esprime nel dar vita a quella communio personarum
che l’uomo e la donna formano» (Udienza del 14 no­
vembre 1979).
Il grido di gioia del primo uomo al cospetto dell
prima donna è, contemporaneamente, un grido d’amo­
re, il primo canto d’amore dell’umanità, il «prototipo
biblico del Cantico dei cantici», come dice Giovanni
Paolo II. È l’origine e la fonte della gioia di amare, del­
la gioia del dono. È la gioia che emana da tutti coloro
che si amano nella verità, da coloro che hanno compre­
so che l’amore è prima di tutto dono di sé. È la gioia
propria delle nozze, e questa gioia rimane, malgrado
tutte le deturpazioni dell’amore causate dal peccato,

108
l’aspirazione fondamentale del cuore dell’uomo, a testi­
monianza della sua origine.

La gioia della comunione

La gioia del dono di sé, che realizzandosi in recipro­


cità diventa una comunione, attraversa tutto il Cantico
dei cantici quale magnifica risonanza del sussulto di
gioia e d’amore del primo uomo dinanzi alla donna che
gli viene offerta: «Ossa dalle mie ossa, carne dalla mia
carne». L’intero Cantico è un inno alla comunione del­
l’uomo e della donna nell’amore sponsale, una celebra­
zione del linguaggio del corpo: «La verità dell’amore,
proclamata dal Cantico dei cantici, non può essere se­
parata dal linguaggio del corpo» (Udienza del 6 giugno
1984). Tutte le parole del Cantico sono sostenute dalla
gioia del dono di sé: «Le parole dell’uomo non conten­
gono solo una descrizione poetica dell’amata, della sua
bellezza femminea, su cui si soffermano i sensi, ma par­
lano del dono e del donarsi della persona» (ivi).
La meditazione del Cantico dei cantici è una grazia per
gli sposi. Se le persone consacrate traggono vantaggio dal
considerare tale testo come un’allegoria delle relazioni del­
l’anima con Dio, alla maniera di san Bernardo, o delle
nozze mistiche, come fa san Giovanni della Croce, gli
sposi, dal canto loro, sono invitati a gustarlo e vederlo
come una finestra rimasta miracolosamente aperta sulla
gioia della comunione dei corpi com’era possibile nello
stato d’innocenza, prima che il peccato originale oscuras­
se le mutue relazioni tra uomo e donna, prima che il
cuore umano fosse avvelenato dalla concupiscenza.

109
Certo, la condizione originaria è andata irrimedia­
bilmente perduta dal momento che - come si esprime
il papa - si è elevata la “barriera insuperabile” del pec­
cato; ma la purezza del cuore, che può essere riconqui­
stata con l’accoglienza della grazia redentiva di Cristo,
permette di ritrovare qualcosa della gioia originaria del­
la comunione. Dobbiamo cercare - seguendo l’invito
di Gesù quando parla del ripudio (cfr. Mt 19,3-8) - «di
retrocedere dalla soglia della peccaminosità “storica”
dell’uomo fino alla sua innocenza originaria» (Udienza
del 12 dicembre 1979). E proprio in questo può esser­
ci d’aiuto il Cantico dei cantici, in quanto testimonian­
za dello splendore originario della vocazione sponsale
del corpo umano, nella esaltazione di un “erotismo in­
tegrale”, cioè rispettoso della integralità della vocazio­
ne del corpo.
È significativo che Giovanni Paolo II abbia scelto di
commentare in tre riprese il Cantico dei cantici, come
una sorta di introduzione alle riflessioni che avrebbe in
seguito dedicato alle conseguenze etiche della teologia
del corpo. La meditazione di questo libro biblico favo­
risce quelle disposizioni interiori di gioia e di accoglien­
za dell’altro, necessarie per fare proprie nella pace le esi­
genze etiche della vita coniugale. «[Il linguaggio del
corpo impiegato dagli sposi del Cantico dei cantici] ap­
porta loro gioia e quiete e sembra indurli a una ricerca
continua. Si ha l’impressione che, incontrandosi, rag­
giungendosi, sperimentando la propria vicinanza, con­
tinuino incessantemente a tendere a qualcosa [...].
Questa aspirazione nata dall’amore sulla base del “lin­
guaggio del corpo” è una ricerca del bello integrale,
della purezza libera da ogni macchia: è una ricerca di

110
perfezione che contiene, direi, la sintesi della bellezza
umana, bellezza dell’anima e del corpo» (Udienza del
6 giugno 1984).
È a questa gioia e a questa esigenza della comunio­
ne che gli sposi sono chiamati, vivendo in pienezza la
grazia del sacramento matrimoniale meritata dall’offer­
ta redentiva di Cristo.

La gioia che non finisce

Cosa rimane, nonostante tutto, e malgrado gli attac­


chi del peccato, di quella gioia originaria? Rimane - do­
po le “maledizioni” e la cacciata dal giardino dell’Eden -
l’esultanza della donna: «Adamo conobbe Èva sua mo­
glie, che concepì e partorì Caino e disse: “Ho acquista­
to un uomo grazie al Signore”» (Gn 4,1). Per Giovanni
Paolo II questa esclamazione è «il grido di gioia della
prima donna, la “madre di tutti i viventi”» (Evangelium
vitae, n. 43), la gioia irrefrenabile dinanzi alla grandez­
za della fecondità.
È la gioia di ogni donna dinanzi al miracolo della
vita che si sprigiona da lei, ed è la gioia di ogni uomo
che diventa padre: questa gioia testimonia, malgrado e
oltre tutto, che la fonte primigenia della vita è in Dio.
Dio è vita. Lo avevano già riconosciuto i filosofi paga­
ni dell’antichità, alla sola luce della ragione, senza l’aiu­
to della divina rivelazione. Anche se la ragione umana,
abbandonata alle sue sole forze, può soltanto balbetta­
re quando tenta di parlare di Dio, Aristotele (IV sec.
a.C.), trattando del primo principio che chiama Dio,
giunge ad affermare: «Questo principio è una vita para­

111
gonabile alla più perfetta che ci sia dato vivere per un
breve momento» (.Metafisica, 1. 12, c. 7).
Se Dio è vita - vita perfetta - anche l’uomo e la don­
na, essendo stati creati a immagine di Dio, sono a loro
volta immagini di questa vita. Come Dio comunica la
sua vita quale effusione del suo Essere trinitario, an-
ch’essi comunicano la vita quale fioritura e frutto della
loro comunione, facendo sorgere nel mondo nuove e
“uniche” immagini di Dio: «Quando dall’unione co­
niugale dei due nasce un nuovo uomo - scriveva Gio­
vanni Paolo II nella splendida “Lettera alle famiglie”
del 1994 - questi porta con sé al mondo una partico­
lare immagine e somiglianza di Dio stesso» (Gratissi-
mam sane, n. 9).
Il figlio è frutto e insieme testimonianza di una co­
munione, sia pure ferita, o deturpata, o estinta. È il se­
gno intangibile della comunione delle origini. La sua
venuta alla luce è sempre una gioia, a dispetto di tutte
le tribolazioni che possono accompagnare il suo avven­
to, perché richiama indefettibilmente la gioia della
comunione delle origini. Il figlio viene a confermare la
comunione degli sposi, talvolta anche a salvarla. Quan­
do un matrimonio è sul punto di naufragare perché
l’amore si è estinto, e tuttavia gli sposi perseverano nella
vita in comune “a motivo dei figli”, è perché i figli rap­
presentano ciò che ancora rimane di una comunione
che, esistita una volta, lascia un ricordo e una nostalgia
incancellabili. Essi sono la prova sussistente della gioia
del dono, e questa prova è talvolta l’ultimo riparo dal­
l’estinzione completa dell’amore. Quanti genitori han­
no trovato, nello sguardo dei propri figli, la ragione e
la forza di non commettere l’irreparabile? Essi sono

112
l’ultima misericordia accordata all’amore che si smar­
risce.
Giovanni Paolo II si è battuto con tutte le forze con­
tro la «cultura di morte» che insidia particolarmente le
nostre società supersviluppate, sino a parlare di una
«congiura contro la vita» (Evangelium vitae, n. 17).
Dietro al rigetto del figlio, si profila il rigetto di Dio
quale autore di ogni vita. Quando il figlio diventa una
seccatura, un peso, ed è considerato solo un costo che
conviene evitare, vuol dire che si è smarrito il senso del­
la comunione, e con esso la ragione della gioia. La gioia
di amare è la gioia del dono, e non esiste dono più
grande che quello della vita. L’accoglienza generosa del­
la vita nelle famiglie mantiene viva la speranza di
un’umanità che non cessa di orientarsi verso la sorgen­
te inesauribile della comunione e della gioia. «[La fami­
glia] trova la sua natura comunitaria, o piuttosto il suo
carattere di “comunione”, nella comunione fondamen­
tale degli sposi, la quale si prolunga nei figli», insiste
Giovanni Paolo II. E poi il suo celebre grido di speran­
za: «L’avvenire dell’umanità passa attraverso la famiglia»
{Familiaris consortio, n. 86).

113
Schema IX

L’EUCARISTIA,
MISTERO NUZIALE

«L’eucaristia è la fonte stessa del matrimonio cri­


stiano. È in questo sacrifìcio della nuova ed eterna
alleanza che gli sposi cristiani trovano la fonte viva
che modella interiormente e vivifica costantemente
la loro alleanza coniugale».
(G iovanni Paolo II, Familiaris consortio, n. 57)

Cana e l’Ultima cena

Tutto il Vangelo di Giovanni - l’apostolo dell’amo­


re - è come inquadrato da due momenti chiave, rivela­
tori di una profonda realtà spirituale che gli sposi sono
invitati a gustare, meditare e contemplare nella loro pro­
fonda connessione: le nozze di Cana e l’Ultima cena.
Il primo “segno” che Gesù compie all’inizio della sua
vita pubblica - peraltro riferito solo da san Giovanni (2,1-
12) - è quello di Cana, in occasione di un banchetto
nuziale. Non è per caso che il Signore abbia voluto inau­
gurare il suo ministero pubblico in una simile circostan­
za. Alla sollecitazione di sua madre: «Non hanno più
vino», Gesù risponde in maniera apparentemente strana:
« Quid mihi et tibi, mulierb> (come riporta la Vulgata di
san Girolamo, traducendo alla lettera il greco: «Che cosa

115
a me e a te, o donna?»); le versioni moderne preferisco­
no: «Donna, che vuoi da me?». Nel suo commento al
Vangelo1, Dom Delatte, dopo aver escluso tutte le inter­
pretazioni che tendono a vedere in questa frase l’intenzio­
ne di Gesù di stabilire una certa distanza rispetto a sua
madre, suggerisce la lettura: «Lasciami, donna...», da
intendersi correttamente in relazione con quanto segue:
«...non è ancora giunta la mia ora». Gesù sembra voler
dire affettuosamente a sua madre: «Lasciami! Non anco­
ra, aspetta, la mia ora non è venuta».
L’ora evocata da Gesù è quella della sua passione, che
in Giovanni (cap. 17) è introdotta dalla grande “preghie­
ra sacerdotale” che inizia con le parole: «Padre, è venuta
l’ora: glorifica il Figlio tuo...». I due momenti si richia­
mano a vicenda, l’uno all’inizio della vita pubblica di
Gesù, l’altro al suo termine, e in ambedue le circostan­
ze Gesù si rivolge a sua madre con l’appellativo “donna”
(«Donna, ecco tuo figlio!», Gv 19,26). Con ciò è indi­
cata l’universalità della maternità di Maria. È peraltro
importante notare che la solenne preghiera si colloca
subito dopo la celebrazione della Cena pasquale insieme
ai discepoli, nel corso della quale Gesù istituisce l’euca­
ristia, offerta redentiva del suo corpo e del suo sangue per
la Chiesa. Le nozze di Cana e l’Ultima cena, i due punti
estremi del Vangelo, due banchetti di nozze...
L’eucaristia è un pranzo di nozze: le nozze di Cristo-
Sposo e della Chiesa-Sposa. La “mia ora”, che Gesù an­
nuncia e prefigura a Cana, è l’ora dei suoi sponsali con
la Chiesa. L’eucaristia è il compimento di un dono nu­
ziale col quale Gesù fa offerta di sé sino alle estreme

1 Ed. dell’Abbazia di Solesmes, 1975, pp. 114-119.

116
conseguenze: totalmente donato, abbandonato, im­
molato, diventa nutrimento per la Chiesa, la sua Spo­
sa. È il sublime insegnamento di san Paolo nella lette­
ra agli Efesini (5,22-23), a cui si richiama Giovanni
Paolo II: «Quel dono di sé al Padre per mezzo dell’ob­
bedienza fino alla morte è contemporaneamente, se­
condo la lettera agli Efesini, un “dare se stesso per la
Chiesa”. In questa espressione, l’amore redentore si
trasforma, direi, in amore sponsale: Cristo, dando se
stesso per la Chiesa, con lo stesso atto redentore si è
unito una volta per sempre con essa, come lo sposo con
la sposa, come il marito con la moglie, donandosi at­
traverso tutto ciò che una volta per sempre è racchiu­
so in quel suo “dare se stesso” per la Chiesa» (Udienza
del 18 agosto 1982).
È così che gli sposi sono chiamati a donarsi vicende­
volmente, nell’estrema oblazione di sé. Non a caso il sa­
cramento del matrimonio ha luogo nel cuore della cele­
brazione eucaristica, appena prima della presentazione
delle oblate. E questo non semplicemente perché si
tratta di una cesura, del passaggio dalla liturgia della
parola alla liturgia eucaristica, ma per il fatto che gli
sposi, consacrandosi l’uno all’altra si pongono nella
condizione di associare la loro offerta nuziale all’offer­
ta nuziale di Cristo per la Chiesa.
Per realizzarsi nella sua totalità, l’offerta nuziale esige
che il consenso pronunciato dagli sposi sia confermato
concretamente attraverso il dono dei corpi. Pertanto, la
celebrazione del matrimonio non si esaurisce con la ceri­
monia pubblica, ma si perfeziona nel talamo nuziale, dove
l’atto coniugale è come il “sigillo” della liturgia sacramen­
tale, di cui gli sposi sono i “veri” ministri. Opportuna­

117
mente Giovanni Paolo II afferma: «Il matrimonio come
sacramento viene contratto mediante la parola, che è
segno sacramentale in ragione del suo contenuto: “Prendo
te come mia sposa - come mio sposo Tuttavia, que­
sta parola sacramentale è, di per sé, soltanto il segno del­
l’attuazione del matrimonio. E l’attuazione del matrimo­
nio si distingue dalla sua consumazione fino al punto che,
senza questa consumazione, il matrimonio non è ancora
costituito nella sua piena realtà. La constatazione che un
matrimonio è stato giuridicamente contratto ma non
consumato (ratum—non consummatum), corrisponde alla
constatazione che esso non è stato costituito pienamente
come matrimonio. Infatti le parole stesse: “Prendo te co­
me mia sposa - come mio sposo” possono essere adem­
piute soltanto attraverso la copula coniugale» (Udienza
del 5 gennaio 1983).
Allo stesso modo, il consenso di Cristo alla Chiesa
nell’offerta di se stesso, attraverso il dono eucaristico,
esigeva di essere confermato attraverso l’offerta reden­
trice del suo corpo sulla croce. La croce diventa così il
talamo nuziale di Cristo-Sposo e della Chiesa-Sposa.
Giunto all’apice della sua offerta redentrice, Gesù può
dire: Consummatum est («È consumato», stando alla
Vulgata di san Girolamo): sono le ultime parole che san
Giovanni mette sulle sue labbra, solitamente rese con:
«Tutto è compiuto». Certo, a questo punto tutta l’ope­
ra della redenzione è compiuta, ma trattandosi dell’of­
ferta di Gesù-Sposo alla Chiesa-Sposa, è un atto nuziale
compiuto in quanto “consumato”. È in quel momento,
quando Gesù offre per la Chiesa il suo ultimo soffio di
vita, che le sue nozze con la Chiesa-Sposa sono total­
mente consumate.

118
La natura del matrimonio aiuta a comprendere tutta
la dinamica dei sacramenti scaturiti dall’opera della re­
denzione, compiuta e conclusa nell’offerta nuziale di
Cristo alla Chiesa. Ed ecco: tutti i sacramenti della Chie­
sa, che sono come l’effusione di quest’opera redentiva,
rivestono una dimensione nuziale, attestando la fecon­
dità dell’unione di Cristo e della Chiesa. «Sebbene l’ana­
logia della lettera agli Efesini non lo precisi, possiamo
tuttavia aggiungere che anche la Chiesa unita con Cri­
sto, come la moglie col proprio marito, attinge dal sa­
cramento della Redenzione tutta la sua fecondità e
maternità spirituale» (Udienza del 13 ottobre 1982).
Ponendo così le basi di un rinnovamento completo del­
la teologia sacramentale, il papa non esita a dire: «Tutti
i sacramenti della Nuova Alleanza trovano in un certo
senso nel matrimonio, quale sacramento primordiale,
il loro prototipo» (Udienza del 20 ottobre 1982).
Donandosi vicendevolmente nel matrimonio, e iscri­
vendo la loro unione nel segno redentivo delle nozze di
Cristo e della Chiesa, gli sposi realizzano un atto pro­
fetico: «Sulla base del profetismo del corpo, i ministri
del sacramento del matrimonio compiono un atto di
carattere profetico. Confermano in tal modo la loro
partecipazione alla missione profetica della Chiesa, ri­
cevuta da Cristo» (Udienza del 19 gennaio 1983).

Intimità coniugale e intimità eucarìstica

L’eucaristia si rivela come il più “nuziale” fra tutti i


sacramenti. E il sacramento mediante il quale Cristo,
nutrendola col proprio corpo, forma la Chiesa al dono

119
di sé. Ricevere il corpo eucaristico di Cristo non è solo
l’occasione di un “cuore a cuore” con Gesù; è anche - in
senso proprio - un “corpo a corpo” di ogni membro
della Chiesa-Sposa con il Cristo-Sposo.
Se tutti i sacramenti della Nuova Alleanza trovano
in un certo senso - per riprendere il concetto di Gio­
vanni Paolo II - il loro “prototipo” nel matrimonio,
l’eucaristia è la realizzazione piena della dimensione
nuziale presente in ogni sacramento della Chiesa come
effusione dell’opera redentrice e nuziale compiuta da
Cristo. In quanto realizzazione della pienezza dell’unio­
ne nuziale di Cristo e della sua Chiesa, l’eucaristia è
«fonte e apice di tutta la vita cristiana» {Lumen gentium,
n. 11). Perciò la comunione eucaristica è per gli sposi
un’occasione di perenne rigenerazione della loro unio­
ne; è un’iniezione di energia per le esigenze della loro
vita in comune; soprattutto è il pieno compimento
della loro vocazione sponsale, figura del loro reciproco
donarsi.
Si comprende, allora, come una eventuale pretesa di
tenere lontani gli sposi dal sacramento dell’eucaristia
- motivata dal fatto che la realtà carnale della loro vita
coniugale li priverebbe della purezza necessaria per
accostarsi degnamente al sacramento - corrisponda ad
una falsificazione “manichea” del senso profondo della
stessa eucaristia. Si capisce anche la fermezza con cui
Giovanni Paolo II deplora il modo talvolta inadeguato
con cui si è voluto rimarcare una certa superiorità della
verginità e del celibato rispetto al matrimonio. «Le pa­
role di Cristo [...] non forniscono motivo per sostene­
re né la “inferiorità” del matrimonio, né la “superiori­
tà” della verginità o del celibato, in quanto questi per

120
la loro natura consistono nell’astenersi dalla “unione”
coniugale “nel corpo”. [...] Il matrimonio e la continen­
za né si contrappongono l’uno all’altra, né dividono di
per sé la comunità umana (e cristiana) in due campi
(diciamo: dei “perfetti” a causa della continenza e degli
“imperfetti” o meno perfetti a causa della realtà della
vita coniugale)» (Udienza del 14 aprile 1982).
Non si può assolutamente negare che esistono delle
colpe che gli sposi possono commettere, alle quali pe­
raltro sono particolarmente esposti, che devono talvol­
ta indurli ad astenersi dalla mensa eucaristica, finché
non abbiano ricevuto il sacramento della riconciliazio­
ne. Ma non si dà alcuna “incongruenza” fra la realtà del
vissuto carnale del matrimonio e l’eucaristia. Al contra­
rio, esiste fra questi due sacramenti una congruenza in­
trinseca, una profonda corrispondenza, quasi una con­
naturalità.
L’eucaristia, ricevuta e vissuta con viva fede, per quel­
lo che essa realmente significa, è la migliore preparazio­
ne degli sposi al dono pieno dei loro corpi; d’altra
parte, il dono carnale, con tutto ciò che esige e suppone
sul piano dell’unione dei cuori e delle anime, deve con­
durli a desiderare ancora più ardentemente di ricevere
il corpo del Signore, contribuendo così a incrementa­
re l’immagine della Chiesa come Sposa di Cristo. In
tutto questo non vi è nulla di oltraggioso, tanto meno
di blasfemo.
Gli sposi devono dunque liberarsi da ogni ombra di
manicheismo, di sfiducia o semplicemente di sospetto
nei riguardi del corpo, che potrebbe influenzare nega­
tivamente il loro modo di considerare quegli atti attra­
verso i quali essi diventano “una sola carne”. Al riguar­

121
do Giovanni Paolo II ha avuto parole estreme: «Il mo­
do manicheo di intendere e di valutare il corpo e la ses­
sualità dell’uomo è essenzialmente estraneo al Vangelo»
(Udienza del 22 ottobre 1980).
Beneficiando, nel sacramento del matrimonio, dei
meriti della redenzione, purificato mediante il sangue
dell’Agnello, il dono dei corpi può essere vissuto —pur
in una natura ferita dal peccato originale - nell’integra-
lità del suo significato: «Nondimeno, anche in questo
stato, cioè nello stato della peccaminosità ereditaria
dell’uomo, il matrimonio non cessa mai di essere la
figura di quel sacramento, di cui leggiamo nella lettera
agli Efesini e che l’autore della medesima lettera non
esita a definire “grande mistero”» (Udienza del 13 otto­
bre 1982). Che questo sia esigente, è chiaro; che sia im­
possibile, non può essere sostenuto, a meno che non si
abbia sufficiente fede nella realtà sacramentale del ma­
trimonio.
Una vita cristiana autentica, aperta al dinamismo
della grazia, è una vita unificata. L’unificazione del no­
stro corpo e della nostra anima, come l’unificazione
degli sposi nella comunione, devono diventare segni
radiosi di una vera vita cristiana. Sarà il frutto di lotte,
purificazioni e sacrifìci; sarà il risultato di uno sforzo
perenne per educare il nostro cuore, e dell’accettazione
dell’opera della grazia in noi... ma è soprattutto il risul­
tato della conquista realizzata a nostro benefìcio dalla
redenzione di Cristo.
Questa unificazione della vita cristiana farà sboccia­
re dai cuori degli sposi, nella comunione eucaristica,
un’azione di grazie per l’offerta dei loro corpi. Riceven­
do il corpo di Cristo, offerto per loro, sentiranno di

122
preparare i propri corpi all’offerta del dono. Ma soprat­
tutto, accedendo all’eucaristia, potranno santificare in
modo tutto particolare quelle unioni dei corpi per le
quali avranno previsto —nella prospettiva di una pater­
nità e una maternità responsabili - lo sbocciare di una
nuova vita. In questo modo l’unione dei corpi viene
trasfigurata, o piuttosto ristabilita, nella verità del suo
pieno significato: celebrazione del “grande mistero”
evocato dalla lettera agli Efesini. Giovanni Paolo II po­
tè dire: «Su questa via, la vita coniugale diviene in un
certo senso liturgia» (Udienza del 4 luglio 1984).

Le nozze dell’Agnello

Il dono sponsale realizzato da Cristo sulla croce per


la sua Chiesa è perfetto e totale, offerta di sé pienamen­
te compiuta una volta per tutte. Da parte della Chiesa,
invece, la risposta d’amore al dono nuziale di Cristo è
in continuo stato di perfezionamento, in vista della
piena realizzazione nel giorno finale. La Chiesa - e in
essa ciascuno di noi, sue membra - deve accettare di la­
sciarsi perennemente “configurare” come Sposa per il
suo Sposo, al fine di giungere alla pienezza del dono di
sé. E questo potrà farlo solo lasciandosi purificare dalle
tracce del peccato, che sono altrettanti ostacoli alla sua
offerta totale di Sposa allo Sposo. Offerta che sarà pie­
namente compiuta solo al momento del ritorno glo­
rioso di Cristo nell'ultimo giorno, come ci rivela
l’Apocalisse di Giovanni: «Rallegriamoci ed esultiamo,
rendiamo a Lui gloria, perché sono giunte le nozze
dell’Agnello. La sua sposa è pronta» (19,7).

123
A quell’incontro ci prepara ogni eucaristia, con la
quale «Cristo, nel suo amore coniugale, nutre la Chie­
sa» (Udienza del 1° settembre 1982). Nella messa, il ce­
lebrante ci invita con le parole stesse dell’Apocalisse:
«Beati gli invitati al banchetto di nozze del Signore»
(19,9). La Chiesa-Sposa, in ognuno di noi, può solo
rispondere nell’umiltà e nella speranza: Domine, non
sum dignus... «Signore, non sono degno... La tua sposa
non è degna, il suo cuore non è ancora pronto a rice­
vere lo splendore del dono di te. Ma tu vieni, o Signore,
a guarire il suo cuore, nutrila di te, accendi in lei il desi­
derio di donarsi a te».
Di eucaristia in eucaristia, la Chiesa alimenta in sé
il desiderio dello Sposo, la brama di accoglierlo piena­
mente e di ricambiarlo col dono totale di sé. È un desi­
derio che esprime la sua volontà di conversione, e non
cesserà di ripeterlo fino al momento in cui lo Sposo si
manifesterà nella gloria, e lei potrà presentarsi a lui
«tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di
simile, ma santa e immacolata» (Ef 5,27). In quel gior­
no, la gloria di Cristo sarà la gloria dello Sposo accol­
to dalla sua Sposa. La Chiesa-Sposa potrà finalmente
dire allo Sposo quelle parole che ogni sposa mormora
al suo sposo quando si sente pronta ad accogliere il
dono del suo corpo: «Vieni! - Marana-tha! Vieni, Si­
gnore Gesù!» (Ap 22,20).
L’unione nuziale sarà allora totalmente compiuta,
consumata in una celebrazione eterna, in una comu­
nione e in una eucaristia eterne. La sete di comunione,
iscritta sin dalle órigini nel nostro cuore di uomini e di
donne dal Creatore, sarà pienamente soddisfatta. Di
quelle nozze eterne, quando la nostra umanità otterrà

124
il suo pieno compimento, gli sposi cristiani, attraverso
la grazia del loro sacramento, sono chiamati ad essere i
profeti, da oggi... sino all’ultimo giorno.
La riflessione sull’unione sponsale di Cristo con la
Chiesa sulla scorta della lettera agli Efesini (cap. 5), ci
immerge nel cuore stesso della realtà e della verità del
matrimonio, nel suo significato più alto: «Questo testo
ci conduce a una dimensione tale del “linguaggio del
corpo” che potrebbe essere chiamata “mistica”. Parla in­
fatti del matrimonio come di un “grande mistero”. [...]
E sebbene questo mistero si compia nell’unione spon­
sale di Cristo redentore con la Chiesa e nella Chiesa-
Sposa con Cristo [...], sebbene si effettui definitiva­
mente nelle dimensioni escatologiche, tuttavia l’autore
della lettera agli Efesini non esita ad estendere l’analo­
gia dell’unione di Cristo con la Chiesa nell’amore
sponsale [...] al segno sacramentale del patto sponsale
dell’uomo e della donna» (Udienza del 4 luglio 1984).
Il testo paolino fa parte del grande tesoro della Chiesa,
al quale ella non cessa di attingere una sempre maggio­
re consapevolezza, e che la rende capace di compren­
dere ogni giorno un po’ meglio l’uomo in tutta la sua
verità, nella grandezza della sua vocazione, infine nel
suo mistero «che non si chiarisce veramente che nel mi­
stero del Verbo incarnato» (Gaudium et spes, n. 22).
«Bisogna riconoscere - prosegue Giovanni Paolo II -
la logica di questo stupendo testo, che libera radical­
mente il nostro modo di pensare dagli elementi di ma­
nicheismo o da una considerazione non personalista
del corpo e al tempo stesso avvicina il “linguaggio del
corpo”, racchiuso nel segno sacramentale del matrimo­
nio, alla dimensione della reale santità» (ivi). Ci viene

125
manifestata anche la missione specifica degli sposi nel
corpo mistico di Cristo che è la Chiesa: gli sposi devo­
no essere - con tutta la loro vita, con ognuno dei gesti
che esprimono la verità del loro amore, con l’offerta
interiore di se stessi - coloro che nella Chiesa rivelano
il significato integrale del segno sacramentale del matri­
monio, cioè quelle nozze di Cristo e della Chiesa che
saranno pienamente compiute nel giorno della risurre­
zione finale, quando Cristo-Sposo ritornerà nella glo­
ria a ricevere il dono nuziale della sua Sposa.
Il papa conclude: «In quel segno, attraverso il “lin­
guaggio del corpo”, l’uomo e la donna vanno incontro
al “grande mysterium , per trasferire la luce di quel mi­
stero, luce di verità e di bellezza, espresso nella lingua
liturgica, in “linguaggio del corpo”, nel linguaggio cioè
della prassi dell’amore» (ivi).

126
Schema X

GLI SPOSI E IL PRETE

«Non è forse quell’amore sponsale, con cui Cristo


“ha amato la Chiesa”, sua Sposa, “e ha dato se stesso
per lei”, ugualmente la più piena incarnazione del­
l’ideale della “continenza per il regno dei cieli”? Non
trovano sostegno proprio in essa tutti coloro - uomi­
ni e donne - che, scegliendo lo stesso ideale, deside­
rano collegare la dimensione sponsale dell’amore con
la dimensione redentrice, secondo il modello di Cri­
sto stesso?».
(G iovanni Paolo II, Udienza del 15 dicembre 1982)

II prete-sposo

A prima vista, nulla sembra accomunare il sacra­


mento dell’ordine e quello del matrimonio, e ci si può
domandare a cosa serva una riflessione sul prete nel
quadro dei nostri schemi di spiritualità coniugale. In­
fatti, tutto sembra allontanare tra loro questi due stati
di vita, se non addirittura opporli. Innanzitutto, il sa­
cerdote non è sposato, almeno non nella Chiesa catto­
lica romana; poi, sono gli sposi che fungono da mini­
stri del sacramento del matrimonio, non il prete, il
quale semplicemente assiste e benedice il patto degli
sposi in qualità di testimone autorizzato, ruolo che pe-

127
raltro può essere svolto da un diacono (e in alcune par­
ticolarissime circostanze da un semplice laico). Si po­
trebbero elencare anche altri motivi.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica accosta questi
due sacramenti per il fatto che entrambi «sono al ser­
vizio della comunità e della missione dei fedeli» (n.
1211); «Essi conferiscono una missione particolare
nella Chiesa e servono all’edificazione del popolo di
Dio» (n. 1534). Entrambi sono delle consacrazioni
particolari conferite a «coloro che sono già stati consa­
crati mediante il Battesimo e la Confermazione» (n.
1535). Il sacerdote, grazie al sacramento dell’ordine,
è consacrato al servizio della Chiesa; gli sposi - come
ricorda il Vaticano II, che riprende su questo punto
l’enciclica di Pio XI sul matrimonio, Casti connubii
(1930) - sono anch’essi «come consacrati» ( Gaudium
et spes, n. 48) mediante il sacramento del matrimonio.
Il prete è consacrato al servizio della Chiesa e confi­
gurato sia al Cristo in quanto «Capo della Chiesa, nel­
la sua triplice funzione di sacerdote, profeta e re» ( Ca­
techismo, n. 1581), sia al Cristo in quanto Sposo della
Chiesa. Proprio in questo risiede la più profonda
ragione del celibato sacerdotale nella Chiesa latina. È
molto più che una questione di tradizione o discipli­
na, molto più che un’esigenza pratica di disponibilità
del prete rispetto ai molteplici compiti del suo mini­
stero. Nel celibato sacerdotale c’è una giustificazione
di opportunità profonda in relazione alla specifica
vocazione del prete.
Come Cristo si dona interamente alla Chiesa, come
lo sposo alla sposa, anche il prete, che mediante la gra­
zia del sacramento dell’ordine diviene un altro Cristo

128
(,alter Christus), è chiamato a donarsi alla Chiesa allo stes­
so modo: nel modo nuziale —o “sponsale” come dice
Giovanni Paolo II - e dunque esclusivo. Così la Chiesa
diventa, in qualche modo, anche la Sposa del prete, che
egli purifica e rigenera mediante il ministero della mise­
ricordia; di cui si prende cura insegnando ed esortando;
che ogni giorno nutre con l’eucaristia. Nella celebrazio­
ne della messa, il sacerdote offre se stesso con Cristo per
la Chiesa, in un’offerta nuziale di sé. Quando pronun­
cia le parole consacratone sul pane e sul vino, per cam­
biarli nel corpo e nel sangue di Cristo, è anche il suo
corpo di prete, il suo sangue di prete, la sua vita di prete
che egli offre con Cristo-Sposo per la Chiesa-Sposa. E il
dono nuziale di se stesso, che il prete fa alla Chiesa, asso­
ciato al dono nuziale di Cristo alla sua Chiesa. Un dono
che assume una dimensione quasi carnale.
Il celibato sacerdotale si rivela, in questa luce, non
una negazione del valore del matrimonio, ma pieno
compimento del suo significato. La lettera di Paolo agli
Efesini (cap. 5), che esprime la natura nuziale del lega­
me di Cristo e della Chiesa, contiene una dottrina che
si applica tanto al matrimonio quanto al celibato sacer­
dotale: «Quel testo è ugualmente valido sia per la teo­
logia del matrimonio, sia per la teologia della continen­
za “per il Regno”, cioè la teologia della verginità o del
celibato» (Udienza del 21 aprile 1982).
La figura del prete deve diventare, per gli sposi, la
figura perfetta del loro dono nuziale, e il suo celibato è
chiamato a esprimere l’assolutezza di questo dono. Il
cuore del prete, se vuole davvero configurarsi a quello
di Gesù, non può che essere un cuore di sposo. E poi­
ché il dono nuziale è per sua natura esclusivo, il prete

129
può donarsi solo all’unica Sposa di Cristo, essendo as­
sociato a Cristo nella sua offerta nuziale alla Chiesa. È
da questa totalità dell’autodonazione che sorge tutta la
fecondità spirituale del ministero sacerdotale.
Gli sposi, a loro volta, devono diventare per il prete
come la figura concreta del suo dono nuziale alla Chie­
sa, mentre il prete deve potersi sentire corroborato nella
sua consacrazione alla Chiesa dall’esempio della loro reci­
proca dedizione. Il prete deve poter vedere, nella fedeltà
degli sposi, una motivazione per la sua fedeltà al dono
totale di sé alla Chiesa, sicché la rottura del suo celibato
può assimilarsi ad una forma di adulterio. Anche se a
proposito del celibato sacerdotale esistono tradizioni
diverse in seno alla stessa Chiesa cattolica, bisogna rico­
noscere che il cuore del prete può difficilmente concilia­
re il dono totale di sé alla Chiesa con la dedizione ad una
moglie. È del resto noto come l’ordinazione di uomini
sposati (presso i cattolici melchiti o maroniti, ad esem­
pio) non sia scevra da difficoltà, non sempre e in primo
luogo di ordine pratico. Il fatto che, secondo una tradi­
zione costante fin dai primi secoli della Chiesa, la pienez­
za del sacramento dell’ordine, l’episcopato, non sia mai
conferito a uomini sposati, sta a indicare che quando la
conformazione a Cristo è totale, similmente dev’essere la
consacrazione alla Chiesa-Sposa. Questa è una visione
che i cattolici condividono con i fratelli ortodossi.

Il prete e gli sposi

Si coglie così il carico simbolico che la presenza del


prete riveste nella celebrazione del sacramento del ma-

130
trimonio. Nella Chiesa cattolica gli sposi sono consi­
derati i veri ministri del loro sacramento, che essi si
conferiscono reciprocamente in presenza del prete, te­
stimone ufficiale della Chiesa. Ma la presenza del prete
non va intesa, in prevalenza ed esclusivamente, in senso
giuridico: se egli è testimone privilegiato del matrimo­
nio, è perché rappresenta Gesù Cristo-Sposo dinanzi
agli sposi.
Attraverso il loro patto matrimoniale, gli sposi fon­
dano una famiglia chiamata a essere una “piccola Chie­
sa”, nel quadro della grande Chiesa. E dunque signifi­
cativo il fatto che il prete, configurato al Cristo-Sposo
dal sacramento dell’ordine, assista come rappresentan­
te di Cristo alla costituzione di una nuova “piccola
Sposa di Cristo”, qual è la famiglia. In questa funzio­
ne, il prete fa ben più che assistere al matrimonio o
gestirne la celebrazione: vi presiede realmente, in per­
sona Christi, quale rappresentante di Cristo, unico Spo­
so della Chiesa. In qualche modo, con il loro impegno
totale nel matrimonio, gli sposi confermano il prete nel
dono totale di se stesso alla Chiesa.
Si comprende, allora, quale grande occasione di gio­
ia sia per un prete la celebrazione di un matrimonio, il
sacramento che mentre dà vita ad una «chiesa dome­
stica» (Lumen gentium, n. 11) ricorda a lui la sua con­
sacrazione nuziale come prete-sposo con la Chiesa-
Sposa. Si comprende anche perché, nella preparazione
dei fidanzati al matrimonio, oltre alla collaborazione
dei laici, specialmente se sposati, sia prezioso - e sotto
certi aspetti insostituibile - il coinvolgimento del prete.
Egli è 11 per formarli e prepararli a quel dono nuziale
di sé che il suo sacerdozio incarna e rivela. Pur non es­

131
sendo ministro proprio del matrimonio, il prete è la fi­
gura principale del sacramento: figura di Cristo e della
Chiesa che gli sposi devono poter riconoscere in lui. La
Chiesa ha bisogno di preti che celebrino la grandezza
dell’amore umano nelle nozze. Il loro sacerdozio non
può mai significare una negazione, un rifiuto, ancor
meno un disprezzo di quell’amore; al contrario, nella
luce delle nozze di Cristo e della Chiesa - il “grande
mistero/sacramento” evocato da san Paolo (Ef 5,32) -
ne costituisce il pieno compimento.
Oggi più che mai la Chiesa ha bisogno di preti che
siano pastori dell’amore umano, che abbiano l’audacia di
“amare l’amore umano”. Modello anche in questo, così
Giovanni Paolo II si confidava al giornalista Vittorio
Messori: «Bisogna preparare i giovani al matrimonio,
bisogna insegnare loro l’amore. L’amore non è cosa che
s’impari, e tuttavia non c’è cosa che sia così necessario
imparare! Da giovane sacerdote imparai ad amare l’amore
umano. Questo è uno dei temi fondamentali su cui con­
centrai il mio sacerdozio, il mio ministero sul pulpito,
nel confessionale, e anche attraverso la parola scritta»1.
Così, gli sposi e il prete sono chiamati a offrirsi un
mutuo sostegno nella donazione di sé. Il prete potrà
vedere, negli sposi, l’espressione viva della sua consacra­
zione, come gli sposi potranno riconoscere nel prete la
figura perfetta dello sposo. Nessuna opposizione fra lo
stato di vita del prete e quello degli sposi, bensì due
modalità diverse e complementari di vivere l’unica vo­
cazione sponsale della persona, come ci ricorda il Con­
cilio: «L’uomo, il quale in terra è la sola creatura che

1V. Messori, Varcare la soglia della speranza, Mondadori, 1994, p. 138.

132
Iddio abbia voluto per se stesso, non può ritrovarsi
pienamente se non attraverso un dono sincero di sé»
( Gaudium et spes, n. 24).
Il prete però gode di un privilegio speciale. In quan­
to battezzato e membro della Chiesa, riguardo a Cristo-
Sposo egli è nella condizione della sposa che accoglie
in dono il suo sposo. Ma essendo conformato median­
te il suo sacerdozio a Cristo-Sposo, egli si trova anche
nella condizione dello sposo totalmente offerto alla
sposa. Suprema dignità del prete, che esige in cambio
la piena consacrazione della sua vita! Mistero immen­
so e insondabile, che trascende tutti i limiti e le pover­
tà di quanti godono del sublime privilegio della voca­
zione sacerdotale.

Matrimonio, ordine ed eucaristia

Sposi e sacerdoti devono sentirsi uniti da un forte


legame spirituale, radicato nel rapporto sponsale tra
Cristo e la Chiesa. I preti sono servitori dell’eucaristia,
fonte e culmine della vita cristiana: «Essi soprattutto
esercitano la loro funzione sacra nel culto o assemblea
eucaristica» (Catechismo, n. 1565). In virtù del loro sa­
cerdozio, essi cooperano con Cristo per edificare la
Chiesa quale Sposa di Cristo, santificandola con l’ac­
qua del battesimo, purificandola mediante la riconci­
liazione, rendendola «santa e immacolata» (Ef 5,27),
nutrendola con l’eucaristia, avendone cura attraverso
l’insegnamento e la predicazione, affinché essa sia in
grado di ricevere il dono dello Sposo nell’ultimo gior­
no: giorno che l’eucaristia annuncia e di cui è primizia.

133
Gli sposi rappresentano, con tutta la loro vita, l’unio­
ne nuziale di Cristo e della Chiesa, e prefigurano così
la condizione futura dell’umanità pienamente compiu­
ta nel Regno, quando la sete di comunione che ci carat­
terizza come persone sarà pienamente saziata dal dono
che Dio farà di se stesso alla nostra umanità risuscitata.
L’eucaristia li conforta e li fortifica, mentre essi attra­
verso il dono di sé esprimono l’unione eucaristica di
Cristo con la sua Chiesa, nell’attesa della venuta del
Regno in cui Cristo sarà definitivamente stabilito come
Capo e Sposo dell’umanità. Gli sposi hanno la voca­
zione a manifestare, nell’articolazione di una vita ge­
nuinamente cristiana, ciò che l’eucaristia significa e
annuncia. Con la loro vita e il loro esempio essi con­
fortano la missione del prete in quanto ministro/servo
dell’eucaristia: nella mediazione eucaristica, prete e
sposi si ritrovano uniti da un legame misterioso e pro­
fondissimo.
Quando due genitori hanno la grazia di poter offri­
re uno dei propri figli alla Chiesa, accompagnandolo
nella risposta alla vocazione sacerdotale, il loro matri­
monio raggiunge una nuova pienezza di significato,
quasi un modo privilegiato di esprimere l’unione spon­
sale di Cristo e della Chiesa. Essi, che avevano espres­
so il loro reciproco dono durante la messa nuziale, po­
tranno rinnovare quell’offerta in occasione della prima
messa del loro figlio, il quale, in virtù della grazia del
suo sacerdozio, è ora realmente “identificato” con l’uni­
co Sposo della Chiesa. Mistero sublime di due offerte
di sé che si richiamano vicendevolmente!
Donare un figlio sacerdote alla Chiesa di Gesù Cri­
sto, è il più grande contributo che gli sposi possano

134
offrire all’avvento del Regno di cui, proprio in forza del
loro matrimonio, sono diventati “profeti”. Attraverso la
loro offerta, se da un lato rinunciano alla gioia di vede­
re un giorno i “figli della carne” dei propri figli, dall’al­
tro contribuiscono mirabilmente alla fecondità della
Chiesa, grazie al ministero sacerdotale del loro figlio.
Non è solo perché la Chiesa ha bisogno di preti, che
gli sposi dovrebbero chiedere la grazia che qualche
vocazione sacerdotale sbocci anche nella loro famiglia.
È soprattutto perché, favorendo il dischiudersi di quel­
la vocazione, sostenendola e accompagnandola nel cor­
so della sua delicata maturazione, essi realizzano in
sommo grado il “segno” che fonda e caratterizza il loro
matrimonio.

135
Schema XI

I SEGRETI DELLA PERFEZIONE

«I consigli evangelici aiutano indubbiamente a


raggiungere una più piena carità. Pertanto, chiunque
la raggiunge [...] perviene a quella perfezione che sca­
turisce dalla carità, mediante la fedeltà allo spirito di
quei consigli».
(G iovanni Paolo II, Udienza del 14 aprile 1982)

La povertà

La vita religiosa è stata spesso considerata un via pri­


vilegiata di santità, nella misura in cui permette, meglio
di altri stati di vita, di esercitare con una particolare
radicalità i consigli evangelici di povertà, castità e obbe­
dienza.
Da parte sua, il Catechismo della Chiesa Cattolica,
promulgato nel 1992 da Giovanni Paolo II, ha cura di
precisare che «i consigli evangelici sono, nella loro mol­
teplicità, proposti ad ogni discepolo di Cristo» (n. 915).
E ancora: «La distinzione tradizionale tra i comanda-
menti di Dio e i consigli evangelici si stabilisce in rap­
porto alla carità, perfezione della vita cristiana. I pre­
cetti mirano a rimuovere ciò che è incompatibile con
la carità. I consigli si prefìggono di rimuovere ciò che,

137
pur senza contrastare con la carità, può rappresentare
un ostacolo al suo sviluppo. I consigli evangelici espri­
mono la pienezza vivente della carità, sempre insoddi­
sfatta di non dare di più. [...] I consigli indicano vie più
dirette, mezzi più spediti e vanno praticati in confor­
mità alla vocazione di ciascuno» (n. 1973s.).
Una certa tradizione spirituale ha portato a ritenere
che solo la vita religiosa favorisca la pratica di questi
consigli, e di conseguenza essa sola consenta di accede­
re alla santità, cioè alla perfezione della carità. Lo stato
matrimoniale, per il fatto che renderebbe particolar­
mente difficile la pratica dei consigli evangelici, rara­
mente è stato considerato un mezzo che facilita il cam­
mino della santità, anche se non lo intralcia del tutto.
Possiamo esserne così sicuri? Gli sposi, nella misura in
cui si impegnano nel matrimonio come in una rispo­
sta ad un’autentica vocazione cristiana, non sono an-
ch’essi chiamati a praticare quei consigli evangelici in
una maniera particolare, forse non meno esigente ri­
spetto ai religiosi?
Quanto alla povertà, mentre i religiosi e le religiose
s’impegnano con il voto a non possedere nulla di pro­
prio, gli sposi non sono chiamati a praticare - salvo
particolari eccezioni, che meritano un attento discerni­
mento - questa povertà radicale. Hanno infatti il do­
vere di costituirsi un patrimonio, risultato del loro
lavoro, ed eventualmente conservare e valorizzare un
patrimonio ricevuto dai loro genitori per poi trasmet­
terlo ai propri figli. Tutto ciò è motivato dal dovere di
assicurare alla propria famiglia una relativa e ragione­
vole sicurezza, così come le comunità religiose hanno
il diritto e il dovere di possedere, collettivamente, quei

138
beni che garantiscono un minimo di sicurezza materia­
le ai loro membri.
Ma anche gli sposi possono vivere come se non posse­
dessero nulla, considerandosi dei semplici amministrato­
ri temporanei dei loro beni. Per essi, l’esercizio della po­
vertà evangelica è commisurato ai doveri che hanno nei
confronti dei figli: assicurare loro un’esistenza decorosa,
fornire un’educazione conveniente, anche finanziando i
loro studi, infine aiutarli a sistemarsi, soprattutto quan­
do a loro volta essi fondano una nuova famiglia. Natural­
mente, dopo avere assolto tutti i doveri verso i figli, ritro­
vano la libertà di una scelta radicale nello spirito di
povertà. Pensiamo a quei genitori che già in anticipo la­
sciano le loro proprietà ai figli, conservando per sé quan­
to è strettamente necessario per non essere di peso. Anche
se non può diventare un principio, e ancor meno un ob­
bligo, un simile comportamento è una magnifica testi­
monianza di povertà cristiana, di quella perfezione della
carità a cui i consigli evangelici sono ordinati.
La specificità nel praticare la povertà evangelica, da
parte degli sposi, si situa anche su un piano che è ad essi
più proprio: quello dell’apertura alla vita. È chiaro, infat­
ti, che se i figli sono una ricchezza, rappresentano pure
un innegabile peso finanziario, anche in ragione del fatto
che le attuali politiche familiari divengono sempre più
evanescenti, riducendosi per lo più ad una semplice poli­
tica sociale nei confronti dei più disagiati. Lasciamo da
parte il fatto che ciò costituisca un’innegabile e grave
ingiustizia, in grado di giustificare anche una battaglia
politica, per concentrarci sulla “spiritualità” dell’acco­
glienza della vita. Conformarsi al consiglio evangelico di
povertà può comportare che si accolgano generosamen­

139
te dei figli, non certo in maniera irresponsabile, ma senza
dare eccessivo peso alla penalizzazione finanziaria legata
a tale scelta. Nell’attuale clima di consumismo sfrenato,
può diventare una scelta particolarmente difficile, che
impone delle rinunce, delle priorità e delle esclusioni (un
alloggio più arioso invece che le vacanze esotiche; la cuci­
na domestica piuttosto che periodiche serate al ristoran­
te; una monovolume familiare al posto della berlina o del
coupé sportivo, ecc.).
Come possono, due genitori, avere la certezza mora­
le di essere sufficientemente generosi su questo punto?
Cosa significa, per essi, tenuto conto delle loro condi­
zioni personali, sociali ed economiche, essere sufficien­
temente aperti alla vita? A queste domande rispondeva
un sacerdote, con umorismo e realismo, in una omelia
di nozze: «...avendo un figlio in più rispetto a quanto
sarebbe ragionevole».
Gli sposi che si aprono generosamente alla vita, oltre
a offrire un’autentica e talvolta eroica testimonianza di
povertà evangelica, esprimono anche una carità vera,
poiché contribuiscono ad accrescere il numero degli elet­
ti della Gerusalemme celeste, per estenderlo a misura del
cuore di Dio. Sotto quest’angolatura, il loro ruolo di
“missionari della vita” diventa complementare alla mis­
sione apostolica dei sacerdoti e dei religiosi, al fine di ren­
dere più reale ed effettiva la “comunione dei santi”.

La castità

Riguardo alla castità, è perfettamente chiaro che tutti


i cristiani - sposati e non - sono tenuti a osservarla, cia­

140
scuno secondo la propria condizione di vita. Lo stato
matrimoniale non orienta le persone sposate verso l’os­
servanza della continenza perfetta - come invece accade
per i religiosi che fanno tale scelta -, ma anche gli sposi,
se vogliono davvero vivere nel mutuo rispetto dei loro
corpi, sono tenuti alla pratica della continenza periodica.
Di cosa si tratta? Semplicemente di astenersi dalle rela­
zioni sessuali nel periodo in cui la donna è feconda, o
anche solo suscettibile di esserlo, nella misura in cui gli
sposi ritengano, in tutta coscienza e libertà, che nella loro
attuale situazione non sia auspicabile, per essi e per la loro
famiglia, concepire un’altra vita. La continenza periodica
è una vera esigenza, alla quale si può essere tentati di sot­
trarsi ricorrendo alla contraccezione. Ma la contraccezio­
ne, soprattutto se abituale e se espone la donna ad un
pericolo per la sua salute - ancora di più se comporta
conseguenze potenzialmente abortive - è e rimane «in­
trinsecamente cattiva» ( Catechismo, n. 2370). Essa com­
porta un disordine morale, la cui gravità deve però esse­
re stimata con prudenza, tenendo conto di particolari
circostanze che possono attenuarla1.

1Conviene essere molto chiari su questo tema dal punto di vista mora­
le, senza che ciò costituisca un giudizio di valore sulle persone:
- Il ricorso a certi mezzi di contraccezione meccanici, come il preser­
vativo maschile e femminile, può costituire una colpa contro il sesto e il
nono comandamento, una trasgressione della castità (cfr. Catechismo, nn.
2514-2533 e 2366-2379). Se tale ricorso è occasionale e senza volontà di
contestare l’insegnamento della Chiesa in merito, può essere una sempli­
ce colpa di debolezza. Se tale ricorso è abituale e compiuto in uno spiri­
to d’insubordinazione (ci si erge a unico giudice della verità morale), può
diventare una colpa di malizia, in sé particolarmente grave.
- Il ricorso ad altri metodi di contraccezione può costituire una colpa
contro il quinto comandamento, che proibisce di uccidere e di attentare
alla salute propria e altrui: essi, infatti, mettono in pericolo la salute della

141
Sovente è più facile rinunciare del tutto all’esercizio
della propria sessualità, che astenersi regolarmente ogni
mese per rispettare i cicli della fertilità femminile, quan­
do una nuova nascita non è desiderabile; oppure per
periodi più lunghi, a scadenza incerta, come in caso di
malattia, di gravidanze diffìcili, di situazioni professiona­
li che costringono ad assenze prolungate. Tutte circostan­
ze nelle quali gli sposi si trovano ad affrontare un’esigen­
za di vita che può confinare con l’eroismo, per cui hanno
bisogno del soccorso della grazia: quella grazia conferita
in particolare dal sacramento del matrimonio, che con­
sente loro - a patto che si rendano ad essa ricettivi - di
realizzare integralmente il dono di sé.
La castità non va considerata come una scelta opzio­
nale, ma come un’esigenza dell’offerta di se stessi, alla
luce dell’apertura alla vita a cui li impegna il loro matri­
monio. «ÀI linguaggio nativo che esprime la reciproca
donazione totale dei coniugi - scriveva Giovanni Pao­
lo II - la contraccezione impone un linguaggio ogget­
tivamente contraddittorio, quello cioè del non donar­
si all’altro in totalità: ne deriva, non soltanto il positivo
rifiuto all’apertura alla vita, ma anche una falsificazio-

donna e attraverso la loro azione anti-nidatoria esercitano anche un effet­


to potenzialmente abortivo (il che è incontestabilmente vero nel caso delle
pillole di ultima generazione). La gravità della colpa è allora accresciuta.
- Occorre notare che la spirale, benché classificata dall’Organizzazion
Mondiale della Sanità fra i contraccettivi, è in realtà uno strumento abor­
tivo, in quanto la sua azione specifica è di natura anti-nidatoria (provoca
un infiammazione della mucosa uterina che la rende inadatta all’impian­
to deirembrione già formato). Lo stesso vale per la cosiddetta “pillola del
giorno dopo”: malgrado il suo nome, che farebbe pensare a un mezzo con­
traccettivo, essa provoca l’espulsione dell’eventuale embrione, causando
un aborto precoce. L’utilizzo di questi strumenti costituisce una colpa con­
tro il rispetto dovuto alla vita, non solo contro la castità.

142
ne dell’interiore verità dell’amore coniugale, chiamato
ad essere un dono totale della persona. La differenza
antropologica, e al tempo stesso morale, che esiste tra
la contraccezione e il ricorso ai ritmi temporali, [...] è
più vasta e profonda di quanto abitualmente non si
pensi e coinvolge in ultima analisi due concezioni della
persona e della sessualità umana tra loro irriducibili»
{Familiaris consortio, n. 32).
La castità coniugale non dev’essere intesa esclusiva-
mente sul piano dell’astinenza, sia pure quella periodi­
ca. Il rispetto del corpo comporta anche il rispetto dei
diritti al corpo, e quindi l’essere disponibili all’unione
dei corpi quando essa è possibile, poiché è in questo
modo che gli sposi consolidano e verificano il loro
amore. Già san Tommaso d’Aquino, nel XIII secolo, af­
fermava che coloro che sono sposati e si astengono dal­
le relazioni sessuali non meritano di essere lodati (cfr.
5. Th., II-II, q. 142, a. 1).
La castità nuziale comporta infine che nel mutuo
dono dei corpi gli sposi non si lascino dominare dalla
concupiscenza, ma lo realizzino in conformità alla vo­
cazione sponsale del corpo: «Entrambi, l’uomo e la
donna, allontanandosi dalla concupiscenza, trovano la
giusta dimensione della libertà del dono, unita alla
femminilità e mascolinità nel vero significato sponsale
del corpo» (Udienza del 4 luglio 1984).

L’obbedienza

Gli sposi possono praticare il consiglio dell’obbe­


dienza? A prima vista può sembrare una questione fuo­

143
ri luogo: i coniugi non hanno un superiore a cui obbe­
dire, come nel caso dei religiosi. Anche l’autorità di un
eventuale padre spirituale, per reale che sia, non li ob­
bliga nello stesso modo di coloro che hanno fatto voto
di obbedienza. A quale obbedienza, dunque, possono
essere tenuti? Semplicemente a quella verso il rispetti­
vo coniuge, ma in funzione dei carismi propri dell’uo­
mo e della donna. Il papa Pio XI, nella sua enciclica sul
matrimonio, evocava l’ordine dell’amore in termini che
possono essere oggi mal recepiti e meritano forse qual­
che commento: «Se l’uomo, infatti, è il capo, la donna
è il cuore; e come l’uno tiene il primato del governo,
così l’altra può e deve attribuirsi come suo proprio il
primato dell’amore» (Casti connubii, I, 2).
La sottomissione reciproca, che Giovanni Paolo II
indica come un’esigenza dell’amore autentico, proibi­
sce ogni specie di sottomissione unilaterale (cfr. Udien­
za dell’11 agosto 1982); non vieta però di tener conto,
in questa sottomissione nell’amore, di ciò che caratte­
rizza la mascolinità e la femminilità. Se la psicologia
maschile è .piuttosto segnata dalla razionalità, la sotto-
missione della sposa deve tenere in considerazione que­
sto segno della vocazione maschile. Inversamente, es­
sendo la psicologia femminile in prevalenza dominata
dal cuore che - al dire di Pascal - «ha delle ragioni che
la ragione non conosce», occorre che il marito ricono­
sca nella moglie quest’autorità del cuore, che è suo pri­
vilegio.
Tutto ciò va considerato con grande delicatezza, nu­
trita dall’amore, e tenendo conto di tutte le sfumature
e colorazioni delle psicologie individuali, però senza
escludere l’esigenza e la radicalità del mutuo dono nella

144
sottomissione reciproca. Le differenze di mentalità e di
psicologia, che caratterizzano la femminilità e la masco­
linità, sono iscritte nella vocazione stessa del corpo, che
è fatto per il dono, e l’obbedienza che gli sposi vicen­
devolmente si devono è una conseguenza del dono al
quale sono chiamati dal loro matrimonio. Per Giovanni
Paolo II, «il corpo, che esprime la femminilità “per” la
mascolinità e viceversa la mascolinità “per” la femmi­
nilità, manifesta la reciprocità e la comunione delle
persone. La esprime attraverso il dono come caratteri­
stica fondamentale dell’esistenza personale» (Udienza
del 9 gennaio 1980). In questa luce, gli sposi possono
considerare le loro differenze psicologiche e di valuta­
zione della realtà, legate alla mascolinità e alla femmi­
nilità, non come elementi di contrapposizione, bensì
come inviti all’ascolto e all’obbedienza reciproca, in
modo da crescere insieme nella perfezione della carità.
A queste condizioni il matrimonio può rappresenta­
re un’autentica via alla santità, e in questa luce rivelar­
si una vocazione terribilmente esigente, a patto che non
la si voglia vivere nella mediocrità o nella “mondanità”
dell’amore. Dal canto suo, la vocazione religiosa rima­
ne una via privilegiata per giungere alla perfezione della
carità, ma non basta abbracciarla per essere ipso facto
perfetti, anche se per sua natura facilita l’accesso alla
perfezione della carità, che caratterizza la santità. «Se,
stando a una certa tradizione teologica, si parla dello
stato di perfezione (status perfectionis), lo si fa non a
motivo della continenza stessa, ma riguardo all’insieme
della vita fondata sui consigli evangelici (povertà, casti­
tà e obbedienza), poiché questa vita corrisponde alla
chiamata di Cristo alla perfezione (“Se vuoi essere per­

145
fetto...”, Mt 19,21). La perfezione della vita cristiana,
invece, viene misurata col metro della carità. Ne segue
che una persona che non viva nello “stato di perfezio­
ne” (cioè in una istituzione che fondi il suo piano di
vita sui voti di povertà, castità e obbedienza), ossia che
non viva in un Istituto religioso, ma nel “mondo”, può
raggiungere de facto un grado superiore di perfezione
- la cui misura è la carità - rispetto alla persona che
viva nello “stato di perfezione”, con un minor grado di
carità» (Udienza del 14 aprile 1982).
Dunque, la santità è possibile anche nel matrimo­
nio, come ha inteso espressamente confermare Giovan­
ni Paolo II con la beatificazione, nell’anno 2001, dei
coniugi Beltrame Quattrocchi. Essa è soprattutto pos­
sibile attraverso il matrimonio, a patto che gli sposi si
impegnino a vivere non secondo lo spirito del mondo,
ma secondo lo spirito dei consigli evangelici, a costo di
essere nel mondo dei segni di contraddizione. «I con­
sigli evangelici - continua Giovanni Paolo II - aiutano
indubbiamente a raggiungere una più piena carità.
Pertanto, chiunque la raggiunge, anche se non vive in
uno “stato di perfezione” istituzionalizzato, perviene a
quella perfezione che scaturisce dalla carità, mediante
la fedeltà allo spirito di quei consigli. Tale perfezione è
possibile e accessibile ad ogni uomo, sia in un “Istituto
religioso” che nel “mondo”» (ivi).

146
Schema XII

CHIAMATI ALLA SANTITÀ

«Tanti uomini e tanti cristiani nel matrimonio


cercano il compimento della loro vocazione. Tanti
vogliono trovare in esso la via della salvezza e della
santità».
(G iovanni Paolo II, Udienza del 2 aprile 1980)

Santità individuale o santità di coppia?

In tutta la storia della Chiesa, fino ai tempi più re­


centi, i cristiani sposati che sono stati elevati agli onori
degli altari, quasi sempre lo furono per ragioni che
poco avevano a che vedere con il loro matrimonio. Ve­
dove che hanno professato i voti dopo la morte del ma­
rito, come la beata Maria dell’incarnazione (1599-
1662), missionaria nel Quebec, o come santa Giovanna
di Chantal (1572-1641), fondatrice delle suore Visi-
tandine; mariti separatisi dalla moglie per poter con­
durre una vita cristiana più esigente, come san Nicola
di Flue (1417-1487), patrono della Svizzera, che lascia
la sua famiglia per vivere da eremita. Lo stesso san Lui­
gi IX (1214-1270), re di Francia, è venerato più che
altro come figura di santità politica. Le mogli sem­
brano contare poco o nulla nella santità di questi mari­

147
ti: Dorotea di Flue, madre di dieci figli, che accetta di
rimanere sola quando l’ultimo ha appena pochi mesi,
è esclusa dalla venerazione, così come Margherita di
Provenza, moglie di Luigi.
Verrebbe da pensare che anche da sposati si può
accedere alla santità, e però malgrado il proprio matri­
monio, non grazie ad esso. Ma questo solo fino a quan­
do Giovanni Paolo II decise di beatificare insieme Luigi
e Maria Beltrame Quattrocchi, il 21 ottobre 2001, e
precisamente in virtù della santità della loro vita di cop­
pia. Già una decina d’anni prima, nel marzo 1992, in
un incontro col clero romano, il papa aveva espresso la
sua ansia di vedere una coppia cristiana portata agli
onori degli altari: «Ho un grande desiderio, nel mio
cuore, ma vedo che i meccanismi della beatificazione
sono ancora lontani da questa possibilità... Quei sup­
porti normali, di cui godono tutti i religiosi e le reli­
giose, beatificati e canonizzati giustamente con meriti,
non esistono per le coppie. Manca questo sostegno da
parte della società ecclesiale, del popolo di Dio... Non
esiste una tradizione in quest’ambito e manca ugual­
mente quel meccanismo umano che è necessario per il
processo di beatificazione e di canonizzazione. Occorre
ripensare tutto questo...».
Si comprende facilmente come le complesse proce­
dure che conducono ad una beatificazione favoriscano
in primo luogo i consacrati, soprattutto fondatori e
fondatrici di istituzioni religiose, che possono benefi­
ciare della mobilitazione delle loro comunità, le quali
vedono in essi - d’altronde legittimamente —un trami­
te per accrescere la loro visibilità. Le coppie possono
beneficiare solo raramente di “sostegni” di questo tipo.

148
Ma il vero problema è più profondo. Si tratta di sa­
pere se la santità è una questione puramente individua­
le, anche per i coniugi, o se può qualificare una coppia
in quanto tale. Si tratta di sapere, soprattutto, se gli
sposi siano tenuti a rispondere insieme e solidalmente
alla loro chiamata alla santità proprio in ragione del
sacramento matrimoniale. Una risposta chiarificatrice
l’ha già fornita il concilio Vaticano II affermando: «Essi
[gli sposi], compiendo in forza di tale sacramento il
loro dovere coniugale e familiare, nello spirito di Cri­
sto, per mezzo del quale tutta la loro vita è pervasa di
fede, speranza e carità, tendono a raggiungere sempre
più la propria perfezione e la mutua santificazione, e
assieme rendono gloria a Dio» ( Gaudium et spes, n. 48).
Bisognava però che gli sposi potessero disporre di
esempi che li convincessero che un simile ideale è con­
cretamente possibile, e che il loro matrimonio - come
ogni matrimonio - è chiamato a realizzarlo. È quanto
Giovanni Paolo II affermò con forza nell’omelia per la
beatificazione dei coniugi Beltrame Quattrocchi: «La
ricchezza della fede e dell’amore degli sposi Luigi e
Maria è una dimostrazione evidente di ciò che il con­
cilio Vaticano II ha affermato a proposito della chiama­
ta di tutti i fedeli alla santità, specificando che gli sposi
perseguono quell’obiettivo seguendo la strada che è
loro propria».
Ciò nonostante, alcune resistenze e obiezioni alla
“vocazione del matrimonio” continuano a sussistere.
Si tratta di cedimenti alla tentazione dell’individuali­
smo spirituale, che fa considerare il matrimonio in
maniera naturalistica, sotto l’angolazione prevalente
di un contratto fra soci che si mettono insieme per la

149
realizzazione di un’opera comune. In questa prospet­
tiva, il matrimonio si riduce ad un’associazione, non
costituisce realmente ed essenzialmente un’opera di
comunione. O, quanto meno, l’aspetto della comu­
nione è considerato come accessorio e opzionale. La
tentazione dell’individualismo spirituale va risoluta-
mente combattuta da tutti coloro che si aspettano che
il loro matrimonio, in quanto tale, li conduca alla
santità.

Contro l’individualismo spirituale

La teologia del corpo, proposta da Giovanni Paolo II,


contiene elementi di antropologia teologica che porta­
no a considerare il matrimonio non solo come una co­
struzione intrapresa da due partner, ma come un’ope­
ra di comunione di due persone che nella dinamica
dell’amore sponsale diventano una sola cosa, andando
oltre le loro personali individualità. La teologia del
corpo prende le mosse dalla risposta di Gesù sulla que­
stione, avanzata dai farisei, del ripudio delle mogli (cfr.
Mt 19,1-9): egli si richiama agli “inizi”, ai racconti
biblici della creazione. «È la risposta [di Cristo] attra­
verso la quale intrawediamo la struttura stessa della
identità umana nelle dimensioni del mistero della crea­
zione e, ad un tempo, nella prospettiva del mistero del­
la redenzione. Senza di ciò non c’è modo di costruire
un’antropologia teologica e, nel suo contesto, una “teo­
logia del corpo”, da cui tragga origine anche la visione,
pienamente cristiana, del matrimonio e della famiglia»
(Udienza del 2 aprile 1980).

150
Nella Genesi viene svelato il mistero dell’uomo e
della donna in quanto persone che, attraverso la comu­
nione di cui sono capaci, sono chiamate a “raffigurare”
la comunione trinitaria delle Persone divine. Giovanni
Paolo II, nel suo commento approfondito al testo gene-
siaco, ci mostra sino a che punto l’immagine di Dio si
è riversata nell’uomo, soprattutto attraverso la chiama­
ta alla comunione, che è iscritta nel suo corpo (maschi­
le e femminile). Il plurale che nel primo racconto intro­
duce la creazione dell’uomo - e che in qualche modo
opera una cesura rispetto alla creazione di tutto ciò che
precede («Facciamo l’uomo a nostra immagine, secon­
do la nostra somiglianza», Gn 1,26) - sembra signifi­
care «che il Creatore si sia fermato prima di chiamarlo
all’esistenza, come se avesse voluto riflettere prima di
prendere una decisione» (Udienza del 12 settembre
1980): la creazione dell’uomo è il momento più solen­
ne di tutta l’attività creatrice di Dio. Sembra voler an­
che significare che è la Trinità stessa delle Persone divi­
ne a essere particolarmente implicata in questo atto
finale, che destina l’uomo e la donna a essere immagi­
ne e somiglianza della comunione trinitaria.
Il progetto divino, che rende l’uomo e la donna
capaci di comunione, fa del matrimonio un “sacramen­
to primordiale” che, posto all’apice di tutta la creazio­
ne, è destinato a svelare nel modo più perfetto possibi­
le l’essere stesso di Dio come comunione assoluta di
Persone, oltre a indicare come il dono della creazione
sia motivato dall’amore. «L’essere umano appare nel
mondo visibile come la più alta espressione del dono
divino, perché porta in sé l’interiore dimensione del
dono. [...] Così, in questa dimensione, si costituisce un

151
primordiale sacramento, inteso quale segno che tra­
smette efficacemente nel mondo visibile il mistero invi­
sibile nascosto in Dio dall’eternità. E questo è il mistero
della Verità e dell’Amore, il mistero della vita divina, alla
quale l’uomo partecipa realmente» (Udienza del 20 feb­
braio 1980). Tale è, sin dagli “inizi”, la sublime voca­
zione dell’uomo e della donna nel matrimonio: voca­
zione che il peccato originale è venuto a minacciare.
Il racconto del peccato delle origini (cfr. Gn 3,1-7
«sembra mettere particolarmente in evidenza il mo­
mento chiave in cui nel cuore dell’uomo è posto in
dubbio il dono. [...] Mettendo in dubbio, nel suo cuo­
re, il significato più profondo della donazione, cioè
l’amore come motivo specifico della creazione e dell’al­
leanza originaria, l’uomo volta le spalle al Dio-Amore,
al “Padre”. In certo senso lo rigetta dal suo cuore. Con­
temporaneamente, quindi, distacca il suo cuore e quasi
lo recide da ciò che “viene dal Padre”: così, resta in lui
ciò che “viene dal mondo”» (Udienza del 30 aprile 1980).
La risposta che Adamo, dopo la sua disobbedienza, dà
a Dio che lo chiama - «Ho avuto paura, perché sono
nudo, e mi sono nascosto» (Gn 3,10) - testimonia la
sua incapacità ormai a vedersi come immagine di Dio,
a comprendersi, insieme alla donna che gli è stata
donata, come figura della comunione delle Persone
divine. «In qualche modo, l’uomo perde la certezza ori­
ginaria della “immagine di Dio”» (Udienza del 14 mag­
gio 1980).
Sta proprio qui la sorgente della tentazione dell’in-
dividualismo spirituale nel matrimonio; una forma di
disperazione nei confronti della vocazione alla comu­
nione delle persone. E d’altronde significativo che il

152
tentatore si sia rivolto alla donna sola, e non ai due, con
una tentazione di natura spirituale: «Sarete come Dio,
conoscendo il bene e il male» (Gn 3,5). È questa la
causa che svia tanti matrimoni dalla santità: una spiri­
tualità individualizzata che sembra più perfetta del­
l’umile realtà della comunione. La redenzione operata
da Cristo, di cui i sacramenti (tra i quali il matrimo­
nio) sono l’efìusione, permette agli sposi di riallacciar­
si - nella concretezza dell’espressione fìsica dell’amore,
e nella realizzazione di una vera comunione spirituale
delle anime - al progetto originario dell’amore di Dio.
Progetto e via di santità da percorrere insieme: un cuore
solo e un’anima sola.
Se la vocazione eterna degli sposi, nel cuore di Dio,
è di riprodurre precisamente l’immagine del suo cuore
trinitario; se la grazia propria del sacramento del matri­
monio è di restaurare, grazie ai meriti dell’incarnazio­
ne redentrice di Cristo, il progetto d’amore degli inizi...
allora è lecito credere che gli sposi, in ragione del loro
dono vicendevole, sono chiamati a essere santi insieme,
non individualmente, dato che il patto coniugale li
impegna solidalmente per l’eternità.

La responsabilità della salvezza dell’altro

Se il matrimonio è una vera vocazione, e se è una via


di santità da percorrere insieme, le conseguenze sono
terribilmente impegnative: lo sposo è in una certa mi­
sura responsabile della salvezza e della santità della sua
sposa, e viceversa. Con l’aiuto della grazia divina, essi
tendono a far convergere i loro desideri, dai più umili

153
ai più elevati, così da formare un solo cuore. Attraverso
la conquista della castità, tendono a formare un solo
corpo, dando concretezza a quel primo canto d’amore
risuonato agli inizi della storia umana: «Ossa delle mie
ossa, carne della mia carne» (Gn 3,23), da Giovanni
Paolo II definito «il prototipo biblico del Cantico dei
cantici». Gli sposi devono tendere anche a divenire una
cosa sola, una sola anima nel più profondo di loro stes­
si, in quel luogo misterioso dove cresce l’intimità più
reale con Colui che è “l’unico Signore”.
Questa dimensione sublime, e insieme misteriosa,
della spiritualità coniugale è stata finora poco esplora­
ta nelle sue conseguenze e richieste, per cui sono anco­
ra pochi gli sposi che ardiscono impegnarsi su tale cam­
mino. E tuttavia l’esperienza di coloro che vivono, per
quanto possibile, una vera comunione coniugale, è lì a
rendere testimonianza. Il corpo degli sposi, elemento
costitutivo dell’unità e dell’individualità delle loro per­
sone, a forza di essere donato non è più, in certo qual
modo, il loro singolo corpo. Così come la loro volon­
tà, donata e “sacrificata” durante lunghissimi anni, li ha
ormai condotti ad una tale condivisione di sentimenti,
giudizi e desideri, al punto da realizzare un’unità per­
fetta di due intelligenze e due volontà che non sono più
dissociabili l’una dall’altra, pur rimanendo distinte.
Il mistero dell’amore sponsale, inteso come espre
sione massima del dono di sé, deve fare i conti, sul pia­
no filosofico, con un duplice paradosso, come lo stes­
so Karol Wojtyla - a quel tempo vescovo ausiliare di
Cracovia e docente universitario —osservava nell’opera
Amore e responsabilità (I960). Come si può uscire dal
proprio “io” per farne dono? E ciò facendo, come non

154
distruggerlo e non svalutarlo, ma al contrario perfezio­
narlo e portarlo a compimento? «In ragione della sua
natura, ogni persona è incomunicabile e inalienabile.
Nell’ordine della natura, essa è orientata verso il pro­
prio perfezionamento di se stessa, tende alla pienezza
del proprio essere che è sempre un “io” concreto. Que­
sto perfezionamento si realizza nell’amore, parallela-
mente ad esso. Ora l’amore più completo si esprime
precisamente nel dono di sé, nel fatto di donare in tutta
proprietà questo “io” inalienabile e incomunicabile»1.
Come risolvere questo paradosso? Semplicemente rico­
noscendo che quanto non è possibile nell’ordine della
natura diventa possibile grazie alla forza misteriosa del­
l’amore.
Questa verità antropologica non si chiarisce piena­
mente che nella visione dell’uomo - maschio e femmi­
na - creato a “immagine e somiglianza” della comunio­
ne delle Persone divine. Si realizza così l’incontro di
due misteri: quello di Dio e quello dell’uomo. Mistero
di un Dio uno e trino, Dio unico in tre Persone, miste­
ro dell’unità nella comunione risultante dal dono tota­
le delle Persone. Come si esprimeva, con vero talento
pedagogico, padre Finet nei suoi memorabili ritiri spi­
rituali: «Il Padre è tutto l’amore dato, il Figlio è tutto
l’amore ricevuto, lo Spirito Santo è tutto l’amore scam­
biato fra il Padre e il Figlio».
Nel matrimonio, in forza del dono iscritto nella loro
anima e nel loro corpo, l’uomo e la donna sono im­
magine di questo mistero. Non smettono di essere se
stessi, e tuttavia sono chiamati a farsi dono totale, dive­

1 Op. cit., p. 70.

155
nendo tanto più se stessi quanto più si offrono vicen­
devolmente, quanto più diventano vicendevolmente
“relativi”. «L’affermazione della persona non è altro che
accoglienza del dono, la quale, mediante la reciprocità,
crea la comunione delle persone» (Udienza del 16 gen­
naio 1980); e così l’uomo e la donna realizzano la pie­
nezza della loro umanità, la loro essenza profonda,
come si esprime il concilio Vaticano II con quella for­
mula mirabilmente concisa: «L’uomo, il quale in terra
è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso,
non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un
dono sincero di sé» (Gaudium et spes, n. 24).

156
Schema XIII

PER FARLA FINITA CO N..

«L’enciclica Humanae vitae ci consente di traccia­


re un abbozzo della spiritualità coniugale. Questo è
il clima umano e soprannaturale in cui [...] si plasma
l’interiore armonia del matrimonio. [...] Questa
armonia significa che i coniugi convivono insieme
neirinteriore verità del “linguaggio del corpo”».
(GIOVANNI P a o lo II, Udienza del 21 novembre 1984)

Il “dovere coniugale”

Quanto è stato detto sul “dovere coniugale”... e quan­


to si è scritto! Un dizionario dei “casi di coscienza” - ri­
salente peraltro al 1714 - recensisce ben cinquantasei
situazioni nelle quali ci si domanda se occorre «rende­
re il dovere coniugale». Neanche a farlo apposta, i casi
che riguardano la moglie superano di gran lunga quel­
li riguardanti gli obblighi dello sposo. Si era giunti a
dire che la sposa era tenuta a onorare il dovere coniu­
gale alla prima sollecitazione del marito, sotto pena di
commettere un peccato grave, poiché rifiutandosi pote­
va esporre il marito al peccato d’incontinenza, quando
non di adulterio.
I mariti potrebbero vedere in ciò un’eccellente ragio­

157
ne per costringere le proprie mogli a soddisfare le loro
pulsioni poco o per nulla controllate. Ma è anche una
ragione in più per non tenere in eccessiva considerazio­
ne il teorema del “dovere coniugale”. Constatiamo,
d’altronde, che l’espressione è praticamente scomparsa
dai moderni manuali di morale: dunque, il dovere
coniugale sembra sia stato seppellito per sempre. Ma è
davvero il caso di rallegrarsene tanto in fretta? Non avre­
mo per caso, come si usa dire, «gettato via il bambino
con l’acqua sporca»? Non esiste forse uno “spirito” del
dovere coniugale, come esiste uno “spirito” del precet­
to domenicale?
Se il dovere di partecipare all’eucaristia, almeno la
domenica, viene visto unicamente sotto l’angolatura
legalista dell’obbligazione, si rischia di scivolare in un
formalismo angusto, quasi farisaico. Possiamo però
considerare quest’obbligo, che la Chiesa ci impone, co­
me un’espressione di misericordia rispetto alla nostra
debolezza. Proprio perché conosce la fragilità del cuore
umano, e come l’amore di Dio in noi possa facilmente
affievolirsi, e persino venir meno —per pigrizia, distra­
zione o noia... -, la Chiesa ci ingiunge questo dovere
quale mezzo per scongiurare il dissolversi dell’amore.
Se la Chiesa enuncia questo precetto, al quale non pos­
siamo sottrarci senza una causa di forza maggiore, col
rischio di peccare gravemente, è perché sa che la paura
della sanzione è l’ultimo riparo da opporre alla nostra
debolezza. In questo senso, la Chiesa si rivela al con­
tempo madre e maestra: mater et magistra.
È possibile considerare il dovere coniugale similmen­
te al dovere domenicale? Infatti, quante ragioni pos­
sono intervenire per trattenerci dagli adempimenti del­

158
l’amore: stanchezza, mancanza di tempo, figli amma­
lati, obblighi sociali, imperativi professionali o impegni
associativi, o semplicemente pigrizia, mancanza di at­
tenzione verso il partner, usura dei sentimenti... Ecco
perché il richiamo al “dovere coniugale” può rivelarsi
salutare: per evitare che si cada, a poco a poco e in ma­
niera insidiosa, nell’indifferenza vicendevole.
Spingiamoci anche oltre, con tutta la delicatezza
possibile, domandandoci: perché l’adempimento del
dovere coniugale merita di essere ricordato, forse, in­
nanzitutto alle mogli? Semplicemente perché esse, a
confronto con i loro mariti, possono fare più facilmen­
te a meno dell’incontro fisico. Possono persino vedere,
in questo astenersi, una maggiore purezza della loro
vita coniugale. Funesta illusione, che il “tentatore” - co­
lui che sin dalle origini rifiuta di servire il progetto
d’amore dell’incarnazione - non mancherà di alimen­
tare. Pericolosa noncuranza della psicologia maschile,
che finge d’ignorare che un uomo può aver bisogno del
rapporto carnale non, in primo luogo, per dare sfogo
alle pulsioni sessuali, ma semplicemente per dire il pro­
prio amore e avere la conferma di essere riamato.
E perché non riconoscere, onestamente, che quan­
do ci si è abituati all’esercizio della sessualità, principal­
mente da parte dell’uomo, i bisogni del corpo diventa­
no più impellenti? Se i mariti sono tenuti a rispettare,
in nome della castità, il corpo delle loro mogli, piegan­
dosi alle esigenze dei cicli di fertilità, non tocca anche
alle spose, sempre in nome della castità, rendersi dispo­
nibili a soddisfare i richiami del corpo dei loro mariti
rendendosi disponibili quando l’unione è possibile?
Così inteso, il “dovere coniugale” diventa un comanda­

159
mento dell’amore vicendevole, e per l’uomo non sarà
più una “scusa” per imporre il suo dominio come riven­
dicazione dei propri “diritti di sposo”.
Benedetto dovere coniugale, che ci ricorda di essere
fatti per il dono totale di noi stessi, quindi anche dei
nostri corpi! Benedetto dovere coniugale, che evitando­
ci di considerarci erroneamente degli angeli, ci ricorda
i diritti dei corpi! Benedetto dovere coniugale, che ci
impedisce di trascurare le esigenze dell’amore reale! Co­
me il dovere domenicale ci invita a mettere l’eucaristia
al centro della nostra vita spirituale, ricordandoci che
essa ha la precedenza su ogni altro possibile modo di
trascorrere il riposo domenicale, così il “dovere coniu­
gale” ci obbliga alla vigilanza, affinché non ci lasciamo
sconsideratamente distogliere da un’intimità fìsica che
è essenziale per tenere in vita il reciproco amore.

Il “rimedio alla concupiscenza”

Nella definizione tradizionale del matrimonio si in­


dicavano le sue finalità primarie - procreazione ed edu­
cazione dei figli - e i fini secondari: mutuo soccorso
degli sposi e “rimedio alla concupiscenza” (remedium
concupiscentiae). Oggi sarebbe davvero difficile prospet­
tare il matrimonio come una vocazione, continuando
però a considerarlo come un sedativo rispetto alle pul­
sioni della libido. Come proporre a dei fidanzati di spo­
sarsi per porre un “rimedio alla concupiscenza”, anche
se si tratta di un fine secondario? Inoltre, lo stesso ter­
mine “concupiscenza” - oltre a essere alquanto datato -
può favorire una fuorviarne visione del matrimonio,

160
quasi che si tratti di una sorta di “sfogo sessuale”, fina­
lizzato a tacitare un istinto troppo esuberante; una sorta
di lasciapassare legalizzato dalla benedizione ecclesiasti­
ca... a condizione che non si pongano ostacoli alla pro­
creazione. E si scomoda anche san Paolo: «E meglio
sposarsi che bruciare [di desiderio]» (ICor 7,9). Una
prospettiva non molto entusiasmante!
Fra l’altro, questo potrebbe favorire, in coloro che
hanno difficoltà a controllare i propri impulsi, l’idea
che con il matrimonio tutto si aggiusterà. Davvero un
grave errore! Il controllo di sé - la castità - è più dif­
ficile nel matrimonio che nel celibato, il quale non è
esposto alle stesse tentazioni. A preti, religiosi e religio­
se che ne dubitassero, basti ricordare che non hanno
una moglie o un marito nel loro letto tutte le sere! Mol­
to più del celibato, il matrimonio è sottoposto a con­
tinue “tentazioni della carne”, ed è normale che sia così.
L’esercizio dell’attività sessuale, sano ed auspicabile nel
matrimonio, ingenera abitudini, suscita e alimenta fan­
tasie, da cui sono solitamente risparmiate le persone
che vivono nel celibato, purché la loro vita sia sufficien­
temente ordinata. Con ciò non si vuole dire, evidente­
mente, che l’osservanza della castità nel celibato non
comporti le sue lotte, soprattutto al giorno d’oggi.
È stato davvero opportuno che la Chiesa eliminas­
se, dalla definizione canonica del matrimonio, l’espres­
sione “rimedio alla concupiscenza”? Fino a che punto
possiamo rallegrarcene? Non vorremmo si procedesse,
anche qui, un po’ troppo in fretta. Forse esiste una pos­
sibilità di restituire il giusto valore al remedium concu-
piscentiae, a condizione di non ritenere che la possibi­
lità di avere rapporti sessuali nel matrimonio costituisca

161
di per sé il rimedio più efficace. Occorre ribadirlo: il
matrimonio non è fatto per placare la sete di rapporti
sessuali, che peraltro non fa che stimolare. Che cosa,
dunque, all’interno del matrimonio può fungere da ri­
medio alla concupiscenza? E, innanzitutto, che cos’è la
concupiscenza?
La concupiscenza è quel marchio, lasciato dal pec­
cato delle origini, che ci porta a ricercare la felicità nel­
l’eccesso dei beni del mondo: gli averi, il potere, il godi­
mento. È la “triplice concupiscenza” o bramosia che san
Giovanni evoca nella sua prima lettera: «Perché tutto
quello che è nel mondo - la concupiscenza della carne,
la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita -
non viene dal Padre, ma viene dal diavolo» ( 1Gv 2,16).
La concupiscenza della carne è, propriamente, la
ferita apertasi nel cuore dell’uomo al momento del pec­
cato originale, e che lo spinge a servirsi degli altri in
funzione del proprio piacere egoistico, a strumentaliz­
zarli, a dominarli. A questa concupiscenza è sottoposto
ogni essere umano, uomo o donna; ma sono soprattut­
to coloro che vivono nello stato matrimoniale a essere
particolarmente esposti alle tentazioni dell’appetito ses­
suale.
Il sacramento del matrimonio procura, a quanti so­
no chiamati a questa vocazione, una grazia speciale che
li fortifica in ordine alle tentazioni della carne. Questa
grazia è detta “sanante”, in quanto viene a “curare” le
ferite inferte al cuore umano dal peccato. Non è dun­
que l’uso del matrimonio, ovvero l’attività sessuale in
se stessa, a offrire un rimedio alla concupiscenza, bensì
la grazia del sacramento, in grado di estirpare a poco a
poco le radici della concupiscenza dai cuori degli sposi,

162
a condizione che essi si rendano ricettivi rispetto a que­
sta grazia.
È per i meriti della redenzione di Cristo, per effetto
della grazia che sgorga dal suo cuore misericordioso,
che i coniugi cristiani diventano capaci di vivere inte­
gralmente la loro vocazione al matrimonio nel dono
totale di sé, compresa l’offerta gioiosa dei corpi.

Cos>\è apermesso» , cos>\e « vietato


• . . »

Le persone sposate si interrogano rispetto alla legit­


timità, nei loro rapporti fisici, di certi gesti, baci o ca­
rezze. Questioni delicate e intime, in merito alle quali
il più delle volte non osano aprirsi con un sacerdote
(come potrebbe capire? potrebbe rimanerne turbato...),
e che, in mancanza di risposte chiare, alimentano uno
stato di cattiva coscienza o anche un confuso senso di
colpa.
Ci si scontra qui con una duplice difficoltà. Innan­
zitutto, quella del formalismo o legalismo: voler tradur­
re tutto in termini di “permesso/vietato”. La tentazione
è quella di poter disporre di norme chiare e obiettive,
atte a tranquillizzare la coscienza se osservate, e di tur­
barla se trasgredite. Nello stesso tempo, si percepisce
che simili norme rimangano in qualche modo esterne
alle persone, quasi mai potendosi adattare alla singola­
rità delle loro esperienze, dell’educazione, della sensi­
bilità, del temperamento. Inoltre, una cosa “permessa”
non sempre è anche opportuna. La delicatezza nell’or­
dine della carità —che deve manifestarsi anche, e forse
soprattutto, nell’espressione fisica dell’amore - esige

163
che si corrisponda alle attese del partner in quel preciso
momento, piuttosto che attenersi unicamente ad una
norma formale ed esteriore.
La seconda difficoltà viene dalla differente sensibili­
tà, nell’uomo e nella donna, rispetto agli atti concreti
dell’intimità sessuale. Per quanto la sensualità di una
donna possa essere sviluppata, è solitamente meno “ses­
suale” di quella dell’uomo, ed ella può, se non sentirne
ripugnanza, essere quanto meno infastidita o turbata
da particolari azioni o carezze, procurate o sollecitate.
L’uomo, dal canto suo, può provare frustrazione e in­
soddisfazione per gli stimoli che non trovano risposta
o incontrano reticenza e riserbo.
Questo ci mostra il limite delle norme esteriori in
materia. Non tutto va bene per tutte le coppie; mentre
in una coppia le cose possono venire percepite diversa-
mente dall’uomo e dalla donna. Si rende quindi neces­
saria la luce di un principio, che si può formulare nella
maniera seguente: «Tutto ciò che contribuisce, da vi­
cino o da lontano, alla vera comunione carnale degli
sposi, è buono, sano, legittimo, e deve essere ricercato
e procurato; mentre tutto ciò che, da vicino o da lon­
tano, induce a ripiegarsi su un godimento egoistico o
a esercitare un dominio dell’altro, è nefasto e dev’essere
evitato». Vi sono almeno sette aspetti da considerare.
1. Da lontano: si va dai vestiti - compresa la bian
cheria intima... - alle manifestazioni di tenerezza. Per
una donna, la biancheria di qualità non è un lusso!
Non è una buona sposa cristiana quella che si riduce a
indossare sotto gli abiti delle mises in grado di raffred­
dare l’ardore dello sposo. Un buon profumo - quello

164
che piace anche al partner - e un’accurata igiene per­
sonale sono elementi importanti per ben disporre al­
l’unione. L’uomo, da parte sua, deve capire, e ammet­
tere, che per una donna i gesti di tenerezza - un mazzo
di fiori, un’attenzione, un servizio reso... - costituisco­
no un preludio importante in vista del suo pieno do­
narsi nell’atto sessuale, anche se non imminente.
2. Da vicino: si tratta di quei preliminari immedia
ti, per nulla facoltativi, soprattutto per la donna, che
preparano i corpi all’unione. Al riguardo, è legittimo
tutto ciò che dispone alla vera comunione, mentre va
evitato, poiché riprovevole, tutto ciò che esprime solo
un ripiegamento egoistico sul proprio piacere perso­
nale. E dunque necessario un sereno discernimento,
peraltro non sempre facile, al quale soltanto un’auten­
tica vita spirituale può disporre. Spetta a ciascuno degli
sposi distinguere con chiarezza - e persino impietosa­
mente - ciò che è manifestazione di puro egoismo da
ciò che favorisce la realizzazione di una piena e gratifi­
cante comunione. È in questa luce che alcune carezze
o baci, anche molto intimi, possono essere buoni e op­
portuni, non solo perché desiderati da entrambe le par­
ti, ma perché favoriscono la comunione. D’altra parte,
il fastidio che certi gesti possono suscitare in una parte
o nell’altra, non è il criterio unico per stabilire ciò che
conviene o non conviene fare. Il fastidio può semplice-
mente derivare da una insufficiente accettazione del
proprio corpo, o da una riluttanza a offrirsi compieta-
mente. È vero, peraltro', che un certo “addestramento”
in ordine all’acquisizione di una vera libertà dei corpi
può rivelarsi impresa faticosa, forse destinata a prolun­

165
garsi negli anni. E questo ancor di più quando si fos­
sero verificate, nella storia di uno dei due, delle ferite
di ordine sessuale, le quali impiegano lunghissimi anni
a guarire del tutto.
3. Nel favorire la comunione, hanno un ruolo im­
portante anche la prudenza e il senso della misura. Cer­
te carezze intime procurate alla sposa, che le risveglino
il piacere ancor prima che l’unione dei corpi sia com­
pleta, possono diventare un ostacolo alla piena comu­
nione; infatti la donna, essendo già soddisfatta, potreb­
be non provare lo stesso desiderio di accogliere in sé lo
sposo. Bisogna tener presente che i preliminari sono dei
preliminari... all’unione, sicché non dovrebbero mai di­
ventare talmente impegnativi al punto da essere ricerca­
ti più per se stessi e per il piacere che procurano, piut­
tosto che in vista dell’unione. È una possibile deriva
sulla quale occorre seriamente vigilare.
4. La comunione è effettivamente completa quando
è aperta alla vita. Non può nascere comunione auten­
tica dagli atti che distolgono il dono del corpo dalla sua
finalità, oppure volontariamente lo privano di questa
finalità. Ecco perché, al di là del problema “contracce­
zione” (v. Schema X), le carezze, i baci o pratiche che
evitino al seme maschile di accedere al ricettacolo vagi­
nale vanno rigorosamente evitate.
5. La vera comunione sponsale esclude ogni forma
di dominio. Può tuttavia verificarsi una sottile forma di
prevaricazione nei confronti del partner, nel cercare di
“farlo godere”. Se il piacere sessuale è qualcosa di buo­
no che si può - e persino si deve - legittimamente ri­
cercare, non divenga mai un’occasione per approfìtta-

166
re della vulnerabilità dell’altro... per il fatto che prova
piacere. Anche nella scelta delle posizioni, è preferibile
ciò che meglio predispone alla comunione, nel concor­
so di tutti i sensi, in particolare attraverso lo scambio
degli sguardi. A tale riguardo conviene agire con una
certa libertà, dalla quale non va esclusa l’inventiva, an­
che se bisogna riconoscere che certe posizioni sono
obiettivamente umilianti, sia per l’uomo sia per la don­
na. Occorre sempre chiedersi se ci si muove in una logi­
ca di dominio, invece che ricercare la vera comunione.
6. Il piacere non è un fine, ma un frutto. Il fine del­
l’unione fisica è il massimo della comunione, non il
massimo del piacere. Possono esserci incontri fìsici che
non raggiungono pienamente il piacere, ma sono in
grado di generare la comunione. Inversamente, l’espe­
rienza dimostra che si può raggiungere il parossismo
del piacere senza che si pervenga a una piena comunio­
ne. In compenso, la comunione realizzata conferisce un
sapore del tutto particolare al piacere, che diventa vera
gioia dei corpi.
7. Mirare alla comunione più compiuta, esige vero
ascolto e aperta attenzione per il partner. La personale
disponibilità all’incontro dei corpi può venire condi­
zionata, di volta in volta, da molteplici fattori (ai quali,
in genere, la donna si mostra più sensibile): clima,
luogo, tensione psichica, ciclo mestruale, preoccupa­
zioni varie, stanchezza... Ne risulta che non si può spe­
rare di realizzare vera comunione - dei corpi e delle
anime - attraverso una cupa e abitudinaria ripetizione
dei gesti amorosi. Esprimere le proprie attese, tener
conto di quelle altrui, fare dono sincero del proprio

167
corpo (non solo “prestarsi”)» mostrare inventiva, prova­
re a sorprendere... - sono tutte esigenze di un autenti­
co vissuto amoroso.
Occorre acquisire, rispetto a questi argomenti, una
serena capacità di discernimento, come risultato di
un’autentica maturità spirituale e affettiva. Si capisce
allora come la pretesa di regole esterne e formali in ter­
mini di “permesso/vietato” sia illusoria. Nella realtà
tutto dipende dalle persone, dalla loro situazione, dalla
loro sensibilità, dalla loro educazione, dalla loro storia,
dai periodi della vita. È esclusivamente nell’atto del
vicendevole dono dei corpi, ogni volta nuovo e diffe­
rente, che occorre mettere in atto - sotto lo sguardo di
Dio - questa preziosa capacità di discernimento, quale
risposta agli obblighi di carità derivanti dalla specifica
vocazione sponsale.

168
Conclusione

L’INESAURIBILE
TESO RO DELLA CHIESA

«Le linee essenziali della spiritualità coniugale


sono “dal principio” iscritte nella verità biblica sul ma­
trimonio».
(G io v a n n i P a o lo II, Udienza del 14 novembre 1984)

Non si conclude mai uno schema... Lo si riprende, lo


si precisa, lo si perfeziona, lo si sviluppa, lo si porta a
compimento; oppure lo si accantona, lasciandolo al sem­
plice stato di abbozzo. Toccherà a coloro che leggeranno
queste pagine decidere se convenga spingersi oltre e più
in profondità, di quanto abbia potuto fare l’autore. Se lo
faranno, sarà assumendo nella loro vita coniugale le pro­
spettive che qui sono state delineate solo in modo sfu­
mato, come semplici schizzi al carboncino.
Ciò che senza dubbio potrà restare, quale prezioso
materiale di riferimento, è il vasto sfondo dottrinale
elaborato da Giovanni Paolo II in quella che egli stes­
so ha definito una “teologia del corpo”. La Chiesa e i
cristiani impiegheranno forse molto tempo ancora prima
di coglierne e dispiegarne tutta la ricchezza, di esplo­
rarne tutte le sfaccettature, di gustarne tutti i sapori, di
assumerne tutte le conseguenze, sia spirituali che teo­

169
logiche. Certo è che adesso, e da un quarto di secolo,
grazie a questo insegnamento la Chiesa dispone di soli­
de basi per la messa a punto di una vera e specifica spi­
ritualità a beneficio delle persone sposate.
A tale riguardo, sia permesso all’autore di queste pa­
gine esprimere un convincimento, che in realtà è una
speranza: tutto ciò sarà probabilmente realizzato, nella
Chiesa, non dal lavoro di teologi ecclesiastici, ma dalla
dedizione illuminata di semplici laici - il che non
impedisce che siano muniti delle competenze teologi­
che necessarie -, i quali testimonieranno così il ruolo
della missione che il concilio Vaticano II ha riconosciu­
to loro nell’apostolato della Chiesa.
Si tratta, in effetti, di un’opera grandiosa ancora
sempre “in cantiere”, il cui compimento avverrà solo
nel Regno. Allora, finalmente, sarà pienamente svelato
ciò che noi per ora possiamo soltanto indovinare e so­
spettare, e sarà proclamato ciò che per ora possiamo
soltanto balbettare. Allora lo “schema” lascerà il posto
all’opera di Dio stesso, pienamente manifestata, per
l’eternità.

170
Appendice

CO M PEND IO
DI TEO LO G IA D EL CORPO

Gli schemi di spiritualità coniugale fin qui proposti


s’ispirano alla teologia del corpo a cui Giovanni Paolo II
agli inizi del suo pontificato - per oltre cinque anni, dal
5 settembre 1979 al 28 novembre 1984 - ha dedicato
le “Udienze generali del mercoledì”. Un insegnamento
interrotto solo in occasione dei suoi viaggi apostolici e
durante i mesi necessari a ristabilirsi in seguito all’at­
tentato subito in Piazza San Pietro il 13 maggio 1981;
oltre che durante l’Anno Santo 1983, quando per le sue
catechesi privilegiò il tema della redenzione. In totale,
129 discorsi e quasi 800 pagine di testo: il più vasto
insegnamento pontificio mai dedicato da un papa a
questo tema in tutta la storia della Chiesa.
Un insegnamento qualificato come «magistero ge­
niale» dal cardinale Angelo Scola, quand’era rettore
della Pontifìcia Università Lateranense, e come auten­
tica «bomba teologica a orologeria» da George Weigel,
apprezzato biografo di Giovanni Paolo II1. Weigel non
teme di affermare che questa teologia del corpo «sarà
probabilmente guardata come una svolta, non solo nel­

1 G. Weigel, Testimone della speranza. La vita di Giovanni Paolo //, 2 vol


Mondadori, 2005.

171
la teologia cattolica, ma anche nella storia del pensiero
moderno». Paradossalmente, quest’insegnamento non
è arrivato alla gran parte del popolo di Dio nel momen­
to in cui veniva offerto. Solo da qualche anno si è co­
minciato a scoprirne la formidabile portata teologica.
È sicuramente un’impresa voler presentare in poche
pagine un’idea di questa dottrina2, abbastanza comples­
sa e di non facile accesso, ma si può tentare di metter­
la a fuoco seguendo l’asse trasversale rappresentato dai
supporti biblici utilizzati dal papa per strutturare l’in­
sieme del suo insegnamento. Egli parla di un «trittico
degli enunciati di Cristo stesso: un trittico di parole
essenziali costitutive della teologia del corpo». Questo
trittico è coronato, e come illuminato, dal commento
innovativo che Giovanni Paolo II offre del capitolo
quinto della lettera di san Paolo agli Efesini, dove il
matrimonio è visto nella prospettiva della redenzione
del corpo, come figura del vincolo sponsale tra Cristo
e la Chiesa.
L’espressione «trittico di parole essenziali» impiega­
ta da Giovanni Paolo II è particolarmente ricca di sen­
so. Un trittico è una composizione in tre quadri le cui
tematiche sono correlate le une alle altre e si chiarisco­
no reciprocamente. Il trittico biblico della teologia del
corpo si compone di tre passi del Vangelo di Matteo
(presenti anche negli altri due Sinottici):
- Matteo 19,3-8: la risposta di Gesù ai farisei in me­
rito al ripudio delle mogli, che invita a considerare il

2 Per ulteriori approfondimenti, più completi e più pedagogici, dell


teologia del corpo, si legga, dello stesso autore, La sessualità secondo
Giovanni Paolo 11\ San Paolo, 2007, 3a ed.

172
progetto originario di Dio sull’unione dell’uomo e del­
la donna attraverso i racconti della Genesi.
- Matteo 5,27-28'. il passo del Discorso della mon­
tagna a proposito dell’adulterio commesso nel cuore,
che invita a considerare il cuore dell’uomo ferito dalla
concupiscenza introdotta dal peccato originale.
- Matteo 22,23-30. la risposta di Cristo ai sadducei
sulla risurrezione dei corpi, a partire dalla quale si deve
cogliere la finalità escatologica del matrimonio e il vero
senso della verginità.

IL PROGETTO ORIGINARIO DI DIO


SULL’UNIONE DELL’UOMO
E DELLA DONNA (Mt 19,3-8)

Primo elemento del trittico: «Allora gli si avvicina­


rono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiese­
ro: “È lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per
qualsiasi motivo?”. Egli rispose: “Non avete letto che il
Creatore da principio lifece maschio efemmina, e disse:
Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà
a sua moglie e i due diventeranno una sola carnei Così
non sono più due, ma una carne sola. Dunque l’uomo
non divida quello che Dio ha congiunto”. Gli doman­
darono: “Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’at­
to di ripudio e di rimandarla?”. Rispose loro: “Per la
durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripu­
diare le vostre mogli; all’inizio però non fu così”».
A due riprese, fa notare Giovanni Paolo II, Gesù
menziona le origini. Alla questione legalistica posta dai

173
farisei: «È lecito...? In quali circostanze si può...?», Gesù
non risponde direttamente, ma rinvia al principio, al-
Xinizio. Per i farisei, conoscitori delle Scritture, questo
riferimento era chiaro: la testimonianza della Genesi
nel duplice racconto della creazione e l’irruzione del
peccato nella storia umana. Seguendo l’indicazione di
Cristo, il papa intraprende uno studio approfondito del
testo genesiaco, gettando su di esso una luce comple­
tamente nuova.
L’espressione centrale del passo evangelico, che ri­
chiama la Genesi, è: «I due diventeranno una sola car­
ne». Con un procedimento esegetico assai minuzioso,
Giovanni Paolo II mostra come sia proprio al momen­
to della scoperta della comunione nei corpi che l’uomo
e la donna diventano a pieno titolo immagini di Dio,
costituiti come capolavoro e coronamento della crea­
zione. Nello stato d’innocenza delle origini, l’atto car­
nale - il dono dei corpi - era destinato a esprimere la
totalità della mutua offerta delle persone. Questa
“vocazione” non è mai venuta meno, anche se per noi
è molto più difficile, e persino impossibile, da incarna­
re senza il soccorso della grazia.
Essere “persona” vuol dire esistere come essere che
si dona, che trova il suo pieno compimento nella
comunione (cfr. Gaudium et spes, n. 24). Nel disegno
originario di Dio, l’uomo e la donna erano destinati a
essere - nella comunione della totalità delle loro per­
sone, quindi anche nella comunione dei corpi -
immagine della comunione delle Persone divine. Dio,
l’Essere uno e trino, è eterna e perfetta comunione di
Persone eterne: il Padre si esprime totalmente nel
Figlio; il Figlio è totale risposta d’amore al Padre; lo

174
Spirito è tutto l’amore scambiato tra Padre e Figlio.
Dio Creatore ha voluto mettere nella carne l’immagi­
ne di ciò che Egli stesso è da tutta l’eternità. Questa è
la vocazione del corpo umano nel progetto di Dio: per­
metterci di essere dono di noi stessi. Il corpo umano,
segnato dal dono, rivela Dio al mondo: «[Il corpo ] è
stato creato per trasferire nella realtà visibile del mon­
do il mistero celato da tutta l’eternità in Dio ed esser­
ne il segno visibile»3.
Dall’approccio esegetico di Giovanni Paolo II al mes­
saggio della Genesi risulta questo dato fondamentale:
l’uomo è l’immagine della comunione delle Persone
divine innanzitutto grazie alla comunione di cui è ca­
pace in quanto persona, molto più che per il fatto di
essere una creatura dotata di spiritualità. In effetti, noi
siamo propensi a pensare che il nostro essere a imma­
gine di Dio sia in ragione delle nostre facoltà spiritua­
li, essendo Dio purissimo Essere spirituale. Ma se fosse
davvero la dimensione spirituale presente in noi a ren­
derci immagini di Dio, gli angeli lo sarebbero assai più
di noi, poiché sono puri spiriti. Ora, per la Genesi non
sono gli angeli a possedere la somiglianza con Dio, ben­
sì l’uomo e la donna. È la loro capacità di comunione
- presupposta e conclusa nella comunione dei corpi -
che li rende simili all’Essere divino nella perfetta comu­
nione della sua vita trinitaria.
La sessualità, considerata nella luce delle origini, è
dunque una realtà fondamentalmente buona: «L’uomo
è divenuto “immagine e somiglianza” di Dio - dice
Giovanni Paolo II —[...] attraverso la comunione delle

3 Udienza del 20 febbraio 1980, n. 4.

175
persone, che l’uomo e la donna formano sin dall’inizio.
[...] L’uomo diventa immagine di Dio non tanto nel
momento della solitudine, quanto nel momento della
comunione. Egli, infatti, è fin “da principio” non sol­
tanto immagine in cui si rispecchia la solitudine di una
Persona che regge il mondo, ma anche, ed essenzial­
mente, immagine di una imperscrutabile divina comu­
nione di Persone»4. Il papa aggiunge: «Ciò [...] forse
costituisce perfino l’aspetto teologico più profondo di
tutto ciò che si può dire circa l’uomo»5.
La condizione originaria, in cui il matrimonio era
stabilito nella santità, è andata irrimediabilmente per­
duta. Fra lo stato d’innocenza della nostra «preistoria
teologica rivelata»6 e lo stato attuale della nostra uma­
nità storica segnata dalle conseguenze del peccato ori­
ginale si erge una «insuperabile barriera». Ciò nono­
stante, quello stato rimane nella profondità del cuore
di ogni uomo e di ogni donna «come un’eco lontana
dell’innocenza originaria»7, una sorta di nostalgia del
progetto creativo divino. E questo fa sì che, al di là di
tutte le nostre povertà, dei nostri limiti, delle nostre
miserie, delle nostre ferite, tutti noi continuiamo a nu­
trire nel nostro intimo il sentimento - e persino la cer­
tezza - di essere chiamati a qualcosa di grande attra­
verso la nostra sessualità. E ciò che, malgrado tutto,
rimane in noi del progetto originario di Dio. «Coloro
che cercano il compimento della propria vocazione
umana e cristiana nel matrimonio, prima di tutto sono

4 Udienza del 14 novembre 1979, n. 3.


5 Ivi, n. 3.
6 Udienza del 26 settembre 1979, n. 2.
7 Udienza del 20 febbraio 1980, n. 2.

176
chiamati a fare di questa “teologia del corpo”, di cui
troviamo il “principio” nei primi capitoli del libro del­
la Genesi, il contenuto della loro vita e del loro com­
portamento»8.

IL CUORE DELL’UOMO FERITO A CAUSA


DEL PECCATO ORIGINALE (Mt 5,27-28)

Secondo elemento del trittico: «Avete inteso che fu


detto: Non commettere adulterio. Ma io vi dico: chiun­
que guarda una donna per desiderarla, ha già commes­
so adulterio con lei nel suo cuore». - Oppure, secondo
una traduzione preferita da Giovanni Paolo II: «Ma io
vi dico: colui che guarda una donna per desiderarla,
l’ha resa adultera nel suo cuore»9. Su questa semplice
frase, non meno di 40 Udienze per oltre un anno (16
aprile 1980 - 6 maggio 1981)! E a ragione: «Il signifi­
cato di queste parole è essenziale per tutta la teologia
del corpo contenuta nell’insegnamento di Cristo»10.
L’adulterio commesso nel cuore è un atto ben defi­
nito: consiste nel guardare per desiderare. È lo sguardo
che si posa sull’altra persona al fine di appropriarsene,
servirsene, trarne soddisfazione. Si potrebbe dire:
sguardo predatore (prevalentemente maschile) o sguar­
do seduttore (prevalentemente femminile); in ogni
caso, un guardare che cattura, che tenta di prendere
laddove si esigerebbe il rispetto assoluto della libertà di

8 Udienza del 2 aprile 1980, n. 5.


9 Udienza del 6 agosto 1980, n. 5.
10 Udienza del 22 ottobre 1980, n. 1.

177
un dono. Giovanni Paolo II utilizza un’espressione
molto giusta e insieme terribile: «Una maniera di
estorcere all’altro essere umano (l’uomo alla donna, e
viceversa) il suo dono, riducendolo interiormente ad
un puro “oggetto per sé”»11. Ci fa così capire che le
parole di Gesù nel Discorso sulla montagna denuncia­
no tutti quegli atteggiamenti che sfociano nella nega­
zione della qualità di un’altra persona in quanto “sog­
getto” del suo dono.
Questa è la conseguenza del peccato in noi: l’insedia­
mento della triplice concupiscenza di cui parla san
Giovanni nella sua prima lettera (cfr. lGv 2,16), in par­
ticolare la concupiscenza della carne. Il ribaltamento è
ben espresso nel versetto della Genesi dove si dice: «Ora
tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non pro­
vavano vergogna» (Gn 2,25). Vale a dire: nello stato d’in­
nocenza, i componenti della prima coppia umana - com­
pimento e capolavoro della creazione - erano capaci di
una totale trasparenza dello sguardo; sapevano vedere nei
segni visibili, somatici della mascolinità e della femmini­
lità altrettanti indizi della loro comune vocazione alla
comunione attraverso il dono di sé. Sperimentavano così
una sorta di giubilo nella contemplazione vicendevole,
rapiti dallo splendore del loro destino di comunione. «Se
“non provavano vergogna”, vuol dire che erano uniti dalla
coscienza del dono, avevano reciproca consapevolezza del
significato sponsale dei loro corpi, in cui si esprime la
libertà del dono e si manifesta tutta l’interiore ricchezza
della persona come soggetto»12.

11 Udienza del 6 febbraio 1980, n. 3.


12 Udienza del 20 febbraio 1980, n. 1.

178
Ed ecco il primo effetto del peccato: «Allora si apri­
rono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi;
intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture» (Gn
3,7). Qui vediamo come per prima cosa il peccato non
corrompa l’atteggiamento nei confronti di Dio - solo
in seguito l’uomo e la donna si nasconderanno dinan­
zi a Lui (cfr. Gn 3,8) -, ma il loro rispettivo atteggia­
mento, ovvero la qualità dello sguardo che si rivolgo­
no reciprocamente. Non è più uno sguardo trasparente,
non riconosce più la vocazione al dono significata dal
corpo della persona che sta di fronte; ormai il suo
orientamento è mutato e vede l’altro come potenziale
oggetto di godimento egoistico: un guardare per desi­
derare.
Il guardare per desiderare è una falsificazione del­
l’unione a cui sono chiamate le persone grazie all’at­
trazione reciproca. È in questo che consiste l’adulte­
rio del cuore di cui parla Gesù: guardare, considerare
l’altro come un “oggetto” e non più come un “sogget­
to”: «Tale adulterio “nel cuore” l’uomo può commet­
terlo anche nei riguardi della propria moglie, se la
tratta soltanto come oggetto di appagamento del­
l’istinto»13.
Quando prende coscienza di questa deviazione del
cuore, l’uomo tende ad accusare il proprio corpo, inve­
ce che riconoscere la condizione problematica del cuo­
re. È qui la fonte di ogni manicheismo, di ogni atteg­
giamento di rifiuto o disprezzo del corpo. Si decentra
la questione all’esterno di sé, sul proprio corpo, che ci
diventa quasi estraneo: «Non sono io, è il mio corpo. /

13Udienza dell’8 ottobre 1980, n. 3.

179
Non sono io, è la libido». Ora, noi non “abbiamo” sola­
mente un corpo, quasi come una proprietà in qualche
modo esterna a noi; noi “siamo” il nostro corpo, ele­
mento costitutivo del nostro essere persona, al pari del­
la nostra anima.
Giovanni Paolo II insiste nel rimarcare che è il cuore
dell’uomo a essere malato per le conseguenze del pec­
cato, e non il suo corpo: il corpo è innocente. Faccia­
mo oltraggio a noi stessi quando accusiamo il nostro
corpo, mentre è il cuore che deve essere esaminato.
L’impurità, in tutte le sue forme, non è un peccato del
corpo, ma un peccato contro il corpo: «Mentre per la
mentalità manichea il corpo e la sessualità costituisco­
no, per così dire, un “anti-valore”, per il cristianesimo,
invece, essi rimangono sempre un “valore non abba­
stanza apprezzato”. [...] Il modo manicheo di intendere
e di valutare il corpo e la sessualità dell’uomo è essen­
zialmente estraneo al Vangelo, non conforme al signi­
ficato esatto delle parole del Discorso della montagna
pronunziate da Cristo»14.
In seguito Giovanni Paolo II affermerà: «Nel Di­
scorso della montagna Cristo non invita l’uomo a ritor­
nare allo stato dell’innocenza originaria, perché l’uma­
nità l’ha irrevocabilmente lasciato dietro di sé, ma lo
chiama a ritrovare - sul fondamento dei significati
perenni e, per così dire, indistruttibili di ciò che è
“umano” - le forme vive dell’“uomo nuovo”. In tal
modo si allaccia un legame, anzi, una continuità fra il
“principio” e la prospettiva della Redenzione»15.

14 Udienza del 22 ottobre 1980, nn. 3 e 5.


15 Udienza del 3 dicembre 1980, n. 3.

180
IL MATRIMONIO COME ANNUNCIO
E PREPARAZIONE DELLA RISURREZIONE
(Mt 22,23-30)

Terzo elemento del trittico: la risposta ai sadducei,


membri di una setta giudaica che non credeva nella
risurrezione dei corpi. Alcuni di questi sottopongono a
Gesù un caso riguardante la legge del levirato, in base
alla quale, se un uomo moriva senza avere avuto figli,
uno dei suoi fratelli doveva sposarne la vedova, così da
assicurare una discendenza al defunto. Dunque, una
donna rimasta vedova senza figli si risposa, ma senza
successo... e così fino al settimo marito. I sadducei do­
mandano: «Alla risurrezione, di quale dei sette lei sarà
moglie? Poiché tutti l’hanno avuta in moglie». Gesù ri­
sponde: «Vi ingannate, perché non conoscete le Scrit­
ture e neppure la potenza di Dio. Alla risurrezione
infatti non si prende né moglie né marito, ma si è come
angeli nel cielo».
Alla risurrezione non esisterà più matrimonio, per
due ragioni. La prima, perché la risurrezione, che av­
verrà quando Gesù Cristo farà ritorno nella gloria, se­
gnerà la fine dei tempi. La storia è compiuta... non c’è
più bisogno di procreare... non c’è più bisogno del
matrimonio. Seconda ragione: noi abbiamo una
visione molto limitata della risurrezione, una visione
troppo naturalistica: confondiamo spesso la risurre­
zione con una speranza naturale d’immortalità. E
un’idea errata, di cui ci dobbiamo disfare: «La risur­
rezione significa non soltanto il recupero della corpo­
reità e il ristabilimento della vita umana nella sua
integrità, mediante l’unione del corpo con l’anima,

181
ma anche uno stato del tutto nuovo della vita umana
stessa»16.
In cosa consiste questo stato totalmente nuovo? Sarà
caratterizzato, dice Giovanni Paolo II, da «un perfetto
sistema di forze nei rapporti reciproci tra ciò che nel­
l’uomo è spirituale e ciò che è corporeo»17. Ciò signifi­
ca che l’opposizione fra le aspirazioni del nostro spiri­
to e i limiti del nostro corpo, di cui facciamo esperienza
in questa vita come conseguenza del peccato originale,
nella risurrezione sarà totalmente superata nel quadro
di un’armonia e di un’unità perfetta tra corpo e spiri­
to. «Nella risurrezione il corpo tornerà alla perfetta
unità ed armonia con lo spirito: l’uomo non sperimen­
terà più l’opposizione tra ciò che in lui è spirituale e ciò
che è corporeo. La spiritualizzazione significa non sol­
tanto che lo spirito dominerà il corpo, ma, direi, che
esso permeeràpienamente il corpo, e che leforze dello spi­
rito permeeranno le energie del corpo»18.
Tutte le nostre facoltà corporali saranno totalmente
compenetrate dalle forze dello spirito, e questo ci porrà
in uno stato superiore a ogni possibile esperienza della
vita terrena. Raggiungeremo così, attraverso la grazia,
la perfezione ultima della nostra divinizzazione. Dice il
papa: «Il grado della spiritualizzazione, proprio dell’uo­
mo “escatologico”, avrà la sua fonte nel grado della sua
“divinizzazione”, incomparabilmente superiore a quel­
la raggiungibile nella vita terrena. Bisogna aggiungere
che qui si tratta non soltanto di un grado diverso, ma

16 Udienza del 2 dicembre 1981, n. 3.


17 Udienza del 9 dicembre 1981, n. 1.
18 Ivi, n. 1.

182
in certo senso di un altro genere di “divinizzazione”. La
partecipazione alla natura divina, la partecipazione alla
vita interiore di Dio stesso, penetrazione e permeazio-
ne di ciò che è essenzialmente umano da parte di ciò
che è essenzialmente divino, raggiungerà allora il suo
vertice, per cui la vita dello spirito umano perverrà ad
una tale pienezza, che prima gli era assolutamente inac­
cessibile. [...] La “divinizzazione” nell’“altro mondo”,
indicata dalle parole di Cristo, apporterà allo spirito
umano una tale “gamma di esperienza” della verità e
dell’amore che l’uomo non avrebbe mai potuto rag­
giungere nella vita terrena»19.
E tuttavia, la risurrezione non significherà una di­
sincarnazione; non diventeremo dei puri spiriti, ed è
ciò che intendeva Gesù: «Alla risurrezione... si è come
angeli nel cielo» (Mt 22,30). Giovanni Paolo II insiste:
«È ovvio che non si tratta qui di trasformazione della
natura dell’uomo in quella angelica, cioè puramente
spirituale. Il contesto indica chiaramente che l’uomo
conserverà neU’“altro mondo” la propria natura umana
psicosomatica. Se fosse diversamente, sarebbe privo di
senso parlare di risurrezione»20.
I nostri corpi risuscitati rimarranno corpi uman
conservando la loro visibile mascolinità e femminilità.
Nondimeno, nello stato di risurrezione il matrimonio
cesserà di esistere. Perché? Perché in quel nuovo stato
dell’umanità la comunicazione fra Dio e l’uomo sarà
talmente perfetta che placherà completamente, persino
in maniera sovrabbondante, la nostra sete di comunio­

19 Ivi, nn. 3 e 4.
20 Udienza del 2 dicembre 1981, n. 5.

183
ne. Ciò per cui siamo fatti —cioè divenire esseri di co­
munione, vocazione che tentiamo di realizzare in terra
attraverso il matrimonio - sarà realizzato ad un grado
di totale perfezione nel donarsi di Dio a ognuno di noi.
Dunque, non si prenderà più né marito né moglie, per­
ché il dono di sé ad una persona sarà immensamente
inferiore a ciò di cui Dio stesso ci colmerà attraverso la
“visione beatifica”. «Coloro che parteciperanno al “mon­
do futuro”, cioè alla perfetta comunione col Dio vivo,
godranno di una soggettività perfettamente matura. Se
in questa perfetta soggettività, ptìr conservando nel
loro corpo risorto, cioè glorioso, la mascolinità e la
femminilità, “non prenderanno moglie né marito”, ciò
si spiega non soltanto con la fine della storia, ma anche
- e soprattutto - con ^autenticità escatologica” della
risposta a quel “comunicarsi” del Soggetto Divino, che
costituirà la beatificante esperienza del dono di se stes­
so da parte di Dio, assolutamente superiore ad ogni
esperienza propria della vita terrena. [...] Così, dunque,
quella situazione escatologica, in cui “non prenderan­
no moglie né marito”, ha il suo solido fondamento
nello stato futuro del soggetto personale, quando, in
seguito alla visione di Dio “faccia a faccia”, nascerà in
lui un amore di tale profondità e forza di concentrazio­
ne su Dio stesso, da assorbire completamente l’intera
sua soggettività psicosomatica»21.
Ma c’è di più. Nella risurrezione Dio si donerà a ogni
persona umana in una tale perfezione di comunione, sic­
ché tutti e ciascuno ne godano allo stesso modo. La
comunione in Dio permetterà una totale comunione di

21 Udienza del 16 dicembre 1981, nn. 2 e 3.

184
tutti, che supererà la comunione semplicemente interper­
sonale del matrimonio. Consiste in questo tutta la realtà
futura della comunione dei santi, pienamente possibile
solo nello stato di risurrezione, quando tutti comuniche­
remo in maniera perfetta con il “comunicarsi” di Dio.
La visione beatifica del mistero d’amore trinitario ci
permetterà una comunione perfetta e universale: «Que­
sta concentrazione della conoscenza (“visione”) e del­
l’amore su Dio stesso - concentrazione che non può esse­
re altro che la piena partecipazione alla vita interiore di
Dio, cioè alla stessa Realtà Trinitaria —[...] sarà soprattut­
to la riscoperta di sé da parte dell’uomo, non soltanto
nella profondità della propria persona, ma anche in quel­
la unione che è propria del mondo delle persone nella
loro costituzione psicosomatica. Certamente questa è una
unione di comunione. La concentrazione della conoscen­
za e dell’amore su Dio stesso nella comunione trinitaria
delle Persone può trovare una risposta beatificante in
coloro che diverranno partecipi delTaltro mondo”, solo
attraverso il realizzarsi della comunione reciproca commi­
surata a persone create. E per questo professiamo la fede
nella “comunione dei santi” (communio sànctorum) e la
professiamo in connessione organica con la fede nella
“risurrezione dei morti”»22. Giovanni Paolo II conclude:
«Dobbiamo pensare alla realtà delTaltro mondo” nelle
categorie della riscoperta di una nuova, perfetta soggetti­
vità di ognuno, ed insieme della riscoperta di una nuova,
perfetta intersoggettività di tutti»23.
Nella risurrezione non ci sarà più matrimonio: non

22 Ivi, n. 4.
23 Ivi, n. 4.

185
perché la risurrezione sia una negazione del valore del
matrimonio, ma perché ciò che il matrimonio annuncia
sarà pienamente realizzato con la risurrezione. Il matri­
monio, in quanto opera di comunione, annuncia la risur­
rezione e questa - realizzando la pienezza della comunio­
ne di Dio in noi, e di conseguenza la pienezza della nostra
comunione con tutti nel grande mistero della comunio­
ne dei santi - permetterà di trascendere lo stato del matri­
monio realizzando la pienezza del suo significato.

IL MATRIMONIO ALLA LUCE DELLE NOZZE


DI CRISTO E DELLA CHIESA (Ef 5,21-33)

Ai tre elementi del trittico che abbiamo fin qui


esaminato Giovanni Paolo II collega Efesini 5,21-33:
«Quanto è contenuto nel passo della lettera agli Efesini
costituisce quasi il “coronamento” di quelle altre sinte­
tiche parole chiave»24. Coronamento, vale a dire il com­
pimento e insieme ciò che ne rivela il pieno significa­
to. Ecco il testo:

«Nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri:


le mogli lo siano ai loro mariti, come al Signore; il marito
infatti è capo della moglie, così come Cristo è capo della
Chiesa, lui che è salvatore del corpo. E come la Chiesa è sot­
tomessa a Cristo, così anche le mogli lo siano ai loro mari­
ti in tutto. E voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche
Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per ren­
derla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua median­
te la parola, per presentare a se stesso la Chiesa tutta glorio­
sa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e

24 Udienza del 28 luglio 1982, n. 2.

186
immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le
mogli come il proprio corpo; chi ama la propria moglie ama
se stesso. Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi
la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, poi­
ché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lasce­
rà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diven­
teranno una sola carne. Questo mistero è grande: io lo dico
in riferimento a Cristo e alla Chiesa!».

La reciproca sottomissione
Innanzitutto, occorre interpretare rettamente l’impe­
rativo della sottomissione: «Le mogli siano sottomesse ai
loro mariti...». Il papa è molto chiaro al riguardo e - per
la prima volta nella storia della teologia del matrimonio -
parla di “reciproca sottomissione”. «Esprimendosi così,
l’Autore [dell’epistola] non intende dire che il marito è
“padrone” della moglie e che il patto inter-personale pro­
prio del matrimonio è un patto di dominio del marito
sulla moglie. Esprime, invece, un altro concetto: cioè che
la moglie, nel suo rapporto con Cristo - il quale è per
ambedue i coniugi unico Signore - può e deve trovare la
motivazione di quel rapporto con il marito, che scaturi­
sce dall’essenza stessa, del matrimonio e della famiglia.
Tale rapporto, tuttavia, non è sottomissione unilaterale.
Il matrimonio, secondo la dottrina della lettera agli
Efesini, esclude quella componente del patto che grava­
va e, a volte, non cessa di gravare su questa istituzione. Il
marito e la moglie... sono vicendevolmente subordinati.
La fonte di questa reciproca sottomissione sta nella pietas
cristiana, e la stia espressione è l’amore»25.

25 Udienza dell’11 agosto 1982, n. 3.

187
Che cosa induce a Giovanni Paolo II ad affermare
che il rapporto tra marito e moglie deve esprimersi co­
me “reciproca sottomissione”, visto che il testo paolino
non ne parla esplicitamente? Semplicemente l’esigenza
della verità dell’amore, che l’Apostolo formula nell’in­
giunzione indirizzata ai mariti: «E voi, mariti, amate le
vostre mogli!». Se il marito ama la propria moglie nella
verità, non può esserci una sottomissione unilaterale,
poiché l’amore autentico esclude ogni forma di domi­
nio. «L’amore esclude ogni genere di sottomissione, per
cui la moglie diverrebbe serva o schiava del marito,
oggetto di sottomissione unilaterale. L’amore fa.sì che
contemporaneamente anche il marito è sottomesso alla
moglie, e sottomesso in questo al Signore stesso, così
come la moglie al marito. La comunità o unità che essi
debbono costituire a motivo del matrimonio, si realiz­
za attraverso una reciproca donazione, che è anche una
sottomissione vicendevole»26.
Ciò che riequilibra il tutto è l’inquadramento inizia­
le: «Nel timore di Cristo...», ovvero il dono della pietà,
grazie al quale l’uomo riconosce di non essere il padro­
ne della vita e delle sue leggi, ma deve accogliere il
comando dell’amore che riceve da Dio. La sottomissio­
ne nell’amore non è una sottomissione di dominio, è
una sottomissione di oblazione reciproca.

La grande analogia di Efesini 5,21-33


Giovanni Paolo II parla con insistenza di analogia tra
le nozze umane e le nozze di Cristo e della Chiesa. Non

26 Ivi, n. 4.

188
si tratta di una metafora, di una semplice immagine,
nella quale i termini della comparazione configurano
un rapporto destinato a rimanere in qualche modo
esteriore. Si tratta di analogia vera e propria, cioè di un
rapporto di proporzione fondato su una similitudine
rispetto all’essere.
Questo significa che quando nella lettera agli Efesini
si parla delle nozze umane con riferimento alle nozze
di Cristo e della Chiesa, non si tratta di una semplice
immagine, con l’intento pedagogico di far compren­
dere la dignità del matrimonio cristiano. C’è molto di
più: è l’espressione di una connaturalità fra i rapporti
sponsali nel matrimonio e quelli di Cristo con la Chie­
sa. Si potrebbe dire che le uniche nozze che realizzano
la totalità dell’essenza del matrimonio - la pienezza
della nuzialità - sono quelle di Cristo e della Chiesa.
Perciò le nostre nozze umane, per realizzare nella veri­
tà ciò che significano, devono conformarsi a quelle di
Cristo e della Chiesa, o almeno tendervi.
Ci sono tre elementi in questa analogia. Il primo:
«Le mogli siano sottomesse ai loro mariti, come al Si­
gnore». Il secondo spiega e motiva il primo: «Il marito
è capo della propria moglie, così come Cristo è capo
della Chiesa»; che significa: nel modo in cui la Chiesa
è sottomessa a Cristo, le donne si sottomettano al pro­
prio marito. Il terzo sviluppa tutto il seguito del testo:
«E voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo
ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei».
Le nozze umane trovano il loro fondamento nel rap­
porto con il dono nuziale di Cristo alla sua Chiesa: Cri­
sto-Sposo si offre alla Chiesa-Sposa, cioè a ciascuno di
noi, che costituiamo la Chiesa in quanto membra del

189
suo corpo. Il matrimonio deve farci comprendere, gu­
stare e contemplare le relazioni tra Cristo e la Chiesa,
mentre tende a conformarsi alla perfezione del dono
nuziale esistente fra Cristo-Sposo e la Chiesa-Sposa.
Giovanni Paolo II può dire: «Il rapporto reciproco tra
i coniugi, marito e moglie, va inteso dai cristiani a
immagine del rapporto tra Cristo e la Chiesa»27; e pro­
segue: «L’analogia usata nella lettera agli Efesini, chia­
rendo il mistero del rapporto tra Cristo e la Chiesa,
contemporaneamente svela la verità essenziale sul ma­
trimonio: cioè, che il matrimonio corrisponde alla
vocazione dei cristiani solo quando rispecchia l’amore
che Cristo-Sposo dona alla Chiesa sua Sposa, e che la
Chiesa (a somiglianza della moglie “sottomessa”, dun­
que pienamente donata) cerca di ricambiare a Cristo»28.
La portata di queste parole è immensa: se il matrimo­
nio corrisponde alla vocazione dei cristiani solo nella
misura in cui riflette l’amore che Cristo dona alla Chiesa,
significa che è una chiamata all’amore totale, amore
oblativo che non si sottrae al sacrifìcio della vita, poiché
tale è stato l’amore di Cristo per la Chiesa. Per stabilirsi
nella verità della vocazione cristiana, l’amore sponsale
deve accettare la possibilità di diventare amore sacrifica­
le, amore “obbediente” «fino alla morte, e a una morte
di croce» (Fil 2,8). Fin lì, infatti, Cristo ha spinto l’offer­
ta nuziale alla sua Sposa, annientandosi come nutrimen­
to eucaristico - poiché tale è il destino dell’alimento:
essere distrutto a vantaggio di chi nutre - e facendosi vit­
tima d’amore sul “legno nuziale” della croce.

27 Udienza dell’11 agosto 1982, n. 8.


28 Udienza del 18 agosto 1982, n. 2.

190
Il matrimonio come grazia dell’alleanza
Si tratta di un aspetto più strettamente dottrinale, al
quale Giovanni Paolo II ha dedicato, nell’ottobre del
1982, ben tre interventi, probabilmente i più profon­
di, e anche i più difficili, dell’intera teologia del corpo.
In essi il papa qualifica il sacramento del matrimonio
come “sacramento primordiale”, oltre che “prototipo
dei sacramenti della Nuova alleanza”: due definizioni
sino a quel momento inedite.
Innanzitutto una precisazione sul termine sacra­
mento: una nozione evolutasi nel corso dei secoli e ri­
conducibile, come minimo, a un duplice significato. Il
primo, più ampio e antico, ereditato dalla grande tra­
dizione biblico-patristica, è quello evocato di preferen­
za da Giovanni Paolo II: «Sacramento significa qui il
mistero stesso di Dio, che è nascosto fin dall’eternità,
tuttavia non in nascondimento eterno, ma anzitutto
nella sua stessa rivelazione e attuazione»29. In questo
senso, con riferimento all’eterno, divino progetto rela­
tivo alla salvezza dell’umanità, si può parlare di sacra­
mento della creazione e di sacramento della redenzione.
E su questa base che bisogna comprendere il matrimo­
nio in quanto “sacramento primordiale”. Un altro si­
gnificato, più ristretto, è quello che in passato insegna­
va il catechismo: «I sacramenti sono segni sensibili ed
efficaci della grazia, istituiti da Gesù Cristo per santi­
ficarci»30. Ognuno dei sette sacramenti, canali della
grazia, si qualifica in ragione della “materia” e della

29 Udienza del 20 ottobre 1982, n. 8.


30 Catechismo di san Pio Xyp. Ili, cap. I, n. 267.

191
“forma” che lo costituiscono (secondo l’eredità del co­
siddetto “ilemorfismo” aristotelico, rivisitato da san
Tommaso d’Aquino).
Giovanni Paolo II, come già detto, fonda le sue ri­
flessioni essenzialmente sul significato antico e ampio
della parola sacramenta: mistero del progetto divino esi­
stente in Dio da tutta l’eternità.

Il matrimonio come sacramento primordiale


Nell’udienza generale del 20 febbraio 1980 il papa
conclude così, splendidamente, il suo commento ai
testi genesiaci sul progetto originario di Dio: «L’uomo
appare nel mondo visibile come la più alta espressione
del dono divino, perché porta in sé l’interiore dimen­
sione del dono. E con essa porta nel mondo la sua par­
ticolare somiglianza con Dio, con la quale egli trascen­
de e domina anche la sua “visibilità” nel mondo, la sua
corporeità, la sua mascolinità o femminilità, la sua
nudità. Un riflesso di questa somiglianza è anche la
consapevolezza primordiale del significato sponsale del
corpo, pervasa dal mistero dell’innocenza originaria.
Così, in questa dimensione, si costituisce un primor­
diale sacramento, inteso quale segno che trasmette effi­
cacemente nel mondo visibile il mistero invisibile
nascosto in Dio dall’eternità. E questo è il mistero della
Verità e dell’Amore, il mistero della vita divina, alla
quale l’uomo partecipa realmente»31.
Questa sintesi di tutte le analisi proposte dal papa
sulla Genesi, va compresa alla luce della lettera agli Efe­

31 Udienza del 20 febbraio 1980, nn. 3 e 4.

192
sini laddove rinvia a Gn 2,24: «Per questo l’uomo lasce­
rà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due
saranno un’unica carne», e ciò prima che san Paolo con­
cluda: «Questo mistero è grande...» (Ef 5,32). Giovanni
Paolo II osserva: «[San Paolo qui] indica non soltanto
l’identità del Mistero nascosto in Dio dalPeternità, ma
la continuità della sua attuazione che esiste tra il sacra­
mento primordiale connesso alla gratificazione sopran­
naturale dell’uomo nella creazione stessa e la nuova gra­
tificazione, avvenuta quando “Cristo ha amato la Chiesa
e ha dato se stesso per lei, per renderla santa...” (Ef 5,25-
26); gratificazione che può essere definita nel suo insie­
me quale Sacramento della Redenzione»32.
L’inizio della lettera paolina ci svela la situazione del­
l’uomo prima del peccato originale: «Benedetto Dio,
Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha bene­
detti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per
essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità» (Ef
1,3-4). Questo è il mistero nascosto nel cuore di Dio
da tutta l’eternità: prima ancora della creazione del
mondo, prima della stessa creazione dell’uomo... noi
siamo stati eletti in Cristo «per essere santi e immaco­
lati di fronte a lui nella carità». Siamo così rinviati ai
racconti degli inizi, laddove si dice: «Dio vide quanto
aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gn 1,31);
come pure allo stato d’innocenza originaria, quando
«tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non pro­
vavano vergogna» (Gn 2,25).
Alla luce dell’accostamento di Genesi ed Efesini, si

32 Udienza del 13 ottobre 1982, n. 2.

193
può ben concludere che la stessa caratterizzazione del­
l’essere umano come “maschio e femmina” fu sin dagli
inizi impregnata dell’eterna elezione dell’uomo in Cri­
sto: in lui, tutti noi siamo stati eletti come figli adotti­
vi di Dio, ancor prima della creazione del mondo. Si
pone qui la connessione col tema del matrimonio come
sacramento primordiale, in quanto progetto eterno di
Dio: «Il sacramento, come segno visibile, si costituisce
con l’uomo, in quanto “corpo”, mediante la sua “visi­
bile” mascolinità e femminilità. Il corpo, infatti, e sol­
tanto esso, è capace di rendere visibile ciò che è invisi­
bile: lo spirituale e il divino. Esso è stato creato per
trasferire nella realtà visibile del mondo il mistero na­
scosto dall’eternità in Dio, e così esserne segno»33.
Questa è la vocazione del matrimonio come sacra­
mento primordiale: rivelare l’essere stesso di Dio e il
suo disegno d’amore su tutta la creazione, e special-
mente sull’uomo. Secondo il papa, le parole di Gn
2,24: «L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà
a sua moglie, e i due saranno un’unica carne» - riprese
da Ef 5,31 - «costituiscono il matrimoniò quale parte
integrante e, in certo senso, centrale del “sacramento
della creazione”. Esse costituiscono - o forse piuttosto
confermano semplicemente - il carattere della sua ori­
gine. Secondo queste parole, il matrimonio è sacramen­
to in quanto parte integrale e, direi, punto centrale del
“sacramento della creazione”. In questo senso è sacra­
mento primordiale»34.
Immensa dignità del matrimonio! Purtroppo, il mar­

33 Udienza del 20 febbraio 1980, n. 4.


34 Udienza del 6 ottobre 1982, n. 6.

194
chio impresso in noi dal peccato originale ci impedisce
di apprezzarlo pienamente. Solo una certa purezza di
cuore permette di intravedere - al di là di ogni defor­
mazione, smarrimento o sviamento di cui è stato og­
getto nel corso della storia dell’umanità peccatrice -
qualcosa del “grande mistero” rappresentato dal ma­
trimonio nel progetto di Dio: «Esso doveva servire non
soltanto a prolungare l’opera della creazione, ossia della
procreazione, ma anche ad espandere sulle ulteriori ge­
nerazioni degli uomini lo stesso sacramento della crea­
zione, cioè i frutti soprannaturali dell’eterna elezione
dell’uomo da parte del Padre nell’eterno Figlio»35.

Il matrimonio, prototipo dei sacramenti


della Nuova alleanza
Sacramento primordiale, il matrimonio è anche il
«prototipo dei sacramenti della Nuova alleanza». A cau­
sa del peccato originale il matrimonio è stato privato
dell’efficacia soprannaturale che attingeva nel sacra­
mento della creazione. «Nondimeno, anche in questo
stato, cioè nello stato della peccaminosità ereditaria
dell’uomo, il matrimonio non cessò mai di essere la
figura di quel sacramento, di cui leggiamo nella lettera
agli Efesini (5,22-33) e che l’Autore della medesima
lettera non esita a definire “grande mistero”. Non pos­
siamo forse desumere che il matrimonio sia rimasto
quale piattaforma dell’attuazione degli eterni disegni di
Dio, secondo i quali il sacramento della creazione aveva
avvicinato gli uomini e li aveva preparati al sacramen­

35 Ivi, n. 7.

195
to della Redenzione, introducendoli nella dimensione
dell’opera della salvezza?»36.
Citando Gn 2,24: «Per questo l’uomo abbandonerà
suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due
saranno una sola carne», san Paolo vuole significare la
continuità fra il sacramento primordiale e il sacramen­
to della redenzione nel quale Cristo si offre come Sposo
alla Chiesa-Sposa, fino a immolarsi per lei. Ed è dal
sacramento della redenzione che la Chiesa trae la sua
fecondità: «Sebbene l’analogia della lettera agli Efesini
non lo precisi, possiamo tuttavia aggiungere che anche
la Chiesa unita con Cristo, come la moglie col proprio
marito, attinge dal sacramento della Redenzione tutta
la sua fecondità e maternità spirituale»37.
Il “grande mistero” - «Questo mistero è grande: io lo
dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!» (Ef 5,32) -
è così reso visibile, sia in riferimento al matrimonio
costituito all’origine, di cui attesta la Genesi, sia in rife­
rimento all’unione di Cristo e della Chiesa. Ma visibi­
lità non vuol dire chiarificazione totale del mistero, il
quale resta velato, in quanto oggetto di fede. Il segno
indica la realtà del mistero senza manifestarla totalmen­
te: soltanto nella visione beatifica ne avremo piena con­
sapevolezza. Ciò tuttavia non impedisce che, fin da ora,
gli sposi cristiani siano veri “profeti di comunione”,
chiamati a essere i segni viventi del grande mistero del­
l’unione sponsale tra Cristo e la Chiesa.
Il brano di Efesini viene anche a completare, in qual­
che modo, la risposta di Gesù sulla questione del ripu­

36 Udienza del 13 ottobre 1982, n. 1.


37 Ivi, n. 4.

196
dio della moglie (cfr. Mt 19,3-8): le sue parole non si
riferiscono solo al matrimonio come istituzione origi­
naria. Accostando i due brani, si osserva che il matri­
monio - quale sacramento primordiale nel contesto del
sacramento della creazione - rientra nella struttura in­
tegrale di tutta la nuova economia sacramentale scatu­
rita dalla redenzione, esattamente come prototipo. Per­
ciò Giovanni Paolo II può dire: «Tutti i sacramenti
della Nuova alleanza trovano, in un certo senso, il loro
prototipo nel matrimonio in quanto sacramento pri­
mordiale»38.
Ciò significa che tutti i sacramenti della Chiesa han­
no una dimensione nuziale, fondata sulle nozze reden-
tive di Cristo e della Chiesa. Nell’accostamento fra
l’unione coniugale dell’uomo e della donna, e l’unione
nuziale di Cristo e della Chiesa - conclude il papa -
«non si tratta solo di un paragone in senso metaforico,
ma di un reale rinnovamento (ovverò di una “ri-crea­
zione”, cioè di una nuova creazione) di ciò che costi­
tuiva il contenuto salvifico (in certo senso la “sostanza
salvifica”) del sacramento primordiale»39.
Si comprende, allora, fino a che punto Giovanni
Paolo II abbia rinnovato la teologia del matrimonio e
attraverso di essa, in qualche modo, tutta la teologia sa­
cramentaria. Definire il matrimonio «prototipo dei sa­
cramenti della Nuova alleanza»”, significa affermare
che tutto l’insieme della vita cristiana, e in particolare
i sacramenti della Chiesa, vanno compresi nella luce del
matrimonio. A questo punto si aprono nuovi percorsi

38 Udienza del 28 novembre 1984, n. 4.


39 Ivi, n. 8.

197
all’indagine dei teologi, specialmente riguardo ai sacra­
menti dell’eucaristia e dell’ordine, con riferimento al
matrimonio.

LE ESIGENZE DELLA CASTITÀ CONIUGALE:


ENCICLICA HUMANAE VITAE

Le ultime udienze dedicate da Giovanni Paolo II alla


teologia del corpo (ben quindici, dall’11 luglio al 28 no­
vembre 1984) contengono un ampio commento all’en­
ciclica di Paolo VI, Humanae vitae, del 25 luglio 1968.
Questo documento pontificio - pubblicato all’indoma­
ni della rivoluzione del “maggio 1968” - aveva suscita­
to non poche reazioni nel mondo cristiano, peraltro
oggi non ancora del tutto sopite (vi si affermava, tra
l’altro, l’immoralità delle pratiche contraccettive).
L’intento di Giovanni Paolo II è di integrare l’inse­
gnamento di quell’enciclica con alcuni aspetti di cui era
carente, il che probabilmente aveva contribuito alla sua
accoglienza piuttosto negativa. Egli conferma le con­
clusioni etiche di Humanae vitae, ma attraverso la sua
teologia del corpo offre un quadro antropologico nuo­
vo, in ordine a una migliore comprensione delle moti­
vazioni morali proposte dall’enciclica. I riferimenti an­
tropologici - necessari, se non per ammettere, almeno
per comprendere la fondatezza delle regole etiche in
materia di sessualità - Giovanni Paolo II li trova in un
approccio teologico al problema, mentre Paolo VI ave­
va adottato un approccio di natura più che altro filo­
sofica, fondato sull’esigenza del rispetto della legge
naturale.

198
L’interesse di Giovanni Paolo II è, più che enuncia­
re i fini della natura in materia di sessualità, quello di
interrogarsi sul progetto di Dio nella creazione dell’uo­
mo e della donna come esseri sessuati, essendo questo
il “segno” della loro vocazione alla comunione. Si può
dunque parlare di rivoluzione della teologia del corpo,
non nel senso di una messa in discussione dell’insegna­
mento tradizionale della Chiesa, ma nel senso etimo­
logico di “rovesciamento” della prospettiva: da una filo­
sofìa della sessualità a una teologia della sessualità40. Le
norme etiche di Humanae vitae sono confermate, ma
riproposte in una nuova luce, decisamente teologica.
Nell’ultimo incontro, quello del 28 novembre 1984,
conclusivo del lungo ciclo di catechesi sulla teologia del
corpo, Giovanni Paolo II rivela finalmente l’intento
che lo ha spinto a intraprendere, cinque anni prima,
tale percorso: «Le catechesi dedicate all’enciclica Hu­
manae vitae costituiscono solo una parte, la parte fina­
le, di quelle che hanno trattato della redenzione del
corpo e della sacramentalità del matrimonio. Se richia­
mo particolarmente l’attenzione proprio a queste ulti­
me catechesi, lo faccio [...] per il fatto che da esso pro­
vengono gli interrogativi che permeano, in certo senso,
l’insieme delle nostre riflessioni. Ne consegue che que­
sta parte finale non è artificiosamente aggiunta al­
l’insieme, ma è unita con esso in modo organico e
omogeneo. In certo senso, quella parte che nella di­
sposizione complessiva è collocata alla fine, si trova in
pari tempo all’inizio di quest’insieme»41.

40 Cfr. Udienza del 14 novembre 1979, n. 5.


41 Udienza del 28 novembre 1984, n. 4.

199
In altre parole - dato che sovente «ciò che è primo
nell’intenzione è ultimo nell’esecuzione» (secondo il
detto latino: Quodprius in intentione, posterius in exe-
cutionè) - poiché queste catechesi sono state presentate
alla fine, significa che l’intenzione primaria di Giovan­
ni Paolo II era di offrire un opportuno inquadramen­
to antropologico che facesse comprendere in profondi­
tà le regole etiche enunciate in Humanae vitae. Quando
si penetra a fondo nella teologia del corpo, le norme
morali in materia sessuale si illuminano di una luce
completamente nuova. Questo non vuol dire che per­
dano in termini di difficoltà o di esigenza, ma non è
più possibile, onestamente, mettere in discussione la
loro fondatezza. Giovanni Paolo II conclude: «Per af­
frontare gli interrogativi che suscita l’enciclica Hu­
manae vitae, soprattutto in teologia, per formulare tali
interrogativi e cercarne la risposta, occorre trovare quel­
l’ambito biblico-teologico a cui si allude quando par­
liamo di “redenzione del corpo” e di “sacramentalità del
matrimonio”»42.

42 Ibid.

200
Indice

Prefazione pag. 7

Introduzione
UNA SPIRITUALITÀ PER LE PERSONE SPOSATE » 11

Schema I: A FFIN CH É IL M ATRIM ONIO


SIA U NA VO CAZIO NE » 21
Essere felici o donarsi? » 21
Stato o vocazione? » 24
Matrimonio o lavoro? » 27

Schema II: AMARE, PERDONARE, PERDONARSI » 33


L’esperienza dei limiti » 33
Il perdono, via del dono » 36
Perdono e comunione » 40

Schema III: LA LITURGIA DEI CORPI » 45


Il sacramento primordiale » 45
Non dividere quello che Dio ha congiunto » 48
La vocazione del corpo » 51

Schema IV: L’UMILTÀ DELL’INCARN AZIO NE » 55


La nudità dei corpi » 55
La nudità delle anime » 58
Il profetismo dei corpi » 61
Schema V: LE SOTTIGLIEZZE DELL’ADULTERIO pag. 65
L’adulterio del cuore » 65
L’adulterio interiore » 69
Adulterio con la propria sposa? » 73

Schema VI: LE MATURAZIONI DELL’AM O RE » 79


La notte dei sensi » 79
La notte dello spirito » 85
«Finché morte non ci separi» » 88

Schema VII: LE CRO CI E LE SO FFEREN ZE » 95


La sottomissione vicendevole » 95
L’inevitabile incompiutezza del dono » 97
Il fallimento » 99

Schema V ili: LA GIOIA D EL D O N O » 105


La gioia delle origini » 105
La gioia della comunione » 109
La gioia che non finisce » 111

Schema IX: L’EUCARISTIA, M ISTERO NUZIALE » 115


Cana e l’Ultima cena » 115
Intimità coniugale e intimità eucaristica » 119
Le nozze dell’Agnello » 123

Schema X: GLI SPOSI E IL PRETE » 127


Il prete-sposo » 127
Il prete e gli sposi » 130
Matrimonio, ordine ed eucaristia » 133

Schema XI: I SEGRETI DELLA PERFEZION E » 137


La povertà » 137
La castità » 140
L’obbedienza » 143
Schema XII: CHIAMATI ALLA SANTITÀ ag.
Pag- 147
Santità individuale o santità di coppia? »» 147
Contro l’individualismo spirituale » 150
La responsabilità della salvezza dell’altro » 153

Schema XIII: PER FARLA FINITA CO N ... » 157


Il “dovere coniugale” » 157
Il “rimedio alla concupiscenza” » 160
/'-'i >\ « >5 >\ « • ^ ,,
Cos e permesso , cos e vietato » 163

Conclusione
L’INESAURIBILE TESORO DELLA CHIESA » 169

Appendice
C O M PEN D IO DI TEO LO G IA D EL CO RPO » 171
Il progetto originario di Dio
sulF unione deir uomo
e della donna (Mt 19,3-8) » 173
Il cuore dell5uomo ferito a causa
del peccato originale (Mt 5,27-28) » 177
Il matrimonio come annuncio
e preparazione della risurrezione
(Mt 22,23-30) » 181
Il matrimonio alla luce delle nozze
di Cristo e della Chiesa (Ef 5,21-33) » 186
Le esigenze della castità coniugale:
enciclica Humanae vitae » 198