Yves Semen - La
Yves Semen - La
Yves Semen - La
La spiritualità coniugale
secondo Giovanni Paolo II
Prefazione del
Card. Philippe Barbanti
SAN PAOLO
Prefazione
7
La teologia del corpo traduce in un linguaggio talvolta
complesso —e tuttavia alla portata dei nostri contempora
nei, se lo si rende loro accessibile —le belle affermazioni
del concilio Vaticano II sul matrimonio cristiano, presen
tato come una vocazione a pieno titolo, in grado di orien
tare gli sposi su un cammino di santità. Le recenti beati
ficazioni dei coniugi Beltrame Quattrocchi da parte di
Giovanni Paolo II, nel 2001, e dei coniugi Martin da
parte di Benedetto XVI, nel 2008, costituiscono una sti
molante testimonianza.
Proprio per questo i coniugi cristiani hanno il diritto di
ricevere e di poter dispiegare una spiritualità in piena con
sonanza con la vocazione matrimoniale. In linea con lepro
poste avanzate da diversi movimenti cristiani, quest’opera
di Yves Semen può dirsi il seguito ideale del suo precedente
lavoro: La sessualità secondo Giovanni Paolo II2. La sua
originalità consiste nelproporre una spiritualità specifica-
mente coniugalefondata sulla teologia del corpo delinea
ta da Giovanni Paolo II.
Qui ci viene offerto un magnifico percorso —al contem
po esigente e liberante —dal quale emana ilprofumo evan
gelico di una certa novità sul corpo, sul matrimonio, sul
l’amore, sulla sessualità. La persona umana è considerata
integralmente, in tutte le sue dimensioni: corpo, mente e
anima, in sintonia con la illuminante espressione di san
Paolo: «Il Dio della pace vi santifichi interamente, e tutta
la vostra persona, spirito, anima e corpo, si conservi irre
prensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo»
(lTs 5,23).
Yves Semen ci rende accessibile il ricco insegnamento
8
teologico di Giovanni Paolo IIsul corpo, distribuito in tre
dici capitoli, opiuttosto “schemi”, a sottolineare che si trat
ta più di suggerimenti, ipotesi di azione e di riflessione,
che non di risposte in sé concluse. Un orientamento al
quale gli uomini e le donne di oggi sono particolarmente
sensibili, come sottolineava il papa: «Questa teologia del
corpo è indispensabile per comprendere in maniera ade
guata l’enunciato del magistero della Chiesa contempora
nea» (Udienza dell’8 aprile 1981). In questo senso, essa è
destinata a svolgere un ruolo essenziale nella “nuova evan
gelizzazione” in cui la Chiesa, serva della grandezza della
vocazione dell’uomo, gli ricorda che è amato infinitamen
te da Dio, salvato da Gesù Cristo, chiamato a realizzarsi
nell’amore.
In appendice a quest’opera i lettori troveranno un pre
zioso “Compendio di teologia del corpo”, presentata nelle
sue linee principali, meritevoli di essere approfondite e as
similate. Ci auguriamo che numerosi sposi sappiano trar
ne un rinnovamento interiore e ne comunichino la ric
chezza oltre i confini della loro famiglia.
Ho apprezzato il fatto che il decimo schema sia intito
lato: “Gli sposi e ilprete”. M i ha colpito questa bella affer
mazione: «Gli sposi e il prete sono chiamati a offrirsi un
mutuo sostegno nella donazione di sé. Il prete potrà vede
re, negli sposi, l’espressione viva della sua consacrazione,
come gli sposipotranno riconoscere nelprete la figura per
fetta dello sposo». Un magnifico cammino da percorrere
insieme, nel dono di sé, nell’amore: «L’amore non avrà
mai fine» (ICor 13,8).
9
Introduzione
UNA SPIRITUALITÀ
PER LE PERSONE SPOSATE
11
stato di vita e alla sua vocazione. Non vi è un parados
so monumentale - quasi scandaloso - nel fatto che le
persone sposate, quando sono in cerca di una spiritua
lità, si vedano costrette a nutrirsi di una spiritualità
per celibi e nubili?
Già alla vigilia del concilio Vaticano II, nel 1962,
padre Henri Caffarel (1903-1996), fondatore in Fran
cia del movimento di spiritualità coniugale Equipes
Notre-Dame, non esitava a scrivere: «La Chiesa non può
accontentarsi di pensare ai “laici” come se fossero tutti
dei celibi, che vivono isolatamente; deve anche - e, in
un certo senso, innanzitutto —interrogarsi sulle fami
glie cristiane, sul modo in cui il matrimonio cristiano
è vissuto e compreso nella cattolicità di oggi»1. Oggi-
giorno, quasi mezzo secolo più tardi, le cose sono dav
vero cambiate? Da cosa dipende se la spiritualità coniu
gale continua a presentarsi come il parente povero della
spiritualità cristiana?
Sembra che la Chiesa per diversi secoli abbia fatica
to a riconoscere nel matrimonio un’autentica vocazio
ne cristiana nel senso pieno del termine, una chiamata
in grado di condurre, quelli che vi corrispondono, ad
una vera santità laicale. Ciò è dovuto, forse, alla diffi
coltà che la Chiesa ha incontrato nel far proprio il vero
significato della sessualità umana. Si deve riconoscere,
con Xavier Lacroix, che mentre il cristianesimo - reli
gione del corpo, in quanto religione fondata sull’incar
nazione del Verbo di Dio - non può disprezzare il
corpo senza rinnegare se stesso, «sembra abbia invece
integrato il corpo sofferente, il corpo che lavora, il
12
corpo che celebra, con molta più facilità di quanto sia
riuscito a fare con il corpo che gioisce»2. Da parte sua,
Giovanni Paolo II non esita ad affermare che «per il cri
stianesimo il corpo e la sessualità rimangono dei valo
ri sempre troppo poco apprezzati»3.
Pur riconoscendo a padre Caffarel e alle Equipes
Notre-Dame il merito di aver aperto audaci e magnifi
che piste colme di speranza, fino ad epoca recente è
mancato alla spiritualità coniugale il sostrato teologico
in grado di validarla, e ciò l’ha condannata a rimanere
allo stadio delle intuizioni. Ed è precisamente questa
mancanza che viene colmata dalla teologia del corpo di
Giovanni Paolo II. Finalmente la spiritualità coniuga
le dispone di un solco teologico ben tracciato, a parti
re dal quale può edificarsi e dispiegarsi. L’avvento di
questa teologia del corpo costituisce un apporto teolo
gico capitale: è il più vasto insegnamento mai offerto da
un papa su un unico tema in tutta la storia della Chie
sa. Ben ottocento pagine di testo! E tuttavia, venticin
que anni dopo la conclusione dell’insegnamento papa
le, la teologia del corpo rimane sottovalutata dalla
maggior parte dei pastori della Chiesa e da un nume
ro ancor più considerevole di laici sposati. Tutto ciò
lascia perplessi e permette di misurare la colossale opera
di comunicazione che rimane da compiere.
Sta di fatto che con la teologia del corpo proposta
da papa Wojtyla il matrimonio è ormai stabilito non
come una vocazione di serie B, ma come una delle due
possibili vie di realizzazione della persona attraverso il
13
dono di sé. La costituzione conciliare Gaudium et spes,
sulla “Chiesa nel mondo contemporaneo”, afferma con
forza: «L’uomo, il quale in terra è la sola creatura che
Iddio abbia voluto per se stesso, non può ritrovarsi pie
namente se non attraverso un dono sincero di sé»4. Il
compimento di questo dono, nel quale la persona è
chiamata a realizzarsi, può avvenire grazie alla consacra
zione nel celibato “per il Regno” o attraverso la consa
crazione nel matrimonio. «In definitiva - dice Giovan
ni Paolo II - la natura dell’uno e dell’altro amore (nella
vita coniugale o nel celibato consacrato) è sponsale,
cioè espressa attraverso il dono totale di sé. L’uno e l’al
tro amore tendono ad esprimere quel significato spon
sale del corpo che è dal principio iscritto nella stessa
struttura personale dell’uomo e della donna»5.
Queste due vie - matrimonio o verginità —possono
condurre alla santità nella misura in cui diventano ri
sposta ad un richiamo risuonato nel cuore della perso
na. Se la Chiesa per secoli, e a giusto titolo, ha tenuto
in grande onore la consacrazione nella vita religiosa,
probabilmente è giunta l’ora di scoprire le grandezze e
i meriti dell’altra via, quella della consacrazione di sé
nel matrimonio. Già il papa Pio XI nell’enciclica sul
matrimonio, Casti connubii (1931), scriveva che gli spo
si sono «comeconsacrati da un vero e grande sacramen
to» (I, 3). Forse è giunta l’ora di sopprimere questo “co
me” prudente e limitativo. Inoltre, occorre che le persone
sposate possano fare affidamento su una spiritualità
14
rispondente alla loro vocazione specifica. Quasi pro
feticamente, nelle sue riflessioni anticipatrici del con
cilio, padre Caffarel diceva: «Non basta ricordare ai
cristiani sposati che il matrimonio non è uno “stato
d’imperfezione”. Occorre anche presentare loro una
dottrina ascetica e mistica, una “spiritualità” elaborata
non a partire dalla vita monastica, ma a partire dal loro
stato di vita, con le sue esigenze, le sue difficoltà, le sue
grazie —e che ciò avvenga con il loro concorso»6.
E necessario pure che gli sposi cristiani dispongano
di modelli e figure di santi divenuti tali in ragione della
perfezione della loro vita nello stato matrimoniale. An
che a questo riguardo Giovanni Paolo II ha operato da
innovatore, beatificando nel 2001 gli sposi Luigi e
Maria Beltrame Quattrocchi, prima coppia in tutta la
storia della Chiesa a essere additata ad esempio in ra
gione della santità della propria vita coniugale. E quin
di chiaro, ormai, che si può essere santi non malgrado
il matrimonio, come forse si pensava un po’ troppo
facilmente, ma grazie al matrimonio.
Lo scopo di quest’opera, dunque, è di proporre dei
percorsi di spiritualità coniugale attinti alla fonte della
teologia del corpo di cui Giovanni Paolo II ha fatto
dono alla Chiesa del XXI secolo... e non del XX secolo.
Bisogna infatti riconoscere che la grande catechesi sulla
teologia del corpo, con la quale Giovanni Paolo II ha
inaugurato il suo pontificato, è rimasta in una certa
misura nascosta sotto il moggio per tutto il periodo del
suo pontificato. Vi sono ragioni oggettive per questo, in
particolare la sua difficoltà concettuale; inoltre, il fatto
15
che tale insegnamento sia stato offerto attraverso il ca
nale discreto delle Udienze generali del mercoledì, un
magistero apparentemente “di grado inferiore”, pur
sempre ufficiale, ma meno solenne; infine, il fatto che
Giovanni Paolo II, intraprendendo quest’insegnamen
to a partire dal settembre del 1979, non abbia indicato
sin dall’inizio le sue intenzioni, né il disegno d’insieme.
Non è questo il luogo per dibattere le ragioni che
possono avere indotto Giovanni Paolo II ad agire così,
ma possiamo a buon diritto condividere il giudizio di
George Weigel, quando qualificava la teologia del cor
po di Giovanni Paolo II come una «bomba teologica a
orologeria, che potrebbe esplodere con effetti spettaco
lari nel corso del terzo millennio della Chiesa»7. Una
valutazione dal sapore profetico - formulata nel 1999,
quasi cinque anni prima della morte del pontefice -
così completata: «Forse la teologia del corpo di Gio
vanni Paolo II, fonte di controversie, verrà presa in
considerazione solo quando egli stesso sarà uscito di
scena. [...] Quando questo accadrà, forse nel XXI seco
lo, la teologia del corpo sarà probabilmente guardata
come un’autentica svolta, non solo nella teologia catto
lica, ma anche nella storia del pensiero moderno»8.
È finalmente giunto il tempo, a oltre venticinque an
ni dalla conclusione dell’insegnamento papale, in cui
vedremo schiudersi una spiritualità coniugale avente
come base «la redenzione del corpo e il carattere sacra
mentale del matrimonio»9- titolo sotto il quale lo stes
16
so Giovanni Paolo II proponeva di raccogliere l’insie
me delle sue catechesi? Ce lo auguriamo, e la presente
opera avrà raggiunto pienamente il suo scopo se potrà,
sia pure in minima parte, contribuire a tale scopo.
Questo libro, tuttavia, non vuole presentarsi come
un trattato sistematico di spiritualità coniugale. Le sue
mire sono assai più modeste: proporre delle piste a tut-
t’oggi ancora inesplorate, offrire una serie di schemi i
cui contorni dovranno essere ulteriormente precisati da
qualcuno più competente del loro autore. Ma nel loro
insieme questi schemi mirano a formare una sorta di
affresco, la cui unità e la cui coerenza sono assicurate
dallo sfondo teologico, innovativo e monumentale, rap
presentato dalla teologia del corpo di Giovanni Paolo II.
Sta in questo l’originalità del presente lavoro, e il solo
merito che esso rivendica.
Ogni capitolo - una breve riflessione spoglia di ap
parati concettuali astratti e costrittivi —evoca un tema
illuminato dall’insegnamento di Giovanni Paolo II prin
cipalmente nelle Udienze del mercoledì (dal settembre
del 1979 al novembre del 1984), dedicate ad una cate
chesi sistematica sul tema della teologia del corpo10;
non mancano riferimenti ai grandi testi del suo ponti
ficato - encicliche, lettere, esortazioni - laddove richia
mano quell’insegnamento in qualche modo “archetipi
17
co”, senza escludere luoghi significativi della sua opera
filosofica (Amore e responsabilità), poetica ( Trittico ro
mano) e teatrale (La bottega delloreficé).
Sarà probabilmente fruttuoso leggere queste medi
tazioni in due. I fidanzati potranno farne la trama di
un dialogo di approfondimento spirituale su quel dono
di sé al quale si stanno preparando. Gli sposi potranno
trovarvi delle fonti d’ispirazione per la loro preghiera
coniugale. I sacerdoti, e coloro che li affiancano negli
incontri di preparazione al matrimonio, potranno at
tingervi temi di riflessione da proporre ai fidanzati.
Gli schemi che compongono questo lavoro non
richiedono necessariamente di essere letti in successio
ne. Ogni capitoletto, e persino ogni paragrafo, può es
sere affrontato in modo indipendente. Si spiegano così
i “collegamenti” riscontrabili fra i diversi capitoli: sono
intenzionali e non costituiscono delle ripetizioni. Si
gnificano semplicemente - secondo un metodo abituale
a Giovanni Paolo II - che la stessa realtà è considerata
sotto una diversa angolazione, per trarne altre conse
guenze. Non sfuggirà tuttavia una certa gradualità nel
l’insieme dei capitoli: i temi vanno dal livello più ele
mentare al più complesso.
Si troveranno anche accenni riguardanti la dimen
sione intima del dono dei corpi. È un fatto normale e
non deve sorprendere, ancor meno turbare. La grande
sfida della vocazione al matrimonio è di giungere a
vivere, in una maniera unificata, le aspirazioni spiritua
li e le realtà carnali. Una spiritualità coniugale che esal
tasse una forma di spiritualismo disincarnato o allon
tanasse gli sposi dalla pienezza dell’espressione fìsica
della loro unione, non meriterebbe la qualifica di co
18
niugale e non sarebbe, infine, che una falsificazione. La
spiritualità coniugale deve trovare il modo di esprimer
si, e persino di radicarsi, nel vissuto carnale dell’unio
ne degli sposi. Incoraggiare una qualunque attitudine
dualistica a riguardo - l’anima da un lato, il corpo dal
l’altro - non sarebbe conforme alle esigenze della voca
zione matrimoniale e si iscriverebbe falsamente rispet
to alle prospettive unificanti della teologia del corpo di
Giovanni Paolo II.
Tale è la posta in gioco di questo lavoro, nel suo ten
tativo di fedeltà rispetto a ciò che Giovanni Paolo II ha
lasciato in eredità alla Chiesa del XXI secolo, esaltan
do la vocazione del corpo umano: «Il corpo, infatti, e
soltanto esso, è capace di rendere visibile ciò che è invi
sibile: lo spirituale e il divino. Esso è stato creato per
trasferire nella realtà visibile del mondo il mistero na
scosto dall’eternità in Dio, e così esserne segno»11. Di
questa vocazione del corpo, gli sposi cristiani, più degli
altri membri della Chiesa, hanno la missione di essere
testimoni e profeti. Missione di una nobiltà immensa
e di un’urgenza totale, in un mondo che non compren
de più il corpo umano e spesso lo considera più che al
tro un oggetto da utilizzare.
Manifestare la dimensione del dono iscritta nel cor
po umano; vivere l’unicità della vocazione personale al
dono di sé attraverso le espressioni del linguaggio del
corpo; testimoniare con tutta la propria vita le relazio
ni nuziali di Cristo con la sua Chiesa... questa è la mis
sione degli sposi cristiani e la fonte della spiritualità che
deve essere loro propria.
19
Schema I
AFFINCHÉ IL MATRIMONIO
SIA UNA VOCAZIONE
21
disfazioni di ogni tipo, ivi compresa quella di uno sta
tus sociale, la fuga da una solitudine affettiva troppo
pesante da sopportare, la conformazione ad un certo
modello di vita...
Simili propensioni si manifestano per lo più in quei
soggetti che cercano di sposarsi a tutti i costi. Si dice
che facciano “fuggire” gli altri da sé, e spesso è vero.
Questo non dipende dal fatto che tali persone siano
prive di qualità, ma semplicemente perché si tende a
diffidare di chi dà l’impressione - il più delle volte sen
za che se ne renda conto - di volere esclusivamente l’al
tro (l’altra) per sé. Ma a nessuno piace sentirsi strumen
talizzato.
Non si può guardare ad un’altra persona solo come
ad un mezzo per soddisfare le proprie attese. Sta qui
l’ambiguità che insidia ogni amore: è il bene dell’altro
che ricerchiamo, oppure la nostra soddisfazione attra
verso l’altro? Dietro la ricerca della felicità nel matri
monio —di per sé niente affatto illegittima —che cosa
cerchiamo veramente? L’altro è desiderato in primo
luogo per se stesso, oppure solo in quanto strumento
per realizzare un nostro ideale di vita, quindi in rela
zione a noi e a ciò che ci aspettiamo? A tutto questo
possono mescolarsi anche motivazioni spirituali: si può
vedere l’altro come un mezzo che ci aiuta a crescere sul
piano della vita di fede.
Il rischio, focalizzandoci su ciò che il matrimonio ci
può apportare, diventa —in maniera sottile ma reale -
quello di ricondurre l’altro a noi e di considerarlo uni
camente in base a ciò che da lui possiamo ottenere.
Ora, l’altro è una persona, e come tale non può mai es
sere ridotto al semplice rango di strumento. Si può obiet
22
tare, forse, che questa ricerca di soddisfazione è recipro
camente voluta. E allora? Ciò non eliminerà il rischio
che il matrimonio possa diventare uno stato di egoismo
a due.
La questione è molto delicata, poiché è evidente che
chiunque insegue innanzitutto nel matrimonio un cer
to numero di soddisfazioni personali identificate con la
felicità, non lo fa con criterio machiavellico, cioè uni
camente guidato da un calcolo cinico e freddo. Nella
nostra ricerca della felicità c’è qualcosa di perfettamen
te legittimo: essere felice è l’obiettivo di ogni persona
normale. In ognuno di noi c’è un’inevitabile ambiva
lenza fra la ricerca del bene altrui e quella del bene per
sonale. Tutta la questione sta neU’orientamento fonda-
mentale della volontà. Che cosa cerco in primo luogo?
Me stesso e la soddisfazione delle mie attese, oppure il
bene concreto dell’altro, per lui stesso?
Giovanni Paolo II, aprendo la sua teologia del corpo,
analizza il racconto della Genesi mostrando come la
prima esperienza che Dio fa fare all’uomo, quando an
cora non ha creato per lui la donna, sia quella della soli
tudine. E così che l’uomo scopre di essere fatto per il
dono di sé, e sulla base di questa esperienza emerge in
lui la coscienza di essere “persona”. «Il dono rivela l’es
senza stessa della persona. Quando Dio dice che “non
è bene che l’uomo sia solo” (Gn 2,18), afferma che “da
solo” l’uomo non realizza totalmente questa essenza. La
realizza soltanto esistendo “con qualcuno” e ancor più
profondamente e più completamente: esistendo “per
qualcuno”» (Udienza del 9 gennaio 1980). Il matrimo
nio è, per l’uomo e per la donna, una maniera di realiz
zare la propria vocazione di persone attraverso il dono
23
di sé. Ma non è la sola. Un’altra possibile via per l’au-
todonazione è il consacrarsi a Dio nella vita religiosa.
Il dono di sé nel matrimonio consente di realizzare la
propria vocazione di persone, e di conseguenza il com
pimento della propria umanità. Ci soccorre qui un pas
saggio fondamentale della costituzione conciliare
Gaudium et spes, a più riprese commentato da Giovanni
Paolo II: «L’uomo, il quale in terra è la sola creatura che
Dio abbia voluto per se stessa, non può ritrovarsi piena
mente se non attraverso un dono sincero di sé» (n. 24).
Il matrimonio è dunque la grande occasione per
compiere l’offerta di noi stessi, e così realizzarci piena
mente come uomo e come donna. E questo che deve
motivarci per il matrimonio: realizzare in pienezza il
dono di noi stessi. Questa finalità del matrimonio va
tenuta presente, nella mente e nel cuore, più di ogni
altra cosa quando decidiamo di sposarci. Il matrimo
nio così concepito e voluto ci porterà probabilmente
tutto un insieme di soddisfazioni - e indubbiamente
anche una parte di croci e sofferenze -, ma queste sod
disfazioni non saranno più volute e ricercate unicamen
te in vista di noi stessi. Saranno accolte come un di più,
come una forma di sovrabbondanza del dono fonda-
mentale che abbiamo acconsentito a fare di noi stessi
per l’altro. In ciò consisterà la vera felicità, la nostra
piena realizzazione.
Stato o vocazione?
24
senso più forte e autentico del termine? Si è talvolta so
stenuto che il matrimonio non sia una vera e propria
vocazione, in quanto ogni persona è per sua natura
fatta per il matrimonio. L’uomo è fatto per la donna,
la donna è fatta per l’uomo... quindi non deve interve
nire alcuna scelta radicale in merito, essendo un dato
di natura. A differenza della vita religiosa e sacerdota
le, la scelta matrimoniale non comporterebbe una chia
mata speciale, di conseguenza sarebbe improprio con
siderarla una vocazione cristiana. La questione non può
essere tanto semplice.
E incontestabile che il matrimonio sia una realtà a
cui ogni uomo e ogni donna sono naturalmente preor
dinati. Tutta la nostra struttura psicosomatica ci fa
guardare al matrimonio come ad una condizione a cui
la natura umana ci chiama spontaneamente, e persino
imperiosamente. Decidendo di sposarci, abbiamo la
consapevolezza di rispondere al richiamo della nostra
affettività, della nostra sensibilità, ma non necessaria
mente ad una speciale chiamata di Dio, com’è invece
nel caso di una vocazione religiosa o sacerdotale. Que
sto spiega anche perché coloro che desiderano sposarsi,
ma non ci riescono, incorrono in un’acuta sofferenza.
Ora, se il matrimonio è soltanto la risposta ad un’incli
nazione naturale, altro non è che uno stato di vita e
non la risposta ad una vocazione. E così che, probabil
mente, considera il matrimonio la maggior parte di co
loro che vi si impegnano, anche quando ne ricevono il
sacramento.
Tuttavia, nella prospettiva cristiana il matrimonio
può essere anche la risposta ad un’autentica vocazione,
ad una chiamata speciale di Dio. Non che Dio abbia
25
sovranamente destinato, da tutta l’eternità, per ciascu
no e ciascuna di noi, una persona eletta riguardo alla
quale il nostro compito è di scoprire chi realmente sia.
Una simile visione del matrimonio è pericolosa e può
risultare fuorviarne: si vivrebbe con l’assillo di non “la
sciarsi sfuggire l’occasione provvidenziale” e indovina
re chi Dio ci abbia “riservato”. Il matrimonio si ridur
rebbe ad una sorta di lotteria dove alcuni sarebbero più
fortunati di altri. E se insorgono delle difficoltà nella
vita coniugale, si tenderà ad attribuirle ad uno sfortu
nato errore nella scelta del partner. È sicuramente più
sensato considerare la scelta del nostro coniuge come
un atto di ragione e di libertà. Una scelta da compiere
personalmente, sotto lo sguardo di Dio e con l’aiuto
della preghiera, e che Dio ratificherà impegnandosi in
sieme con noi.
Si può dunque concepire il matrimonio come la ri
sposta alla chiamata di Dio a fare dono di noi in que
sta particolare forma di vita, intimamente consapevoli
che è Dio stesso che ci orienta verso tale vocazione. In
questa luce il matrimonio è da intendere come auten
tica vocazione cristiana, con le sue intrinseche, straor
dinarie esigenze. «Il matrimonio corrisponde alla voca
zione dei cristiani solo quando rispecchia l’amore che
Cristo-Sposo dona alla Chiesa sua Sposa, e che la Chiesa
[...] cerca di ricambiare a Cristo» (Udienza del 18 ago
sto 1982). Parole che esprimono un’esigenza radicale,
capace di far tremare chi si accosta al matrimonio. Esse
vanno prese alla lettera: se il matrimonio corrisponde
alla vocazione dei cristiani “solo quando...”, vuol dire
che al di fuori della condizione che Giovanni Paolo II
esprime con assoluta chiarezza, il matrimonio non cor
26
risponde ad una genuina vocazione cristiana, ma si ri
duce ad un semplice stato di vita.
Se il matrimonio cristiano è destinato a rispecchiare
«l’amore che Cristo-Sposo dona alla sua Chiesa(-Spo-
sa)» - un amore totale spinto sino all’offerta totale di
sé sulla croce - anche l’amore tra gli sposi cristiani è
chiamato all’assoluto del dono, che potrebbe richiedere
l’assoluto del sacrificio. Quanto all’amore che i mem
bri della Chiesa si sforzano di ricambiare nei confron
ti di Cristo, come non pensare a tutti i gesti d’amore
estremo espressi nel corso della storia dai martiri, dagli
eremiti, da quanti si sono santificati nella vita religio
sa... come pure nella vita matrimoniale? Una realtà che
dà le vertigini! Eppure, è solo a condizione di confor
marsi a queste esigenze totali dell’amore che il matrimo
nio può dirsi una vocazione autenticamente cristiana.
Matrimonio o lavoro?
27
mestiere delle armi, ai dirigenti d’impresa, all’esercizio
delle arti o della politica. Si sente parlare di “vocazione
militare/medica/politica”: è solo un modo di dire, op
pure è l’invito ad una riflessione approfondita sui rap
porti che i cristiani devono stabilire fra la loro attività
lavorativa e la vocazione al matrimonio? Come gestire
in maniera sana l’ordine delle priorità fra le esigenze
matrimoniali e quelle della professione, in particolare
quando questa, in ragione dei vincoli che impone, si
rivela “monopolizzante”?
Non esiste una risposta preconfezionata, ma i fidan
zati non potranno sottrarsi ad una seria riflessione a
due su questo tema. Se il matrimonio è da essi consi
derato come la risposta ad una chiamata al dono di sé,
in conformità al mutuo dono di Cristo e della Chiesa,
significa che tale vocazione deve realizzarsi anzitutto
nel quadro del loro matrimonio e della famiglia che
vanno a costituire. E questo che, prioritariamente, il Si
gnore si aspetta da loro. Ciò non esclude che si assu
mano altri impegni, talora anche costringenti, al di
fuori del quadro familiare, ma sempre in maniera ordi
nata rispetto alla vocazione primaria del matrimonio.
Qualora però le esigenze professionali dell’uomo o
della donna fossero tali da ostacolare la loro prioritaria
dedizione nel matrimonio, si rendono assolutamente
necessarie alcune domande fondamentali. Non è inve
rosimile pensare che alcuni obblighi radicali, correlati
a certe professioni particolarmente impegnative, com
portino dei problemi di compatibilità rispetto alle esi
genze primarie della vocazione matrimoniale.
La vita di un cristiano come Maurice Schumann
(1911-1998) ci ha mostrato come una dedizione piena
28
all’impegno politico possa comportare anche la rinun
cia al matrimonio. Nell’ambito artistico, il fallimento
del matrimonio tardivo - a quarantanni - di Camille
Saint-Saèns (1835-1921) si può spiegare col fatto che
il grande musicista, del quale è peraltro nota la pro
fondità di fede e di vita spirituale, non sia riuscito a
coniugare le esigenze della propria arte con quelle del
matrimonio. Si tratta evidentemente di casi estremi, e
quando si affronta il matrimonio non si deve diffidare
di tutte le professioni “monopolizzanti”, ma occorre
vigilare affinché l’ordine delle priorità non sia inverti
to: «Il lavoro è innanzitutto “per l’uomo” e non l’uo
mo “per il lavoro”», ricorda Giovanni Paolo II nella sua
enciclica sul lavoro umano (Laborem exercens, n. 6, 6).
Ogni attività professionale, qualunque sia, non può che
essere subordinata al matrimonio e alla famiglia, e mai
il contrario: «Nell’insieme si deve ricordare e affermare
che la famiglia costituisce uno dei più importanti ter
mini di riferimento, secondo i quali deve essere forma
to l’ordine socio-etico del lavoro umano» (ivi, n. 10, 2).
Sulla base di questo principio si possono accettare quei
compromessi di circostanza che possono condurre,
almeno temporaneamente, a delle concessioni, ma il
principio rimane: per un cristiano sposato la sua voca
zione è innanzitutto il suo matrimonio, la sua famiglia.
Tutto il resto è relativo.
Cosa pensare di un religioso che fosse più dedito al
l’attività esteriore, alle responsabilità che assume nella
propria comunità, che non alle esigenze della sua stes
sa vita religiosa, forse sino a trascurare la preghiera? Si
racconta che anche quando le Missionarie della Carità,
sfinite dal servizio prestato ai moribondi per le vie di
29
Calcutta, cedevano Furia dopo l’altra a crisi di “bum-
out”, Madre Teresa non abbia mai abbassato la soglia di
esigenza della loro vita religiosa, ma abbia aggiunto
un’ora di adorazione quotidiana. Identica è la richiesta
nel matrimonio: in forza della loro vocazione gli sposi
devono contemperare ogni cosa, anche gli impegni più
nobili e apprezzabili, alle esigenze della vita matrimo
niale. È ciò che ricordava Madre Teresa ad un impren
ditore canadese che le chiedeva se dovesse donare tutti
i suoi beni per meglio conformarsi ai dettami del Van
gelo: «Lei non può dare via tutto, perché non le appar
tiene. Le è stato affidato in gestione. Ma può ammini
strare tutto alla maniera di Gesù Cristo, introducendo
nella sua vita la gerarchia cristiana dell’amore. Essendo
lei sposato, questa gerarchia vede in primo piano sua
moglie, poi i figli e solo in seguito i dipendenti della
sua azienda».
A questo riguardo, gli sposi cristiani che vogliono vi
vere in tutta verità le esigenze della loro vocazione sono
chiamati ad essere “segni di contraddizione” a fronte di
una diffusa cultura che tende a subordinare la vita della
famiglia agli impegni professionali. Ciò può anche
comportare la rinuncia a qualche opportunità di car
riera, esigendo talvolta un coraggio quasi eroico. So
prattutto occorre essere coscienti che nulla è più grande,
bello e nobile dell’educazione dei figli. Nella splendida
Lettera allefamiglie, scritta in occasione dell’Anno della
famiglia 1994, Giovanni Paolo II non esita a dire: «Par
lando del lavoro in riferimento alla famiglia, è giusto
sottolineare l’importanza ed il peso dell’attività lavora
tiva delle donne all’interno del nucleo familiare: essa
deve essere riconosciuta e valorizzata fino in fondo. La
30
“fatica” della donna, che dopo aver dato alla luce un
figlio lo nutre, lo cura e si occupa della sua educazio
ne, specialmente nei primi anni, è così grande da non
temere il confronto con nessun lavoro professionale»
('Gratissimam sane, n. 17).
Si tratta però di un coraggio che non è richiesto sol
tanto alle donne, le quali non possono essere le sole a
sacrificare la propria vita professionale aH’equilibrio
della famiglia e alle esigenze educative dei figli. Si ri
chiede perciò un autentico discernimento spirituale,
che può essere attuato solo in due, nella comune pre
ghiera. È in gioco la priorità nell’ordine dei fini: se gli
sposi considerano il loro matrimonio come la risposta
ad una vocazione cristiana, è a partire da esso che tutte
le altre dimensioni della loro vita devono essere affron
tate, soppesate e ordinate.
31
Schema II
AMARE,
PERDONARE, PERDONARSI
33
“altro” - reale e non sognato o idealizzato —che dob
biamo amare.
I limiti non si rivelano sempre immediatamente. Pe
quanti sforzi facciano i fidanzati per raccontarsi nella
verità, sappiamo bene come lo stato d’innamoramento
non favorisca la lucidità. Quando si è innamorati l’al
tro appare dotato di tutte le migliori qualità, e riesce
quasi sempre difficile ai genitori o agli amici aprire gli
occhi dei giovani —ma devono necessariamente farlo? -
sui limiti, spesso evidenti, dell’eletto o dell’eletta. Ed è
solo dopo qualche anno di matrimonio, quando si spe-
gne la febbre amorosa, che i limiti vengono doloro
samente alla luce. Sono soprattutto le ferite di natura
affettiva, sessuale o spirituale, subite nell’infanzia o nel
l’adolescenza, che rivelano i loro effetti solo dopo di
versi anni di vita in comune, e per lo più in maniera
inavvertita. La presa di coscienza di questi limiti può
ingenerare una crisi matrimoniale che può anche sfo
ciare nella separazione. «Non è più la persona che ho
sposato!», si sente dire... E invece, sì!
È dunque cosa saggia e doverosa che i fidanzati si
impegnino a rivelarsi reciprocamente le proprie debo
lezze e ferite, almeno quelle di cui hanno coscienza, e
che siano prese in seria considerazione. Ma non lo
saranno mai totalmente, per cui il “sì” del giorno del
matrimonio non può mai essere pronunciato con asso
luta cognizione di causa. E come potrebbe esserlo? Ciò
supporrebbe non solo la capacità di manifestarsi piena
mente, ma anche quella di conoscere pienamente se
stessi: cosa doppiamente impossibile. È questo che co
stituisce il rischio dell’impegno matrimoniale... mentre
gli conferisce grandezza e nobiltà. Da qui deriva anche
34
il carattere inevitabilmente avventuroso del matrimo
nio, sicché sperare di fondarsi solo sulle forze umane
per affrontarne le incertezze risulta pericolosamente
presuntuoso.
Il matrimonio mette inesorabilmente a nudo tutte le
nostre fragilità e i nostri limiti. Non si può “recitare”
in continuazione di fronte a chi condivide ogni giorno
con noi le circostanze più ordinarie e intime della vita.
«Nessuno è gran signore per il proprio servitore», reci
ta l’adagio. Questo è ancor più vero per una moglie o
un marito! In questa luce, il matrimonio è una crude
le, ma eccellente esperienza di verità rispetto a se stes
si. E, di conseguenza, una scuola di umiltà.
Vivendo fianco a fianco, non è possibile camuffarsi
a lungo, e le protezioni che possiamo aver costruito
attorno ai nostri limiti crolleranno l’una dopo l’altra.
Ciò vale per i limiti del corpo (al risveglio mattutino il
trucco non è più perfetto...), come per quelli del carat
tere (non si può ostentare all’infìnito una fìnta cordia
lità verso i suoceri...). Ci sono i limiti dell’intelligenza
(si può brillare in società, ma si può essere miseramen
te stupidi nelle situazioni ordinarie della vita), e quelli
dell’educazione (il personaggio grossolano che si cela
dietro a una patina di buone maniere non tarda a venir
fuori...). Altrettanto vale sul piano spirituale: nel corso
del fidanzamento si sono forse condivisi momenti di
fervore (ritiri, pellegrinaggi, veglie di preghiera...), che
col tempo possono lasciare spazio a tiepidezza e aridi
tà spirituale.
La prima esigenza di una vita coniugale ben condot
ta è l’accettazione dei nostri limiti: non certo per com
piacersene, ma per riconoscerli come costitutivi di ciò
35
che in realtà noi siamo. La seconda è perdonarli, distin
guendo quelli di cui non siamo responsabili da quelli
che la nostra negligenza, la pigrizia e una certa incuria
hanno contribuito ad accentuare e a radicare in noi.
È altrettanto necessario accettare i limiti della perso
na che ci vive accanto, smettendo di idealizzarla, per
amarla nella realtà. Anch’essa si identifica - sotto un cer
to aspetto - con i suoi limiti e le sue debolezze, e non
possiamo fare finta di niente, o illuderci che prima o poi
tutto possa cambiare in meglio. Questo però non vieta
di riservarle uno sguardo di speranza, soprattutto di fidu
cia nella grazia di Dio che può operare meraviglie. Ma
non significa che l’altro debba cambiare per conformar
si all’ideale di marito o di moglie che ci si è forgiato.
36
Nel matrimonio il dono delle persone si esprime e
si compie attraverso il dono dei corpi. E questo com
porta, preliminarmente, il riceversi e l’accettarsi nel pro
prio corpo. Accettare di avere un corpo, senza sognarsi
puri spiriti (tentazione più femminile che maschile...),
esseri disincarnati fatti per un amore platonico, spiri
tuale, attualizzabile solo come comunione di cuori e di
anime, prendendo le distanze dalle realtà della carne.
Questa tentazione manichea ha prodotto numerose
eresie fermamente combattute dalla Chiesa: catarismo,
encratismo, giansenismo...
Giovanni Paolo II è molto chiaro su questo punto,
e vi ritorna a più riprese, in particolare nell’esporre le
vere motivazioni per una scelta del celibato e nel com
mentare le parole di Cristo a proposito dell’adulterio
commesso nel cuore (cfr. Mt 5,27-28). È significativa
questa insistenza del pontefice nel rifiutare radical
mente ogni sospetto che possa gravare sulla dignità del
corpo e della sessualità: è in gioco la comprensione del
l’essenza stessa dell’uomo e della sua vocazione nel pro
getto di Dio. «Un atteggiamento manicheo dovrebbe
portare ad un “annientamento”, se non reale, almeno
intenzionale del corpo, ad una negazione del valore del
sesso umano, della mascolinità e femminilità della per
sona umana, o perlomeno soltanto alla loro “tolleran
za” nei limiti del “bisogno” delimitato dalla necessità
della procreazione. Invece, in base alle parole di Cristo
nel Discorso della montagna, \ ethos cristiano è caratte
rizzato da una trasformazione della coscienza e degli at
teggiamenti della persona umana, sia dell’uomo sia del
la donna, tale da manifestare e realizzare il valore del
corpo e del sesso, secondo il disegno originario del
37
Creatore, posti al servizio della “comunione delle per
sone” che è il substrato più profondo dell’etica e della
cultura umana» (Udienza del 22 ottobre 1980). E con
clude con quest’affermazione inequivocabile: «Il modo
manicheo di intendere e di valutare il corpo e la sessua
lità dell’uomo è essenzialmente estraneo al Vangelo».
Accettare di avere un corpo esige anche che si accet
ti questo corpo, donato a noi da Dio, con le sue imper
fezioni e i suoi limiti, poiché solo esso ci permette di
donarci. Esiste dunque una forma di perdono che deve
condurci ad una riconciliazione con noi stessi, per ac
cettarci col nostro corpo reale e concreto. Senza que
st’accettazione il nostro corpo, fatto per il dono, divie
ne un ostacolo al nostro donarci: non ci si può donare
nel proprio corpo senza amare questo corpo.
Occorre inoltre accettare il corpo dell’altro, così co-
m’è, per poterlo ricevere pienamente in dono; e perdo
nare all’altro i limiti del suo corpo al fine di poterlo
vedere come strumento del suo dono. Non si ribadirà
mai abbastanza gli inconvenienti causati dalle continue
idealizzazioni del corpo umano proposte dai media (ci
nema, tv, riviste, pubblicità...): spettacolarizzano corpi
apparentemente perfetti, inducendoci a paragonare il
nostro, e quello della persona amata, a questi archetipi
ideali - raramente a nostro vantaggio! - facendoci desi
derare di assomigliarvi. Un desiderio doppiamente in
sensato. In primo luogo, perché quei corpi esibiti per
lo più non sono reali (foto ritoccate, trucchi, montag
gi, immagini di sintesi...), ma il risultato di una finzio
ne virtuale. Inoltre, il tentativo di conformarsi a quegli
standard sfocerebbe più che altro in una perdita di per
sonalità.
38
È il nostro corpo, così com’è, a dirci chi veramente
siamo, e come tale dobbiamo accettarlo e amarlo. Noi
siamo il nostro corpo, come siamo la nostra anima. Ciò
vuol dire escludere ogni sforzo per valorizzare il corpo
e condannare ogni tentativo di correggerne i difetti?
Ovviamente no! La trascuratezza e la sciatteria fisica
non ci rendono più autenticamente noi stessi! Dobbia
mo prenderci cura del nostro corpo con misura ed in
telligenza... anche con un po’ di humour. Un trucco
discreto e appropriato può far risaltare vantaggiosa
mente il colore degli occhi o l’intensità dello sguardo;
il buon taglio di un vestito potrà attenuare dei fianchi
un po’ troppo pronunciati; le lenti a contatto si rivele
ranno talvolta più adatte di un paio di occhiali...
Tutto ciò è sano nella misura in cui ci aiuta ad amare
il corpo che ci è stato donato, in vista del dono di noi
stessi. Ed è in questo modo che dobbiamo guardare e
amare il corpo dell’altro: come un rivelatore, un “testi
mone” della sua persona fatta per il dono. Si arriva così
ad amare anche certe “imperfezioni” del corpo dell’al
tro, proprio perché sue, perché esprimono a loro modo
la sua unicità. Questo è un segno autentico della matu
rità dell’amore.
Dobbiamo continuamente perdonare il nostro cor
po, per amarlo di più e permettergli di donarsi meglio,
e perdonare il corpo dell’altro onde permettergli di
essere meglio accolto. Questo va fatto in ogni età della
vita, e lo sguardo rivolto al nostro corpo dev’essere eser
citato sotto lo sguardo di Dio. L’educazione (o ri-edu
cazione) dello sguardo è essenziale all’amore, poiché ci
permette di considerare realmente la persona amata
come un dono. Allora, le tracce lasciate nel corpo della
39
sposa dalle sue maternità non saranno più viste come
difetti, bensì come inviti a ringraziare per il dono che
significano; le rughe che prima o poi compaiono sul
volto dello sposo non saranno più causa di rimpianto,
bensì inviti alla contemplazione di una vita consuma
ta nell’offerta... Gli sposi impareranno, a poco a poco,
a non considerare il loro corpo attraverso il riflesso del
lo specchio, ma unicamente attraverso lo sguardo del
l’altro, capace di meravigliarsi di fronte a una bellezza
unica, pari a nessun’altra.
Sarà lo sguardo della persona che ci ama a svelarci la
nostra vera bellezza. Solo gli sposi possono scambiarsi
quelle ammirevoli parole del Cantico dei Cantici: «Quan
to sei bella, amata mia, quanto sei bella! / Gli occhi tuoi
sono come colombe. / Come sei bello, amato mio,
quanto grazioso!» (1,15-16). Questo modo di percepi
re ed esprimere la bellezza unica dell’altro è il grande
tesoro degli sposi, il cuore del loro amore, il taberna
colo sacro e segreto della loro intimità e del loro reci
proco donarsi.
Perdono e comunione
40
mento pieno della loro umanità: «Uno stato di fonda-
mentale “divinizzazione” della nostra umanità» (Udien
za del 9 dicembre 1981).
Che cosa significa questo? Che nello “stato di risur
rezione” l’uomo sperimenterà il compimento definiti
vo del significato sponsale del suo corpo. Sarà aljeftache
tutta la sete di comunione e di donazione, che ci carat
terizza in quanto persone chiamate al matrimonio, sarà
finalmente saziata dal donarsi di Dio a noi, a cui cor
risponderà il dono totale di noi stessi a Lui. «La parte
cipazione alla vita interiore [trinitaria] di Dio, penetra
zione e permeazione di ciò che è essenzialmente umano
da parte di ciò che è essenzialmente divino, raggiunge
rà allora il suo vertice [...]. Questa nuova spiritualizza
zione sarà frutto della grazia, cioè del comunicarsi di
Dio, nella sua stessa divinità, non soltanto all’anima,
ma a tutta la soggettività psicosomatica dell’uomo»
(Udienza del dicembre 1981).
Il matrimonio è destinato a coltivare in noi questa
sete del dono totale, a educarla, a farla crescere e matu
rare fino al suo pieno soddisfacimento, che solo Dio
può realizzare. In questo senso, il matrimonio è una
mediazione; una mediazione dalla quale si affrancano
coloro che hanno ricevuto la vocazione al celibato, chia
mati a donarsi totalmente a Dio già su questa terra.
Infatti, il celibato “per il Regno” comporta che sin da
quaggiù si cerchi di prefigurare - necessariamente in
maniera imperfetta - quel dono totale di sé a Dio e
quell’accoglienza perfetta del dono di Dio, che si com
piranno pienamente solo nel regno dei cieli, alla risur
rezione dei corpi. Per coloro, invece, che hanno ricevu
to la vocazione del matrimonio - e sono il maggior
41
numero - il loro stato di vita ha la funzione di prepa
rarli all’avvento del Regno.
Tutta l’opera del matrimonio consiste nell’elimina-
re, ogni giorno un po’ di più, ciò che in noi è di osta
colo alla comunione, nel prepararci a ricevere la pienez
za del dono di Dio alla risurrezione, quando Egli stesso
estinguerà totalmente e per l’eternità la sete di comu
nione iscritta fin dalle origini nei nostri cuori: «In se
guito alla visione di Dio “faccia a faccia”, nascerà in lui
[l’ùomo] un amore di tale profondità e forza di concen
trazione su Dio stesso, da assorbire completamente l’in
tera sua soggettività psicosomatica» (Udienza del 16 di
cembre 1981).
Questo è il fine ultimo e sublime del matrimonio sul
piano soprannaturale. Un fine che si realizza soprattut
to nella profonda umiltà del perdono. Occorre passare
attraverso il perdono vicendevole, umilmente sollecitato
e generosamente accordato - «settanta volte sette» - così
da preservare la comunione sponsale ed eventualmen
te rigenerarla, a fronte delle offese che con frequenza e
in vario modo può ricevere. Il perdono non si presume:
lo si chiede umilmente, lo si dice esplicitamente. Lo
sanno bene i monaci quando, al momento del cosid
detto “capitolo delle colpe”, si inchinano e confessano
pubblicamente le loro mancanze contro l’esercizio della
carità fraterna e implorano il perdono. È come un mu
ro di protezione che la saggezza monastica ha voluto
erigere contro le insidie che possono intaccare la vita di
fraternità e di comunione.
Il perdono è la condizione primaria della crescita
nella comunione sponsale. Senza di esso il matrimonio
rischia di ridursi ad una pura coesistenza, nell’indiffe
42
renza reciproca, invece che realizzarsi come comunio
ne reale e vitale delle anime, dei cuori e dei corpi. I gesti
di perdono che non sono stati richiesti o che non sono
stati concessi, sono simili alle acque sotterranee che mi
nano poco alla volta le fondamenta di un edifìcio, pri
ma di provocarne il crollo. Quando gli sposi si conce
dono ndl'atto dell’unione dei corpi, ma senza aver
prima compiuto il gesto di verità del perdono recipro
co, il loro donarsi non è altro che una falsificazione,
incapace di aprirli alla comunione vera. Il perdono è il
garante assoluto della fedeltà degli sposi, in quanto li
pone continuamente di fronte alle esigenze della veri
tà della loro comunione. L’infedeltà coniugale spesso
non è che il risultato di perdoni che, non chiesti o non
concessi, hanno lasciato crescere fra gli sposi delle zone
d’ombra - troppe cose non dette, sofferenza, rancore,
frustrazione... - che divengono a poco a poco il terre
no in cui attecchisce la menzogna.
Il perdono, mutuamente praticato, mantiene gli spo
si in una costante esigenza di verità che rigenera di con
tìnuo la loro fedeltà. La liturgia eucaristica ci educa al
perdono come atto preparatorio per la comunione con
Cristo, attraverso il riconoscimento delle colpe e la ri
chiesta di perdono: Confesso... /Signore, non sono degno...
Di perdono in perdono, la comunione nel matrimo
nio diviene più vera e più radicale, pur rimanendo sem
pre imperfetta, e incrementa in noi la sete di quella
comunione più totale di cui Dio stesso, nell’ultimo
giorno, sarà al contempo l’oggetto e la causa.
43
Schema III
Il sacramento primordiale
45
una sorta di nostalgia. Ed è ciò che provoca in noi la
sensazione —ben giusta - che la nostra sessualità com
porti una certa grandezza, una certa nobiltà, nonostan
te la consapevolezza del nostro peccato, delle nostre
ferite, della nostra miseria e povertà. E appunto al pro
getto delle origini che Gesù si richiama nella sua rispo
sta ai farisei che lo mettono alla prova a proposito del
ripudio della moglie (cfr. Mt 19,3-9). Quella stessa
risposta Cristo la darebbe anche all’uomo contempo
raneo, a ciascuno di noi, «e lo farebbe forse in modo
tanto più deciso ed essenziale, in quanto la situazione
interiore e insieme culturale dell’uomo d’oggi sembra
allontanarsi da quel “principio” ed assumere forme e
dimensioni che divergono dall’immagine biblica del
“principio” in punti evidentemente sempre più distan
ti» (Udienza del 2 aprile 1980).
L’eco lontana di quel “principio” testimonia nel no
stro cuore la verità sulla sessualità umana, voluta per
esprimere visibilmente la comunione eterna delle Per
sone divine. L’intera creazione è destinata a rivelare il
cuore di Dio, a essere una raggiante manifestazione
della sua essenza. Si può dunque parlare di “sacramen
to” della creazione, nel senso ampio e primigenio della
parola: sacramento inteso come «svelamento del miste
ro nascosto in Dio». Tutta la creazione, in quanto opera
che manifesta Dio, non può che essere buona. Lo testi
monia l’asserzione che conclude ogni giorno della crea
zione: «Dio vide che era cosa buona». Ma è al vertice
della sua opera, dopo aver realizzato il suo capolavoro
con la creazione dell’uomo e della donna, che «Dio vi
de quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona»
(Gn 1,31). «Il matrimonio è sacramento in quanto par
46
te integrante e, direi, punto centrale del “sacramento
della creazione”. In questo senso è sacramento primor
diale» (Udienza del 6 ottobre 1982).
È questo progetto di Dio, il sogno d’amore dell’Eter-
no che continua ad animare il cuore dell’uomo, malgra
do tutte le deturpazioni che il peccato originale non cessa
di infliggere all’amore umano. È l’eco lontana del “prin
cipio” che dobbiamo riscoprire nel profondo del nostro
cuore, a condizione che sappiamo prestare orecchio alla
nostalgia di quella “purezza di cuore” di cui erano natu
ralmente capaci l’uomo e la donna nel loro stato d’inno
cenza. «Quest’armonia, e precisamente la “purezza di
cuore”, consentiva all’uomo e alla donna nello stato del
l’innocenza originaria di sperimentare semplicemente (e
in un modo che originariamente li rendeva felici en
trambi) la forza unitiva dei loro corpi, che era, per così
dire, il substrato “insospettabile” della loro unione per
sonale o “communio personarum » (Udienza del 4 feb
braio 1981). Il ritorno a quella purezza del cuore, nella
nostra condizione di umanità ferita dal peccato, non può
che essere opera della grazia di Dio in noi.
La grazia del sacramento matrimoniale, benché con
ferisca una speciale forza per lottare contro il peccato delle
origini, non può cancellarne le conseguenze, che riman
gono iscritte in noi sotto la forma della triplice concupi
scenza evocata da san Giovanni (lGv 2,16: «concupi
scenza della carne, concupiscenza degli occhi, superbia
della vita»). Ma può permetterci di ricalibrare il vissuto
della nostra sessualità rispetto al progetto originario di
Dio, e ciò persino attraverso le ferite del nostro cuore.
Riconoscere lo splendore del disegno di Dio sulla sessua
lità umana, contemplarlo esercitandoci alla purezza del
47
cuore, è una prima tappa che ci permette di vivere l’unio
ne dei corpi come una liturgia, come una celebrazione del
divino, e dunque di riconciliarci con la nostra sessualità,
piuttosto che contrastarla. La sessualità è fondamental
mente buona, anche se il nostro cuore ferito ci rende dif
fìcile coglierla e viverla nel suo significato integrale.
Attraverso di essa il Creatore ha voluto “esprimersi” nella
maniera più profonda e insieme più umile.
Una spiritualità coniugale autentica non potrà mai
proporsi come una sfida alla sessualità o come un suo
svilimento. La sessualità non è in noi una sorta di retag
gio animalesco che saremmo condannati a esperire al
modo di una “sublimazione culturale”. Essa è il marchio
del divino in noi e continua ad avere la funzione che
aveva “al principio”: svelare il cuore trinitario di Dio.
Realizzarla concretamente, convincerci della fondamen
tale bontà della nostra sessualità per riconciliarci con
essa, è la condizione primaria di ogni spiritualità coniu
gale. Non è malgrado - e ancora meno contro - la nostra
.sessualità che dobbiamo, come sposi, crescere nella vita
spirituale, bensì mediante il suo esercizio ordinato, cioè
conforme alla sua finalità. A questa condizione, la nostra
vita sessuale non potrà essere una sorta di parentesi nella
nostra vita spirituale. Al contrario, sarà il cuore e come
il centro liturgico della nostra vita di sposi.
48
femmina”), conclude la prima parte della sua risposta
in questi termini: «Così non sono più due, ma una sola
carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha
congiunto» (Mt 19,9). Tutta una tradizione ha inter
pretato, opportunamente, questa risposta nel senso del
la intangibilità dell’unione coniugale: l’uomo non può
arrogarsi il potere di separare coloro che si sono reci
procamente consacrati nel matrimonio.
Alla luce delle origini, richiamate in due riprese in
questo passo evangelico, Gesù sembra voler dire qual
cosa di ancor più profondo. Dio non ha inteso creare
un essere unicamente spirituale, a cui fosse in qualche
modo “affibbiato” un corpo. Ha invece voluto un esse
re al contempo carnale e spirituale: non nel senso di
una “addizione” di due nature, una spirituale e l’altra
corporale, ma nel senso di un’unità sostanziale di corpo
e di spirito. Secondo il progetto creativo di Dio, l’uo
mo non è un’anima “più” un corpo, o un’anima “in”
un corpo, come pensava Cartesio. Egli è “anima incar
nata” e “carne spiritualizzata”. Ed è tale solo nell’unio
ne con un altro principio - maschile per la donna, fem
minile per l’uomo - che gli conferisce la sua piena
realtà ontologica. L’uomo non è pienamente umano
senza la donna, come la donna non è pienamente uma
na senza l’uomo.
La presa di coscienza della realtà umana dell’uomo
e della donna si compie nell’unica carne (una caro), la
carne unita dell’uomo e della donna. E in questa unio
ne, destinata alla comunione, che l’uomo e la donna
realizzano la pienezza della loro umanità. L’uomo è me
scolanza di spirito e carne, ma la sua realtà carnale non
si esaurisce nella sola mascolinità o nella sola femmini
49
lità. L’uomo non è pienamente corpo - un corpo fatto
per il dono - che nell’unione dei corpi, dove essi non
sono più due, ma un’unica carne. Sin dall’origine, è in
questa unità della carne che si esprime la pienezza della
loro umanità.
Non l’uomo singolarmente, né la donna singolarmen
te, sono immagine di Dio, bensì l’uomo e la donna in
comunione nell’unica carne. «L’uomo è divenuto “im
magine e somiglianza” di Dio non soltanto attraverso la
propria umanità, ma anche attraverso la comunione del
le persone, che l’uomo e la donna formano sin dall’ini
zio. [...] Egli, infatti, è fin “da principio” non soltanto
immagine in cui si rispecchia la solitudine di una Per
sona che regge il mondo, ma anche, ed essenzialmente,
immagine di una imperscrutabile divina comunione di
Persone» (Udienza del 14 novembre 1979).
L’uomo non è immagine di Dio solo perché creatu
ra dotata di spiritualità. Se l’immagine di Dio fosse una
qualifica conferita unicamente attraverso la spirituali
tà, gli angeli, essendo puri spiriti, meriterebbero infini
tamente più dell’uomo di essere qualificati come im
magini di Dio. Ogni angelo è un riflesso sublime di
una dimensione deU’intelligenza divina, ma essere im
magine di Dio è il privilegio dell’essere umano, uomo
e donna. Essendo Dio comunione eterna di Persone, la
sua immagine è fondamentalmente iscritta nella capa
cità di comunione dell’uomo e della donna quando,
divenendo una sola carne, esprimono la totalità e l’as
soluto del dono delle loro persone. «Questo potrebbe
costituire perfino l’aspetto teologico più profondo di
tutto ciò che si può dire dell’uomo» (ivi).
Il più modesto rappresentante della gerarchia ange
50
lica è una creatura che supera smisuratamente, in intel
ligenza, la totalità del genio dell’umanità. Il minimo ri
flesso dell’intelligenza divina nell’intelligenza angelica
ci supera infinitamente. E tuttavia, l’angelo non dona
la vita... Egli può comunicare un’opera della sua intel
ligenza, ma non può trasmettere la vita. L’uomo, inve
ce, è capace di donare la vita del corpo e dello spirito.
In questo senso, egli è procreatore e partecipe dell’atti
vità creatrice di Dio, che è Vita. Un privilegio straor
dinario, di cui non godono gli angeli, benché sul piano
dell’essere siano assai più perfetti degli uomini.
Ogni unione dei corpi è celebrazione - liturgia -
della comunione esistente in Dio da tutta l’eternità. Le
gando la sua immagine nell’unione dei corpi, Dio ha
voluto essere proclamato, glorificato, celebrato in que
sta umiltà del dono. L’atto carnale, il gesto del donarsi
dei corpi, diventa un “racconto” di Dio, una sua cele
brazione, una liturgia. Quest’assoluto del dono, l’uomo
non ha il diritto di infrangerlo.
51
totale che ogni Persona divina fa di sé nella Trinità: il
Padre, assoluto dono offerto / il Figlio, assoluto dono
ricevuto / lo Spirito, assoluto dono scambiato. È da
questo donarsi reciproco e assoluto delle Persone che
risulta la comunione eterna dell’amore trinitario, che è
il cuore stesso di Dio. È di questo dono, da cui sgorga
la comunione trinitaria, che il corpo umano è imma
gine, recando il dono iscritto nella sua stessa struttura.
Il progetto d’amore di Dio su tutta la creazione era di
collocare al suo vertice l’unione carnale dell’uomo e
della donna, sicché in essa il mistero stesso di Dio fosse
“detto” e manifestato. «Il corpo, infatti, e soltanto esso,
è capace di rendere visibile ciò che è invisibile: lo spi
rituale e il divino. Esso è stato creato per trasferire nella
realtà visibile del mondo il mistero nascosto dall’eter
nità in Dio, e così esserne segno» (Udienza del 20 feb
braio 1980).
Rendere visibile il mistero di Dio: questa è la voca
zione del corpo umano fatto per un dono che si realiz
za pienamente nell’unione carnale. «Il corpo, e soltan
to esso...», non la sublime intelligenza dei cherubini,
che posseggono la perfezione della scienza di Dio, né
quella dei serafini, gli angeli che occupano il vertice
delle gerarchie celesti. Il corpo umano, e soltanto esso!
Quanto vi è di più umile, di più povero, persino di più
miserabile nel suo esprimersi —il dono dei corpi - è
stato elevato a epifania del divino. Sublimi le parole di
Giovanni Paolo II: «In questa dimensione del dono si
costituisce un primordiale sacramento, inteso quale se
gno che trasmette efficacemente, nel mondo visibile, il
mistero invisibile nascosto in Dio dall’eternità. E que
sto è il mistero della Verità e dell’Amore, il mistero del
52
la vita divina, alla quale l’uomo partecipa realmente»
(Udienza del 20 febbraio 1980).
Prospettiva assolutamente incomprensibile per la lo
gica mondana: il mistero del corpo legato al mistero di
Dio; un mistero che deve diventare oggetto di contem
plazione. Gli sposi cristiani sono chiamati a essere i
profeti di questo splendore della vocazione del corpo
umano. Splendore e grandezza che si rivelano nel
l’umiltà delle nostre espressioni carnali. Realtà e verità
assolutamente inaccessibili ad un’intelligenza orgoglio
sa. Si comprende, allora, come il nemico di Dio - bu
giardo e omicida sin dalle origini - avendo rifiutato il
progetto dell’incarnazione, si ingegni a rendere opaco
e inadeguato questo linguaggio del corpo, a falsificar
ne il significato, al fine di indurre l’uomo a disperare
della vocazione eterna del suo corpo.
Ci è dunque proibito disprezzare o anche solo de
nigrare il linguaggio del corpo. Dobbiamo invece ce
lebrarlo e magnificarlo, proprio in ragione della sua
umiltà. Il corpo, ed esso solo, è fatto per dire ciò che è
indicibile. L’indicibile di Dio non può essere raggiun
to dalla speculazione teologica, anche la più alta, la
quale può solo cercare di avvicinarlo. L’indicibile miste
ro dell’amore eterno delle divine Persone può e dev’es
sere “detto” attraverso la realtà carnale dell’unione dei
corpi. Una realtà che dà la vertigine! La vertigine di un
amore inesprimibile che si rivela nella piccolezza e non
nella grandezza, nell’umiltà del corpo e non nella subli
mità dell’intelligenza.
Ad un simile mistero, più che il discorso teologico,
può tentare timidamente di avvicinarsi la poesia. É ciò
che fa Giovanni Paolo II nella sua ultima opera poeti
53
ca, del 2003, meditando sulla raffigurazione michelan
giolesca della creazione nella cappella Sistina: «Chi è
Lui? L’Indicibile. L’Esistenza che esiste da sé. L’Unico.
Il Creatore di tutto. Nello stesso tempo, comunione di
persone. In questa comunione si realizza un dono reci
proco della pienezza di verità, di bene e di bellezza. Ma
- al di sopra di tutto - indicibile. E tuttavia ci parlava
di sé. Così come ha fatto creando l’uomo a sua imma
gine e somiglianza. [...] “Uomo e donna li creò”. E ad
essi restava il dono ricevuto da Dio. Essi accolsero su
di sé - misura della loro umanità - questo mutuo dono
che è in lui» ( Trittico romano, 3).
E dunque immensa la responsabilità di quanti han
no la vocazione del matrimonio: chiamati a manifesta
re l’intima essenza di Dio attraverso la comunione rea
lizzata nell’unica carne. In questa luce, il matrimonio
cristiano si rivela come l’esperienza concreta mediante
la quale il mistero stesso di Dio si rende un po’ più ac
cessibile all’uomo. Se la liturgia è servizio e celebrazione
del divino, gli sposi cristiani, quando si fanno vicende
vole dono di sé nell’“unica carne”, divengono - nel
l’umiltà stessa del loro dono - “liturghi” per eccellenza.
Per loro tramite l’assoluto mistero di Dio è manifesta
to e celebrato nella sua pienezza.
54
Schema IV
L’UMILTÀ
DELL’INCARNAZIONE
55
nella gioiosa condivisione in vista di ciò a cui il proget
to divino li aveva destinati.
I corpi dell’uomo e della donna, nella loro divers
tà sessuale, consentivano la realizzazione della loro pie
na identità in quanto immagini di Dio. L’espressione
biblica: «Tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie,
e non provavano vergogna» (Gn 2,25) indica la piena
consapevolezza della vera essenza del loro corpo e la
pace totale degli sguardi reciproci. In origine il corpo
manifesta pienamente la realtà dell’uomo e permette
che «l’uomo e la donna “comunichino” tra loro secon
do quella “communio personarurn voluta dal Creatore
proprio per loro» (Udienza del 19 dicembre 1979).
L’assenza di vergogna attesta che essi riconoscono per
fettamente il significato sponsale dei loro corpi, attra
verso i quali possono realizzare il dono totale di sé. «Il
corpo, che esprime la femminilità “per” la mascolini
tà e, viceversa, la mascolinità “per” la femminilità, ma
nifesta la reciprocità e la comunione delle persone. La
esprime attraverso il dono come caratteristica fonda-
mentale dell’esistenza personale» (Udienza del 9 gen
naio 1980).
Così Giovanni Paolo II evoca poeticamente la con
dizione d’innocenza delle origini: «Nudi, tutti e due...
Finché conservarono quel dono, non ebbero vergogna.
Con il peccato verrà la vergogna, ma per il momento è
l’estasi a durare. Vivono, consapevoli di quel dono, an
che se non sanno dargli un nome. Vivono di esso. Sono
puri» ( Trittico romano, 3). Ben diversi sono i loro sguar
di dopo il peccato. Ormai, nelle forme della mascoli
nità e della femminilità essi non vedono altro che la so
miglianza con la sessualità animale... e ne provano
56
disagio e vergogna. E quelle forme vanno coperte, tan
to sono diventate suscettibili di risvegliare non più un
richiamo al dono, ma uno sguardo di concupiscenza.
«Un tale estorcere all’altro essere umano il suo dono (al
la donna da parte dell’uomo e viceversa) ed il ridurlo
interiormente a puro “oggetto per me”, dovrebbe ap
punto segnare l’inizio della vergogna. Questa, infatti,
corrisponde ad una minaccia inferta al dono nella sua
personale intimità e testimonia il crollo interiore del
l’innocenza nell’esperienza reciproca» (Udienza del 6
febbraio 1980). Non ci resta quindi che ritrovare, a po
co a poco, lo sguardo delle origini, pazientemente, con
umiltà e fiducia.
Sappiamo quanto sia difficile, per gli sposi, offrirsi
allo sguardo vicendevole nella totale nudità del corpo.
La nudità ci disarma, ci priva di ogni protezione, ci
espone a una terribile vulnerabilità. Lo sanno bene i
torturatori, che cominciano col denudare i corpi per as
servire le anime. I nazisti, come primo atto del loro
progetto disumanizzante verso quanti arrivavano nei
campi di sterminio, li costringevano a svestirsi. Nel
l’esperienza matrimoniale, l’offrirsi nudi allo sguardo
del partner, con serenità di anima e di cuore, esige che
gli si conceda totale fiducia, nella certezza di non esse
re giudicati, “soppesati” e criticati... bensì fatti oggetto
di ammirazione. E un’attitudine che esige una costan
te rieducazione del cuore, specialmente nell’attuale cli
ma culturale che non cessa di offrirci modelli standar
dizzati di corpi da rivista patinata.
Particolarmente delicata, e non di rado disagevole,
può risultare la situazione della donna, quando il suo
corpo mostra le tracce delle maternità. Ha davvero bi
57
sogno di molta fiducia nello sguardo del suo sposo, per
essere certa di non essere giudicata, ma piuttosto resa
partecipe di un’azione di grazie al cospetto delle stim
mate impresse in lei dal dono della vita. Quale deli
catezza deve esercitare lo sposo, onde trattenersi da
qualsiasi sguardo o commento inopportuno, che possa
attentare a ciò che di più delicato, intimo e vulnerabi
le esiste nella comunione sponsale!
Al contrario, quando la spontaneità della comunio
ne è stata ferita, o addirittura infranta, il primo rifles
so è di sottrarre la propria nudità allo sguardo altrui.
Nel mezzo di una crisi o in una situazione di disagio,
diventa diffìcile spogliarsi in presenza dell’altro, prima
che un atto di sincera riconciliazione permetta di nuo
vo che il suo sguardo si posi sul nostro corpo denudato.
58
Quanti falsi pudori è necessario vincere! Quanti spo
si accettano di spogliare i loro corpi, ma si rifiutano di
denudare le loro anime nella verità. Siamo allora certi
che la nudità del corpo sia considerata nella giusta luce?
C’è ragione d’interrogarsi su questo pudore spirituale,
contro il quale gli sposi devono combattere senza posa.
Perché è così difficile vincerlo, al punto che la conqui
sta dell’intimità spirituale richiede una lotta quoti
diana, lungo tutto l’arco della vita coniugale? Forse toc
chiamo qui il cuore stesso del mistero dell’amore, nel
luogo in cui è in gioco la sua verità e, parimenti, la sua
maggiore vulnerabilità.
Per spiegare questa difficoltà, e anche giustificarla, si
potranno chiamare in causa un’educazione spirituale
troppo individualistica, le deviazioni di certe spiritua
lità, i blocchi affettivi e tutto l’arsenale delle argomen
tazioni psicologiche - fattori che hanno sicuramente il
loro valore -, ma il nocciolo della questione rimane
irrisolto. Il dato di fondo è che solo la comunione delle
anime può disporre alla verità dell’unione dei corpi, nel
rispetto integrale del suo significato.
Anche fra moglie e marito, anche fra sposi cristiani
vincolati dal sacramento, l’unione dei corpi può realiz
zarsi sotto forma di seduzione o di dominio, quindi
nella falsificazione del linguaggio corporeo ereditata dal
peccato. Ma così non si esprime più il dono incondi
zionato delle persone, non si realizza più la vocazione
“sponsale” del corpo umano - per riprendere un’espres
sione cara a Giovanni Paolo II -, cioè l’appello al dono
totale di sé. La comunione vera delle anime, sperimen
tata in una preghiera effettiva e condivisa, rende quasi
impossibile questa falsificazione del linguaggio del cor
59
po, a meno che non si dia spazio all’ipocrisia di una
preghiera fittizia o soltanto formalistica.
La posta in gioco della nudità delle anime sta in que
sto: favorire la verità del dono dei corpi e il rispetto as
soluto del suo significato sponsale. Ma c’è anche la con
tropartita: si esige un’assoluta fiducia reciproca, per
potersi offrire nella totale vulnerabilità e trasparenza.
L’accettazione della vulnerabilità di ciò che in noi è più
intimo, può rendere l’amore degli sposi più forte della
morte, come testimonia la storia biblica di Tobia e Sara,
i quali si offrono l’uno all’altra nella preghiera comune
prima di realizzare il dono dei corpi. «La preghiera di
Tobia (Tb 8,5-9) - commenta Giovanni Paolo II - che
è innanzitutto preghiera di lode e di ringraziamento,
poi di supplica, colloca il “linguaggio del corpo” sul ter
reno dei termini essenziali della teologia del corpo. [...]
Si può dire che sotto questo aspetto il “linguaggio del
corpo” diventa il linguaggio dei ministri del sacramen
to, consapevoli che nel patto coniugale si esprime e si
attua il mistero che ha la sua sorgente in Dio stesso. Il
loro patto coniugale è infatti l’immagine - e il primor
diale sacramento dell’alleanza di Dio con l’uomo, con
il genere umano - di quell’alleanza che trae la sua ori
gine dall’Amore eterno» (Udienza del 27 giugno 1984).
Prepararsi attraverso l’unione delle anime alla pienez
za dell’unione dei corpi —una volta fatto il primo discer
nimento sulla persona prescelta - è il percorso essenzia
le di un serio fidanzamento. Sono le loro anime, che i
fidanzati devono imparare a denudare, per essere poi
capaci di denudare i loro corpi in una totale trasparenza
e libertà. L’esperienza insegna che, se non si compie que
sto apprendistato durante il fidanzamento, sarà assai dif
60
ficile intraprenderlo dopo il matrimonio. La capacità di
pregare insieme è una delle garanzie più sicure per un
matrimonio solido, e deve costituire per i fidanzati un
basilare elemento di verifica. È questa la roccia sulla
quale devono costruire il loro futuro matrimonio, e che
al momento opportuno permetterà loro di affrontare le
inevitabili prove di ogni vita coniugale.
Purtroppo, è proprio la preghiera in comune la pri
ma cosa che gradatamente gli sposi tralasciano quando
la loro comunione inizia a sbiadire. Ci si riduce a pre
gare semplicemente l’uno accanto all’altra, quando non
si può fare altrimenti (ad esempio durante la messa do
menicale). Poi si passa a pregare ognuno per conto pro
prio, avendo forse l’impressione di fare meglio... Una
funesta e pericolosa illusione. Gli sposi rischiano di
perdere di vista la comunione perfetta - delle anime e
dei corpi - alla quale sono chiamati, finendo col rasse
gnarsi ad una semplice coesistenza, pur conservando
una buona relazione sul piano affettivo e sessuale: ma
si tratta di relazioni, non più di comunione.
È la nudità e l’unione delle anime, realizzata in pri
mo luogo attraverso la preghiera in comune, a predispor
re a quella estatica nudità e sacrale unione dei corpi - alla
luce e nel segno della croce - nel rispetto della vocazio
ne al dono, come riverbero dell’offerta redentiva e nuzia
le di Cristo/Sposo nei confronti della Chiesa/Sposa.
61
carnazione, il matrimonio è vera scuola di umiltà. Ac
cettare di avere un corpo e di offrirlo in dono nell’umil
tà dell’espressione carnale; realizzare l’intima comunione
con Dio in una vita spirituale vissuta in due; esprimere
l’amore attraverso i segni incarnati della tenerezza, con i
gesti più semplici e le effusioni carnali, che non sono
esclusivamente sessuali; accettare che l’amore sponsale si
completi nella trasmissione della vita, con tutto il suo
bagaglio di obblighi concreti... Attraverso tutte queste
esigenze, il matrimonio immerge coloro che vi sono
chiamati nella dimensione profonda del mistero cristia
no, che è innanzitutto mistero d’incarnazione.
Nella prospettiva dell’incarnazione, tuttavia, gli spo
si sono tenuti a qualcosa di più, hanno un ruolo del
tutto speciale rispetto a ciò che il corpo umano è chia
mato a significare nel progetto di Dio. Attraverso le
parole e l’atto di autodonazione e di mutua accoglien
za, grazie a cui diventano veri e propri “ministri del
sacramento”, gli sposi fanno riferimento al “linguaggio
del corpo”, che come ogni linguaggio dev’essere prati
cato secondo verità: nel loro caso deve rispecchiare le
esigenze del dono di sé, integrale e senza riserve. «Sullo
sfondo delle parole pronunciate dai ministri del sacra
mento del matrimonio, sta il perenne “linguaggio del
corpo”, a cui Dio “diede inizio” creando l’uomo quale
maschio e femmina: linguaggio che è stato rinnovato
da Cristo. Questo perenne “linguaggio del corpo” porta
in sé tutta la ricchezza e la profondità del Mistero: pri
ma della creazione, poi della redenzione» (Udienza del
19 gennaio 1983).
Il linguaggio del corpo, utilizzato dagli sposi per espri
mere il loro patto nuziale, è lo stesso della Bibbia: quel
62
lo dell’alleanza originaria tra il Creatore e l’uomo nel
mistero della creazione; poi quello dell’antica alleanza
conclusa con Israele in Abramo, il cui carattere nuzia
le sarà proclamato dai profeti (Osea, Ezechiele, Isaia);
infine, quello della nuova alleanza sponsale tra Cristo
e la Chiesa, come espressa dall’apostolo Paolo (cfr. Ef
5,21-33). «Non è lecito dimenticare che “il linguaggio
del corpo”, prima di essere pronunciato dalle labbra
degli sposi, ministri del matrimonio quale sacramento
della Chiesa, è stato pronunciato dalla parola del Dio
vivo, iniziando dal libro della Genesi, attraverso i Pro
feti dell’antica alleanza, fino all’autore della lettera agli
Efesini» (ivi). In questo senso, gli sposi compiono, do
nandosi l’uno all’altra, un atto di carattere profetico.
Infatti, attraverso il dono di sé, espresso con le parole del
consenso, confermato dalla consumazione del matrimo
nio nell’unione dei corpi, affermano la loro partecipa
zione alla missione profetica che Cristo ha affidato alla
Chiesa. Il profeta, ci ricorda il papa, «è qualcuno che
esprime con parole umane la verità che proviene da Dio,
che proferisce questa verità al posto di Dio, in suo nome
e, in un certo senso, sotto la sua autorità» (ivi). Attra
verso l’umiltà del linguaggio dei corpi gli sposi sono real
mente profeti.
Ma gli sposi permettono anche, in qualche modo, al
corpo di esprimersi a loro nome. «L’uomo —maschio o
femmina - non soltanto parla col linguaggio del corpo,
ma in un certo senso consente al corpo di parlare “per
lui” e “da parte di lui”: direi, a suo nome e con la sua
autorità personale. In tal modo, anche il concetto di
“profetismo del corpo” sembra essere fondato: il “pro
feta”, infatti, è colui che parla “per” e “da parte di”: a
63
nome e con l’autorità di una. persona» (Udienza del 26
gennaio 1983). Quindi, il corpo degli sposi “parlerà
profeticamente” in nome di ciascuno di loro non solo
attraverso gli atti propri del dono sessuale, ma anche
attraverso ogni gesto di tenerezza, di affetto, di compas
sione, di vicendevole accoglienza. Tutto questo è con
tenuto, in maniera sintetica, nelle parole sacramentali
del consenso coniugale, ed è destinato a dispiegarsi
lungo tutta la vita degli sposi.
Profeti dell’alleanza fra Dio e l’umanità, fra Cristo e
la sua Chiesa, gli sposi hanno l’immensa responsabilità
di essere dei veri profeti, di permettere al corpo di eser
citare la sua missione profetica, di essere in qualche
modo i guardiani della verità del linguaggio del corpo.
Non sia mai che essi, tradendo e alterando questo lin
guaggio, vengano a trovarsi nella categoria dei “falsi pro
feti” denunciati dalla Scrittura, coloro che conducono
alla morte il popolo di Dio. La loro immensa missione,
di partecipare in maniera eminente al mistero dell’incar
nazione, passa attraverso l’accettazione dell’umiltà del
linguaggio del corpo e nel rispetto della sua verità.
64
Schema V
LE SOTTIGLIEZZE DELL’ADULTERIO
65
che non sia sua moglie, si ponga in una situazione di
adulterio interiore. Questa traduzione ha anche il van
taggio di mostrare le possibili conseguenze sull’altra
persona di un peccato che a prima vista sembra coin
volgere unicamente chi lo commette nel segreto del
l’animo. Se il guardare una donna “per desiderarla” può
renderla a sua volta adultera nel suo cuore, è perché
quello sguardo non rimane neutro per lei, produce su
di lei qualche effetto, anche se l’atteggiamento interno
dell’uomo non si traduce in un atto esteriore. Lo sguar
do che si rivolge ad un’altra persona non è mai total
mente neutro, e se non è corretto può provocare uno
stato interiore della medesima natura.
Dicendo: «Chiunque guarda...», Gesù si rivolge a
ciascuno di noi —uomini e donne —non solo agli ascol
tatori del suo tempo. «Quest’uomo è, in certo senso,
“ciascun” uomo, “ognuno” di noi. [...] Cristo si rivolge
all’uomo di un determinato momento della storia e,
insieme, a tutti gli uomini appartenenti alla stessa sto
ria umana» (Udienza del 23 aprile 1980). Ma si rivolge
anche alla donna, poiché anche lei può posare sull’uo
mo uno sguardo eticamente trasgressivo: «Che Cristo
si rivolga direttamente all’uomo come a colui che
“guarda una donna con desiderio”, non vuol dire che
le sue parole, nel loro senso etico, non si riferiscano an
che alla donna» (ivi).
Giovanni Paolo II approfondisce tale aspetto in una
successiva udienza. «Le parole del Discorso della mon
tagna ci consentono di stabilire un contatto con l’espe
rienza interiore di quest’uomo quasi ad ogni latitudine
e longitudine geografica, nelle varie epoche, nei diver
si condizionamenti sociali e culturali. L’uomo del no
66
stro tempo si sente chiamato per nome da questo enun
ciato di Cristo, non meno dell’uomo di “allora”, a cui
il Maestro direttamente si rivolgeva. [...] Forse proprio
in questo enunciato di Cristo, che qui sottoponiamo ad
analisi, ciò si manifesta con particolare chiarezza. In
virtù di questo enunciato, l’uomo di ogni tempo e di
ogni luogo si sente chiamato, in modo adeguato, con
creto, irripetibile: perché appunto Cristo fa appello al
“cuore” umano, che non può essere soggetto ad alcuna
generalizzazione» (Udienza del 6 agosto 1980). E dun
que nel cuore di ogni uomo e di ogni donna, nel più
profondo di noi stessi, che Cristo ci interpella con le
sue parole, lui che conosce meglio di ogni altro il segre
to mistero del nostro cuore, le sue miserie e le sue gran
dezze (cfr. Gv 2,25).
In che cosa consiste, esattamente, questo “adulterio
commesso nel cuore”? L’adulterio del corpo è qualcosa
di perfettamente chiaro: consiste, per chi è vincolato
dal patto matrimoniale, nel compiere gli atti della
donazione del corpo con una persona che non è sua
legittima sposa o suo legittimo sposo. Il peccato di
adulterio, formalmente condannato dal sesto coman
damento, è evocato nell’Antico Testamento - in parti
colare dai profeti Osea ed Ezechiele - per esprimere
l’infedeltà di Israele al suo patto d’alleanza con Jahvè.
Nel Discorso della montagna Gesù sorvola su tutte
le dispute riguardanti la proibizione dell’adulterio nella
Scrittura, per attirare l’attenzione su una nuova dimen
sione dell’esigenza etica, ovvero sul “guardare per desi
derare”. Perché? «Lo sguardo esprime ciò che è nel cuo
re. Lo sguardo esprime, direi, l’uomo intero. Se in
generale si ritiene che l’uomo “agisce conformemente
67
a ciò che è” (operavi sequitur esse), Cristo in questo caso
vuol mettere in evidenza che l’uomo “guarda” confor
memente a ciò che è: intueri sequitur esse. [...] Cristo
insegna, dunque, a considerare lo sguardo quasi come
soglia della verità interiore» (Udienza del 10 settembre
1980). Chi rivolge sull’altro uno sguardo “per deside
rare”, entra nel registro della concupiscenza rispetto al
corpo, non in quello del suo significato sponsale. «“De
siderare”, “guardare con concupiscenza”, indica un’espe
rienza del valore del corpo il cui significato sponsale
smette di essere tale, in ragione della stessa concupi
scenza» (ivi).
Occorre capire bene la natura del desiderio denun
ciato da Cristo come causa dell’adulterio del cuore. Non
si tratta certo di quell’attrazione “eterna” che spinge
l’uomo verso la donna e la donna verso l’uomo. E una
realtà fondamentalmente buona, poiché iscritta da Dio
fin dalle origini nella struttura stessa dell’uomo e della
donna, chiamati ad una vocazione di comunione attra
verso il reciproco dono di sé. «Essa libera nell’uomo
- o forse dovrebbe liberare - una gamma di desideri
spirituali e carnali di natura soprattutto personale e “di
comunione”, ai quali corrisponde una proporzionale
gerarchia di valori». Al contrario, prosegue il papa, il
“guardare per desiderare” messo in discussione da Gesù
si rivela «un inganno del cuore umano nei confronti
della perenne chiamata dell’uomo e della donna - una
chiamata che è stata rivelata nel mistero stesso della
creazione - alla comunione attraverso un dono recipro
co» (Udienza del 17 settembre 1980).
In che cosa consiste questo inganno? Nel fatto che
il “guardare per desiderare” comporta una riduzione
68
intenzionale della persona al suo esclusivo valore ses
suale, in riferimento alla soddisfazione che è possibile
trarne, e ciò attraverso una limitazione dell’orizzonte
dello spirito e del cuore. Giovanni Paolo II prosegue:
«La donna, per l’uomo che “guarda” così, cessa di esi
stere come soggetto dell’eterna attrazione e comincia ad
essere solo oggetto di concupiscenza carnale. Una cosa,
infatti, è aver coscienza che il valore del sesso fa parte
di tutta la ricchezza di valori, con cui al maschio appa
re l’essere femminile; e un’altra cosa è “ridurre” tutta la
ricchezza personale della femminilità a quell’unico va
lore, cioè al sesso, come oggetto idoneo all’appagamen-
to della propria sessualità. Lo stesso ragionamento si
può fare nei riguardi di ciò che è la mascolinità per la
donna, sebbene le parole di Matteo 5,27-28 si riferisca
no direttamente soltanto all’altro rapporto» (ivi).
L’adulterio interiore
69
Paolo II. - Vuole semplicemente dire che dobbiamo
mantenerne il controllo».
Ciò è richiesto con particolare forza a coloro che so
no impegnati nel matrimonio in virtù del patto di to
tale donazione di sé al quale hanno acconsentito. Nel
matrimonio si promette al partner non solo l’esclusivi
tà del proprio corpo, ma anche l’esclusività del proprio
cuore, benché si tratti di un cuore ferito e malato, con
tinuamente bisognoso di essere curato e guarito attra
verso il sacramento della misericordia. Le persone spo
sate sono quindi tenute a esercitare una particolare
vigilanza sulla qualità dei loro sguardi rivolti ad altri
uomini e ad altre donne. In passato quest’atteggiamen
to si definiva “modestia”, oggi forse è meglio chiamar
lo “riserbo”: in effetti gli sposi sono totalmente riserva
ti l’uno per l’altro.
E sufficiente, per soddisfare le esigenze della castità
coniugale, astenersi da quel “guardare per desiderare”
denunciato da Gesù? Si può ben ritenere che le esigen
ze dell’esclusività e della fedeltà matrimoniale si spin
gano anche oltre. L’adulterio del cuore consiste nel con
siderare l’altro unicamente in vista della soddisfazione
sessuale che potrebbe procurare. Ma gli sposi possono
rendersi ugualmente colpevoli di “adulterio affettivo”
qualora si compiacciano eccessivamente della frequen
tazione o dell’affetto di qualche persona che non sia lo
ro coniuge, e ciò anche in assenza di una mira sessuale.
Che cosa, dunque, costituisce l’essenza dell’adul
terio? Ciò che stabilisce e qualifica l’adulterio come
peccato è il fatto di rappresentare una rottura dell’alle
anza personale che i due sposi hanno concluso con il
loro patto matrimoniale, un venir meno al giuramento
70
di fedeltà, un rinnegare l’impegno di riservarsi l’esclu
sività delle loro relazioni coniugali. «Determiniamo la
peccaminosità dell’adulterio, ossia il suo male morale,
fondandoci sul principio della contrapposizione nei
riguardi di quel bene morale che è la fedeltà coniuga
le, quel bene che può essere realizzato adeguatamente
soltanto nel rapporto esclusivo di entrambe le parti (cioè
nel rapporto coniugale di un uomo con una donna)»
(Udienza del 27 agosto 1980).
L’esclusività che gli sposi si concedono sui gesti del
dono dei corpi è la traduzione concreta del dono tota
le delle loro persone —mente, cuore, corpo —, senza di
che quei gesti sarebbero solo una falsificazione del lin
guaggio dei corpi, quindi una menzogna. L’infedeltà
materiale non è che un aspetto dell’adulterio, la sua
espressione fìsica, effettiva e verificabile. Si cade nel
l’adulterio quando si consente di donare ad altri ciò che
dev’essere strettamente riservato al legittimo sposo o al
la legittima sposa. Ecco perché l’intrattenere relazioni
affettive con persone al di fuori matrimonio può, in
alcuni casi, configurarsi come adulterio interiore. Deve
trattarsi, evidentemente, di relazioni affettive profonde
e coinvolgenti, per cui non è in alcun modo chiamata
in causa l’affettuosità che si può —e talvolta si deve -
esprimere nel proprio ambito familiare, nella cerchia
degli amici, nei rapporti sociali.
S’impone, a questo punto, qualche ulteriore rifles
sione. Interroghiamoci, ad esempio, sulle relazioni af
fettive con i genitori e sul rischio che queste possano
interferire negativamente sull’armonia della vita matri
moniale. La Bibbia è chiara a tale proposito: «L’uomo
lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie,
71
e i due saranno un’unica carne» (Gn 2,24). Il compor
tamento dei genitori/suoceri che non accettano di “per
dere” i propri figli, come quello dei mariti o delle mogli
che non riescono a distaccarsi (non solo geografica
mente...) dai propri genitori, possono intaccare l’esclu
sività del vincolo coniugale al punto da costituire una
forma di adulterio. Con il matrimonio queste relazio
ni affettive - pur restando legittime - esigono di essere
riconsiderate e vissute diversamente. Lo stesso discor
so vale per le amicizie precedenti al matrimonio, che
dovrebbero essere proseguite in maniera differente, on
de evitare che interferiscano negativamente sull’asso
luta trasparenza ed esclusività della relazione sponsale
(anche quando non si trattasse di persone del sesso op
posto). Parimenti, potrebbe configurarsi come adulte
rio interiore un affetto eccessivo riservato ai figli, con
palese detrimento di quello dovuto allo sposo o alla
sposa. È forse un pericolo che insidia maggiormente le
madri, sovente in cerca di una compensazione alla
mediocrità della propria vita coniugale. Ma ciò non
può che indebolire ulteriormente un legame già dive
nuto fragile.
Infine, pur trattandosi di un tema delicato, non van
no trascurate possibili situazioni di adulterio interiore
anche sul piano spirituale. Può accadere che gli sposi
intrattengano individualmente, con un padre o una
guida spirituale, delle relazioni all’apparenza perfetta
mente caste, ma che possono costituire una reale e in
debita intrusione nella loro intimità coniugale. Senza
voler mettere in discussione l’opportunità e i benefìci
di un accompagnamento spirituale, è tuttavia lecito vi
gilare su possibili deviazioni di un’intimità spirituale
72
che dovrebbe essere riservata esclusivamente allo sposo
o alla sposa. Al di fuori del sacramento della riconcilia
zione, che deve necessariamente svolgersi a livello in
dividuale, un’opzione di prudenza consiglierebbe, ove
possibile, la scelta di una guida spirituale comune per
ambedue gli sposi.
73
prattutto quando vogliamo comprendere le parole di
Cristo» (Udienza del 1° ottobre 1980). E invita ad una
più approfondita considerazione delle implicazioni an
tropologiche e teologiche del Discorso della montagna:
Cristo sa - e lui solo sa perfettamente - «cosa c’è nel
cuore dell’uomo» (Gv 2,25). Infatti, «Cristo prende in
considerazione non soltanto il reale stato giuridico del
l’uomo e della donna in questione. Egli fa dipendere la
valutazione morale del “desiderio” soprattutto dalla
stessa dignità personale dell’uomo e della donna; e que
sto ha la sua importanza sia quando si tratta di persone
non sposate, sia - e forse ancor più - quando sono co
niugi, moglie e marito» (ivi).
In maniera molto incisiva il papa fa notare che, per
denunciare colui che si rende colpevole dell’adulterio
del cuore, Cristo non dice: «colui che guarda la donna
di un altro», oppure «colui che guarda una donna che
non è la sua», ma semplicemente e in modo generico:
«colui che guarda una donna». Di conseguenza, «l’adul
terio commesso “nel cuore” non è circoscritto nei limi
ti del rapporto interpersonale, i quali consentono di
individuare l’adulterio commesso “nel corpo”. Non so
no tali limiti a decidere esclusivamente ed essenzial
mente dell’adulterio commesso “nel cuore”, ma la na
tura stessa della concupiscenza, espressa in questo caso
attraverso lo sguardo» (Udienza dell’8 ottobre 1980).
Ciò che costituisce l’adulterio del cuore è la natura stes
sa dello sguardo rivolto ad altra persona per strumen
talizzarla, asservendola al proprio appagamento; uno
sguardo che tenta di prendere laddove dovrebbe presie
dere il rispetto assoluto della libertà di un dono; uno
sguardo, infine, che vorrebbe estorcere il dono all’altro
74
riducendolo intenzionalmente a puro oggetto. «L’uomo
che “guarda” in tal modo, come scrive Mt 5,27-28, “si
serve” della donna, della sua femminilità, per appagare
il proprio “istinto”. [...] In ciò consiste appunto l’adul
terio “commesso nel cuore”. Tale adulterio “nel cuore”
l’uomo può commetterlo anche nei riguardi della pro
pria moglie, se la tratta soltanto come oggetto di appa
gamento dell’istinto» (ivi).
Va da sé che tutto ciò non vieta di considerare i valo
ri erotici del corpo dell’altro e di lasciarsi attirare da
essi; ma deve trattarsi di un erotismo “integrale”, che
integra tutti i valori della persona e non solo quelli sen
suali. È, in ogni caso, il rifiuto di ogni tentazione uti
litaristica, che porterebbe a negare la persona in quan
to soggetto per farla decadere al rango di oggetto, di
qualcosa da utilizzare. Sta tutto qui il problema posto
dall’utilitarismo sul piano morale, come già denuncia
va Karol Wojtyla in Amore e responsabilità*: ridurre l’al
tro a puro oggetto di piacere (utilitarismo edonistico)
oppure a semplice strumento di procreazione (utilita
rismo rigoristico). E dunque chiaro che non basta, nel
la maniera di vivere l’atto coniugale, rispettare la sua
potenziale apertura alla vita: persino a questo livello
non è esclusa l’ipotesi di una strumentalizzazione. Oc
corre riconoscere il valore della persona che ci sta di
fronte, e tenerne conto nell’atteggiamento interiore e in
tutti i gesti concreti attuati nei suoi riguardi.
Si racconta che, al termine della catechesi nella quale
aveva affermato la possibilità di commettere adulterio
persino con la propria moglie, qualcuno abbia fatto no-
75
tare al papa che era sembrato molto esigente, forse an
che troppo. Giovanni Paolo II avrebbe risposto: «Non
sono io a essere esigente, è Cristo...». Come del resto è
ben severa l’asserzione di Gesù riguardo a ciò che
potrebbe indurci al peccato: «Se il tuo occhio destro ti
è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te [...]. E
se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e
gettala via da te» (Mt 5,29-30). La castità coniugale
autentica esige dunque che gli sposi si conformino riso
lutamente a quella purezza del cuore «che l’uomo ottie
ne solo al prezzo di un’attitudine molto ferma nei
riguardi di tutto ciò che trae la sua origine nella con
cupiscenza della carne» (Udienza dell’8 ottobre 1980).
Un’esigenza e insieme un invito a vivere integral
mente i valori del corpo, per i quali non vi è alcuna
traccia di condanna nelle parole di Gesù Cristo. E una
deleteria mentalità manichea quella che conduce «ad
un “annientamento”, se non reale, almeno intenzionale
del corpo, ad una negazione del valore del sesso umano,
della mascolinità e femminilità della persona umana, o
perlomeno soltanto alla loro “tolleranza” nei limiti del
“bisogno” delimitato dalla necessità della procreazione»
(Udienza del 22 ottobre 1980).
E c’è una speranza nella vocazione del corpo umano
- vocazione stabilita da Dio fin dalle origini, e che per
mane malgrado le insidie del peccato - che Giovanni
Paolo II esprime magnificamente nell’ultima parte del
suo commento alle parole di Gesù: «Queste parole sve
lano non solamente un altro ethos, ma pure un’altra vi
sione delle possibilità dell’uomo. È importante che egli,
proprio nel suo “cuore”, non si senta soltanto irrevoca
bilmente accusato e dato in preda alla concupiscenza
76
della carne, ma che nello stesso cuore si senta chiama
to con energia. Chiamato appunto a quel supremo va
lore che è l’amore. Chiamato come persona nella veri
tà della sua umanità, dunque anche nella verità della
sua mascolinità e femminilità, nella verità del suo cor
po. Chiamato in quella verità che è patrimonio “dal
principio”, patrimonio del suo cuore, più profondo
della peccaminosità ereditata, più profondo della tripli
ce concupiscenza» (Udienza del 29 ottobre 1980).
77
Schema VI
LE MATURAZIONI DELL’AMORE
79
sero soltanto una piccola speranza di possedere Dio.
Nella mia anima, io sento proprio quel terribile dolore
di perdita, che Dio non mi vuole, che Dio non è Dio,
che Dio non esiste veramente [...]. Questa oscurità mi
circonda da ogni lato. Non riesco a innalzare l’anima a
Dio. Nessuna luce né ispirazione entra nella mia ani
ma. Parlo di amore per le anime, di tenero amore verso
Dio. Sulle mie labbra scorrono parole e io desidero con
profondo, struggente desiderio di credere in esse. [...]
Cielo... quale vuoto! Non un singolo pensiero del Cielo
mi entra nella mente, perché non c’è speranza»1. Ciò
nonostante, Madre Teresa non ha smesso mai di amare.
Perché anche la vita coniugale non dovrebbe com
portare, in una certa misura, quelle prove di purifica
zione che permettono all’amore di raggiungere la sua
piena maturità? Se l’esperienza coniugale è un’autenti
ca via di santità, un cammino verso la perfezione del
l’amore —accanto alla vita consacrata a Dio nella ver
ginità (cfr. Familiaris consortio, n. 11) - come potrebbe
non essere esposta alle medesime esigenze di purifica
zione della vocazione religiosa, sia pure secondo diffe
renti modalità? Sarebbe anormale che non lo fosse, e se
una vita coniugale non conosce questo genere di prove,
è forse perché si mantiene ad un livello di mediocrità
nell’amore.
E piuttosto raro che la notte dei sensi faccia la sua
comparsa all’inizio della vita matrimoniale. Ai fidanzati
e ai giovani sposi, estasiati nei loro trasporti amorosi,
non resta che approfittarne! La notte dei sensi insorge
80
generalmente dopo un certo numero di anni, quando
si è andata smorzando l’intensità del sentimento amo
roso. Nulla di più normale, anche al semplice livello
psicologico. Recenti ricerche di sessuologia hanno sta
bilito che il “sentimento amoroso” è un fenomeno
complesso, legato ad una molteplicità di fattori, ma che
in media non sembra resistere per più di trentasei mesi.
È il caso di farsi prendere dal panico?
Non bisogna cadere nella trappola che identifica
l’amore con il sentimento amoroso: «Non sento più di
amarlo/di amarla... dunque non l’amo più!». S’impone
a questo riguardo una distinzione fondamentale. Molto
spesso, questo stato di apatia è la conseguenza di un
cedimento all’abitudine, alla pigrizia nell’amore. Ci si
è lasciati imbrigliare dalle preoccupazioni professiona
li, dalla cura dei figli, da impegni di ogni tipo, finen
do col dimenticare di prendersi del tempo per il pro
prio rapporto di coppia. Bisogna a tutti i costi cercare
di riaccendere l’antica febbre d’amore, quel tempo bea
to delle prime emozioni? Nulla lo vieta, e può perfino
essere auspicabile, se l’apatia è il risultato di negligen
ze e dell’intiepidirsi dell’amore. Rimediarvi sarà certa
mente salutare, talvolta assolutamente necessario.
E se, nonostante tutto, lo stato di apatia persiste? Al
lora è giunto il momento di una purificazione del
l’amore, che è una prova di maturità e nello stesso tem
po di verità, l’occasione per scoprire che amare è molto
più che sentire di amare. Nell’analisi generale dell’amore
condotta in Amore e responsabilità2 Giovanni Paolo II
mostra come il sentimento amoroso non sia la forma
81
compiuta dell’amore. Ve ne sono altre che lo superano
in profondità e in qualità. Nel sentimento amoroso,
ricercato unicamente per se stesso, può nascondersi una
sottile forma di ricerca di sé, ovvero una prevalente sod
disfazione emotiva suscitata dalla persona che si preten
de di amare. In realtà, si può amare se stessi mentre si
ama l’altro, e cercare nell’amore solo le emozioni pia
cevoli che produce in noi. Queste non hanno nulla di
negativo in quanto tali, a patto che siano assunte e inte
grate attraverso le forme più elevate dell’amore.
Limitandoci al piano della sensibilità e dell’affettivi
tà, si rischia di rimanere in una forma immatura, per
non dire infantile, dell’amore. Essere innamorati non
vuol dire necessariamente amare nel significato più
profondo del termine. Il sentimento amoroso rimane
al livello della sensibilità e dell’affettività: l’altro è ricer
cato nella misura che ci procura ciò di cui siamo man
canti. Perciò è inevitabilmente esposto al rischio di re
stare egocentrico, se non si apre a qualcosa di più alto.
Quand’è che si ama veramente? Quando si cerca
innanzitutto il bene dell’altro, cioè quando, in un moto
di altruismo, ci si “decentra” da se stessi. L’amore divie
ne allora amore di benevolenza (“ben-volere”). E nella
misura in cui il bene dell’altro è voluto prioritariamen
te, lo si può ricercare anche a detrimento delle proprie
soddisfazioni. L’amore di benevolenza supera la sfera
della semplice emotività per stabilirsi al livello della
volontà. In questo senso diviene realmente umano,
coinvolgendo la capacità specificamente umana di vo
lere il bene in quanto tale.
Il sentimento amoroso è solo “sentito”, anche se può
essere coltivato; l’amore di benevolenza è “voluto”. Vo
82
lendo innanzitutto il bene dell’altro, l’amore di bene
volenza può condurre a sacrificare la propria volontà a
quella altrui, trovando in questo la propria gioia. In un
certo modo, l’amore di benevolenza consiste nel dire
all’altro: «Non quello che io voglio, ma quello che tu
vuoi...». Si è di fronte, se non ad una dimensione sacri
ficale, perlomeno ad una dimensione oblativa.
Quando due persone si stabiliscono reciprocamente
nella disponibilità all’amore di benevolenza, sorge fra
loro quel tipo di relazione che chiamiamo “amicizia”.
La caratteristica degli amici veri sta nel volersi recipro
camente bene, al punto di desiderare il bene dell’altro
prima del proprio. Gli sposi sono chiamati a vivere a
questo livello di amicizia, che così si qualifica come co
niugale. L’amore di benevolenza non contraddice il sen
timento amoroso, l’attrazione quasi irresistibile verso l’al
tro. Al contrario, la assume, la integra, la orienta, e
mentre la controlla le conferisce un pegno di perenni
tà. Il radicale orientamento altruistico che qualifica
l’amore di benevolenza costituisce una prima tappa nel
la crescita dell’amore verso la sua maturità.
Il grado più alto dell’amore consiste nel totale dono
di sé, in quella dimensione che Giovanni Paolo II chia
ma “amore sponsale”. «L’amore sponsale differisce da
tutti gli altri aspetti e forme dell’amore che abbiamo
analizzato. Consiste nel dono della persona. La sua
essenza è il dono di sé, del proprio “io”. [...] Tutti que
sti modi di uscire da se stessi per andare verso un’altra
persona, avendo di mira il suo bene, non vanno così
come l’amore sponsale. “Donarsi” è più che “voler be
ne”, anche nel caso in cui, grazie a questa volontà, un
altro “io” diventa in qualche modo il “mio”, come
83
avviene nell’amicizia»3. Si tratta di quella forma ultima
dell’amore alla quale gli sposi sono chiamati e a cui si
impegnano - spesso senza averne chiara coscienza -
attraverso la formula sacramentale del matrimonio.
Nella costituzione conciliare Gaudium et spes leggia
mo: «L’uomo, il quale in terra è la sola creatura che
Iddio abbia voluto per se stesso, non può ritrovarsi pie
namente se non attraverso un dono sincero di sé» (n. 24).
L’aggettivo “sincero” non si presta ad equivoci. Non va
inteso in maniera soggettivistica (sarebbe sincero un
dono soggettivamente sentito come tale, ma non cor
rispondente alla verità oggettiva di quel dono), ma nel
suo significato più vero di “autenticità, integrità, ge
nuinità, radicalità...”. In quanto persona, l’uomo si rea
lizza compiutamente solo nel dono sincero e totale di sé,
senza riserve né limiti. È a questo dono che s’impegna
no coloro che si consacrano nel matrimonio, similmen
te a quanti si consacrano a Dio nella via del celibato.
I fidanzati, rapiti dallo slancio amoroso dei loro pr
mi incontri, possono non capire a fondo che, in forza
della loro vicendevole consacrazione, il matrimonio li
impegnerà a questo radicale dono di sé. Ma quando,
dopo un certo periodo di vita in comune, l’emozione di
un tempo si attenua o addirittura svanisce, ecco l’occa
sione per capire in cosa consiste il senso profondo del
loro patto matrimoniale. La notte dei sensi può così
rivelarsi una salutare tappa di crescita nella maturità del
l’amore. Diventa un invito a passare da un amore uni
camente o eccessivamente sentito ad un amore oblativo,
nel quale troverà compimento la loro vocazione di per
84
sone. Potrà anche rifiorire un nuovo innamoramento:
tanto meglio! Ma non si crederà più che amare l’altro
significhi unicamente “sentire” di amarlo. Si sarà scoper
to che l’amore, nella sua dimensione più vera e profon
da, consiste nel dono di sé, totale e senza ritorno.
85
dizione che pesa su Sara, il loro matrimonio deve misu
rarsi con la prova della vita e della morte: i due giova
ni sposi «si trovano nella situazione in cui le forze del
bene e del male si combattono e si misurano recipro
camente». In che modo escono vincitori da questa lot
ta? Unicamente attraverso la preghiera, alla quale Tobia
invita Sara all’inizio della loro notte di nozze (cfr. Tb
8,5-8), che esprime la loro comune volontà di porre il
Signore Dio al centro e al principio della loro unione,
così da rivestirla della forza stessa di Dio. «La verità del
l’amore degli sposi del Libro di Tobia non viene con
fermata dalle parole espresse dal linguaggio del traspor
to amoroso, come nel Cantico dei Cantici, ma dalle
scelte e dagli atti che assumono tutto il peso dell’esi
stenza umana nell’unione di entrambi». Il papa conclu
de: «In questa prova della vita e della morte vince la
vita, perché [...] l’amore, sorretto dalla preghiera, si
rivela più forte della morte».
La prova della notte dello spirito costringe gli sposi
a ricuperare il senso e la portata del loro impegno ma
trimoniale: «Prometto di amarti fedelmente nella gioia
e nel dolore, nella salute e nella malattia...». Io conti
nuo ad amarti fedelmente a dispetto di tutto: benché
non sappia più se ti amo, benché non sappia più se tu
mi ami, benché non comprenda più il nostro matrimo
nio, benché la mia sensibilità sia in rivolta, benché te
ne voglia perché tu non mi comprendi, benché tu me
ne voglia perché io non comprendo te...
Resta la fedeltà assoluta, incondizionata, nonostan
te tutto ciò che spingerebbe a rompere la promessa.
Una fedeltà onorata non “a motivo dei figli”, non per
paura di ciò che si dirà, né per conformismo familiare
86
e sociale... ma unicamente in ragione del dono di sé,
oblazione totale e senza ritorno, pronunciata in quel
giorno preciso e per sempre. Sta in questo la più alta
purificazione dell’amore e la prova suprema della veri
tà. È il momento in cui il matrimonio resiste solo per
merito della volontà che continua a dire “sì”, mentre
l’intelligenza non afferra più le ragioni del patto d’amo
re. Ma è anche il momento in cui il tentatore mette in
campo tutta la sua astuzia per scoraggiare gli sposi e di
stoglierli, in molti modi possibili, dal tener fede alla
promessa del dono incondizionato di sé.
Una simile notte dello spirito l’ha conosciuta Gesù
nel momento culminante della sua offerta redentiva,
mentre sulla croce consumava il suo atto sponsale con
la Chiesa-Sposa: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai ab
bandonato?» (Mt 27,46). Ma è proprio allora che Gesù
ha amato di più, che la sua oblazione ha raggiunto il
massimo grado di intensità. Gesù può chiedere ad al
cuni sposi di accompagnarlo su questa via dell’amore
assoluto, come chiede ad alcune anime “prescelte” di
amarlo di un amore assolutamente puro e “senza ragio
ne”. Questa prova, questa purificazione radicale del
l’amore non è riservata alle anime mistiche. Anche agli
sposi Gesù può chiedere di amare, segretamente, come
lui ha amato. Una richiesta rivolta ad alcuni “privile
giati” dell’amore di Cristo, a coloro dei quali Gesù co
nosce la disponibilità a lasciarsi conformare al suo amo
re redentivo.
È normale che si possa avere paura di questa estre
ma, purificatrice prova dell’amore. Gesù stesso ne ha
provato sgomento. È lecito pensare che l’angoscia che
lo assalì nel Getsemani, fino a fargli sudare sangue, non
87
fosse causata in primo luogo dal pensiero delle soffe
renze fisiche della Passione, ma piuttosto dalla notte
dello spirito che lo attendeva sul Golgota.
È comunque una prova che immette sulla via della
perfezione cristiana, rafforzando negli sposi le virtù teo
logali della fede, della speranza, della carità. La fede,
quando è conservata nell’oscurità dell’intelligenza, rag
giunge un alto grado di purezza; quando gli sposi ri
mangono fedeli al loro “patto di fede”, pur non rico
noscendone più le ragioni, è allora che il dono totale
di sé esprime tutto il suo valore. Si perfeziona anche la
virtù della speranza: la costanza del vicendevole donar
si non poggia più sullo slancio della sensibilità e del
l’affettività, né su motivazioni umane, ma unicamente
sulla grazia di Dio, donata irrevocabilmente nel sacra
mento e di continuo rinnovata, perché possano in ogni
momento rispondere alle esigenze della loro vita in
comune. Infine, perfezione della carità, cioè del dono
d’amore, prescindendo da ogni sostegno della raziona
lità. Persistere nell’amare, anche quando non si com
prende più perché si deve amare, è la perfezione stessa
dell’amore, è lo stesso amore con cui Dio ama noi: un
amore “senza ragioni”.
88
persona amata. Anche se le statistiche sulla speranza di
vita indicano che sono le donne ad avere maggiori pro
babilità di andare incontro alla vedovanza, si tratta di
una prova alla quale entrambi gli sposi sono esposti.
Sarà, innanzitutto, una purificazione nell’ordine del
l’affettività e della sensibilità. Non poter più condivi
dere, com’è stato per numerosi anni, i mille dettagli
della vita quotidiana; l’improvviso venir meno della
presenza amorevole dell’essere amato, dei suoi gesti
d’affetto, della sua conversazione, della preghiera con
divisa; non sentire più accanto a sé la persona con la
quale ci si è accompagnati per un’intera vita, divenen
do sovente più che una sola carne... costituisce senz’al
tro una terribile prova. E ciò anche qualora un tempo
di malattia abbia rappresentato come una preparazio
ne al distacco, mentre peraltro rafforzava in maniera
misteriosa la loro vicinanza.
Sarà anche, e soprattutto, una prova della vita spiri
tuale. Per due sposi che non hanno solo condotto delle
vite parallele, bensì hanno realizzato un’intima comunio
ne sia dei corpi che dei cuori e delle anime, non è facile
ritornare ad una spiritualità da “singolo”. Ma non è detto
che ciò debba accadere. È infatti legittimo domandarsi
se la vedovanza debba comportare una spiritualità indi
vidualizzata, oppure possa conservare un carattere coniu
gale. In che modo? Si accetta certo a malincuore che,
dopo aver condiviso tante esperienze sul piano spiritua
le, si debba da un giorno all’altro fare come se nulla sia
mai accaduto. Sarebbe non solo psicologicamente disu
mano, ma anche spiritualmente assurdo.
Come può configurarsi una spiritualità della vedo
vanza? Continuerà a essere una spiritualità di comunio
89
ne? Non poche persone possono testimoniare come la
comunione con il coniuge scomparso si riveli ancora
più intensa, più reale di prima. È l’esperienza di cui
parla il grande scrittore cattolico Jean Guitton dopo la
morte della moglie: un passaggio dalla comunicazione
alla comunione. Di quale comunione si tratta? Sempli
cemente, e realmente, di ciò che la Chiesa chiama “co
munione dei santi”. Non un puro vivere nel ricordo,
perpetuamente ed emotivamente rivangato, della per
sona cara che è venuta a mancare, ma un modo nuovo
di sperimentarne la presenza, un grado di condivisione
spirituale a volte persino superiore a quella realizzata in
precedenza. La morte dolorosamente separa... ma nel
lo stesso tempo, misteriosamente, stabilisce gli sposi in
una nuova e più profonda dimensione comunicativa.
Così, la spiritualità propria della vedovanza si qualifica
come annuncio profetico di quella verità di fede che
professiamo nel Credo, intimamente legata alla fede
nella risurrezione. Una spiritualità di comunione che
continua a essere, in misura eminente, spiritualità co
niugale. In un certo senso, è la suprema maturazione
dell’amore sponsale.
Il matrimonio, in realtà, annuncia la risurrezione dei
corpi al momento del ritorno glorioso del Cristo-Sposo.
La risurrezione significherà il pieno compimento della
nostra umanità attraverso la realizzazione perfetta del suo
essere psicosomatico, cioè della dimensione sia corpora
le che spirituale della persona. E sarà anche la piena rea
lizzazione della nostra umanità in quanto esseri chiama
ti alla comunione: «Il “regno dei cieli” è certamente il
compimento definitivo delle aspirazioni di tutti gli
uomini, ai quali Cristo rivolge il suo messaggio: è la pie
90
nezza del bene, che il cuore umano desidera oltre i limi
ti di tutto ciò che può essere sua porzione nella vita ter
rena, è la massima pienezza della gratificazione per l’uo
mo da parte di Dio» (Udienza del 21 aprile 1982).
Allora verrà in piena evidenza che cosa significa “co
munione dei santi”, di cui Dio stesso sarà il principio,
mediante il convergere di tutto il nostro essere sulla
conoscenza profonda di Lui, sul suo Essere trinitario.
La visione beatifica sarà principio della realizzazione
della comunione. «La concentrazione della conoscenza
e dell’amore su Dio stesso, nella comunione trinitaria
delle Persone, può trovare una risposta beatificante in
coloro che diverranno partecipi dell’“altro mondo” so
lo attraverso il realizzarsi della comunione reciproca
commisurata a persone create. E per questo professia
mo la fede nella “comunione dei santi” (icommunio san-
ctorum) e la professiamo in connessione organica con
la fede nella “risurrezione dei morti”» (Udienza del 16
dicembre 1981).
Un interrogativo che può assillare gli sposi, in par
ticolare quelli che vivono in vedovanza, riguarda ciò
che accadrà alla fine, quando i morti risorgeranno. A
una domanda dei sadducei Gesù aveva risposto: «Alla
risurrezione infatti non si prende né moglie né marito,
ma si è come angeli nel cielo» (Mt 22,30). Poiché la
Chiesa, pur non incoraggiandoli, autorizza i vedovi e
le vedove a contrarre nuove nozze, si potrebbe ritenere
che il patto matrimoniale venga definitivamente meno
con la morte. Tale pensiero può causare una certa in
quietudine spirituale, persino suscitare angoscia. Il ma
trimonio avrebbe così poco senso e peso, al punto da
annullarsi nell’eternità alla quale siamo destinati?
91
Riflettiamo innanzitutto sulle modifiche apportate da
alcuni anni nel rito matrimoniale. La formula tradi
zionale che si concludeva con le parole: «...finché morte
non ci separi», recita attualmente: «Con la grazia di Gesù
Cristo prometto di esserti fedele sempre... tutti i giorni
della mia vita / tutti i giorni della nostra vita». Un cam
biamento non indifferente! Infatti, l’espressione «tutti i
giorni della nostra vita» si può anche intendere: «tutti i
giorni della nostra vita eterna, che è già iniziata quaggiù».
Occorre inoltre interpretare correttamente le parole di
Gesù, il quale non dice: «Alla risurrezione non si è più
marito e moglie», bensì: «Alla risurrezione non si prende
né moglie né marito», cioè non ci si sposa più. E la ragio
ne è semplice: ciò che il matrimonio annuncia e signifi
ca nella vita terrena sarà allora pienamente realizzato.
«Se in questa perfetta soggettività, pur conservando
nel loro corpo risorto, cioè glorioso, la mascolinità e la
femminilità, “non prenderanno moglie né marito”, ciò
si spiega non soltanto con la fine della storia, ma anche
- e soprattutto - con l’“autenticità escatologica” della
risposta a quel “comunicarsi” del Soggetto Divino, che
costituirà la beatificante esperienza del dono di se stesso
da parte di Dio, assolutamente superiore ad ogni espe
rienza propria della vita terrena» (Udienza del 16 di
cembre 1981). Pertanto, coloro che saranno stati spo
sati in questa vita non smetteranno di esserlo nella
risurrezione, e quella comunione che hanno cercato di
realizzare nel corso della loro vita matrimoniale durerà
in eterno. Perciò Giovanni Paolo II può affermare: «Il
matrimonio possiede una sua piena congruenza e un
valore per il regno dei cieli, valore fondamentale, uni
versale e ordinario» (Udienza del 31 marzo 1982).
92
Ma in base a quale tipo di relazione coloro che sono
stati sposati su questa terra continueranno a esserlo nel
la risurrezione, nel regno dei cieli? E piuttosto arduo
dirlo: «È troppo evidente che - sulla base delle espe
rienze e conoscenze dell’uomo nella temporalità, cioè
in “questo mondo” - è difficile costruire una immagi
ne pienamente adeguata del “mondo futuro”» (Udienza
del 13 gennaio 1982). Infatti noi possiamo raffigurar
ci il mondo futuro della risurrezione solo in maniera
molto approssimativa e imperfetta. È tuttavia interes
sante come san Tommaso d’Aquino affermi che l’unio
ne totale con Dio, che vivremo nella risurrezione, non
escluderà una prossimità particolare con alcune perso
ne, una prossimità che sarà misurata dalla carità. Ciò
vuol dire che nella risurrezione saremo più vicini a colo
ro che avremo maggiormente amato e dai quali saremo
stati più amati. È lecito pensare che sarà soprattutto il
caso di colui o colei a cui avremo offerto, e da cui avre
mo ricevuto, nel matrimonio, l’amore più grande.
La vedovanza diventa così la grande occasione per
incrementare una spiritualità di comunione che non
cessa di essere coniugale. E tale è addirittura ad un gra
do eminente. Vivendo in maniera particolarmente con
sapevole questa particolare comunione con l’essere
amato, che continua a vivere in Dio nell’attesa della ri
surrezione, i vedovi e le vedove possono diventare pro
feti credibili della comunione dei santi.
93
Schema VII
LE CROCI
E LE SOFFERENZE
La sottomissione vicendevole
95
A sostegno di questa interpretazione il papa offre
due ragioni. La prima è rappresentata dal fatto che la
moglie deve essere sottomessa al marito «come al Si
gnore Gesù», e non come ad un padrone che impor
rebbe un dominio unilaterale. «Esprimendosi così,
l’Autore [della lettera] non intende dire che il marito è
“padrone” della moglie e che il patto inter-personale
proprio del matrimonio è un patto di dominio del ma
rito sulla moglie. Esprime, invece, un altro concetto:
cioè che la moglie, nel suo rapporto con Cristo - il
quale è per ambedue i coniugi unico Signore - può e
deve trovare la motivazione di quel rapporto con il
marito, che scaturisce dall’essenza stessa del matrimo
nio e della famiglia» (Udienza dell’11 agosto 1982).
Inoltre, per una migliore comprensione del precetto,
occorre proseguire nella lettura: «E voi, mariti, amate
le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa
e ha dato se stesso per lei» (Ef 5,25). L’amore di Cristo
per la Chiesa si è concretizzato nel dono totale che lo
ha condotto sino al sacrificio della croce. L’amore del
marito verso la moglie deve dunque portarlo a offrirsi
per lei come Cristo si è offerto alla Chiesa per salvarla
mediante l’olocausto redentivo della sua vita. La ragio
ne della sottomissione reciproca degli sposi sta, quin
di, nell’amore che li unisce e che esprime tutta la sua
verità nel dono totale di sé. «L’amore esclude ogni gene
re di sottomissione, per cui la moglie diverrebbe serva
o schiava del marito, oggetto di sottomissione unilate
rale. L’amore fa sì che, contemporaneamente, anche il
marito è sottomesso alla moglie, e sottomesso in que
sto al Signore stesso, così come la moglie al marito. La
comunità o unità che essi debbono costituire a motivo
96
del matrimonio, si realizza attraverso una reciproca do
nazione, che è anche una sottomissione vicendevole»
(Udienza dell’11 agosto 1982).
E questa la croce che quotidianamente gli sposi de
vono portare: immolare senza posa la loro volontà alla
volontà dell’altro, nell’amore e attraverso l’amore, in
ogni circostanza e ad ogni istante dire all’altro: «Non
ciò che voglio io... ma ciò che vuoi tu», con la stessa di
sponibilità di Gesù, quando nell’agonia del Getsemani
aderì al volere del Padre suo. Il sacrifìcio della propria
volontà, nella sottomissione per amore, è un’autentica
via di santificazione nell’umile quotidianità della vita
matrimoniale. In ciò consiste anche la fonte della loro
gioia, quella medesima gioia che Gesù trae dalla sua
sottomissione al Padre: «Ma ora io vengo a te e dico
questo mentre sono nel mondo, perché abbiano in se
stessi la pienezza della mia gioia» (Gv 17,13).
97
ternità troppo ravvicinate, le preoccupazioni per l’edu
cazione dei figli, depressioni, malattie... Ma è soprattut
to il nostro peccato la remora più frequente: egoismo,
pigrizia, ripiegamento su di sé, collera...
Quel desiderio del dono totale di noi stessi, che ci
ha portati a progettare il matrimonio, è troppo spesso
vanificato dalla realtà dell’esistenza quotidiana. Voleva
mo donarci pienamente, sperando di essere ricambiati
senza misura, e invece facciamo esperienza di un dono
parziale, limitato, talvolta misero. Può anche emergere
la sensazione che il nostro dono, fatto senza calcoli e
riserve, senza attese di contropartita, venga “abusato” in
maniera egoistica, sfruttato per un vantaggio persona
le. E ancora: il dono del corpo sviato dalla sua finalità,
il tradimento della fiducia, la mediocrità di una vita co
niugale che avevamo sognato più bella e soddisfacente.
Queste sofferenze sono praticamente inevitabili, ed
è possibile accettarle solo associandole a quelle del Cri
sto crocifisso. La croce è la più alta espressione di un
“amore non amato”, un amore senza limiti che non ha
ricevuto risposta, un dono che non è stato accolto. Gli
sposi non possono evitare di essere, l’uno per l’altro,
occasione di sofferenza: sofferenza che, se offerta, divie
ne fecondità: «Possente è la sofferenza, quando è volon
taria al pari del peccato» (P. Claudel, in L’annuncio a
Maria).
Il dono di sé nel matrimonio è “senza condizioni”
indipendentemente dal fatto che l’altro si doni a sua
volta... anche se lo si spera ardentemente. Ci si dona
nella vicendevole fiducia, totalmente, sperando che il
dono sia accolto, anche se non si può esserne certi in
maniera assoluta. In questo senso, ogni dono d’amore
98
è una scommessa nella fiducia e nella speranza. L’espe
rienza dell’inevitabile incompiutezza del dono, in me
e nell’altro, ci obbliga a riconoscere che il matrimonio
- benché luogo dell’aspirazione alla comunione e via
della sua realizzazione - non può colmarci totalmente.
Dovremo sempre scontrarci con dei limiti. Possiamo
solo sperare di progredire nel dono di noi stessi, pur
senza mai realizzarlo pienamente, e ciò a causa delle
conseguenze in noi del peccato d’origine.
Non dobbiamo tuttavia disperare, né di noi né del
l’altro. Ogni progresso nell’ordine del dono sarà occa
sione per un’azione di grazie, pur nella consapevolezza
che, nonostante ogni sforzo, nessuno potrà mai colma
re la sete di comunione totale presente nell’intimo del
nostro cuore; così come da parte nostra saremo sempre
incapaci di colmare la sete di qualcun altro. In tal sen
so, gli sposi sono inevitabilmente “croce” l’uno per l’al
tro: una croce che, se offerta, può risultare feconda.
Il matrimonio, in definitiva, si situa anche nella pro
spettiva di un’altra speranza, quella del dono di Dio,
l’Unico che può colmare totalmente le attese e la sete
del nostro cuore. L’attesa è quella del Regno.
Il fallimento
99
novato a sufficienza, è andato drammaticamente esau
rendosi. Le misere protezioni umane sulle quali si con
tava - posizione sociale, reputazione, patrimonio co
struito in comune, abitudinarietà della convivenza - si
rivelano illusorie e ingannevoli: l’amore è morto, e forse
irrimediabilmente.
In un lavoro teatrale della sua giovinezza, La bottega
dell’orefice (I960), Karol Wojtyla fa dire ad Anna, il cui
matrimonio minaccia il fallimento: «Stefano aveva smes
so di abitare in me. Perché adesso questo silenzio, al
quale né l’uno né l’altra sa rimediare? Stefano è re
sponsabile, mi sembra. Non riesco a trovare colpe in me.
La nostra vita si è trasformata in una penosa esistenza a
due, troviamo sempre meno posto l’uno nell’altra. Non
ci rimane che la somma dei doveri, convenzionale e
instabile». Alla fine, quando Stefano e Anna hanno evi
tato per un soffio la separazione, è un misterioso perso
naggio - Adamo... ovvero l’autore stesso - a trarre inse
gnamento dalla loro esperienza: «La causa del dramma
bisogna ricercarla nel passato. C’è stato semplicemente
un errore. Le persone si lasciano trascinare da un amore
che credono assoluto e che invece non possiede le di
mensioni dell’assoluto. E sono talmente vittime delle
loro illusioni, da non sentire neppure il bisogno di anco
rare quell’amore all’Amore che possiede queste dimen
sioni. Non è la passione in sé ad accecarli, ma la man
canza di umiltà verso l’amore nella sua vera essenza. Se
sono consapevoli, si proteggono dal pericolo, enorme,
poiché la pressione della realtà è troppo forte, e l’amore
non è in grado di opporle resistenza».
Può accadere che qualche grave sconvolgimento - trau
mi psicologici, un serio incidente, una profonda de
100
pressione, un fallimento professionale, complicazioni
fìsiche inaccettabili, il suicidio di un figlio... - faccia
no cadere a pezzi un matrimonio, senza che gli interes
sati sappiano come rimediarvi. Si potranno dare giudi
zi, mettere in luce varie cause... ma le realtà della vita
sovente sono molto più complesse. Uno dei due può
essere vittima “innocente” del tradimento e dell’abban
dono da parte dell’altro, e ritrovarsi a portare in solitu
dine tutto il carico dei figli. Una maggiore vigilanza,
più lucidità e preveggenza avrebbero forse aiutato a evi
tare il disastro?
In casi del genere si può avere la sensazione di una
vita rovinata, ormai del tutto priva di senso. Una delle
reazioni più frequenti, quando gli sposi sono stati aper
ti ad una visione di fede, è quella di collegare il falli
mento del loro matrimonio a un “vizio” (o “nullità”)
d’origine. Una simile reazione si può interpretare come
un istintivo riflesso di difesa, un modo di trovare una
spiegazione ad un fatto che, altrimenti, sarebbe sempli
cemente assurdo: se il nostro matrimonio è fallito, vuol
dire che non era “vero” matrimonio... Ci si rivolge allo
ra alla Chiesa, sperando riconosca l’esistenza di una ini
ziale causa invalidante, e quindi consenta di contrarre
un nuovo matrimonio. Non si può contestare che certi
matrimoni risultino effettivamente “nulli” per vizio
d’origine, mancando l’una o l’altra delle condizioni
fondamentali di validità (libero consenso, impegno di
fedeltà, disponibilità al dono della vita), e ciò soprat
tutto se si considera la scarsa formazione cristiana di
molti aspiranti al sacramento del matrimonio.
Emerge qui un problema pastorale di primaria im
portanza, una vera sfida per quanti si dedicano alla pre
101
parazione dei fidanzati al matrimonio. Se il difetto di
consenso è il motivo più frequentemente invocato a
sostegno della nullità, si deve tuttavia riconoscere che
non si è mai abbastanza maturi o pronti per assumere
un impegno così grave come quello del matrimonio sa
cramentale. Pertanto, se la scarsa maturità psicologica
e di valutazione dovesse costituire motivo sufficiente a
invalidare un matrimonio, praticamente tutti i matri
moni sarebbero nulli. È ciò che Giovanni Paolo II, e
Benedetto XVI dopo di lui, hanno ritenuto di dover ri
cordare ai giudici ecclesiastici, onde prevenire una certa
deriva lassista nel trattamento delle cause matrimoniali.
È una realtà dolorosa, ma anche un matrimonio pie
namente valido può andare incontro al fallimento. Ciò
significa l’irruzione di una pesante, terribile croce nella
vita degli sposi che ne fanno esperienza. Se, come affer
ma il concilio Vaticano II, «l’uomo non si realizza che
nel dono totale di sé» (Gaudium et spes, n. 24), e se il
matrimonio costituisce la via più comune e più abitua
le per questo dono, il suo fallimento rappresenta la
negazione di ciò che definisce l’uomo nella maniera più
fondamentale, e per questa ragione costituisce il dram
ma più atroce che possa colpire la vita di un uomo o
di una donna. Dunque, come pretendere di giudicare
quanti ritengono che questa croce, venuta a sconvolge
re la loro vita, sia troppo pesante da portare, al punto
da volersi impegnare in una nuova unione, anche a co
sto di precludersi l’accesso ai sacramenti?
Costoro, comunque, continueranno a essere ogget
to di una particolare sollecitudine da parte della Chie
sa, come testimoniano le parole di Giovanni Paolo II
nella Familiaris consortio: «Insieme col Sinodo, esorto
102
caldamente i pastori e l’intera comunità dei fedeli affin
ché aiutino i divorziati, procurando con sollecita cari
tà che non si considerino separati dalla Chiesa, poten
do e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare
alla sua vita. Siano esortati ad ascoltare la parola di Dio,
a frequentare il sacrificio della Messa, a perseverare nel
la preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle
iniziative della comunità in favore della giustizia, a edu
care i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le
opere di penitenza, per implorare così, di giorno in
giorno, la grazia di Dio. La Chiesa preghi per loro, li
incoraggi, si dimostri madre misericordiosa e così li
sostenga nella fede e nella speranza» (n. 84 —cit. in Ca
techismo della Chiesa Cattolica, n.1651)).
Nello stesso tempo, come non ammirare il coraggio
- talvolta confinante con l’eroismo - di quegli sposi
che, malgrado l’irrimediabile scacco, perseverano nella
loro fedeltà promessa per sempre, affrontano le difficol
tà di una vita in solitudine; o quanti evitano la separa
zione e mantengono una vita in comune anche se pri
vata della vitalità dell’amore... In questo modo essi
diventano - nella luce del “grande mistero” evocato da
san Paolo nella lettera agli Efesini (5,32) - il segno vi
vente di quell’assoluto amore che Cristo-Sposo conti
nua a rivolgere alla Chiesa-Sposa, anche quando essa si
allontana dall’amore dello Sposo.
103
Schema Vili
LA GIOIA D EL D O N O
105
esperienze appartengano alla preistoria dell’uomo (alla
sua “preistoria teologica”), ma che esse siano sempre
alla radice di ogni esperienza umana» (Udienza del 12
dicembre 1979). - L’esperienza originaria della nudità
è già stata evocata nello “Schema IV”; qui trattiamo
l’esperienza della solitudine originaria.
Nel secondo racconto della creazione Dio dice: «Non
è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18); ma prima di
concludere definitivamente la creazione dell’uomo,
plasmandolo come maschio e femmina, Jahvè fa sco
prire all’uomo la sua solitudine nell’universo degli esse
ri viventi, mentre lo invita a dare un nome a tutti gli
animali: «Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni
sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li
condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiama
ti» (Gn 2,19). Si tratta di una sorta di “esame” che il
primo uomo supera dinanzi a Dio e dinanzi a se stes
so, prendendo coscienza del fatto che è radicalmente
diverso da tutti gli esseri che popolano la terra e il cielo:
«Mediante tale “test”, l’uomo prende coscienza della
propria superiorità, e cioè che non può essere messo
alla pari con nessun’altra specie di esseri viventi sulla
terra» (Udienza del 10 ottobre 1979).
C’è un versante positivo in questa esperienza: se
l’uomo è capace di dare un nome agli animali, è per
ché possiede una conoscenza perfetta del mondo della
natura (solo chi conosce è capace di dare un nome alle
cose), lo domina ed è in grado di governarlo. Ma c’è
anche un versante negativo: tra tutti gli animali che co
nosce, non ne trova uno uguale a sé: «Ma l’uomo non
trovò un aiuto che gli corrispondesse» (Gn 2,20).
Ci interessa qui rimarcare il fatto che l’originario
106
Adam (= Tessere fatto di terra”, l’uomo senza conside
razione del sesso, la donna non essendo ancora stata
creata) scopre che ciò che lo rende umano è l’aspirazio
ne a donarsi ad un essere che sia suo omologo in uma
nità, quindi capace di accoglierlo in quanto dono. Il
non trovare tra tutti gli animali questo particolare “al
leato in umanità” costituisce l’esperienza dolorosa e
inquietante della sua solitudine nel mondo. Nel mo
mento in cui si scopre “persona”, cioè come essere radi
calmente diverso da tutti gli altri viventi, si accorge di
non potersi realizzare pienamente se non nel fare dono
di sé: «Infatti, nessuno di questi esseri (ammalia) offre
all’uomo le condizioni di base, che rendano possibile
esistere in una relazione di reciproco dono» (Udienza
del 9 gennaio 1980).
Il primo uomo scopre così che “essere persona” v
dire essere fatto per il dono di se stesso ad un altro “se
stesso”, e finché questo dono non può realizzarsi per la
mancanza di qualcuno in grado di riceverlo, egli non
può essere davvero se stesso, non può realizzarsi come
persona: «Il dono rivela, per così dire, una particolare
caratteristica dell’esistenza personale, anzi della stessa
essenza della persona. Quando Dio Jahvè dice che “non
è bene che l’uomo sia solo” (Gn 2,18), afferma che “da
solo” l’uomo non realizza totalmente questa essenza. La
realizza soltanto esistendo “con qualcuno” - e ancor
più profondamente e più completamente: esistendo
“per qualcuno”» (ivi). In questa esperienza della solitu
dine originaria ritroviamo, come in controluce, la
splendida definizione dell’uomo offerta dal concilio
Vaticano II: «L’uomo, il quale in terra è la sola creatu
ra che Iddio abbia voluto per se stesso, non può realiz
107
zarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di
sé» ( Gaudium et spes, n. 24).
Si comprende allora la gioia - meglio ancora, il giu
bilo - che s’impossessa dell’uomo dinanzi a colei che
Jahvè ha tratto dalla sua costola: «Questa volta è osso
dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà
donna, perché dall’uomo è stata tolta» (Gn 2,23). Non
è solo un grido d’ammirazione dinanzi allo splendore
del corpo della prima donna, è soprattutto lo scoppio
d’esultanza di chi può finalmente realizzarsi nel dono
di sé ad un’altra persona. «In questo modo, l’uomo
(maschio) manifesta per la prima volta gioia e perfino
esaltazione, di cui prima non aveva motivo, a causa
della mancanza di un essere simile a lui. La gioia per
l’altro essere umano, per il secondo “io”, domina nelle
parole dell’uomo (maschio) pronunziate alla vista della
donna (femmina)» (Udienza del 7 novembre 1979).
Solo ora la creazione dell’uomo è definitivamente com
piuta: «La completa e definitiva creazione dell’uomo...
si esprime nel dar vita a quella communio personarum
che l’uomo e la donna formano» (Udienza del 14 no
vembre 1979).
Il grido di gioia del primo uomo al cospetto dell
prima donna è, contemporaneamente, un grido d’amo
re, il primo canto d’amore dell’umanità, il «prototipo
biblico del Cantico dei cantici», come dice Giovanni
Paolo II. È l’origine e la fonte della gioia di amare, del
la gioia del dono. È la gioia che emana da tutti coloro
che si amano nella verità, da coloro che hanno compre
so che l’amore è prima di tutto dono di sé. È la gioia
propria delle nozze, e questa gioia rimane, malgrado
tutte le deturpazioni dell’amore causate dal peccato,
108
l’aspirazione fondamentale del cuore dell’uomo, a testi
monianza della sua origine.
109
Certo, la condizione originaria è andata irrimedia
bilmente perduta dal momento che - come si esprime
il papa - si è elevata la “barriera insuperabile” del pec
cato; ma la purezza del cuore, che può essere riconqui
stata con l’accoglienza della grazia redentiva di Cristo,
permette di ritrovare qualcosa della gioia originaria del
la comunione. Dobbiamo cercare - seguendo l’invito
di Gesù quando parla del ripudio (cfr. Mt 19,3-8) - «di
retrocedere dalla soglia della peccaminosità “storica”
dell’uomo fino alla sua innocenza originaria» (Udienza
del 12 dicembre 1979). E proprio in questo può esser
ci d’aiuto il Cantico dei cantici, in quanto testimonian
za dello splendore originario della vocazione sponsale
del corpo umano, nella esaltazione di un “erotismo in
tegrale”, cioè rispettoso della integralità della vocazio
ne del corpo.
È significativo che Giovanni Paolo II abbia scelto di
commentare in tre riprese il Cantico dei cantici, come
una sorta di introduzione alle riflessioni che avrebbe in
seguito dedicato alle conseguenze etiche della teologia
del corpo. La meditazione di questo libro biblico favo
risce quelle disposizioni interiori di gioia e di accoglien
za dell’altro, necessarie per fare proprie nella pace le esi
genze etiche della vita coniugale. «[Il linguaggio del
corpo impiegato dagli sposi del Cantico dei cantici] ap
porta loro gioia e quiete e sembra indurli a una ricerca
continua. Si ha l’impressione che, incontrandosi, rag
giungendosi, sperimentando la propria vicinanza, con
tinuino incessantemente a tendere a qualcosa [...].
Questa aspirazione nata dall’amore sulla base del “lin
guaggio del corpo” è una ricerca del bello integrale,
della purezza libera da ogni macchia: è una ricerca di
110
perfezione che contiene, direi, la sintesi della bellezza
umana, bellezza dell’anima e del corpo» (Udienza del
6 giugno 1984).
È a questa gioia e a questa esigenza della comunio
ne che gli sposi sono chiamati, vivendo in pienezza la
grazia del sacramento matrimoniale meritata dall’offer
ta redentiva di Cristo.
111
gonabile alla più perfetta che ci sia dato vivere per un
breve momento» (.Metafisica, 1. 12, c. 7).
Se Dio è vita - vita perfetta - anche l’uomo e la don
na, essendo stati creati a immagine di Dio, sono a loro
volta immagini di questa vita. Come Dio comunica la
sua vita quale effusione del suo Essere trinitario, an-
ch’essi comunicano la vita quale fioritura e frutto della
loro comunione, facendo sorgere nel mondo nuove e
“uniche” immagini di Dio: «Quando dall’unione co
niugale dei due nasce un nuovo uomo - scriveva Gio
vanni Paolo II nella splendida “Lettera alle famiglie”
del 1994 - questi porta con sé al mondo una partico
lare immagine e somiglianza di Dio stesso» (Gratissi-
mam sane, n. 9).
Il figlio è frutto e insieme testimonianza di una co
munione, sia pure ferita, o deturpata, o estinta. È il se
gno intangibile della comunione delle origini. La sua
venuta alla luce è sempre una gioia, a dispetto di tutte
le tribolazioni che possono accompagnare il suo avven
to, perché richiama indefettibilmente la gioia della
comunione delle origini. Il figlio viene a confermare la
comunione degli sposi, talvolta anche a salvarla. Quan
do un matrimonio è sul punto di naufragare perché
l’amore si è estinto, e tuttavia gli sposi perseverano nella
vita in comune “a motivo dei figli”, è perché i figli rap
presentano ciò che ancora rimane di una comunione
che, esistita una volta, lascia un ricordo e una nostalgia
incancellabili. Essi sono la prova sussistente della gioia
del dono, e questa prova è talvolta l’ultimo riparo dal
l’estinzione completa dell’amore. Quanti genitori han
no trovato, nello sguardo dei propri figli, la ragione e
la forza di non commettere l’irreparabile? Essi sono
112
l’ultima misericordia accordata all’amore che si smar
risce.
Giovanni Paolo II si è battuto con tutte le forze con
tro la «cultura di morte» che insidia particolarmente le
nostre società supersviluppate, sino a parlare di una
«congiura contro la vita» (Evangelium vitae, n. 17).
Dietro al rigetto del figlio, si profila il rigetto di Dio
quale autore di ogni vita. Quando il figlio diventa una
seccatura, un peso, ed è considerato solo un costo che
conviene evitare, vuol dire che si è smarrito il senso del
la comunione, e con esso la ragione della gioia. La gioia
di amare è la gioia del dono, e non esiste dono più
grande che quello della vita. L’accoglienza generosa del
la vita nelle famiglie mantiene viva la speranza di
un’umanità che non cessa di orientarsi verso la sorgen
te inesauribile della comunione e della gioia. «[La fami
glia] trova la sua natura comunitaria, o piuttosto il suo
carattere di “comunione”, nella comunione fondamen
tale degli sposi, la quale si prolunga nei figli», insiste
Giovanni Paolo II. E poi il suo celebre grido di speran
za: «L’avvenire dell’umanità passa attraverso la famiglia»
{Familiaris consortio, n. 86).
113
Schema IX
L’EUCARISTIA,
MISTERO NUZIALE
115
a me e a te, o donna?»); le versioni moderne preferisco
no: «Donna, che vuoi da me?». Nel suo commento al
Vangelo1, Dom Delatte, dopo aver escluso tutte le inter
pretazioni che tendono a vedere in questa frase l’intenzio
ne di Gesù di stabilire una certa distanza rispetto a sua
madre, suggerisce la lettura: «Lasciami, donna...», da
intendersi correttamente in relazione con quanto segue:
«...non è ancora giunta la mia ora». Gesù sembra voler
dire affettuosamente a sua madre: «Lasciami! Non anco
ra, aspetta, la mia ora non è venuta».
L’ora evocata da Gesù è quella della sua passione, che
in Giovanni (cap. 17) è introdotta dalla grande “preghie
ra sacerdotale” che inizia con le parole: «Padre, è venuta
l’ora: glorifica il Figlio tuo...». I due momenti si richia
mano a vicenda, l’uno all’inizio della vita pubblica di
Gesù, l’altro al suo termine, e in ambedue le circostan
ze Gesù si rivolge a sua madre con l’appellativo “donna”
(«Donna, ecco tuo figlio!», Gv 19,26). Con ciò è indi
cata l’universalità della maternità di Maria. È peraltro
importante notare che la solenne preghiera si colloca
subito dopo la celebrazione della Cena pasquale insieme
ai discepoli, nel corso della quale Gesù istituisce l’euca
ristia, offerta redentiva del suo corpo e del suo sangue per
la Chiesa. Le nozze di Cana e l’Ultima cena, i due punti
estremi del Vangelo, due banchetti di nozze...
L’eucaristia è un pranzo di nozze: le nozze di Cristo-
Sposo e della Chiesa-Sposa. La “mia ora”, che Gesù an
nuncia e prefigura a Cana, è l’ora dei suoi sponsali con
la Chiesa. L’eucaristia è il compimento di un dono nu
ziale col quale Gesù fa offerta di sé sino alle estreme
116
conseguenze: totalmente donato, abbandonato, im
molato, diventa nutrimento per la Chiesa, la sua Spo
sa. È il sublime insegnamento di san Paolo nella lette
ra agli Efesini (5,22-23), a cui si richiama Giovanni
Paolo II: «Quel dono di sé al Padre per mezzo dell’ob
bedienza fino alla morte è contemporaneamente, se
condo la lettera agli Efesini, un “dare se stesso per la
Chiesa”. In questa espressione, l’amore redentore si
trasforma, direi, in amore sponsale: Cristo, dando se
stesso per la Chiesa, con lo stesso atto redentore si è
unito una volta per sempre con essa, come lo sposo con
la sposa, come il marito con la moglie, donandosi at
traverso tutto ciò che una volta per sempre è racchiu
so in quel suo “dare se stesso” per la Chiesa» (Udienza
del 18 agosto 1982).
È così che gli sposi sono chiamati a donarsi vicende
volmente, nell’estrema oblazione di sé. Non a caso il sa
cramento del matrimonio ha luogo nel cuore della cele
brazione eucaristica, appena prima della presentazione
delle oblate. E questo non semplicemente perché si
tratta di una cesura, del passaggio dalla liturgia della
parola alla liturgia eucaristica, ma per il fatto che gli
sposi, consacrandosi l’uno all’altra si pongono nella
condizione di associare la loro offerta nuziale all’offer
ta nuziale di Cristo per la Chiesa.
Per realizzarsi nella sua totalità, l’offerta nuziale esige
che il consenso pronunciato dagli sposi sia confermato
concretamente attraverso il dono dei corpi. Pertanto, la
celebrazione del matrimonio non si esaurisce con la ceri
monia pubblica, ma si perfeziona nel talamo nuziale, dove
l’atto coniugale è come il “sigillo” della liturgia sacramen
tale, di cui gli sposi sono i “veri” ministri. Opportuna
117
mente Giovanni Paolo II afferma: «Il matrimonio come
sacramento viene contratto mediante la parola, che è
segno sacramentale in ragione del suo contenuto: “Prendo
te come mia sposa - come mio sposo Tuttavia, que
sta parola sacramentale è, di per sé, soltanto il segno del
l’attuazione del matrimonio. E l’attuazione del matrimo
nio si distingue dalla sua consumazione fino al punto che,
senza questa consumazione, il matrimonio non è ancora
costituito nella sua piena realtà. La constatazione che un
matrimonio è stato giuridicamente contratto ma non
consumato (ratum—non consummatum), corrisponde alla
constatazione che esso non è stato costituito pienamente
come matrimonio. Infatti le parole stesse: “Prendo te co
me mia sposa - come mio sposo” possono essere adem
piute soltanto attraverso la copula coniugale» (Udienza
del 5 gennaio 1983).
Allo stesso modo, il consenso di Cristo alla Chiesa
nell’offerta di se stesso, attraverso il dono eucaristico,
esigeva di essere confermato attraverso l’offerta reden
trice del suo corpo sulla croce. La croce diventa così il
talamo nuziale di Cristo-Sposo e della Chiesa-Sposa.
Giunto all’apice della sua offerta redentrice, Gesù può
dire: Consummatum est («È consumato», stando alla
Vulgata di san Girolamo): sono le ultime parole che san
Giovanni mette sulle sue labbra, solitamente rese con:
«Tutto è compiuto». Certo, a questo punto tutta l’ope
ra della redenzione è compiuta, ma trattandosi dell’of
ferta di Gesù-Sposo alla Chiesa-Sposa, è un atto nuziale
compiuto in quanto “consumato”. È in quel momento,
quando Gesù offre per la Chiesa il suo ultimo soffio di
vita, che le sue nozze con la Chiesa-Sposa sono total
mente consumate.
118
La natura del matrimonio aiuta a comprendere tutta
la dinamica dei sacramenti scaturiti dall’opera della re
denzione, compiuta e conclusa nell’offerta nuziale di
Cristo alla Chiesa. Ed ecco: tutti i sacramenti della Chie
sa, che sono come l’effusione di quest’opera redentiva,
rivestono una dimensione nuziale, attestando la fecon
dità dell’unione di Cristo e della Chiesa. «Sebbene l’ana
logia della lettera agli Efesini non lo precisi, possiamo
tuttavia aggiungere che anche la Chiesa unita con Cri
sto, come la moglie col proprio marito, attinge dal sa
cramento della Redenzione tutta la sua fecondità e
maternità spirituale» (Udienza del 13 ottobre 1982).
Ponendo così le basi di un rinnovamento completo del
la teologia sacramentale, il papa non esita a dire: «Tutti
i sacramenti della Nuova Alleanza trovano in un certo
senso nel matrimonio, quale sacramento primordiale,
il loro prototipo» (Udienza del 20 ottobre 1982).
Donandosi vicendevolmente nel matrimonio, e iscri
vendo la loro unione nel segno redentivo delle nozze di
Cristo e della Chiesa, gli sposi realizzano un atto pro
fetico: «Sulla base del profetismo del corpo, i ministri
del sacramento del matrimonio compiono un atto di
carattere profetico. Confermano in tal modo la loro
partecipazione alla missione profetica della Chiesa, ri
cevuta da Cristo» (Udienza del 19 gennaio 1983).
119
di sé. Ricevere il corpo eucaristico di Cristo non è solo
l’occasione di un “cuore a cuore” con Gesù; è anche - in
senso proprio - un “corpo a corpo” di ogni membro
della Chiesa-Sposa con il Cristo-Sposo.
Se tutti i sacramenti della Nuova Alleanza trovano
in un certo senso - per riprendere il concetto di Gio
vanni Paolo II - il loro “prototipo” nel matrimonio,
l’eucaristia è la realizzazione piena della dimensione
nuziale presente in ogni sacramento della Chiesa come
effusione dell’opera redentrice e nuziale compiuta da
Cristo. In quanto realizzazione della pienezza dell’unio
ne nuziale di Cristo e della sua Chiesa, l’eucaristia è
«fonte e apice di tutta la vita cristiana» {Lumen gentium,
n. 11). Perciò la comunione eucaristica è per gli sposi
un’occasione di perenne rigenerazione della loro unio
ne; è un’iniezione di energia per le esigenze della loro
vita in comune; soprattutto è il pieno compimento
della loro vocazione sponsale, figura del loro reciproco
donarsi.
Si comprende, allora, come una eventuale pretesa di
tenere lontani gli sposi dal sacramento dell’eucaristia
- motivata dal fatto che la realtà carnale della loro vita
coniugale li priverebbe della purezza necessaria per
accostarsi degnamente al sacramento - corrisponda ad
una falsificazione “manichea” del senso profondo della
stessa eucaristia. Si capisce anche la fermezza con cui
Giovanni Paolo II deplora il modo talvolta inadeguato
con cui si è voluto rimarcare una certa superiorità della
verginità e del celibato rispetto al matrimonio. «Le pa
role di Cristo [...] non forniscono motivo per sostene
re né la “inferiorità” del matrimonio, né la “superiori
tà” della verginità o del celibato, in quanto questi per
120
la loro natura consistono nell’astenersi dalla “unione”
coniugale “nel corpo”. [...] Il matrimonio e la continen
za né si contrappongono l’uno all’altra, né dividono di
per sé la comunità umana (e cristiana) in due campi
(diciamo: dei “perfetti” a causa della continenza e degli
“imperfetti” o meno perfetti a causa della realtà della
vita coniugale)» (Udienza del 14 aprile 1982).
Non si può assolutamente negare che esistono delle
colpe che gli sposi possono commettere, alle quali pe
raltro sono particolarmente esposti, che devono talvol
ta indurli ad astenersi dalla mensa eucaristica, finché
non abbiano ricevuto il sacramento della riconciliazio
ne. Ma non si dà alcuna “incongruenza” fra la realtà del
vissuto carnale del matrimonio e l’eucaristia. Al contra
rio, esiste fra questi due sacramenti una congruenza in
trinseca, una profonda corrispondenza, quasi una con
naturalità.
L’eucaristia, ricevuta e vissuta con viva fede, per quel
lo che essa realmente significa, è la migliore preparazio
ne degli sposi al dono pieno dei loro corpi; d’altra
parte, il dono carnale, con tutto ciò che esige e suppone
sul piano dell’unione dei cuori e delle anime, deve con
durli a desiderare ancora più ardentemente di ricevere
il corpo del Signore, contribuendo così a incrementa
re l’immagine della Chiesa come Sposa di Cristo. In
tutto questo non vi è nulla di oltraggioso, tanto meno
di blasfemo.
Gli sposi devono dunque liberarsi da ogni ombra di
manicheismo, di sfiducia o semplicemente di sospetto
nei riguardi del corpo, che potrebbe influenzare nega
tivamente il loro modo di considerare quegli atti attra
verso i quali essi diventano “una sola carne”. Al riguar
121
do Giovanni Paolo II ha avuto parole estreme: «Il mo
do manicheo di intendere e di valutare il corpo e la ses
sualità dell’uomo è essenzialmente estraneo al Vangelo»
(Udienza del 22 ottobre 1980).
Beneficiando, nel sacramento del matrimonio, dei
meriti della redenzione, purificato mediante il sangue
dell’Agnello, il dono dei corpi può essere vissuto —pur
in una natura ferita dal peccato originale - nell’integra-
lità del suo significato: «Nondimeno, anche in questo
stato, cioè nello stato della peccaminosità ereditaria
dell’uomo, il matrimonio non cessa mai di essere la
figura di quel sacramento, di cui leggiamo nella lettera
agli Efesini e che l’autore della medesima lettera non
esita a definire “grande mistero”» (Udienza del 13 otto
bre 1982). Che questo sia esigente, è chiaro; che sia im
possibile, non può essere sostenuto, a meno che non si
abbia sufficiente fede nella realtà sacramentale del ma
trimonio.
Una vita cristiana autentica, aperta al dinamismo
della grazia, è una vita unificata. L’unificazione del no
stro corpo e della nostra anima, come l’unificazione
degli sposi nella comunione, devono diventare segni
radiosi di una vera vita cristiana. Sarà il frutto di lotte,
purificazioni e sacrifìci; sarà il risultato di uno sforzo
perenne per educare il nostro cuore, e dell’accettazione
dell’opera della grazia in noi... ma è soprattutto il risul
tato della conquista realizzata a nostro benefìcio dalla
redenzione di Cristo.
Questa unificazione della vita cristiana farà sboccia
re dai cuori degli sposi, nella comunione eucaristica,
un’azione di grazie per l’offerta dei loro corpi. Riceven
do il corpo di Cristo, offerto per loro, sentiranno di
122
preparare i propri corpi all’offerta del dono. Ma soprat
tutto, accedendo all’eucaristia, potranno santificare in
modo tutto particolare quelle unioni dei corpi per le
quali avranno previsto —nella prospettiva di una pater
nità e una maternità responsabili - lo sbocciare di una
nuova vita. In questo modo l’unione dei corpi viene
trasfigurata, o piuttosto ristabilita, nella verità del suo
pieno significato: celebrazione del “grande mistero”
evocato dalla lettera agli Efesini. Giovanni Paolo II po
tè dire: «Su questa via, la vita coniugale diviene in un
certo senso liturgia» (Udienza del 4 luglio 1984).
Le nozze dell’Agnello
123
A quell’incontro ci prepara ogni eucaristia, con la
quale «Cristo, nel suo amore coniugale, nutre la Chie
sa» (Udienza del 1° settembre 1982). Nella messa, il ce
lebrante ci invita con le parole stesse dell’Apocalisse:
«Beati gli invitati al banchetto di nozze del Signore»
(19,9). La Chiesa-Sposa, in ognuno di noi, può solo
rispondere nell’umiltà e nella speranza: Domine, non
sum dignus... «Signore, non sono degno... La tua sposa
non è degna, il suo cuore non è ancora pronto a rice
vere lo splendore del dono di te. Ma tu vieni, o Signore,
a guarire il suo cuore, nutrila di te, accendi in lei il desi
derio di donarsi a te».
Di eucaristia in eucaristia, la Chiesa alimenta in sé
il desiderio dello Sposo, la brama di accoglierlo piena
mente e di ricambiarlo col dono totale di sé. È un desi
derio che esprime la sua volontà di conversione, e non
cesserà di ripeterlo fino al momento in cui lo Sposo si
manifesterà nella gloria, e lei potrà presentarsi a lui
«tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di
simile, ma santa e immacolata» (Ef 5,27). In quel gior
no, la gloria di Cristo sarà la gloria dello Sposo accol
to dalla sua Sposa. La Chiesa-Sposa potrà finalmente
dire allo Sposo quelle parole che ogni sposa mormora
al suo sposo quando si sente pronta ad accogliere il
dono del suo corpo: «Vieni! - Marana-tha! Vieni, Si
gnore Gesù!» (Ap 22,20).
L’unione nuziale sarà allora totalmente compiuta,
consumata in una celebrazione eterna, in una comu
nione e in una eucaristia eterne. La sete di comunione,
iscritta sin dalle órigini nel nostro cuore di uomini e di
donne dal Creatore, sarà pienamente soddisfatta. Di
quelle nozze eterne, quando la nostra umanità otterrà
124
il suo pieno compimento, gli sposi cristiani, attraverso
la grazia del loro sacramento, sono chiamati ad essere i
profeti, da oggi... sino all’ultimo giorno.
La riflessione sull’unione sponsale di Cristo con la
Chiesa sulla scorta della lettera agli Efesini (cap. 5), ci
immerge nel cuore stesso della realtà e della verità del
matrimonio, nel suo significato più alto: «Questo testo
ci conduce a una dimensione tale del “linguaggio del
corpo” che potrebbe essere chiamata “mistica”. Parla in
fatti del matrimonio come di un “grande mistero”. [...]
E sebbene questo mistero si compia nell’unione spon
sale di Cristo redentore con la Chiesa e nella Chiesa-
Sposa con Cristo [...], sebbene si effettui definitiva
mente nelle dimensioni escatologiche, tuttavia l’autore
della lettera agli Efesini non esita ad estendere l’analo
gia dell’unione di Cristo con la Chiesa nell’amore
sponsale [...] al segno sacramentale del patto sponsale
dell’uomo e della donna» (Udienza del 4 luglio 1984).
Il testo paolino fa parte del grande tesoro della Chiesa,
al quale ella non cessa di attingere una sempre maggio
re consapevolezza, e che la rende capace di compren
dere ogni giorno un po’ meglio l’uomo in tutta la sua
verità, nella grandezza della sua vocazione, infine nel
suo mistero «che non si chiarisce veramente che nel mi
stero del Verbo incarnato» (Gaudium et spes, n. 22).
«Bisogna riconoscere - prosegue Giovanni Paolo II -
la logica di questo stupendo testo, che libera radical
mente il nostro modo di pensare dagli elementi di ma
nicheismo o da una considerazione non personalista
del corpo e al tempo stesso avvicina il “linguaggio del
corpo”, racchiuso nel segno sacramentale del matrimo
nio, alla dimensione della reale santità» (ivi). Ci viene
125
manifestata anche la missione specifica degli sposi nel
corpo mistico di Cristo che è la Chiesa: gli sposi devo
no essere - con tutta la loro vita, con ognuno dei gesti
che esprimono la verità del loro amore, con l’offerta
interiore di se stessi - coloro che nella Chiesa rivelano
il significato integrale del segno sacramentale del matri
monio, cioè quelle nozze di Cristo e della Chiesa che
saranno pienamente compiute nel giorno della risurre
zione finale, quando Cristo-Sposo ritornerà nella glo
ria a ricevere il dono nuziale della sua Sposa.
Il papa conclude: «In quel segno, attraverso il “lin
guaggio del corpo”, l’uomo e la donna vanno incontro
al “grande mysterium , per trasferire la luce di quel mi
stero, luce di verità e di bellezza, espresso nella lingua
liturgica, in “linguaggio del corpo”, nel linguaggio cioè
della prassi dell’amore» (ivi).
126
Schema X
II prete-sposo
127
raltro può essere svolto da un diacono (e in alcune par
ticolarissime circostanze da un semplice laico). Si po
trebbero elencare anche altri motivi.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica accosta questi
due sacramenti per il fatto che entrambi «sono al ser
vizio della comunità e della missione dei fedeli» (n.
1211); «Essi conferiscono una missione particolare
nella Chiesa e servono all’edificazione del popolo di
Dio» (n. 1534). Entrambi sono delle consacrazioni
particolari conferite a «coloro che sono già stati consa
crati mediante il Battesimo e la Confermazione» (n.
1535). Il sacerdote, grazie al sacramento dell’ordine,
è consacrato al servizio della Chiesa; gli sposi - come
ricorda il Vaticano II, che riprende su questo punto
l’enciclica di Pio XI sul matrimonio, Casti connubii
(1930) - sono anch’essi «come consacrati» ( Gaudium
et spes, n. 48) mediante il sacramento del matrimonio.
Il prete è consacrato al servizio della Chiesa e confi
gurato sia al Cristo in quanto «Capo della Chiesa, nel
la sua triplice funzione di sacerdote, profeta e re» ( Ca
techismo, n. 1581), sia al Cristo in quanto Sposo della
Chiesa. Proprio in questo risiede la più profonda
ragione del celibato sacerdotale nella Chiesa latina. È
molto più che una questione di tradizione o discipli
na, molto più che un’esigenza pratica di disponibilità
del prete rispetto ai molteplici compiti del suo mini
stero. Nel celibato sacerdotale c’è una giustificazione
di opportunità profonda in relazione alla specifica
vocazione del prete.
Come Cristo si dona interamente alla Chiesa, come
lo sposo alla sposa, anche il prete, che mediante la gra
zia del sacramento dell’ordine diviene un altro Cristo
128
(,alter Christus), è chiamato a donarsi alla Chiesa allo stes
so modo: nel modo nuziale —o “sponsale” come dice
Giovanni Paolo II - e dunque esclusivo. Così la Chiesa
diventa, in qualche modo, anche la Sposa del prete, che
egli purifica e rigenera mediante il ministero della mise
ricordia; di cui si prende cura insegnando ed esortando;
che ogni giorno nutre con l’eucaristia. Nella celebrazio
ne della messa, il sacerdote offre se stesso con Cristo per
la Chiesa, in un’offerta nuziale di sé. Quando pronun
cia le parole consacratone sul pane e sul vino, per cam
biarli nel corpo e nel sangue di Cristo, è anche il suo
corpo di prete, il suo sangue di prete, la sua vita di prete
che egli offre con Cristo-Sposo per la Chiesa-Sposa. E il
dono nuziale di se stesso, che il prete fa alla Chiesa, asso
ciato al dono nuziale di Cristo alla sua Chiesa. Un dono
che assume una dimensione quasi carnale.
Il celibato sacerdotale si rivela, in questa luce, non
una negazione del valore del matrimonio, ma pieno
compimento del suo significato. La lettera di Paolo agli
Efesini (cap. 5), che esprime la natura nuziale del lega
me di Cristo e della Chiesa, contiene una dottrina che
si applica tanto al matrimonio quanto al celibato sacer
dotale: «Quel testo è ugualmente valido sia per la teo
logia del matrimonio, sia per la teologia della continen
za “per il Regno”, cioè la teologia della verginità o del
celibato» (Udienza del 21 aprile 1982).
La figura del prete deve diventare, per gli sposi, la
figura perfetta del loro dono nuziale, e il suo celibato è
chiamato a esprimere l’assolutezza di questo dono. Il
cuore del prete, se vuole davvero configurarsi a quello
di Gesù, non può che essere un cuore di sposo. E poi
ché il dono nuziale è per sua natura esclusivo, il prete
129
può donarsi solo all’unica Sposa di Cristo, essendo as
sociato a Cristo nella sua offerta nuziale alla Chiesa. È
da questa totalità dell’autodonazione che sorge tutta la
fecondità spirituale del ministero sacerdotale.
Gli sposi, a loro volta, devono diventare per il prete
come la figura concreta del suo dono nuziale alla Chie
sa, mentre il prete deve potersi sentire corroborato nella
sua consacrazione alla Chiesa dall’esempio della loro reci
proca dedizione. Il prete deve poter vedere, nella fedeltà
degli sposi, una motivazione per la sua fedeltà al dono
totale di sé alla Chiesa, sicché la rottura del suo celibato
può assimilarsi ad una forma di adulterio. Anche se a
proposito del celibato sacerdotale esistono tradizioni
diverse in seno alla stessa Chiesa cattolica, bisogna rico
noscere che il cuore del prete può difficilmente concilia
re il dono totale di sé alla Chiesa con la dedizione ad una
moglie. È del resto noto come l’ordinazione di uomini
sposati (presso i cattolici melchiti o maroniti, ad esem
pio) non sia scevra da difficoltà, non sempre e in primo
luogo di ordine pratico. Il fatto che, secondo una tradi
zione costante fin dai primi secoli della Chiesa, la pienez
za del sacramento dell’ordine, l’episcopato, non sia mai
conferito a uomini sposati, sta a indicare che quando la
conformazione a Cristo è totale, similmente dev’essere la
consacrazione alla Chiesa-Sposa. Questa è una visione
che i cattolici condividono con i fratelli ortodossi.
130
trimonio. Nella Chiesa cattolica gli sposi sono consi
derati i veri ministri del loro sacramento, che essi si
conferiscono reciprocamente in presenza del prete, te
stimone ufficiale della Chiesa. Ma la presenza del prete
non va intesa, in prevalenza ed esclusivamente, in senso
giuridico: se egli è testimone privilegiato del matrimo
nio, è perché rappresenta Gesù Cristo-Sposo dinanzi
agli sposi.
Attraverso il loro patto matrimoniale, gli sposi fon
dano una famiglia chiamata a essere una “piccola Chie
sa”, nel quadro della grande Chiesa. E dunque signifi
cativo il fatto che il prete, configurato al Cristo-Sposo
dal sacramento dell’ordine, assista come rappresentan
te di Cristo alla costituzione di una nuova “piccola
Sposa di Cristo”, qual è la famiglia. In questa funzio
ne, il prete fa ben più che assistere al matrimonio o
gestirne la celebrazione: vi presiede realmente, in per
sona Christi, quale rappresentante di Cristo, unico Spo
so della Chiesa. In qualche modo, con il loro impegno
totale nel matrimonio, gli sposi confermano il prete nel
dono totale di se stesso alla Chiesa.
Si comprende, allora, quale grande occasione di gio
ia sia per un prete la celebrazione di un matrimonio, il
sacramento che mentre dà vita ad una «chiesa dome
stica» (Lumen gentium, n. 11) ricorda a lui la sua con
sacrazione nuziale come prete-sposo con la Chiesa-
Sposa. Si comprende anche perché, nella preparazione
dei fidanzati al matrimonio, oltre alla collaborazione
dei laici, specialmente se sposati, sia prezioso - e sotto
certi aspetti insostituibile - il coinvolgimento del prete.
Egli è 11 per formarli e prepararli a quel dono nuziale
di sé che il suo sacerdozio incarna e rivela. Pur non es
131
sendo ministro proprio del matrimonio, il prete è la fi
gura principale del sacramento: figura di Cristo e della
Chiesa che gli sposi devono poter riconoscere in lui. La
Chiesa ha bisogno di preti che celebrino la grandezza
dell’amore umano nelle nozze. Il loro sacerdozio non
può mai significare una negazione, un rifiuto, ancor
meno un disprezzo di quell’amore; al contrario, nella
luce delle nozze di Cristo e della Chiesa - il “grande
mistero/sacramento” evocato da san Paolo (Ef 5,32) -
ne costituisce il pieno compimento.
Oggi più che mai la Chiesa ha bisogno di preti che
siano pastori dell’amore umano, che abbiano l’audacia di
“amare l’amore umano”. Modello anche in questo, così
Giovanni Paolo II si confidava al giornalista Vittorio
Messori: «Bisogna preparare i giovani al matrimonio,
bisogna insegnare loro l’amore. L’amore non è cosa che
s’impari, e tuttavia non c’è cosa che sia così necessario
imparare! Da giovane sacerdote imparai ad amare l’amore
umano. Questo è uno dei temi fondamentali su cui con
centrai il mio sacerdozio, il mio ministero sul pulpito,
nel confessionale, e anche attraverso la parola scritta»1.
Così, gli sposi e il prete sono chiamati a offrirsi un
mutuo sostegno nella donazione di sé. Il prete potrà
vedere, negli sposi, l’espressione viva della sua consacra
zione, come gli sposi potranno riconoscere nel prete la
figura perfetta dello sposo. Nessuna opposizione fra lo
stato di vita del prete e quello degli sposi, bensì due
modalità diverse e complementari di vivere l’unica vo
cazione sponsale della persona, come ci ricorda il Con
cilio: «L’uomo, il quale in terra è la sola creatura che
132
Iddio abbia voluto per se stesso, non può ritrovarsi
pienamente se non attraverso un dono sincero di sé»
( Gaudium et spes, n. 24).
Il prete però gode di un privilegio speciale. In quan
to battezzato e membro della Chiesa, riguardo a Cristo-
Sposo egli è nella condizione della sposa che accoglie
in dono il suo sposo. Ma essendo conformato median
te il suo sacerdozio a Cristo-Sposo, egli si trova anche
nella condizione dello sposo totalmente offerto alla
sposa. Suprema dignità del prete, che esige in cambio
la piena consacrazione della sua vita! Mistero immen
so e insondabile, che trascende tutti i limiti e le pover
tà di quanti godono del sublime privilegio della voca
zione sacerdotale.
133
Gli sposi rappresentano, con tutta la loro vita, l’unio
ne nuziale di Cristo e della Chiesa, e prefigurano così
la condizione futura dell’umanità pienamente compiu
ta nel Regno, quando la sete di comunione che ci carat
terizza come persone sarà pienamente saziata dal dono
che Dio farà di se stesso alla nostra umanità risuscitata.
L’eucaristia li conforta e li fortifica, mentre essi attra
verso il dono di sé esprimono l’unione eucaristica di
Cristo con la sua Chiesa, nell’attesa della venuta del
Regno in cui Cristo sarà definitivamente stabilito come
Capo e Sposo dell’umanità. Gli sposi hanno la voca
zione a manifestare, nell’articolazione di una vita ge
nuinamente cristiana, ciò che l’eucaristia significa e
annuncia. Con la loro vita e il loro esempio essi con
fortano la missione del prete in quanto ministro/servo
dell’eucaristia: nella mediazione eucaristica, prete e
sposi si ritrovano uniti da un legame misterioso e pro
fondissimo.
Quando due genitori hanno la grazia di poter offri
re uno dei propri figli alla Chiesa, accompagnandolo
nella risposta alla vocazione sacerdotale, il loro matri
monio raggiunge una nuova pienezza di significato,
quasi un modo privilegiato di esprimere l’unione spon
sale di Cristo e della Chiesa. Essi, che avevano espres
so il loro reciproco dono durante la messa nuziale, po
tranno rinnovare quell’offerta in occasione della prima
messa del loro figlio, il quale, in virtù della grazia del
suo sacerdozio, è ora realmente “identificato” con l’uni
co Sposo della Chiesa. Mistero sublime di due offerte
di sé che si richiamano vicendevolmente!
Donare un figlio sacerdote alla Chiesa di Gesù Cri
sto, è il più grande contributo che gli sposi possano
134
offrire all’avvento del Regno di cui, proprio in forza del
loro matrimonio, sono diventati “profeti”. Attraverso la
loro offerta, se da un lato rinunciano alla gioia di vede
re un giorno i “figli della carne” dei propri figli, dall’al
tro contribuiscono mirabilmente alla fecondità della
Chiesa, grazie al ministero sacerdotale del loro figlio.
Non è solo perché la Chiesa ha bisogno di preti, che
gli sposi dovrebbero chiedere la grazia che qualche
vocazione sacerdotale sbocci anche nella loro famiglia.
È soprattutto perché, favorendo il dischiudersi di quel
la vocazione, sostenendola e accompagnandola nel cor
so della sua delicata maturazione, essi realizzano in
sommo grado il “segno” che fonda e caratterizza il loro
matrimonio.
135
Schema XI
La povertà
137
pur senza contrastare con la carità, può rappresentare
un ostacolo al suo sviluppo. I consigli evangelici espri
mono la pienezza vivente della carità, sempre insoddi
sfatta di non dare di più. [...] I consigli indicano vie più
dirette, mezzi più spediti e vanno praticati in confor
mità alla vocazione di ciascuno» (n. 1973s.).
Una certa tradizione spirituale ha portato a ritenere
che solo la vita religiosa favorisca la pratica di questi
consigli, e di conseguenza essa sola consenta di accede
re alla santità, cioè alla perfezione della carità. Lo stato
matrimoniale, per il fatto che renderebbe particolar
mente difficile la pratica dei consigli evangelici, rara
mente è stato considerato un mezzo che facilita il cam
mino della santità, anche se non lo intralcia del tutto.
Possiamo esserne così sicuri? Gli sposi, nella misura in
cui si impegnano nel matrimonio come in una rispo
sta ad un’autentica vocazione cristiana, non sono an-
ch’essi chiamati a praticare quei consigli evangelici in
una maniera particolare, forse non meno esigente ri
spetto ai religiosi?
Quanto alla povertà, mentre i religiosi e le religiose
s’impegnano con il voto a non possedere nulla di pro
prio, gli sposi non sono chiamati a praticare - salvo
particolari eccezioni, che meritano un attento discerni
mento - questa povertà radicale. Hanno infatti il do
vere di costituirsi un patrimonio, risultato del loro
lavoro, ed eventualmente conservare e valorizzare un
patrimonio ricevuto dai loro genitori per poi trasmet
terlo ai propri figli. Tutto ciò è motivato dal dovere di
assicurare alla propria famiglia una relativa e ragione
vole sicurezza, così come le comunità religiose hanno
il diritto e il dovere di possedere, collettivamente, quei
138
beni che garantiscono un minimo di sicurezza materia
le ai loro membri.
Ma anche gli sposi possono vivere come se non posse
dessero nulla, considerandosi dei semplici amministrato
ri temporanei dei loro beni. Per essi, l’esercizio della po
vertà evangelica è commisurato ai doveri che hanno nei
confronti dei figli: assicurare loro un’esistenza decorosa,
fornire un’educazione conveniente, anche finanziando i
loro studi, infine aiutarli a sistemarsi, soprattutto quan
do a loro volta essi fondano una nuova famiglia. Natural
mente, dopo avere assolto tutti i doveri verso i figli, ritro
vano la libertà di una scelta radicale nello spirito di
povertà. Pensiamo a quei genitori che già in anticipo la
sciano le loro proprietà ai figli, conservando per sé quan
to è strettamente necessario per non essere di peso. Anche
se non può diventare un principio, e ancor meno un ob
bligo, un simile comportamento è una magnifica testi
monianza di povertà cristiana, di quella perfezione della
carità a cui i consigli evangelici sono ordinati.
La specificità nel praticare la povertà evangelica, da
parte degli sposi, si situa anche su un piano che è ad essi
più proprio: quello dell’apertura alla vita. È chiaro, infat
ti, che se i figli sono una ricchezza, rappresentano pure
un innegabile peso finanziario, anche in ragione del fatto
che le attuali politiche familiari divengono sempre più
evanescenti, riducendosi per lo più ad una semplice poli
tica sociale nei confronti dei più disagiati. Lasciamo da
parte il fatto che ciò costituisca un’innegabile e grave
ingiustizia, in grado di giustificare anche una battaglia
politica, per concentrarci sulla “spiritualità” dell’acco
glienza della vita. Conformarsi al consiglio evangelico di
povertà può comportare che si accolgano generosamen
139
te dei figli, non certo in maniera irresponsabile, ma senza
dare eccessivo peso alla penalizzazione finanziaria legata
a tale scelta. Nell’attuale clima di consumismo sfrenato,
può diventare una scelta particolarmente difficile, che
impone delle rinunce, delle priorità e delle esclusioni (un
alloggio più arioso invece che le vacanze esotiche; la cuci
na domestica piuttosto che periodiche serate al ristoran
te; una monovolume familiare al posto della berlina o del
coupé sportivo, ecc.).
Come possono, due genitori, avere la certezza mora
le di essere sufficientemente generosi su questo punto?
Cosa significa, per essi, tenuto conto delle loro condi
zioni personali, sociali ed economiche, essere sufficien
temente aperti alla vita? A queste domande rispondeva
un sacerdote, con umorismo e realismo, in una omelia
di nozze: «...avendo un figlio in più rispetto a quanto
sarebbe ragionevole».
Gli sposi che si aprono generosamente alla vita, oltre
a offrire un’autentica e talvolta eroica testimonianza di
povertà evangelica, esprimono anche una carità vera,
poiché contribuiscono ad accrescere il numero degli elet
ti della Gerusalemme celeste, per estenderlo a misura del
cuore di Dio. Sotto quest’angolatura, il loro ruolo di
“missionari della vita” diventa complementare alla mis
sione apostolica dei sacerdoti e dei religiosi, al fine di ren
dere più reale ed effettiva la “comunione dei santi”.
La castità
140
scuno secondo la propria condizione di vita. Lo stato
matrimoniale non orienta le persone sposate verso l’os
servanza della continenza perfetta - come invece accade
per i religiosi che fanno tale scelta -, ma anche gli sposi,
se vogliono davvero vivere nel mutuo rispetto dei loro
corpi, sono tenuti alla pratica della continenza periodica.
Di cosa si tratta? Semplicemente di astenersi dalle rela
zioni sessuali nel periodo in cui la donna è feconda, o
anche solo suscettibile di esserlo, nella misura in cui gli
sposi ritengano, in tutta coscienza e libertà, che nella loro
attuale situazione non sia auspicabile, per essi e per la loro
famiglia, concepire un’altra vita. La continenza periodica
è una vera esigenza, alla quale si può essere tentati di sot
trarsi ricorrendo alla contraccezione. Ma la contraccezio
ne, soprattutto se abituale e se espone la donna ad un
pericolo per la sua salute - ancora di più se comporta
conseguenze potenzialmente abortive - è e rimane «in
trinsecamente cattiva» ( Catechismo, n. 2370). Essa com
porta un disordine morale, la cui gravità deve però esse
re stimata con prudenza, tenendo conto di particolari
circostanze che possono attenuarla1.
1Conviene essere molto chiari su questo tema dal punto di vista mora
le, senza che ciò costituisca un giudizio di valore sulle persone:
- Il ricorso a certi mezzi di contraccezione meccanici, come il preser
vativo maschile e femminile, può costituire una colpa contro il sesto e il
nono comandamento, una trasgressione della castità (cfr. Catechismo, nn.
2514-2533 e 2366-2379). Se tale ricorso è occasionale e senza volontà di
contestare l’insegnamento della Chiesa in merito, può essere una sempli
ce colpa di debolezza. Se tale ricorso è abituale e compiuto in uno spiri
to d’insubordinazione (ci si erge a unico giudice della verità morale), può
diventare una colpa di malizia, in sé particolarmente grave.
- Il ricorso ad altri metodi di contraccezione può costituire una colpa
contro il quinto comandamento, che proibisce di uccidere e di attentare
alla salute propria e altrui: essi, infatti, mettono in pericolo la salute della
141
Sovente è più facile rinunciare del tutto all’esercizio
della propria sessualità, che astenersi regolarmente ogni
mese per rispettare i cicli della fertilità femminile, quan
do una nuova nascita non è desiderabile; oppure per
periodi più lunghi, a scadenza incerta, come in caso di
malattia, di gravidanze diffìcili, di situazioni professiona
li che costringono ad assenze prolungate. Tutte circostan
ze nelle quali gli sposi si trovano ad affrontare un’esigen
za di vita che può confinare con l’eroismo, per cui hanno
bisogno del soccorso della grazia: quella grazia conferita
in particolare dal sacramento del matrimonio, che con
sente loro - a patto che si rendano ad essa ricettivi - di
realizzare integralmente il dono di sé.
La castità non va considerata come una scelta opzio
nale, ma come un’esigenza dell’offerta di se stessi, alla
luce dell’apertura alla vita a cui li impegna il loro matri
monio. «ÀI linguaggio nativo che esprime la reciproca
donazione totale dei coniugi - scriveva Giovanni Pao
lo II - la contraccezione impone un linguaggio ogget
tivamente contraddittorio, quello cioè del non donar
si all’altro in totalità: ne deriva, non soltanto il positivo
rifiuto all’apertura alla vita, ma anche una falsificazio-
142
ne dell’interiore verità dell’amore coniugale, chiamato
ad essere un dono totale della persona. La differenza
antropologica, e al tempo stesso morale, che esiste tra
la contraccezione e il ricorso ai ritmi temporali, [...] è
più vasta e profonda di quanto abitualmente non si
pensi e coinvolge in ultima analisi due concezioni della
persona e della sessualità umana tra loro irriducibili»
{Familiaris consortio, n. 32).
La castità coniugale non dev’essere intesa esclusiva-
mente sul piano dell’astinenza, sia pure quella periodi
ca. Il rispetto del corpo comporta anche il rispetto dei
diritti al corpo, e quindi l’essere disponibili all’unione
dei corpi quando essa è possibile, poiché è in questo
modo che gli sposi consolidano e verificano il loro
amore. Già san Tommaso d’Aquino, nel XIII secolo, af
fermava che coloro che sono sposati e si astengono dal
le relazioni sessuali non meritano di essere lodati (cfr.
5. Th., II-II, q. 142, a. 1).
La castità nuziale comporta infine che nel mutuo
dono dei corpi gli sposi non si lascino dominare dalla
concupiscenza, ma lo realizzino in conformità alla vo
cazione sponsale del corpo: «Entrambi, l’uomo e la
donna, allontanandosi dalla concupiscenza, trovano la
giusta dimensione della libertà del dono, unita alla
femminilità e mascolinità nel vero significato sponsale
del corpo» (Udienza del 4 luglio 1984).
L’obbedienza
143
ri luogo: i coniugi non hanno un superiore a cui obbe
dire, come nel caso dei religiosi. Anche l’autorità di un
eventuale padre spirituale, per reale che sia, non li ob
bliga nello stesso modo di coloro che hanno fatto voto
di obbedienza. A quale obbedienza, dunque, possono
essere tenuti? Semplicemente a quella verso il rispetti
vo coniuge, ma in funzione dei carismi propri dell’uo
mo e della donna. Il papa Pio XI, nella sua enciclica sul
matrimonio, evocava l’ordine dell’amore in termini che
possono essere oggi mal recepiti e meritano forse qual
che commento: «Se l’uomo, infatti, è il capo, la donna
è il cuore; e come l’uno tiene il primato del governo,
così l’altra può e deve attribuirsi come suo proprio il
primato dell’amore» (Casti connubii, I, 2).
La sottomissione reciproca, che Giovanni Paolo II
indica come un’esigenza dell’amore autentico, proibi
sce ogni specie di sottomissione unilaterale (cfr. Udien
za dell’11 agosto 1982); non vieta però di tener conto,
in questa sottomissione nell’amore, di ciò che caratte
rizza la mascolinità e la femminilità. Se la psicologia
maschile è .piuttosto segnata dalla razionalità, la sotto-
missione della sposa deve tenere in considerazione que
sto segno della vocazione maschile. Inversamente, es
sendo la psicologia femminile in prevalenza dominata
dal cuore che - al dire di Pascal - «ha delle ragioni che
la ragione non conosce», occorre che il marito ricono
sca nella moglie quest’autorità del cuore, che è suo pri
vilegio.
Tutto ciò va considerato con grande delicatezza, nu
trita dall’amore, e tenendo conto di tutte le sfumature
e colorazioni delle psicologie individuali, però senza
escludere l’esigenza e la radicalità del mutuo dono nella
144
sottomissione reciproca. Le differenze di mentalità e di
psicologia, che caratterizzano la femminilità e la masco
linità, sono iscritte nella vocazione stessa del corpo, che
è fatto per il dono, e l’obbedienza che gli sposi vicen
devolmente si devono è una conseguenza del dono al
quale sono chiamati dal loro matrimonio. Per Giovanni
Paolo II, «il corpo, che esprime la femminilità “per” la
mascolinità e viceversa la mascolinità “per” la femmi
nilità, manifesta la reciprocità e la comunione delle
persone. La esprime attraverso il dono come caratteri
stica fondamentale dell’esistenza personale» (Udienza
del 9 gennaio 1980). In questa luce, gli sposi possono
considerare le loro differenze psicologiche e di valuta
zione della realtà, legate alla mascolinità e alla femmi
nilità, non come elementi di contrapposizione, bensì
come inviti all’ascolto e all’obbedienza reciproca, in
modo da crescere insieme nella perfezione della carità.
A queste condizioni il matrimonio può rappresenta
re un’autentica via alla santità, e in questa luce rivelar
si una vocazione terribilmente esigente, a patto che non
la si voglia vivere nella mediocrità o nella “mondanità”
dell’amore. Dal canto suo, la vocazione religiosa rima
ne una via privilegiata per giungere alla perfezione della
carità, ma non basta abbracciarla per essere ipso facto
perfetti, anche se per sua natura facilita l’accesso alla
perfezione della carità, che caratterizza la santità. «Se,
stando a una certa tradizione teologica, si parla dello
stato di perfezione (status perfectionis), lo si fa non a
motivo della continenza stessa, ma riguardo all’insieme
della vita fondata sui consigli evangelici (povertà, casti
tà e obbedienza), poiché questa vita corrisponde alla
chiamata di Cristo alla perfezione (“Se vuoi essere per
145
fetto...”, Mt 19,21). La perfezione della vita cristiana,
invece, viene misurata col metro della carità. Ne segue
che una persona che non viva nello “stato di perfezio
ne” (cioè in una istituzione che fondi il suo piano di
vita sui voti di povertà, castità e obbedienza), ossia che
non viva in un Istituto religioso, ma nel “mondo”, può
raggiungere de facto un grado superiore di perfezione
- la cui misura è la carità - rispetto alla persona che
viva nello “stato di perfezione”, con un minor grado di
carità» (Udienza del 14 aprile 1982).
Dunque, la santità è possibile anche nel matrimo
nio, come ha inteso espressamente confermare Giovan
ni Paolo II con la beatificazione, nell’anno 2001, dei
coniugi Beltrame Quattrocchi. Essa è soprattutto pos
sibile attraverso il matrimonio, a patto che gli sposi si
impegnino a vivere non secondo lo spirito del mondo,
ma secondo lo spirito dei consigli evangelici, a costo di
essere nel mondo dei segni di contraddizione. «I con
sigli evangelici - continua Giovanni Paolo II - aiutano
indubbiamente a raggiungere una più piena carità.
Pertanto, chiunque la raggiunge, anche se non vive in
uno “stato di perfezione” istituzionalizzato, perviene a
quella perfezione che scaturisce dalla carità, mediante
la fedeltà allo spirito di quei consigli. Tale perfezione è
possibile e accessibile ad ogni uomo, sia in un “Istituto
religioso” che nel “mondo”» (ivi).
146
Schema XII
147
ti: Dorotea di Flue, madre di dieci figli, che accetta di
rimanere sola quando l’ultimo ha appena pochi mesi,
è esclusa dalla venerazione, così come Margherita di
Provenza, moglie di Luigi.
Verrebbe da pensare che anche da sposati si può
accedere alla santità, e però malgrado il proprio matri
monio, non grazie ad esso. Ma questo solo fino a quan
do Giovanni Paolo II decise di beatificare insieme Luigi
e Maria Beltrame Quattrocchi, il 21 ottobre 2001, e
precisamente in virtù della santità della loro vita di cop
pia. Già una decina d’anni prima, nel marzo 1992, in
un incontro col clero romano, il papa aveva espresso la
sua ansia di vedere una coppia cristiana portata agli
onori degli altari: «Ho un grande desiderio, nel mio
cuore, ma vedo che i meccanismi della beatificazione
sono ancora lontani da questa possibilità... Quei sup
porti normali, di cui godono tutti i religiosi e le reli
giose, beatificati e canonizzati giustamente con meriti,
non esistono per le coppie. Manca questo sostegno da
parte della società ecclesiale, del popolo di Dio... Non
esiste una tradizione in quest’ambito e manca ugual
mente quel meccanismo umano che è necessario per il
processo di beatificazione e di canonizzazione. Occorre
ripensare tutto questo...».
Si comprende facilmente come le complesse proce
dure che conducono ad una beatificazione favoriscano
in primo luogo i consacrati, soprattutto fondatori e
fondatrici di istituzioni religiose, che possono benefi
ciare della mobilitazione delle loro comunità, le quali
vedono in essi - d’altronde legittimamente —un trami
te per accrescere la loro visibilità. Le coppie possono
beneficiare solo raramente di “sostegni” di questo tipo.
148
Ma il vero problema è più profondo. Si tratta di sa
pere se la santità è una questione puramente individua
le, anche per i coniugi, o se può qualificare una coppia
in quanto tale. Si tratta di sapere, soprattutto, se gli
sposi siano tenuti a rispondere insieme e solidalmente
alla loro chiamata alla santità proprio in ragione del
sacramento matrimoniale. Una risposta chiarificatrice
l’ha già fornita il concilio Vaticano II affermando: «Essi
[gli sposi], compiendo in forza di tale sacramento il
loro dovere coniugale e familiare, nello spirito di Cri
sto, per mezzo del quale tutta la loro vita è pervasa di
fede, speranza e carità, tendono a raggiungere sempre
più la propria perfezione e la mutua santificazione, e
assieme rendono gloria a Dio» ( Gaudium et spes, n. 48).
Bisognava però che gli sposi potessero disporre di
esempi che li convincessero che un simile ideale è con
cretamente possibile, e che il loro matrimonio - come
ogni matrimonio - è chiamato a realizzarlo. È quanto
Giovanni Paolo II affermò con forza nell’omelia per la
beatificazione dei coniugi Beltrame Quattrocchi: «La
ricchezza della fede e dell’amore degli sposi Luigi e
Maria è una dimostrazione evidente di ciò che il con
cilio Vaticano II ha affermato a proposito della chiama
ta di tutti i fedeli alla santità, specificando che gli sposi
perseguono quell’obiettivo seguendo la strada che è
loro propria».
Ciò nonostante, alcune resistenze e obiezioni alla
“vocazione del matrimonio” continuano a sussistere.
Si tratta di cedimenti alla tentazione dell’individuali
smo spirituale, che fa considerare il matrimonio in
maniera naturalistica, sotto l’angolazione prevalente
di un contratto fra soci che si mettono insieme per la
149
realizzazione di un’opera comune. In questa prospet
tiva, il matrimonio si riduce ad un’associazione, non
costituisce realmente ed essenzialmente un’opera di
comunione. O, quanto meno, l’aspetto della comu
nione è considerato come accessorio e opzionale. La
tentazione dell’individualismo spirituale va risoluta-
mente combattuta da tutti coloro che si aspettano che
il loro matrimonio, in quanto tale, li conduca alla
santità.
150
Nella Genesi viene svelato il mistero dell’uomo e
della donna in quanto persone che, attraverso la comu
nione di cui sono capaci, sono chiamate a “raffigurare”
la comunione trinitaria delle Persone divine. Giovanni
Paolo II, nel suo commento approfondito al testo gene-
siaco, ci mostra sino a che punto l’immagine di Dio si
è riversata nell’uomo, soprattutto attraverso la chiama
ta alla comunione, che è iscritta nel suo corpo (maschi
le e femminile). Il plurale che nel primo racconto intro
duce la creazione dell’uomo - e che in qualche modo
opera una cesura rispetto alla creazione di tutto ciò che
precede («Facciamo l’uomo a nostra immagine, secon
do la nostra somiglianza», Gn 1,26) - sembra signifi
care «che il Creatore si sia fermato prima di chiamarlo
all’esistenza, come se avesse voluto riflettere prima di
prendere una decisione» (Udienza del 12 settembre
1980): la creazione dell’uomo è il momento più solen
ne di tutta l’attività creatrice di Dio. Sembra voler an
che significare che è la Trinità stessa delle Persone divi
ne a essere particolarmente implicata in questo atto
finale, che destina l’uomo e la donna a essere immagi
ne e somiglianza della comunione trinitaria.
Il progetto divino, che rende l’uomo e la donna
capaci di comunione, fa del matrimonio un “sacramen
to primordiale” che, posto all’apice di tutta la creazio
ne, è destinato a svelare nel modo più perfetto possibi
le l’essere stesso di Dio come comunione assoluta di
Persone, oltre a indicare come il dono della creazione
sia motivato dall’amore. «L’essere umano appare nel
mondo visibile come la più alta espressione del dono
divino, perché porta in sé l’interiore dimensione del
dono. [...] Così, in questa dimensione, si costituisce un
151
primordiale sacramento, inteso quale segno che tra
smette efficacemente nel mondo visibile il mistero invi
sibile nascosto in Dio dall’eternità. E questo è il mistero
della Verità e dell’Amore, il mistero della vita divina, alla
quale l’uomo partecipa realmente» (Udienza del 20 feb
braio 1980). Tale è, sin dagli “inizi”, la sublime voca
zione dell’uomo e della donna nel matrimonio: voca
zione che il peccato originale è venuto a minacciare.
Il racconto del peccato delle origini (cfr. Gn 3,1-7
«sembra mettere particolarmente in evidenza il mo
mento chiave in cui nel cuore dell’uomo è posto in
dubbio il dono. [...] Mettendo in dubbio, nel suo cuo
re, il significato più profondo della donazione, cioè
l’amore come motivo specifico della creazione e dell’al
leanza originaria, l’uomo volta le spalle al Dio-Amore,
al “Padre”. In certo senso lo rigetta dal suo cuore. Con
temporaneamente, quindi, distacca il suo cuore e quasi
lo recide da ciò che “viene dal Padre”: così, resta in lui
ciò che “viene dal mondo”» (Udienza del 30 aprile 1980).
La risposta che Adamo, dopo la sua disobbedienza, dà
a Dio che lo chiama - «Ho avuto paura, perché sono
nudo, e mi sono nascosto» (Gn 3,10) - testimonia la
sua incapacità ormai a vedersi come immagine di Dio,
a comprendersi, insieme alla donna che gli è stata
donata, come figura della comunione delle Persone
divine. «In qualche modo, l’uomo perde la certezza ori
ginaria della “immagine di Dio”» (Udienza del 14 mag
gio 1980).
Sta proprio qui la sorgente della tentazione dell’in-
dividualismo spirituale nel matrimonio; una forma di
disperazione nei confronti della vocazione alla comu
nione delle persone. E d’altronde significativo che il
152
tentatore si sia rivolto alla donna sola, e non ai due, con
una tentazione di natura spirituale: «Sarete come Dio,
conoscendo il bene e il male» (Gn 3,5). È questa la
causa che svia tanti matrimoni dalla santità: una spiri
tualità individualizzata che sembra più perfetta del
l’umile realtà della comunione. La redenzione operata
da Cristo, di cui i sacramenti (tra i quali il matrimo
nio) sono l’efìusione, permette agli sposi di riallacciar
si - nella concretezza dell’espressione fìsica dell’amore,
e nella realizzazione di una vera comunione spirituale
delle anime - al progetto originario dell’amore di Dio.
Progetto e via di santità da percorrere insieme: un cuore
solo e un’anima sola.
Se la vocazione eterna degli sposi, nel cuore di Dio,
è di riprodurre precisamente l’immagine del suo cuore
trinitario; se la grazia propria del sacramento del matri
monio è di restaurare, grazie ai meriti dell’incarnazio
ne redentrice di Cristo, il progetto d’amore degli inizi...
allora è lecito credere che gli sposi, in ragione del loro
dono vicendevole, sono chiamati a essere santi insieme,
non individualmente, dato che il patto coniugale li
impegna solidalmente per l’eternità.
153
ai più elevati, così da formare un solo cuore. Attraverso
la conquista della castità, tendono a formare un solo
corpo, dando concretezza a quel primo canto d’amore
risuonato agli inizi della storia umana: «Ossa delle mie
ossa, carne della mia carne» (Gn 3,23), da Giovanni
Paolo II definito «il prototipo biblico del Cantico dei
cantici». Gli sposi devono tendere anche a divenire una
cosa sola, una sola anima nel più profondo di loro stes
si, in quel luogo misterioso dove cresce l’intimità più
reale con Colui che è “l’unico Signore”.
Questa dimensione sublime, e insieme misteriosa,
della spiritualità coniugale è stata finora poco esplora
ta nelle sue conseguenze e richieste, per cui sono anco
ra pochi gli sposi che ardiscono impegnarsi su tale cam
mino. E tuttavia l’esperienza di coloro che vivono, per
quanto possibile, una vera comunione coniugale, è lì a
rendere testimonianza. Il corpo degli sposi, elemento
costitutivo dell’unità e dell’individualità delle loro per
sone, a forza di essere donato non è più, in certo qual
modo, il loro singolo corpo. Così come la loro volon
tà, donata e “sacrificata” durante lunghissimi anni, li ha
ormai condotti ad una tale condivisione di sentimenti,
giudizi e desideri, al punto da realizzare un’unità per
fetta di due intelligenze e due volontà che non sono più
dissociabili l’una dall’altra, pur rimanendo distinte.
Il mistero dell’amore sponsale, inteso come espre
sione massima del dono di sé, deve fare i conti, sul pia
no filosofico, con un duplice paradosso, come lo stes
so Karol Wojtyla - a quel tempo vescovo ausiliare di
Cracovia e docente universitario —osservava nell’opera
Amore e responsabilità (I960). Come si può uscire dal
proprio “io” per farne dono? E ciò facendo, come non
154
distruggerlo e non svalutarlo, ma al contrario perfezio
narlo e portarlo a compimento? «In ragione della sua
natura, ogni persona è incomunicabile e inalienabile.
Nell’ordine della natura, essa è orientata verso il pro
prio perfezionamento di se stessa, tende alla pienezza
del proprio essere che è sempre un “io” concreto. Que
sto perfezionamento si realizza nell’amore, parallela-
mente ad esso. Ora l’amore più completo si esprime
precisamente nel dono di sé, nel fatto di donare in tutta
proprietà questo “io” inalienabile e incomunicabile»1.
Come risolvere questo paradosso? Semplicemente rico
noscendo che quanto non è possibile nell’ordine della
natura diventa possibile grazie alla forza misteriosa del
l’amore.
Questa verità antropologica non si chiarisce piena
mente che nella visione dell’uomo - maschio e femmi
na - creato a “immagine e somiglianza” della comunio
ne delle Persone divine. Si realizza così l’incontro di
due misteri: quello di Dio e quello dell’uomo. Mistero
di un Dio uno e trino, Dio unico in tre Persone, miste
ro dell’unità nella comunione risultante dal dono tota
le delle Persone. Come si esprimeva, con vero talento
pedagogico, padre Finet nei suoi memorabili ritiri spi
rituali: «Il Padre è tutto l’amore dato, il Figlio è tutto
l’amore ricevuto, lo Spirito Santo è tutto l’amore scam
biato fra il Padre e il Figlio».
Nel matrimonio, in forza del dono iscritto nella loro
anima e nel loro corpo, l’uomo e la donna sono im
magine di questo mistero. Non smettono di essere se
stessi, e tuttavia sono chiamati a farsi dono totale, dive
155
nendo tanto più se stessi quanto più si offrono vicen
devolmente, quanto più diventano vicendevolmente
“relativi”. «L’affermazione della persona non è altro che
accoglienza del dono, la quale, mediante la reciprocità,
crea la comunione delle persone» (Udienza del 16 gen
naio 1980); e così l’uomo e la donna realizzano la pie
nezza della loro umanità, la loro essenza profonda,
come si esprime il concilio Vaticano II con quella for
mula mirabilmente concisa: «L’uomo, il quale in terra
è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso,
non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un
dono sincero di sé» (Gaudium et spes, n. 24).
156
Schema XIII
Il “dovere coniugale”
157
ne per costringere le proprie mogli a soddisfare le loro
pulsioni poco o per nulla controllate. Ma è anche una
ragione in più per non tenere in eccessiva considerazio
ne il teorema del “dovere coniugale”. Constatiamo,
d’altronde, che l’espressione è praticamente scomparsa
dai moderni manuali di morale: dunque, il dovere
coniugale sembra sia stato seppellito per sempre. Ma è
davvero il caso di rallegrarsene tanto in fretta? Non avre
mo per caso, come si usa dire, «gettato via il bambino
con l’acqua sporca»? Non esiste forse uno “spirito” del
dovere coniugale, come esiste uno “spirito” del precet
to domenicale?
Se il dovere di partecipare all’eucaristia, almeno la
domenica, viene visto unicamente sotto l’angolatura
legalista dell’obbligazione, si rischia di scivolare in un
formalismo angusto, quasi farisaico. Possiamo però
considerare quest’obbligo, che la Chiesa ci impone, co
me un’espressione di misericordia rispetto alla nostra
debolezza. Proprio perché conosce la fragilità del cuore
umano, e come l’amore di Dio in noi possa facilmente
affievolirsi, e persino venir meno —per pigrizia, distra
zione o noia... -, la Chiesa ci ingiunge questo dovere
quale mezzo per scongiurare il dissolversi dell’amore.
Se la Chiesa enuncia questo precetto, al quale non pos
siamo sottrarci senza una causa di forza maggiore, col
rischio di peccare gravemente, è perché sa che la paura
della sanzione è l’ultimo riparo da opporre alla nostra
debolezza. In questo senso, la Chiesa si rivela al con
tempo madre e maestra: mater et magistra.
È possibile considerare il dovere coniugale similmen
te al dovere domenicale? Infatti, quante ragioni pos
sono intervenire per trattenerci dagli adempimenti del
158
l’amore: stanchezza, mancanza di tempo, figli amma
lati, obblighi sociali, imperativi professionali o impegni
associativi, o semplicemente pigrizia, mancanza di at
tenzione verso il partner, usura dei sentimenti... Ecco
perché il richiamo al “dovere coniugale” può rivelarsi
salutare: per evitare che si cada, a poco a poco e in ma
niera insidiosa, nell’indifferenza vicendevole.
Spingiamoci anche oltre, con tutta la delicatezza
possibile, domandandoci: perché l’adempimento del
dovere coniugale merita di essere ricordato, forse, in
nanzitutto alle mogli? Semplicemente perché esse, a
confronto con i loro mariti, possono fare più facilmen
te a meno dell’incontro fisico. Possono persino vedere,
in questo astenersi, una maggiore purezza della loro
vita coniugale. Funesta illusione, che il “tentatore” - co
lui che sin dalle origini rifiuta di servire il progetto
d’amore dell’incarnazione - non mancherà di alimen
tare. Pericolosa noncuranza della psicologia maschile,
che finge d’ignorare che un uomo può aver bisogno del
rapporto carnale non, in primo luogo, per dare sfogo
alle pulsioni sessuali, ma semplicemente per dire il pro
prio amore e avere la conferma di essere riamato.
E perché non riconoscere, onestamente, che quan
do ci si è abituati all’esercizio della sessualità, principal
mente da parte dell’uomo, i bisogni del corpo diventa
no più impellenti? Se i mariti sono tenuti a rispettare,
in nome della castità, il corpo delle loro mogli, piegan
dosi alle esigenze dei cicli di fertilità, non tocca anche
alle spose, sempre in nome della castità, rendersi dispo
nibili a soddisfare i richiami del corpo dei loro mariti
rendendosi disponibili quando l’unione è possibile?
Così inteso, il “dovere coniugale” diventa un comanda
159
mento dell’amore vicendevole, e per l’uomo non sarà
più una “scusa” per imporre il suo dominio come riven
dicazione dei propri “diritti di sposo”.
Benedetto dovere coniugale, che ci ricorda di essere
fatti per il dono totale di noi stessi, quindi anche dei
nostri corpi! Benedetto dovere coniugale, che evitando
ci di considerarci erroneamente degli angeli, ci ricorda
i diritti dei corpi! Benedetto dovere coniugale, che ci
impedisce di trascurare le esigenze dell’amore reale! Co
me il dovere domenicale ci invita a mettere l’eucaristia
al centro della nostra vita spirituale, ricordandoci che
essa ha la precedenza su ogni altro possibile modo di
trascorrere il riposo domenicale, così il “dovere coniu
gale” ci obbliga alla vigilanza, affinché non ci lasciamo
sconsideratamente distogliere da un’intimità fìsica che
è essenziale per tenere in vita il reciproco amore.
160
quasi che si tratti di una sorta di “sfogo sessuale”, fina
lizzato a tacitare un istinto troppo esuberante; una sorta
di lasciapassare legalizzato dalla benedizione ecclesiasti
ca... a condizione che non si pongano ostacoli alla pro
creazione. E si scomoda anche san Paolo: «E meglio
sposarsi che bruciare [di desiderio]» (ICor 7,9). Una
prospettiva non molto entusiasmante!
Fra l’altro, questo potrebbe favorire, in coloro che
hanno difficoltà a controllare i propri impulsi, l’idea
che con il matrimonio tutto si aggiusterà. Davvero un
grave errore! Il controllo di sé - la castità - è più dif
ficile nel matrimonio che nel celibato, il quale non è
esposto alle stesse tentazioni. A preti, religiosi e religio
se che ne dubitassero, basti ricordare che non hanno
una moglie o un marito nel loro letto tutte le sere! Mol
to più del celibato, il matrimonio è sottoposto a con
tinue “tentazioni della carne”, ed è normale che sia così.
L’esercizio dell’attività sessuale, sano ed auspicabile nel
matrimonio, ingenera abitudini, suscita e alimenta fan
tasie, da cui sono solitamente risparmiate le persone
che vivono nel celibato, purché la loro vita sia sufficien
temente ordinata. Con ciò non si vuole dire, evidente
mente, che l’osservanza della castità nel celibato non
comporti le sue lotte, soprattutto al giorno d’oggi.
È stato davvero opportuno che la Chiesa eliminas
se, dalla definizione canonica del matrimonio, l’espres
sione “rimedio alla concupiscenza”? Fino a che punto
possiamo rallegrarcene? Non vorremmo si procedesse,
anche qui, un po’ troppo in fretta. Forse esiste una pos
sibilità di restituire il giusto valore al remedium concu-
piscentiae, a condizione di non ritenere che la possibi
lità di avere rapporti sessuali nel matrimonio costituisca
161
di per sé il rimedio più efficace. Occorre ribadirlo: il
matrimonio non è fatto per placare la sete di rapporti
sessuali, che peraltro non fa che stimolare. Che cosa,
dunque, all’interno del matrimonio può fungere da ri
medio alla concupiscenza? E, innanzitutto, che cos’è la
concupiscenza?
La concupiscenza è quel marchio, lasciato dal pec
cato delle origini, che ci porta a ricercare la felicità nel
l’eccesso dei beni del mondo: gli averi, il potere, il godi
mento. È la “triplice concupiscenza” o bramosia che san
Giovanni evoca nella sua prima lettera: «Perché tutto
quello che è nel mondo - la concupiscenza della carne,
la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita -
non viene dal Padre, ma viene dal diavolo» ( 1Gv 2,16).
La concupiscenza della carne è, propriamente, la
ferita apertasi nel cuore dell’uomo al momento del pec
cato originale, e che lo spinge a servirsi degli altri in
funzione del proprio piacere egoistico, a strumentaliz
zarli, a dominarli. A questa concupiscenza è sottoposto
ogni essere umano, uomo o donna; ma sono soprattut
to coloro che vivono nello stato matrimoniale a essere
particolarmente esposti alle tentazioni dell’appetito ses
suale.
Il sacramento del matrimonio procura, a quanti so
no chiamati a questa vocazione, una grazia speciale che
li fortifica in ordine alle tentazioni della carne. Questa
grazia è detta “sanante”, in quanto viene a “curare” le
ferite inferte al cuore umano dal peccato. Non è dun
que l’uso del matrimonio, ovvero l’attività sessuale in
se stessa, a offrire un rimedio alla concupiscenza, bensì
la grazia del sacramento, in grado di estirpare a poco a
poco le radici della concupiscenza dai cuori degli sposi,
162
a condizione che essi si rendano ricettivi rispetto a que
sta grazia.
È per i meriti della redenzione di Cristo, per effetto
della grazia che sgorga dal suo cuore misericordioso,
che i coniugi cristiani diventano capaci di vivere inte
gralmente la loro vocazione al matrimonio nel dono
totale di sé, compresa l’offerta gioiosa dei corpi.
163
che si corrisponda alle attese del partner in quel preciso
momento, piuttosto che attenersi unicamente ad una
norma formale ed esteriore.
La seconda difficoltà viene dalla differente sensibili
tà, nell’uomo e nella donna, rispetto agli atti concreti
dell’intimità sessuale. Per quanto la sensualità di una
donna possa essere sviluppata, è solitamente meno “ses
suale” di quella dell’uomo, ed ella può, se non sentirne
ripugnanza, essere quanto meno infastidita o turbata
da particolari azioni o carezze, procurate o sollecitate.
L’uomo, dal canto suo, può provare frustrazione e in
soddisfazione per gli stimoli che non trovano risposta
o incontrano reticenza e riserbo.
Questo ci mostra il limite delle norme esteriori in
materia. Non tutto va bene per tutte le coppie; mentre
in una coppia le cose possono venire percepite diversa-
mente dall’uomo e dalla donna. Si rende quindi neces
saria la luce di un principio, che si può formulare nella
maniera seguente: «Tutto ciò che contribuisce, da vi
cino o da lontano, alla vera comunione carnale degli
sposi, è buono, sano, legittimo, e deve essere ricercato
e procurato; mentre tutto ciò che, da vicino o da lon
tano, induce a ripiegarsi su un godimento egoistico o
a esercitare un dominio dell’altro, è nefasto e dev’essere
evitato». Vi sono almeno sette aspetti da considerare.
1. Da lontano: si va dai vestiti - compresa la bian
cheria intima... - alle manifestazioni di tenerezza. Per
una donna, la biancheria di qualità non è un lusso!
Non è una buona sposa cristiana quella che si riduce a
indossare sotto gli abiti delle mises in grado di raffred
dare l’ardore dello sposo. Un buon profumo - quello
164
che piace anche al partner - e un’accurata igiene per
sonale sono elementi importanti per ben disporre al
l’unione. L’uomo, da parte sua, deve capire, e ammet
tere, che per una donna i gesti di tenerezza - un mazzo
di fiori, un’attenzione, un servizio reso... - costituisco
no un preludio importante in vista del suo pieno do
narsi nell’atto sessuale, anche se non imminente.
2. Da vicino: si tratta di quei preliminari immedia
ti, per nulla facoltativi, soprattutto per la donna, che
preparano i corpi all’unione. Al riguardo, è legittimo
tutto ciò che dispone alla vera comunione, mentre va
evitato, poiché riprovevole, tutto ciò che esprime solo
un ripiegamento egoistico sul proprio piacere perso
nale. E dunque necessario un sereno discernimento,
peraltro non sempre facile, al quale soltanto un’auten
tica vita spirituale può disporre. Spetta a ciascuno degli
sposi distinguere con chiarezza - e persino impietosa
mente - ciò che è manifestazione di puro egoismo da
ciò che favorisce la realizzazione di una piena e gratifi
cante comunione. È in questa luce che alcune carezze
o baci, anche molto intimi, possono essere buoni e op
portuni, non solo perché desiderati da entrambe le par
ti, ma perché favoriscono la comunione. D’altra parte,
il fastidio che certi gesti possono suscitare in una parte
o nell’altra, non è il criterio unico per stabilire ciò che
conviene o non conviene fare. Il fastidio può semplice-
mente derivare da una insufficiente accettazione del
proprio corpo, o da una riluttanza a offrirsi compieta-
mente. È vero, peraltro', che un certo “addestramento”
in ordine all’acquisizione di una vera libertà dei corpi
può rivelarsi impresa faticosa, forse destinata a prolun
165
garsi negli anni. E questo ancor di più quando si fos
sero verificate, nella storia di uno dei due, delle ferite
di ordine sessuale, le quali impiegano lunghissimi anni
a guarire del tutto.
3. Nel favorire la comunione, hanno un ruolo im
portante anche la prudenza e il senso della misura. Cer
te carezze intime procurate alla sposa, che le risveglino
il piacere ancor prima che l’unione dei corpi sia com
pleta, possono diventare un ostacolo alla piena comu
nione; infatti la donna, essendo già soddisfatta, potreb
be non provare lo stesso desiderio di accogliere in sé lo
sposo. Bisogna tener presente che i preliminari sono dei
preliminari... all’unione, sicché non dovrebbero mai di
ventare talmente impegnativi al punto da essere ricerca
ti più per se stessi e per il piacere che procurano, piut
tosto che in vista dell’unione. È una possibile deriva
sulla quale occorre seriamente vigilare.
4. La comunione è effettivamente completa quando
è aperta alla vita. Non può nascere comunione auten
tica dagli atti che distolgono il dono del corpo dalla sua
finalità, oppure volontariamente lo privano di questa
finalità. Ecco perché, al di là del problema “contracce
zione” (v. Schema X), le carezze, i baci o pratiche che
evitino al seme maschile di accedere al ricettacolo vagi
nale vanno rigorosamente evitate.
5. La vera comunione sponsale esclude ogni forma
di dominio. Può tuttavia verificarsi una sottile forma di
prevaricazione nei confronti del partner, nel cercare di
“farlo godere”. Se il piacere sessuale è qualcosa di buo
no che si può - e persino si deve - legittimamente ri
cercare, non divenga mai un’occasione per approfìtta-
166
re della vulnerabilità dell’altro... per il fatto che prova
piacere. Anche nella scelta delle posizioni, è preferibile
ciò che meglio predispone alla comunione, nel concor
so di tutti i sensi, in particolare attraverso lo scambio
degli sguardi. A tale riguardo conviene agire con una
certa libertà, dalla quale non va esclusa l’inventiva, an
che se bisogna riconoscere che certe posizioni sono
obiettivamente umilianti, sia per l’uomo sia per la don
na. Occorre sempre chiedersi se ci si muove in una logi
ca di dominio, invece che ricercare la vera comunione.
6. Il piacere non è un fine, ma un frutto. Il fine del
l’unione fisica è il massimo della comunione, non il
massimo del piacere. Possono esserci incontri fìsici che
non raggiungono pienamente il piacere, ma sono in
grado di generare la comunione. Inversamente, l’espe
rienza dimostra che si può raggiungere il parossismo
del piacere senza che si pervenga a una piena comunio
ne. In compenso, la comunione realizzata conferisce un
sapore del tutto particolare al piacere, che diventa vera
gioia dei corpi.
7. Mirare alla comunione più compiuta, esige vero
ascolto e aperta attenzione per il partner. La personale
disponibilità all’incontro dei corpi può venire condi
zionata, di volta in volta, da molteplici fattori (ai quali,
in genere, la donna si mostra più sensibile): clima,
luogo, tensione psichica, ciclo mestruale, preoccupa
zioni varie, stanchezza... Ne risulta che non si può spe
rare di realizzare vera comunione - dei corpi e delle
anime - attraverso una cupa e abitudinaria ripetizione
dei gesti amorosi. Esprimere le proprie attese, tener
conto di quelle altrui, fare dono sincero del proprio
167
corpo (non solo “prestarsi”)» mostrare inventiva, prova
re a sorprendere... - sono tutte esigenze di un autenti
co vissuto amoroso.
Occorre acquisire, rispetto a questi argomenti, una
serena capacità di discernimento, come risultato di
un’autentica maturità spirituale e affettiva. Si capisce
allora come la pretesa di regole esterne e formali in ter
mini di “permesso/vietato” sia illusoria. Nella realtà
tutto dipende dalle persone, dalla loro situazione, dalla
loro sensibilità, dalla loro educazione, dalla loro storia,
dai periodi della vita. È esclusivamente nell’atto del
vicendevole dono dei corpi, ogni volta nuovo e diffe
rente, che occorre mettere in atto - sotto lo sguardo di
Dio - questa preziosa capacità di discernimento, quale
risposta agli obblighi di carità derivanti dalla specifica
vocazione sponsale.
168
Conclusione
L’INESAURIBILE
TESO RO DELLA CHIESA
169
logiche. Certo è che adesso, e da un quarto di secolo,
grazie a questo insegnamento la Chiesa dispone di soli
de basi per la messa a punto di una vera e specifica spi
ritualità a beneficio delle persone sposate.
A tale riguardo, sia permesso all’autore di queste pa
gine esprimere un convincimento, che in realtà è una
speranza: tutto ciò sarà probabilmente realizzato, nella
Chiesa, non dal lavoro di teologi ecclesiastici, ma dalla
dedizione illuminata di semplici laici - il che non
impedisce che siano muniti delle competenze teologi
che necessarie -, i quali testimonieranno così il ruolo
della missione che il concilio Vaticano II ha riconosciu
to loro nell’apostolato della Chiesa.
Si tratta, in effetti, di un’opera grandiosa ancora
sempre “in cantiere”, il cui compimento avverrà solo
nel Regno. Allora, finalmente, sarà pienamente svelato
ciò che noi per ora possiamo soltanto indovinare e so
spettare, e sarà proclamato ciò che per ora possiamo
soltanto balbettare. Allora lo “schema” lascerà il posto
all’opera di Dio stesso, pienamente manifestata, per
l’eternità.
170
Appendice
CO M PEND IO
DI TEO LO G IA D EL CORPO
171
la teologia cattolica, ma anche nella storia del pensiero
moderno». Paradossalmente, quest’insegnamento non
è arrivato alla gran parte del popolo di Dio nel momen
to in cui veniva offerto. Solo da qualche anno si è co
minciato a scoprirne la formidabile portata teologica.
È sicuramente un’impresa voler presentare in poche
pagine un’idea di questa dottrina2, abbastanza comples
sa e di non facile accesso, ma si può tentare di metter
la a fuoco seguendo l’asse trasversale rappresentato dai
supporti biblici utilizzati dal papa per strutturare l’in
sieme del suo insegnamento. Egli parla di un «trittico
degli enunciati di Cristo stesso: un trittico di parole
essenziali costitutive della teologia del corpo». Questo
trittico è coronato, e come illuminato, dal commento
innovativo che Giovanni Paolo II offre del capitolo
quinto della lettera di san Paolo agli Efesini, dove il
matrimonio è visto nella prospettiva della redenzione
del corpo, come figura del vincolo sponsale tra Cristo
e la Chiesa.
L’espressione «trittico di parole essenziali» impiega
ta da Giovanni Paolo II è particolarmente ricca di sen
so. Un trittico è una composizione in tre quadri le cui
tematiche sono correlate le une alle altre e si chiarisco
no reciprocamente. Il trittico biblico della teologia del
corpo si compone di tre passi del Vangelo di Matteo
(presenti anche negli altri due Sinottici):
- Matteo 19,3-8: la risposta di Gesù ai farisei in me
rito al ripudio delle mogli, che invita a considerare il
172
progetto originario di Dio sull’unione dell’uomo e del
la donna attraverso i racconti della Genesi.
- Matteo 5,27-28'. il passo del Discorso della mon
tagna a proposito dell’adulterio commesso nel cuore,
che invita a considerare il cuore dell’uomo ferito dalla
concupiscenza introdotta dal peccato originale.
- Matteo 22,23-30. la risposta di Cristo ai sadducei
sulla risurrezione dei corpi, a partire dalla quale si deve
cogliere la finalità escatologica del matrimonio e il vero
senso della verginità.
173
farisei: «È lecito...? In quali circostanze si può...?», Gesù
non risponde direttamente, ma rinvia al principio, al-
Xinizio. Per i farisei, conoscitori delle Scritture, questo
riferimento era chiaro: la testimonianza della Genesi
nel duplice racconto della creazione e l’irruzione del
peccato nella storia umana. Seguendo l’indicazione di
Cristo, il papa intraprende uno studio approfondito del
testo genesiaco, gettando su di esso una luce comple
tamente nuova.
L’espressione centrale del passo evangelico, che ri
chiama la Genesi, è: «I due diventeranno una sola car
ne». Con un procedimento esegetico assai minuzioso,
Giovanni Paolo II mostra come sia proprio al momen
to della scoperta della comunione nei corpi che l’uomo
e la donna diventano a pieno titolo immagini di Dio,
costituiti come capolavoro e coronamento della crea
zione. Nello stato d’innocenza delle origini, l’atto car
nale - il dono dei corpi - era destinato a esprimere la
totalità della mutua offerta delle persone. Questa
“vocazione” non è mai venuta meno, anche se per noi
è molto più difficile, e persino impossibile, da incarna
re senza il soccorso della grazia.
Essere “persona” vuol dire esistere come essere che
si dona, che trova il suo pieno compimento nella
comunione (cfr. Gaudium et spes, n. 24). Nel disegno
originario di Dio, l’uomo e la donna erano destinati a
essere - nella comunione della totalità delle loro per
sone, quindi anche nella comunione dei corpi -
immagine della comunione delle Persone divine. Dio,
l’Essere uno e trino, è eterna e perfetta comunione di
Persone eterne: il Padre si esprime totalmente nel
Figlio; il Figlio è totale risposta d’amore al Padre; lo
174
Spirito è tutto l’amore scambiato tra Padre e Figlio.
Dio Creatore ha voluto mettere nella carne l’immagi
ne di ciò che Egli stesso è da tutta l’eternità. Questa è
la vocazione del corpo umano nel progetto di Dio: per
metterci di essere dono di noi stessi. Il corpo umano,
segnato dal dono, rivela Dio al mondo: «[Il corpo ] è
stato creato per trasferire nella realtà visibile del mon
do il mistero celato da tutta l’eternità in Dio ed esser
ne il segno visibile»3.
Dall’approccio esegetico di Giovanni Paolo II al mes
saggio della Genesi risulta questo dato fondamentale:
l’uomo è l’immagine della comunione delle Persone
divine innanzitutto grazie alla comunione di cui è ca
pace in quanto persona, molto più che per il fatto di
essere una creatura dotata di spiritualità. In effetti, noi
siamo propensi a pensare che il nostro essere a imma
gine di Dio sia in ragione delle nostre facoltà spiritua
li, essendo Dio purissimo Essere spirituale. Ma se fosse
davvero la dimensione spirituale presente in noi a ren
derci immagini di Dio, gli angeli lo sarebbero assai più
di noi, poiché sono puri spiriti. Ora, per la Genesi non
sono gli angeli a possedere la somiglianza con Dio, ben
sì l’uomo e la donna. È la loro capacità di comunione
- presupposta e conclusa nella comunione dei corpi -
che li rende simili all’Essere divino nella perfetta comu
nione della sua vita trinitaria.
La sessualità, considerata nella luce delle origini, è
dunque una realtà fondamentalmente buona: «L’uomo
è divenuto “immagine e somiglianza” di Dio - dice
Giovanni Paolo II —[...] attraverso la comunione delle
175
persone, che l’uomo e la donna formano sin dall’inizio.
[...] L’uomo diventa immagine di Dio non tanto nel
momento della solitudine, quanto nel momento della
comunione. Egli, infatti, è fin “da principio” non sol
tanto immagine in cui si rispecchia la solitudine di una
Persona che regge il mondo, ma anche, ed essenzial
mente, immagine di una imperscrutabile divina comu
nione di Persone»4. Il papa aggiunge: «Ciò [...] forse
costituisce perfino l’aspetto teologico più profondo di
tutto ciò che si può dire circa l’uomo»5.
La condizione originaria, in cui il matrimonio era
stabilito nella santità, è andata irrimediabilmente per
duta. Fra lo stato d’innocenza della nostra «preistoria
teologica rivelata»6 e lo stato attuale della nostra uma
nità storica segnata dalle conseguenze del peccato ori
ginale si erge una «insuperabile barriera». Ciò nono
stante, quello stato rimane nella profondità del cuore
di ogni uomo e di ogni donna «come un’eco lontana
dell’innocenza originaria»7, una sorta di nostalgia del
progetto creativo divino. E questo fa sì che, al di là di
tutte le nostre povertà, dei nostri limiti, delle nostre
miserie, delle nostre ferite, tutti noi continuiamo a nu
trire nel nostro intimo il sentimento - e persino la cer
tezza - di essere chiamati a qualcosa di grande attra
verso la nostra sessualità. E ciò che, malgrado tutto,
rimane in noi del progetto originario di Dio. «Coloro
che cercano il compimento della propria vocazione
umana e cristiana nel matrimonio, prima di tutto sono
176
chiamati a fare di questa “teologia del corpo”, di cui
troviamo il “principio” nei primi capitoli del libro del
la Genesi, il contenuto della loro vita e del loro com
portamento»8.
177
un dono. Giovanni Paolo II utilizza un’espressione
molto giusta e insieme terribile: «Una maniera di
estorcere all’altro essere umano (l’uomo alla donna, e
viceversa) il suo dono, riducendolo interiormente ad
un puro “oggetto per sé”»11. Ci fa così capire che le
parole di Gesù nel Discorso sulla montagna denuncia
no tutti quegli atteggiamenti che sfociano nella nega
zione della qualità di un’altra persona in quanto “sog
getto” del suo dono.
Questa è la conseguenza del peccato in noi: l’insedia
mento della triplice concupiscenza di cui parla san
Giovanni nella sua prima lettera (cfr. lGv 2,16), in par
ticolare la concupiscenza della carne. Il ribaltamento è
ben espresso nel versetto della Genesi dove si dice: «Ora
tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non pro
vavano vergogna» (Gn 2,25). Vale a dire: nello stato d’in
nocenza, i componenti della prima coppia umana - com
pimento e capolavoro della creazione - erano capaci di
una totale trasparenza dello sguardo; sapevano vedere nei
segni visibili, somatici della mascolinità e della femmini
lità altrettanti indizi della loro comune vocazione alla
comunione attraverso il dono di sé. Sperimentavano così
una sorta di giubilo nella contemplazione vicendevole,
rapiti dallo splendore del loro destino di comunione. «Se
“non provavano vergogna”, vuol dire che erano uniti dalla
coscienza del dono, avevano reciproca consapevolezza del
significato sponsale dei loro corpi, in cui si esprime la
libertà del dono e si manifesta tutta l’interiore ricchezza
della persona come soggetto»12.
178
Ed ecco il primo effetto del peccato: «Allora si apri
rono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi;
intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture» (Gn
3,7). Qui vediamo come per prima cosa il peccato non
corrompa l’atteggiamento nei confronti di Dio - solo
in seguito l’uomo e la donna si nasconderanno dinan
zi a Lui (cfr. Gn 3,8) -, ma il loro rispettivo atteggia
mento, ovvero la qualità dello sguardo che si rivolgo
no reciprocamente. Non è più uno sguardo trasparente,
non riconosce più la vocazione al dono significata dal
corpo della persona che sta di fronte; ormai il suo
orientamento è mutato e vede l’altro come potenziale
oggetto di godimento egoistico: un guardare per desi
derare.
Il guardare per desiderare è una falsificazione del
l’unione a cui sono chiamate le persone grazie all’at
trazione reciproca. È in questo che consiste l’adulte
rio del cuore di cui parla Gesù: guardare, considerare
l’altro come un “oggetto” e non più come un “sogget
to”: «Tale adulterio “nel cuore” l’uomo può commet
terlo anche nei riguardi della propria moglie, se la
tratta soltanto come oggetto di appagamento del
l’istinto»13.
Quando prende coscienza di questa deviazione del
cuore, l’uomo tende ad accusare il proprio corpo, inve
ce che riconoscere la condizione problematica del cuo
re. È qui la fonte di ogni manicheismo, di ogni atteg
giamento di rifiuto o disprezzo del corpo. Si decentra
la questione all’esterno di sé, sul proprio corpo, che ci
diventa quasi estraneo: «Non sono io, è il mio corpo. /
179
Non sono io, è la libido». Ora, noi non “abbiamo” sola
mente un corpo, quasi come una proprietà in qualche
modo esterna a noi; noi “siamo” il nostro corpo, ele
mento costitutivo del nostro essere persona, al pari del
la nostra anima.
Giovanni Paolo II insiste nel rimarcare che è il cuore
dell’uomo a essere malato per le conseguenze del pec
cato, e non il suo corpo: il corpo è innocente. Faccia
mo oltraggio a noi stessi quando accusiamo il nostro
corpo, mentre è il cuore che deve essere esaminato.
L’impurità, in tutte le sue forme, non è un peccato del
corpo, ma un peccato contro il corpo: «Mentre per la
mentalità manichea il corpo e la sessualità costituisco
no, per così dire, un “anti-valore”, per il cristianesimo,
invece, essi rimangono sempre un “valore non abba
stanza apprezzato”. [...] Il modo manicheo di intendere
e di valutare il corpo e la sessualità dell’uomo è essen
zialmente estraneo al Vangelo, non conforme al signi
ficato esatto delle parole del Discorso della montagna
pronunziate da Cristo»14.
In seguito Giovanni Paolo II affermerà: «Nel Di
scorso della montagna Cristo non invita l’uomo a ritor
nare allo stato dell’innocenza originaria, perché l’uma
nità l’ha irrevocabilmente lasciato dietro di sé, ma lo
chiama a ritrovare - sul fondamento dei significati
perenni e, per così dire, indistruttibili di ciò che è
“umano” - le forme vive dell’“uomo nuovo”. In tal
modo si allaccia un legame, anzi, una continuità fra il
“principio” e la prospettiva della Redenzione»15.
180
IL MATRIMONIO COME ANNUNCIO
E PREPARAZIONE DELLA RISURREZIONE
(Mt 22,23-30)
181
ma anche uno stato del tutto nuovo della vita umana
stessa»16.
In cosa consiste questo stato totalmente nuovo? Sarà
caratterizzato, dice Giovanni Paolo II, da «un perfetto
sistema di forze nei rapporti reciproci tra ciò che nel
l’uomo è spirituale e ciò che è corporeo»17. Ciò signifi
ca che l’opposizione fra le aspirazioni del nostro spiri
to e i limiti del nostro corpo, di cui facciamo esperienza
in questa vita come conseguenza del peccato originale,
nella risurrezione sarà totalmente superata nel quadro
di un’armonia e di un’unità perfetta tra corpo e spiri
to. «Nella risurrezione il corpo tornerà alla perfetta
unità ed armonia con lo spirito: l’uomo non sperimen
terà più l’opposizione tra ciò che in lui è spirituale e ciò
che è corporeo. La spiritualizzazione significa non sol
tanto che lo spirito dominerà il corpo, ma, direi, che
esso permeeràpienamente il corpo, e che leforze dello spi
rito permeeranno le energie del corpo»18.
Tutte le nostre facoltà corporali saranno totalmente
compenetrate dalle forze dello spirito, e questo ci porrà
in uno stato superiore a ogni possibile esperienza della
vita terrena. Raggiungeremo così, attraverso la grazia,
la perfezione ultima della nostra divinizzazione. Dice il
papa: «Il grado della spiritualizzazione, proprio dell’uo
mo “escatologico”, avrà la sua fonte nel grado della sua
“divinizzazione”, incomparabilmente superiore a quel
la raggiungibile nella vita terrena. Bisogna aggiungere
che qui si tratta non soltanto di un grado diverso, ma
182
in certo senso di un altro genere di “divinizzazione”. La
partecipazione alla natura divina, la partecipazione alla
vita interiore di Dio stesso, penetrazione e permeazio-
ne di ciò che è essenzialmente umano da parte di ciò
che è essenzialmente divino, raggiungerà allora il suo
vertice, per cui la vita dello spirito umano perverrà ad
una tale pienezza, che prima gli era assolutamente inac
cessibile. [...] La “divinizzazione” nell’“altro mondo”,
indicata dalle parole di Cristo, apporterà allo spirito
umano una tale “gamma di esperienza” della verità e
dell’amore che l’uomo non avrebbe mai potuto rag
giungere nella vita terrena»19.
E tuttavia, la risurrezione non significherà una di
sincarnazione; non diventeremo dei puri spiriti, ed è
ciò che intendeva Gesù: «Alla risurrezione... si è come
angeli nel cielo» (Mt 22,30). Giovanni Paolo II insiste:
«È ovvio che non si tratta qui di trasformazione della
natura dell’uomo in quella angelica, cioè puramente
spirituale. Il contesto indica chiaramente che l’uomo
conserverà neU’“altro mondo” la propria natura umana
psicosomatica. Se fosse diversamente, sarebbe privo di
senso parlare di risurrezione»20.
I nostri corpi risuscitati rimarranno corpi uman
conservando la loro visibile mascolinità e femminilità.
Nondimeno, nello stato di risurrezione il matrimonio
cesserà di esistere. Perché? Perché in quel nuovo stato
dell’umanità la comunicazione fra Dio e l’uomo sarà
talmente perfetta che placherà completamente, persino
in maniera sovrabbondante, la nostra sete di comunio
19 Ivi, nn. 3 e 4.
20 Udienza del 2 dicembre 1981, n. 5.
183
ne. Ciò per cui siamo fatti —cioè divenire esseri di co
munione, vocazione che tentiamo di realizzare in terra
attraverso il matrimonio - sarà realizzato ad un grado
di totale perfezione nel donarsi di Dio a ognuno di noi.
Dunque, non si prenderà più né marito né moglie, per
ché il dono di sé ad una persona sarà immensamente
inferiore a ciò di cui Dio stesso ci colmerà attraverso la
“visione beatifica”. «Coloro che parteciperanno al “mon
do futuro”, cioè alla perfetta comunione col Dio vivo,
godranno di una soggettività perfettamente matura. Se
in questa perfetta soggettività, ptìr conservando nel
loro corpo risorto, cioè glorioso, la mascolinità e la
femminilità, “non prenderanno moglie né marito”, ciò
si spiega non soltanto con la fine della storia, ma anche
- e soprattutto - con ^autenticità escatologica” della
risposta a quel “comunicarsi” del Soggetto Divino, che
costituirà la beatificante esperienza del dono di se stes
so da parte di Dio, assolutamente superiore ad ogni
esperienza propria della vita terrena. [...] Così, dunque,
quella situazione escatologica, in cui “non prenderan
no moglie né marito”, ha il suo solido fondamento
nello stato futuro del soggetto personale, quando, in
seguito alla visione di Dio “faccia a faccia”, nascerà in
lui un amore di tale profondità e forza di concentrazio
ne su Dio stesso, da assorbire completamente l’intera
sua soggettività psicosomatica»21.
Ma c’è di più. Nella risurrezione Dio si donerà a ogni
persona umana in una tale perfezione di comunione, sic
ché tutti e ciascuno ne godano allo stesso modo. La
comunione in Dio permetterà una totale comunione di
184
tutti, che supererà la comunione semplicemente interper
sonale del matrimonio. Consiste in questo tutta la realtà
futura della comunione dei santi, pienamente possibile
solo nello stato di risurrezione, quando tutti comuniche
remo in maniera perfetta con il “comunicarsi” di Dio.
La visione beatifica del mistero d’amore trinitario ci
permetterà una comunione perfetta e universale: «Que
sta concentrazione della conoscenza (“visione”) e del
l’amore su Dio stesso - concentrazione che non può esse
re altro che la piena partecipazione alla vita interiore di
Dio, cioè alla stessa Realtà Trinitaria —[...] sarà soprattut
to la riscoperta di sé da parte dell’uomo, non soltanto
nella profondità della propria persona, ma anche in quel
la unione che è propria del mondo delle persone nella
loro costituzione psicosomatica. Certamente questa è una
unione di comunione. La concentrazione della conoscen
za e dell’amore su Dio stesso nella comunione trinitaria
delle Persone può trovare una risposta beatificante in
coloro che diverranno partecipi delTaltro mondo”, solo
attraverso il realizzarsi della comunione reciproca commi
surata a persone create. E per questo professiamo la fede
nella “comunione dei santi” (communio sànctorum) e la
professiamo in connessione organica con la fede nella
“risurrezione dei morti”»22. Giovanni Paolo II conclude:
«Dobbiamo pensare alla realtà delTaltro mondo” nelle
categorie della riscoperta di una nuova, perfetta soggetti
vità di ognuno, ed insieme della riscoperta di una nuova,
perfetta intersoggettività di tutti»23.
Nella risurrezione non ci sarà più matrimonio: non
22 Ivi, n. 4.
23 Ivi, n. 4.
185
perché la risurrezione sia una negazione del valore del
matrimonio, ma perché ciò che il matrimonio annuncia
sarà pienamente realizzato con la risurrezione. Il matri
monio, in quanto opera di comunione, annuncia la risur
rezione e questa - realizzando la pienezza della comunio
ne di Dio in noi, e di conseguenza la pienezza della nostra
comunione con tutti nel grande mistero della comunio
ne dei santi - permetterà di trascendere lo stato del matri
monio realizzando la pienezza del suo significato.
186
immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le
mogli come il proprio corpo; chi ama la propria moglie ama
se stesso. Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi
la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, poi
ché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lasce
rà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diven
teranno una sola carne. Questo mistero è grande: io lo dico
in riferimento a Cristo e alla Chiesa!».
La reciproca sottomissione
Innanzitutto, occorre interpretare rettamente l’impe
rativo della sottomissione: «Le mogli siano sottomesse ai
loro mariti...». Il papa è molto chiaro al riguardo e - per
la prima volta nella storia della teologia del matrimonio -
parla di “reciproca sottomissione”. «Esprimendosi così,
l’Autore [dell’epistola] non intende dire che il marito è
“padrone” della moglie e che il patto inter-personale pro
prio del matrimonio è un patto di dominio del marito
sulla moglie. Esprime, invece, un altro concetto: cioè che
la moglie, nel suo rapporto con Cristo - il quale è per
ambedue i coniugi unico Signore - può e deve trovare la
motivazione di quel rapporto con il marito, che scaturi
sce dall’essenza stessa, del matrimonio e della famiglia.
Tale rapporto, tuttavia, non è sottomissione unilaterale.
Il matrimonio, secondo la dottrina della lettera agli
Efesini, esclude quella componente del patto che grava
va e, a volte, non cessa di gravare su questa istituzione. Il
marito e la moglie... sono vicendevolmente subordinati.
La fonte di questa reciproca sottomissione sta nella pietas
cristiana, e la stia espressione è l’amore»25.
187
Che cosa induce a Giovanni Paolo II ad affermare
che il rapporto tra marito e moglie deve esprimersi co
me “reciproca sottomissione”, visto che il testo paolino
non ne parla esplicitamente? Semplicemente l’esigenza
della verità dell’amore, che l’Apostolo formula nell’in
giunzione indirizzata ai mariti: «E voi, mariti, amate le
vostre mogli!». Se il marito ama la propria moglie nella
verità, non può esserci una sottomissione unilaterale,
poiché l’amore autentico esclude ogni forma di domi
nio. «L’amore esclude ogni genere di sottomissione, per
cui la moglie diverrebbe serva o schiava del marito,
oggetto di sottomissione unilaterale. L’amore fa.sì che
contemporaneamente anche il marito è sottomesso alla
moglie, e sottomesso in questo al Signore stesso, così
come la moglie al marito. La comunità o unità che essi
debbono costituire a motivo del matrimonio, si realiz
za attraverso una reciproca donazione, che è anche una
sottomissione vicendevole»26.
Ciò che riequilibra il tutto è l’inquadramento inizia
le: «Nel timore di Cristo...», ovvero il dono della pietà,
grazie al quale l’uomo riconosce di non essere il padro
ne della vita e delle sue leggi, ma deve accogliere il
comando dell’amore che riceve da Dio. La sottomissio
ne nell’amore non è una sottomissione di dominio, è
una sottomissione di oblazione reciproca.
26 Ivi, n. 4.
188
si tratta di una metafora, di una semplice immagine,
nella quale i termini della comparazione configurano
un rapporto destinato a rimanere in qualche modo
esteriore. Si tratta di analogia vera e propria, cioè di un
rapporto di proporzione fondato su una similitudine
rispetto all’essere.
Questo significa che quando nella lettera agli Efesini
si parla delle nozze umane con riferimento alle nozze
di Cristo e della Chiesa, non si tratta di una semplice
immagine, con l’intento pedagogico di far compren
dere la dignità del matrimonio cristiano. C’è molto di
più: è l’espressione di una connaturalità fra i rapporti
sponsali nel matrimonio e quelli di Cristo con la Chie
sa. Si potrebbe dire che le uniche nozze che realizzano
la totalità dell’essenza del matrimonio - la pienezza
della nuzialità - sono quelle di Cristo e della Chiesa.
Perciò le nostre nozze umane, per realizzare nella veri
tà ciò che significano, devono conformarsi a quelle di
Cristo e della Chiesa, o almeno tendervi.
Ci sono tre elementi in questa analogia. Il primo:
«Le mogli siano sottomesse ai loro mariti, come al Si
gnore». Il secondo spiega e motiva il primo: «Il marito
è capo della propria moglie, così come Cristo è capo
della Chiesa»; che significa: nel modo in cui la Chiesa
è sottomessa a Cristo, le donne si sottomettano al pro
prio marito. Il terzo sviluppa tutto il seguito del testo:
«E voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo
ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei».
Le nozze umane trovano il loro fondamento nel rap
porto con il dono nuziale di Cristo alla sua Chiesa: Cri
sto-Sposo si offre alla Chiesa-Sposa, cioè a ciascuno di
noi, che costituiamo la Chiesa in quanto membra del
189
suo corpo. Il matrimonio deve farci comprendere, gu
stare e contemplare le relazioni tra Cristo e la Chiesa,
mentre tende a conformarsi alla perfezione del dono
nuziale esistente fra Cristo-Sposo e la Chiesa-Sposa.
Giovanni Paolo II può dire: «Il rapporto reciproco tra
i coniugi, marito e moglie, va inteso dai cristiani a
immagine del rapporto tra Cristo e la Chiesa»27; e pro
segue: «L’analogia usata nella lettera agli Efesini, chia
rendo il mistero del rapporto tra Cristo e la Chiesa,
contemporaneamente svela la verità essenziale sul ma
trimonio: cioè, che il matrimonio corrisponde alla
vocazione dei cristiani solo quando rispecchia l’amore
che Cristo-Sposo dona alla Chiesa sua Sposa, e che la
Chiesa (a somiglianza della moglie “sottomessa”, dun
que pienamente donata) cerca di ricambiare a Cristo»28.
La portata di queste parole è immensa: se il matrimo
nio corrisponde alla vocazione dei cristiani solo nella
misura in cui riflette l’amore che Cristo dona alla Chiesa,
significa che è una chiamata all’amore totale, amore
oblativo che non si sottrae al sacrifìcio della vita, poiché
tale è stato l’amore di Cristo per la Chiesa. Per stabilirsi
nella verità della vocazione cristiana, l’amore sponsale
deve accettare la possibilità di diventare amore sacrifica
le, amore “obbediente” «fino alla morte, e a una morte
di croce» (Fil 2,8). Fin lì, infatti, Cristo ha spinto l’offer
ta nuziale alla sua Sposa, annientandosi come nutrimen
to eucaristico - poiché tale è il destino dell’alimento:
essere distrutto a vantaggio di chi nutre - e facendosi vit
tima d’amore sul “legno nuziale” della croce.
190
Il matrimonio come grazia dell’alleanza
Si tratta di un aspetto più strettamente dottrinale, al
quale Giovanni Paolo II ha dedicato, nell’ottobre del
1982, ben tre interventi, probabilmente i più profon
di, e anche i più difficili, dell’intera teologia del corpo.
In essi il papa qualifica il sacramento del matrimonio
come “sacramento primordiale”, oltre che “prototipo
dei sacramenti della Nuova alleanza”: due definizioni
sino a quel momento inedite.
Innanzitutto una precisazione sul termine sacra
mento: una nozione evolutasi nel corso dei secoli e ri
conducibile, come minimo, a un duplice significato. Il
primo, più ampio e antico, ereditato dalla grande tra
dizione biblico-patristica, è quello evocato di preferen
za da Giovanni Paolo II: «Sacramento significa qui il
mistero stesso di Dio, che è nascosto fin dall’eternità,
tuttavia non in nascondimento eterno, ma anzitutto
nella sua stessa rivelazione e attuazione»29. In questo
senso, con riferimento all’eterno, divino progetto rela
tivo alla salvezza dell’umanità, si può parlare di sacra
mento della creazione e di sacramento della redenzione.
E su questa base che bisogna comprendere il matrimo
nio in quanto “sacramento primordiale”. Un altro si
gnificato, più ristretto, è quello che in passato insegna
va il catechismo: «I sacramenti sono segni sensibili ed
efficaci della grazia, istituiti da Gesù Cristo per santi
ficarci»30. Ognuno dei sette sacramenti, canali della
grazia, si qualifica in ragione della “materia” e della
191
“forma” che lo costituiscono (secondo l’eredità del co
siddetto “ilemorfismo” aristotelico, rivisitato da san
Tommaso d’Aquino).
Giovanni Paolo II, come già detto, fonda le sue ri
flessioni essenzialmente sul significato antico e ampio
della parola sacramenta: mistero del progetto divino esi
stente in Dio da tutta l’eternità.
192
sini laddove rinvia a Gn 2,24: «Per questo l’uomo lasce
rà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due
saranno un’unica carne», e ciò prima che san Paolo con
cluda: «Questo mistero è grande...» (Ef 5,32). Giovanni
Paolo II osserva: «[San Paolo qui] indica non soltanto
l’identità del Mistero nascosto in Dio dalPeternità, ma
la continuità della sua attuazione che esiste tra il sacra
mento primordiale connesso alla gratificazione sopran
naturale dell’uomo nella creazione stessa e la nuova gra
tificazione, avvenuta quando “Cristo ha amato la Chiesa
e ha dato se stesso per lei, per renderla santa...” (Ef 5,25-
26); gratificazione che può essere definita nel suo insie
me quale Sacramento della Redenzione»32.
L’inizio della lettera paolina ci svela la situazione del
l’uomo prima del peccato originale: «Benedetto Dio,
Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha bene
detti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per
essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità» (Ef
1,3-4). Questo è il mistero nascosto nel cuore di Dio
da tutta l’eternità: prima ancora della creazione del
mondo, prima della stessa creazione dell’uomo... noi
siamo stati eletti in Cristo «per essere santi e immaco
lati di fronte a lui nella carità». Siamo così rinviati ai
racconti degli inizi, laddove si dice: «Dio vide quanto
aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gn 1,31);
come pure allo stato d’innocenza originaria, quando
«tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non pro
vavano vergogna» (Gn 2,25).
Alla luce dell’accostamento di Genesi ed Efesini, si
193
può ben concludere che la stessa caratterizzazione del
l’essere umano come “maschio e femmina” fu sin dagli
inizi impregnata dell’eterna elezione dell’uomo in Cri
sto: in lui, tutti noi siamo stati eletti come figli adotti
vi di Dio, ancor prima della creazione del mondo. Si
pone qui la connessione col tema del matrimonio come
sacramento primordiale, in quanto progetto eterno di
Dio: «Il sacramento, come segno visibile, si costituisce
con l’uomo, in quanto “corpo”, mediante la sua “visi
bile” mascolinità e femminilità. Il corpo, infatti, e sol
tanto esso, è capace di rendere visibile ciò che è invisi
bile: lo spirituale e il divino. Esso è stato creato per
trasferire nella realtà visibile del mondo il mistero na
scosto dall’eternità in Dio, e così esserne segno»33.
Questa è la vocazione del matrimonio come sacra
mento primordiale: rivelare l’essere stesso di Dio e il
suo disegno d’amore su tutta la creazione, e special-
mente sull’uomo. Secondo il papa, le parole di Gn
2,24: «L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà
a sua moglie, e i due saranno un’unica carne» - riprese
da Ef 5,31 - «costituiscono il matrimoniò quale parte
integrante e, in certo senso, centrale del “sacramento
della creazione”. Esse costituiscono - o forse piuttosto
confermano semplicemente - il carattere della sua ori
gine. Secondo queste parole, il matrimonio è sacramen
to in quanto parte integrale e, direi, punto centrale del
“sacramento della creazione”. In questo senso è sacra
mento primordiale»34.
Immensa dignità del matrimonio! Purtroppo, il mar
194
chio impresso in noi dal peccato originale ci impedisce
di apprezzarlo pienamente. Solo una certa purezza di
cuore permette di intravedere - al di là di ogni defor
mazione, smarrimento o sviamento di cui è stato og
getto nel corso della storia dell’umanità peccatrice -
qualcosa del “grande mistero” rappresentato dal ma
trimonio nel progetto di Dio: «Esso doveva servire non
soltanto a prolungare l’opera della creazione, ossia della
procreazione, ma anche ad espandere sulle ulteriori ge
nerazioni degli uomini lo stesso sacramento della crea
zione, cioè i frutti soprannaturali dell’eterna elezione
dell’uomo da parte del Padre nell’eterno Figlio»35.
35 Ivi, n. 7.
195
to della Redenzione, introducendoli nella dimensione
dell’opera della salvezza?»36.
Citando Gn 2,24: «Per questo l’uomo abbandonerà
suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due
saranno una sola carne», san Paolo vuole significare la
continuità fra il sacramento primordiale e il sacramen
to della redenzione nel quale Cristo si offre come Sposo
alla Chiesa-Sposa, fino a immolarsi per lei. Ed è dal
sacramento della redenzione che la Chiesa trae la sua
fecondità: «Sebbene l’analogia della lettera agli Efesini
non lo precisi, possiamo tuttavia aggiungere che anche
la Chiesa unita con Cristo, come la moglie col proprio
marito, attinge dal sacramento della Redenzione tutta
la sua fecondità e maternità spirituale»37.
Il “grande mistero” - «Questo mistero è grande: io lo
dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!» (Ef 5,32) -
è così reso visibile, sia in riferimento al matrimonio
costituito all’origine, di cui attesta la Genesi, sia in rife
rimento all’unione di Cristo e della Chiesa. Ma visibi
lità non vuol dire chiarificazione totale del mistero, il
quale resta velato, in quanto oggetto di fede. Il segno
indica la realtà del mistero senza manifestarla totalmen
te: soltanto nella visione beatifica ne avremo piena con
sapevolezza. Ciò tuttavia non impedisce che, fin da ora,
gli sposi cristiani siano veri “profeti di comunione”,
chiamati a essere i segni viventi del grande mistero del
l’unione sponsale tra Cristo e la Chiesa.
Il brano di Efesini viene anche a completare, in qual
che modo, la risposta di Gesù sulla questione del ripu
196
dio della moglie (cfr. Mt 19,3-8): le sue parole non si
riferiscono solo al matrimonio come istituzione origi
naria. Accostando i due brani, si osserva che il matri
monio - quale sacramento primordiale nel contesto del
sacramento della creazione - rientra nella struttura in
tegrale di tutta la nuova economia sacramentale scatu
rita dalla redenzione, esattamente come prototipo. Per
ciò Giovanni Paolo II può dire: «Tutti i sacramenti
della Nuova alleanza trovano, in un certo senso, il loro
prototipo nel matrimonio in quanto sacramento pri
mordiale»38.
Ciò significa che tutti i sacramenti della Chiesa han
no una dimensione nuziale, fondata sulle nozze reden-
tive di Cristo e della Chiesa. Nell’accostamento fra
l’unione coniugale dell’uomo e della donna, e l’unione
nuziale di Cristo e della Chiesa - conclude il papa -
«non si tratta solo di un paragone in senso metaforico,
ma di un reale rinnovamento (ovverò di una “ri-crea
zione”, cioè di una nuova creazione) di ciò che costi
tuiva il contenuto salvifico (in certo senso la “sostanza
salvifica”) del sacramento primordiale»39.
Si comprende, allora, fino a che punto Giovanni
Paolo II abbia rinnovato la teologia del matrimonio e
attraverso di essa, in qualche modo, tutta la teologia sa
cramentaria. Definire il matrimonio «prototipo dei sa
cramenti della Nuova alleanza»”, significa affermare
che tutto l’insieme della vita cristiana, e in particolare
i sacramenti della Chiesa, vanno compresi nella luce del
matrimonio. A questo punto si aprono nuovi percorsi
197
all’indagine dei teologi, specialmente riguardo ai sacra
menti dell’eucaristia e dell’ordine, con riferimento al
matrimonio.
198
L’interesse di Giovanni Paolo II è, più che enuncia
re i fini della natura in materia di sessualità, quello di
interrogarsi sul progetto di Dio nella creazione dell’uo
mo e della donna come esseri sessuati, essendo questo
il “segno” della loro vocazione alla comunione. Si può
dunque parlare di rivoluzione della teologia del corpo,
non nel senso di una messa in discussione dell’insegna
mento tradizionale della Chiesa, ma nel senso etimo
logico di “rovesciamento” della prospettiva: da una filo
sofìa della sessualità a una teologia della sessualità40. Le
norme etiche di Humanae vitae sono confermate, ma
riproposte in una nuova luce, decisamente teologica.
Nell’ultimo incontro, quello del 28 novembre 1984,
conclusivo del lungo ciclo di catechesi sulla teologia del
corpo, Giovanni Paolo II rivela finalmente l’intento
che lo ha spinto a intraprendere, cinque anni prima,
tale percorso: «Le catechesi dedicate all’enciclica Hu
manae vitae costituiscono solo una parte, la parte fina
le, di quelle che hanno trattato della redenzione del
corpo e della sacramentalità del matrimonio. Se richia
mo particolarmente l’attenzione proprio a queste ulti
me catechesi, lo faccio [...] per il fatto che da esso pro
vengono gli interrogativi che permeano, in certo senso,
l’insieme delle nostre riflessioni. Ne consegue che que
sta parte finale non è artificiosamente aggiunta al
l’insieme, ma è unita con esso in modo organico e
omogeneo. In certo senso, quella parte che nella di
sposizione complessiva è collocata alla fine, si trova in
pari tempo all’inizio di quest’insieme»41.
199
In altre parole - dato che sovente «ciò che è primo
nell’intenzione è ultimo nell’esecuzione» (secondo il
detto latino: Quodprius in intentione, posterius in exe-
cutionè) - poiché queste catechesi sono state presentate
alla fine, significa che l’intenzione primaria di Giovan
ni Paolo II era di offrire un opportuno inquadramen
to antropologico che facesse comprendere in profondi
tà le regole etiche enunciate in Humanae vitae. Quando
si penetra a fondo nella teologia del corpo, le norme
morali in materia sessuale si illuminano di una luce
completamente nuova. Questo non vuol dire che per
dano in termini di difficoltà o di esigenza, ma non è
più possibile, onestamente, mettere in discussione la
loro fondatezza. Giovanni Paolo II conclude: «Per af
frontare gli interrogativi che suscita l’enciclica Hu
manae vitae, soprattutto in teologia, per formulare tali
interrogativi e cercarne la risposta, occorre trovare quel
l’ambito biblico-teologico a cui si allude quando par
liamo di “redenzione del corpo” e di “sacramentalità del
matrimonio”»42.
42 Ibid.
200
Indice
Prefazione pag. 7
Introduzione
UNA SPIRITUALITÀ PER LE PERSONE SPOSATE » 11
Conclusione
L’INESAURIBILE TESORO DELLA CHIESA » 169
Appendice
C O M PEN D IO DI TEO LO G IA D EL CO RPO » 171
Il progetto originario di Dio
sulF unione deir uomo
e della donna (Mt 19,3-8) » 173
Il cuore dell5uomo ferito a causa
del peccato originale (Mt 5,27-28) » 177
Il matrimonio come annuncio
e preparazione della risurrezione
(Mt 22,23-30) » 181
Il matrimonio alla luce delle nozze
di Cristo e della Chiesa (Ef 5,21-33) » 186
Le esigenze della castità coniugale:
enciclica Humanae vitae » 198