Walter Lord - Titanic La Vera Storia
Walter Lord - Titanic La Vera Storia
Walter Lord - Titanic La Vera Storia
WALTER LORD.
Garzanti
Prefazione
Nel 1898 uno scrittore di nome Morgan Robertson scrisse un romanzo su un favoloso transatlantico,
il più grande che fosse mai stato costruito. Robertson stipò la nave di gente ricca e amabile, e poi la fece
naufragare in una fredda notte di aprile in collisione con un iceberg. Voleva dimostrare in un certo senso
la vanità di ogni cosa, e Vanità fu infatti il titolo del libro, edito da M. F. Mansfield e apparso
quell'anno. Quattordici anni più tardi, una compagnia armatoriale britannica, la White Star Line,
costruì un transatlantico molto simile a quello del romanzo di Robertson. La nuova nave stazzava
sessantaseimila tonnellate, quella di Robertson settantamila. L'una, quella vera, era lunga
duecentosettanta metri, l'altra, quella immaginaria, quattrocentoventiquattro. Ambedue erano munite di
tre eliche e potevano raggiungere una velocità di ventiquattro-venticinque nodi. Sia l'una che l'altra
potevano ospitare circa tremila persone, ma le loro scialuppe di salvataggio erano sufficienti solo per una
piccola parte dei passeggeri. Questo particolare non sembrò allora molto importante, giacchè ambedue le
navi erano definite «inaffondabili». Il dieci aprile millenovecentododici il transatlantico della White Star
Line salpò da Southampton, per il suo viaggio inaugurale, diretto a New York. Il carico era costituito
da una copia di valore inestimabile del «Rubayat» di Omar Khayám e da un gruppo di passeggeri il
Cui patrimonio complessivo raggiungeva i duecentocinquanta milioni di dollari. Anch'esso, lungo la
rotta, entrò in collisione con un iceberg e si inabissò in una fredda notte di aprile. Robertson aveva
chiamato la sua nave Titan, la White Star Line chiamò la propria Titanic. Questa è la storia della sua
ultima notte.
Il Titanic nelle acque di Southampton, il 10 aprile 1912
Si ritorna a Belfast
Dall'alto della coffa del nuovo transatlantico della White Star, il Titanic, la vedetta
Frederick Fleet scrutava la notte luminosa. L'aria era calma, limpida e terribilmente
fredda. Non c'era luna, ma il cielo, senza nubi, brillava di stelle. L'Atlantico sembrava un
piano di vetro levigato; tutti, in seguito, avrebbero detto di non averlo mai visto così
calmo. Era la quinta notte del viaggio inaugurale del Titanic verso New York, ed era ben
chiaro ormai che non si trattava solo della più grande, ma anche della più bella nave del
mondo. Perfino i cani dei passeggeri erano belli. John J. Astor aveva portato con sè il
suo airedale, Kitty; Henry Sleeper Harper, della famiglia degli editori, aveva il suo
meraviglioso pechinese Sun Yat-sen; Robert W. Daniel, il banchiere di Filadelfia, portava
a casa un campione di bull dog francese, appena comprato in Gran Bretagna. Anche
Clarence Moore di Washington aveva acquistato dei cani, ma le cinquanta coppie di
bracchi, comprati per la caccia a Loudoun, non viaggiavano con lui. Era un mondo ben
diverso da quello di Frederick Fleet. Fleet era una delle sei vedette di guardia sul Titanic,
e le vedette non si preoccupavano dei problemi dei passeggeri. Erano gli occhi della
nave» e, in quella particolare notte, Fleet era stato incaricato di badare soprattutto agli
iceberg. Fino a quel momento tutto era andato bene. Il turno di guardia era iniziato alle
dieci... poche parole sui problemi del viaggio con la vedetta Reginald Lee che vegliava
con lui... qualche osservazione sul freddo... poi, quasi sempre, silenzio, mentre i due
uomini scrutavano l'oscurità. Il turno era quasi finito, e non avevano notato nulla di
anormale. Solo la notte, le stelle, il freddo intenso e il vento che fischiava fra le sartie,
mentre il Titanic correva sul mare calmo e nero, a ventidue nodi e mezzo. Erano quasi le
undici e quaranta di domenica quattordici aprile millenovecentododici. Improvvisamente
Fleet avvistò, diritto a prua, una forma più oscura della notte. Dapprima piccola come
due tavoli uniti, pensò), a ogni istante si faceva più grande e più vicina. Subito Fleet
diede tre colpi di campana, il segnale di pericolo. Contemporaneamente sollevò il
telefono e chiamò il ponte di comando. Cosa avete avvistato? » chiese una voce
tranquilla all'altro capo del filo. «Iceberg a prua,» rispose Fleet. (Grazie,» replicò la voce
con una cortesia stranamente distaccata. Nei trentasette secondi che seguirono, Fleet e
Lee rimasero silenziosi fianco a fianco, osservando la massa di ghiaccio che si avvicinava.
L'avevano quasi raggiunta, eppure la nave non virava. L'iceberg si ergeva ormai, umido e
lucente, al di sopra del castello di prora, e i due uomini si prepararono all'urto. Poi,
miracolosamente, la prua cominciò a spostarsi verso sinistra e all'ultimo istante riuscì a
evitare la massa di ghiaccio che scivolò rapidamente a dritta. Fleet pensò che se l'erano
cavata per un pelo. In quel preciso momento, il timoniere George Thomas Rowe era di
guardia a poppa, sul ponte. Anche per lui, la notte era stata priva di avvenimenti... solo
mare, stelle, e freddo intenso. Mentre passeggiava sul ponte, notò un fenomeno che lui e
il suo compagno definirono in seguito «baffi attorno alla luce» minuscoli cristalli di
ghiaccio sospesi nell'aria, sottili come polvere, che sprigionavano miriadi di scintille
colorate ogni qualvolta passavano nel raggio delle luci del ponte. Poi, all'improvviso,
avvertì uno strano sussulto che ruppe il ritmo regolare delle macchine, come quando si
attracca ad un molo con troppo abbrivio. Gettò un'occhiata davanti a se, poi tornò a
guardare, più attentamente. Gli parve di veder passare a dritta un battello con le vele
spiegate. Comprese poi che si trattava di un iceberg alto una trentina di metri sul pelo
dell'acqua. Un istante dopo, il masso era scomparso, scivolando lontano nell'oscurità.
Nel frattempo, nella sala da pranzo di prima classe, sul ponte D, quattro altri membri
dell'equipaggio del Titanic sedevano attorno a un tavolo. L'ultimo commensale se n'era
andato ormai da parecchio tempo, e nell'ampio locale, che nelle sue linee classicheggianti
ricordava lo stile Giacomo I, non c'era nessun altro. Erano camerieri di sala, che si
dedicavano al rituale passatempo di tutti i camerieri fuori servizio, cioè a far pettegolezzi
sui passeggeri. Mentre chiacchieravano, avvertirono una leggera scossa, che parve
giungere da un punto imprecisato all'interno della nave. Non fu molto violenta, ma fu
sufficiente per interrompere la conversazione e far tintinnare l'argenteria già disposta per
la colazione della mattina seguente. James Johnson affermò di sapere di che cosa si
trattava. Aveva riconosciuto il tipo di scossa che una nave subisce quando perde la pala
di un'elica, e sapeva che quell'incidente significava un ritorno ai cantieri Harland e Wolff,
a Belfast, e molto tempo libero per godere dell'ospitalità del porto. Qualcuno, accanto a
lui, si dichiarò d'accordo, e prese a canterellare allegramente: « Si ritorna a Belfast.» A
poppa, nella cambusa, il panettiere-capo del turno di notte, Walter Belford, stava
preparando i croissant per il giorno seguente (l'onore di confezionare pasticcini era
riservato al turno di giorno). (Quando si verificò la scossa, Belford ne fu impressionato
più del maggiordomo James Johnsen, forse perché un vassoio di croissants appena
preparati cadde dal piano superiore del forno, e il contenuto si sparse sul pavimento.
Anche i passeggeri nelle loro cabine avvertirono la scossa, e cercarono di ricollegarla a
qualcosa di familiare. Marguerite Frolicher, una giovane svizzera che accompagnava il
padre in un viaggio di affari, si svegliò di soprassalto; riuscì a pensare solo ai vaporetti del
lago di Zurigo quando accostavano. Dolcemente disse tra sé: «Strano... stiamo
attraccando! Al maggiore Arthur Godfrey Peuchen, che si stava spogliando, sembrò che
una violenta ondata avesse colpito la nave. La signora Stuart White era seduta sull'orlo
della cuccetta e stava per spegnere la luce quando ebbe l'impressione che la nave
passasse su «mille pezzi di marmo». Lady Cosmo Duff Gordon, che si svegliò per l'urto,
provò la sensazione che un dito gigantesco fosse passato su un fianco della nave. La
signora Astor pensò a un incidente nelle cucine. Ad alcuni il colpo parve più violento
che ad altri. La signora Caldwell pensò a un grosso cane che tenesse un micino in bocca
e lo scuotesse. La signora Stephenson pensò alla prima scossa del terremoto di San
Francisco, poi decise che non era una cosa tanto grave. La signora Appleton avvertì
l'urto, ma sentì uno strano rumore... come se qualcuno stesse strappando una
lunghissima striscia di cotone. La scossa allarmò maggiormente J. Bruce Ismay,
consigliere delegato della White Star Line, che partecipava al viaggio inaugurale del
Titanic. Ismay si svegliò di soprassalto nell'appartamento di lusso che occupava sul ponte
D; era certo che la nave avesse urtato contro qualche cosa, ma non sapeva che cosa.
Alcuni passeggeri conoscevano la verità. I coniugi Harder, una giovane coppia in luna di
miele che occupava la cabina E-50, erano ancora svegli quando udirono un tonfo sordo.
Poi sentirono la nave tremare, e una specie di rombo, come se qualcosa strisciasse
contro il fianco della nave. Il signor Harder balzò dalla cuccetta e corse all'oblò.
Scrutando attraverso il vetro vide una muraglia di ghiaccio passargli accanto. Lo stesso
accadde a James B. McGough, un commerciante di Filadelfia, ma con conseguenze più
spiacevoli. McGough teneva l'oblò aperto, e quando l'iceberg passò, alcune schegge di
ghiaccio caddero nella cabina. Come il signor McGough, la maggior parte dei passeggeri
del Titanic era a letto, quando avvenne la collisione. In quella fredda notte domenicale,
una calda cuccetta sembrava il rifugio migliore. Alcuni veterani dei viaggi per mare erano
ancora alzati, per la maggior parte riuniti nella sala fumatori di prima classe, sul ponte D.
Come sempre, si trattava di un gruppo variamente assortito. Attorno a un tavolo
sedevano Archie Butt, consigliere militare del presidente Taft; Clarence Moore, il
maestro di caccia; Harry Widener, figlio del re delle automobili di Filadelfia, e William
Carter, un altro armatore. Erano alla fine di una cenetta offerta dal padre di Widener in
onore del capitano Edward J. Smith, comandante della nave. Il capitano li aveva lasciati
presto, le signore erano state mandate a letto, ed ora gli uomini assaporavano un ultimo
sigaro prima di ritirarsi. La conversazione sfiorava gli argomenti più diversi: dalla politica
alle avventure di Clarence Moore nella Virginia occidentale sprofondato in una poltrona
di cuoio, lì accanto, Spencer V. Silverthorne, direttore della catena di negozi Nugent di
Saint Louis, sfogliava un nuovo romanzo di successo, il virginiano. Poco lontano, Lucien
P. Smith (anche lui di Filadelfia) si cimentava valorosamente con i problemi linguistici di
una partita a bridge con tre francesi. A un altro tavolo il gruppo dei giovani partecipava
vivacemente a un gioco più rumoroso del bridge. Di solito, preferivano il più allegro
Café Parisien, che si trovava proprio lì sotto, sul ponte EB, e l'inizio di quella serata non
era stato diverso dagli altri. Ma poi il freddo si era fatto così pungente che alle undici e
mezzo circa le ragazze si erano ritirate, mentre gli uomini erano passati nella sala
fumatori per bersi un bicchierino.
Il Café Parisien, centro dell'allegria viva di bordo
Quasi tutti scelsero whisky e soda; Hugh Woolner, figlio dello scultore inglese, prese
whisky caldo con acqua; il tenente Hdkan Bjornstrom Steffanson, un giovane addetto
militare svedese diretto a Washington, una limonata calda. Qualcuno tirò fuori un mazzo
di carte, e mentre sedevano giocando e ridendo avvertirono tutt'a un tratto lo stridore
dello sfregamento Niente di grave, in apparenza, ma sufficiente per allarmare chiunque.
Il signor Silverthone trasale ancora, quando ne parla. Il cameriere della sala fumatori e il
signor Silverthone balzarono subito in piedi e infilarono la porta di poppa...
attraversarono la veranda delle palme e si precipitarono sul ponte. Giunsero appena in
tempo per vedere l'iceberg strisciare contro la murata di dritta, poco più alto del ponte
lance. Mentre il masso scivolava via, videro staccarsene pezzi di ghiaccio e cadere in
acqua. In un attimo il masso svanì nell'oscurità, a poppa. Altri ospiti della sala fumatori
comparvero in quel momento. Mentre raggiungevano il ponte, Hugh Woolner udì un
uomo gridare: “Abbiamo urtato un iceberg, eccolo laggiù.” Woolner scrutò nel buio. A
circa centocinquanta metri a poppa scorse una montagna di ghiaccio stagliarsi nera
contro il cielo stellato. Poi il masso svanì nella notte. Presto anche l'eccitazione si calmò.
Il Titanic sembrava più solido che mai, e il freddo era troppo intenso per rimanere
ancora all'aperto. Lentamente, il gruppo rientrò, Woolhner giuocò la sua mano e la
partita di bridge continuò. L'ultimo a rientrare, mentre chiudeva la porta, ebbe
l'impressione che le macchine si fossero arrestate. Aveva ragione. Sul ponte di comando,
il primo ufficiale William M. Murdoch aveva appena portato la maniglia del dispositivo
di comando alla sala macchine sulla posizione a Fermo». Murdoch era di guardia sul
ponte di comando, ed era compito suo prendere i provvedimenti del caso, appena
ricevuto da Fleet il segnale di pericolo. Era seguito un minuto di estrema tensione...
l'ordine al timoniere Hitchens di buttare il timone tutto a dritta... l'ordine alla sala
macchine, gridato nel portavoce, «indietro a tutta forza o... una energica pressione sul
pulsante che azionava la chiusura delle porte stagne, e infine quei trentasette secondi di
attesa angosciosa. Ora l'attesa era finita, ed era troppo tardi per fare altro. Quando il
rumore cessò, il capitano Smith accorse sul ponte di comando dalla sua cabina posta
vicino alla timoneria. Il dialogo fu breve e conciso. «Che succede, Murdoch?»
«Un iceberg, signore. Ho accostato a dritta con le macchine indietro a tutta forza per
cercare di passargli a sinistra, ma eravamo troppo vicini. Non ho potuto fare di più.»
«Chiudete le porte stagne.»
«Già fatto.» Le porte erano perfettamente chiuse. Giù, nella sala delle caldaie n.6, il
fuochista Fred Barrett stava chiacchierando con il secondo macchinista James Hesketh,
quando suonò la campana e si accese la luce rossa sulla porta stagna che conduceva a
poppa. Un grido di allarme - un urto da rompere i timpani - e tutta la fiancata di dritta
sembrò cedere. L'acqua entrò impetuosa, aggredì i tubi e le valvole, mentre i due uomini
oltrepassavano d'un balzo la porta che si richiuse violentemente alle loro spalle. La
situazione, constatò Barrek, era altrettanto precaria nella sala n.5. La falla si estendeva nel
comparto n.5 per circa sessanta centimetri oltre la porta, e un grosso getto d'acqua
entrava dallo squarcio. Lì vicino, il fuochista George Cavell stava cercando di emergere
da una valanga di carbone che, per l'urto, si era riversata dal carbonile. Un altro membro
del personale di macchina osservava tristemente una scodella di minestra rovesciata, che
un attimo prima stava scaldandosi su una caldaia. L'altra sala, verso poppa, era asciutta,
ma la scena non era molto diversa: due uomini cercavano di farsi coraggio chiamandosi a
gran voce, domandandosi che cosa fosse accaduto. Era difficile immaginarlo. Fino a quel
momento, tutto sul Titanic era stato perfetto. Trattandosi di una nave nuova, al suo
viaggio inaugurale, tutto era pulito. Il Titanic rappresentava, come il fuochista George
Kemish ricorda ancora, «un lavoro comodo.. non come quello a cui eravamo abituati
sulle vecchie navi, dove ci rovinavamo lo stomaco e quasi arrostivamo per il calore».
Qui, invece, i fuochisti dovevano semplicemente riempire le caldaie, e non c'era bisogno
di smuovere il carbone con attizzatoi, punteruoli - e rastrelli. Così, quella notte di
domenica, si riposavano, seduti qua e là sui secchi e sulle carriole, a chiacchierare, in
attesa del turno da mezzanotte alle quattro. Poi ci fu quel tonfo sordo... quel rumore
continuo e lacerante, il ticchettio ansioso del telegrafo... la chiusura delle porte stagne. La
maggior parte degli uomini non riusciva a capire che cosa fosse accaduto; corse voce che
il Titanic si fosse incagliato al largo dei banchi di Terranova. Molti continuarono a
crederlo anche dopo che un fuochista arrivò di corsa dal ponte gridando: «Accidenti!
Abbiamo urtato un iceberg.» A circa dieci miglia di distanza, il terzo ufficiale Charles
Victor Groves si trovava sul ponte di comando del transatlantico Californian sulla rotta
Londra-Boston. La nave, che stazzava seimila tonnellate, poteva ospitare quarantasette
passeggeri, ma in quel viaggio era vuota. Quella domenica notte, il Californian era fermo
dalle dieci e mezzo, completamente bloccato dal ghiaccio. Alle undici e dieci circa,
Groves notò a tribordo le luci di un'altra nave che avanzava da oriente. La nuova venuta,
mentre superava rapidamente l'immobile Californian, si rivelò, al chiarore delle luci del
ponte, una grossa nave passeggeri. Verso le undici e mezzo, Groves bussò alla porta
della sala nautica e riferì la notizia al capitano Stanley Lord. Questi suggerì di mettersi in
contatto con la nuova arrivata mediante la lampada per segnalazioni luminose, e Groves
si accinse a farlo. Alle undici e quaranta vide la grossa nave arrestarsi all'improvviso
mentre la maggior parte delle sue luci si spegneva. Il fatto non sorprese Groves, che
aveva prestato servizio per un certo tempo sulla linea per l'Estremo Oriente, dove si è
soliti spegnere le luci a mezzanotte per invitare i passeggeri a ritirarsi in cabina. L'ufficiale
pensò che, forse, le luci erano ancora accese... e sembravano essersi spente solo perchè la
nave aveva improvvisamente virato di bordo...
Si parla di un iceberg, signora
Come se nulla fosse accaduto, o quasi, la vedetta Fleet riprese la sua guardia, la signora
Astor ritornò a letto, e il tenente Steffanson riprese a sorseggiare la sua limonata calda.
Su richiesta di vari passeggeri della sala fumatori di seconda classe, il cameriere James
Witter uscì per sapere qualcosa sulla scossa. I giocatori di due tavoli non alzarono
neppure gli occhi. Di solito, la White Star Line non permetteva che si giocasse a carte la
domenica, e quella sera i passeggeri volevano approfittare al massimo dell'inaspettata
magnanimità del capo cameriere. Nel salone di seconda classe, nessuno mandò il
bibliotecario a prendere informazioni, e questi rimase seduto al proprio tavolo, contando
lentamente le schede dei libri prestati durante la giornata. Dal lungo corridoio bianco che
conduceva agli appartamenti, giungeva solo il mormorio delle persone che
chiacchieravano nelle cabine... il lontano chiudersi di una porta della cambusa... di tanto
in tanto un lento ritmare di tacchi alti: i soliti rumori che si odono su un transatlantico
durante la traversata. Tutto sembrava assolutamente normale, eppure non era così. Nella
sua cabina sul ponte B, Jack Thayer, un giovane di diciassette anni, aveva appena
augurato la buona notte al padre e alla madre, i coniugi Thayer di Filadelfia. La famiglia
Thayer occupava due cabine comunicanti, una sistemazione degna della posizione del
signor Thayer, vice presidente delle Ferrovie della Pennsylvania. In quel momento,
mentre il giovane Jack, in piedi, si abbottonava la giacca del pigiama, il sussurro della
brezza attraverso l'oblò semiaperto cessò improvvisamente. Sul ponte sottostante i
coniugi Harris sedevano nella loro cabina e giocavano a carte. Il signor Harris, un
produttore di Broadway, era stanco morto, e sua moglie aveva un braccio rotto. I due
parlavano poco, mentre la signora Harris osservava pigramente i vestiti che
ondeggiavano sulle grucce seguendo le oscillazioni della nave. Improvvisamente, si
accorse che il loro moto si era arrestato. Sull'altro ponte, ancora più in basso, Lawrence
Beesley, un giovane professore di scienze del Dulwich College, sdraiato nella sua
cuccetta di seconda classe, leggeva, piacevolmente cullato dal movimento ondeggiante
del materasso. Improvvisamente, questo cessò. Lo scricchiolio del legno, il lontano
pulsare delle macchine, il continuo tintinnio della cupola in vetro sopra il foyer del ponte
A, tutti i suoni familiari a bordo di una nave, tacquero mentre il Titanic si fermava. Quel
silenzio colpì i passeggeri più di qualunque scossa.
I campanelli cominciarono a suonare per chiamare i camerieri, ma era difficile riuscire
a sapere qualcosa di preciso. «Perché ci siamo fermati?» chiese Lawrence Beesley a un
inserviente che passava. «Non lo so, signore,» la risposta era sempre la stessa. «Ma penso
che non sia nulla di grave.» La signora Ryerson, appartenente alla famiglia degli
industriali dell'acciaio, ebbe più successo. «Si parla di un iceberg, signora,» spiegò il
cameriere Ilshop.« Sembra che la nave sia ferma per non urtarlo.) Mentre la sua
cameriera francese, Victorine, tremava nella sua cabina, la signora Ryerson si chiedeva
che cosa dovesse fare. Suo marito era riuscito, per la prima volta dalla partenza, ad
addormentarsi e lei non voleva svegliarlo. Si avvicinò alla grande finestra quadrata che
dava direttamente sul mare, e, guardando fuori, vide solo una notte calma e serena, per
cui decise di lasciarlo dormire. Altri si rifiutarono di prendere le cose alla leggera. Spinti
dalla curiosità indomabile che non lascia mai chi si trova a bordo di una nave, alcuni
passeggeri del Titanic cominciarono insistentemente a cercare una risposta. Nella C-51 il
colonnello Archibald Gracie, uno storico militare dilettante che aveva frequentato West
Point e viveva di rendita, prese a vestirsi metodicamente, indossando la biancheria, le
calze lunghe, le scarpe, i pantaloni, la giacca, quindi uscì sul ponte lance. Jack Thayer
indossò soltanto un soprabito sul pigiama e uscì, dicendo ai genitori che andava a vedere
che cosa fosse successo. Sul ponte c'era ben poco da vedere, e certamente nessun segno
di pericolo. Quasi tutti quelli che si erano mossi, vagarono senza meta o rimasero
appoggiati al parapetto scrutando la notte in cerca di una risposta. Il Titanic galleggiava
immobile sull'acqua, e tre dei quattro enormi fumaioli eruttavano vapore, con un ruggito
che rimbombava nella calma notte stellata Per il resto tutto era normale. Verso poppa,
sul ponte lance, un'anziana coppia passeggiava abbracciata, dimentica del ruggito del
vapore e dei piccoli gruppi di passeggeri che percorrevano la nave. Faceva molto freddo
e c'era così poco da vedere, che quasi tutti tornarono al coperto dopo pochi minuti.
Entrando nel magnifico foyer sul ponte A, trovarono altre persone che si erano alzate,
ma che avevano preferito rimanere all'interno, dove faceva più caldo. Così riuniti,
formavano un quadro curioso. I loro abiti costituivano uno strano miscuglio di
accappatoi, abiti da sera, pellicce e golfini. L'ambiente stesso aveva assunto un tono quasi
irreale: la grande cupola di vetro che lo sovrastava.. i grandi pannelli di quercia... le
magnifiche balaustrate con le volute in ferro battuto... e, in alto, in posizione dominante,
un incredibile orologio a muro adorno di due ninfe in bronzo, simboleggianti l'onore e la
gloria che incoronano il tempo. «Tra poche ore riprenderemo il cammino», spiegò in
termini vaghi un cameriere al passeggero di prima classe George Harder. A quanto pare,
abbiamo perso un'elica; ma questo ci darà soltanto più tempo per il bridge - commentò
Howard Case, il direttore londinese della Vacuum Oil, rivolgendosi a Fred Seward, un
avvocato di New York.
Il signor George A. Harder e la moglie l'unica coppia di sposi in luna di miele che si sia salvata
Il signor Case si era lasciato influenzare dalle parole del cameriere che aspettava
ancora in un soggiorno a Belfast. Quasi tutti i passeggeri, comunque, erano finalmente
riusciti a raccogliere informazioni più precise. «Che cosa ne pensi?» domandò Harvey
Collyer a sua moglie mentre facevano ritorno nella loro cabina dopo un giro sul ponte.
«Abbiamo urtato un enorme iceberg, ma non c'è alcun pericolo! Me lo ha detto un
ufficiale.» I Collyer viaggiavano in seconda classe, e si recavano dall'Inghilterra, in una
azienda agricola appena acquistata nella Fayette Valley, nell'Idaho, dove avrebbero
coltivato frutta. Non conoscevano l'Atlantico, e forse le notizie avrebbero potuto
spaventare la signora Collyer, ma la cena era stata troppo pesante, quella sera, perciò ella
si accontentò di chiedere al marito se ci fosse del panico, e, avutane risposta negativa, si
adagiò nella cuccetta. Anche John Jacob Astor sembrava rimasto imperturbato.
Ritornando nel proprio appartamento, dopo essere uscito per accertarsi dello stato delle
cose, spiegò alla moglie che la nave aveva urtato un blocco di ghiaccio, ma che la cosa
non appariva preoccupante. Era tranquillissimo, ragione per cui la signora Astor non si
allarmò per nulla.
Madeleine Talmage Astor, seconda moglie di JJ Astor, si salvò dalla tragedia del Titanic
riuscendo a salire su una scialuppa
La cabina B-58
Quella sera i problemi erano dei più banali: la cucina del ristorante... l’intonaco troppo
scuro sulla passeggiata.. troppe viti nei ganci per appendere i cappelli. C'era il progetto di
modificare parte della sala di scrittura, ricavandone due cabine in più. La sala di scrittura
era stata in origine concepita come un luogo ove le signore potessero ritirarsi dopo cena.
Ma si era ormai nel ventesimo secolo, e le signore non si isolavano più; una sala più
piccola sarebbe stata sufficiente. Immerso nei suoi studi, Andrews avvertì appena la
scossa, e alzò gli occhi dalle cianografie solo quando ricevette il messaggio del capitano
Smith che lo chiamava sul ponte. In pochi minuti Andrews e il comandante fecero il loro
giro. Scesero per la scala dell'equipaggio per non attirare troppo l'attenzione dei
passeggeri, lungo il labirinto di corridoi molto più in basso, raggiunsero il punto in cui
l'acqua irrompeva nell'ufficio postale, oltrepassarono il campo del tennis-squash dove
l'acqua lambiva la linea della rete. Nel percorso di ritorno verso il ponte di comando
attraversarono il foyer del ponte A, ancora affollato di passeggeri. Tutti cercavano di
cogliere sul volto dei due uomini qualche indizio, buono o cattivo. Ma la loro
espressione era impenetrabile. Gli altri membri dell'equipaggio non furono tutti
altrettanto cauti. Quando la signora Harper della D-60 chiese al dottor O'Loughlin di
convincere suo marito, ammalato, a rimanere a letto, il vecchio medico esclamò: «A
quanto dicono, i bauli stanno galleggiando nella stiva; forse è meglio che andiate sul
ponte.» Nella C-5 una giovane dama di compagnia di nome Elizabeth Shutes sedeva con
la fanciulla che le era stata affidata, la diciannovenne Margaret Graham. Vedendo un
ufficiale passare davanti alla porta della cabina, la signorina Shutes gli domandò se c'era
pericolo. La risposta pronunciata in tono allegro fu negativa, ma la signorina lo udì dire,
pochi metri più oltre: «Riusciremo a trattenere l'acqua ancora per poco.» La signorina
Shutes guardò Margaret che stava sbocconcellando una tartina di pollo: le mani della
ragazza tremavano tanto che la carne cadeva fuori dal pane. Nessuno faceva domande
lungo il corridoio di servizio del ponte E. Quell'ampio corridoio era la via di
comunicazione più diretta tra un'estremità e l'altra della nave; gli ufficiali lo chiamavano
«Park Lane», i marinai «Scotland Road». In quel momento era affollato di gente che
cercava, per quanto possibile, di aprirsi un passaggio. Alcuni erano fuochisti, costretti a
uscire dalla sala caldaie numero 6, ma la maggioranza era costituita da passeggeri di terza
classe che si facevano lentamente strada verso poppa, portando scatole, valigie e perfino
bauli. Non era certo necessario annunciar loro che c'era stato un sinistro. I passeggeri
delle cuccette in basso, a dritta, non avevano avvertito l'urto come una «debole scossa di
striscio», ma come un «tremendo fracasso» che li aveva fatti balzare dal letto. La signora
Celiney Yasbeck, sposa da cinquanta giorni, era corsa nel corridoio con il marito. Non
era necessario spingersi sul ponte per sapere cosa fosse successo; bastava guardare verso
il basso. Indossando gli indumenti da notte, si recarono fino alla porta che dava nella sala
macchine e si fermarono a guardare. I macchinisti lottavano per tamponare la falla e per
mettere in moto le pompe. Gli Yasbeck non ebbero bisogno di guardar due volte, e
ritornarono di corsa alla loro cabina per vestirsi. Molto più in alto, sul ponte A, il
passeggero di seconda classe Lawrence Beesley notò un fatto strano. Nello scendere per
fare un controllo nella propria cabina, ebbe la netta impressione che le scale «non
fossero del tutto a posto». Sembravano normali, eppure i piedi non si appoggiavano
come avrebbero dovuto. Per una ragione che gli sfuggiva, non si trovavano nel giusto
equilibrio, come se i gradini fossero inclinati all'ingiù, verso la prua. Se ne accorse anche
il maggiore Peuchen; mentre si trovava con il signor Hays all'estremità più avanzata del
ponte A, e guardava sotto di se i passeggeri di terza classe che giocavano con dei pezzi di
ghiaccio, ebbe l'impressione che il ponte fosse leggermente inclinato. «Mi sembra che
stiamo sbandando!» esclamò rivolto a Hays. «Non dovrebbe esser così. Il mare è
perfettamente calmo e la nave è ferma.»
«Non lo so,» rispose il signor Hays placidamente, «questa nave non può certo
affondare.» Altri passeggeri si accorsero dell'inclinazione in avanti, ma parve loro di
cattivo gusto sottolineare la cosa. Nella sala caldaie numero 5, il fuochista Barrett decise
di non dire nulla ai macchinisti che lavoravano alle pompe. Più in alto, nel foyer del
ponte A, il colonnello Gracie e Clinch Smith ebbero la stessa sensazione. Sul ponte di
comando lo sbandometro indicava che il Titanic si era leggermente appruato e sbandava
di 5° sulla sinistra. Andrews e il capitano Smith stavano buttando giù qualche cifra.
Acqua nel gavone di prua... stiva numero 1... stiva numero 2... sala posta... sala caldaie
numero 6... sala caldaie numero 5. Nei primi dieci minuti l'acqua aveva raggiunto
ovunque i quattro metri sul livello della chiglia ad eccezione della sala caldaie numero 5.
In sintesi, i fatti erano questi: uno squarcio di circa cento metri, e il totale allagamento dei
primi cinque compartimenti a partire dalla prua. Le conseguenze? Andrews fu esplicito.
Il Titanic poteva galleggiare anche con due dei sedici compartimenti stagni allagati;
poteva sostenersi con tre dei primi cinque compartimenti allagati, e anche con quattro.
Ma in nessun modo poteva restare a galla con tutti i primi cinque compartimenti allagati.
La paratia tra il quinto e il sesto compartimento arrivava soltanto fino al ponte E. Con i
primi cinque compartimenti pieni d'acqua, la prua affondava tanto da permettere
all'acqua di traboccare dal quinto compartimento al sesto. Colmato questo, sarebbe
traboccata ancora, e così via. Era una cosa molto semplice, assolutamente certa; non
c'era niente da fare. Era un colpo gravissimo. Il Titanic era definito inaffondabile, e non
solo negli opuscoli turistici. La quotatissima rivista tecnica Shipbuilder descriveva il suo
sistema a compartimenti stagni in un numero speciale del 1911, in questi termini: «Il
capitano può, semplicemente azionando un interruttore elettrico, chiudere
istantaneamente tutte le porte e rendere la nave praticamente inaffondabile.» Ora, tutti
gli interruttori erano stati fatti scattare, ma Andrews dichiarò che la situazione non
cambiava. Era doloroso ammetterlo, soprattutto per il capitano Smith. Aveva ormai
passato i cinquantanove anni, ed avrebbe dovuto ritirarsi dopo quel viaggio. Avrebbe
anche potuto farlo prima, ma era tradizione che fosse lui a comandare le navi della White
Star nei loro viaggi inaugurali. Solo sei anni prima, in occasione del suo primo viaggio
con l'Adrietic, aveva osservato: «Non riesco a immaginare un incidente che possa causare
l'affondamento di una nave. Non posso nemmeno concepire un disastro per questo
piroscafo. La tecnica di costruzione delle navi oggigiorno ci permette di abbandonare
simili preoccupazioni.» Ora Smith si trovava sul ponte di comando di un transatlantico
due volte più grande e due volte più sicuro, e il costruttore gli dichiarava che non
avrebbe potuto continuare a galleggiare. A mezzanotte e cinque, venticinque minuti
dopo quella scossa violenta, il capitano Smith ordinò al comandante in seconda Wilde di
togliere le cappe alle lance di salvataggio, al primo ufficiale Murdoch di radunare i
passeggeri, al sesto ufficiale Moody di munirsi della lista dei posti sulle lance, al quarto
ufficiale Boxhall di svegliare il secondo ufficiale Lightoller e il terzo ufficiale Pitman. Il
comandante stesso avanzò poi di circa venti metri lungo il ponte delle informazioni,
verso la cabina radiotelegrafica. Il primo operatore John George Phillips e il secondo,
Harold Bride, evidentemente non si erano resi conto di quanto stava accadendo.
Avevano avuto una giornata dura. Nel 1912 la radio era una cosa nuova e poco sicura; la
portata delle trasmittenti era assai limitata, i telegrafisti inesperti e i segnali difficili da
captare. C'erano molte interferenze, un continuo picchiettare e trasmettere
comunicazioni private di dubbia utilità. I passeggeri erano affascinati dal nuovo
miracolo, e non potevano resistere alla tentazione di inviare messaggi agli amici che si
trovavano a casa o su altre navi. Nel corso di quella domenica c'era stato un cumulo di
messaggi tale da logorare i nervi di qualsiasi operatore che lavorasse quattordici ore al
giorno per trenta dollari al mese. E Phillips non era un'eccezione. Un'ora prima, proprio
quando era finalmente riuscito a mettersi in contatto con Capo Race, il Californian si era
intromesso dando notizie sugli iceberg. Il segnale era così vicino da assordarlo. Nessuna
meraviglia quindi che egli urlasse di rimando: «Chiudete! Chiudete! Sono occupato. Sto
parlando con Capo Race.» Era stata una giornata così dura, che il secondo telegrafista
Bride aveva deciso di sostituire Phillips a mezzanotte, anche se il suo turno cominciava
solo alle due. Si era alzato alle undici e cinquantacinque circa, e si era rasato dietro la
tenda verde che separava il suo alloggio dal cosiddetto «ufficio». Domandò a Phillips
come andavano le cose. Il primo telegrafista gli rispose che aveva finito di parlare con
Capo Race. Bride tornò alla sua cuccetta e si tolse il pigiama, mentre Phillips gli gridava
che la nave doveva avere subìto qualche avaria e che probabilmente sarebbero rientrati a
Belfast. In due minuti Bride fu pronto, e si mise la cuffia. Phillips non era ancora
scomparso dietro la tenda verde quando entrò il capitano Smith: «Siamo entrati in
collisione con un iceberg. Ho ordinato un'ispezione per rilevare i danni. Tenetevi pronti
per una chiamata di soccorso, ma aspettate i miei ordini.» Si allontanò, ma rientrò pochi
minuti dopo. Mise dentro soltanto la testa e ordinò: «Fate la chiamata di soccorso.»
Phillips era già tornato al posto di lavoro. Domandò al comandante se dovesse lanciare il
segnale regolamentare, e Smith confermò: «Si, immediatamente!» Tese a Phillips un
foglio di carta su cui aveva segnato la posizione del Titanic. Phillips prese la cuffia da
Bride e a mezzanotte e cinque cominciò a trasmettere le lettere «CQD» - che a
quell'epoca erano la sigla internazionale di soccorso - seguite da «MGY», le lettere
distintive del Titanic. Ripetutamente, per più di sei volte, il segnale corse nella fredda
notte azzurra dell'Atlantico. A dieci miglia di distanza, il terzo ufficiale Groves del
Californian sedeva sulla cuccetta del telegrafista Cyril F. Evans. Groves era giovane,
attento e sempre interessato a ciò che accadeva nel mondo. Terminato il lavoro, faceva
molto volentieri una visita a Evans per avere le ultime notizie, ed anche per divertirsi con
l'apparecchio. Quest'abitudine piaceva anche a Evans. Non erano molti gli ufficiali dei
transatlantici di terza classe che si interessassero del mondo esterno, e meno ancora che
si occupassero della telegrafia senza fili. Sul Californian non c'era che Groves, e perciò
era sempre lieto di ricevere le sue visite. Ma non quella notte. La giornata era stata dura,
e non c'era un altro telegrafista che lo sostituisse. Oltre a questo, lo avevano trattato
male, quando, verso le undici, aveva tentato di mettersi in contatto con il Titanic per
comunicargli che il Californian era bloccato dai ghiacci. Per questi motivi, quella notte si
era ritirato alle undici e mezzo, appena finito. il suo turno. Stanco morto, non desiderava
parlare con nessuno. Groves fece un coraggioso tentativo: «Che nave hai captato?»
«Solamente il Titanic.» Evans non si preoccupò neppure di alzare gli occhi dal giornale
che stava leggendo. Non era una novità per Groves. Ricordò che quando aveva
segnalato al capitano Lord la presenza dello strano transatlantico che si era fermato nelle
loro vicinanze, il comandante aveva risposto: «Dev'essere il Titanic nel suo viaggio
inaugurale.» Cercando qualcosa di più interessante, Groves si mise la cuffia. Riusciva a
cavarsela abbastanza bene quando il messaggio non era troppo complesso, ma
conosceva poco il meccanismo. Quello del Californian aveva un rivelatore magnetico
che funzionava a orologeria. Groves non lo mise in azione, e così non udì nulla.
Rinunciò, appoggiò la cuffia sul tavolo e scese per trovare una compagnia più divertente.
Era appena passata mezzanotte e un quarto.
Nemmeno Dio potrebbe affondare questa nave La porta dell'alloggio del cuoco si aprì
rumorosamente. sbattendo contro la cuccetta dell'aiuto fornaio Charles Burgess che si
svegliò di soprassalto e sgranò gli occhi sul secondo cameriere George Dodd, in piedi
sulla soglia. Dodd, che di solito era allegro e gioviale, appariva molto serio mentre
gridava: «Alzatevi ragazzi, stiamo affondando!» Dodd corse verso gli alloggi del
personale, dove il cameriere di sala William Moss cercava di far alzare i compagni.
Stavano ridendo e scherzando quando Dodd irruppe nella cabina gridando: «Tutti in
coperta! Nessuno rimanga qui!» Proseguì con Moss verso gli alloggi dei camerieri. Sulla
porta l'inserviente della sala fumatori Witter stava già ricevendo le gravi notizie dal
carpentiere Hutchinson: «Il locale della posta è pieno d'acqua.» Arrivò Moss e aggiunse:
«E una cosa molto seria, Jim.» Le grida che avevano accolto la notizia cessarono subito,
mentre tutti si buttavano fuori dalle cuccette. Ancora mezzo addormentato, il fornaio
Burgess infilò i pantaloni e una camicia, ma non si mise il salvagente. Walter Belford
indossò il suo camice bianco da lavoro e i pantaloni. Il cameriere Ray impiegò più
tempo: non era preoccupato, tuttavia si accorse di aver indossato gli abiti borghesi. Il
cameriere Witter, già vestito, aprì il baule e si riempì le tasche di sigarette... prese un
portafortuna che portava sempre con sé... poi raggiunse gli uomini che si affollavano
lungo i corridoi verso le scialuppe. In un'altra zona della nave, lontano da quella
confusione, il fuochista Samuel Hemming ritornò nella sua cuccetta, soddisfatto che il
sibilo nel gavone di prua non significasse nulla di grave. Stava per riaddormentarsi,
quando il falegname si affacciò alla porta dicendo: «Se fossi in te uscirei. Stiamo facendo
acqua all'uno, al due e al tre e il locale del tennis-squash si sta riempiendo.» Un attimo
dopo apparve il nostromo: «Andatevene di qui, ragazzi. Ci rimane un'ora. Lo ha detto il
signor Andrews, ma tenete la bocca chiusa e non ditelo a nessuno.» Nessuno certamente,
nella sala fumatori di prima classe, era al corrente dei fatti. La partita di bridge era stata
ripresa con accanimento. Il tenente Steffanson non aveva ancora finito di sorseggiare la
limonata calda e i giocatori stavano iniziando un'altra mano, quando un ufficiale apparve
improvvisamente sulla porta: «Signori, indossate il salvagente. Siamo in difficoltà.» Nella
sua cabina sul ponte A, la signora Dodge era a letto, in attesa che il marito, assessore a
San Francisco, tornasse con delle notizie precise. La porta si aprì ed egli entrò
calmissimo: «Ruth, l'incidente è piuttosto serio. E meglio che tu salga in coperta
immediatamente.» Due ponti più sotto, la signora Smith - stanca di aspettare che il
marito finisse la sua esplorazione - si era coricata di nuovo. Improvvisamente la luce si
accese, ed ella lo vide, sorridente, in piedi, vicino al letto. «Ci troviamo molto a nord") le
spiegò-con voce tranquilla, «ed abbiamo urtato contro un iceberg. Non si tratta di cosa
molto grave, ma probabilmente ritarderà il nostro arrivo a New York di un giorno o due.
Comunque, per maggior prudenza, il comandante desidera che tutte le signore si
riuniscano in coperta.» Tutto si svolse così, senza campane, nè sirene. Nessun allarme
generale; però, in un modo o nell'altro, la voce si sparse per tutto il Titanic. La situazione
apparve molto confusa a Marshall Drew, di otto anni. Quando sua zia, la signora Drew,
lo svegliò e gli disse che doveva portarlo sul ponte, il bimbo cascava dal sonno e
protestò che non voleva salire, ma la zia non gli prestò attenzione. Egualmente perplesso
rimase il maggiore Arthur Peuchen, nonostante il suo giro d'ispezione per osservare il
ghiaccio. Ebbe la notizia mentre saliva lo scalone principale, e gli parve incredibile.
Profondamente colpito, ritornò in cabina per infilarsi qualche cosa di più caldo dell'abito
da sera. A molti passeggeri la notizia venne data dal personale di cabina. John Hardy,
capo cameriere della seconda classe, svegliò personalmente i passeggeri di una ventina di
cabine. Spalancava le porte una dopo l'altra gridando: «Tutti sul ponte con il salvagente!
Subito!» Nella prima classe venivano usati sistemi più gentili. A quell'epoca, un cameriere
di un transatlantico di lusso era incaricato del servizio in sole otto o nove cabine, ed
aveva tutto il tempo di accudire a tutti i passeggeri che gli erano stati affidati. Il cameriere
Alfred Crawford era un tipico rappresentante della sua categoria.
Benjamin Guggenheim si trovò sul Titanic in seguito ad un guasto ad un'altra nave. Passò alla
storia per una famosa affermazione: "Ho indossato l'abito migliore e sono pronto ad andare a
fondo da gentiluomo"
Da trentun anni trattava con i passeggeri più difficili, e seppe quindi benissimo come
persuadere il vecchio Albert Stewart a indossare un salvagente. Poi si inchinò e allacciò le
scarpe al vecchio gentiluomo. Nella C-89 il cameriere Andrew Cunningham aiutò
William T. Stead a indossare il salvagente, mentre il grande editore brontolava che era
tutta una faccenda senza senso. Nella B-84 l'inserviente Henry Samuel Etches si
affannava, come un sarto scrupoloso, per mettere il salvagente a Benjamin Guggenheim.
«Mi fa male,» protestava il re delle miniere e delle fonderie. Etches a un certo punto gli
sfilò il salvagente, lo regolò meglio e glielo rimise. Guggenheim insistette per andare in
coperta così come si trovava, ma Etches fu irremovibile: il freddo era troppo intenso.
Infine, Guggenheim cedette e Etches gli fece indossare anche un pesante maglione e gli
ingiunse di salire sul ponte. Alcuni passeggeri erano ancora più difficili. Alla C-78 Etches
trovò la porta chiusa. Quando bussò energicamente, con ambedue le mani, una voce
d'uomo dall'interno chiese con sospetto: «Che c'è?» e una voce di donna aggiunse:
«Diteci che cosa è successo.» Etches comunicò la notizia e tentò ancora di farsi aprire la
porta, ma invano. Dopo aver insistito per qualche minuto, decise di passare alla cabina
successiva. In un'altra zona della nave, un'altra porta chiusa sollevò un problema d'altro
genere. Si era bloccata, e alcuni passeggeri dovettero abbatterla per liberare un uomo
rimasto prigioniero all'interno. In quel momento arrivò un cameriere che minacciò di
farli arrestare tutti, non appena il Titanic avesse raggiunto New York, per aver
danneggiato una proprietà della compagnia. A mezzanotte e un quarto era difficile capire
se tutto fosse uno scherzo o una cosa seria, e se chi avesse abbattuto una porta sarebbe
stato considerato un eroe o punito con l'arresto. Non c'erano due persone che reagissero
nello stesso modo. La moglie di Arthur Ryerson pensò che non c'era un attimo da
perdere. Aveva ormai abbandonato l'idea di lasciar dormire il marito, e si preoccupava
invece di tenere unita la famiglia. Erano in sei: il marito, tre bambini, la governante e la
cameriera. E i piccoli sembravano così lenti! Alla fine rinunciò a preparare l'ultima
bimba: le gettò una pelliccia sopra la vestaglia e le ordinò di muoversi. Alla signora Smith
sembrava invece di avere tutto il tempo possibile. Si vestì lentamente e con grande cura,
preparandosi per ogni evenienza: un pesante abito di lana, scarpe alte, due soprabiti e un
caldo scialle a maglia. Nel frattempo il signor Smith continuò a parlare dell'approdo a
New York e del fatto che avrebbe preso il treno per il Sud, senza mai accennare
all'iceberg. Mentre stavano per salire sul ponte, la signora Smith decise di tornare a
prendere qualche gioiello. Ma il marito intervenne, dichiarando che sarebbe stato più
saggio non preoccuparsi di certe «sciocchezze». La signora si limitò a prendere i suoi due
anelli preferiti. Dopo aver chiuso accuratamente la porta dietro di sè, la giovane coppia si
avviò verso il ponte lance. Qualche metro più indietro stavano giungendo la contessa di
Rothes e sua cugina Gladys Cherry. Non riuscivano a infilarsi il salvagente, e un signore
che passava si fermò ad aiutarle. Per colmo di cortesia, porse loro un grappolo d'uva. Gli
oggetti che i vari passeggeri presero con sè rivelavano il loro modo di sentire. Adolf
Dyker porse alla moglie un sacchetto contenente due orologi d'oro, due anelli di brillanti,
una collana di zaffiri e duecento corone svedesi. La signorina Edith Russell portò con sè
un carillon a forma di maialino. Stewart Collett, un giovane studente in teologia che
viaggiava in seconda classe, prese la Bibbia che aveva promesso al fratello di portare
sempre con sè fino a che non si fossero rivisti. Lawrence Beesley si cacciò nelle tasche
della giacca due libri che soleva leggere prima di addormentarsi, e Norman Campbell
Chambers una rivoltella e una bussola. Il cameriere Johnson, prevedendo qualcosa di
assai più serio di un semplice ritorno a Belfast", si infilò quattro arance sotto la camicia.
La signora Bishop abbandonò undicimila dollari di gioielli, ma rimandò indietro il marito
a prenderle il manicotto. Il maggiore Arthur Peuchen osservò la scatola di metallo sul
tavolo nella C-104. Conteneva duecentomila dollari in titoli e centomila in azioni
privilegiate. Continuò a pensare ad essa mentre si toglieva lo smoking e indossava
qualche cosa di pesante. Infine gettò uno sguardo d'insieme alla piccola cabina: il letto
d'ottone... la reticella verde tesa lungo il muro per contenere qualche oggetto durante la
notte... il lavabo di marmo... la poltrona di vimini... il divano... il ventilatore sul soffitto...
i campanelli e gli interruttori che su un transatlantico sembrano sempre installati
all'ultimo momento. Aveva ormai deciso: chiuse la porta, abbandonando sul tavolo la
scatola. Dopo un istante ritornò per prendere una spilla portafortuna e tre arance.
Nell'andarsene osservò ancora per l'ultima volta la scatola di metallo sul tavolo. Fuori,
nel foyer del ponte C, il commissario di bordo Herbert McElroy esortava tutti a non
affollarsi lì attorno. Si rivolse alla contessa di Rothes mentre passava, e le disse: «Fate
presto, signora, non c'è tempo da perdere. Sono lieto che, a differenza di molte altre
signore, non mi abbiate chiesto i vostri gioielli.» Tutti si riversavano nei saloni, sospinti
cortesemente dall'equipaggio. Un cameriere di cabina incontrò lo sguardo della signorina
Marguerite Frolicher mentre si affrettava lungo il corridoio. Quattro giorni prima lo
aveva preso scherzosamente in giro per averle portato in cabina un salvagente. La nave
non era forse inaffondabile? Si era limitato a sorridere, assicurandole che si trattava solo
di una formalità... Non le sarebbe mai accaduto di doverlo indossare. Ricordando
quell'episodio, il cameriere sorrise alla signorina Frolicher e la rassicurò: «Non abbiate
paura, va tutto bene.»
«Non ho paura,» rispose la signorina, «soltanto ho il mal di mare.» Si riunirono tutti
sulle scale, una folla silenziosa in fila disordinata. Oltre al soprabito, Jack Thayer
indossava un comodo abito di tweed con tanto di panciotto, sotto al quale s'era infilato
un maglione di lana. Il signor Robert Daniel, banchiere di Filadelfia, aveva indosso solo
un pigiama di lana. La signorina Turrell Cavendish portava un soprabito suo e uno del
marito... La moglie di John C. Hogeboom una pelliccia infilata sopra la vestaglia... La
signora Ada Clark la vestaglia soltanto. La moglie di Washington Lodge non si era
neppure preoccupata di infilarsi le calze, e i suoi stivaletti erano aperti: non si era fermata
ad abbottonarli. La signora Astor, in abito leggero, e la moglie di James J. Brown (una
simpatica milionaria di Denver) in un completo di velluto nero con le finiture di seta
bianca e nera, apparivano elegantissime. L'automobilismo, come era praticato nel
millenovecentododici, richiamava l'attenzione di molte signore dell'epoca: la moglie di C.
E. Henry Stengel portava un velo saldamente appuntato sul largo cappello, e Madame de
Villiers s'era infilato sulla vestaglia un lungo soprabito di lana per gite in auto, e calzava
ancora le pantofole. Il signor Alfred von Drachstedt, un giovane ventiduenne di Colonia,
infilò un maglione ed un paio di pantaloni, e abbandonò così un completo guardaroba
nuovissimo da duemila dollari, comprendente un bastone da passeggio e perfino una
penna stilografica, oggetto che egli considerava uno speciale segno di distinzione. In
seconda classe regnava un disordine meno elegante. I coniugi Caldwell - di ritorno dal
Siam, dove avevano insegnato al Collegio Cristiano di Bangkok - avevano comperato
degli abiti nuovi a Londra, ma quella notte indossavano i loro vestiti più vecchi. Il loro
figlio Alden era avvolto in una coperta. La signorina Elizabeth Nye indossava una
semplice gonna e un soprabito, e calzava le pantofole. La signora Charlotte Collyer non
si era preoccupata di acconciarsi i capelli, limitandosi a legarli con un nastro. Sua figlia
Marjory, di otto anni, aveva una coperta avvolta attorno alle spalle. Il signor Collyer non
badò molto al proprio abbigliamento, giacchè contava di poter tornare presto in cabina;
aveva perfino lasciato l'orologio sul cuscino. In terza classe c'era molta confusione. La
White Star Line sistemava gli uomini e le donne in alloggiamenti separati e disposti alle
estremità opposte della nave. In quel momento, quindi, molti uomini che dormivano a
prua si affrettavano verso poppa per raggiungere le loro mogli. Katherine Gilnagh, una
inglesina di appena sedici anni, udì bussare con insistenza. Era il giovane che quel giorno
l'aveva osservata, mentre suonavano le cornamuse sul ponte: la invitò ad alzarsi,
dicendole che qualche cosa sulla nave non andava. Anna Sjoblom, una diciottenne
finlandese diretta a nord-ovest, sulla costa del Pacifico, si alzò quando un giovane danese
innamorato venne a svegliare la sua compagna di cabina. Egli diede un salvagente anche
ad Anna, esortandola a far presto. Ma la ragazza soffriva troppo il mare per
preoccuparsene. A un certo punto, però, la confusione raggiunse un tale diapason che
Anna decise di alzarsi anche se si sentiva ancora molto male. Alfred Wicklund, un
compagno di scuola che l'accompagnava, l'aiutò subito a indossare il salvagente. Tra i
giovanotti, Olaus Abelseth, un norvegese di ventisei anni diretto nel Sud Dakota
sembrava particolarmente preoccupato. Vecchi amici di famiglia gli avevano affidato la
loro figliola di sedici anni, perchè l'accompagnasse fino a Minneapolis. Mentre si dirigeva
a poppa, lungo il ponte E, Minneapolis gli appariva molto, molto lontana Abelseth trovò
la ragazza nel salone di terza classe, sul ponte E. Assieme al cognato, al cugino e a
un'altra ragazza salirono l'ampia e rigida scala di terza classe che conduceva sul ponte
superiore, a poppa estrema. Nella notte gelida, la folla si riuniva automaticamente nella
propria classe, raggruppandosi sui rispettivi ponti: la prima classe al centro della nave, la
seconda più a poppa, la terza alla estrema poppa, o in coperta, a prua. I passeggeri
aspettavano calmi gli ordini che sarebbero arrivati... Erano tutti abbastanza fiduciosi,
anche se un po' preoccupati. Osservavano l'aspetto dei compagni col salvagente,
piuttosto divertiti. Qualcuno azzardò una frase spiritosa. "Ma bene!" esclamò Clinch
Smith vedendo arrivare una ragazza con in braccio un cagnolino di Pomerania. «Vedo
che dovremo anche esercitarci nel salvataggio dei cani.»
«Provatelo senz'altro!» disse un tale alla signora Vera Dick mentre indossava il
salvagente. «E l'ultimo grido della moda in questa stagione. Vedete che ormai lo
indossiamo tutti!»
«Anche se non dovrete usarlo, vi terrà calda!» commentò scherzosamente il capitano
Smith, rivolgendosi alla signora Compton di New Orleans. Era circa mezzanotte e
mezza quando il colonnello Gracie incontrò Fred Wright, il maestro di tennis-squash di
bordo. Ricordando di aver prenotato il campo per le sette e trenta della mattina
seguente, Gracie cercò di far dello spirito: «Non sarebbe meglio annullare
l'appuntamento?» «Certamente,» rispose Wright, ma la sua voce era priva di entusiasmo:
sapeva che l'acqua aveva ormai raggiunto il soffitto del campo di tennis-squash.
John Jacob Astor prende il treno che lo porterà al Titanic per il suo viaggio inaugurale: 10
aprile 1912
Quando la signora White salì sul numero 8, un amico commentò: «Quando tornerete,
ci vorrà un lasciapassare Non potrete farne a meno, domattina!» Al deciso rifiuto della
signora Constance Willard di entrare nella scialuppa, un ufficiale, esasperato, scattò:
«Non perdiamo tempo, lasciatela stare se non vuole salire!» Tutto questo si svolgeva con
tanto di accompagnamento musicale. Il maestro dell'orchestrina, Wallace Henry Hartley,
aveva riunito i suoi uomini che stavano ora eseguendo un ritmo sincopato. Dapprima si
sistemarono nel salone di prima classe, dove molti passeggeri attendevano che venisse
dato l'ordine di abbassare le scialuppe. In seguito, si spostarono sul ponte lance, verso
prua, vicino all'ingresso della grande scala. I musicisti apparivano un po' in disordine;
alcuni indossavano la giacca blu, altri la giacca bianca, ma la loro musica era, come
sempre, perfetta. La White Star Line aveva fatto il possibile per scritturare la migliore
orchestra dell'Atlantico, ed aveva portato via il direttore Hartley al Mauretania. Il pianista
Theodore Brailey e il violoncellista Roger Bricoux erano stati facilmente sottratti al
Carpazia. «Caro il nostro cameriere,» avevano detto allegramente a Robert Vaughan, che
li serviva sulla piccola nave della Cunard. «Saremo presto su una nave decente dove
serviranno pasti mangiabili.» Il contrabbassista Fred Clark era al suo primo imbarco, ma
era molto conosciuto e la White Star se l'era accaparrato con uno stipendio più alto. Il
primo violino Jock Hume non aveva ancora dato dei concerti, ma il suo archetto aveva
una cavata gaia che sembrava piacere molto ai passeggeri. Così gli otto musicisti, che
sapevano il fatto loro, suonavano quella notte dei motivi vivaci ed allegri. A dritta le
operazioni erano un po' più spedite, ma non abbastanza per il presidente Ismay, che
correva avanti e indietro, esortando gli uomini a far presto: «Non c'è tempo da perdere,»
gridò al terzo ufficiale Pitman che lavorava attorno alla scialuppa 5. Pitman lo ignorò.
Non conosceva Ismay e non aveva tempo per uno sconosciuto in pantofole. Ismay
ordinò di caricare la scialuppa con le donne e i bambini. Era troppo per Pitman:
«Aspetto gli ordini del comandante,» gridò. Ad un tratto gli venne un sospetto circa
l'identità dello sconosciuto Scivolò lungo il ponte, espresse il suo sospetto al capitano e
gli chiese se doveva fare ciò che Ismay desiderava. Smith rispose con un brusco:
«Procedete all'imbarco.» Ritornando al numero 5 Pitman vi saltò dentro e gridò: «,Avanti
le donne!» La Signora Catherine Crosby e sua figlia Harriet furono spinte nella scialuppa
con decisione dal rispettivo marito e padre, il capitano Edward Gifford Crosby, vecchio
lupo dei grandi laghi. Il capitano Crosby aveva un sesto senso negli incidenti. Subito
dopo l'urto, aveva dichiarato alla moglie: «Credo che sia la nostra ora!» Più tardi aveva
aggiunto: «La nave è seriamente danneggiata, ma forse i compartimenti stagni
resisteranno.» Ora sapeva che ogni speranza era inutile. Lentamente l'imbarco
procedeva: la signorina Helen Ostby... La signora Darren... la signora Dodge e il suo
bimbo di cinque anni... una giovane cameriera. Quando le altre donne si rifiutarono di
salire sulla scialuppa da sole, venne il turno di qualche coppia. Poi qualche uomo. Quella
era la regola a dritta: prima le donne e i bambini, poi, se c'era ancora posto, gli uomini. A
poppa, il primo ufficiale Murdoch, che aveva il comando a dritta, incontrava le stesse
difficoltà con la scialuppa numero 7. La diva Dorothy Gibson salì seguita dalla madre,
poi esse riuscirono a persuadere i compagni di bridge di quella sera, William Sloper e
Fred Seward, a unirsi a loro. Salirono altri passeggeri fino a che nella scialuppa vi furono
diciannove o venti persone. Murdoch si rese conto che non poteva indugiare più a
lungo. A mezzanotte e quarantacinque cominciò ad abbassare il numero 7, la prima
scialuppa che toccò il mare. Poi ordinò a Pitman di occuparsi del numero 5, gli disse di
ammainare il barcarizzo, strinse la mano ad alcuni passeggeri e sorrise: «Arrivederci, e
buona fortuna.» Mentre il numero 5 si abbassava cigolando, Bruce Ismay gridava lì
vicino: «Abbassate! Abbassate!» facendo grandi gesti con un braccio e appoggiando
l'altro al paranco. «Se ve ne andrete fuori dei piedi,» esplose il quinto ufficiale Lowe che
si stava occupando del paranco, «riuscirò forse a combinare qualcosa! Volete che abbassi
più in fretta? Li farò annegare tutti!» Ismay ammutolì. Senza profferire parola si voltò e si
diresse verso il numero 3. I membri più anziani dell'equipaggio trattennero il fiato. La
reazione di Lowe era per loro l'avvenimento più drammatico che potesse accadere quella
notte. Un quinto ufficiale non insulta il presidente della Compagnia per cui viaggia senza
pagarla cara. Appena arrivati a New York, ci sarebbe stata la resa dei conti. Quasi tutti,
infatti, credevano che avrebbero raggiunto New York. Nella peggiore delle ipotesi,
sarebbero stati trasbordati su altre navi. «Peuchen,» dichiarò Charles M. Hays, quando il
maggiore cominciò a darsi da fare con le scialuppe, «questa nave resisterà ancora per
almeno otto ore. Me lo ha appena detto un vecchio lupo di mare, il signor Crosby di
Milwaukee.» Monsieur Gatti, maitre del ristorante Francese à la carte della nave, si
manteneva imperturbabile. In piedi, isolato sul ponte lance, sembrava il ritratto della
dignità, con il cappello ben calzato, una borsa in mano e una coperta da viaggio
accuratamente piegata sul braccio. I coniugi Smith e i coniugi Harper sedevano nella
palestra vicino al ponte lance, chiacchierando tranquillamente. I cavalli meccanici erano
in quel momento privi di cavalieri, dato che gli Astor se n'erano andati. E non c'era
nessuno neppure sulle biciclette fisse che i passeggeri amavano usare facendo muovere
delle frecce indicatrici rosse e blu su un grande quadrante bianco Quella sala, con gli
allegri pavimenti in linoleum a scacchi e le comode sedie di vimini, sembrava molto più
confortante del ponte lance. Era certamente più calda, e dopo tutto, che bisogno c'era di
affrettarsi? Nella sala fumatori quasi vuota, sul ponte A, quattro uomini sedevano, calmi,
attorno ad un tavolo: sembrava che Archie Butt, Clarence Moore, Frank Millet e Arthur
Ryerson volessero deliberatamente evitare la rumorosa confusione del ponte lance. Più
in basso, l'ingrassatore Thomas Ranger aveva cominciato ad arrestare i quarantacinque
ventilatori elettrici montati nella sala macchine, mentre pensava a quanti avrebbe dovuto
ripararne l'indomani. L'elettricista Alfred White, addetto alla dinamo, si stava preparando
il caffè, al suo posto di lavoro. A poppa estrema del Titanic, il timoniere George Thomas
Rowe montava ancora di guardia, solo. Non aveva visto nè udito più nulla da quando,
un'ora prima, l'iceberg era scivolato lungo la nave. Rimase stupito vedendo a un certo
momento una scialuppa di salvataggio galleggiare a tribordo. Chiamò il ponte di
comando: sapevano che c'era una barca in mare? Una voce incredula gli chiese chi fosse.
Rowe si fece riconoscere, e sul ponte di comando si resero conto di averlo dimenticato.
Gli risposero di recarsi immediatamente sul ponte portando con sè dei razzi. Rowe
raggiunse un ripostiglio sul ponte sottostante, prese una scatola di metallo con dodici
razzi e si avviò per ubbidire all'ordine: fu l'ultimo ad essere informato dell'accaduto. Gli
altri lo conoscevano fin troppo bene, ormai. Il vecchio dottor O'Loughlin sussurrò alla
cameriera Mary Sloan: «Accidenti, le cose si stanno mettendo male!» La cameriera Annie
Robinson, vicino al locale posta, guardava l'acqua salire sul ponte F, e una valigetta che
era stata abbandonata nel corridoio. In quel momento arrivò il carpentiere Hutchinson
con un filo a piombo in mano; attonito, sgomento, estremamente preoccupato. Poco
dopo, la signorina Robinson incontrò sul ponte Thomas Andrews che l'apostrofò:
«Credevo di avervi detto di mettere il salvagente! Sbrigatevi e fate in modo che i
passeggeri vi vedano. Mi sembra una trovata piuttosto misera.»
«Insomma, indossatelo... Se ci tenete alla vostra pelle, indossatelo.» Andrews aveva la
facoltà di riuscire a capire molto bene il suo prossimo. Uomo dinamico e interessante,
era ovunque, aiutando tutti, e tutti gliene erano naturalmente grati. Trattava le diverse
persone in modo diverso secondo l'opinione che ne aveva. Dichiarò al loquace cameriere
Johnson che tutto sarebbe andato per il meglio. Commentò con i coniugi Dick: «C'è
qualche guaio più in basso, ma se le paratie tengono non affonderemo.» Disse invece a
Mary Sloan, una cameriera dal carattere pratico e deciso: «La situazione è molto grave,
ma tenete per voi le cattive notizie, per non spargere il panico.» Confidò a John B.
Thayer, di cui si fidava istintivamente, che non dava alla nave «molto più di un'ora di
vita». Alcuni membri dell'equipaggio non avevano bisogno di sentirselo dire. Verso
mezzanotte e quarantacinque il marinaio scelto John Poingdestre lasciò il ponte lance per
andare a prendere un paio di stivali di gomma. Li trovò nel castello di prora, sul ponte E.
Stava per risalire, quando la parete divisoria in legno tra il suo alloggio e uno spazio
riservato alla terza classe a dritta cedette e l'acqua irruppe costringendolo a farsi strada
sommerso fino a mezzo busto. Più a poppa, il cameriere di sala Ray si recò nel suo
alloggio sul ponte E per prendere un soprabito più caldo. Ritornando passò per
«Scotland Road» dirigendosi verso la scala principale. I fuochisti e i passeggeri di terza
classe se n'erano andati. La quiete regnava lungo i corridoi di passaggio, fatta eccezione
per l'acqua, che scorreva per il corridoio proveniente da prua. Ancora più a poppa
l'assistente secondo cameriere Joseph Thomas Wheat tornò a prendere alcuni valori nella
sua cabina sul ponte F, a sinistra. Era situata vicino al bagno turco, una lunga serie di
vani arredati in uno stile ibrido tra vittoriano e alla Rodolfo Valentino. Il pavimento a
mosaico, le pareti in mattonelle verdeazzurro, le travi dorate nel nudo soffitto rosso, le
colonne in legno scolpito, tutto era ancora perfettamente asciutto. Quando però Wheat
avanzò di pochi metri lungo il corridoio e si accinse a raggiungere le scale, notò qualcosa
di strano: un sottile rivolo d'acqua scendeva lungo la scala provenendo dal ponte
superiore, il ponte E. Era molto sottile, pochi millimetri, tanto da coprirgli appena il
tacco della scarpa. Quando raggiunse il ponte E si accorse che l'acqua proveniva da
tribordo. Comprese subito come stavano le cose: l'acqua che aveva invaso il ponte F ed
era stata arrestata dalla porta stagna, aveva raggiunto il ponte E, sprovvisto di porte a
tenuta, e stava riversandosi nel compartimento successivo. La sala caldaie numero 5 era il
solo luogo in cui tutto sembrava ancora sotto controllo. Spenti i fuochi, il capofuochista
Barrett mandò quasi tutti i suoi uomini al loro posto di manovra presso le scialuppe,
mentre, con pochi altri, si fermava per aiutare i macchinisti Harvey e Shepherd alle
pompe. Per ordine di Harvey sollevò il portello sistemato nel pavimento a dritta perchè
Harvey potesse raggiungere i rubinetti di regolazione delle pompe. La sala macchine era
ancora invasa dal vapore sviluppatosi nello spegnere i fuochi. Nell'incerta luce di quel
bagno turco gli uomini continuavano a lavorare... ombre vaghe nella nebbia. A un certo
momento, Shepherd, attraversando di corsa il locale, cadde nel portello e si ruppe una
gamba. Harvey, Barrett e il fuochista George Kemish si precipitarono in suo aiuto, lo
alzarono e lo portarono nella sala pompe, un vano separato, piazzato all'estremità dalla
sala caldaie. Non era possibile in quel momento fare altro che metterlo in una posizione
comoda... e immergersi di nuovo nelle nuvole di vapore. Poco dopo, dal ponte di
comando giunse l'ordine di recarsi nelle scialuppe. Mentre gli uomini salivano, Shepherd
giaceva solo nel locale delle pompe e Barrett e Harvey continuavano a manovrare i
rubinetti; Nel quarto d'ora seguente i due uomini ripresero coraggio: il locale era ancora
asciutto, il ritmo delle pompe rapido e regolare. Improvvisamente, il mare entrò
mugghiando attraverso uno squarcio apertosi tra le caldaie, all'estremità anteriore del
locale. L'intera paratia tra il comparto numero 5 e il numero 6 cedette. Harvey gridò a
Barrett di raggiungere la scala di emergenza e questi ubbidì, mentre la spuma gli
raggiungeva i piedi. Harvey si gettò verso il locale delle pompe dove giaceva Shepherd e
stava per raggiungerlo, quando scomparve, sommerso da un torrente d'acqua. Il silenzio
nella cabina radiotelegrafica era interrotto solo dal ticchettio dell'apparecchio. Phillips
continuava a lanciare il suo segnale di soccorso e ad annotare le risposte ricevute. Bride
non aveva ancora finito di vestirsi. Fino a quel momento, le notizie erano state
incoraggianti La prima a rispondere fu la nave tedesca del Lloyd Frankfort. A
mezzanotte e diciotto trasmise un rapido «OK... veniamo», ma non diede la sua
posizione. Un minuto dopo giunsero altri segnali di risposta: la motonave Teople della
Canadian Pacific... il transatlantico Virginian dell'Allan... la nave da carico russa Burma. I
segnali si incrociavano nella notte. Le navi fuori portata ricevevano la notizia da quelle
che entravano nel loro raggio... e l'appello si sparse così in cerchi sempre più larghi. Capo
Race lo captò direttamente e lo trasmise a terra. Sulla terrazza dei magazzini Wanamaker
a New York, un giovane telegrafista di nome David Sarnoff intercettò un debole segnale
e anch'egli lo ritrasmise. Tutto il mondo rivolgeva la sua attenzione all'avvenimento. A
poca distanza dal Titanic, navigava verso sud il Carpathia ignorando completamente il
disastro. Il suo unico telegrafista, Harold Thomas Cottam, si trovava sul ponte quando
Phillips aveva lanciato il suo CQD. Ora Cottam era tornato al suo apparecchio e cercava
di darsi da fare. Sapeva il Titanic, trasmise, che Capo Race aveva dei messaggi privati per
lui? Era mezzanotte e venticinque quando Phillips ricevette quella comunicazione dal
Carpathia e l'interruppe con un secco: «Venite subito. Urtato iceberg. CQD posizione
41°46' Nord 50°14' Ovest.» Un attimo di silenzio pieno di incredulità... poi Cottam
chiese se doveva riferire al suo capitano. Phillips rispose: «Sì, immediatamente.» Altri
cinque minuti, poi la notizia consolante: il Carpathia distava solo cinquanta miglia e si
dirigeva sul Titanic a tutta forza. A mezzanotte e trentaquattro, il Frankfort, che si
trovava a centocinquanta miglia, chiamò ancora. Phillips chiese: «State venendo in nostro
aiuto? E il Frankfort: a Cosa vi succede?» Phillips: «Dite al vostro comandante di venirci
in aiuto. Abbiamo urtato un iceberg.»
Il capitano Smith entrò nella cabina del telegrafista per conoscere la situazione.
L'Olympic, la grossa nave gemella del Titanic, stava chiamando: era a cinquecento miglia
di distanza, ma aveva una trasmittente di considerevole potenza, e avrebbe potuto
svolgere un'ottima opera di collegamento. Phillips si mantenne in stretto contatto con
essa, sollecitando al tempo stesso le navi più vicine. Che segnale lanciate?» domandò
Smith. «CQD,» rispose Phillips. Bride ebbe un'idea brillante. CQD era il tradizionale
segnale di soccorso, ma una convenzione internazionale aveva da poco stabilito di usare
invece le lettere SOS - più facili da intercettare per un radioamatore. Suggerì pertanto:
«Lancia un SOS; è il nuovo segnale, e potrebbe essere per te l'ultima occasione di
usarlo.» Phillips ne rise come di uno scherzo, e cominciò a lanciare il segnale. L'orologio
nella cabina radiotelegrafica segnava mezzanotte e quarantacinque quando il Titanic
trasmise il primo SOS che fosse mai stato lanciato da un transatlantico nell'oceano.
Nessuna delle navi con le quali era stato stabilito il contatto radio dava però tanto
coraggio quanto la luce che brillava a dieci miglia a prua. Attraverso il binocolo, il quarto
ufficiale Boxhall vide chiaramente che si trattava di una nave. Ad un certo momento,
mentre tentava di stabilire il contatto con la lampada per segnalazioni luminose, gli parve
di vedere brillare una luce di risposta. Ma non riuscì a capire se lo fosse davvero, e
concluse alla fine che si trattava probabilmente del fanale dell'albero.
Messaggio telegrafico originale che riporta il segnale di emergenza lanciato dal Titanic prima
dell'affondamento
Il ponte del Titanic all'estrema poppa, fotografato durante il viaggio verso Queenstown
Il signor Gatti, il capocuoco e il suo aiutante, Paul Maugé, furono i soli a raggiungere
il ponte lance. Poterono farlo perchè indossavano abiti borghesi, e l'equipaggio li
scambiò per passeggeri. Giù nella sala macchine, nessuno pensava lontanamente a
muoversi. Gli uomini lottavano disperatamente per mantenere la pressione del vapore...
le luci accese... le pompe in azione. A poppa, nella sala caldaie numero quattro, il capo
macchinista Bell fece sollevare tutte le paratie stagne: quando l'acqua le avesse raggiunte
avrebbero potuto essere nuovamente abbassate; nel frattempo sarebbe stato più facile
spostarsi. L'ingrassatore Fred Scott tentò di liberare un compagno intrappolato nel
passaggio dietro una delle porte. L'ingrassatore Thomas Ranger arrestò finalmente
l'ultimo dei quarantacinque ventilatori: consumavano troppa energia elettrica. Thomas
Patrick Dillon aiutò a trasportare una serie di lunghi tubi dai compartimenti di poppa,
per poter accrescere la portata delle pompe di aspirazione nella sala caldaie numero
quattro. Qui il fuochista George Cavell era impegnato a spegnere i fuochi. Ne sarebbe
risultata una disponibilità ancor minore di energia; ma bisognava evitare che si
verificassero esplosioni quando il mare avesse invaso il numero quattro. All'una e venti
circa, quando aveva quasi terminato il suo lavoro, vide che l'acqua cominciava a filtrare
attraverso le lamiere del pavimento. Cavell lavorò con raddoppiata energia ma, quando
l'acqua gli arrivò alle ginocchia, non ce la fece più. Era quasi in cima alla scala di
sicurezza quando si rese conto di aver abbandonato i suoi compagni. Ridiscese, ma solo
per scoprire che anch'essi se n'erano andati. Con la coscienza tranquilla tornò alla scala e
raggiunse il ponte. La maggior parte delle scialuppe era ormai stata messa in mare. Si
allontanavano lentamente dal Titanic ad una ad una, con il lieve sciacquio dei remi che
rompevano la superficie perfettamente liscia del mare. «Non ho mai tenuto un remo in
mano, ma credo di poter remare lo stesso,» dichiarò un cameriere alla signora White,
mentre il battello numero 8 si allontanava. Gli occhi dei passeggeri di tutte le scialuppe
erano fissi sul Titanic, sugli alberi e sui quattro enormi fumaioli che si stagliavano, netti e
scuri, nella limpida notte azzurra. I ponti di passeggiata erano illuminati, le lunghe file di
oblò brillavano di luci. Dalle barche si vedevano le persone appoggiate ai parapetti, si
udivano le note dell'orchestrina nella notte tranquilla. Sembrava impossibile che qualcosa
non dovesse funzionare a dovere su quella nave; eppure, mentre molti uomini erano lì,
entro i piccoli battelli, essa era là, sbandata e appruata. Illuminata da poppa a prora,
faceva pensare a una torta di compleanno. Faticosamente, le scialuppe si allontanavano
sempre più. Quelle a cui era stato ordinato di fermarsi attendevano con i remi alzati.
Altre, che avevano ricevuto l'ordine di dirigersi verso la nave di cui si vedevano le luci in
lontananza, iniziarono il loro penoso viaggio. Quella nave sembrava così vicina che il
capitano Smith ordinò alla scialuppa numero 8 di raggiungerla, farvi salire i suoi
passeggeri e ritornare a prenderne altri. Quasi nello stesso istante chiese al timoniere
Rowe, che stava lanciando razzi, se pensava di potersi mettere in contatto con essa per
mezzo della lampada per segnalazioni luminose. Rowe rispose che forse ci sarebbe
riuscito. Il comandante ordinò allora: «Chiamate quella nave, e appena risponde
comunicatele: «Qui il Titanic, stiamo affondando, tenete pronte tutte le vostre
scialuppe.» Il tentativo era stato già fatto da Boxhall, ma Rowe voleva ritentare: così, tra
un razzo e l'altro, chiamò la nave sempre più spesso. Nessuna risposta. Ad un tratto
Rowe disse al capitano Smith che gli sembrava di aver visto un'altra luce a dritta. Il
vecchio lupo di mare puntò il binocolo e comunicò a Rowe in tono cortese che si
trattava di una stella. Lo zelo del suo giovane timoniere però gli piaceva, per cui prestò a
Rowe il binocolo affinchè potesse sincerarsene. Boxhall, nel frattempo, continuava a
lanciare razzi. Prima o poi, essi avrebbero certamente richiamato l'attenzione della nave
sconosciuta. Sul ponte del Californian il secondo ufficiale Stone e l'allievo Gibson
contavano i razzi: a mezzanotte e cinquantacinque erano cinque. Gibson tentò di nuovo
con la sua lampada per segnalazioni, e all'una alzò il binocolo per dare un'altra occhiata.
In tempo per vedere il sesto razzo. All'una e dieci Stone, col portavoce, comunicò al
capitano Lord nella sala nautica quel che stava accadendo. Questi gli chiese: «Sono
segnali di riconoscimento?»
«Non so,» rispose Stone, «mi sembrano razzi bianchi.» Il comandante gli consigliò di
ritentare con la lampada per segnalazioni luminose. Poco più tardi Stone passò il
binocolo a Gibson: a Guardatela un momento. La sua posizione mi sembra molto strana
e così pure le luci.» Gibson studiò la nave attentamente: sembrava piegata su un fianco.
Aveva, come egli disse, «un fianco quasi completamente fuori dell'acqua». Stone, in piedi
vicino a lui, notò che le luci laterali rosse di posizione erano scomparse.
Credo sia finita, Hardy Sembrava che le altre navi non capissero. All'una e venticinque
l'Olympic chiese: «Fate rotta a sud per venirci incontro?» Phillips pazientemente spiegò:
«Stiamo imbarcando le donne sulle scialuppe.» E il Frankfort: «Non ci sono altre navi
nelle vostre acque?» Phillips non rispose. Il Frankfort insisteva nel chiedere maggiori
particolari. Era troppo. Balzò in piedi, gridando: «Sentitelo, domanda che cosa ci
succede!» Rabbiosamente trasmise: «Accidenti a voi, girate al largo.» Di tanto in tanto, il
capitano Smith faceva una breve comparsa. Una volta per avvisare che l'energia
cominciava a mancare... un'altra per dire che non potevano resistere a lungo... più tardi
per annunciare che l'acqua aveva invaso la sala macchine. All'una e quarantacinque
Phillips trasmise al Carpathia: «Venite più presto che potete, ragazzi! La sala macchine è
piena fino alle caldaie.» Nel frattempo Bride gettò un soprabito sulle spalle di Phillips e
tentò poi di agganciargli il salvagente. Il problema di infilargli gli stivali era più
complesso. Phillips domandò se fosse rimasta qualche scialuppa; forse gli stivali non
sarebbero stati necessari. A un certo punto lasciò il tasto a Bride ed uscì per vedere che
cosa stava accadendo. Ritornò scuotendo il capo: «Mi sembra una situazione molto
strana.» Sembrava strana, davvero. Il mare ora ricopriva il ponte, a prua del Titanic...
lambiva i paranchi, i boccaporti, la base dell'albero... si frangeva contro la base della
bianca sovrastruttura. Il ruggito del vapore si era spento, lo snervante lancio dei razzi era
terminato. L'inclinazione del ponte si faceva sempre più sensibile e raggiungeva il suo
massimo a sinistra. All'una e quaranta circa, il comandante in seconda Wilde gridò: «Tutti
a dritta! Dobbiamo cercare di bilanciare la sbandata!» I passeggeri e l'equipaggio
ubbidirono e il Titanic riprese una posizione quasi equilibrata. Il lavoro con le scialuppe
proseguiva. Il numero 2, all'una e quarantacinque, stava per staccarsi dalla nave; il
cameriere Johnson, con le tasche piene di arance, gridò verso il ponte lance che gli
buttassero un rasoio per tagliare le funi. Il marinaio McAuliffe glielo lanciò gridando: a
Ricordati che è mio, a Southampton, e rendimelo!» McAuliffe fu probabilmente l'ultimo
uomo sul Titanic ad essere così certo di ritornare a Southampton. Il primo ufficiale
Murdoch vedeva le cose più realisticamente. Mentre camminava sul ponte col capo
cameriere Hardy della seconda classe, sospirò: «Credo sia finita, Hardy.» Non si
incontrava più alcuna difficoltà a convincere i passeggeri ad abbandonare la nave. Paul
Maugé, assistente cuoco, fece un salto di tre metri piombando in una scialuppa mentre la
stavano abbassando. Qualcuno su un ponte inferiore cercò di trascinarlo di nuovo sulla
nave, ma egli si svincolò e riuscì a salvarsi. Il passeggero di terza classe Daniel Buckley,
che era riuscito a passare per la porta scardinata e a raggiungere il ponte lance, non aveva
più speranza. Insieme a parecchi altri uomini saltò in una scialuppa e vi rimase urlando.
Quasi tutti ne furono cacciati. Buckley però era riuscito non si sa come a procurarsi uno
scialle da donna, e pregò la signora Astor di sistemarglielo addosso. Lo stratagemma
riuscì. Un altro giovanotto poco più che un ragazzo non fu altrettanto fortunato. Il
quinto ufficiale Lowe lo scoprì sotto un sedile del numero 14. Balbettava che non
avrebbe occupato molto spazio. Lowe gli puntò contro la pistola, ma questo non fece
che aumentare le suppliche del ragazzo. Il quinto ufficiale allora cambiò tattica: gli disse
di comportarsi da uomo e riuscì a farlo scendere. La signora Charlotte Collyer, che era
stata sistemata nella scialuppa con un gruppo di donne, singhiozzava, e la sua bimba
Marjory, di otto anni, si unì a quel pianto e toccò il braccio di Lowe dicendogli: «Oh,
signore, non tirate, per favore, non sparate a quel pover'uomo.» Lowe indugiò un attimo
sorridendo e annuì in modo rassicurante. Il ragazzo, comunque, era ormai fuori e giaceva
faccia a terra vicino a un mucchio di cordami. I guai nella scialuppa numero 14 però non
erano finiti. Un altro gruppo di uomini si precipitò verso la barca. Il marinaio Scarrott li
respinse con la barra del timone. Lowe puntò di nuovo la pistola e gridò: «Se qualcun
altro tenta ancora, gli sparo.» Sparò tre colpi lungo il fianco della nave, mentre la barca
cominciava a scendere verso il mare. Murdoch riusciva a fatica a frenare la folla, al
numero 15. Gridava: «State indietro! State indietro! Prima le donne!» A prua c'erano dei
guai con il canotto C, che era stato sospeso al paranco della scialuppa numero 1. Un
folto gruppo si spingeva avanti tentando di salire a bordo. Due uomini vi riuscirono. Il
commissario di bordo Herbert McElroy sparò due colpi in aria, e Murdoch gridò:
«Uscite immediatamente! Fuori dalla barca!» Hugh Woolner e Bjornstrom Steffanson,
attratti dal lampo della pistola, si precipitarono per prestare aiuto. Colpendo gli assalitori
alle braccia, alle gambe, dove capitava, essi riuscirono a liberare la barca. L'operazione di
imbarco riprese. Jack Thayer se ne stava in piedi, da un lato, insieme con Milton Long,
un suo giovane conoscente di Springfield, nel Massachusetts. Si erano incontrati per la
prima volta quella sera, dopo cena, mentre prendevano il caffè. Dopo il disastro, Long
(che viaggiava solo) si era unito alla famiglia Thayer, ma lui e Jack avevano perso di vista
i vecchi Thayer tra la folla sul ponte A. Ora erano soli a decidere sul da farsi, convinti
che il resto della famiglia se ne fosse già andato con le scialuppe. Alla fine decisero di
allontanarsi dalla scialuppa C. Con tutta quella confusione, sembrava destinata a
rovesciarsi. Ma sbagliavano. Le cose gradatamente migliorarono, e alla fine la scialuppa
fu pronta per essere calata in mare. Il comandante in seconda Wilde domandò chi
dovesse prenderne il comando. Il capitano Smith, in risposta, si volse al timoniere Rowe
(che stava ancora azionando la lampada per segnalazioni luminose) e gli ordinò di
occuparsi della scialuppa. Rowe vi saltò dentro e si preparò a farla calare. Il presidente
Bruce Ismay, in piedi lì accanto, aiutava nelle manovre per l'abbassamento. Era più
calmo di quando Lowe aveva dovuto zittirlo. Sembrava ormai un membro
dell'equipaggio del Titanic. Era un ruolo che Ismay aveva assunto di frequente, ma non il
solo. A volte preferiva quello di passeggero. Fino a quel momento, nel corso del viaggio,
era passato spesso dall'uno all'altro. A Queenstown era stato una specie di super-
capitano. Aveva comunicato al capo macchinista Bell la velocità che desiderava fosse
tenuta nelle varie fasi del viaggio, e stabilito perfino l'orario dell'arrivo a New York: il
mercoledì mattina, anzichè il martedì sera. Tutto questo senza neppure consultare il
capitano Smith. Più tardi, in mare, Ismay fu soprattutto un passeggero che godeva
dell'ottima cucina del ristorante a la carte... del tè e dei pasticcini nella sua sedia in
coperta, sulla sinistra del ponte A. Quella domenica aveva svolto il suo ruolo di membro
dell'equipaggio abbastanza per vedere un messaggio riguardante i ghiacci, giunto da
un'altra nave. Nella soleggiata e luminosa veranda delle palme, proprio mentre la
campana suonava l'ora del pranzo, il capitano Smith gli aveva passato una
comunicazione del Baltic. Nel pomeriggio Ismay (che amava ricordare agli altri la sua
posizione) l'aveva tratta di tasca per mostrarla alla signora Ryerson e alla signora Thayer.
Nella sala fumatori, prima di cena, mentre le ultime luci del tramonto illuminavano
ancora le finestre, aveva restituito il dispaccio al capitano Smith. Poi Ismay, impeccabile
nel suo smoking, aveva raggiunto il ristorante come qualunque altro passeggero di prima
classe. Dopo il disastro, tornò ad essere un membro dell'equipaggio, accanto al capitano
sul ponte... a consulto con il capo macchinista Bell... a gridare ordini per la manovra delle
scialuppe. La sua posizione, però, cambiò di nuovo. All'ultimo momento salì nella
scialuppa C, che venne calata con quarantadue persone a bordo, compreso Bruce Ismay,
uno dei tanti passeggeri. I passeggeri si comportavano in maniera assai diversa l'uno
dall'altro. William T. Stead, indipendente come sempre, sedeva da solo nella sala
fumatori di prima classe, leggendo. Il fuochista Kemish, che passava di lì, ebbe
l'impressione che avesse deciso di non muoversi, qualsiasi cosa potesse accadere. Il
reverendo Robert T. Bateman di Tacksonville. in piedi, all'aperto, seguiva con lo sguardo
sua cognata, Ada Balls, mentre saliva su una scialuppa. «Se non ci vedremo più in questo
mondo,» disse, «ci incontreremo nell'altro.» Poi, mentre la scialuppa veniva abbassata, si
tolse la cravatta e gliela gettò come ricordo. George Widener e John Thayer stavano
chini sul parapetto del ponte lance, discorrendo tranquillamente di vari argomenti.
Contrariamente a quanto il giovane Jack aveva creduto, suo padre non si trovava in salvo
su una scialuppa, e, a dire il vero, non aveva nessuna intenzione di salirvi. Poco più in là,
se ne stavano Archie Butt, Clarence Moore, Arthur Ryerson e Walter Douglas, riuniti in
gruppo, in silenzio. Il maggiore Butt se ne stava tranquillo, non era armato e non faceva
proprio niente, anche se più tardi si vantò che aveva praticamente assunto il comando.
Verso poppa, Jay Yates, descritto come un giocatore che sperava di fare qualche partita
fortunata durante il viaggio, se ne stava solo e senza amici. A una donna che entrava in
una scialuppa affìdò una pagina strappata dal suo taccuino. Firmato con uno dei suoi
pseudonimi, l'appunto diceva: «Se arrivate in salvo, informate mia sorella, la signora
Adams, di Findlay, nell'Ohio, della mia morte. J. H. Rogers.»
In tutti gli anni trascorsi insieme, ella si era talmente sacrificata che il marito
desiderava si godesse la vita almeno quando egli se ne fosse andato. Ora quelle stesse
qualità che aveva tanto ammirato rendevano impossibile il realizzarsi dei suoi ultimi
desideri. Anche le piccole cose possono ritornare insistentemente alla memoria nei
momenti più tragici. Edith Evans ricordò un indovino che una volta le aveva detto:
«Guardatevi dall'acqua!» William T. Stead era ossessionato da un sogno nel quale
qualcuno gettava dei gatti da una finestra dell'ultimo piano. Charles Hays aveva
profetizzato, solamente poche ore prima, che presto si sarebbe verificato il «più grande e
spaventoso di tutti i disastri mai avvenuti in mare». Due uomini si chiedevano perchè
mai si trovassero lì. Archie Butt non desiderava andare all'estero, ma aveva bisogno di
riposo, e Frank Millet aveva convinto il presidente Talf a far partire Butt, latore di un
messaggio per il pontefice: una missione ufficiale che gli avrebbe procurato però un
soggiorno a Roma in primavera. Anche il comandante in seconda Wilde non avrebbe
dovuto trovarsi a bordo. Era di servizio sull'Opic, ma la White Star Line all'ultimo
momento l'aveva destinato a quel viaggio. La sua esperienza era stata giudicata utile sulla
nuova nave. Wilde l'aveva considerato un eccellente cambiamento. Nella cabina
radiotelegrafica, Phillips lottava per mantenere in funzione l'apparecchio. Alle due e dieci
riuscì a lanciare ancora un segnale - captato debolissimo dal Virginian - mentre cercava
di regolare la scintilla per ottenere risultati migliori. Bride fece un ultimo giro d'ispezione.
Al ritorno, trovò ricoverata nella cabina una signora svenuta. Bride le porse una sedia e
un bicchiere d'acqua, ed ella sedette, respirando a fatica, mentre il marito le faceva vento.
Appena si sentì meglio, l'uomo la condusse via. Bride andò dietro la tenda, dove si
trovava l'alloggio suo e di Phillips, raccolse il denaro sparso, guardò un'ultima volta la sua
cuccetta in disordine e tornò nella cabina. Phillips lavorava ancora all'apparecchio,
completamente assorto. Uno stivatore, entrato nel frattempo, stava tentando di slacciare
il salvagente di Phillips. Bride gli balzò addosso e, assieme a Phillips, i tre uomini
lottarono nella cabina. Alla fine Bride allacciò alla vita lo stivatore e Phillips lo colpì fino
a che non perdette i sensi afflosciandosi nelle braccia di Bride. Un minuto dopo udirono
il mare gorgogliare sull'osteriggio del ponte A e arrivare fino al ponte di comando.
Phillips gridò: «Andiamocene da qui!» Bride abbandonò lo stivatore e i due
radiotelegrafisti si slanciarono verso il ponte lance. Lo stivatore giaceva immobile dove
era caduto. Phillips scomparve a poppa. Bride proseguì e raggiunse gli uomini che, sul
tetto degli alloggi degli ufficiali, stavano ancora tentando di liberare i canotti A e B. Era
ridicolo sistemare delle scialuppe in un posto come quello, specie poi quando ce n'erano
soltanto venti per duemiladuecentosette persone. Con il ponte così inclinato, era già
stato difficile calare in mare il C e il D, i due canotti sistemati a fianco dei paranchi
anteriori. Ma con l'A e il B era quasi impossibile riuscire. L'equipaggio, però, non si
scoraggiò. Anche se non era possibile calare le imbarcazioni correttamente, forse era
possibile gettarle in mare come galleggianti. Lightoller, Murdoch, il fuochista Hemming,
il cameriere Brown, l'ingrassatore Hurst e una decina di altri, continuavano a lavorare. A
babordo, Hemming lottava con il bozzello e il paranco del canotto. Se soltanto fosse
riuscito a superare una irregolatità della fune, avrebbe certamente potuto calarlo. Alla
fine riuscì a far scorrere i cavi e porse quindi il bozzello al sesto ufficiale Moody che si
trovava sul tetto. Moody però gridò: «Non vogliamo il bozzello, lasceremo
l'imbarcazione sul ponte.» Intanto il canotto fu spinto al limite del tetto e fatto scivolare
sui remi fin sul ponte, dove arrivò capovolto. A dritta, con l'imbarcazione A, ci furono
gli stessi guai. Qualcuno appoggiò delle tavole contro la parete degli alloggi degli ufficiali
e vi spinse la barca con la prua in basso. Ma restava loro ancora da fare molto, giacchè
l'inclinazione del Titanic verso sinistra era tale che essi non riuscivano a spingere «in su»
la barca verso il limite del ponte. Gli uomini stavano ancora trascinando i canotti,
quando, alle due e quindici, anche il ponte principale (di coperta) fu sommerso, e il mare
cominciò a scorrere verso poppa lungo il ponte lance. Il colonnello Gracie e anche
Smith si voltarono e si diressero a poppa. Dopo pochi passi furono bloccati da una folla
angosciata di uomini e di donne che arrivavano dal ponte inferiore. Sembravano tutti
passeggeri di terza classe. In quel momento il capo dell'orchestrina, Hartley, dette il
segnale con l'archetto. Il motivo jazz terminò, e le note di un inno episcopale,
«Autunno», si levarono dal ponte nella notte calma. Dalle scialuppe le donne ascoltavano
affascinate. Vista da lontano, la scena aveva qualcosa di imponente. Da vicino le cose
erano molto diverse. Gli uomini sentivano la musica, ma vi prestavano poca attenzione.
Troppe cose stavano accadendo. «Oh, salvatemi! Salvatemi!» gridò una donna a Peter
Daly, il rappresentante a Lima della ditta londinese Haes & Sons, che guardava l'acqua
irrompere sul ponte su cui si trovava. «Cara signora,» le rispose, «solo Dio può salvarvi
ormai.» Ella lo pregò di aiutarla a saltare in acqua, ed egli si rese conto che il problema
non era poi tanto semplice. Rapidamente la prese per un braccio e l'aiutò a scavalcare il
parapetto. Mentre anch'egli saltava, un'onda impetuosa raggiunse il ponte lance e lo
spazzò via dalla nave. L'acqua schiumeggiava vorticosa ai piedi del cameriere Brown
mentre sudava per trascinare il canotto A ai limiti del ponte. Ad un tratto l'uomo si rese
conto che i suoi sforzi non erano più necessari: la scialuppa ormai galleggiava. Vi saltò
dentro... tagliò i cavi... gridò che qualcuno liberasse la poppa... e un attimo dopo fu
spazzato via dalla stessa ondata che aveva trascinato Peter Daly. La prua del Titanic
continuava ad affondare, mentre la poppa si alzava sempre più. Sembrava anche
spostarsi in avanti. Era stato quel movimento a dar forza all'ondata che aveva investito
Daly, Brown e decine di altri. Lightoller vide arrivare l'ondata dal tetto degli alloggi degli
ufficiali mentre la folla sul ponte si ritirava dinanzi ad essa. Osservò i più pronti salvarsi,
mentre i più lenti venivano spazzati via senza speranza. Sapeva che quell'arretrare non
sarebbe servito che a prolungare la loro agonia. Si voltò e si buttò in acqua guardando
verso prua. Tornando a galla si vide proprio davanti la coffa, ormai al livello dell'acqua.
Seguendo un istinto cieco nuotò per un attimo verso di essa come verso un'ancora di
salvezza, poi si arrestò e tentò di nuotare in direzione opposta. Ma il mare stava
gettandosi nelle prese d'aria proprio davanti al fumaiolo anteriore, e Lightoller venne
succhiato e trattenuto contro la grata di metallo di una di esse. Pregò che tenesse,
chiedendosi quanto avrebbe potuto resistere premuto in quel modo contro la rete. Non
lo seppe mai, perchè un soffio di aria calda si cacciò nel ventilatore, provenendo da una
zona imprecisata della stiva, e lo ributtò alla superficie. A stento riuscì ad allontanarsi.
Anche Harold Bride conservò il suo sangue freddo. Passata l'ondata, si aggrappò ad uno
scalmo del canotto B che giaceva ancora capovolto sul ponte lance vicino al primo
fumaiolo. L'imbarcazione, Bride e una decina di altri passeggeri furono trascinati in mare
insieme. Bride si trovò a dibattersi sotto il canotto. Il colonnello Gracie non era un gran
marinaio. Rimase nella folla e saltò con l'onda. Risalendo sulla cresta, afferrò l'estremità
inferiore della ringhiera di ferro sul tetto degli alloggi degli ufficiali. Si sollevò e giacque
bocconi, proprio alla base del secondo fumaiolo. Prima che potesse alzarsi anche il tetto
fu sommerso e Gracie si trovò a girare su se stesso, in un gorgo. Tentò di afferrarsi alla
ringhiera, ma si rese conto che così sarebbe stato trascinato dai gorghi più facilmente.
Con un colpo energico si liberò e nuotò lontano dalla nave, sott'acqua. Lo chef John
Collins non potè far molto per difendersi dall'ondata. Aveva un bimbo in braccio. Da
cinque minuti, con un cameriere cercava di aiutare una donna di terza classe con due
bambini. In un primo momento avevano sentito dire che c'era una scialuppa sulla
sinistra; erano accorsi a sinistra per sentirsi dire che era invece a dritta. A dritta, qualcuno
li incitò a dirigersi verso poppa. Se ne stavano indecisi sul da farsi, Collins con un bimbo
in braccio, quando furono spazzati via dall'ondata. Il bimbo gli fu strappato` dalle
braccia; non vide mai più gli altri. Anche Jack Thayer e Milton Long videro arrivare
l'ondata. Erano in piedi, vicino al parapetto di tribordo, all'altezza del secondo fumaiolo,
e cercavano di non lasciarsi trascinare dalla folla che si dirigeva verso poppa.
Compresero che, invece di andare alla ricerca di un punto più alto, era giunto il
momento di saltare in acqua e nuotare. Si strinsero la mano augurandosi l'un l'altro
buona fortuna. Long gettò le gambe oltre il parapetto mentre Thayer vi si sedette a
cavalcioni e cominciò a slacciarsi il cappotto. Long, in equilibrio al di sopra della fiancata
della nave. tenendosi al parapetto con le mani, guardò Thayer e gli chiese: «Siete
pronto?»
«Gettatevi, vi seguo immediatamente,» lo rassicurò Thayer. Long si lasciò cadere,
rivolto verso la nave. Dieci secondi dopo Thayer passò anche l'altra gamba oltre il
parapetto e sedette guardando in basso. Era a circa tre metri dall'acqua. Prese lo slancio
saltando il più lontano possibile. La tecnica di Thayer per abbandonare la nave era la più
giusta. L'ondata non raggiunse Olaus Abelseth che si trovava troppo a poppa, in piedi
vicino al secondo fumaiolo. Invece di abbassarsi, quella parte della nave si sollevava
sempre più. Mentre l'inclinazione dello scafo aumentava, Abelseth udiva strani rumori...
una successione di tonfi sordi... tintinnio di vetri... sedie che strisciavano
rumorosamente. L'inclinazione era aumentata al punto che non era più possibile stare in
piedi. Molti persero l'equilibrio, e Abelseth li vide scivolare nell'acqua che sommergeva il
ponte. Abelseth e i suoi parenti riuscirono a rimanere in piedi afferrandosi alla fune di un
paranco. «E meglio saltare in mare, altrimenti il risucchio ci trascinerà a fondo,» disse suo
cognato. «No,» rispose Abelseth. «Non ancora. La nave resisterà ancora un po', è meglio
restare qui il più a lungo possibile.»
«Dobbiamo saltare,» insistette qualcuno, ma Abelseth rispose secco: «No, non
ancora.» Pochi minuti più tardi, quando l'acqua era ormai soltanto a un metro da loro, i
tre uomini decisero di saltare, tenendosi per mano. Ritornarono ansanti alla superficie, ed
Abelseth si accorse di essersi impigliato in una fune legata chissà dove. Dovette lasciare
le mani dei compagni per potersi districare, e proprio allora il cugino e il cognato furono
spazzati via dall'ondata. Egli riuscì a liberarsi, ma disse dentro di sè: «Sono perduto.» Nel
groviglio di cordami, sedie da ponte, assi e acqua, nessuno seppe mai ciò che accadde alla
maggior parte dei naufraghi. Dalle scialuppe, man mano che la poppa si sollevava, li
videro aggrapparsi come piccoli sciami di api alle sovrastrutture del ponte, agli argani, ai
ventilatori. Da una distanza minore era difficile vedere quello che stava succedendo,
anche se (incredibile a dirsi) le luci brillavano ancora diffondendo un balenìo rossastro.
Dai racconti raccolti più tardi, parve che Archie Butt avesse affrontato la morte in una
decina di modi diversi, tutti nobilissimi, ma nessuno controllabile. Secondo il racconto
della signorina Marie Young, insegnante di musica dei bambini di Teddy Roosevelt,
riportato dalla stampa, le sue ultime parole furono: «Arrivederci, signorina Young,
ricordatemi ai vostri compatrioti quando tornerete in patria.» Ma i giornali riferirono
pure che la signorina Young aveva affermato di aver visto l'iceberg un'ora prima del
disastro. In un'intervista attribuita alla signora Harris, Archie Butt fu descritto come un
eroe che si era prodigato fino all'ultimo per aiutare i deboli. Eppure Lightoller, Gracie e
gli altri che si erano occupati delle scialuppe non lo avevano nemmeno visto. Quando la
signora Douglas l'aveva riconosciuto vicino alla scialuppa 2, all'una e quarantacinque
circa, se ne stava quieto, in disparte. Lo stesso accadde per John Jacob Astor. Il barbiere
August H. Weikman riferì la sua conversazione con il grande milionario agli ultimi
istanti. Una delle solite frasi che si scambiano attorno alle poltrone dei barbieri. «Gli
chiesi se gli sarebbe dispiaciuto stringermi la mano. Egli rispose: "Lo farò con piacere."»
Tuttavia il barbiere Weikman dichiarò anche di aver lasciato la nave all'una e cinquanta,
una buona mezz'ora prima della fine. La morte di Butt e quella di Astor furono descritte
in un resoconto attribuito a Washington Dodge, l'assessore di San Francisco: «Si
inabissarono in piedi sul ponte, uno accanto all'altro. Ho potuto riconoscerli benissimo!»
Eppure il dottor Dodge si trovava nella scialuppa numero 13, a mezzo miglio di
distanza. Allo stesso modo, nessuno seppe mai con esattezza quale fosse stata la fine del
capitano Smith. Qualcuno, più tardi, dichiarò che s'era tirato un colpo di pistola, ma la
cosa non è sicura. Poco prima della fine, il cameriere Edward Brown l'aveva visto sul
ponte di comando, con il megafono in mano. Un minuto più tardi, il fuochista
Hemming, raggiungendo il ponte, lo trovò vuoto. Il fuochista Harry Senior disse di
averlo visto in acqua, con un bimbo fra le braccia, dopo che il Titanic era affondato.
Questa immagine, se si accostano i diversi elementi, si adatta assai meglio del suicidio
all'uomo che una volta aveva detto: «Rimango sempre affascinato e quasi stupito
quando, dal ponte, guardo una nave alzarsi ed abbassarsi sul mare, aprendosi la strada
attraverso le onde immense. E una sensazione che nessuno, per quanto adulto, riesce a
vincere.» Visti e non visti, celebri e sconosciuti, tutti i naufraghi precipitarono in mare in
un enorme mucchio, mentre la prua affondava e la poppa si sollevava. Le ultime note di
«Autunno» naufragarono con i musicisti e gli strumenti. Le luci si spensero, si riaccesero,
si spensero per sempre. Una sola lampada a petrolio brillava ancora alta sull'albero. Il
tintinnìo sordo dei vetri che si rompevano aumentò ancora. Un ruggito corse sull'acqua,
e tutto si agitò in un vortice spaventoso. Non si era mai verificata una catastrofe simile:
29 caldaie... la preziosa copia del Rubáiyát... ottocento casse di noci... quindicimila
bottiglie di birra... le enormi catene dell'ancora (ogni anello pesava circa ottanta chili)...
trenta sacchi di bastoni da golf e racchette da tennis per Spalding... il corredo di Eleanor
Widener... tonnellate di carbone... la scatola di metallo del maggiore Peuchen... trentamila
uova fresche... decine di palme tagliate... cinque grandi pianoforti... un piccolo orologio
da caminetto nella B-38... E poi, ancora, graticci, vasi di edera e sedie di vimini del Café
Parisien... il quadro di comando... due alternatori e una turbina a bassa pressione... otto
dozzine di palle da tennis per la R. F. Downey & Co... una cassa di porcellane per
Tiffany, una cassa di guanti per Marshall Field... l'enorme macchina per il ghiaccio del
ponte G... la nuova auto britannica di Billy Carter... i sedici bauli dei Ryerson,
accuratamente riempiti da Victorine. Mentre l'inclinazione aumentava ancora, il fumaiolo
di prua cadde in mare. Colpì l'acqua a dritta, in una pioggia di scintille, con un tonfo che
sovrastò tutti gli altri rumori. L'ingrassatore Walter Hurst, che lottava in un gorgo, fu
quasi accecato dalla fuliggine.
Fortunatamente riuscì a uscirne, ma altri nuotatori rimasero schiacciati da quelle
tonnellate Quello stesso fumaiolo, invece, fu una benedizione per Lightoller, Bride e gli
altri che erano aggrappati al canotto B capovolto: mancò di poco la barca, ma con la sua
caduta la gettò trenta metri lontano, portandola fuori dal risucchio della nave. Il Titanic
era ora completamente verticale. Tutta la poppa, fino al terzo fumaiolo, si ergeva
nell'aria, con le tre eliche che brillavano nell'oscurità. A Lady Gordon parve un dito nero
puntato verso il cielo, ad Harold Bride un'anatra mentre si tuffa. I passeggeri nelle
scialuppe non potevano credere ai loro occhi. Per oltre due ore erano rimasti attoniti
aggrappati a una speranza vana, mentre il Titanic sprofondava sempre più. Quando
l'acqua raggiunse le luci di posizione rosse e verdi, compresero che la fine era vicina...
Nessuno però si aspettava che avvenisse così: il fragore spaventoso, lo scafo nero
inclinato di novanta gradi e, come sfondo, il cielo punteggiato di stelle come in una
cartolina di Natale. Alcuni volsero altrove lo sguardo. Nel canotto C il presidente Bruce
Ismay si chinò sul remo: non poteva sopportare quello spettacolo. Nella scialuppa
numero 1, C. E. Henry Stengel volse le spalle alla nave. «Non voglio veder altro.» Nel
numero 4 Elizabeth Eustis si coprì il volto con le mani. Trascorsero due minuti... poi il
frastuono cessò, il Titanic sembrò raddrizzarsi un poco, quindi cominciò a inabissarsi,
prima lentamente, poi con una velocità sempre maggiore. Quando il mare si richiuse sul
pennone di poppa, lo scafo si lasciò dietro un forte risucchio. «E finita, non la vedremo
mai più,» sussurrò qualcuno alla vedetta Lee, nella scialuppa 13. «E finita,» udì sussurrare
la signora Ada Clark nel numero 4. Ma aveva tanto freddo che non vi prestò molta
attenzione. Le donne, quasi tutte, non stavano meglio di lei: sedevano attonite,
annichilite, senza rivelare alcuna emozione. Nel battello numero 5 il terzo ufficiale
Pitman guardò l'orologio e annunciò: «Sono le due e venti.» Sul Californian, a dieci
miglia di distanza, il secondo ufficiale Stone e l'allievo Gibson osservarono la strana nave
scomparire lentamente. Aveva tenuto desta la loro attenzione per quasi tutto il loro
turno di guardia, con il ripetuto lancio di razzi e per lo strano assetto di galleggiamento.
Gibson dichiarò che, secondo lui, i razzi non erano stati lanciati per scherzo. Stone
annuì: «Una nave non lancia razzi senza un buon motivo.» Alle due, le luci del
bastimento sconosciuto apparivano molto basse sull'orizzonte e i due uomini pensarono
che si stesse allontanando. «Andate dal comandante,» ordinò Stone, «e ditegli che la nave
sta scomparendo a sud-ovest, e che ha lanciato in tutto otto razzi.» Gibson entrò nella
sala nautica e trasmise il messaggio. Il capitano gli gettò uno sguardo assonnato dalla
cuccetta. «Erano tutti razzi bianchi?» Gibson rispose affermativamente, e Lord chiese
l'ora; Gibson rispose che erano le due e cinque sull'orologio della timoneria. Lord si
voltò sull'altro fianco e Gibson tornò sul ponte. Alle due e venti, Stone fu certo che la
nave se ne era andata definitivamente, e alle due e quaranta pensò di doverlo comunicare
personalmente al comandante. Gli diede la notizia per mezzo del portavoce, e riprese a
scrutare nella notte.
La tua bella camicia da notte se n'è andata Quando il mare si richiuse sul Titanic,
Lady Duff Gordon, nella scialuppa numero 1, disse alla sua segretaria, la signorina
Francatelli: «La tua bella camicia da notte se n'è andata.» In quella notte di aprile era
scomparso molto di più della camicia della signorina Francatelli, del maggior
transatlantico del mondo, del suo carico, e della vita di millecinquecentodue persone.
Mai più, dopo quel giorno, un uomo avrebbe comandato una nave in un mare infestato
dai ghiacci, senza prestare attenzione ai messaggi, riponendo tutta la sua fiducia in
qualche migliaio di tonnellate di acciaio e di bulloni. Da quel giorno i transatlantici
avrebbero preso in seria considerazione tutti i messaggi riguardanti i ghiacci, avrebbero
proceduto a piena velocità soltanto con visibilità perfetta, rallentando in caso contrario.
Nessuno credeva più nella «nave inaffondabile». E gli icebergs non avrebbero più
vagato nell'oceano senza essere individuati. Dopo l'affondamento del Titanic, il
Governo americano e quello inglese istituirono la Pattuglia Internazionale dei Ghiacci, e
oggi i battelli guardacoste individuano gli icebergs erranti che si avvicinano alle rotte dei
transatlantici. Come misura precauzionale, le rotte invernali furono spostate verso sud.
Inoltre, su tutti i transatlantici venne stabilito il servizio continuativo al telegrafo. Da
quel momento, ogni nave passeggeri avrebbe avuto un telegrafista a disposizione per
tutte le ventiquattro ore. Mai più si sarebbe potuto verificare un disastro mentre un
Cyril Evans qualunque, fuori servizio, dormiva a sole dieci miglia di distanza. Quella
sarebbe stata l'ultima volta in cui un transatlantico avrebbe preso il mare senza un
numero sufficiente di scialuppe di salvataggio. Il Titanic, con una stazza di
quarantaseimilatrecentoventotto tonnellate, navigava seguendo norme di sicurezza del
tutto sorpassate. Una formula assurda stabiliva il numero delle scialuppe: tutte le navi
britanniche che stazzavano più di diecimila tonnellate dovevano avere sedici scialuppe
di salvataggio con una capacità di quindicimila seicentosettantacinque metri cubi, più un
numero di zattere pari al settantacinque per cento della capacità delle scialuppe. Nel
caso del Titanic la formula in uso avrebbe dato la cifra di
ventisettemilaquattrocentotrenta metri cubi, vale a dire scialuppe sufficienti per
novecentosettantadue persone soltanto. In realtà, sul Titanic c'erano posti di salvataggio
per millecentosettantotto passeggeri. La White Star Line si lamentò più tardi che
nessuno avesse apprezzato la sua prudenza. Anche così, però, le imbarcazioni di
salvataggio avrebbero potuto accogliere soltanto il cinquantadue per cento delle
duemiladuecentosette persone imbarcate; se il bastimento fosse stato al limite del
carico, le scialuppe avrebbero potuto contenere il trenta per cento delle persone
presenti a bordo. Da quel momento le norme e le formule sarebbero state molto più
semplici: scialuppe di salvataggio sufficienti per tutti. Col disastro del Titanic finì anche
la distinzione di classe nel caricare le scialuppe. La White Star Line negò sempre di aver
seguito un principio del genere, e la Commissione di indagine si dichiarò d'accordo.
Eppure, risultò chiaramente che i passeggeri di terza classe furono i meno favoriti:
Daniel Buckley a cui fu impedito di passare nella zona riservata alla prima classe...
Olaus Abelseth liberato dal sottoponte quando l'ultima scialuppa si era ormai staccata
dalla nave... il cameriere Hart che aveva guidato due piccoli gruppi di donne sui ponti
inferiori mentre centinaia di altre rimanevano sottocoperta... i passeggeri di terza classe
che si erano ammassati lungo i paranchi a poppa... altri che avevano affrontato le scale
ormai verticali per fuggire dalla coperta, a prua. Inoltre, c'erano le persone che il
colonnello Gracie, Lightoller e gli altri avevano visto arrivare da sottocoperta, poco
prima della fine. Fino a quel momento, Gracie era stato sicuro che tutte le donne si
fossero allontanate nelle scialuppe, dato che era stato così difficile trovarne ancora
qualcuna per completare il carico dell'ultimo battello. Rimase perciò esterrefatto nel
vederne comparire all'improvviso varie decine. Le statistiche misero bene in evidenza
chi erano quelle donne: nella lista delle perdite del Titanic si trovano quattro delle
centoquarantatrè passeggere di prima classe... quindici delle novantatrè di seconda... e
ottantuno delle centosettantanove di terza classe. Non parliamo poi dei bambini. A
eccezione di Lorraine Allison, tutti i ventinove bimbi di prima e seconda classe furono
salvati, mentre dei settantasei bambini di terza se ne salvarono soltanto ventitrè. Nè
l'occasione di essere cavallereschi nè i frutti della cavalleria sembravano potersi
rivolgere a beneficio dei passeggeri. Le cose erano andate meglio, ma non bene, per la
seconda classe. Lawrence Beesley ricordò che un ufficiale aveva fermato due signore
che stavano oltrepassando la porta di ingresso alla prima classe. «Possiamo andare alle
scialuppe?» gli avevano chiesto. «No, signora, le vostre scialuppe sono sul vostro
ponte.» Bisogna riconoscere, per essere equi nei riguardi della Star Line, che queste
distinzioni derivarono non tanto dagli ordini impartiti, quanto dalla mancanza di ordini.
In certi momenti, gli uomini dell'equipaggio sbarrarono la via che portava al ponte
lance, in altri aprirono le porte, ma non lo comunicarono a nessuno, in altri ancora si
adoperarono per aiutare i passeggeri di terza classe a trovare la strada giusta. In
complesso, però, i passeggeri di terza classe furono abbandonati a se stessi. I più
intraprendenti tentarono la sorte, mentre la maggior parte rimase senza aiuto nei propri
alloggi, ignorata, negletta, dimenticata. La White Star Line non si era assolutamente
occupata di loro, e così fecero tutti gli altri. Nessuno sembrava preoccuparsi dei
passeggeri di terza classe: ne la stampa, nè la Commissione d'inchiesta e neppure loro
stessi. Nello sforzo di coprire le responsabilità inerenti al Titanic, pochi giornalisti si
preoccuparono di sentire la voce di quei passeggeri. Il New York Times si dichiarò
orgoglioso del modo in cui la catastrofe era stata fronteggiata. Eppure, nel famoso
numero dedicato all'arrivo a New York del Carpathia, comparvero solo due interviste
con passeggeri di terza classe. Sembrava un numero giusto: su quarantatrè racconti
pubblicati sul New York Herald, due narravano le esperienze vissute da passeggeri
ospitati nella classe in questione. Certo, i loro racconti non potevano essere interessanti
quanto quello di Lady Duff Gordon (un giornale di New York le fece dire: «L'ultima
voce che udii fu quella di un uomo che gridava: «Mio Dio, mio Dio!». Comunque, gli
spunti per un pezzo giornalistico c'erano. Quella notte fu una magnifica conferma del
principio «prima le donne e i bambini», però, chissà come, le perdite furono più alte fra
i bambini di terza classe che fra gli uomini di prima. Tale contrasto non sarebbe dovuto
sfuggire alla sensibilità sociale della stampa del momento (o quanto meno come dato
informativo). Nemmeno il Congresso si preoccupò di ciò che accadde in terza classe.
L'inchiesta sul Titanic svolta dal senatore Smith si occupava dei minimi particolari,
compresa la composizione di un iceberg (o Ghiaccio,» spiegò il quinto ufficiale Lowe),
ma trascurò quasi completamente il destino della terza classe. Due degli scampati
raccontarono che era stato loro impedito di salire sul ponte lance, ma gli avvocati
ignorarono la loro deposizione. Questo non deve far pensare a un deliberato velo di
silenzio; soltanto, nessuno si occupava della questione. La British Court of Enquiry fu
anche più equanime. Il signor W. D. Harbinson, che ufficialmente rappresentava gli
interessi dei passeggeri di terza classe, dichiarò di non aver notato la minima traccia di
discriminazione, e Lord Mersey fece un rapporto sull'ottimo stato di salute che regnava
a bordo; tuttavia nessuno dei passeggeri di terza classe venne chiamato a testimoniare, e
il solo cameriere salvatosi fra quelli addetti alla terza ammise francamente che i
passeggeri erano stati trattenuti sottocoperta fino all'una e quindici. Gli stessi passeggeri
di terza, del resto, non se la presero troppo a cuore. Si aspettavano una distinzione di
classe come una normale mossa del giuoco. Olaus Abelseth considerava l'accesso al
ponte lance un privilegio riservato alla prima e seconda classe... anche in caso di
naufragio. Fu perciò soddisfatto quando gli permisero di starsene in coperta. Spuntava
l'alba di una nuova èra; mai più, dopo quella notte, i passeggeri di terza classe avrebbero
preso le cose con tanta filosofia. D'altra parte, quella fu anche l'ultima volta in cui la
posizione privilegiata della prima classe venne accettata senza discussione. Quando il
Republic, un transatlantico della White Star Line, s'era inabissato nel 1908, il capitano
Sealby aveva detto ai passeggeri che prendevano posto nelle scialuppe di salvataggio:
«Ricordate bene: prima scenderanno le donne e i bambini, poi i passeggeri che
occupano le cabine di prima, e poi tutti gli altri!» Sul Titanic non vigevano simili
principi, ma tali concetti continuavano a sussistere nella mente del pubblico. Per prima
cosa, la stampa si affrettò a prevenire qualunque critica sul comportamento dei
passeggeri di prima classe. Alla notizia che Ismay si era salvato, il New York Sun si
affrettò a dichiarare: «Ismay si è comportato in maniera eccezionalmente coraggiosa...
Nessuno sa per quale motivo il signor Ismay si sia trovato a bordo di una scialuppa; si
ritiene che egli sia stato mosso dal desiderio di sottoporre l'accaduto alla sua società.»
Alla prima classe le cose non sarebbero mai più andate così bene. Infatti, la bilancia
cominciò presto a pendere dall'altra parte. Non passarono molti giorni che si
cominciarono a formulare le più aspre critiche contro Ismay; un anno dopo, una delle
sopravvissute, assai conosciuta, si separò dal marito solo perchè, secondo le chiacchiere,
gli era capitato di salvarsi. Una delle più importanti eredità lasciate dalle vittime del
Titanic è costituita dalla nuova linea di condotta adottata nel giudicare il
comportamento delle persone in vista in caso di forza maggiore. Era più facile, ai
vecchi tempi... il Titanic fu anche l'ultima vetrina della ricchezza e dell'alta società al
centro dell'interesse del pubblico. Nel 1912 non esistevano film, stelle della radio o della
televisione; i campioni sportivi cominciavano appena a delinearsi, e la mondanità
elegante era completamente sconosciuta. Il pubblico si volgeva alle persone socialmente
più in vista per trarne quello splendore riflesso che arricchisce una vita monotona.
Questo interesse era ben compreso dalla stampa Alla partenza del Titanic, il New York
Times aveva pubblicato in prima pagina l'elenco dei passeggeri più in vista. Il New
York American si occupò del naufragio il 16 aprile, in un articolo di fondo dedicato
quasi interamente a John Jacob Astor; nelle ultime righe ricordava che anche altre mille
ottocento persone erano affogate.
Una folla di gente assalta la sede del giornale «New York American»
in cui vengono esposti i nomi dei sopravvissuti al naufragio del Titanic
Qualcosa di simile fece il New York Sun nel numero del 18 aprile, prendendo in
esame il lato assicurativo del disastro: la maggior parte dell'articolo riguardava le perle
della signora Widener. La ricchezza non avrebbe mai più polarizzato così
completamente l'interesse dell'uomo della strada. Del resto, essa stessa non sarebbe mai
più apparsa in una forma così spettacolare. John Jacob Astor non aveva esitato neppure
un istante prima di spendere ottocento dollari per una giacca di pizzo offerta da un
mercante, sul ponte della nave, durante una breve sosta a Queenstown.
Il ponte del Titanic fotografato a Queenstown, l'11 aprile.
I Ryerson non vedevano nulla di strano nel viaggiare con sedici bauli. Le
centonovanta famiglie di prima classe erano servite da ventitrè cameriere, otto
domestici e varie bambinaie e governanti, oltre alle centinaia di inservienti di bordo,
uomini e donne. Questo personale privato di servizio fruiva d'una sala riservata sul
ponte C, così che a tutti veniva risparmiato l'imbarazzo di iniziare una conversazione
con un bel giovane sconosciuto per poi scoprire che si trattava, ad esempio,
dell'interprete di lingue orientali Henry Sleeper Harper. Consideriamo ora l'arrivo dei
superstiti a New York. La signora Astor era attesa da due automobili con due medici,
una infermiera specializzata, una segretaria, e Vincent Astor. Per la signora Widener
non c'erano automobili, ma addirittura un treno speciale, costituito da una carrozza
pullmann privata, un bagagliaio e una locomotiva. Anche la signora Hays trovò ad
attenderla un treno speciale, composto da due vagoni privati e da due altre carrozze.
Era un vero e proprio ricevimento, organizzato per chi poteva affrontare la spesa di
4350 dollari - ed erano dollari del 1912 - per un appartamento di lusso. Un
appartamento di quel tipo comprendeva anche un tratto riservato del ponte in
passeggiata, che veniva a costare circa 120 dollari al metro quadrato, per sei giorni. Quel
treno di vita, naturalmente, non era alla portata di tutti. Non era, ad esempio, alla
portata di Harold Bride, che guadagnava venti dollari al mese, e che avrebbe dovuto
lavorare 18 anni per guadagnare il denaro sufficiente per una traversata di lusso. Coloro
che potevano godere di tutto questo si erano riuniti a poco a poco in un gruppo molto
compatto, che sembrò dissolversi con il Titanic. C'era una meravigliosa intimità in quel
piccolo mondo di ricchi edoardiani. I loro incontri erano privi di sorprese, sia che
avvenissero alle piramidi (grandi favorite), o alle regate di Cowes, o, in primavera, a
Baden-Baden. Sembrava che tutti avessero le stesse idee nello stesso momento, ed una
di queste idee li aveva spinti appunto a partecipare al viaggio inaugurale della più grande
nave del mondo. Il viaggio del Titanic assumeva così più il carattere di una riunione
mondana che di una traversata atlantica. E questo affascinava la signora Harris, moglie
del produttore teatrale, che certamente non faceva parte di quel mondo. Vent'anni più
tardi ella ricordava ancora con stupore: «S'era creata un'intimità che non avevo mai
notato nei viaggi precedenti. Nessuno consultava la lista dei passeggeri, a giudicare
dall'atmosfera di buona amicizia stabilitasi tra i passeggeri delle cabine. Si incontravano
sul ponte come ad una grande festa.» Questo gruppo conosceva l'equipaggio altrettanto
bene che gli altri passeggeri. Era consuetudine attraversare l'oceano con determinati
comandanti piuttosto che con determinate navi, e il capitano Smith godeva di un
seguito personale che lo rendeva prezioso per la White Star Line. Il capitano ripagava
quella simpatia con piccoli favori e privilegi che servivano a mantenere viva la
preferenza per lui. L'ultima notte, John Jacob Astor ed alcuni altri passeggeri ricevettero
la notizia della catastrofe direttamente dal capitano Smith, prima che venisse dato
l'allarme generale. C'era naturalmente il rovescio della medaglia, e cioè tenere fede al
loro dovere di gentiluomini. Nessuno si permetteva di approfittare dell'amicizia del
capitano; infatti, quasi nessuno degli uomini di quel gruppo si salvò. Gli inservienti e i
camerieri erano legati altrettanto intimamente con quei passeggeri. Si erano trovati più
volte al servizio di quelle stesse persone, e conoscevano le esigenze e i gusti di ciascuna
di loro. Ogni sera il cameriere Cunningham era solito entrare nell'A-36, per preparare
l'abito preferito di Thomas Andrews. Poi, alle diciotto e quarantacinque, soleva
ritornare per aiutarlo a vestirsi. La stessa cosa accadeva in tutta la nave. Mentre il
Titanic stava affondando, fu con sincero affetto che il cameriere Etches fece indossare
il maglione al signor Guggenheim... che il cameriere Crawford allacciò le scarpe del
signor Stewart... che il secondo cameriere Dodd sussurrò a John B. Thayer che sua
moglie si trovava ancora a bordo mentre egli credeva che se ne fosse andata con una
scialuppa molto tempo prima. Con lo stesso spirito di dedizione il cameriere della sala
da pranzo Ray spinse Washington Dodge nella scialuppa 13: era stato lui a convincere i
Dodge a imbarcarsi sul Titanic, e si sentiva obbligato per questo a metterli in salvo. I
passeggeri di quel gruppo ripagavano tanta dedizione con una familiarità e un affetto
concesso a pochi dei compagni di viaggio meno noti. Nelle ultime ore del Titanic,
uomini come Ben Guggenheim e Martin Rothschild sembrarono preoccupati più dei
loro servitori che degli altri passeggeri. Il Titanic, in un certo senso, calò il sipario su
quel sistema di vita; le cose non furono mai più quelle di prima. La guerra, e più tardi la
tassa sul reddito, lo garantirono. Con quel mondo scomparve anche parte dei suoi
pregiudizi: soprattutto l'affermazione, sostenuta a spada tratta, della superiorità del
coraggio anglosassone. Per gli scampati, tutti i passeggeri di sesso maschile che s'erano
cacciati nelle scialuppe erano «cinesi» o «giapponesi»; tutti coloro che erano saltati dal
ponte nei battelli di salvataggio erano «americani, francesi» o «italiani». «Molti uomini
tra i passeggeri,» dichiarò il cameriere Crowe nel corso dell'inchiesta del Governo,
«probabilmente italiani, o comunque di nazionalità diversa da quella inglese o
americana, tentarono di raggiungere le scialuppe.» Il cameriere Crowe, tuttavia, non udì
una sola parola pronunciata dai colpevoli, e non poteva certo sapere chi fossero.
Durante l'inchiesta le cose arrivarono a un punto tale che l'ambasciatore italiano
pretese, ed ottenne, delle scuse dal quinto ufficiale Lowe, che aveva usato il termine
(italiano) come sinonimo di codardo. Era opinione diffusa, invece, che il sangue
anglosassone avrebbe sempre impedito ogni cattiva azione. Quando Bride raccontò
l'aggressione del fuochista contro Phillips, alcuni giornali, per ottenere un migliore
effetto, scrissero che quell'uomo era un negro. In un articolo dal titolo: «La perdita di
buoni immigranti», il New York Sun specificò che, insieme agli altri, erano periti 78
finlandesi che avrebbero potuto fare del bene al paese».
Fotografia di un migrante a bordo del Titanic
Con i pregiudizi, però, scomparve anche qualcuno degli istinti più nobili. L'umanità
avrebbe continuato ad essere coraggiosa, ma non in quella forma. Gli uomini che
viaggiavano sul Titanic avevano qualcosa di particolare; Ben Guggenheim che
indossava all'ultimo momento l'abito da sera... Howard Case che agitava la sigaretta nel
salutare la signora Graham... ed anche il colonnello Gracie, che percorreva il ponte
cercando galantemente, anche se invano, la signora Candee. Nessuno, oggi, compirebbe
più gli atti di cavalleria di quella notte. Era scomparsa anche l'aria di noblesse oblige.
Nei giorni di snervante incertezza, a New York, gli Astor, i Guggenheim ed altri come
loro non si accontentarono di rimanere accanto ai loro telefoni, e di mandare amici e
dipendenti agli uffici della White Star Line. Ci andarono di persona Non per ottenere
informazioni migliori, ma perchè sentivano che era dovere muoversi personalmente.
Oggi, le famiglie sono unite come sempre, ma, probabilmente, si accontenterebbero del
telefono. Pochi insisterebbero nell'andare di persona ad affrontare il caos di un ufficio
armatoriale. Eppure, allora, non esitarono un minuto. E vero che Vincent Astor
ottenne così informazioni più esaurienti, e che alcuni poterono parlare con il direttore
generale, ma rimane il fatto che quella gente non si accontentò di una semplice presa di
contatto, ma volle andare di persona. Più di ogni altra cosa, però, il Titanic segnò la fine
di un generale senso di fiducia. Fino a quel momento, l'umanità riteneva di aver trovato
la chiave di una vita sicura, metodica e civilizzata Da cento anni il mondo occidentale
viveva in pace. Da cento anni la tecnica continuava a progredire e sembrava che i
benefici della pace e dell'industrializzazione fossero filtrati in modo soddisfacente
attraverso la società. Vedendo le cose nella debita prospettiva, può sembrare che la
situazione d'allora offrisse minori garanzie di tranquillità e di fiducia; ma, a quell'epoca,
la maggior parte degli uomini riteneva che tutto andasse bene. Il Titanic li svegliò. Mai
più si sarebbero sentiti così sicuri di loro stessi. Il disastro rappresentò un terribile
colpo, soprattutto sul piano della tecnica. Ecco, infatti, la «nave inaffondabile», forse il
più grande successo costruttivo dell'uomo, che colava a picco al primo viaggio. Ma c'era
assai di più. Se quella suprema conquista era così tragicamente fragile, che dire di tutto il
resto? Se la ricchezza aveva significato così poco, in quella fredda notte di aprile, che
cosa poteva valere per tutto il resto dell'annata? Decine di ministri del culto predicarono
che la tragedia del Titanic era una lezione mandata dal cielo per scuotere gli uomini
dalla loro compiacenza in se stessi; per punirli della completa fiducia riposta nel
progresso materiale. Se doveva essere una lezione, essa è servita. Da quel momento in
poi, la gente non si è più sentita sicura di nulla. L'infinita successione di delusioni
verificatasi in seguito non deve essere certo ascritta al Titanic, ma il suo naufragio
costituì il primo colpo. Prima del Titanic, tutto era quieto; dopo, tutto fu tumulto. Ecco
perchè, per chiunque sia vissuto in quell'epoca, il Titanic, più di qualunque altro
avvenimento singolo, segnò la fine dei vecchi tempi, e l'inizio di una era nuova e non
sempre facile. Non c'era tempo per tali considerazioni, alle due e venti di martedì
quindici aprile millenovecentododici. Dalla tomba del Titanic si levava un tenue vapore
che oscurava la notte limpida. Il mare era disseminato di pezzi di legno, sedie a sdraio,
tavole, pilastri e altri relitti che venivano a galla staccandosi da ciò che ormai giaceva sul
fondo. Centinaia di nuotatori popolavano l'acqua, aggrappandosi ai relitti, o l'uno
all'altro. Il cameriere Edward Brown riusciva appena a respirare, e si accorse di aver un
uomo avvinghiato ai vestiti. Il passeggero di terza classe Olaus Abelseth si sentì
afferrare al collo. A mala pena riuscì a svincolarsi. «Lasciatemi,» gridò, ma l'altro lo
afferrò di nuovo, ed egli dovette colpirlo col tallone per liberarsene. Se non erano i
compagni di sciagura, era il mare stesso a fiaccare la resistenza dei naufraghi. La
temperatura dell'acqua era di due gradi sotto zero. Il secondo ufficiale Lightoller provò,
al suo contatto, la sensazione di «mille coltelli» che gli si conficcassero nel corpo. In
un'acqua come quella, i salvagente erano inutili. Qualche decina di naufraghi riuscì
anche in questa situazione a conservare il controllo dei propri nervi e a resistere. Le
speranze di salvezza in quell'acqua ingombra di relitti erano due: i canotti A e B,
ambedue liberati dal ponte nel momento in cui la nave affondava, l'A diritto, e il B
capovolto. Il fumaiolo, precipitando, aveva allontanato ulteriormente le scialuppe dalla
folla dei naufraghi. Ora, i nuotatori più fortunati e più forti si dirigevano verso le due
imbarcazioni. Dopo una ventina di minuti, Olaus Abelseth raggiunse l'A. Una decina di
scomparsi, più morti che vivi, si trovavano già nel canotto. Non lo aiutarono nè gli
impedirono di arrampicarsi sulla frisata. Si limitarono a mormorare: Non rovesciate la
scialuppa.» A poco a poco, ne arrivarono altri, finchè a bordo del piccolo battello si
trovarono ventiquattro persone. Erano stranamente assortite: il tennista R. Norris
Williams Jr., con accanto una pelliccia completamente imbevuta d'acqua... una coppia di
svedesi... il fuochista John Thompson con le mani ustionate... un passeggero di prima
classe in mutande... il cameriere Edward Brown... Rosa Abbott, passeggera di terza
classe. A poco a poco la scialuppa A si allontanava, mentre i nuotatori arrivavano ad
intervalli sempre meno frequenti. Alla fine, non ne arrivarono più, e l'imbarcazione si
allontanò nella notte silenziosa. Nel frattempo, altri nuotatori si dirigevano verso il
canotto B, rovesciato, che si trovava molto più vicino al luogo della sciagura. Un
maggior numero di persone, molto più attive e rumorose, si ammassava attorno alla
chiglia capovolta. «Salvateci! Salvateci!» Walter Hurst udì quel grido ripetersi all'infinito
mentre raggiungeva gli uomini che tentavano di salire sul canotto. Il telegrafista Harold
Bride, naturalmente, vi si trovava là fin dall'inizio, ma sotto all'imbarcazione invece che
sopra. Anche Lightoller vi arrivò prima che il Titanic affondasse. Stava già nuotando
quando era precipitato il fumaiolo anteriore. L ondata quasi lo sommerse mentre
spingeva il giovane Jack Thayer contro la scialuppa. Ora anche Hurst e tre o quattro
altri si stavano arrampicando sulla chiglia. Lightoller e Thayer riuscirono a salire. Bride
si trovava ancora sotto all'imbarcazione sdraiato sulla schiena, con il capo che batteva
contro i sedili, e il respiro mozzo. Poi giunse A. H. Barkworth, un giudice di pace dello
Yorkshire. Indossava una pesante pelliccia sul salvagente, e quella strana combinazione
lo aiutava a stare a galla. Mal grado la pelliccia, riuscì a issarsi sul canotto. Il colonnello
Gracie arrivò subito dopo. Trascinato dal Titanic, aveva tentato, prima di scorgere il
canotto capovolto, di aggrapparsi a una tavola, poi ad una grossa cassa di legno.
Quando infine raggiunse la scialuppa B, più di una decina di uomini s'erano già issati
sulla sua chiglia. Nessuno gli porse una mano per aiutarlo. Ad ogni nuovo naufrago che
sopraggiungeva, la barca affondava sempre più nell'acqua, che già, di tanto in tanto, la
sommergeva completamente. Tuttavia Gracie non era arrivato fin lì per nulla. Afferrò il
braccio di un uomo che si trovava già sulla scialuppa e si tiro su. Giunse poi l'aiuto
cuoco, John Collins, e anche lui riuscì a salire. Bride, infine, riuscì ad uscire di sotto la
barca e si arrampicò a poppa. Quando arrivò il cameriere Thomas Whiteley, il canotto B
sosteneva già il peso di trenta uomini. Mentre tentava di salire sulla chiglia, qualcuno lo
colpì con un remo, ma egli ci riuscì ugualmente. Anche il fuochista Harry Senior venne
allontanato con un remo, ma nuotò dall'altro lato e riuscì infine a convincere gli altri a
lasciarlo salire. Nel frattempo, gli uomini, a cavalcioni a prua e a poppa, battevano
l'acqua con delle tavole cercando di allontanarsi dal luogo del disastro e dai nuotatori.
«Basta ora, ragazzi. Uno ancora e andremo tutti sotto,» gridavano gli uomini della
scialuppa a quelli che stavano ancora nell'acqua. «Va bene, avete ragione,» rispose uno
dei nuotatori. E si allontanò gridando: «Buona fortuna. Dio vi benedica.» Un altro
nuotatore disse loro: «Salve! Addio!» Con voce fioca, e non chiese di salire. Anche se
erano pericolosamente sovraccarichi, Walter Hurst non potè resistere alla tentazione di
tendergli un remo. L'uomo intanto si era allontanato e quando il remo lo toccò, continuò
a nuotare in silenzio. Ancor oggi, Hurst è convinto che si trattasse del capitano Smith.
Mentre si allontanavano nella notte solitaria, lasciandosi dietro le spalle la tragedia e le
sue vittime, uno dei marinai che giaceva sulla chiglia chiese esitante: «Non vi sembra che
dovremmo pregare?» Furono tutti d'accordo. Una rapida inchiesta rivelò che si
trovavano riuniti cattolici, presbiteriani, evangelici e metodisti; decisero perciò di recitare
il Padre Nostro, che cantarono in coro dopo che l'uomo che aveva suggerito di pregare
diede l'intonazione. Non era il solo coro che si levasse sull'acqua. Mentre i canotti A e B
si riempivano e cercavano disperatamente di allontanarsi dalla scena, si udivano le grida
di centinaia di nuotatori. Le singole voci si perdevano in un clamore che sovrastava ogni
cosa. Al fuochista George Kemish, ai remi della scialuppa 9, parvero le grida di
centomila spettatori a una partita decisiva di campionato. Jack Thayer, che giaceva sulla
chiglia della scialuppa B, pensò al rumore continuo e sordo delle locuste in una notte di
mezza estate, nei boschi di casa sua, in Pennsylvania.
Mi ricorda una meravigliosa gita Le grida nella notte imponevano al quinto ufficiale
Lowe, energico e generoso, di ritornare per soccorrere i naufraghi. Era in una buona
posizione per poterci riuscire. Dopo aver abbandonato il Titanic sul numero 14, era
passato dietro alle scialuppe 10, 12, 4 e D, unendosi ad esse per formare una catena, a
centocinquanta metri di distanza. «Consideratevi sotto il mio comando,» ordinò, e
cominciò a organizzare la sua flottiglia per l'opera di soccorso. Sarebbe stato un suicidio,
per le scialuppe - che non erano certo in grado di affrontare una situazione così
drammatica - ma un'imbarcazione con un equipaggio scelto sarebbe stata di grande
utilità. Pertanto, Lowe divise i suoi cinquanta cinque passeggeri tra le altre quattro
scialuppe e raccolse volontari da ognuna di esse, per riunire sul numero 14 un gruppo di
rematori esperti. Quello scambio di passeggeri tra barche a remi, effettuato alle due e
mezzo di notte in pieno Atlantico, fu un lavoro snervante, che portò al limite la capacità
di resistenza di Lowe. «Saltate, maledizione, saltate!» inveì contro la signorina Daisy
Minahan. Una vecchia signora avvolta in uno scialle gli sembrò invece troppo agile.
Glielo strappò, e si trovò dinanzi il volto terrorizzato di un uomo, con gli occhi bianchi
di paura. Non disse una parola, ma lo gettò nella scialuppa numero 10 con tutta la sua
forza. Occorse del tempo per fare il trasbordo, per lasciare che i nuotatori si
sparpagliassero tanto da rendere la spedizione sicura, ed infine per raggiungerli. Erano
passate le tre, un'ora circa dopo l'affondamento, quando la scialuppa 14 tornò sul luogo
del disastro. C'era ormai ben poco da fare: il cameriere John Stewart... il passeggero di
prima classe W. F. Hoyt... un passeggero giapponese di terza classe, che si era legato ad
una porta. Per circa un'ora la scialuppa 14 giuocò una tragica mosca cieca dirigendosi
verso le grida che si levavano nell'oscurità, ma senza riuscire a raggiungere chi chiedeva
disperatamente aiuto. Raccolsero quattro naufraghi, e il signor Hoyt morì un'ora dopo.
Lowe non aveva calcolato bene il tempo che gli sarebbe stato necessario per ritornare sul
luogo della sciagura... per localizzare una voce nell'oscurità... ma soprattutto non aveva
previsto quanto poco tempo un uomo avrebbe potuto resistere nell'acqua a due gradi
sotto zero. Si rese conto allora che era stato un errore attendere che i naufraghi si
«sparpagliassero». Ma, almeno, Lowe era tornato a prestar soccorso. Anche il terzo
ufficiale Pitman, nel numero 5, udì grida. Virò di bordo gridando: «Ora ritorneremo
laggiù!...»
«Vi prego, chiedetegli di non tornare,» implorò una signora rivolta al cameriere
Etches, curvo sui remi. «Perchè dovremmo perdere la nostra vita nell'inutile tentativo di
salvare qualcun altro?» Altre donne protestarono. Pitman non sapeva cosa fare; alla fine
diede ordini contrari, e cioè disse agli uomini di non remare più. Per tutta l'ora seguente,
il numero 5 - quaranta persone in una scialuppa che poteva portarne sessantacinque
galleggiò sulla calma superficie dell'Atlantico mentre i suoi occupanti ascoltavano le
ultime grida dei naufraghi, a trecento metri di distanza. Nel numero 2 il cameriere disse
al quarto ufficiale Boxhall di chiedere alle signore se volevano tornare. Esse risposero di
no. Così anche il numero 2 - carico al sessanta per cento - si lasciò andare alla deriva
mentre i suoi occupanti ascoltavano senza reagire le grida d'aiuto. Le donne nella
scialuppa 6 si comportarono in modo diverso. La signora Smith, caduta nel tranello
tesole dal marito perchè salisse in barca, la signora Candee, commossa dalla galanteria dei
suoi cavalieri, la signora Brown, coraggiosa per natura e amante dell'avventura,
pregarono il timoniere Hitchens di ritornare sul luogo del disastro. Hitchens si rifiutò;
dipinse a fosche tinte ciò che sarebbe successo quando i naufraghi, aggrappandosi alla
scialuppa, l'avrebbero capovolta. Le donne continuarono a insistere, mentre le grida si
affievolivano. La scialuppa numero 6 - capacità settantacinque, occupanti ventotto - non
si avvicinò più delle altre. Nel numero 1 il fuochista Charles Hendrickson gridò: «Tocca
a noi ritornare a raccogliere quelli che sono in acqua.» Nessuno rispose. La vedetta
George Symons, che comandava la scialuppa, non fece il più piccolo movimento.
Quando l'invito venne ripetuto, Sir Cosmo Duff Gordon dichiarò che non riteneva utile
tentare, che sarebbe stato pericoloso, perchè la scialuppa sarebbe stata sovraccarica. A
quelle parole, l'idea venne abbandonata.
Mandato di cinque sterline regalato da Sir Cosmo Duff Gordon a uno dei marinai della sua
scialuppa
Il numero 1 – dodici persone in una scialuppa che poteva portarne quaranta - remò
senza meta nel buio. In tutte le imbarcazioni accadde lo stesso; un timido suggerimento,
un rifiuto deciso, e nulla di fatto. Delle mille seicento persone che si inabissarono col
Titanic, solo tredici furono raccolte dalle diciotto scialuppe che galleggiavano lì attorno.
La scialuppa D raccolse il signor Frederick Hoyt perchè lui stesso mise le cose in modo
da ottenerlo. La scialuppa 4 salvò otto persone, non perchè fosse tornata indietro, ma
perchè i naufraghi riuscirono a raggiungerla. Solo il numero 14 ritornò sulla scena del
disastro. Perchè le altre non lo abbiano fatto, fa parte del mistero per cui uomini uguali,
in un'identica situazione, reagiscono in modo diverso. Mentre le grida si affievolivano, la
notte si rese stranamente tranquilla. Il Titanic, l'agonizzante attesa, tutto era finito. Il
colpo per quanto era accaduto, la confusione e l'eccitazione, la sensazione che amici
intimi erano perduti per sempre non si erano ancora fatta strada nella coscienza dei
naufraghi. Uno strano senso di pace pervase la maggior parte dei sopravvissuti nelle
scialuppe. Con questo senso di pace, sopraggiunse anche quello della solitudine.
Lawrence Beesley pensò che il Titanic, anche quando era mortalmente ferito, aveva dato
a tutti una sensazione di calore e di sicurezza che nessuna scialuppa poteva rimpiazzare.
Nel numero 3, Elizabeth Shutes osservò le stelle cadenti e pensò quanto insignificanti
fossero apparsi i razzi del Titanic a paragone della natura. Tentò di vincere la sua
tristezza pensando di essere ancora in Giappone. Le era accaduto di fuggire due volte, di
notte, sola e spaventata, ma tutto alla fine si era accomodato. Nella scialuppa 4 anche la
signorina Jean Gertrude Hippach osservava le stelle cadenti; non ne aveva mai viste
tante. Ricordò una leggenda secondo la quale ogni volta che una stella cade, qualcuno
muore. Lentamente, molto lentamente, la vita cominciò à riprendere nelle imbarcazioni.
Il quarto ufficiale Boxhall lanciò dei razzi verdi dalla scialuppa 2. Quei razzi scossero un
po' i naufraghi dal loro torpore e li rallegrarono. Era difficile valutare le distanze e
qualcuno pensò che quelle luci verdi fossero lanciate all'orizzonte dalle navi di soccorso.
I remi battevano sull'acqua, alcune voci cominciarono a cantare, mentre le barche si
chiamavano l'un l'altra nell'oscurità. I numeri 5 e 7 si avvicinarono e altrettanto fecero il
6 e il 16. La scialuppa 6 si fece prestare un uomo, per avere un'altra persona in grado di
remare. Altre scialuppe si avvicinarono. Per un raggio di quattro o cinque miglia, diciotto
piccole scialuppe vagavano nella notte, riunendosi e separandosi sulle acque immobili.
Un marinaio nel numero 13 pensò ai momenti trascorsi sul Regent's Park Lake e
mormorò: «Mi ricorda una meravigliosa gita in barca!» In certi momenti si poteva
pensare a una gita: poche parole e i bambini vicini. Lawrence Beesley cercò di mettere
una coperta sotto i piedini di un bimbo in lacrime e scoprì di essere amico della signora
che lo teneva in braccio, la quale, come lui, proveniva da Clonmel, in Irlanda. Edith
Russell divertiva un altro bambino con il suo maialino, che suonava ogni volta che gli si
tirava la coda. Hugh Woolner diede dei dolci al piccolo Louis Navatril di quattro anni; la
signora Astor prestò uno scialle ad una donna di terza classe, per riscaldare la sua piccina
che moriva di freddo. La donna ringraziò in svedese, e avvolse la bimba nello scialle.
Nello stesso momento, Marguerite Frolicher conobbe l'utilità di un oggetto tipico delle
gite. Soffriva di mal di mare e un signore seduto accanto a lei se ne accorse. Tirò fuori
una fiaschetta d'argento e invitò la ragazza a bere un sorso di cognac. Ella accettò e si
sentì subito meglio. Forse era il cognac, forse la novità della cosa: aveva ventidue anni, e,
non avendo mai veduto prima una fiaschetta di quel genere, ne rimase affascinata.
Nessuna gita, però, sarebbe stata così fredda. La signora Crosby, nel numero 5, tremava
tanto, che il terzo ufficiale Pitman la avvolse in una vela. Uno stivatore nel numero 6,
seduto vicino alla signora Brown, batteva i denti. Alla fine ella gli avvolse le gambe nella
sua stola di martora, legandogli le code attorno alle caviglie. Nel numero 16 un uomo
con un pigiama bianco sembrava così gelato da ricordare agli altri passeggeri un pupazzo
di neve. La signora Charlotte Collyer, nel numero 14, era tanto debole da non riuscire a
tenersi ritta; i suoi capelli si impigliarono in un remo, e una grossa ciocca le fu strappata
dalle radici. L'equipaggio faceva il possibile per assistere le donne come meglio poteva.
Nel numero 5 un marinaio si tolse le calze e le porse alla signora Dodge. Al suo sguardo
di stupita gratitudine, quasi si giustificò: «Vi assicuro, signora, che sono assolutamente
pulite. Le ho messe stamattina.» Nel numero 13, il fuochista Beauchamp tremava nel suo
leggero maglione, ma si rifiutò di indossare un soprabito offertogli da una signora
anziana, e insistette perchè lo desse invece a una giovane irlandese. I passeggeri di quella
scialuppa fruirono anche di un altro sollievo inaspettato. Il cameriere Ray, prima di
lasciare la sua cabina per l'ultima volta, aveva preso sei fazzoletti dal suo baule. Ora li
distribuì, invitando i sei fortunati a fare un nodo ad ogni angolo, ottenendone una specie
di berretto. Come risultato, egli ricorda con orgoglio: «Sei teste furono incoronate.» Non
solo il freddo, ma anche il numero di donne ai remi faceva svanire l'illusione di una gita.
Nel numero 4, la signora Thayer remò per cinque ore con l'acqua alle caviglie. Nel
numero 6 la signora Brown si fece organizzatrice: due donne per ogni remo. Una teneva
l'attrezzo al suo posto, mentre l'altra lo azionava. Con questo sistema, la signora Brown,
la signora Meyer, la signora Candee e altre fecero avanzare la barca per tre o quattro
miglia nel vano tentativo di raggiungere la luce che avevano visto brillare all'orizzonte
per quasi tutta la notte. La signora Douglas teneva il timone della scialuppa 2. Boxhall,
che la comandava, manovrava un remo ed aiutava a lanciare i segnali verdi. La signora
White, che remava nel numero 8, si trasformò in una specie di segnalatore. Aveva un
bastone con una luce elettrica incorporata, che agitò continuamente per quasi tutta la
notte, aiutando, e talvolta confondendo, coloro che la circondavano. Nel numero 8, si
alternavano ai remi Marie Young, Gladys Cherry, la signora Swift ed altre. La signora
Bucknell notò con orgoglio che, mentre ella remava accanto alla contessa di Rothes,
dietro a loro la sua governante remava vicino alla cameriera della contessa. Per la
maggior parte della notte la contessa tenne il timone. Il marinaio Jones, che era al
comando della scialuppa, spiegò più tardi alla Sphere per quale ragione l'avesse messa lì:
«C'era una donna nella mia scialuppa veramente degna del suo nome... dal suo
comportamento e dalle parole calme e risolute che indirizzava agli altri, compresi di
poter contare su di lei più che su qualunque uomo ci fosse stato a bordo.» Nel corso
dell'indagine effettuata in America, Jones, forse perchè privato dei suggerimenti della
stampa, si espresse un po' meno elegantemente: Continuava a far critiche, così la misi a
guidare la barca.» Ma non c'erano dubbi sui suoi sentimenti. Una volta in salvo, Jones
staccò il numero otto dalla scialuppa, lo fece incorniciare e lo mandò alla contessa per
esprimerle la propria ammirazione. Da parte sua, ella gli scrive ancora ogni anno a
Natale. Col passare della notte, cominciò anche a cambiare il modo di comportarsi dei
naufraghi. Dal numero 3, la signora Hays si rivolgeva, cercando il marito, a tutte le
scialuppe che si avvicinavano. o Charles Hays, sei lì?» aveva ripetuto ormai un'infinità di
volte. Nel numero 8, la signora de Satode Penasco cominciò a gridare, invocando il
marito Victor; a un certo punto la contessa di Rothes, non riuscendo più a sopportarla,
passò il timone a sua cugina Gladys Cherry, scivolò accanto alla signora e trascorse il
resto della notte remando vicino a lei e cercando di confortarla. Nel numero 6, madame
de Villiers chiamava ininterrottamente il figlio, che non era neppure sul Titanic. Più tardi,
cominciarono a nascere i primi dissensi. Le donne del numero 3 litigavano per delle
sciocchezze, mentre i rispettivi mariti sedevano in un silenzio imbarazzato. La signora
Dodge avrebbe voluto tornare verso la nave, contrariamente ai desideri di quasi tutti gli
altri occupanti del numero 5, e ne fu così disgustata che, quando si avvicinò il numero 7,
cambiò scialuppa in mezzo all'oceano. Maud Slocombe, la irreprensibile massaggiatrice
del Titanic, riuscì a calmare una donna del numero 11, la quale, nella confusione,
continuava a caricare una sveglia. Il marinaio Diamond, un duro ex pugilatore, al
comando del numero 15, bestemmiava in maniera spaventosa. Molti dei litigi avevano
per oggetto il fumo. Nel 1912, il tabacco non era ancora il grande rimedio americano per
alleggerire la fatica e la tensione, e le donne nelle scialuppe ne erano molto infastidite. La
signorina Elizabeth Shutes pregò due uomini che le sedevano accanto nel numero 3 di
smettere di fumare, ma essi continuarono. La signora Stuart White parlò della cosa
perfino all'inchiesta. Quando il senatore Smith le chiese se avesse qualcosa da dire sul
contegno dell'equipaggio, scattò: «Mentre ci allontanavamo dalla nave, i camerieri
tirarono fuori le sigarette e le accesero. In una situazione come quella!» Nell'atmosfera
più serena della scialuppa 1 il fumo non costituì un problema. Quando Sir Cosmo Duff
Gordon dette un buon sigaro al fuochista Hendrickson, nessuna delle donne nella
scialuppa era in realtà in grado di protestare. La signorina Francatelli era alle dipendenze
della moglie di Sir Cosmo e Lady Gordon stava troppo male per occuparsene. Il capo
chino sui remi, continuò a vomitare per tutta la notte. Tuttavia, anche nel numero 1 si
ebbero dei contrasti. Sir Cosmo e il signor C. E. Henry Stengel di Newark, nel New
Jersey, non andavano molto d'accordo. Questo avrebbe avuto certo poca importanza in
una scialuppa sovraccarica, ma essendoci soltanto dodici persone a bordo la faccenda
diventava piuttosto spiacevole. Secondo Sir Cosmo, il signor Stengel gridò a più riprese:
«Scialuppa in vista,» e diede anche vari consigli alla vedetta Symons sulla direzione da
prendere. Nessuno gli badava, ma Sir Cosmo si irritò al punto da invitarlo energicamente
a starsene tranquillo. Sir Cosmo si dimostrò doppiamente seccato quando il signor
Stengel, più tardi, testimoniò: «Sir Cosmo ed io decidemmo quale rotta tenere.» Frattanto
il fuochista Pusey commentava l'osservazione fatta da Lady Gordon alla signorina
Francatelli sulla perdita della sua camicia da notte: «Non ve la prendete,» le disse,
«intanto siete salva. Noi, piuttosto, abbiamo perduto tutto.» Mentre più tardi, sempre in
vena di commenti, Pusey si rivolse a Sir Cosmo: «Credo che abbiate perso tutto.»
«Infatti, è così.»
«Ma potrete riavere presto molte altre cose.»
«Certamente.»
«Noi, invece, abbiamo perso tutto ciò che avevamo, e la Compagnia non ce lo
restituirà. E, quel che è peggio, la paga ci sarà sospesa da questa notte.» Sir Cosmo ne
aveva abbastanza: «Bene, vi darò cinque dollari a testa per comprarvi quel che avete
perduto.» Lo fece, ma visse abbastanza a lungo per rammaricarsene. Il comando quasi
esclusivo assunto da Duff Gordon sulla scialuppa numero 1 e il mancato ritorno sul
luogo della sciagura conferirono a quel dono l'aspetto di un compenso poco chiaro, che
Sir Cosmo riusa a giustificare con molta difficoltà. E non fu certo aiutato dagli eventi che
seguirono. Quando Lady Gordon riunì gli uomini per una fotografia, dopo il salvataggio,
essi vi apparivano un po' come l'equipaggio personale di Duff Gordon. Più tardi, quando
si seppe che la vedetta Symons, che in realtà aveva il comando della scialuppa, aveva
trascorso una giornata con il legale di Sir Cosmo poco prima della sua testimonianza
all'inchiesta britannica, si disse che Sir Cosmo aveva perfino un timoniere personale. In
effetti, Sir Cosmo si rese colpevole soltanto di un estremo cattivo gusto. Anche l'alcool
causò qualche contrasto. Quando il numero 4 raccolse dall'acqua un membro
dell'equipaggio che aveva in tasca una bottiglia di cognac, la gettarono via, perchè, come
più tardi fu spiegato alla stampa, «avrebbe potuto portare delle conseguenze pericolose,
se l'avesse toccata una persona isterica nella scialuppa». La signorina Eustis diede un'altra
versione: «Quell'uomo era ubriaco e aveva in tasca una bottiglia di cognac; il timoniere la
gettò immediatamente in acqua, mentre faceva sdraiare l'ubriaco sul fondo della
scialuppa.» I guai nella scialuppa 6 erano di natura differente. L'attrito nacque nel
momento in cui il maggiore Peuchen passò i limiti nel voler comandare. Peuchen, che
era solito dare ordini, non potè resistere alla tentazione di prendere il comando. Il
timoniere Hitchens non la vedeva così. Mentre si allontanavano dal Titanic, Peuchen
remava e Hitchens era al timone; dopo una decina di minuti, Peuchen ordinò a Hitchens
di cedere il timone ad una signora e di passare ai remi. Il timoniere rispose che era lui ad
avere il comando della scialuppa e che l'unico dovere di Peuchen era di remare e stare
tranquillo. Lentamente la scialuppa si allontanò, con solo Peuchen e la vedetta Fleet ai
remi. A questo punto, per ordine della signora Brown, si mise ai remi la maggior parte
delle donne, mentre Hitchens rimaneva aggrappato al timone, gridando loro di remare
più rapidamente, per non essere risucchiati dal gorgo del Titanic. Le donne
cominciarono a rispondere per le rime; mentre la barca procedeva nell'oscurità,
risuonavano nella notte le frasi amare che i suoi occupanti si scambiavano. Il numero 6
continuò a lungo il suo cammino verso la luce ingannatrice all'orizzonte, e quando fu
chiaro che non avrebbe mai potuto raggiungerla, Hitchens annunciò che tutto era
perduto: non avevano nè acqua, nè cibo, nè bussola, nè carte; si trovavano a centinaia di
miglia dalla costa e non sapevano nemmeno in quale direzione procedessero. Il maggiore
Peuchen smise di remare, ma le donne continuarono. La signora Candee gli indicò la
Stella Polare, la signora Brown gli ingiunse di tacere e di remare. La signora Meyer lo
prese in giro per il suo coraggio. Si unirono poi alla scialuppa 16, e Hitchens diede
l'ordine di lasciar andare la barca alla deriva. Le donne però, non potendo sopportare il
freddo, continuarono a remare per scaldarsi. La signora Brown passò un remo a un
fuochista tutto sporco, trasferito dalla scialuppa 16, e ordinò che tutti continuassero a
vogare. Hitchens si mosse per fermarla ma la signora Brown gli dichiarò che, se si fosse
avvicinato, lo avrebbe buttato in mare. Il timoniere allora ritornò indietro, si infilò sotto
una coperta e cominciò a vomitare insulti. La signora Meyer rispose accusandolo di
prendersi tutte le coperte e di bere tutto il whisky. Hitchens negò. Il fuochista appena
trasferito, domandandosi dove mai fosse capitato, gli disse: «Sapete che state parlando ad
una signora?» Hitchens gli gridò di rimando: «So benissimo a chi sto parlando, e questa
scialuppa la comando io.» Ma l'intervento del fuochista diede i suoi frutti. Il timoniere se
ne stette zitto. La scialuppa 6 continuò il suo cammino nella notte, con Hitchens
silenzioso, Peuchen ormai estraneo agli avvenimenti, e la signora Brown praticamente al
comando. Anche gli uomini che si mantenevano a fatica sulla scialuppa B capovolta
trovavano motivi di discussione. Il colonnello Gracie, battendo i denti e con i capelli
rigidi per il gelo, si accorse che l'uomo al suo fianco portava un berretto asciutto. Il
colonnello gli chiese di prestarglielo un minuto per scaldarsi la testa «E io?» ribattè
l'uomo. La resistenza dei naufraghi sul canotto B era al limite. L'aria stava uscendo da
sotto lo scafo che, di conseguenza, affondava ogni minuto di più. L'acqua, in certi
momenti, arrivava loro alle ginocchia, e un movimento brusco poteva rovesciarli in
mare. Avevano bisogno di una persona dotata di sangue freddo e in grado di dare ordini
precisi. Gracie udì con sollievo la voce profonda del secondo ufficiale Lightoller, e con
ancor maggior sollievo quella di un uomo dell'equipaggio: «Ubbidiremo tutti agli ordini
dell'ufficiale!» Lightoller si dimostrò subito all'altezza della situazione. Poichè solo
un'azione organizzata avrebbe tenuto in equilibrio la scialuppa, ordinò a tutti i trenta
occupanti di stare in posizione eretta e li sistemò in doppia fila, il volto verso prua. Ad
ogni oscillazione della scialuppa, per bilanciarla ordinava: «Piegatevi verso destra». «Dritti
ora»... «Piegate a destra ora a sinistra, i trenta uomini presero a gridare: «Scialuppa in
vista Scialuppa in vista!» Lightoller li zittì, ordinando loro di risparmiare le forze. Faceva
sempre più freddo, e il colonnello si lamentò ancora, questa volta con Lightoller, per la
sua testa. Un uomo offrì a tutti e due un sorso dalla sua borraccia. Rifiutarono, ma
additarono Walter Hurst, che tremava vicino a loro. Hurst pensò si trattasse di cognac e
bevve un lungo sorso, ma rimase quasi senza fiato. Era essenza di menta. Parlavano
molto. L'assistente cuoco John Maynard raccontò che il capitano Smith era passato a
nuoto vicino alla scialuppa prima che il Titanic affondasse. Lo avevano tirato su, ma era
scivolato. Più tardi il fuochista Harry Senior dichiarò che il capitano si era lasciato
volontariamente cadere in mare dicendo: «Seguirò la mia nave!» Potrebbe anche essere
vero, ma Hurst è certo che il capitano Smith non raggiunse mai la scialuppa. Inoltre,
Senior fu uno degli ultimi ad arrivare, quasi certamente troppo tardi per poter vedere il
comandante. Più di ogni altra cosa, parlavano del modo in cui sarebbero stati salvati.
Lightoller scorse Harold Bride, il secondo telegrafista, a poppa della scialuppa, e dal suo
posto a prua gli chiese quali navi si stessero avvicinando. Bride rispose: «Il Baltic,
l'Olympic e il Carpathia.» Lightoller calcolò che il Carpathia sarebbe arrivato all'alba... e
fece passare la voce per rialzare il morale dei più abbattuti. Da quel momento presero ad
osservare l'orizzonte, alla ricerca di un indizio qualsiasi. Di tanto in tanto, si sentivano
rincuorati nel vedere i razzi verdi, quelli che Boxhall lanciava dalla scialuppa 2. Anche
Lightoller pensò provenissero da un'altra nave. Lentamente, la notte passò. Verso l'alba
si levò una leggera brezza che rese l'aria ancora più gelida e increspò il mare... Onde
gelate si frangevano contro i piedi, i polpacci, le ginocchia degli uomini sulla scialuppa B.
Gli spruzzi colpivano loro gli occhi, accecandoli. Prima uno, poi un altro, poi un altro
ancora scivolarono fuori poppa e scomparvero. I rimasti si fecero silenziosi, tesi fino allo
spasimo, nella dura battaglia per la vita. Anche sul mare si era fatto silenzio. Nessuna
traccia di vita sulle onde che increspavano la superficie dell'Atlantico mentre le prime
luci dell'alba illuminavano il cielo. Eppure, un uomo viveva ancora, grazie ad un'efficace
combinazione di iniziativa, fortuna e alcool. Quattro ore prima, il capo fornaio Charles
Joughin era stato svegliato, come molti altri sul Titanic, da quella strana scossa. E come
gli altri aveva udito il segnale di raccolta poco dopo la mezzanotte. Joughin, però, non si
era recato sul ponte lance. Aveva pensato che, se le imbarcazioni erano necessarie, il
pane non lo era di meno. Perciò, di sua iniziativa, radunò i suoi tredici fornai e raccolse
tutto il pane rimasto. Li mandò quindi in coperta con quattro pagnotte ciascuno. Fatto
ciò, Joughin si ritirò nella sua cabina sul ponte E, a sinistra, per farsi coraggio con un
sorso di whisky. Verso mezzanotte e mezzo si sentì pronto per scendere nella sua
scialuppa, il numero 10. A quell'ora, era ancora difficile persuadere le donne ad
imbarcarsi, e Joughin ricorse ai metodi più energici. Scese sul ponte di passeggiata e se ne
trascinò dietro a forza alcune. Poi, per usare le sue stesse parole, le «gettò» in una
scialuppa. Sistema rude, ma efficace. Joughin era stato assegnato come comandante della
scialuppa numero 10, ma ritenne che gli uomini presenti su di essa fossero sufficienti per
governarla. Ne saltò quindi fuori, e aiutò a metterla in mare. Prendervi posto, spiegò,
«sarebbe stato un cattivo esempio». Era l'una e venti. Ridiscese le scale inclinate per
tornare nella sua cabina e si versò un altro bicchierino. Seduto sulla cuccetta lo bevve,
conscio, ma non particolarmente preoccupato, dell'acqua che ora entrava dalla porta
della cabina, scorreva sul pavimento e saliva fino a coprirgli le scarpe. All'una e
quarantacinque vide passare il vecchio dottor O'Loughlin. Joughin non si domandò che
facesse laggiù quel vecchio gentiluomo, ma la vicinanza della cambusa fa pensare che
Joughin e il medico fossero scesi con le stesse intenzioni. Joughin lo salutò, e fece
ritorno sul ponte lance. Appena in tempo, giacchè ora il Titanic era inclinato al massimo
e mantenere l'equilibrio era un problema sempre più difficile. Ancora poco, e le scale
non sarebbero state più praticabili. Benchè non rimanessero più scialuppe, Joughin non
si sentì affatto scoraggiato. Scese sul ponte B e continuò a gettare in mare le poltrone da
ponte attraverso le finestre del passaggio chiuso. Gli altri lo guardarono, senza però
aiutarlo. In totale gettò in mare cinquanta poltrone. Era un lavoro faticoso; perciò, dopo
aver portato alla ringhiera l'ultima sedia facendola passare attraverso la finestra (era un
poco come infilare il filo nella cruna di un ago), Joughin si ritirò nella cambusa, a dritta,
sul ponte A. Erano le due e dieci. Mentre si dissetava, con l'acqua questa volta, udì un
fracasso di oggetti caduti alla rinfusa. I piatti e le padelle della cambusa erano precipitati.
Le luci si fecero rosse e Joughin udì sopra di sè un rumore di passi in corsa verso poppa.
Si precipitò fuori dalla cambusa, verso l'estremità a poppa del ponte, accodandosi ad un
gruppo che correva nella stessa direzione scendendo dal ponte lance. si mise anch'egli a
correre senza però mischiarsi alla folla. Arrivò al ponte B e poi in coperta. Vi era appena
giunto, che il Titanic sbandò a sinistra, gettando la maggior parte delle persone in un
mucchio contro il parapetto. Joughin si tenne in equilibrio. Rilassato ma attento, restava
in equilibrio, mentre la poppa saliva sempre più e sbandava a sinistra. Il ponte ormai era
così inclinato che non era possibile mantenervisi in piedi. Joughin passò allora oltre il
parapetto di dritta e si sistemò sul fianco della nave. Cominciò a spostarsi lentamente,
sempre tenendosi al parapetto (ma dall'esterno) fino a raggiungere le piastre di acciaio
dipinte di bianco, a poppa. Si trovava ora in piedi sulla rotonda poppa della nave, che si
protendeva nell'aria a circa cinquanta metri dal mare. Joughin si allacciò il salvagente e
guardò l'orologio: erano le due e quindici; con aria assorta se lo tolse e lo infilò nella
tasca dei pantaloni. Mentre si accingeva a meditare sulla sua posizione, cominciò a
sentirsi mancare l'appoggio sotto i piedi. Gli sembrava di essere in un ascensore. Mentre
il mare stava per chiudersi sopra la nave, Joughin si buttò in acqua: non si bagnò
neppure la testa. Cominciò a nuotare nella notte, preoccupato per l'acqua gelata. Vagò
per circa un'ora muovendo le braccia e le gambe quel tanto che bastava per rimanere in
posizione verticale. «Non c'era trucco,» spiega allegramente oggi. Erano le quattro
quando, nelle prime luci grigie dell'alba, vide qualcosa che gli sembrò un relitto. Nuotò in
quella direzione e vide che si trattava del canotto B, capovolto. La sua chiglia era
affollata: non potè salirvi, ma vi rimase aggrappato per un po', fino a che scorse un suo
vecchio amico della cucina, il cuoco John Maynard, specialista in minestre. L'amicizia fu
più forte del pericolo. John Maynard allungò una mano, e Joughin vi si aggrappò,
restandosene per conto suo nell'acqua in posizione quasi verticale e muovendosi appena.
Gli altri non lo notarono... Sia perchè erano troppo sfiniti per interessarsene, sia perchè
tutti gli occhi erano fissi all'orizzonte, verso sud-est. Erano passate da poco le tre e
mezzo quando videro per la prima volta un lampo lontano, seguito da un brontolio.
Nella scialuppa 6 la signorina Norton gridò: o Guardate, la luce di un lampo!» Hitchens
mormorò: «E una stella cadente!» Nel numero 13 un fuochista che giaceva nella
scialuppa, semincosciente per il freddo, si alzò gridando: «Era un cannone!» Nel numero
8 il marinaio Jones non voleva credere ai propri occhi. Si volse alla contessa di Rothes,
che remava accanto a lui, e le sussurrò: «Vedete delle luci? State attenta quando ci
solleveremo sulla prossima onda, ma non dite nulla, perchè posso essermi sbagliato.»
Mentre la scialuppa veniva sollevata dall'onda successiva, la contessa scrutò l'orizzonte.
Lontano, vide una pallida luce. Pochi minuti dopo, ogni dubbio era scomparso, così
comunicarono la notizia agli altri. La luce divenne più brillante, poi ne apparve un'altra,
poi molte ancora in una lunga fila. Stava arrivando una grossa nave e lanciava razzi per
rincuorare i naufraghi del Titanic. Nel numero 9 il marinaio Paddy McGough gridò:
«Ringraziamo Dio, c'è una nave all'orizzonte, sta venendo in nostro aiuto!» Gli uomini
nella scialuppa B lanciarono grida di gioia e ripresero a parlare. Nel numero 3 accesero
un giornale, agitandolo energicamente, poi il cappello di paglia della signora Davidson,
che bruciò più a lungo. Nella scialuppa della signora Jerwan inzupparono di petrolio
alcuni fazzoletti e li accesero Per segnalare la loro presenza. Nel numero 13 prepararono
una torcia di carta con delle vecchie lettere. Boxhall lanciò un ultimo razzo verde dalla
scialuppa 2. Nel numero 8 la signora White agitò più energicamente che mai il suo
bastone elettrico. Sull'acqua echeggiavano grida di gioia e di sollievo. La natura stessa
sembrava partecipare all'avvenimento. Mentre la notte era alla fine, il giorno si
annunciava con toni meravigliosi di lilla e di corallo. Non tutti, però, videro la nave.
Nella scialuppa A, semi sommersa, Olaus Abelseth tentava di ridare la volontà di vivere a
un uomo semi congelato. Quando spuntarono le prime luci del giorno, prese l'uomo per
le spalle e lo sollevò. Guardate!» gridò, «sta arrivando una nave, coraggio!» Prese le mani
dell'uomo, e gliele sollevò: nessuna reazione. Lo scosse allora per le spalle, ma l'uomo
riuscì solo a mormorare: «Chi siete?» e un minuto dopo: «Lasciatemi stare, chi siete?»
Abelseth lo tenne sollevato ancora un poco, ma era così stanco che alla fine dovette
usare una tavola come appoggio. Mezz'ora più tardi il cielo splendeva di meravigliose
sfumature rosa e oro; ma era troppo tardi perchè quell'uomo potesse vederle.
Stiamo andando a tutto vapore verso nord La signora Anne Crain si deliziava
all'aroma del caffè tostato nella sua cabina sul Carpathia, in rotta da New York verso il
Mediterraneo. Era circa l'una della quarta notte di viaggio, e ormai la signora Crain
conosceva il piccolo transatlantico abbastanza bene per capire che qualunque segno di
attività dopo la mezzanotte, ad eccezione della tostatura del caffè, non era normale. Più
giù, lungo il corridoio, la signorina Ann Peterson se ne stava sveglia nella sua cuccetta,
domandandosi perchè mai sulla nave le luci fossero ancora accese. Di solito, a quell'ora,
il Carpathia era completamente addormentato. Il signor Howard M. Chapin era più
preoccupato che stupito: sdraiato nella cuccetta superiore della sua cabina sul ponte A,
col viso a pochi centimetri dal ponte lance, che gli stava esattamente sopra, fu svegliato
improvvisamente, a un'ora imprecisata dopo la mezzanotte, da uno strano rumore. Un
uomo si era inginocchiato sul ponte, esattamente al di sopra della sua testa. Il giorno
precedente, aveva visto una scialuppa cadere proprio in quel punto, ed era sicuro, ora,
che un marinaio stesse sciogliendo l'imbarcazione e che ci fosse qualche guaio. Nella
cabina accanto, la signora Ogden si svegliò per il vento freddo che entrava nella cabina e
per la velocità della nave. Udendo una serie di rumori sopra il proprio capo, concluse
anch'essa che qualche cosa non andava. Scosse il marito addormentato. La sua risposta,
certo, non la rassicurò: era l'equipaggio che stava sciogliendo i passacavi delle scialuppe
di salvataggio. Egli allora aprì la porta della cabina e vide passare una fila di inservienti
carichi di coperte e materassi. Tutto ciò era sempre meno normale. Qua e là, in zone
diverse della nave, i passeggeri dal sonno leggero ascoltavano, senza riuscire ad
addormentarsi, i comandi sussurrati, il rumore dei passi, il cigolìo dei paranchi. Alcuni si
concentravano sulle macchine che si sentivano andare a tutta forza, con un ritmo molto
più rapido del solito. Le molle delle cuccette cigolavano... i lavabi tintinnavano nei loro
sostegni... il legno gemeva per lo sforzo. Dei rubinetti, funzionavano solo quelli
dell'acqua fredda. Sembrava si volesse riservare all'alimentazione delle macchine anche la
più piccola quantità disponibile di vapore. La cosa più strana era il freddo intenso. Il
Carpathia aveva lasciato New York l'undici aprile, diretto a Gibilterra, Genova, Napoli,
Trieste e Fiume. I centocinquanta passeggeri di prima classe erano quasi tutti americani
in età che inseguivano il sole nel periodo che precedeva il soggiorno in Florida; i
cinquecentosettantacinque passeggeri di terza classe erano per la maggior parte italiani e
slavi che facevano ritorno al loro Mediterraneo solatìo. Avevano tutti goduto, durante il
pomeriggio di quella domenica, della piacevole brezza della corrente del golfo. Verso le
cinque cominciò a fare così caldo che il signor Chapin dovette portare all'ombra la sua
poltrona sul ponte. Il nuovo cambiamento era molto strano: l'aria gelida che penetrava
da ogni spiraglio sembrava molto simile al vento dell'Artico. Sul ponte di comando, il
capitano Arthur H. Rostron si chiedeva se per caso tutto non fosse stato un errore.
Navigava da ventisette anni, e da diciassette con la Cunard, ma solo da due anni aveva
assunto il grado di capitano e da tre mesi appena comandava il Carpathia. L'appello
lanciato dal Titanic era la sua prima vera prova. Quando fu captato il CQD, Rostron si
era già ritirato per la notte. Harold Cottam, il telegrafista del Carpathia, portò il
messaggio al primo ufficiale Dean sul ponte di comando. Tutti e due si precipitarono giù
per la scaletta, attraversarono la sala nautica ed entrarono nella cabina del comandante.
Rostron, noto per il rigore disciplinare che manteneva anche quando era mezzo
addormentato, si chiese che cosa mai avesse potuto indurre un membro dell'equipaggio
ad entrare in quel modo. Avrebbero dovuto almeno bussare. Prima, però, che potesse
formulare un rimprovero, Dean gli comunicò la notizia. Rostron balzò dalla cuccetta,
ordinò di cambiare rotta, poi volle un'ulteriore conferma di quanto aveva detto Cottam:
«Siete certo che sia il Titanic a chiedere aiuto? o «Sì, signore.»
«Assolutamente certo?»
«Assolutamente, signor capitano.»
«Bene, rispondete che facciamo rotta verso di loro alla massima velocità.» Rostron
corse nella sala nautica e tracciò la nuova rotta del Carpathia. Mentre scarabocchiava
alcune cifre, vide passare il nostromo, al comando di un piccolo gruppo di uomini che
dovevano lavare il ponte. Rostron ordinò di lasciar perdere quel lavoro e di preparare
invece le scialuppe per essere calate in mare. Il nostromo aprì la bocca meravigliato.
Rostron lo rassicurò: «Va tutto bene, stiamo correndo in aiuto di un'altra nave che è nei
guai.» In pochi minuti il comandante tracciò la nuova rotta: «Nord 52-Ovest». Il
Carpathia distava cinquantotto miglia dal Titanic. Procedendo alla velocità di quattordici
nodi, avrebbero impiegato quattro ore per raggiungerlo. Troppe. Rostron mandò a
chiamare il capo macchinista Johnstone e gli diede ordine di accelerare... chiamò gli
uomini che non erano in servizio... fece sospendere il riscaldamento e la fornitura
dell'acqua calda... riservò ogni grammo di vapore per le caldaie. Subito dopo chiamò il
primo ufficiale Dean e gli ordinò di sospendere tutti i lavori abituali e di predisporre la
nave per l'opera di soccorso. Gli raccomandò in modo particolare di far sì che tutte le
scialuppe fossero pronte per essere messe in mare... di sistemare delle lampade elettriche
lungo le murate... di aprire tutti i passaggi di servizio... di approntare poltrone per i malati
e i feriti, tele e sacchi ad ogni porta per tirare su i bambini... di calare le scalette sui
fianchi, ai passaggi e lungo i lati... di sistemare le reti di carico per aiutare la gente a
salire... di preparare i paranchi... di mettere in pressione i verricelli per spostare la posta e
i bagagli... di preparare dell'olio da versare in acqua qualora il mare si fosse ingrossato.
Chiamò poi il chirurgo di bordo, il dottor Mc Ghee, e gli ordinò di raccogliere tutti gli
stimolanti disponibili sulla nave... di organizzare un servizio di pronto soccorso in ogni
sala da pranzo... di affidare al medico ungherese la terza classe... al medico italiano la
seconda e di riservarsi la prima. Venne poi il turno del commissario di bordo Brown: ai
suoi ordini il capo cameriere e il vice-commissario che dovevano controllare i vari
passaggi, ricevere i passeggeri del Titanic.. prendere nota dei loro nomi... e smistarli nella
giusta sala da pranzo (secondo la classe) per un controllo medico. Alla fine vennero le
raccomandazioni al capo cameriere Harry Hughes: radunare tutti gli uomini disponibili...
preparare caffè per tutti...tenere pronto brodo, caffè, tè, cognac whisky per i naufraghi...
predisporre le coperte... trasformare la sala fumatori, l'atrio e la biblioteca in dormitori
per gli scampati... raggruppare i passeggeri di terza classe del Carpathia e predisporre lo
spazio rimasto per i passeggeri di terza classe del Titanic. Nel dare gli ordini, Rostron
invitò tutti a conservare la calma. Il lavoro che li aspettava sarebbe stato molto duro ed
era meglio non avere tra i piedi i passeggeri del Carpathia. Perciò, più a lungo
dormivano, meglio sarebbe stato. Come precauzione supplementare, furono disposti
degli inservienti in ogni corridoio. Dovevano convincere i passeggeri che si fossero
svegliati che il Carpathia non era in difficoltà, e pregarli di tornare nelle rispettive cabine.
Poi mandò un ispettore e un gruppo di camerieri a tenere d'occhio i passeggeri di terza
classe. Nessuno infatti poteva sapere con sicurezza come avrebbero reagito nell'essere
trattati a quel modo. Sulla nave la vita riprese più intensa che mai. Giù, nella sala
macchine, sembrava che tutti avessero trovato una pala con cui gettar carbone nei
focolari. Il turno di riposo balzò dalle cuccette per correre in aiuto dei compagni. La
maggior parte di essi non si preoccupò neppure di vestirsi completamente. La nave
avanzava sempre più velocemente: quattordici nodi... quattordici e mezzo... quindici...
sedici e mezzo... diciassette... Nessuno avrebbe mai immaginato che il Carpathia potesse
filare a una velocità simile. Negli alloggi dell'equipaggio il cameriere Robert H. Vaughan
fu svegliato da uno strappo alla coperta. Una voce gli ordinò di alzarsi e vestirsi. Nel
buio Vaughan sentì che i compagni si stavano infilando gli abiti. Domandò che cosa
fosse successo, e qualcuno gli rispose che il Carpathia aveva urtato contro un iceberg.
Vaughan si precipitò all'oblò e guardò fuori. La nave avanzava mentre bianche onde si
allontanavano dai suoi fianchi. Era evidente che, sul Carpathia, tutto andava bene. Restò
perplesso, ma continuò a vestirsi come i suoi compagni, in una crescente confusione
dato che dovevano farlo al buio: qualcuno aveva spento l'unica lampadina. Quando
raggiunsero il ponte, un ufficiale li mise al lavoro per riunire le coperte. Poi li mandò
nella sala da pranzo di prima classe... Uno sciame di uomini che si affannava a
raccogliere le poltrone, rassettare le tavole, portare i liquori dal bar al buffet. Vaughan e i
suoi compagni non conoscevano ancora il motivo di tutto questo. Si sparse la voce che il
capitano Rostron volesse tremila coperte per altrettante persone, ma nessuno seppe dire
perchè. Finalmente, all'una e quindici, lo seppero. Tutti i camerieri furono radunati nella
sala da pranzo principale, dove il capo cameriere Hughes tenne loro un breve discorso.
Raccontò del Titanic... illustrò i loro doveri... fece una pausa, poi aggiunse: «Ogni uomo
sia all'altezza del suo compito e faccia il suo dovere come un vero inglese. Se la
situazione lo richiederà, riusciremo ad aggiungere un'altra pagina gloriosa alla storia
britannica.» Rimandò quindi gli inservienti ai rispettivi posti. La maggior parte di essi, in
quel momento, era impegnata a trasportare le coperte dai ripostigli ai passaggi di servizio.
Furono appunto quegli uomini che Louis Ogden vide quando guardò fuori dalla cabina
per la prima volta. Ogden decise ora di ritentare. Chiamò il dottor McGhee che passava,
ma il chirurgo gli rispose asciutto: «Vi prego, rimanete nella vostra cabina. E un ordine
del comandante.» Va bene, ma che cosa sta succedendo?»
«Un incidente, ma non alla nostra nave. Rientrate, prego.» Il signor Ogden tornò dalla
moglie. Per un motivo o per l'altro non era convinto che il Carpathia stesse accelerando
per andare in aiuto di qualcuno. Cominciò a vestirsi, scivolò sul ponte e trovò un
timoniere che conosceva. Questa volta la risposta fu precisa: «Il Titanic ha avuto un
incidente.»
«Cercate qualcosa di più intelligente!» gli gridò Ogden quasi trionfante. «Il Titanic è
sulla rotta a nord, e noi siamo su quella a sud.»
«Stiamo andando a tutto vapore verso nord. Rientrate nella vostra cabina.» Il signor
Ogden ritornò dalla moglie, che gli chiese: «Ci credi?»
«No, alzati e mettiti i vestiti più caldi che hai.» Il signor Ogden non aveva più dubbi,
ora: il Titanic era inaffondabile, perciò l'equipaggio stava cercando di nascondere
qualcosa. La storia del Titanic confermava i suoi peggiori timori: il Carpathia era in
pericolo. Dovevano fuggire. Riuscirono a scivolare sul ponte. Altri passeggeri fecero lo
stesso. Si tenevano nascosti dall'equipaggio, scambiandosi le opinioni più disparate. A
poco a poco si convinsero che il Carpathia non era in pericolo. Tuttavia, malgrado
quanto era stato loro riferito circa il Titanic, non comprendevano per quale ragione
stessero filando con tanta furia nella notte. E, naturalmente, non potevano far domande,
altrimenti sarebbero stati rimandati sotto coperta. Perciò si accontentarono di starsene
nascosti nel buio, con gli occhi fissi nelle tenebre, senza neppure sapere bene che cosa
cercassero di vedere. Nessuno infatti, sul Carpathia, sapeva che cosa doveva guardare o
cercare. Nella cabina del telegrafista, sopra la sala fumatori di seconda classe, Harold
Cottam non riusciva più a tenersi in contatto con il Titanic. Ma il suo apparecchio era
molto vecchio e aveva una portata di sole centocinquanta miglia, per cui Cottam non
poteva fidarsene più che tanto. Forse il Titanic stava ancora invocando soccorsi, ma i
suoi segnali erano troppo deboli per essere captati. Le notizie ricevute fino a quel
momento erano una peggiore dell'altra. All'una e zero sei, Cottam udì il Titanic
comunicare all'Olympic: «Tenete pronte le scialuppe, stiamo inabissandoci rapidamente
di prua»... All'una e dieci: «Stiamo affondando»... All'una e trentacinque: «La sala
macchine è inondata.» A un certo momento il Titanic chiese a Cottam quanto tempo
sarebbe stato loro necessario per arrivare. «Circa quattro ore,» fece rispondere Rostron.
Infatti non si era ancora reso conto di quanto il Carpathia potesse filare. All'una e
cinquanta Cottam captò un ultimo messaggio: «Fate presto, ragazzi! Sala macchine
sommersa, acqua nelle caldaie.» Dopo, silenzio. Erano le due, e Cottam era ancora in
ascolto, concentrato sul suo apparecchio. La signorina Peterson, affacciandosi alla cabina
radio, notò che, nonostante il freddo intenso, il telegrafista era ancora in maniche di
camicia. Infatti, quando era arrivato il primo CQD, aveva appena cominciato a vestirsi, e
da allora non aveva ancora trovato un minuto per infilarsi la giacca. Sul ponte di
comando, anche Rostron viveva momenti di ansia e di incertezza. Aveva predisposto
uomini e cose, aveva fatto tutto ciò che gli sembrava necessario, e ora non rimaneva che
la parte più difficile: attendere. Al suo fianco stava il secondo ufficiale James Bisset, a
prua erano disposti gli uomini di vedetta. Attendevano tutti un indizio dei ghiacci, un
segno qualunque della presenza del Titanic. Ma, fino a quel momento, nulla: solo il mare
opaco, le stelle scintillanti, l'orizzonte terso e libero. Alle due e trentacinque il dottor
McGhee salì la scaletta che portava al ponte di comando e comunicò a Rostron che
sottocoperta tutto era pronto. Mentre lo ascoltava, Rostron vide improvvisamente
accendersi una luce verde all'orizzonte, a mezzo punto da prua. «Un segnale luminoso!»
gridò. «Deve essere ancora a galla!» Sembrava proprio che fosse così. Il razzo era
evidentemente assai lontano, e, per poter essere visto, molto alto sull'acqua. Erano solo
le due e quaranta, ed erano già in vista del Titanic, forse sarebbero arrivati in tempo. Alle
due e quarantacinque il secondo ufficiale Bisset vide un piccolo gruppo di luci brillare a
prua. Era il primo iceberg, che rifletteva le luci delle stelle. Poi, ecco avanzare un'altra
montagna di ghiaccio, poi un'altra ancora. Il Carpathia scivolava tra i ghiacci che lo
circondavano da ogni lato, ma non diminuiva la sua velocità. Mentre la nave procedeva,
gli uomini, col fiato sospeso, cercavano di individuare il prossimo iceberg.
Più di un iceberg fu identificato come quell'iceberg che affondò il Titanic, ma questo ha le
carte più in regola degli altri. Venne fotografato vicino al punto del disastro il 15 aprile dal
capocameriere del piroscafo tedesco Prinz Adelbert
Di tanto in tanto, altri razzi verdi si accendevano all'orizzonte. Tutto era ormai
pronto, perciò i camerieri avevano un po' di tempo libero. Robert Vaughan e i suoi
compagni salirono in coperta. Come pugilatori che si scaldano prima di un incontro,
saltavano e giocavano per riscaldarsi. Ad un certo momento un grosso iceberg scivolò a
tribordo, vicinissimo; un uomo gridò: «Ehi, ragazzi! Guardate quell'orso polare che si
gratta con un pezzo di ghiaccio!» Una battuta piuttosto fiacca, forse, ma gli uomini
scoppiarono ugualmente a ridere, mentre il Carpathia continuava la sua corsa.
Cominciarono a lanciare dei razzi di risposta. Uno ogni quindici minuti. Si sparse la voce
che avessero avvistato la nave. Nella sala da pranzo principale, i camerieri corsero ai loro
posti. Nella sala macchine, i fuochisti continuavano a caricar carbone. Nei passaggi di
servizio e presso le scialuppe, gli uomini si tenevano pronti. Erano tutti molto eccitati. Il
Carpathia stesso sembrava tremare. Un marinaio più tardi disse: «Quella vecchia carcassa
era eccitata quanto noi.» In cuor suo, però, Rostron era tutt'altro che tranquillo. Alle tre e
trentacinque avevano quasi raggiunto la posizione del Titanic e ancora non c'era traccia
della nave. Concluse che i razzi verdi non dovevano essere stati così alti. Forse era stata
la limpidità della notte a permettergli di vederli da tanto lontano. Alle tre e cinquanta
fece diminuire la velocità: erano quasi arrivati. Alle quattro fece arrestare le macchine:
c'erano. In quello stesso istante videro brillare un altro razzo verde, proprio davanti a
loro, basso sull'acqua. La debole luce rivelò la sagoma di una scialuppa di salvataggio a
circa trecento metri di distanza. Rostron fece rimettere in moto le macchine e cominciò
la manovra, in modo da accostare la scialuppa di salvataggio da sinistra, tenendola
sottovento. Subito dopo si vide proprio di fronte un grosso iceberg e dovette virare
prontamente per evitare la collisione. La scialuppa era ora sopravvento, e mentre il
Carpathia cercava di accostarla si levò una leggera brezza che fece increspare il mare.
Una voce nell'oscurità gridò: «Abbiamo un solo marinaio e non riusciamo a manovrare.»
«Sta bene,» rispose Rostron e fece accostare ancor più il Carpathia, fino a che la voce
gridò ancora: «Fermate le macchine!» Era il quarto ufficiale Boxhall con la scialuppa
numero 2. Seduta al suo fianco, la signora Douglas, di Minneapolis, fu presa da un
attacco di nervi. «Il Titanic,» si mise a gridare, «è affondato con tutti i passeggeri!»
Boxhall le ordinò di piantarla con una crudezza che ottenne un risultato immediato. La
signora riprese subito il controllo dei propri nervi, e in seguito sostenne sempre che
quelle parole erano state più che giustificate. Sul Carpathia, nessuno l'aveva udita: tutti gli
occhi erano fissi sulla scialuppa di salvataggio che oscillava verso il barcarizzo. La signora
Ogden notò l'insegna della White Star Line dipinta sul suo fianco e i salvagente che
facevano sembrar tutti vestiti di bianco. La signora Crain osservò i volti pallidi ed esausti
levati a fissare il ponte. L'unico suono che si levava dalla scialuppa era il lamento di un
bimbo. Calati i cavi, la scialuppa fu agganciata. Un attimo di esitazione, poi, alle quattro e
dieci, la signorina Elizabeth Allen salì lentamente la scaletta e cadde tra le braccia del
commissario Brown. Questi le chiese dove fosse il Titanic, ed ella rispose che era
affondato. Rostron, sul ponte, lo sapeva senza bisogno di far domande. Tuttavia il suo
dovere gli imponeva di procedere con le formalità d'uso. Mandò a chiamare Boxhall, e
mentre il quarto ufficiale gli stava di fronte, in piedi, tremante di freddo, gli domandò: «Il
Titanic è affondato? ««Sissignore.» La voce di Boxhall ebbe un fremito. «E affondato alle
due e trenta circa.» Era quasi giorno, ora, e dal ponte passeggeri ed equipaggio potevano
vedere le altre scialuppe sparse tutt'intorno, su un'area di quattro miglia. Nell'incerta luce
dell'alba, era difficile distinguerle dalle decine di piccoli blocchi di ghiaccio galleggianti.
Oltre a questi c'erano tre o quattro enormi icebergs, alti dai cinquanta ai settanta metri. A
nord e ad ovest, a circa cinque miglia di distanza, si stendeva una lastra di ghiaccio, piatta
e continua, che si perdeva all'infinito. Sulla sua liscia superficie sporgevano qua e là
grossi massi che si stagliavano contro l'orizzonte. «Quando vidi i ghiacci tra i quali avevo
navigato per tutta la notte,» disse più tardi Rostron ad un amico, «tremai, e pensai che
un'altra mano, oltre alla mia, aveva retto il timone.» Quello spettacolo era così
impressionante, così incredibile, che i passeggeri che, nonostante i rumori, avevano
dormito fino allora, non riuscirono a capacitarsene. La signora Bradford di San
Francisco guardò fuori dall'oblò e non potè credere ai propri occhi: a mezzo miglio di
distanza si scorgeva vagamente un masso enorme simile ad un roccione della costa. Oltre
a tutto non era bianco, per cui ella si chiese: «Come facciamo a trovarci così vicini a una
scogliera, mentre dovremmo essere a quattro giorni da New York, in mezzo all'oceano e
in direzione sud?» La signorina Sue Eva Rule di St. Louis rimase altrettanto sorpresa.
Quando vide una delle scialuppe avanzare nelle prime luci dell'alba, una navicella che
avanzava sullo sfondo di una gran massa grigia, la signorina fu certa che stessero
raccogliendo l'equipaggio di un dirigibile caduto in mare. Un altro passeggero, stupito,
fermò una cameriera nel corridoio. Senza però dargli tempo di parlare, questa, indicando
un gruppo di donne che si dirigevano verso la sala da pranzo principale, sussurrò: «Sono
del Titanic. La loro nave è in fondo all'oceano. A dieci miglia di distanza, con il
sopraggiungere dell'alba, la vita cominciava a ridestarsi sul Californian. Alle quattro, il
comandante in seconda George Frederick Stewart salì sul ponte di comando per dare il
cambio al secondo ufficiale Stone, che lo informò delle ultime novità. Gli raccontò della
strana nave, dei razzi, della sua scomparsa. Aggiunse che alle tre e quaranta circa aveva
visto accendersi un altro razzo, in direzione sud, questa volta, e che certamente non
proveniva dalla stessa nave che aveva lanciato gli altri otto. Stanco morto, Stone scese la
scaletta e andò a dormire. Da quel momento tutto rimase nelle mani di Stewart. Alle
quattro e trenta Stewart svegliò il capitano Lord e cominciò a riferirgli la storia di Stone.
«Lo so, lo so,» lo interruppe il capitano, «me lo ha già raccontato.» Lord si vestì e salì sul
ponte di comando. Cominciò a discutere sul sistema migliore per uscire fuori dalla
trappola dei ghiacci e raggiungere Boston. Stewart lo interruppe per chiedergli se non
sarebbe stato opportuno occuparsi della nave che era appena comparsa a sud. Lord
rispose: «No, lasciamo stare. Non fa nessun segnale.» Stewart lasciò cadere la cosa, senza
accennare al fatto che Stone, scendendo, si era dichiarato certo che la nave proveniente
da sud non poteva essere la stessa che aveva lanciato i primi Otto razzi. Tuttavia, dovette
pensarci su molto a lungo, perchè scese a svegliare il telegrafista Evans alle cinque e
quaranta, dicendogli, secondo il racconto di quest'ultimo: «Una nave ha lanciato dei
razzi. Vorrei che cercaste di sapere di che cosa si tratta.» Evans si alzò nella luce incerta
dell'alba, trovò la cuffia e se la mise. Due minuti più tardi Stewart saliva gli scalini del
ponte di comando, gridando: «Una nave è affondata!» Poi ridiscese correndo, scomparve
nella cabina del telegrafista... ritornò su di nuovo... salì dal capitano Lord con la notizia.
«Il Titanic è entrato in collisione con un iceberg ed è affondato.» Il capitano Lord fece
ciò che qualunque uomo di mare avrebbe fatto. Mise immediatamente in moto le
macchine, e si diresse verso l'ultima posizione segnalata dal Titanic.
Andatevene, abbiamo visto annegare i nostri mariti «Oh, mammina, guarda il Polo
Nord senza Babbo Natale,» disse il piccolo Douglas alla madre, mentre la scialuppa 3 si
faceva strada tra i ghiacci verso il Carpathia. Sembrava infatti un'illustrazione dell'Artico,
di quelle che si trovano nei libri per bambini. Il sole si affacciava appena all'orizzonte e il
ghiaccio brillava sotto i suoi raggi. I blocchi apparivano bianchi, rosa, violetti o azzurri
nei giuochi di luci e di ombre. Il mare era azzurro cupo, e i piccoli pezzi di ghiaccio,
alcuni non più grandi di un pugno, galleggiavano sull'acqua increspata. E sopra l'acqua, il
cielo con le sue tinte blu e oro prometteva una bella giornata. Le ombre della notte
scomparvero ad occidente. Lawrencc Beesley ricordò di aver visto la stella del mattino
brillare a lungo, dopo che le altre non erano più visibili. Bassa sull'orizzonte apparve una
falce di luna, pallida e sottile. «E luna nuova! Gettate in aria una moneta, ragazzi! se ce
l'avete, naturalmente!» gridò allegramente il fuochista Fred Barrett all'equipaggio che
remava nel numero 13. Grida di gioia si levarono da tutte le scialuppe, mentre gli uomini
riprendevano a remare di buona lena per raggiungere il Carpathia. Una voce intonò: a
Forza verso riva, ragazzi.» Alcuni lanciarono grida di saluto, altri rimasero silenziosi,
affranti per la sciagura o muti per la gioia. «Va tutto bene, signore, non affliggetevi, ci
stanno venendo incontro.» La vedetta Hogg, sul numero 7, tentò di incoraggiare le
donne che fissavano il vuoto, ma esse rimasero immobili. Non si udirono grida di gioia
nemmeno sul canotto B, capovolto. Lightoller, Gracie, Bride, Thayer e gli altri erano
troppo tesi nella fatica di tenersi a galla. Mosse dalla brezza del mattino, le onde
passavano ormai sopra il piccolo scafo, e ad ogni oscillazione, un po' d'aria usciva da
sotto la barca, e questa affondava sempre più. Obbedendo ai comandi di Lightoller, gli
uomini avevano continuato a spostare il proprio peso avanti e indietro, ma dopo un'ora
erano prostrati. La vista del Carpathia che arrivava con le luci del giorno, così eccitante
per tutti gli altri, aveva ormai poco significato per quegli uomini. La nave si era fermata a
quattro miglia di distanza ed essi si domandavano come avrebbero potuto resistere fino a
quando non fossero stati avvistati. Improvvisamente, però, mentre il mare si inondava di
luce, sentirono nascere una nuova speranza, vedendo a circa ottocento metri le scialuppe
4, 10, 12 e D allineate secondo gli ordini del quinto ufficiale Lowe. Gli uomini del
canotto B gridarono: «Barche in vista.» Ma erano troppo lontani per farsi sentire.
Lightoller allora prese di tasca il fischietto e lanciò un energico richiamo. Il fischio non
solo superò la distanza, ma fece capire all'equipaggio delle scialuppe che il richiamo
veniva da un ufficiale. Nel numero 12 il marinaio Frederick Clinch sollevò lo sguardo e
vide in lontananza una ventina di uomini su un fumaiolo, o almeno così credette. Nel
numero 4 anche il fuochista Samuel Hemming alzò gli occhi, e nella luce del primo
mattino credette di vedere un gruppo di uomini su una lastra di ghiaccio. Ma questo
aveva poca importanza; le due scialuppe si staccarono dalle altre e puntarono verso il
canotto. Remavano lentamente, e mentre si avvicinavano, Lightoller fece loro fretta
gridando: «Fate presto a prenderci a bordo!»
«Eccoci, siamo qui!» gridò qualcuno in risposta e finalmente le due scialuppe
arrivarono, appena in tempo. Ormai il canotto B era in una posizione tale che l'onda
sollevata dal numero 4 quasi rovesciò tutti in mare. Ci volle tutta l'abilità del timoniere
Perkis per accostare la scialuppa al canotto, mentre Lightoller raccomandava agli uomini
di non fare movimenti bruschi. Anche così sembrava che l'imbarcazione dovesse
affondare ogni volta che uno dei superstiti prendeva lo slancio per saltare sulla scialuppa.
Si mossero uno per volta. Jack Thayer era così concentrato nei movimenti da fare per
salire sul numero 12, che non vide sua madre, a pochi metri di distanza, nel numero 4, e
la signora Thayer era così intontita dal freddo e dal dolore, che non vide il figlio. Il
colonnello Gracie, quando venne il suo turno, si arrampicò sul numero 12, preferendo
lacerarsi le dita piuttosto che rischiare il salto. Il panettiere Joughin, che era ancora in
acqua, non si preoccupò per nulla. Non fece che lasciare la mano di Maynard e nuotare
verso il numero 4, dove fu accolto in condizioni ancora abbastanza buone grazie al
whisky. Lightoller fu l'ultimo ad abbandonare il canotto rovesciato. Quando tutti gli altri
si furono trasferiti, sollevò un corpo inanimato e lo fece passare sul numero 12, poi vi
saltò anche lui e ne prese il comando. Erano circa le sette e trenta quando, alla fine, potè
allontanarsi dal battello rovesciato, remando verso il Carpathia. Il quinto ufficiale Lowe
rinunciò a cercare i naufraghi fra i relitti. Dopo un'ora di arduo lavoro, il numero 14
aveva raccolto solo quattro uomini, e Lowe sapeva che era ormai troppo tardi per
trovarne altri. Nessuna creatura umana avrebbe potuto resistere tanto a lungo nell'acqua
gelata. Ormai albeggiava, e i soccorsi erano finalmente arrivati. Lowe decise di ritornare
alle scialuppe che aveva lasciato in fila, e di guidarle verso il Carpathia. «Issate una vela,»
ordinò al marinaio F. O. Evans mentre la brezza aumentava. In tutte le altre
imbarcazioni, l'equipaggio aveva considerato l'albero un ingombro inutile e le vele un
impiccio che rendeva difficili i movimenti. Qualcuno aveva buttato a mare l'attrezzatura
ancora prima di lasciare il Titanic; altre scialuppe l'avevano ancora, e gli uomini,
inciampandovi contro, nell'oscurità, maledicevano quegli inutili arnesi che non sapevano
come usare. Per Lowe la cosa era diversa. Come egli spiegò più tardi, pochi marinai
sanno governare una scialuppa, come pochi barcaioli sono veri marinai; il quinto
ufficiale, invece, era tanto marinaio quanto barcaiolo: gli anni trascorsi sui battelli a vela
lungo la Costa d'Oro gli erano preziosi, ora, mentre bordeggiava.
Il battello D, in pessime condizioni accosta il Carpathia
La prua fendette l'onda e gli spruzzi brillarono al sole del primo mattino mentre il
numero 14 avanzava alla velocità di quattro nodi. Quando fece ritorno al luogo da cui
era partito, vide che la sua piccola flotta si era dispersa. Le scialuppe 4 e 12 si erano
allontanate per raccogliere gli uomini del canotto B, mentre il 10 e il D si dirigevano
separatamente verso il Carpathia. Il D sembrava in difficoltà, basso sull'acqua e con
pochi remi in azione. «Bene,» si disse Lowe, «lo raggiungerò per rendermi conto della sua
situazione.»
«Siamo ancora in condizione di farcela!» gridò Hugh Woolner mentre il numero 14 si
avvicinava. Lowe gettò loro una cima e li prese a rimorchio. Poi, a circa un miglio e
mezzo di distanza, scorse il canotto A, immobile e quasi sommerso. I suoi occupanti non
erano nemmeno riusciti a rialzare i bordi e le frisate ondeggiavano sull'acqua. Delle
trenta persone che all'inizio avevano preso posto nell'imbarcazione, molte erano cadute
in acqua intontite dal freddo. Solo una dozzina di uomini e la passeggera di terza classe
Rosa Abbott si trovavano ancora a bordo, con l'acqua gelata fino alle ginocchia. Lowe
arrivò appena in tempo... prese tutti a bordo del numero 14, poi, sempre rimorchiando il
canotto D, fece vela verso il Carpathia.
Il quinto ufficiale Lowe ha ammainato la vela e sta avvicinando il Carpathia a remi.
John Jacob Astor IV è stato un imprenditore statunitense. Muore nella tragedia del Titanic ed è
considerato il più ricco passeggero imbarcatosi sul transatlantico.
Il dottor Dodge non vide nè la moglie, nè il figlio salire a bordo, e la signora Dodge
non vide il marito sul ponte; il bimbo, invece, lo riconobbe, ma pensò che sarebbe stato
divertente non dirlo a nessuno. Così se ne stette zitto, e si nascose alla vista del padre.
Alla fine il fedele cameriere di sala Ray rovinò tutto, e fece sì che si riunissero. La folla
lungo i parapetti aumentava, a mano a mano che i passeggeri del Carpathia uscivano
dalle loro cabine. Alcuni appresero la notizia in modo alquanto strano. I coniugi Marshall
furono svegliati da un cameriere che bussava alla porta della loro cabina. «Che c'è?»
chiese il signor Marshall. «Vostra nipote desidera vedervi, signore,» fu la risposta. Il
signor Marshall rimase stupefatto. Sapeva che tutte e tre le sue nipoti erano a bordo del
Titanic, nella sua traversata inaugurale; gli avevano inviato un telegramma anche la notte
precedente. Come poteva una di loro trovarsi a bordo del Carpathia? Il cameriere si
spiegò meglio. Pochi minuti più tardi i Marshall tenevano una specie di riunione di
famiglia con la signora E. D. Appleton (le altre nipoti arrivarono più tardi), mentre la
loro figliola Evelyn si precipitava sul ponte per vedere che cosa stesse succedendo.
Quello che vide la colpì oltre ogni dire. La distesa di ghiaccio a nord e a ovest, i grandi
massi e quelli più piccoli galleggianti come avamposti davanti alla grande lastra,
conferivano al mare uno strano aspetto. Le scialuppe che arrivavano spinte dai remi da
tutte le direzioni, apparivano fuori luogo in mezzo all'Atlantico. Anche la gente che ne
scendeva non avrebbe potuto avere un aspetto più strano. La signorina Sue Eva Rule
notò una donna che indossava solo un asciugamano legato alla vita, e una magnifica
pelliccia. Il loro abbigliamento era uno strano miscuglio di abiti da sera... chimoni...
pellicce... scialli di lana... pigiama... stivali di gomma... pantofole di seta. Con tutto ciò,
siccome in quell'epoca si badava ancora molto alla forma, un certo numero di donne
portava il cappello, e gli uomini un berretto di tweed. La cosa più strana, e che colpiva
maggiormente, era il silenzio. Nessuno pronunciava una parola. Tutti rilevarono questo
particolare e ognuno ne diede una diversa spiegazione. Il reverendo P. M. A. Hoques, un
passeggero del Carpathia, pensò che i naufraghi fossero troppo abbattuti per poter
parlare. Il capitano Rostron pensò che tutti fossero troppo occupati. Lawrence Beesley
fu certo che non fossero nè troppo abbattuti nè troppo occupati, ma che si sentissero in
presenza di qualcosa di troppo grande per essere espresso a parole. Alcuni furono molto
commossi, come la signorina Peterson quando vide una bimba di nome Emily che
sedeva sul ponte-passeggiata singhiozzando: a Mamma, mamma, sto male! Oh, mamma,
mamma!» Mentre il numero 3 scaricava i suoi occupanti, una donna che indossava solo
una vestaglia e un chimono si alzò improvvisamente sul fondo della scialuppa. Indicando
un'altra signora che veniva issata su un carrello, gridò: «Guardate quell'orribile donna!
Orribile! Mi ha messo un piede sullo stomaco, quella creatura orribile!» Nella sala da
pranzo di terza classe una donna italiana era completamente disfatta: singhiozzava,
gridava, picchiava i pugni sulla tavola. Continuava a ripetere: «Il mio bambino!» Un
cameriere italiano sussurrò che non trovava nessuno dei suoi due bambini. Uno fu
presto trovato, ma la donna alzò due dita e ricominciò a gridare. Alla fine trovarono
anche l'altro, nella cambusa, sopra la stufa, dove l'avevano lasciato perchè si riscaldasse.
Alle otto e quindici erano arrivate tutte le scialuppe, ad eccezione del numero 12. Questa
si muoveva appena, a varie centinaia di metri di distanza. La brezza aumentava, e il mare
era sempre più agitato. Le frisate erano quasi al livello delle onde, e a bordo si pigiavano
settantacinque persone. La folla assiepata lungo la ringhiera del Carpathia stava a
guardare trattenendo il fiato, mentre Lightoller tentava di far avanzare la scialuppa.
L'ufficiale era quasi congelato, con l'uniforme inzuppata e irrigidita. Sulle spalle portava
una cappa con un cappuccio da monaco, datagli dalla signora Elizabeth Mellenger. Ai
suoi piedi, la figlia tredicenne della signora Mellenger, Madeleine, lo guardava piena di
ammirazione: conservò poi sempre quella cappa col cappuccio. Nella scialuppa i
naufraghi si tenevano stretti l'uno all'altro... tentando di asciugarsi, e sperando di riuscirci.
In momenti simili, accade spesso di notare le cose più sciocche. Così il colonnello Gracie
mentre tentava invano di rianimare un corpo senza vita che giaceva al suo fianco, si
chiedeva perchè mai indossasse lunghe calze di lana grigia. Erano ormai le otto e venti e
la scialuppa si trovava solo a duecento metri di distanza. Rostron, per portarle soccorso,
girò la prua del Carpathia e lo fece avanzare di un centinaio di metri. Mentre Lightoller
tentava di doppiare la prua e portarsi sotto vento, un refolo improvviso increspò il mare.
Prima un'onda, poi un'altra investirono la scialuppa. Riuscì ad evitarne una terza, e un
istante dopo era al sicuro, protetto dalla grossa nave. Alle otto e trenta il numero 12,
l'ultima scialuppa che ancora restava, venne agganciata alla nave e cominciò a scaricare i
passeggeri. Il colonnello Gracie si lasciò cadere in ginocchio e baciò il ponte non appena
vi mise piede. Harold Bride fu afferrato da due forti mani che lo aiutarono a salire. Jack
Thayer vide finalmente sua madre e si gettò fra le sue braccia. La signora Thayer
sussurrò: «Dov'è papà?»
«Non so, mamma,» rispose dolcemente il ragazzo. Nel frattempo Rostron si chiedeva
dove fosse meglio condurre i settecentocinque ospiti inattesi. Il porto più vicino era
Halifax, ma la rotta era ingombra di ghiacci ed egli pensò che i passeggeri del Titanic ne
avessero visti abbastanza Le Azzorre sarebbero state il punto migliore per non
allontanarsi troppo dalla rotta del Carpathia, ma non c'erano nè biancheria nè provviste
sufficienti per un percorso così lungo New York sarebbe stata la soluzione migliore per i
naufraghi, ma la più costosa per la Cunard Line. Il comandante scese nella cabina del
medico, dove il dottor McGhee stava visitando Bruce Ismay. Questi era completamente
sfinito; qualunque cosa pensasse Rostron, per lui andava bene. Rostron decise allora per
New York. Subito dopo giunse l'Olympic: perchè non trasferire su quella nave i
naufraghi del Titanic? Il capitano indugiò a considerare questa possibilità, senza dubbio
interessante, ma si rese ben presto conto che non poteva far affrontare ai naufraghi un
altro trasbordo in mare. Inoltre, l'Olimpic era la gemella del Titanic, e la sua vista non
sarebbe stata certo piacevole.
Cercando sempre di agire per il meglio, Rostron tornò nella cabina del dottor
McGhee per discuterne con Ismay. Il presidente della White Star rabbrividì soltanto a
pensarci. Fu deciso così per New York, e più presto fossero arrivati, meglio sarebbe
stato per tutti. Il Californian era ormai vicino, e il capitano Lord considerava la bandiera
a mezz'asta del Carpathia.
Passeggeri del Titanic scampati dal naufragio e ricoverati a bordo della nave
«RMS Carpathia». Dei 2.223 passeggeri a bordo, i sopravvissuti furono solo 706
Rostron decise che il Californian sarebbe rimasto in quelle acque per continuare le
ricerche, mentre egli avrebbe fatto rotta su New York. Issò a bordo il maggior numero
possibile di scialuppe del Titanic, sei sul ponte anteriore, sette nei paranchi e lasciò le
altre alla deriva. Prima di iniziare il viaggio di ritorno, tuttavia, Rostron non potè resistere
all'impulso di guardarsi ancora intorno: era un uomo di coscienza, non voleva
abbandonare la più piccola speranza. Quel compito era stato riservato al Californian ma
se c'era ancora la probabilità, anche minima, di raccogliere qualche altro naufrago,
Rostron voleva che fosse il Carpathia a farlo. Gli sembrò poi che un breve servizio
religioso sarebbe stato opportuno. Tornò sottocoperta e chiese a Ismay se avesse
qualche obiezione. La risposta fu la stessa: qualunque cosa pensasse Rostron, lui era
d'accordo. Il capitano mandò quindi a chiamare il reverendo padre Anderson, un
sacerdote evangelico che si trovava a bordo. I passeggeri del Titanic e del Carpathia si
riunirono nel salone principale, dove ringraziarono Iddio per i sopravvissuti e pregarono
per gli scomparsi. Mentre mormoravano le loro preghiere, il Carpathia procedeva
lentamente al disopra della tomba del Titanic. Erano rimaste poche tracce della grande
nave: pezzi di sughero giallo rossastro... alcune sedie da ponte... varie colonnine bianche
cuscini tappeti salvagente le scialuppe abbandonate... una salma. Alle otto e cinquanta
Rostron si sentì tranquillo. Non c'era sicuramente nessun altro superstite.
Un gruppo di passeggere superstiti del Titanic riposano sul ponte del Carpathia, a poppa, la
mattina del 15 aprile
Ordinò allora: «Avanti a tutta forza,» e mise la prua su New York. La città era già in
preda ad un'agitazione frenetica. Quando all'una e venti era arrivata la prima notizia,
nessuno sapeva cosa pensare. I comunicati della stampa erano piuttosto laconici e oscuri:
poche notizie da Capo Race, secondo le quali alle dieci e venticinque, ora locale, il
Titanic aveva lanciato il GQD, comunicando di avere urtato contro un iceberg e
chiedendo immediato soccorso. Era giunto poi un secondo messaggio: il transatlantico
stava inabissandosi e faceva scendere le donne nelle scialuppe. Poi, più nulla. Le notizie
arrivarono in tempo per le prime edizioni del mattino, ma erano scarse e non
controllabili: solo il trascorrere del tempo le avrebbe rese più esplicite. L'avvenimento
sembrava pazzesco, eppure si era verificato. I giornali furono molto cauti, come prova il
titolo dell'Herald:
IL NUOVO TITANIC URTA UN ICEBERG E CHIEDE SOCCORSO
ALCUNE NAVI ACCORRONO IN SUO AIUTO
Solo il Times ebbe il coraggio di abbandonare tanto riserbo. Il lungo silenzio, dopo i
primi laconici messaggi, convinse il consigliere delegato Carr Van Anda che la nave era
affondata. Così, osò gettarsi avanti: le prime edizioni parlarono del Titanic che stava
affondando e delle donne che venivano caricate sulle scialuppe; l'ultima edizione diede la
notizia dell'affondamento. Alle otto del mattino i giornalisti affollavano gli uffici della
White Star Line, al numero nove di Broadway. Il vice-presidente Philip A. S. Franklin
rassicurava i presenti: anche se aveva urtato un iceberg, il Titanic avrebbe potuto
galleggiare indefinitamente. «Abbiamo assoluta fiducia nelle possibilità del Titanic, che
consideriamo inaffondabile.»
L'unica cattiva notizia in prima pagina, il pomeriggio del 15 aprile, fu la sconfitta sportiva di
Christy Mathewson nella prima partita della stagione
Nello stesso tempo, però, cercava di mettersi in contatto col capitano Smith:
«Attendiamo ansiosamente informazioni e situazione passeggeri.» Nella mattinata, amici
e parenti dei passeggeri del Titanic si riversarono negli uffici: la signora Guggenheim e
suo fratello De Witt Seligman... il padre della signora Astor, W. H. Force... J. P. Morgan
jr... centinaia di persone che nessuno conosceva. Ricchi e poveri, tutti furono accolti con
lo stesso sorriso rassicurante: non era il caso di preoccuparsi... Il Titanic era
inaffondabile o per lo meno poteva mantenersi a galla per due o tre giorni... portava
scialuppe sufficienti per tutti. La stampa seguì tale linea di condotta. L'Evening Sun
pubblicò un'intera pagina sotto il titolo:
TUTTI SALVI DOPO LA COLLISIONE DEL TITANIC
L'articolo informava che tutti i passeggeri erano stati trasferiti sul Parisian e sul
Carpathia, mentre il Titanic veniva rimorchiato verso Halifax dal Virginian. Anche le
transazioni commerciali sembravano sostenute. Alle prime notizie, il tasso di
assicurazione del carico del Titanic salì al cinquanta per cento, poi al sessanta. Ma, con il
diffondersi dell'ottimismo, il tasso a Londra tornò al cinquanta per cento, poi al
quarantacinque, al trenta... e infine al venticinque per cento. Nel frattempo, le azioni
della Marconi salirono alle stelle. In due giorni balzarono da quota cinquantacinque fino
a duecentoventicinque. Non c'era male, per un'azione che un anno prima valeva solo due
dollari. E la IMM (la società che controllava la White Star Line) si stava ora riprendendo
dopo un inizio piuttosto agitato, al mattino. Le notizie, però, cominciarono a
serpeggiare. Non erano notizie ufficiali: alcuni telegrafisti in ascolto sui canali atlantici
captarono i tristi messaggi, non destinati a loro, e li ritrasmisero. Nel pomeriggio un
membro della Cunard seppe da un amico che il Titanic era sicuramente perduto. Un
uomo d'affari di New York telegrafò ad un amico, a Montreal, la stessa notizia. Franklin
stesso udì tali voci, ma data la fonte non ufficiale da cui provenivano, decise di non farne
nulla. Alle sei e un quarto, tutto crollò.
Giunsero finalmente notizie dall'Olympic: il Titanic era affondato alle due e venti di
notte; il Carpathia aveva raccolto tutte le scialuppe e stava facendo ritorno a New York
con i settecentocinque superstiti. Il messaggio era rimasto in transito per parecchie ore,
arrivando con un considerevole ritardo. Nessuno seppe mai perchè, come non si potè
mai controllare l'ipotesi suggerita dal World che ciò fosse dovuto all'intervento di
spedizionieri e uomini d'affari che volevano avere il tempo di riassicurare i loro carichi.
Franklin non aveva ancora comunicato nulla al pubblico, quando l'orologio degli uffici
della White Star Line battè le sette.
Cosa strana, era l'unica donna sul treno. Aveva appena assaggiato il suo pompelmo,
quando il convoglio rallentò, si fermò, riprese la corsa in senso contrario e non si fermò
fino a Boston. Qui fu confermato che «i piani erano stati cambiati e i superstiti del
Titanic sarebbero sbarcati direttamente a New York».
Il Secolo del 17 Aprile 1912
La signora Hess prese perciò il treno-letto per far ritorno e, nelle prime ore della
mattina seguente, trovò il fratello ad attenderla alla stazione: «Pare che le cose vadano
male.» Era stata compilata una prima lista di sopravvissuti, e una gran folla si pigiava
negli uffici della White Star. La signora Farquharson e la signora Marvin giunsero
insieme per conoscere la sorte dei rispettivi figlioli, che tornavano dalla luna di miele. La
madre della ragazza, signora Farquharson, ebbe un grido di gioia nello scorgere fra gli
altri il nome «signora Marvin», ma si ricompose subito non scorgendovi accanto quello
del marito. La signora Guggenheim si aggrappò alla speranza che qualche scialuppa di
salvataggio mancasse all'appello. «Può essere andata alla deriva!» singhiozzò. Per quanto
ne sapevano a New York, questo avrebbe anche potuto essere vero. Non si riuscì ad
ottenere alcuna informazione dal Carpathia. Rostron riservava il suo telegrafo per le
comunicazioni ufficiali e per i messaggi privati dei superstiti. I giornali dovettero perciò
accontentarsi delle prime notizie per compilare i loro articoli. L'Evening World parlò di
nebbia, del fischio lacerante della sirena del Titanic, di una scossa simile a un terremoto.
Lo Herald parlò della nave spaccata in due e quasi capovolta dall'urto, e del suo
affondamento nelle tenebre. Quando la loro fantasia si esaurì, i giornalisti cominciarono
a parlare della nave soccorso che non dava notizie. L'Evening Mail attaccò:
ANGOSCIA PER IL SILENZIO DEL
CARPATHIA
E il World insistette:
LA RADIO DEL CARPATHIA MANTIENE GELOSAMENTE IL SEGRETO
SULLA TRAGICA FINE DEL TITANIC
Così passò il martedì, poi il mercoledì... ed ancora il giovedì... senza ulteriori notizie.
Era ormai il turno dei settimanali. L'Harper's Weekly parlò delle varie personalità
presenti sul Titanic, dedicando un articolo a Henry Sleeper Harper, che apparteneva
alla famiglia proprietaria del giornale. Parlò della nebbia e di un urto spaventoso per
proseguire in tono minore: «Per quanto riguarda ciò che accadde dopo, tutto è ancora
molto vago.» L'Harper's continuava assicurando ai suoi lettori che, comunque, era
stato seguito il principio «prima le donne e i bambini», e cioè l'antica legge valida per
tutti gli uomini degni di rispetto che si trovano in mare. Nel numero seguente, il
giornale, con un colpo giornalistico, seppe abilmente superare il naturale imbarazzo
suscitato dalla notizia che Henry Sleeper Harper si era salvato con il suo pechinese e il
suo interprete personale. L'Harper's parò il colpo annunciando trionfalmente
un'intervista in esclusiva. La notte tra giovedì e venerdì mise fine all'attesa. Mentre il
Carpathia passava dinanzi alla statua della Libertà, gli occhi di diecimila persone lo
seguirono dalla Battery. La nave si diresse verso il molo cinquantaquattro, dove, sulla
banchina, oltre trentamila persone erano assiepate sotto la pioggia. Fino alla fine,
Rostron non volle avere a che fare con i giornalisti. Non li aveva lasciati salire a bordo
a Quarantine, e, mentre il Carpathia procedeva sul North River, i rimorchiatori gli si
ammassarono attorno pieni di giornalisti che facevano domande attraverso i megafoni.
Alle otto e trentasette la nave raggiunse il molo e cominciò a scaricare le scialuppe di
salvataggio del Titanic, in modo da poter poi attraccare. Queste vennero portate a remi
fino al molo della White Star Line, dove i cacciatori di ricordi, durante la notte,
portarono via tutto ciò che riuscivano a strappare. (Il giorno seguente alcuni uomini si
misero all'opera su ciascuna delle barche per cancellarne il nome: Titanic.) Alle nove e
trentacinque, il Carpathia attraccò, il barcarizzo fu abbassato e i primi superstiti
cominciarono a scendere. Più tardi venne calato un sacco di tela, pieno fino
all'inverosimile, e depositato in dogana sotto la lettera G. Gli ufficiali di dogana dissero
che era l'unico bagaglio portato in salvo dal Titanic. Il proprietario, Samuel
Goldenberg, contestò tale affermazione, sostenendo di aver comprato quegli effetti sul
Carpathia. Dichiarò che il sacco conteneva soltanto gli abiti che indossava quando era
sceso dal Titanic e alcuni accessori acquistati sulla nave che l'aveva raccolto: un
pigiama, una giacca, pantaloni, una vestaglia, un impermeabile, un paio di pantofole,
due coperte, camicie, colletti, articoli da toilette e scarpe per la moglie e per lui.
L'arrivo del Carpathia permise di sapere esattamente chi si era salvato, ma non che
cosa era accaduto. Alle notizie imprecise giunte in precedenza, i naufraghi aggiunsero i
loro racconti spesso fantastici. Per alcuni, le emozioni del viaggio di ritorno erano state
eccessive, altri si lasciavano semplicemente trasportare dall'eccitazione. I più espansivi
finirono per infiorare un racconto già emozionante in se stesso, mentre i più laconici
videro le loro peripezie gonfiate dai giornalisti. Alcuni erano troppo scossi, altri troppo
timidi.
Emilio Portaluppi
Nelle interviste pubblicate dai giornali si lesse che il passeggero di seconda classe
Emilio Portaluppi era rimasto per due ore a cavallo di una lastra di ghiaccio... che la
signorina Marie Young aveva scorto l'iceberg un'ora prima della collisione... che i
marinai Jack Williams e William French avevano visto uccidere come cani sei uomini
sotto i loro occhi... che il banchiere di Filadelfia Robert W. Daniel si era impadronito
del telegrafo del Carpathia per tutta la durata del viaggio di ritorno. L'evidenza più
chiara smentiva tali racconti, ma il pubblico era troppo eccitato per accorgersene. Le
narrazioni fantastiche superavano ogni limite. Il diciannove aprile, il New York Sun
fece dire al passeggero di prima classe George Brayton: «Nel brillante chiarore lunare,
alcuni di noi, desiderosi di godersi l'aria fresca, passeggiavano in coperta. Il capitano
Smith si trovava sul ponte di comando allorchè si udì il primo grido della vedetta, che
aveva avvistato un iceberg proprio davanti alla nave. Sarà stato alto cento metri, e
quando lo vidi, si trovava a una distanza di circa duecento metri, esattamente dinanzi a
noi. «Il capitano Smith gridò alcuni ordini... mentre un certo numero di passeggeri si
dirigeva verso la prua della nave. Quando ci accorgemmo che non sarebbe stato
possibile evitarlo, corremmo a poppa. Poi si udì l'urto, e i passeggeri furono presi dal
panico... L'incidente si verificò alle ventidue e trenta circa... verso mezzanotte, credo, si
verificò la prima esplosione nelle caldaie. Solo allora, il capitano Smith cominciò a
preoccuparsi...»
Il marinaio del Carpathia Jonas Briggs raccontò, nella sua intervista, la storia di
Rigel, un magnifico cane di Terranova nero, che, saltato dal ponte del Titanic mentre
questo affondava, aveva scortato una scialuppa di salvataggio fino al Carpathia,
segnalandone l'arrivo al capitano Rostron con il suo abbaiare. Nei ricordi di alcuni, il
giuoco dei pensieri personali aveva molto peso. La vedetta Reginald Lee - sembrava un
secolo da quell'orribile momento in cui il suo compagno Fleet aveva avvistato il masso
- parlò di un'ombra all'orizzonte e ricordò le parole di Fleet: «Se riusciamo a passare,
siamo fortunati.» Fleet, invece, non ricordava per nulla quelle parole. Un'intervista con
uno dei passeggeri di prima classe fornì una precisa spiegazione della sua presenza
nella scialuppa numero 7, la prima che avesse abbandonato la nave: «Su una cosa tutte
le donne erano decisissime: non sarebbero mai salite in una scialuppa se prima non vi
avessero preso posto gli uomini. Avevano paura a scendere in mare nei battelli. Ci
voleva molto coraggio per entrare in quelle fragili barche, che dondolavano appese ai
paranchi cigolanti. Alcuni uomini decisero di tentare. Un ufficiale, dietro a me, gridò:
«Siete abbastanza robusto per remare. Saltate in questa scialuppa, altrimenti le donne
non vi saliranno mai.» Fui costretto ad ubbidire, benchè debba confessare che la nave
mi sembrava molto più solida di quelle piccole scialuppe.» A poco a poco la tragedia si
rivelò nella sua giusta luce, ma molti dei particolari inventati in quei primi giorni
continuarono ad essere ricordati: la signora che si era rifiutata di abbandonare il suo
grande cane danese... l'orchestrina che suonava «Vicino a te, Signore»... il suicidio del
capitano Smith e del primo ufficiale Murdoch... la signora Brown al comando della
scialuppa numero 6 con una rivoltella in pugno. D'altra parte, le leggende
accompagnano sempre i grandi avvenimenti, e, quando contribuiscono a mantenere
vivo il ricordo di molti sacrifici, raggiungono un loro scopo, anche se nel caso del
Titanic non era necessaria alcuna leggenda per non far dimenticare la tragedia. La
gente era sopraffatta dagli avvenimenti. Ovunque erano esposte bandiere a mezz'asta.
I teatri Macy's e Harris furono chiusi. La French Line sospese un ricevimento sul
nuovo piroscafo France. A Southampton, città natale di tanti uomini dell'equipaggio
del Titanic, il lutto si abbattè sulla città; venti famiglie in una stessa strada avevano
perduto uno dei loro cari. Montreal sospese una rivista militare. Re Giorgio e il
presidente Taft si scambiarono messaggi di condoglianze, il Kaiser partecipò al lutto.
La J. S. Bache & Co. annullò la sua cena annuale e J. P. Morgan l'inaugurazione di un
nuovo sanatorio costruito ad Aix-les-Bains. Anche l'aggiornamento del Registro della
Compagnia presentò qualche difficoltà. In quel tempo, il nome della nave su cui una
persona viaggiava costituiva un importante elemento per la determinazione della sua
posizione sociale, e il Registro era di grande aiuto. La tragedia sollevò un problema
imprevisto. Scrivere che i naufraghi avevano compiuto la traversata sul Titanic
significava, sì, riconoscere loro quanto era dovuto su un piano mondano, ma
purtroppo non era la verità. Affermare che erano arrivati col Carpathia corrispondeva
alla verità, ma, dal punto di vista sociale, suggeriva un'idea sbagliata. Come risolvere il
problema? Per quanto riguardava i morti, la questione fu subito risolta: dopo i loro
nomi venne annotato semplicemente: «Perito in mare il quindici aprile
millenovecentododici.» Accanto al nome degli scampati venne scritto invece: «Arrivato
con Titan-Carpath il diciotto aprile millenovecentododici.» L'unione di quei nomi
ricorda il più grande disastro marittimo della storia. Non fu tanto la tragedia per se
stessa a turbare la gente, quanto il destino che aveva guidato gli avvenimenti. Se il
Titanic avesse raccolto anche uno solo dei sei messaggi riguardanti la posizione dei
ghiacci, trasmessi quella domenica... se la situazione dei ghiacci fosse stata normale... se
la notte fosse stata tempestosa o rischiarata dalla luna... se avessero visto l'iceberg
quindici secondi prima o quindici secondi dopo... se avessero urtato in una diversa
posizione... se le paratie stagne fossero arrivate a un ponte più sopra... se ci fossero
state scialuppe a sufficienza... se almeno il Californian avesse raccolto il loro appello e
si fosse mosso. Se una qualunque di queste ipotesi si fosse verificata, non ci sarebbero
state vittime. Ma tutto aveva congiurato contro il Titanic, come in un'antica tragedia
greca. Quando il Carpathia volse la prua verso New York, nella chiara mattina del
quindici aprile, piena di sole, nessuno aveva ancora fatto queste considerazioni. In quel
momento, i sopravvissuti giacevano esausti sulle sedie del ponte o stavano
sorseggiando un caffè nella sala da pranzo, o si chiedevano vagamente che cosa si
sarebbero messi indosso. I passeggeri del Carpathia si resero utili in tutti i modi:
procurarono spazzolini da denti, prestarono abiti, con le coperte della nave portate
dalle scialuppe cucirono indumenti per i bambini. Un agente di Macy, diretto in
Portogallo, divenne una specie di angelo custode per i tre agenti di Gimbels, salvati dal
naufragio. La signora Ogden pensò di portare una tazza di caffè a due donne che
sedevano appartate, avvolte in soprabiti e sciarpe dai colori vivaci. «Andatevene,» le
dissero asciutte. «Abbiamo visto annegare i nostri mariti.» Per alcuni dei sopravvissuti,
la vita riprese: Lawrence Beesley, ad esempio, scarabocchiò subito un messaggio
telegrafico in cui comunicava di essere salvo. Ad altri fu necessario più tempo. Il
colonnello Gracie giaceva sotto una montagna di coperte, su un divano della sala da
pranzo, in attesa che i suoi abiti si asciugassero nel forno. Bruce Ismay sedeva
tremante nella cabina del medico, che gli aveva somministrato una forte dose di
sonnifero. Harold Bride rinvenne in una cabina sconosciuta: una donna era china su di
lui, ed egli sentì una mano scostargli i capelli e ripulirgli il viso. Jack Thayer si trovava
in una cabina vicina Un uomo gli aveva gentilmente messo a disposizione un pigiama e
la sua cuccetta, ed egli ora stava andando a letto, proprio come si accingeva a fare dieci
ore prima. Si sdraiò tra le lenzuola fresche mentre pensava che la tazza di cognac,
inghiottita poco prima, era la prima bevanda forte che avesse mai bevuto. Stava
dunque diventando un uomo. Più in basso, le macchine del Carpathia pulsavano con
ritmo continuo e rapido. In alto, il vento fischiava fra le attrezzature. Dinanzi si
annunciavano New York e la casa di Filadelfia. Dietro si allontanavano le strisce rosse
e bianche, illuminate dal sole, dell'insegna del barbiere del Titanic, che fluttuavano
ancora sul mare deserto. Ma Jack Thayer non se ne preoccupò più che tanto: il cognac
aveva fatto il suo effetto. Si addormentò di colpo.
Dati e cifre sul Titanic «Non ci sarà mai più una nave come quella,» afferma il
panettiere Charles Burgess, che dovrebbe saperlo bene. In quarantatrè anni di servizio
sulle rotte atlantiche, è stato imbarcato su tutte le grandi navi: l'Olympic... il Majestic... il
Mauretania... e così via. Oggi lavora a bordo del Queeen Elizabeth, ed è probabilmente
l'ultimo uomo dell'equipaggio del Titanic che si trovi ancora in servizio attivo. «Era come
l'Olympic, si, ma molto più lussuosa,» ci spiega. a Prendete ad esempio la sala da pranzo:
l'Olympic non aveva nemmeno un tappeto, mentre sul Titanic si affondava fino alle
ginocchia. E i mobili: così pesanti che si potevano sollevare a fatica. E i rivestimenti...
Potranno costruire delle navi più grandi e più veloci, ma difficilmente saranno altrettanto
curate. Era bella, era una magnifica nave.» Questi ricordi di Burgess esprimono bene
l'opinione del pubblico su quel transatlantico. Sembra che il Titanic abbia gettato un
incantesimo su coloro che lo costruirono o vi navigarono; e così, col passar degli anni,
esso diviene ancor più leggendario. Molti dei superstiti affermano oggi che esso era
«grande due volte l'Olympic». Invece erano due navi gemelle e il Titanic stazzava appena
mille e quattro tonnellate in più. Altri ne ricordano i campi da golf e da tennis, le mucche
per avere sempre latte fresco, e mille altri particolari, nei quali la White Star Line aveva
spinto ancor più oltre la sua abituale tendenza per il lusso. Il Titanic, comunque, era
abbastanza imponente anche senza esagerarne le caratteristiche. Il suo peso: 46.328
tonnellate lorde... 66.000 tonnellate di dislocamento. Le sue dimensioni: 270 metri di
lunghezza, 28 metri di larghezza, 18 metri dalla linea di galleggiamento al ponte lance, e
53 metri dalla chiglia alla cima dei quattro enormi fumaioli. Nave a tre eliche, il Titanic
era dotato di due macchine alternative a quattro cilindri, ciascuna delle quali azionava
un'elica laterale, e di una turbina che azionava l'elica centrale. Questo complesso aveva
una potenza di cinquantamila cavalli, ma avrebbe potuto svilupparne facilmente almeno
cinquantacinquemila. Al massimo regime, la nave raggiungeva i ventiquattro-venticinque
nodi. La caratteristica più interessante era forse la costruzione stagna. Aveva un doppio
fondo, ed era divisa in sedici compartimenti stagni, formati da quindici paratie trasversali,
a tenuta. Strano a dirsi, non erano molto alte. Le prime due e le ultime cinque
raggiungevano solo il ponte D, mentre le otto centrali si fermavano al ponte E.
Comunque, la nave avrebbe potuto galleggiare con due compartimenti allagati, e poichè
nessuno era riuscito ad immaginare una catastrofe peggiore di una collisione alla
congiuntura di due compartimenti, il piroscafo era stato definito «inaffondabile».
L'inaffondabile Titanic fu varato nei cantieri Harland e Wolff di Belfast il trentun maggio
millenovecentoundici. Nei dieci mesi successivi la nave fu completamente approntata e il
collaudo definitivo si ebbe il primo aprile 1912. Arrivò a Southampton il tre aprile, e una
settimana dopo salpò per New York.
Ecco ora un elenco preciso degli avvenimenti più importanti verificatisi durante il suo
viaggio inaugurale:
Questi sono i fatti, nudi e crudi; tutto il resto rimane avvolto nel mistero.
Probabilmente nessun avvenimento lascerà mai più tante domande senza risposta.
Quante vite andarono perdute? Secondo alcune fonti, milleseicentotrentacinque...
Secondo l'inchiesta ufficiale americana, millecinquecentodiciassette... Secondo il
Ministero del Commercio Britannico, millecinquecentotrè... Secondo l'inchiesta ufficiale
britannica, millequattrocentonovanta. La cifra del Ministero del Commercio Britannico
sembra la più attendibile, tenuto conto naturalmente della diserzione del fuochista J.
Coffy, avvenuta a Queenstown. Come abbandonarono la nave, i passeggeri. Quasi tutte
le donne scampate a cui venne rivolta questa domanda affermarono categoricamente:
«Con l'ultima scialuppa.» E evidentemente impossibile che tutte abbiano trovato posto
nella stessa imbarcazione, eppure, insistere su tale argomento è come insistere sull'età di
una donna: è un'impresa vana. Un attento esame delle testimonianze raccolte sia da parte
inglese che americana permette di immaginare abbastanza chiaramente come fu
abbandonata la nave, sebbene si notino sempre elementi contrastanti. Gli inglesi, durante
l'inchiesta, chiesero ad ogni testimone il numero delle persone presenti nella sua
scialuppa e fecero la somma di tali cifre minime presuntive. I risultati si dimostrarono del
tutto inattendibili: scampati Equipaggio 107 Passeggeri uomini 43 Donne e bambini 704
superstiti Totale 854 In realtà, dunque, nelle scialuppe si salvò il settanta per cento in più
di uomini e il quarantacinque per cento in meno di donne di quanto credessero anche i
più pessimisti. Oltre a questo, le scialuppe si allontanarono portando a bordo il
venticinque per cento in meno di passeggeri di quanto si credesse. A che ora si
verificarono i vari incidenti? Tutti sono d'accordo nell'affermare che il Titanic urtò
l'iceberg alle ventitrè e quaranta e affondò alle due e venti, ma non lo sono su quanto
accadde in quel lasso di tempo. La cronologia riferita in questo libro è basata sui racconti
fatti in buona fede dagli stessi interessati, ma è ben lontana dal costituire un elemento di
prova. Tutti erano troppo agitati. Basti pensare a quanto accadde alla signora Ogden, che
viaggiava sul Carpathia: ad un certo momento, mentre aiutava un gruppo di naufraghi, si
arrestò per chiedere l'ora al marito. L'orologio del signor Ogden s'era fermato, ma egli
pensò che fossero le quattro e mezzo del pomeriggio. In realtà erano solo le nove e
mezzo del mattino. Erano talmente presi nella loro opera che avevano perso la nozione
del tempo. Che cosa dissero le varie persone? In questo libro sono stati ricostruiti alcuni
dialoghi. Le diverse frasi sono state riferite esattamente come la gente le ricorda. Eppure,
sussistono delle incongruenze. Le stesse conversazioni sono state riferite in termini
diversi. Ad esempio, vi sono almeno quattro versioni delle parole scambiate tra il
capitano Rostron e il quarto ufficiale Boxhall quando la scialuppa 2 accostò il Carpathia.
Il significato è sempre lo stesso, ma le parole cambiano leggermente. Che cosa suonava
l'orchestra? Secondo la versione accettata come vera, l'orchestra si inabissò suonando:
«Vicino a te, o Signore». Molti dei sopravvissuti insistono però nell'affermare che
l'orchestra abbia suonato soltanto ritmi jazz. Uno dei passeggeri asserisce di ricordare
chiaramente che l'orchestra, negli ultimi momenti, non suonava affatto. In questo
groviglio di testimonianze contraddittorie, il giovane telegrafista Harold Bride dà una
versione che sembra la più credibile.
A questi e a molti altri sopravvissuti del Titanic -come la signora Futrelle, la signora
Harris, la signora Cassebeer, la signora Mann, la signora Williams, Harry Giles, Charles
Joughin e Herbert J. Pitman - va il mio ringraziamento più sentito per il tempo che
hanno perduto e il disturbo che hanno subito. Di grande aiuto mi sono stati anche i
parenti di alcuni passeggeri del Titanic. Una lettera resa pubblica di recente dall'erede di
uno dei superstiti ci dice a che punto si sia potuti arrivare. E una lettera indirizzata al
sopravvissuto stesso poco dopo il disastro. Ho omesso tutti i nomi, ma il fatto stesso che
questo documento mi sia stato affidato rivela un coraggio ed un'onestà che fanno
perdonare le colpe di cui si parla: «Caro... mi si dice che hai tentato di entrare a viva forza
in una scialuppa di salvataggio... e che quando ciò ti è stato impedito dal maggiore Butt,
ti sei allontanato. Pochi minuti dopo ti hanno visto arrivare con abiti femminili, che sono
stati riconosciuti per gli indumenti di tua moglie. Non riesco a capire come tu possa
andare a testa alta e considerarti un uomo tra gli uomini, sapendo che ogni tuo respiro è
menzogna. Se la coscienza ti rimorderà dopo aver letto queste parole, è meglio che tu
venga a me. Proverai quanto sia vero il detto: " La confessione fa bene all'anima " Tuo...»
Oltre a mettermi a disposizione vari scritti molti tra i parenti dei naufraghi mi hanno
dato interessanti informazioni. In particolare desidero ringraziare la figlia del capitano
Smith, signora Cooke, per la simpatica descrizione di suo padre... la signora Sylvia
Lightoller per la sua gentilezza nel parlarmi di suo marito, ora defunto, il comandante
Charles Lightoller, che si distinse nel millenovecentoquaranta a bordo del suo mezzo da
sbarco a Dunquerque... la signora Hess per avermi dato tante notizie sui coniugi Straus...
la signora Cynthia Fletcher per avermi fatto avere una copia della lettera scritta da suo
padre, Hugh Woolner, che era a bordo del Carpathia... il signor Fred G. Crosby, e suo
figlio John, per avermi aiutato a raccogliere notizie sul capitano Edward Gifford
Crosby... e la signora Minahan, per gli interessanti particolari sui coniugi Minahan e la
loro figlia Daisy. Quando non ho potuto rintracciare direttamente i superstiti o i loro
parenti, mi sono basato sul materiale pubblicato. I rendiconti ufficiali dell'inchiesta del
Senato e della British Court of Enquiry sono evidentemente le fonti più attendibili. I
ricordi pubblicati privatamente da Jack Thayer costituiscono un resoconto estremamente
sincero. Il discorso del dottor Washington Dodge al Commonwealth Club di San
Francisco è ugualmente interessante. Il libro di Lawrence Beesley, «La perdita del
piroscafo Titanic» (Houghton Mifflin, 1912), contiene una descrizione che vale la pena di
leggere. «La verità sul Titanic» di Archibald Gracie (Mitchell Kennerley, 1913) è la
pubblicazione più attendibile sulla distribuzione dei naufraghi nelle scialuppe; il
colonnello Gracie era un indagatore infaticabile. «Il Titanic ed altre navi o del
comandante Lightoller (Ivor Nicholsoh & Watson, 1935) rispecchia il suo spirito e il suo
coraggio. «Un eroe del Titanic: Thomas Andrews, armatore» di Shan Bullock (Norman-
Remington, 1913) è l'opera di un appassionato che ha ricostruito fedelmente le ultime
ore di quell'uomo meraviglioso. Buoni racconti di alcuni superstiti sono anche comparsi
qua e là su riviste e giornali: gli anniversari sono stati ottimi motivi per parlare della
tragedia. Tipici i resoconti di Jack Thayer nell'Evening Bulletin di Filadelfia del 14 aprile
1932... l'intervista del fuochista Louis Michelsen nella Gazette di Cedar Rapids del 15
maggio 1955... il racconto interessante e vivo della signora Harris sullarivista Liberty del
23 aprile 1932. Molto meno utile appare la stampa dell'epoca. Il New York Times
naturalmente pubblicò notizie molto interessanti, ma la maggior parte dei giornali di
New York si dimostrò assai poco attendibile. Un miglior lavoro venne svolto dai giornali
delle varie città i cui cittadini erano a bordo della nave, come i giornali di Milwaukee con
i Crosby e i Minahan, quelli di San Francisco con i Dodge... la Gazette di Cedar Rapids
con i Douglas. All'estero, il Time di Londra fu molto accurato, anche se noioso. Più
interessanti, forse, furono i giornali di Belfast, dove il Titanic era stato costruito, e quelli
di Southampton, patria della maggior parte dell'equipaggio. Si tratta di città di mare, e i
resoconti dovevano essere interessanti. I mensili popolari dell'epoca -Harper's, Sphere, Il
lustrated London News -praticamente non fecero altro che ripetere quanto era stato
pubblicato sui giornali, ma di tanto in tanto spunta tra i loro resoconti una gemma, come
la descrizione di Henry Sleeper Harper sulla rivista Harper's del 27 aprile 1912 o il
racconto della signora Charlotte Collyer sul numero del 26 maggio 1912 del Semi-
Monthly Magazine. La stampa tecnica offre spunti migliori: l'edizione speciale del 1911
della rivista britannica Ship bilder porta i completi dati costruttivi del Titanic, e
altrettanto fanno il numero del 26 maggio 1911 di Engineering e quello del 1° luglio
1911 dello Scientific American. Gli altri personaggi del dramma - i passeggeri del
Carpathia - sono stati egualmente cortesi, e mi harmo aiutato quanto quelli del Titanic. Il
signor Robert H. Vaughan è stato un collaboratore insostituibile per raccogliere i
particolari di quanto accadde quella notte. Sir James Bisset e il signor R. Purvis mi hanno
aiutato ricordando i nomi dei vari ufficiali del Carpathia. La signora Ogden ha fornito un
tesoro di aneddoti, tutti estremamente interessanti, dato che fu tra i primi a salire sul
ponte. La signora Suarez (allora signorina Evelyn Marshall) ha contribuito fornendomi
un quadro vivo dell'arrivo delle scialuppe del Titanic. Non è stato pubblicato molto sul
Carpathia, ma il libro del capitano Sir Arthur H. Rostron, «A casa dopo il mare»
(Macmillan, 1931), contiene-un ottimo resoconto.
Il capitano Arthur H. Rostron e gli ufficiali del piroscafo soccorritore Carpathia in una foto
messa a disposizione da Sir James Bisset, allora secondo ufficiale