Eschine Di Sfetto Alcune Nuove Testimoni
Eschine Di Sfetto Alcune Nuove Testimoni
Eschine Di Sfetto Alcune Nuove Testimoni
brill.com/met
Abstract
The paper aims at examining some new testimonies on Aeschines of Sphettus that
were not included in Gabriele Giannantoni’s Socratis et Socraticorum Reliquiae, and
that refer to different aspects of the Socratic’s life and works. Some texts concern
Aeschines’ biografy; namely, his relationship with Socrates (Suid. s.v. Σωκράτης),
his patronymic and his poverty (Aristoph. Vesp. 1243–1247, 323–326, 459; Suid. s.v.
σεσέλλισαι; Hesych. Miles. s.v. σεσέλλισαι). Other testimonies directly refer to Ae-
schines’ logoi Sokratikoi, with regard both to the style (Mich. Psellos Ἔπαινος τοῦ
Ἰταλοῦ 19, 83; Hermog. De ideis I 409, 5) and to the content of specific dialogues,
such as the Aspasia (Philod. Vit. X = PHerc. 1008, coll. xxi–xxii; Harpocrat. s.v.
Ἀσπασία), the Miltiades (Stob. ii 34, 10) and the Alcibiades (Priscian. De construc-
tione vii 187. 7–8).
Leaving aside Aristophanes, all the new fragments derive from late sources, and
they can be ascribed to the Socratic with different degrees of certainty. Evidence for
their attribution, indeed, is not always compelling. I will thus argue for the inclusion
of some of these textes in a new collection of Aeschines’ fragments, by trying at the
same time to define their place and their relevance within the complex of the sources
on the Socratic.
Keywords
Dei filosofi formò Platone […], Senofonte figlio di Grillo, Eschine, Lisania del
demo di Sfetto, Cebete di Tebe, Glaucone Ateniese, Brisone di Eraclea.
2. Aristoph. Vesp. 1243–1247 (ed. Coulon): μετὰ τοῦτον Aἰσχίνης ὁ Σέλλου δέξεται,
| ἀνὴρ σοφὸς καὶ μουσικός, κᾆτ᾽ ᾁσεται | ‘χρήματα καὶ βίαν | Kλειταγόρᾳ τε κἀμοὶ |
μετὰ Θετταλῶν’.
Ivi, 323–326: ἀλλ᾽ ὦ Zεῦ Zεῦ μέγα βροντήσας | ἤ με ποίησον καπνὸν ἐξαίφνης | ἢ
Προξενίδην ἢ τὸν Σέλλου | τοῦτον τὸν ψευδαμάμαξυν.
(Bdelicleone) E tu per fascina usa Eschine, butta sul fuoco il “figlio di Sellartio”.
3. Suid. s.v. σεσέλλισαι (ed. Adler): μάτην ἐπῆρσαι. ἀπὸ Aἰσχίνου τοῦ Σελλοῦ, ὀς
ἦν κομπαστὴς καὶ ἀλαζὼν ἐν τε τῷ διαλέγεσθαι καὶ ἐν τῷ προσποιεῖσθαι πλουτεῖν.
Λυκόφρων δ’ἀπέδωκε τὸ σελλίζεσθαι ἀντὶ τοῦ ψελλίζεσθαι. ὁ γὰρ Aἰσχίνης πένης
3 Aeschinis Socratici Dialogi tres graece. Tertium edidit ad fidem codd. mss. Vindobb. medic. avg.
et libb. editt. Platonis Stobaeique veterum denvo recensuit emendavit explicavit indicemque ver-
borum gaecorum copiosissimum adiecit Ioh. Frider. Fischerus, sumptu hered. Ioh. Irenothel
Mulieri, Lipsiae 1786 (fr. xiii).
4 K.F. Hermann, De Aeschinis Socratici reliquiis, Göttingen 1850, p. 20.
Darsi le arie di Sello: esaltarsi vanamente. Da Eschine “figlio di Sello”, che era
un millantatore e un ciarlatano nelle discussioni e nel fingersi ricco. Licofrone
ha utilizzato “darsi le arie di Sello” al posto di “parlare confusamente”. Eschine
infatti, pur essendo povero, mostrava ritrosia rispetto alla ricchezza, dicendo di
essere lui stesso ricco. Eschine era poi “figlio di Sello”. Per metafora chiamavano
quelli come lui “Selli” e il vantarsi “darsi le arie di Sello”.
Cfr. Hesych. Miles. s.v. σεσέλλισαι: Aἰσχίνης τις ὑπῆρχε Σελλοῦ καλούμενος,
ἀλαζὼν καὶ ἐν τῷ διαλέγεσθαι καὶ ἐν τῷ προσποιεῖσθαι πλοῦτειν, πενόμενος δὲ καθ’
ὑπερβολήν, ὡς τοὺς παραπλησίους τούτῳ καλεῖσθαι <σεσέλλισαι>.
Darsi le arie di Sello: esiste un certo Eschine, detto “figlio di Sello”, ciarlatano
sia nelle discussioni che nel fingersi ricco; estremamente indigente, tanto che
rispetto a quelli simili a lui si dice <darsi le arie di Sello>.
4. Mich. Psellos Ἔπαινος τοῦ Ἰταλοῦ 19, 83 (ed. Littlewood): καὶ ἄλλως μὲν ἐν
Πλάτωνι τὸ κάλλος τοῦ λόγου ἐπαινεσόμεθα καὶ τὸ μέγεθος, ἄλλως δὲ ἐν Ξενοκράτει
καὶ ἄλλως ἐν Aἰσχίνῃ τῷ Σωκρατικῷ˙ καὶ οὕτω αὐτὸ […] προσαρμόσομεν καὶ πρὸς
τὴν ἑκάστου τέχνην καὶ δύναμιν τὰς ἀρετὰς τοῦ λόγου ἀκριβωσόμεθα.
5. Hermog. De ideis I 409, 5 (ed. Rabe): ἐπεὶ οὐδὲ Ἡρόδοτον μετὰ Nικόστρατον
δήπουθεν ἢ μετ’Aἰσχίνην, ἀλλ’οὐδὲ μετὰ Ξενοφῶντα ἡμεῖς τάττοιμεν ἂν λόγων τε
δυνάμεως ἕνεκα καὶ τῆς κατ’αὐτοὺς ἕξεως, ἄλλως τε καὶ ἐν εἴδει πανηγυρικῷ˙ τῇ δὲ
ἀκολουθίᾳ τοῦ περὶ τῆς ἰδέας ἐκείνης λόγου ἑπόμενοι ταύτῃ τῇ τάξει κεχρήμεθα, ἰδίᾳ
μὲν τοὺς ἄλλους πανηγυρικούς, ἰδίᾳ δὲ τοὺς ἱστορικοὺς τιθέντες.
5 Cfr. Phot. s.v. σεσέλλισαι: μάτην ἐπῆρσαι. ἀπ’Aἰσχίνου τοῦ Σελλοῦ, ὃς ἦν κομπαστὴς καὶ ἀλαζὼν ἐν
τε τῷ διαλέγεσθαι καὶ ἐν τῷ προσποιεῖσθαι πλοῦτειν. Λυκόφρων δ’ἀπέδωκε τὸ σελλίζεσθαι ἀντὶ τοῦ
ψελλίζεσθαι.
dei suoi discorsi sia della capacità che essi rivelano, specialmente nel genere
del panegirico, abbiamo utilizzato questa disposizione seguendo l’ordine
dell’argomento proprio di quel genere, collocando da una parte gli altri autori
di discorsi panegirici, dall’altra quelli di opere storiche.
6 Tra gli interpreti, tale aspetto fu sottolineato già da K.F. Hermann, op. cit., p. 5: «Aeschinem
Lysaniae filium et ingenio et sermone secundum Platonem et Xenophontem proxime ad com-
munem magistrum Socratem accessisse unanime antiquitatis judicium est».
7 E così Plutarco in Quom. adul. ab am. intern. 26 p. 67e (vi A 11 ssr).
8 <γνήσιον> add. Reiske. Cfr. P. Aelii Aristidis opera quae exstant omnia, ediderunt Fridericus
Waltharius Lenz et Carolus Allison Behr, E.J. Brill, Lugduni Batavorum 1976.
9 Sui rapporti di ostilità tra Eschine e Platone cfr., oltre ai due passi menzionati di Diogene
Laerzio, Suid. s.v. σύστασις (vi A 4 ssr) e Hesych. Miles. De vir. illustr. 3 (vi A 4 ssr). La notizia
si trova in contrasto con quanto riferito da Plutarco in Quom. adul. ab am. intern. 26 p. 67d-e
(vi A 11 ssr) e con quanto si legge in Socratic. epist. xxiii (vi A 103 ssr).
10 Idomeneo adduce in entrambi casi l’ostilità di Platone nei confronti di Eschine come
motivazione della falsa attribuzione platonica dei λόγοι sulla fuga dal carcere, indiret-
tamente nella prima versione, più esplicitamente nella seconda. Mentre, infatti, nel
primo testo (ii 60) viene chiamata in causa l’inimicizia tra Platone e Aristippo, che poi
avrebbe condizionato l’oggettività del primo nel suo racconto (in quanto Eschine fu
particolarmente amico del Cirenaico), nel secondo (iii 36) Aristippo non compare più
come tramite, e Diogene menziona direttamente l’ostilità di Platone nei confronti di
Eschine. La critica moderna tende a negare, con poche eccezioni, qualsiasi storicità a
tale notizia: così E. Zeller, Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwick-
lung, ii 1 (Sokrates und die Sokratiker. Plato und die alte Akademie), Tübingen 1862, n. 2,
p. 200 e P. Natorp, s.v. Aischines (n. 14), in re, vol. I, 1 (1894), p. 1048; si veda inoltre K.
Kleve, Scurra Atticus. The Epicurean view of Socrates, in G.P. Carratelli (ed.), Suzetesis.
Studi sull’Epicureismo Greco e Romano offerti a M. Gigante, G. Macchiaroli, Napoli 1983,
pp. 227–228; 234. Per una più approfondita discussione della testimonianza diogeniana
si veda A. Angeli, I frammenti di Idomeneo di Lampsaco, “Cronache Ercolanesi”, 11 (1981),
pp. 60–61; sulle motivazioni storico-filosofiche dell’antisocratismo di Idomeneo si veda
ivi, pp. 56 ss.
11 Cfr. Diog. Laert. ii 60 (vi A 3 ssr); Ael. Aristid. De rhet. I 66 (vi A 10 ssr); Philostrat. Vit.
Apoll. I 35, 1 (vi A 14 ssr); Suid. s.v. Aἰσχίνης (vi A 25 ssr); Phrinicus ap. Phot. Biblioth. cod.
61 (vi A 33 ssr); Phrinicus ap. Phot. Biblioth. cod. 158 (vi A 33 ssr).
Coro. Ho spesso creduto di essere abile, e per nulla sciocco; ma più fur-
bo è Aminia, figlio di Sello, della stirpe di Crobilo. Una volta l’ho visto
mangiare con Leagora, ma mica mele o melograne. Una fame degna di
Antifonte. Ha fatto anche un’ambasceria in Tessaglia e là stava coi “mise-
rabili”, miserabile lui più di tutti.16
Sappiamo tuttavia dalla stessa commedia che questo Aminia era figlio di Pro-
nape (Ἀμυνίας μὲν ὁ Προνάπους; v. 74) e pertanto in Ἀμυνίας ὁ Σέλλου il genitivo
Σέλλου non indica certamente il nome del padre. A partire da questo dato è
possibile ipotizzare che, quando Aminia viene deriso da Aristofane come ὁ
Σέλλου per la sua orgogliosa indigenza, tale espressione – con la quale per lo
stesso motivo è schernito anche Eschine – non sia da intendere come un pa-
tronimico, ma piuttosto come un appellativo o un falso patronimico, di cui si
trovano altri esempi in Aristofane17 e un parallelo in Ipponatte.18 Che questa,
d’altra parte, sia un’interpretazione legittima del genitivo Σέλλου è mostrato
da un passaggio della voce σεσέλλισαι di Esichio di Mileto (per cui si veda la
sezione 3): nelle parole Aἰσχίνης τις ὑπῆρχε Σελλοῦ καλούμενος, il participio
καλούμενος sta a indicare, infatti, che Σελλοῦ non va inteso come un patroni
mico, bensì come una sorta di soprannome. Quanto all’origine del termine
e dunque al senso dell’invettiva comica, sappiamo dall’Iliade che i Σελλοί, il
cui nome la commedia associa a tali personaggi, erano dei sacerdoti di Zeus a
Dodona, i quali – stando al testo omerico – vivevano in condizioni di estrema
indigenza:
17 Cfr. Vesp. 1267 (τῶν Kρωβύλου) e Ach. 1131 (Λάμαχον τὸν Γοργάσου).
18 Fr. 32.34 West (42a-b.43 Degani): Έρμῆ, φίλ’ Έρμῆ, Mαιαδεῦ, Kυλλήνιε. Hermes, figlio di
Zeus e Maia, viene qui chiamato Mαιαδεύς, “figlio di Maia” o “rampollo di Maia” (così F.
Sisti, Lirici greci, Garzanti, Milano 1990, p. 105, il quale sottolinea che l’uso del matron-
imico in luogo del patronimico è probabilmente un indizio di parodia).
19 Trad. R. Calzecchi Onesti (Omero. Iliade, prefazione di Fausto Codino, versione di Rosa
Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1990).
20 Per questo motivo nella traduzione si è scelto di non rendere ὁ Σέλλου con “il Sello” e
di mantenere l’espressione “figlio di Sello”, ponendola tuttavia tra virgolette per indicare
che si tratta, appunto, di un appellativo. Quanto all’espressione ὁ Σελλαρτίου (riferita a
Eschine al v. 459), per R. Meister, art. cit., p. 675, essa va intesa nel senso di Σελλοῖς ἄρτιος
Schol. in Aristoph. Av. 823a. α: τά τ’ Aἰσχίνου γε ἅπαντα: καὶ οὗτος πένης θρυπτόμενος
καὶ αὐτὸς ἐπὶ πλούτῳ, καὶ λέγων ἑαυτὸν πλούσιον. ἦν δὲ Aἰσχίνης Σελλοῦ. ἔλεγον δὲ
ἐκ μεταφορᾶς τοὺς τοιούτος Σελλούς, καὶ τὸ ἀλαζονεύεσθαι δὲ σελλίζειν.
823a. β: ὅτι καὶ ὁ Aἰσχίνης οὗτος πένης ἦν θρυπτόμενος καὶ λέγων ἑαυτὸν πλούσιον.
ἦν δὲ Aἰσχίνης Σελλοῦ, ὃς ἦν ἀλαζών. ἔλεγον δὲ ἐκ μεταφορᾶς τούτου καὶ τὸ
ἀλαζονεύεσθαι σελλίζειν.
823a. α: tutte le sostanze di Eschine: anche costui era povero, benché mostrasse
anche lui ritrosia rispetto alla ricchezza e dicesse di se stesso che era ricco. Es-
chine era poi “figlio di Sello”. Per metafora chiamavano quelli come lui “Selli” e
il vantarsi “darsi le arie di Sello”.
823a. β: perché anche questo Eschine era povero, benché rifiutasse (la ricchez
za) e dicesse di se stesso ch’era ricco. Eschine era poi “figlio di Sello”, che era
un ciarlatano. Da lui, per metafora, chiamavano anche il vantarsi “darsi le arie
di Sello”.
λέγων ἑαυτὸν πλούσιον); le sue ricchezze si trovavano a Nubicuculia (Av. 821 ss.);
veniva chiamato ψευδαμάμαξυς24 (“falsa vite”; Vesp. 326), millantatore (Vesp.
1248)25 e mentitore (Vesp. 324: καπνός;26 cfr. 459 e Hesych. s.v. ἀλαζών).
Nel loro complesso le testimonianze evidenziano dunque uno specifico
dato, la povertà di Eschine, su cui concordano tutte le notizie biografiche sul
Socratico, oltre ad alludere a una precisa concezione della ricchezza che, pure,
trova riscontro in altre fonti.
Eschine è descritto unanimemente come povero dai testimoni e tale motivo
si lega, anzitutto, alla notizia del suo viaggio a Siracusa: sia Diogene Laerzio
(ii 61; iii 36), che Esichio (De vir. illustr. 3), che la Suida (s.v. σύστασις) riferis-
cono infatti che egli si recò in Sicilia presso il tiranno Dionisio «per indigenza»
(δι’ ἀπορίαν); analogamente, secondo Filostrato (Vit. Apoll. I 35, 1) e la voce
Aἰσχίνης della Suida, tale viaggio fu intrapreso «per motivi di denaro» (ὑπὲρ
χρημάτων).27 Sulla povertà del Socratico insistono poi altre fonti: nel Codex
Vaticanus graecus 96 (fol. 62v = vi A 9 ssr) si legge che egli, «oppresso dalla
povertà» (ἐπιέζετο ύπὸ πενίας), prese in prestito del cibo da Socrate, notizia
riferita anche da Diogene Laerzio (ii 62 = vi A 13 ssr); Ateneo lo definisce
πένητος (xi 507c = vi A 21 ssr) e Seneca (De benef. I 8, 1–2 = vi A 6 ssr) si
riferisce a lui come pauper auditor, riportando un aneddoto – di cui si trova
una simile variante in Diogene Laerzio (ii 34 = vi A 6 ssr) – che è in tal senso
particolarmente indicativo.28
24 Il termine ἀμάμαξυς o ἁμάμαξυς indica un tipo di vite; sui possibili significati del composto
si veda D.M. MacDowell, op. cit., p. 178. L’interpretazione più probabile è quella che fa rif-
erimento alla capacità della vite di produrre l’uva, tra i frutti più preziosi per gli Ateniesi;
“falsa vite” sarebbe dunque una persona che dà soltanto l’impressione di produrre qual-
cosa di valore (ed è dunque un millantatore, il cui parlare non dà alcun frutto). Per questo
tipo di composti cfr. Aristoph. Eq. 630: ψευδατραφάξυος.
25 Cfr. Schol. in Aristoph. Vesp. 1248: τοῦτο, φησὶν, ἐπάξω πρὸς τὸ σκόλιον Aἰσχίνου ἐπεὶ κομπασὴς
ἦν, con D.M. MacDowell, op. cit., p. 293.
26 Nota D.M. MacDowell, op. cit., p. 177 che il termine “fumo” è usato altrove in Aristofane
per indicare persone alle cui parole non corrispondono azioni (cfr. Av. 1126 e Schol. in
Aristoph. Av. 822).
27 Cfr., rispettivamente, vi A 3, 4, 14 e 25 ssr.
28 Tali testimonianze di carattere aneddotico attestano che il motivo della povertà di Es-
chine entrò nelle stesse conversazioni che egli ebbe con il “maestro”. Nel passo citato del
De beneficiis, Seneca riferisce che Eschine, vedendo che altri facevano a Socrate molte
offerte, avrebbe dichiarato: «non trovo nulla degno di te che io possa donarti, e per questo
soltanto mi sento povero. Ti faccio perciò dono dell’unica cosa che possiedo: me stesso
(me ipsum). Ti prego di apprezzare questo dono, di qualunque valore sia, e di considerare
che gli altri, pur donandoti molto, tengono di più per sé». A tali parole, Socrate avrebbe
risposto: «perché mai non mi avresti fatto un grande dono, a meno che tu non stimi te
Nelle tre voci, inoltre, si fa allusione a una peculiare concezione della ric-
chezza che risulta del tutto coerente con quella presentata da altre fonti. Esse
permettono di stabilire, infatti, che Eschine assunse in merito a tale questione
una posizione molto probabilmente in contrasto con quella dominante, che
trovò espressione nei suoi dialoghi e in particolare nel Callia e nel Telauge.
Rispetto al Callia, in particolare, la trattazione di tale motivo è ben attestata
da due testimonianze: l’Epistola pseudo-socratica vi (1–4 = vi A 74 ssr) e un
passo della Vita di Aristide di Plutarco (25, 7–9 p. 334b-d = vi A 75 ssr), da cui
emerge una concezione della ricchezza basata sull’equazione πενία = πλοῦτος,
che ha il suo fulcro nell’idea della natura interiore della vera ricchezza e che,
come è noto, rappresenta un vero e proprio topos nella letteratura socratica e
negli scritti socratici senofontei in particolare.29 Da tale tesi sulla natura della
vera ricchezza seguono, come due corollari, l’effettiva povertà dei ricchi sem-
pre insoddisfatti e, di contro, la reale ricchezza di chi, pur possedendo poco, ha
sempre il necessario per soddisfare i propri bisogni. I veri ricchi sono, in ultima
istanza, coloro che non hanno bisogno di ciò che non possiedono e che sono
in grado, mediante una “compressione” dei bisogni, di soddisfare questi ultimi
con risorse materiali minime.
A una simile concezione possono essere ricondotte le testimonianze in
questione e, in particolare, l’affermazione apparentemente paradossale se
condo cui Eschine, pur essendo povero, affermava di essere ricco e mostrava
ritrosia nei confronti della ricchezza. Tutto, infatti, pare rimandare a un con-
testo socratico: basti pensare che lo stesso atteggiamento paradossale è fatto
proprio da Antistene nel Simposio senofonteo (iv 34–44) e da Socrate stesso
sia nell’Economico (ii 2–4) che nei Memorabili (cfr. almeno I 2, 1; I 3, 5; I 6, 1–8);
entrambi rifiutano infatti la ricchezza materiale e si presentano come ricchi
pur possedendo quasi nulla.
Non è possibile in questa sede approfondire le implicazioni filosofiche di
tale concezione della ricchezza né la sua specifica trattazione all’interno del
Callia, in cui la questione è inserita all’interno di una più ampia discussione
stesso di poco valore? Avrò dunque cura di restituirti a te stesso migliore di come ti ho
ricevuto»; con una simile offerta, commenta infine Seneca, Eschine «superò la generosità
di Alcibiade, pari alla sua ricchezza, e ogni munificenza dei giovani ricchi».
29 Cfr. Xen. Symp. iv 34–44; Oecon. ii 2–5; Mem. I 6, 2–10. In merito si veda almeno L.-A.
Dorion, Socrate, puf, Paris 2004, pp. 101–111 e Id., Xenophon’s Socrates, in S. Ahbel-Rappe-
R. Kamtekar (ed.), A companion to Socrates, Blackwell, Oxford 2005 (Blackwell Compan-
ions to Philosophy, 34), pp. 96–100; 104–105. Sul problema della ricchezza nella letteratura
socratica si veda inoltre D.M. Schaps, Socrates and the Socratics: When Wealth Became a
Problem, “The Classical World”, 96/2 (2003), pp. 131–157; in particolare pp. 142–151 per la
trattazione del tema negli scritti socratici senofontei.
30 Cfr. Diog. Laert. ii 64 (vi A 27 ssr). Per le possibili interpretazioni del termine si veda G.
Giannantoni, L’ “Alcibiade” di Eschine e la letteratura socratica su Alcibiade, in G. Giannan-
toni e M. Narcy (ed.), Lezioni socratiche, Bibliopolis, Napoli 1997, pp. 351–352.
31 Cfr. Diog. Laert. ii 62 (vi A 4 ssr).
ciò che si può ricavare dal passo in merito a Eschine è un riferimento indiretto,
vale a dire l’indicazione secondo cui a motivo della «potenza» dei discorsi di
Erodoto – in senso retorico, di “forza” dello stile – e della «capacità» che essi
esprimono (τε δυνάμεως ἕνεκα καὶ τῆς κατ’ αὐτοὺς ἕξεως) lo storico non può es-
sere disposto nell’ordine dopo Eschine.
Del positivo giudizio di Ermogene sugli scritti eschinei siamo tuttavia infor-
mati da altri passi dell’opera, con cui la testimonianza in questione può essere
messa a confronto. In De ideis ii 12, 2 (vi A 20 ssr) egli afferma che Eschine
si distingueva per «purezza» e «chiarezza», e che tali caratteri lo rendevano
più raffinato (λεπτότερος) dello stile di Senofonte, poiché era più misurato
nei “vezzi” derivanti dai miti e dai racconti leggendari. La conclusione del re-
tore è che, così come Senofonte ha superato Platone in semplicità (ἀφελείᾳ) –
termine generalmente associato allo stile lisiano – allo stesso modo Eschine ha
superato Senofonte in finezza (τῇ λεπτότητι); rispetto a quest’ultimo, inoltre,
lo stile eschineo era «anche molto più puro, nonché assolutamente accurato
nella semplicità (πολλῷ καθαρώτερός ἐστιν ἐπιμελής τε ὡς ἐν ἀφελείᾳ σφόδρα)».
In accordo con tali affermazioni, in I 329, 5 Ermogene attribuisce a Eschine –
oltre che a Senofonte e Nicostrato – l’uso di figure «semplici» (ἀφελῆ) e «pure»
(καθαρά).
La combinazione delle tre testimonianze fornisce dunque un quadro più
completo del giudizio del retore sugli scritti eschinei. Se ne può infatti con-
cludere che Ermogene, il quale elogiava lo stile di Eschine e lo preferiva, ad
esempio, a quello di Senofonte, considerava tuttavia i suoi scritti inferiori, in
qualche modo, alla “forza” dei discorsi di Erodoto.
ii
32 Per le testimonianze sui Socratici minori rinvenute nei papiri ercolanesi si veda G.
Giannantoni, I Socratici minori nei papiri ercolanesi, “Elenchos”, 4 (1983), pp. 133–145, in cui
non si fa menzione, tuttavia, di questo frammento papiraceo.
33 Filodemo. Testimonianze su Socrate, edizione, traduzione e commento a cura di Eduardo
Acosta Méndez e Anna Angeli, Bibliopolis, Napoli 1992, pp. 152–154 (cfr. pp. 183–184). Per
questa sezione del testo non si riscontrano sostanziali divergenze rispetto alla successiva
ricostruzione proposta da G. Ranocchia, Aristone, «Sul modo di liberare dalla superbia»
nel decimo libro «De vitiis» di Filodemo, Olschki (Accademia La Colombaria. Serie Studi),
Firenze 2007, pp. 275–277, ad eccezione di un’integrazione delle prime due linee della col.
xxi, per cui si veda la nota successiva.
Ὁ [δ’] ε[ἴρ]ων ὡς
ἐπὶ τὸ | [πλ]εῖστον ἀλαζόνος εἶδος || xxii [……] … [……
… | … δ]ιανοεῖ [..].34 Σ . [……] | ON [ἀ]λλὰ καὶ τἀναντ[ί]α
μᾶλ|λον ὥστ’ ἐπαινεῖν ὃν ψέγε[ι, τα]|5πεινοῦν δὲ καὶ ψέγειν
ἑαυτ[ό]ν | τε καὶ τοὺς οἷός ἐστιν εἰωθ[έναι | πρὸς ὁνδήποτε
χρόνον μ[ε]|τὰ παρεμφάσεως ὧν βούλεται· | συνεπινοεῖται
δ’α[ὐ]τῶι καὶ |10 δειν[ό]της ἐν τῶι [πλ]άσμα[τι] | καὶ πιθανότης.
Ἔσ[τι]ν δὲ τ[οι]|οῦτος οἷος τὰ πολλ[ὰ] μωκᾶ[σ]|θαι καὶ μορφά-
ζειν καὶ μειδι|ᾶν καὶ ὑπανίστασ[θ]αί τισιν ὡς |15 ἐπιστᾶσιν
ἄφνωι μ[ε]τ’ ἀναπ[η]|δήσεως καὶ ἀποκαλύψεως | καὶ μέχρι
πολλ[οῦ σ]υνὼν ἐ[ν]ί|οις σιωπᾶν· κἂν ἐπαινῆι τις | αὐτὸν ἢ
κελεύη[ι] τι [KE] λέ[υ] γ̀ ́ ειν |20 ἢ μνημονευθήσεσθαι φῶσιν
| αὐτόν, ἐπιφωνεῖν· “ἐγὼ γὰρ | οἶδα τί πλή[ν γε] τούτου ὅτι
[οὐ]δὲν οἶδα;” καὶ· “τίς γὰρ [ἡ]μῶν λ[ό]|γος;” καὶ· “εἰ δή τις
[ἡ]μῶν ἔστα[ι |25 μ]νεῖα” καὶ πολὺς [εἶ]ναι τ[ῶι]·| “μακάριοι
τ[ῆ]ς φ[ύσ]εως οἱ μ[έν] | τινες ἢ τῆς δυνάμεως ἢ τ[ῆς] | τύχης”
καὶ μὴ ψιλῶς ὀνομά|ζειν ἀλλὰ “Φαῖδρος ὁ καλός |30
καὶ “Λυσίας ὁ σοφός” καὶ ῥήμα|τ’ ἀ[μ]φίβολα τιθέναι,
“χρη[στόν]” | “ἡδύν” “ἀφελῆ” “γενναῖον” “ἀν[δρεῖ]|ον ”καὶ πα-
ρεπιδείκνυσθ[αι] | μὲν ὡς σοφά, προσάπτειν [δ’ ἑ|35τέροις]
ὡς Ἀσπασίαι καὶ [Ἰσχο|μάχ]ωι Σωκράτη[ς] […]
L’ironico ha al massimo grado l’aspetto del ciarlatano […] pensa […] ma, piut-
tosto, il contrario, cosicché è solito elogiare chi biasima e sminuire e biasimare
se stesso e quanti può in ogni occasione, dando una falsa rappresentazione
delle cose che intende (dire); fa parte dell’idea dell’ironico anche l’abilità
nella dissimulazione e la capacità di persuadere. Egli è tale da farsi beffa di
molte cose, fare smorfie, sorridere e, quando alcuni sopraggiungono si alza
all’improvviso con un balzo e scoprendosi il capo, e tace a lungo quando si
trova insieme ad alcuni. E se qualcuno lo loda e lo esorta a dire qualcosa, op-
pure gli dicono che verrà ricordato, egli esclama: “cosa so mai se non questo,
che non so nulla?”, “qual è mai il nostro discorso?” e: “se davvero ci sarà un ri-
cordo di noi” e insiste su questo: “alcuni sono beati per le qualità naturali o per
capacità o per sorte”; non si limita poi a chiamare per nome, ma (aggiunge):
“Fedro il bello” e “Lisia il saggio” e assegna epiteti equivoci come “utile”, “dolce”,
“semplice”, “nobile”, “coraggioso” e a volte espone in prima persona delle idee
presentandole come sagge, a volte le attribuisce ad altri, come Socrate ad As-
pasia e a Iscomaco […].
34 G. Ranocchia, op. cit., p. 277, propone la seguente integrazione: ἑαυτὸ]ν [δ’] ο[ὐκ ἐξαίρει,
οὐδ’ἀπο]δ[ηλο]ῖ ἃ νοεῖ [πρ]ὸϲ τ[ὸν πληί]ον.
tratta nell’ultima parte dello scritto Sul modo di liberare dalla superbia (Περὶ
τοῦ κουφίζειν ὑπερηφανίας), citato senza interruzioni da Filodemo nel decimo
libro del trattato Sui vizi e le contrapposte virtù (PHerc. 1008). Secondo alcuni è
dunque ad Aristone, e non a Filodemo, che si deve attribuire nella sua interez-
za questo ritratto dell’ironico, come si evince dal fatto che lo stesso Filodemo,
in altri scritti, non presenta mai l’ironia in modo negativo;38 la questione, tut-
tavia, esula dai nostri scopi e non può essere approfondita in questa sede.39
Nella prima parte del brano (col. xxi 1–37), Filodemo contrappone il
σεμνός, individuo grave e dignitoso, al σεμνοκόπος, il quale ostenta dignità e
grandezza;40 una contrapposizione che, come notano Acosta Méndez e
Angeli,41 presenta la terminologia e le caratterizzazioni proprie degli autori
della commedia. Nella seconda parte del brano (coll. xxi 37–xxiii 37), che qui
maggiormente interessa, egli delinea invece il carattere dell’ εἴρων42 associato
a quello dell’ ἀλαζών,43 con costanti riferimenti a Socrate, come mostrano le
numerose allusioni a Platone, Senofonte e Aristofane.44 Proprio nelle Nuvole
Socratici in Diogene Laerzio, “Elenchos”, 7 (1986), pp. 193 ss., A.A. Long, Socrates in Hellenis-
tic Philosophy, “Classical Quarterly”, 38 (1988), p. 155.
38 Così G. Ranocchia, art. cit., pp. 301–302.
39 Sulla critica epicurea all’ironia socratica, di cui ci fornisce una testimonianza Cicerone
(Brut. 292 = fr. 231 Us.), si veda almeno K. Kleve, art. cit., pp. 227–228; 246–248 e A.M.
Ioppolo, art. cit., pp. 725–726.
40 Filodemo prescinde in tale contrapposizione dalla αὐθάδεια, laddove Aristotele (Eth. Nic.
1108a 19–22) aveva definito la σεμνότης come μέσον tra l’ αὐθάδεια e l’ ἀρέσκεια. Si veda in
merito F. Wehrli, op. cit., pp. 59 ss. e E.A. Acosta Méndez e A. Angeli, op. cit., p. 220.
41 E.A. Acosta Méndez e A. Angeli, ibid.
42 Per tale caratterizzazione dell’ εἴρων si rimanda a O. Ribbeck, Über den Begriff des εἴρων,
“Rheinisches Museum”, 31 (1876), pp. 395–398; W. Büchner, Über den Begriff der Eironeia,
“Hermes”, 76 (1941), pp. 350–353 e W. Knögel, op. cit., pp. 32–39; 43–45. Per l’identificazione
del tipo ironico qui descritto con Socrate si veda A.M. Ioppolo, art. cit., pp. 720–721.
Sull’accusa di εἰρωνεία come parte della polemica antisocratica degli Epicurei, nonché
sulla sua connessione con l’accusa di ἀλαζονεία (a partire dalla definizione aristotelica), si
veda anche la più recente analisi di J. Opsomer, op. cit., pp. 113–115.
43 Il termine compare anche in alcune testimonianze su Eschine Socratico e in particolare
in uno scolio agli Uccelli di Aristofane (823a), in cui il Sello, a cui la figura di Eschine è
associata, viene definito ἀλαζών (cfr. vi A 6 ssr, in cui è riportata tuttavia una versione
meno estesa dello scolio: Aἰσχίνου˙ καὶ οὗτος πένης, θρυπτόμενος καὶ αὐτὸς ἐπὶ πλούτῳ, καὶ
λέγων ἑαυτὸν πλούσιον). Sulla critica epicurea alla ἀλαζονεία di Socrate, di cui si ha una
testimonianza in Plutarco (Adv. Col. 1117d; cfr. 1118d) si veda K. Kleve, art. cit., p. 234.
44 J. Opsomer, op. cit., p. 115, seguendo W. Büchner, art. cit., p. 35., rileva come – oltre a riman-
dare al Socrate platonico – l’ εἴρων di Aristone-Filodemo sia vicino al ritratto del κόλαξ
fornito da Plutarco nel De adulatore et amico (mentre Socrate, in Plutarco, esemplifica il
παρρησιαστής ed è dunque all’opposto del κόλαξ; cfr. ivi, n. 164, p. 115).
45 Si veda in merito G. Ranocchia, art. cit., p. 304. Notano E.A. Acosta Méndez e A. Angeli, op.
cit., pp. 220–221 che l’affinità tra l’ εἴρων e l’ ἀλαζών che emerge dal testo di Filodemo sem-
bra a prima vista contraddire la definizione che Aristotele formula della εἰρωνεία e della
ἀλαζονεία nell’Etica Nicomachea (1108a 20 ss.) e nell’Etica Eudemia (1221a 23 ss., 1233b 38
ss.), in cui esse sono descritte come i due vizi estremi rispetto a un μέσον che è l’ ἀλήθεια;
seguendo F. Wehrli (op. cit., p. 61), i due studiosi la interpretano come una diversificazione
puramente formale. Anche per la caratterizzazione di Socrate come σεμνοκόπος (col. xxi,
vv. 35–38), d’altra parte, Aristone utilizza la parodia di Aristofane nelle Nuvole (v. 362).
46 Per l’identità di giudizio di Aristone e Filodemo in merito al carattere di Socrate si veda
E.A. Acosta Méndez e A. Angeli, op. cit., p. 221, che sottolineano in proposito il riferimen-
to agli μνημονεύματα socratici alle linee 35–37 della col. xxii. Dello stesso avviso era già
K. Kleve, art. cit., pp. 245, 247; cfr. inoltre A.M. Ioppolo, art. cit., p. 720. Sulla questione
della distinzione tra ciò che risale senza dubbio ad Aristone e ciò che potrebbe ritenersi
un’“intrusione” filodemea si veda G. Ranocchia, art. cit., in particolare pp. 300–304.
47 Cfr. Eth. Nic. 1108a 19 ss. In merito si veda W. Büchner, art. cit., pp. 344 ss.
48 Così E.A. Acosta Méndez e A. Angeli, op. cit., p. 221; si veda inoltre W. Knögel, op. cit., p. 38
e M.T. Riley, art. cit., p. 67.
52 Il tema dell’elogio del silenzio permette di istituire diversi collegamenti con altre opere,
non soltanto della letteratura socratica. In primo luogo, si può istituire un confronto con
le parole con cui il Socrate platonico riconosce ironicamente a Protagora l’arte del σιωπᾶν
nella discussione (329b). In un passo della Costituzione degli Spartani di Senofonte, inol-
tre, si trova addirittura lo stesso paragone con le statue di pietra (ἐκείνων γοῦν ἧττον μὲν
ἂν φωνὴν ἀκούσαις ἢ τῶν λιθίνων, ἧττον δ᾽ ἂν ὄμματα μεταστρέψαις ἢ τῶν χαλκῶν; iii 5). Il
silenzio, qui presentato come una virtù degli adolescenti, è altrove considerato una virtù
femminile, come ad esempio nell’Aiace di Sofocle (v. 286): γύναι, γυναιξὶ κόσμον ἡ σιγὴ
φέρει; cfr. inoltre Aeschyl. Sept., v. 217 e Democrit. ap. Stob. Flor. iv 23, 38 (fr. 68 B 274 D.-K.).
Si veda inoltre il fr. 6 dell’Epitafio di Gorgia (fr. 82 B 6 D.-K.): τοῦτον νομίζοντες θειότατον καὶ
κοινότατον νόμον, τὸ δέον ἐν τῶι δέοντι καὶ λέγειν καὶ σιγᾶν καὶ ποιεῖν ⟨καὶ ἐᾶν⟩ («ritenendo
[scil. gli Ateniesi] che la legge più divina e universale sia dire, tacere e fare ciò che si deve
quando si deve»; trad. M. Bonazzi).
53 Si veda in merito C. Riedweg, Pitagora. Vita, dottrina e influenza, Vita e Pensiero, Milano
2007, pp. 118–119.
iii
8. Priscian. De constructione vii 187. 7–8 (159, 6–8 ed. Hertz): Aἰσχίνης ἐν τῷ
Ἀλκιβιάδῃ ὑπὲρ Θεμιστοκλέους: αὗται μέγισται ἐλπίδες ἦσαν Ἀθηναίοις περὶ τῆς
σωτηρίας ἅσσα ἂν ἐκεῖνος περὶ αὐτῶν βουλεύσαιτο.
54 Telauge è inserito nella leggenda di Pitagora, in cui ricopre un ruolo centrale nelle rico-
struzioni delle διαδοχαί: cfr. Euseb. Praep. ev. 14, 15; Theodoret. Graec. aff. cur. ii 23; Suid. s.v.
Ἐμπεδοκλῆς e Tελαύγες. Telauge è variamente presentato dalle fonti come figlio, allievo e
successore di Pitagora: cfr. Timeo in Diog. Laert. viii 54 (cfr. viii 56), Neante e Ermippo
in Diog. Laert. viii 55–56; Theophrast. Phys. Opin. Fr. 3 D. 477; Simplic. Phys. 25, 19; si veda
inoltre la lettera apocrifa di Telauge menzionata in Diog. Laert. viii 53 (Tηλαύγης δ’ ὁ
Πυθαγόρου παῖς ἐν τῇ πρὸς Φιλόλαον ἐπιστολῇ φησι τὸν Ἐμπεδοκλέα Ἀρχινόμου εἶναι υἱόν).
Sulla questione si veda già K.F. Hermann, op. cit., pp. 25–26; R. Hirzel, Der Dialog. Ein
literarhistorischer Versuch, Leipzig 1895, pp. 126, 135–136; H. Dittmar, op. cit., pp. 214–221.
Sull’identificazione del personaggio cfr. anche H. Krauss, op. cit., pp. 110–113 e J. Humbert,
Socrate et les petits socratiques, puf, Paris 1967, p. 231. Sulla figura di Telauge nella tra-
dizione pitagorica si veda il più recente studio di P.S. Horky, Plato and Pythagoreanism,
Oxford University Press, New York 2013, pp. 58; 90; 93; 117–119; 122.
lievi variazioni. Dittmar – che come si accennava cita il frammento pur non
inserendolo nella vera e propria raccolta – ne fa infatti menzione proprio nel
commento al passo di Elio Aristide.55
Il retore conserva un lungo brano in cui Socrate espone i meriti politici di
Temistocle ad Alcibiade – il quale si era spinto a biasimare il politico – al fine
di mostrare al giovane la necessità dell’ ἐπιμέλεια ἑαυτοῦ. La testimonianza
porta dunque alla luce il carattere parenetico dell’intervento socratico e, più
in generale, la centralità nel dialogo dell’esortazione a perseguire e coltivare
la virtù morale. Socrate istituisce infatti un diretto confronto tra l’ ἐπιστήμη
di Temistocle e quegli uomini che ritengono di poter ottenere risultati senza
ἐπιμέλεια ἑαυτοῦ, sottoponendo all’attenzione di Alcibiade la seguente con-
siderazione: se tutte le imprese e i successi militari di Temistocle sono da
ricondurre alla sua ἐπιστήμη e non alla τύχη, e se a un uomo di tal sorta la
conoscenza, per quanto grande, non fu sufficiente a evitare l’esilio e il disonore
della città, cosa può accadere a uomini che non hanno alcuna cura di sé (De
quatt. 348)?
Nell’ambito di tale ampia ῥῆσις, il frammento riportato da Prisciano si in-
serisce nella sezione in cui sono elencati i meriti di Temistocle nei confronti
degli Ateniesi, le cui speranze di salvezza – afferma Socrate – dipendevano
interamente dalle decisioni del politico.
Ora, il testo riportato da Prisciano presenta delle variazioni non significative
rispetto a quanto si legge nell’orazione di Elio Aristide;56 pertanto, esso non
aggiunge molto a quanto già sappiamo attraverso il lungo brano del De quat-
tuor. L’unica novità è la menzione esplicita del titolo del dialogo (Aἰσχίνης ἐν
τῷ Ἀλκιβιάδῃ), che manca in Elio Aristide, il quale apre il brano affermando di
voler esaminare «cosa ci dice di Temistocle Eschine il Socratico», senza specifi-
care in quale opera.
qui citata per intero e messa a confronto con la versione di Plutarco nella
Vita Periclis (24) e con quella fornita dallo scolio al Menesseno di Platone
(235e).59 Giannantoni, diversamente, ne riporta soltanto la sezione iniziale,
in cui è detto che Lisia scrisse un’orazione contro Eschine Socratico, «il cui
dialogo è intitolato Aspasia».60 Nella parte della voce omessa da Giannantoni,
Arpocrazione dà notizia del figlio che Aspasia ebbe da Lisicle, con il quale la
Milesia – come sappiamo dallo scolio al Menesseno – ha convissuto dopo la
morte di Pericle.61
La testimonianza, che non solleva evidentemente problemi di attribuzione,
conferma per alcuni aspetti le notizie rese note da altri testimoni sul bios di As-
pasia. Essa concorda, in primo luogo, con quanto riportato nel già citato scolio
al Menesseno in merito ai rapporti di Aspasia con Pericle e con Lisicle. Nello
scolio si legge infatti che «dopo la morte di Pericle sposò in seconde nozze il
mercante di pecore Lisicle e da lui ebbe un figlio di nome Poriste;62 rese Lisicle
un oratore abilissimo, proprio come aveva preparato anche Pericle a tenere
discorsi in pubblico»;63 le fonti citate sono Aἰσχίνης ὁ Σωκρατικὸς ἐν διαλόγῳ
Ἀσπασίᾳ καὶ Πλάτων καὶ Kαλλίας ὁμοίως Πεδήταις, di cui Arpocrazione men-
ziona soltanto la prima.64
Combinando le due testimonianze apprendiamo dunque che Poriste è il
figlio che Aspasia, dopo la morte di Pericle, ebbe da Lisicle. Quest’ultimo, tut-
tavia, è definito nello scolio προβατοκάπηλος, “mercante di pecore”, così come
in Plutarco (Vit. Pericl. 24, 5–6 p. 165b-c = vi A 66 ssr) e in Dione Crisostomo
(Orat. lv (38) 22 = vi A 68 ssr). Quella di Arpocrazione è dunque l’unica testi-
monianza nota in cui Lisicle è definito δημαγωγός e in cui si fa riferimento alla
sua attività politica.
Ora, è possibile tentare di conciliare le due versioni supponendo che lo sco-
liasta, il quale afferma che Aspasia fece di Lisicle un ῥήτορ δεινότατος, faccia già
riferimento allo status che il “mercante di pecore” acquisì grazie alla frequen-
tazione di Aspasia.
iv
10. Phot. Biblioth. cod. 61, 20a (ed. Henry): Φέρεται δὲ αὐτοῦ καὶ ἄλλος λόγος, ὁ
δηλιακὸς νόμος˙ οὐκ ἐγκρίνει δὲ αὐτὸν ὁ Kαικίλιος, ἀλλ’Aἰσχίνην ἄλλον σύγχρονον
τοῦδε Ἀθηναῖον τὸν πατέρα εἶναι τοῦ λόγου φησίν.
È poi riportato anche un altro suo65 discorso, La legge di Delo; Cecilio tuttavia
non ne riconosce l’autenticità, ma sostiene che l’autore dello scritto sia un altro
Eschine, suo contemporaneo e Ateniese.
11. Stob. Ἔπαινος Zωῆς iv 98, 25 (ed. Meineke): Aἰσχίνου. Oὐχ ὁ θάναθος δεινόν,
ἀλλ' ἡ περὶ τὴν τελευτὴν ὕβρις φοβερά.
65 Vale a dire di Eschine l’oratore, di cui tratta questa sezione della Bibliotheca.
66 Fu autore, tra l’altro, di un’opera sui dieci oratori; non abbiamo tuttavia che frammenti dei
suoi scritti (cfr. E. Ofenloch, Cecilii Calactini Fragmenta, in aedibus B.G. Teubneri, Lipsiae
1907).
67 In Biblioth. cod. 167 si legge ἀπό Aἰσχίνου τοῦ Σωκρατικοῦ (vi A 26 ssr) e in Biblioth. cod.
61 Fozio cita «Eschine figlio di Lisania (Λυσανίου Aἰσχίνην)» e aggiunge ὃν καὶ Σωκρατικὸν
καλοῦσιν (vi A 33 ssr).
μᾶλλον ἤπερ τοῖς ζῶσιν ἁρμόδιν. τὰς πλείστας τῆς ζωῆς μοίρας ἀφῄρησαι˙ ἀει γὰρ καθεύδεις καὶ
τῆς ἐνθάδε μεταβέβηκας λήξεως.
75 Il frammento è riportato con lievi variazioni dai due testimoni; cfr. Anton. I, xlii 13: τὸ
πέραν καθεύδειν τοῦ πρέποντος τοῖς τεθνηκόσι μᾶλλον ἤπερ τοῖς ζῶσιν ἁρμόδιον (vi A 12 ssr)
e Maxim. 58. 14: Ἀισχίνου. Tὸ πέρα καθεύδειν τοῦ πρέποντος τοῖς τεθνηκόσι μᾶλλον ἤπερ
τοῖς ζῶσιν ἁρμόδιον (vi A 94 ssr). Nella massima è stato visto un richiamo al tema, di
derivazione omerica, della fratellanza tra il sonno e la morte (così C. Mársico, Los filóso-
fos socráticos, Testimonios y fragmentos ii. Antístenes, Fedón, Esquines y Simón, Editorial
Losada, Buenos Aires 2014, n. 11, p. 358). Il dictum non pare, tuttavia, rimandare in modo
esplicito alla caratterizzazione arcaica del sonno come fratello della morte, su cui si veda
Il. xiv 231 e xvi 682 (cfr. xvi 672). Nell’ambito della letteratura socratica, fondamentale
sul tema è una testimonianza di Stobeo su Euclide (iii 6, 63 = ssr ii A 11), in cui il sonno
e la morte sono presentati come due daimones assegnati a ciascun uomo. Per un’analisi
approfondita del passo e per gli opportuni rimandi testuali si veda A. Brancacci, The
Double Daimon in Euclides the Socratic, in P. Destrée and N.D. Smith (eds.), Socrates’
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