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COSENZA: CUSENZE: ΚΩΣ: CŌSA1.

UNA PREMESSA SUL METODO.


Negli anni ’70 del Settecento un mio compaesano, William Jones, scoprì non
solo la bellezza poetica ma anche la rilevanza linguistica della Persia e dell’India.
Chiamato a Calcutta nel 1783 come giudice imperiale (laureato in giurisprudenza ma
amante delle lettere, grazie anche alla sua famiglia), cominciò a studiare le lingue
dell’India e la sua antica lingua sacra, istituendo anche un’Accademia per il loro studio
e producendo il suo primo lavoro significativo sul sanscrito (On the Hindus 1787).
Comparando le lingue che già conosceva con queste lingue raggiunge la conclusione
che il Greco, il Latino, il Gotico e le Lingue Germaniche, il Celtico, nonché il Persiano
più antico, l’Avestano, e il Sanscrito, avessero la stessa origine 2. In questo senso la
Linguistica Comparativa o il Comparativismo ha i suoi esordi nel periodo 1780-90. Il
metodo si stabilisce, invece, poco dopo, con il danese Rask, seguito dai tedeschi
Grimm, Bopp, Humboldt, Brugmann, fino ad August Schleicher, quando alcuni di
questi prendono spunto dal Systema Naturæ di Carl von Linné, sposando quasi
integralmente le idee che Charles Darwin aveva esposto nel suo On the Origin of
Species (1861). Così, partendo dall’idea base che la lingua è cosa viva, storico-naturale,
tra il 1780 e il 1850 mettono a punto un metodo sistematico per studiare sia
tipologicamente sia geneticamente le lingue storiche ed attuali. Va ricordato che, però,
non escono dai limiti delle lingue indoeuropee, e non conoscono ancora l’esistenza
dell’Anatolico, del Tocarico e delle iscrizioni greche più antiche, né distinguono tra la
tipologia e i rapporti genetici.
Il metodo ricostruttivo ha lo scopo di riportare indietro nel tempo, sulla scorta di
ipotesi plausibili, dei fenomeni appartenenti a più lingue (con l’uso di tecniche simili a
quelle matematiche dei sistemisti) in ordine cronologico, morfema per morfema, lingua
per lingua, periodo per periodo, come emergerà dal nostro trattamento di COSENZA.
Il merito principale e insuperato è quello di capire la struttura delle lingue e di
ricostruire i pezzi mancanti o le fasi non rappresentate da dati certi con ipotesi adeguate
e giustificate in senso galileiano. Questo metodo diventa la bandiera della linguistica
italiana ottocentesca grazie a figure come Graziaddio Isaia Ascoli, Giovanni Flechia e
i loro discepoli, in primis Carlo Salvioni, Clemente Merlo, Matteo Giulio Bartoli, senza
escludere Alfredo Trombetti. I loro discepoli sono diventati, a loro volta, i nostri
maestri, a cominciare da Giacomo Devoto, Carlo Tagliavini, nonché, in ultimis, Giovan
Battista Pellegrini ed altri ancora, senza nominare altri ugualmente importanti di quelle
generazioni.

1
Ringrazio il collega archeologo Armando Taliano Grasso per una discussione di alcuni dei punti sollevati in
questo contributo (argomenti tecnicamente non di mia competenza), ma le conclusioni raggiunte sono di chi
scrive.
2
Non è in assoluto il primo a comparare, ma forse il primo a mettere assieme alle lingue classiche e il
germanico anche, in modo molto serio e con cognizione di causa, queste con il Celtico, l’Iranico e le Lingue
Indiane centro-settentrionali.
Ovviamente, il metodo cambia e si rinnova teoricamente e tecnicamente in un
periodo di 130-140 anni. I grandi innovatori in questo senso tra Ottocento e Novecento,
sono stati Kyrilowić (con schwa primum e secundum, anticamera della teoria laringale)
e Saussure con le sue teorie per cui diacronia e diatopia devono essere parte del sistema
lingua, lingua intesa come sistema sociale, portando alla nascita dello strutturalismo
(edizione postuma del Cours de Linguistique Générale), nonché un trattato sul
vocalismo primitivo indoeuropeo e una sorta di anticipo della teoria laringale già nel
1878 nel famoso saggio Mémoire sur le Système Primitive des Voyelles des Langues
Indo-européennes. Sul piano della linguistica storica, si deve a questi la prima vera
espressione della teoria laringale che renderà possibile il confronto Indoeuropeo/
Afroasiatico. E poi viene la Scuola Russa, con Baudouin De Courtenay, Trubeckoj
(specialmente Grundzüge der Phonologie), secondo cui la fonologia [livello astratto]
non è la fonetica [studio fisico-acustico] ecc. Basti consultare qualsiasi buon manuale
di Linguistica Storica e/ o di Linguistica Generale.

La nostra visione attuale del SISTEMA risale a queste fonti, a cui si deve
aggiungere la competenza comunicativa (che dobbiamo alla sociolinguistica) e la
Linguistica del Contatto che raffina e corregge questioni di sostrato, superstrato e
adstrato. La teoria fonologica, ovviamente, è cambiata da allora, come è naturale che
sia, ma questo non inficia i presupposti della comparazione, né il fatto che esistano
delle corrispondenze regolari tra lingue e che si debbano tenere in conto sia il versante
della forma che quello del significato, che devono concordare. Come si vede, il sistema
delle ‘sillabe’ usato da chi si appassiona alla linguistica al di fuori di protocolli
scientifici, non ha nessun senso, la somiglianza di suono, da sola, non vuol dire nulla e
nessuna lingua si crea come una costruzione LEGO, attaccando e staccando i singoli
mattoncini per fare oggetti diversi. Saussure ce lo ha insegnato una volta per sempre:
il linguaggio è un sistema integrato, se smontiamo gli elementi del motore e li
rimontiamo con un ordine diverso, la macchina non funzionerà mai! Poi questi
elementi sono morfemi e non sillabe mal definite. La sillaba, al di là di tutti i tentativi
vani di definirla in senso fonetico, è al limite un costrutto fonologico, deve essere
espressa come una restrizione fonologica glottospecifica del tipo
j j j j

[S] C C V C C
i i i i
,
in cui i, j possono essere zeri, C = non-vocoide, V = vocoide, S = fricativo. Comunque,
in questa sede evitiamo astrazioni di questo tipo, per concentrarci sulla ricostruzione
lungo i secoli di morfemi. Un esempio del non-senso introdotto dall’applicazione di
cosiddette ‘sillabe’: qualche non-linguista riporta il paese calabrese di Lappano
(toponimo) ad una sequenza fonica LA-PAN-. Ha difficoltà a trovare i ‘mattoni’, allora
trasporta l’intero [LAPPAN] ad una forma accadica esistente LAPĀNU ‘poveri’ (verbo
‘diventare poveri’: per dettagli si veda Von Soden 6. 534, 537 lapān/ lapnu ‘povero’,
lapānum ‘impoverirsi’, con relative citazioni e contesti)3. Ma il non-linguista o non-
3
L’ipotesi sarebbe, dunque, che Lappano era il ‘paese dei poveri’.
glottologo ha dimenticato due fatti rilevanti, dimostrando (1) una mancata conoscenza
morfologica delle Lingue Afroasiatiche in quanto lapān- è creato da due morfemi, il
primo quello della negazione la- (cioè ‘non’), il secondo lessicale –pān- ‘i primi’, per
cui i lapān sono in effetti i ‘non tra i primi (cittadini)’, ergo i subordinati o poveri, (2)
una mancata conoscenza della struttura fonologica sia dell’Accadico sia dell’Italiano,
perché ambedue queste lingue conoscono l’opposizione tra consonanti geminate e
consonanti scempie (cfr. accadico lippu in opposizione con lipū, Von Soden 6. 554,
555, per quella italiana cfr. pappa rispetto a Papa). Di conseguenza, una scempia
accadica dovrebbe essere rappresentata da una scempia italiana e non da una geminata.
O sarà che la fonetica e la fonologia siano degli ‘optionals’? Siamo alle note
osservazioni canzonatorie di Voltaire? Altri, data la struttura in –ano (dialetto -anu)
hanno pensato a qualche prediale, cioè una forma antica prædium lappianum, proprietà
di un centurione in pensione, che sembrerebbe più promettente come ipotesi.
Comunque, Schulze p. 358 ci fornisce il nome Lappius, che dovrebbe darci (prædium)
lappi-i-ānum > *Laccianu, non attestato, visto che solo una delle due ‘i’ potrebbe essere
eliminata, non ambedue. Vi è un nome molto meno comune (Pompullius) Lappa
(Schulze ibid.), forse d’origine etrusca, per cui un (prædium) lapp-i-ānum potrebbe, al
limite, fornirci un esito Lappanu. Centurioni etruschi mandati in Calabria
costituirebbero delle raræ aves, anche se non impossibili. Ugualmente, la pianta lappa
potrebbe fornire un aggettivo *lappanus –a –um (agrum *lappanum, un campo di
bardane). Forse la bardana è più presente in Calabria degli Etruschi. Purtroppo il nome
non è attestato in antico per poter decidere tra le due soluzioni, ma certamente il
toponimo reale non ha nulla a che vedere con l’accadico, antica lingua afroasiatica.

Venendo a esempi concreti, un cambiamento nella teoria, il proto-sistema


consonantico è stato del tutto rivisto, inserendo la teoria che suppone le laringali4 e
eliminando la lunghezza vocalica, con l’effetto di arrivare a una semplificazione della
struttura sillabica in senso fonologico. Nel caso del latino e delle lingue italiche, che
comprende il sabellico dei Brezi, i risultati si possono trovare nella Scheda 1 (pp. 245-
250) del mio Geostoria Linguistica della Calabria (vol. I) per chi vuole. Un altro
cambiamento è l’allargamento delle lingue indoeuropee dovuto alla scoperta delle
Lingue Anatoliche (Ittita, Lidio, Luvio), per cui ora si parla di Lingue Anatolico-
Indoeuropee. Poi vi è la scoperta e l’analisi del Tocarico A e B, le lingue indoeuropee
del nord della Cina, nonché il deciframento del Lineare B e delle Iscrizioni Cipriote,
che porta le nostre conoscenze del greco indietro al 1.500-1.400 a.C., a quasi tremila
cinquecento anni fa. Nel frattempo, la ricostruzione dell’Afroasiatico è andata avanti,
come la ricostruzione del Dene-Caucasico, del Dravidico, dell’Uralico, dell’Altaico, se
è lecito usare questo nome, e, con forti limitazioni, del Sino-Tibetano, con tutta la
problematica sulla genesi del Coreano e del Giapponese ancora aperta alla discussione.
Un rapporto ancora in discussione è anche la posizione del Sumero rispetto all’Elamita,
Munda e Dravidico, mentre il Nostratico, così caro ad Alfredo Trombetti agli inizi del
’900, è ancora lontano dall’essere provato scientificamente, nonostante tentativi
4
Per la lunga storia delle ‘laringali’ si veda Salmons 1993.
moderni di avvicinarsi al concetto di proto-lingua dell’Homo sapiens. Dal punto di
vista di una corretta analisi e dell’affiliazione, restano ancora problematici l’Etrusco, il
Sicano e il Basco, e qualche altra lingua ancora. Senza soluzione resta il problema della
lingua pre-indoeuropea dei Brezi prima della loro ‘sabellizzazione’ culturolinguistica,
visto che Βρεττία e βρέττιος sono etnici dati loro dai Dori ed Achei invasori del 700-
600 a. C. o da altri estranei (non-indigeni), e la loro alfabetizzazione dovuta agli
invasori greci. Se il nome è anteriore ai Greci potrebbe trattarsi del messapico o di
qualche lingua albanoide affine che chiamavano questi loro vicini βρέττιοι o βρέττοι.
In quel caso il nome potrebbe facilmente essere indoeuropeo. Resta anche il problema
di che rapporto ci sia tra Βρέττιος/ Βρεττία e Brut[t]ius. Il primo termine non sembra
avere nulla a che vedere con il settentrionalismo brénto o brénta (contenitore: cesto,
conca o vasca), omofono del fluviale Brenta. Comunque, sappiamo dalla Vita di S.
Martino scritta da Venanzio Fortunato (550-600 d.C., v. 670 in poi) e dall’Anonimo
Ravennate (850-900 d. C., Schnetz p. 75, 22) che l’antico nome del fiume Brenta era
Brinta (cioè Brĭnta), nome cui Francesco Dondi dall’Orologio farà appello nel 1802,
citando S. Venanzio. In precedenza la Tabula Peutingeriana aveva chiamato il fiume
Brintesia (Miller p. 388), il che suppone sempre una forma base precedente Brĭnta. È
dunque inutile cercare di associare Βρεττία e βρέττ[ι]ος con un simile potamonimo,
visto che non vi può essere confusione in antico tra ‘ĭ’ (che darà la ‘é’ chiusa nei dialetti
lombardo-veneti) e ‘ĕ’. Non sarebbe d’ostacolo l’alternanza tra sonante + occlusiva (il
nesso –nt- in questo caso) e occlusiva geminata (-tt-), fenomeno abbastanza comune
tra le lingue italiche, celtiche ed elleniche, millenario nella storia del greco e lungo la
storia dell’italico, del latino e delle lingue e dialetti neolatini, tanto da creare allomorfia
tra Βρέττιοι e Βρέντιοι ‘Brezi’ nella Περιήγησις τῆς Οἰκουμένης di Dionisio
d’Alessandria del secondo secolo d. C., si vedano i vv. 360-362:
“Πρὸς δὲ νότον, μάλα πολλὸν ὑπὲρ Σειρηνίδα πέτρην,
φαίνονται προχοαὶ Πευκεντίνου Σιλάροιο·
ἄγχὶ δὲ Λευκανοὶ καὶ Βρέντιοι ἄνδρες ἔασαι,”.
Ricordiamo che la parafrasi latina di Prisciano dava Brettii5. Il Commentario bizantino
di Eustazio (commentario 362-364) sul testo di Dionisio parlava dell’allomorfia tra
Βρέττιοι e Βρέντιοι
“Ὅτι Λευκανοὶ καὶ Βρέντιοι, διὰ τοῦ ν, ἢ Βρέττιοι, διὰ τῶν δύοττ, ἔως ἐπὶ τὴν
Λευκὴν Πέτραν διήκουοι, …”.
Nello stesso periodo di Dionisio, Pseudo-Scimno (126-136 d.C.) non usa l’etnico,
parlando piuttosto di Λευκανοί come termine globale che abbraccia anche i Brezi,
indice della completa identificazione raggiunta dai due popoli antichi. Tolomeo
(Geographia Libro 3) usa addirittura, meno di cento anni più tardi, l’etnico latino
grecizzato, Βρουττίοι (Libro 3. 1, 74, Βρουττίων μεσόγειοι). Contraria
all’equiparazione tra Brenta (latino Brĭnta) e Βρεντία/ Βρεττία è la differenza
incolmabile tra la vocale media della seconda e la vocale alta di Brĭnta latina, e non
l’alternanza –nt- ~ -tt-, assai comune nel celtico, nell’italico e nel greco, come detto.
La prova che sia brénta –o ‘contenitore’ sia Brenta fiume abbiano un’origine del tutto
5
V. 356 “Hic habitant prope Lucani, Brettique coloni”.
diversa da Βρέττιος e Βρέντιος non risiede nella qualità della vocale (‘e’ chiusa) che
ritroviamo nel lombardo-veneto, perché le vocali latine ‘ĭ’ e ‘ĕ’ finiscono, ambedue, in
‘é’ chiusa in questi complessi dialettali6. Ciò che dimostra che brénta ha in origine una
vocale ‘ĭ’, come quella del potamonimo latino Brĭnta, è l’esito friulano della voce per
il ‘contenitore di liquidi’. Com’è ben noto, il friulano porta la ‘ĕ’ latina, in posizione
davanti ai nessi –nt-, -nd-, tramite un primo dittongamento come ‘ìe’, alla vocale ‘i’
(processo di ‘smoothing’), come in int ‘gente’ (REW 3735 gĕntem), dint ‘dente’ (REW
2556 dĕntem), lint ‘lentiggine’ (REW 4979 lĕntem), mint ‘mentisce’ (REW 5510
mĕntīre, mĕntit), rint ‘rende’ (REW 7141, 2. *rĕndĕre, *rĕndit < rĕddĕre), sint ‘sente’
(REW 7824 sĕntīre, sĕntit), vint ‘vento’ (REW 9212, vĕntus), vìntr[i] ‘ventre’ (REW
9205, vĕnter). Dall’altro lato, la ‘ĭ’ e la ‘ē’ si abbassano a ‘é’ poi a ‘è’ in questo stesso
contesto, ad es. èntr[i]/ dèntr[i] ‘dentro’ (REW 4514, ĭntro)7, ènz ‘dentro’ (REW 4520,
ĭntus), chènt ‘qui’ (REW 4520, [ec]cu[m]-[hīc-]ĭntus), lènt ‘leccato’ part. pass. di lèngi
(REW 5066, lĭngĕre), lènz ‘lì’ (REW 4268, ĭll[īc]-ĭntus), pènt ‘dipinto’ part. pass. di
pèngi (REW 6512, pĭngĕre), vènt ‘vende’ (REW 9190, vēndĕre). I due processi sono
regolari, polarmente diversi ma simmetrici (ĭ > [é >] è// ĕ > [ìe >] ì), per cui il friulano
brènt (brènte) ‘tino per portare vino’ può derivare unicamente da un latino brĭntus –a
e non da una forma ipotetica *brĕntus –a. Ciò dimostra, senz’ombra di dubbio, che la
forma Βρέντιος –α = Βρέττιος -α non ha nulla a che vedere con la Brĭnta del Veneto
storico e i suoi derivati. La via è, dunque, aperta, alla discussione di un possibile
messapismo (albanoide) in Calabria.

Come si sa, un esito b- nelle lingue italiche, innanzitutto nel sabellico dei Lucani,
ergo dei Brezi ‘sabellizzati’, non risale automaticamente ad una *B- originale bensì ad
una labiovelare *Gw-, anche, motivo per cui sarebbe d’uopo cercare una fonte anitalica
dell’etnonimo. Ciò non desta sorpresa, perché da sempre sono gli altri (estranei) a
nominare il gruppo indigeno e vice versâ, ad es. Celtæ, Κέλται o Celti è un nome che
ha la sua origine nel baltico e nel germanico ma non nel celtico, Germani è etnonimo
non d’origine germanica, bensì celtica (cimrico e bretone garman- ‘chiamare ad alta
voce; gridare’), cioè i ‘gridanti’. A volte sono indici d’incomprensione o epiteti
negativi (per gli Slavi i Germanici sono Немций ‘muti’)8. In altri casi, si tratta di
generici quali ‘abitanti del mondo’, ‘umani’, ‘uomini’, come Albanese (derivati di
*HAL-BO- ‘bianco’, ‘lucente’, indicano il ‘mondo’, ergo ‘mondani’, ‘quelli del
mondo’, gli uomini), oppure goidelico Albu/ cimrico Alban ‘Scozia’ (> ingl. Albion).
Questo indica una soluzione probabile di Οἰνώτροι, Oenōtrī, come ‘unici’ (i cosiddetti

6
L’innalzamento vocalico blocca la piena nasalizzazione del segmento vocalico. Come si sa, la nasalizzazione
di vocali porta con sé un livellamento acustico (formantico) lungo la linea centrale orale (medio-basso) ‘è – ǝ
– ò’, perché l’effetto di una F2N è quello di abbassare il valore di F2, di innalzare F2 solo nel caso di ‘a’.
7
La ‘i’ finale è un’aggiunta automatica qualora una parola friulana finisce in nessi di tre o più consonanti. Ha
tutt’altra valenza e storia nella morfologia verbale.
8
Ad esempio, nel calabrese settentrionale della Valle del Crati, arvarìesciu (< Arbëresh ‘Albanese’, etnonimo)
significa ‘sporco’, cioè il ‘non-lavato’, il contrario dei Volsci (celticamente i ‘troppo lavati’, irlandese
folchaim, cimrico golchi, ymolchi < gwolchi).
‘veri uomini’). Non sappiamo se indoeuropei o pre-indoeuropei, nemmeno che lingua
parlavano, anche se le poche iscrizioni di ca. 600 a. C. indicano una lingua proto-
sabellica (vedi commenti in Lazzarini-Poccetti 2001) e i loro simboli religiosi
(l’uccello peica) pienamente anatolico-indoeuropei, anzi italici, per cui un etnonimo
quale Oenōtrī rientrerebbe pienamente entro schemi indoeuropei. Il riconoscimento di
un eteronimo imposto da altri (implicito in Strabone 6. 255, ma il geografo voleva
un’imposizione lucana, perché riconosceva la ‘sabellizzazione’ linguistica e culturale
dei Brezi) implicherebbe l’ipotesi di nominazione esogena e permetterebbe di cercare
un’origine anitalica, cioè messapica e albanoide, dell’etnonimo *bren-t- o *brett-,
come prima suggerito. Come sappiamo, le forme βρέττιος –α, βρέντιον, βρέντον,
βρένδον sono attestate dal 600 d. C. in poi, a volte con riferimenti ad epoche precedenti,
ad es. in Stefano Bizantino, ed. Meineke 185, 16-17:
“Βρέντιον γὰρ παρὰ Μεσσαπίοις ἡ τῆς ἐλάφου κεφαλή, ὡς Σέλευκος ἐν δευτέριῳ
γλωσσῶν”.

La menzione del Glossario di Seleuco implica un periodo tra 100 e 200 d. C., come la
menzione della Periegesis di Dionisio, ma non prima. Poi saltiamo al settimo secolo d.
C., al Lessico di Esichio, ad es. Β 1095 con la glossa βρένδον· ἔλαφον che viene
associata con Β 1105 Βρέντιοι· ἔθνος ἐν Ἰταλιᾳ. A parte la citazione di Dionisio
(Periegesis, ca. 120 d. C.), Βρέντιοι e Βρεντία sono associati, a loro volta, con Βρεττία
in Β 1112
“Βρεττία· μέλαινα < πίσσα > ἢ βάρβαρος. ἀπὸ τοῦ Βρεττίων ἔθνους”.
Le ultime glosse non sono associate a nessun autore particolare, tranne l’ultima
connessa con un frammento aristotelico (frammento 629), come anche βρέττιος
(Aristotele, frammento 719). Ciò ci porterebbe al secondo o terzo secolo a. C., prima
di Strabone (Geographia 6. 1. 2-5, con il continuo Βρεττία, Βρέττιοι, e la correzione di
Βρεττανία in Βρεττιανή)9, ma non ad epoche remote. Come ‘etimologia’ gli autori
greci ci propongono ‘cervo’, ‘testa di cervo’, ‘corna del cervo’ (il palco delle corna),
riportando le testimonianze a 300-250 a. C., meno di un secolo prima della Guerra
Civile e dell’annessione della Bruzia a Roma dopo la sconfitta di Annibale.

Krahe era forse il primo a connettere βρέντιον con l’albanese brī ‘corno’ (con
l’articolo brīri, ma ghego brî, brini, ergo una base storica albanoide *brin-),
connessione ampiamente accettata in Orel 1998: 36-37 (senza riserve, proto-albanese
*brin-), anche se Demiraj 1997: 110-111 aveva portato la comparazione oltre, fino a
confrontare una base *bren-[t/ d]-no-, da un lato con il gallico *brinos, poi con le forme
baltiche (lituano briêdis, antico prussiano braydis ‘renna’), e con una proto-forma *br-
VH- [N-] (> sanscrito bhrú, greco ὀφρῦς ‘sopracciglia’, ma anche il latino frōns,

9
L’appello alla testimonianza di Antioco di Siracusa (dorico), senza mai citarlo direttamente, non sembra di
gran peso. È piuttosto di forma, visto che la visione geografico-politica di Strabone è quella di Augusto.
L’unica osservazione di una certa rilevanza, da parte di Strabone, è che i Lucani, che ‘lucanizzano’ i Brezi,
sono Sanniti, ergo portatori di una lingua sabellica, e perciò ‘sabellizzano’ i Brezi: 6. 1. 3 “οἱ δὲ Λευκανοὶ τὸ
μὲν γένος εἰσι Σαυνῖται”.
frŏntem ‘fronte’, una discussione molto più ampia di quella di Orel, comunque senza
raggiungere una conclusione definitiva. Ritengo che una proto-forma gallica *brīn- (>
afr. brin ecc.: si veda FEW 1. 528B-531A) sia da collegare con l’irlandese antico –bria/
verbo broinnid ecc. ed una base *BREIH- ‘tagliare; sbriciolare’ (IEW 166) e non con
l’albanoide. Il collegamento dell’albanoide *brin- è piuttosto con le voci per ‘prora
della nave’, ‘promontorio’, cioè parte anteriore, prominente, nelle lingue celtiche, vale
a dire irlandese braine, broine (LEIA B-37), antico cimrico breni nelle glosse dello
Juvencus (Falileyev 2000: 18 ír bréni. proram), il promontorio Breni (f.), Y Freni Fawr
(Williams 21945: 19), antico cornico brenniat (Campanile 1974: 17 brenniat.i.proreta).
La base da ipotizzare qui è *BREN-, *BREN-D/T-. Per quanto riguarda il germanico,
già Falk-Torp 1910: 1. 102 connettevano il norvegese bringe = brinde ‘alce’ e lo
svedese dialettale brind, nonché il norvegese dialettale brund ‘renna maschio’, non solo
con il baltico (lituano br[i]êdis, antico prussiano braydis) ma anche con il messapico
βρέντιον, βρέντον, βρένδον degli autori greci dell’antichità. Comunque, Falk e Torp
riportavano tutto alla base *BREM- per il rumore che fanno le renne (maschi) in
fregola. De Vries 1977: 60B-61A rettifica sotto la voce Brundabjálfi, ricollegando
tutte le forme scandinave per ‘renna maschio’, ‘alce’, ‘palco di corna di cervi, renne e
alci’, alla prima base proposta da Krahe *BREN-TO-, per relazionare il tutto con
l’albanoide *brin-/ *bren-. Dal panorama evidenziato sembra che si abbia una base
*BRE-N-[T/D]-O comune (variante femminile nel celtico) con significato
‘prominenza’ (> promontorio)/ ‘parte anteriore’, da confrontare anche con il latino
frōns, frŏntem. Se, come ipotizzava Matasović 2009: 80, le voci celtiche irl. abræ (base
in –nt-), cimr. amrant, cornico abrans, bretone abrant, tutti esiti per ‘sopracciglio -a’,
sono da collegare con il sanscrito bhrú, greco ὀφρῦς, allora la base con aumenti è
*HBRVH- > *HBRV[H]-N- > *HBRV[H]-N-D/TO-10, completamente anatolico-
indoeuropea, con diffusione in un gruppo esteso baltico-germanico-celtico-italico
(latino) -albanoide (messapico)-indiano. La forma attestata dagli autori greci e latini
(Brezia, Brettico) può essere stata appellativo dato dai Messapi di Taranto, come
*HBREN-T-I-O- ‘quelli del promontorio’ > Βρέντιος [> Βρέττιος], i Breti. Già i primi
appellativi romani indicano, comunque, un etnonimo sabellico del tipo Brutius/
Brutium, anche se la Notitia Dignitatum di molto seriore (390-400 d. C., con alcune
parti forse del ca. 500 d.C.) proponeva una variazione tra, da una parte, Bruttiorum et
Lucaniæ (Occidente XIX. 9), e, più frequentemente, Lucaniæ et Brittiorum (Occidente
I. 81, II. 20)/ per Brittios et Lucaniam (Occidente XLII. 47-50). Mentre Brutius ecc.
sembrerebbe, dunque, endogeno, Brittius appare concordare in parte con Βρέττιος,
esogeno.

Rimane il problema dell’origine di Brutius, Brutium, che non sembra aver nulla
a che vedere con Βρεττία. Se l’etnonimo latino è d’origine italica, come sembra, allora
è da connettere con l’aggettivo brūtus, che troviamo sia in Pacuvio, d’origine osca, sia
in Varrone, cioè il frammento fornito in Nonio (ed. Lindsay 109)

10
Per spiegare il greco ὀφρῦς H = Ho [H3], per spiegare le forme celtiche H = H1. Forme celtiche con AMR-
derivano da < HBR- (scambi tra ‘b’ e ‘m’ sono frequenti nelle lingue celtiche).
“BRVTVM dicitur hebes et obtusum”.11
Pokorny (IEW 476-477) sotto una struttura ora riscrivibile come *K‘wER- > *K‘wR-
UH-TO- indica esiti baltici e, come prestito dall’osco-umbro, il latino brūtus, secondo
lo schema sabellico Kw K‘w Gw > P B F e non secondo quello latino Kw K‘w Gw > QU
[Kw] U [W]/ G (in posizione davanti a sonante)/ F. Dalla stessa base il latino conosce
*K‘wRV-W- > grāuis, per cui il paragone fatto tra l’italico brūtus e il greco βαρύς da
Giovanni Lido è essenzialmente corretto12. Concludeva Ernout 1909: 128
“le traitement de l’initiale indique une origine osco-ombrienne; il est utile de
noter à ce propos que Brutulus est un prénom osque, cf. Liv. VIII, 39, 12. ”
Semanticamente tutto fila, il significato è ‘bifolco’, ‘pastore’, ergo ‘pesante’, ‘stupido’,
e potrebbe rappresentare il disprezzo di Campani e Lucani per i Brezi che avevano
‘sabellizzati’ secoli prima, e anche fonologicamente rispetto alla base anatolico-
indoeuropea di cui sopra. Il codice Farnesiano di Napoli del De Verborum Significatu
(si veda ed. Lindsay 28, 23) dà Festo (su Verio Flacco) che commentava “Brutum
antiqui grauem dicebant”. Commentava anche il verbo derivato obbrutesco, obbrutui
(201, 29-31), rafforzando la definizione varroniana e dando lo spunto per le
osservazioni di Giovanni Lido. A questo punto l’ipotesi forte è che si tratti di uno
spregiativo sabellico per il popolo ‘lucanizzato’ che si alleava con Annibale.

Nel caso del toponimo ‘Bruzio’ vi è, comunque, un’altra alternativa, visto che
alcuni studiosi continuano ad associare il toponimo Brindisi, latino Brundisium, con il
‘bronzo’, cfr. Mallory & Adams 1997: 380:
“The name of the town of Brundisium, a leading center for the manufacture of
bronze mirrors, is the probable source of Italian bronzo ‘bronze’, …”,
mentre Biville 2009: 411 riprende i commentatori antichi che riportano a Βρένδον/
Βρέντον il nome della città:
“Les lexicographes anciens nous disent que le nom de la ville de Brundisium =
Βρεντέσιον est dérivé du nom messapien de la tête de cerf, grec Βρέντιον = latin
brunda. ”,
in questo seguendo le Origines di Isidoro (15. 1. 49):
“Brundisium construxerunt Græci: Brundisium autem dictum Græce quod
brunda caput cervi dicatur”,
e altri geografi precedenti. Se, dunque, volessimo associare, invece, Brutus, Brutium,
Brutius al nome del metallo e non a brūtus13, dovremmo innanzitutto ricordare che
l’antico Bruzio era noto per la produzione di pece e di rame, mentre il bronzo fa parte
del commercio in metalli in Campania e Magna Grecia. Ricordiamo, anche, che il
bronzo è un derivato di rame (70-80%), stagno e arsenico, e forse ha la sua brillantezza
dal rame. Nelle lingue antiche è pure noto che non vi è grande distinzione tra rame

11
Lucrezio (De Rerum Natura 3. 544-545) usava addirittura il verbo obbrutescere: “nec refert utrum pereat
dispersa per auras// an contracta suis e partibus obbrutescat”.
12
Lido, Mag. 1. 31: “βροῦτον…… τὸν μωρὸν ἐπεχωρίαζον Ἰταλοί, ἀπὸ τῆς βαρύτητος τῶν φρενῶν”.
13
Certamente non a Βρέντιον, Βρένδον e alle altre varianti con vocale tonica –e-.
(prodotto ab antiquo) e bronzo (derivato più recente)14. Il problema ora è scoprire
l’origine di un tardo latino *brund-i-um ‘bronzo’, dalla base *brund-/ *brunt-,
ovviamente non una base latina, nemmeno italica. La prima cosa da notare è che sia in
latino sia in volgare la lessicalizzazione di ‘bronzo’ avviene molto tardi. Bronce in testi
medio-francesi derivano dall’italiano bronzo, l’inglese brass è di tutt’altra origine,
bronze proviene dal francese, in altre parole tutto sembra cominciare con brondium,
brundum, brondum nel latino dell’Italia intorno alla prima metà del tredicesimo secolo,
1250-1300. Da Sella 1937 e 1944, dal Du Cange latino e da altre fonti ancora sappiamo
che nei testi medioevali latini dell’Italia troviamo brondum, bronzum, bronzium,
brondium, brundum, brundium, persino bro[n]gium nel periodo 1250-1400, accanto al
contenitore brondinum, bronzinum, con gli esempi più antichi nelle Tre Venezie,
nell’Emilia, a Bologna e nell’Esarcato. A livello dialettale, agli inizi del Trecento
questa famiglia lessicale si trova nella Bibbia Istoriata di Padova come brondo (Esodo
cap. 37 brondo, Giosuè cap. 6 brondo, cap. 22 brondo), bronço negli Atti trecenteschi
di Venezia editi da Stussi (80. 19r, del 1315), e come brondo, brundo negli Atti
trecenteschi di Padova editi da Tomasin (4 volte: brondin come ‘vaso di bronzo’ altre
quattro volte). Vi è, dunque, una concentrazione del termine e dei derivati nei volgari
a Venezia, nel Veneto e nell’Esarcato, da metà del tredicesimo secolo in poi. A questo
punto viene da chiedersi se il termine per ‘bronzo’ è stato veicolato dai Bizantini. Il
termine è reperibile, infatti, nei Trattati Alchimistici tra il 900 e 1000 d.C., ad es. nel
ms. M di Berthelot (220, 13) del poco prima del 1000 chiamato Εἰ θέλεις ποιῆσαι
φούρμας καὶ ὕλους ἀπὸ βροντησίου ποιεῖ οὕτως, cioè
“βαφὰς φούρμουσαι ἀπὸ βροντησίων, ὡσαύτως καὶ λίθων πρασίνων, …”15.
A parte l’apparsa di βροντήσιον nel tardo bizantino (sempre precedente alla prima
apparsa romanza) vi è una fonte molto più antico (170-200 d.C.), vale a dire Polluce
(βροντεῖον in libro 4, 130), che parla di vasi di bronzo rumorosamente battuti fra di essi
per simulare il rumore del tuono:
“Κεραυνοϲκοπεῖον δὲ καὶ βροντεῖον, τὸ μέν ἐϲτι περίακτοϲ ὑφηλή· τὸ δὲ
βροντεῖον, ὑπὸ τῇ ϲκηνῇ ὄπιϲθεν ἀϲκοὶ ψήφων ἔμπλεοι διωγκωμένοι φέρονται
κατὰ χαλκωμάτων.”
Sembra che βροντή ‘tuono’ abbia facilitato il prestito da una lingua estranea, data la
funzione teatrale dei vasi bronzei. Si tratterebbe, dunque, di una contaminatio tra voce
anellenica e voce greca esistente.

14
Bourdin 2009: 491 parla di nomi di mercanti lucani e brettici nel Dodecaneso che commerciavano in metalli
(Βότρυς Λευκανός e Πλάτων Βρέττιος rispettivamente), nonché della produzione di bronzo in Italia
meridionale (“production de bronze en Campanie et à Capoue en particulier, ou en Grande Grèce”).
15
Vi sono altri due brani alchimistici in cui appare la voce βροντήσιον, ma i mss. sono del quattordicesimo
secolo. Potrebbero anche essere testi del periodo 1000-1100, ma non vi è alcuna certezza della data di
composizione, cioè Berthelot 16, 6 (nella sezione dal titolo Λεξικόν τῆς Χρυσοποιίας troviamo “Χαλκοπυρίτης
βροντήσινος θειόν ἐστιν ὕδωρ”) e 376, 25 come una giusta composizione del bronzo come rame + stagno (“Ἡ
δὲ συγκέρασις τοῦ βροντησίου ἐστὶν οὕτως· ἰοῦ κυπρίου λίτρα α΄, κασσιτέρου γ° β΄”).
Comunque, mentre FEW 1. 373, nel rifiutare æs brundisium come possibile
origo di ‘bronzo’ per motivi fonologici (“lautlich unmöglich”), non spiegava affatto
come il persiano birinǰ potesse dare brundium come esito16, Manzelli 1976 aveva
correttamente individuato la variazione interdialettale iranica birinǰ ~ burunǰ < purinǰ
< pulinǰ, e l’origine geografica nei contatti commerciali tra mercanti veneziani e paesi
di lingua iranica in e intorno al Curdistan, sempre che i Veneziani non l’abbiano
imparato da mercanti cinesi (pin-t’je) che l’avevano, a loro volta, preso in prestito
dall’iranico (Laufer 1919: birinǰ). In questo caso (fosse un prestito cinese nell’iranico)
non si spiegherebbe la vocale tonica ‘u’ di brundium, allora si deve per forza ipotizzare
che il cinese sia un prestito dall’iranico, come voleva Laufer. Una simile conclusione
è raggiunta in Klimov 1998: 150 a proposito della base caucasica per ‘rame’, *pilenʓ1-
. Non può derivare dall’armeno pƚinc ‘rame’, perché vi è concordanza fonologica tra le
voci per ‘rame’ o ‘bronzo’ nelle varie lingue caucasiche, ma gli esiti non trovano una
razionale origine interna al caucasico. Conclude Klimov:
“The word apparently derives from an old cross-cultural term: cf. PIE extended
formation *(s)plēnd- ‘to shine, to sparkle, glitter’ …”.
L’iranico è, dunque, il punto focale dal quale si sviluppano termini sino-tibetani per
‘bronzo’, termini caucasici per ‘rame’; da varianti inter-iraniche esce una forma greca
che, influenzata da, incrociata con, il greco βροντή ‘tuono’, passerà nel tardo
ellenistico, poi nel bizantino, forse da qui verrà passata a quelle parti dell’Italia
medievale sotto controllo bizantino (Venezia e l’Esarcato), come nello schema 1.

SCHEMA 1
[s]pulinǰ- (indo-iranico)

pulinǰ > purinǰ, burinǰ pulinǰ > pilinǰ, pirinǰ [pininǰ], birinǰ

burunǰ pilenǰ pin [-t’je]

X βροντή > βροντεῖον, βροντήσιον caucasico sino-tibetano


greco bizantino > Italia ‘bronzo’ ‘rame’ ‘bronzo’

bronze
inglese, francese, tedesco

Resta il problema: da dove origina la voce Iranica? Se partiamo dall’anatolico-


indoeuropeo (IEW 987) *(S)PEL- ‘brillare; luccicare’ si giunge agli aumenti in
*(S)P(E)L-END- e *(S)P(E)L-ENG- che ci danno esiti indo-iranici (sphuliṅga-, pulinǰ/
purinǰ), armeni (pƚinc), latini (splĕndēre), germanici (tedesco flink < basso tedesco
flinken X blinken, ‘brillare’, Kluge-Seebold p. 273, con derivato riferito al brillare del

16
Questa prima ipotesi (di Von Wartburg) di una possibile origine iranica era già un enorme miglioramento
rispetto a Diez 1853: 72 che aveva proposto un etimo germanico (‘bruciare’, tedesco brennen, inglese burn
ecc.) per l’italiano bronzo, francese bronze ecc., del tutto fuori luogo.
rame e del bronzo, Kupferflinke17), e con qualche riflesso baltico. In genere si dimentica
che *(S)[PE]L-END- è pure ben rappresentato nel celtico, anche se gli esiti conservati
dal primo Medio Evo in poi sono unicamente goidelici, ad es. ant. irl. laind/ lainn ‘luce’
(Stokes-Bezzenberger 1894: 239 citarono, però, soltanto il Glossario di O’ Cleary) >
lainder/ lainner ‘brillantezza’ (ad es. Ríagol Ailbi Imlecha §25b “cen úaill ocus cen
laindir”- senza frivolezza, e senza troppo brillare; Ériu 2 §159 “lainder dacht 7 forlas
ardacht in tsloigh”- con lo splendore e la fiamma delle sue truppe), derivati laindred
‘brillantezza’ (es.: Ériu 2 §34 p. 112 “co n-ilar liac logmar, co laindred fhola” - con
moltissime pietre preziose, aventi la brillantezza del sangue), lainderda ‘brillante, che
brilla; spendente’ (es.: la glossa sull’antico inno di Ultan nel Thesaurus
Palaeohibernicus 2. 325, 34 “in grén tind [.i. tentide ƚ” lainderda] tóidlech”- il sole
abbagliante [cioè come fuoco o per brillantezza] (e) risplendente)18. In conclusione, la
voce per ‘splendore’, ‘brillantezza’ ha un’estensione vastissima all’interno
dell’anatolico-indoeuropeo, definibile come un’area che copre il balto-germanico-
celtico – italico (latino) – armeno -indoiranico. Con un’estensione così larga vale
l’etichetta ‘proto-anatolico-indoeuropeo’. La brillantezza del rame e del bronzo
lavorato sarebbe, perciò, la base delle voci per ‘bronzo’ (in parte per ‘rame’).

Il problema resta quello di capire come una base *B[U]RUND- > *BRUND- >
*BRUNT- (dopo l’incrocio nel mondo ellenistico con βροντή ‘tuono’) potrebbe uscire
come BRŪT- e non BRUTT- (esito del tutto naturale, data la variazione tra -NT- e –
TT-). Verso il 1000 d.C. il Suida (ed. Adler 1. B578) offriva Βρυτίδης come etnonimo,
ma di un’area della Grecia (Βρυτίδαι: ὄνομα γένουϲ Ἀττικοῦ)19. Ma già poco dopo il
500 d.C. il Chronicon Alexandrinum (o Chronicon Paschale, p. 266) parlava di un
gruppo di donne rapite e prese in mogli da soldati, chiamate Βρύτιδαι o Βρούτιδαι (pl.
di Βρ[ο]ύτιδα), vale a dire:
“καὶ ἐξεφώνησε νόμον ὥστε λαμβάνειν στρατιώτας πρὸς γάμον παρθένους ἃς
ἐκάλασεν βρούτιδας”.

17
Il tedesco Bronze deriva dal bronzo italiano, e gli articoli che indicano una lontana origine nel persiano birinǰ
(Kluge-Seebold p. 137, tranne Steiger, Origin and Spread, N. Y. 1963, che non spiega i dettagli del prestito)
sono posteriori rispetto al lavoro più approfondito di Manzelli 1976 e alla sua precedente tesi padovana.
18
Ci deriva come *(SPE)L-END-TU- l’antico irlandese léss ‘luce; splendore della luce’, come in Ériu 2. 122
§65 “da mag dec sin fulet fo toibhuibh talman fris taitin grian fri les[s] cach aidche” (12 pianure sotto i fianchi
della terra, sulle quali brilla il sole per luce ogni notte), Ériu 2. 134 §115 “ni fhaicfitis less na soillsi la bas”
(non vedrebbe né splendore né luce nella morte), nell’inno di S. Fiacc (Thesaurus Palaeohibernicus 2. 319, 5
“Samaiges crích fri aidchi. Arnā caite lés[s] occæ”- mise confini alla notte, ché la luce non si spegnesse lì
dentro) ecc. Comunque, sarebbe errato confrontare, come fanno alcuni, il goidelico léss con l’antico nordico
ljos ‘luce’, di tutt’altra origine (De Vries 1977: 360, ljos < *LEUK-SEHa).
19
Βρύτια (1. B577), comunque, è la spremitura dell’uva raccolta oppure i residui (vinacce). Come dicono i
commentatori, un simile termine doveva essere messapico o albanoide (albanese ghego bërsí). La voce
Βρυτίδαι di Suidas corrisponde, tra il 600 e il 700 d.C., a Esichio B1272 (βρυτίδας [variante βρυτίνας] · γένος
παρὰ Ἀθηναιοῖς).
L’etnonimo non sembra aiutare la soluzione del problema, né la variazione tra βροῦτος
e βρύττιον (Esichio B1211, 1261), perché sia l’origine (albanoide o tracico?) sia la
semantica (specie di birra o bevanda) sono d’ostacolo. Il problema sembra
insormontabile e allontana la soluzione di Brūtĭum in termini del metallo ‘bronzo’. Per
ora Brūtĭum e Brūtĭus sembrano spiegabili soltanto in termini dell’oscismo brūtus
‘bifolco’, ‘pastore’20, come chiaro eso-etnico spregevole.

Per tornare alla questione del metodo, e la presenza di uno strato sumero
antichissimo nelle lingue anatolico-indoeuropee, possiamo solo dire che l’unico punto
fermo è la presenza del sumero nella linguaggio dell’allevamento equino anatolico-
indoeuropeo e dell’anatolico-indoeuropeo nel lessico della bovinicoltura sumera, ma
non certo alla base di tutte le lingue, secondo una moda che sembra imperare tra i non
linguisti. La teoria e le tecniche degli ultimi 250 anni, abbozzati nel discorso
precedente, con le aggiunte dovute al progresso della scienza linguistica sono quelle
che ho applicato per tentare una prima soluzione del toponimo COSENZA.

COSENZA- ΚΩΣ.

Come dice la voce di Wikipedia, abbiamo, in italiano Cosenza, dialetto Cusenze,


come nel sito ‘Cosenza’ (ora con le mie modificazioni). La pronuncia ‘cittadina’ è
Cusenza, quella dei Casali, quella rurale e peri-urbana è Cusenze. Quest’ultima forma,
Cusenze, è presente nei componimenti dialettali dell’Ottocento e anche prima, nel 1783
nei Varj Componimenti Poetici di Liborio Vetere, apriglianese, p. 47, 2° Suniettu v. 1-
2.
“Cuʃenze ʃtà n’Calavria, e li Pilieri/ Mancu e nume Piʃa, ò Rumaninu/
Va mò tieni lu carru allu penninu,/ A un dire alla paiʃana dui penʃieri.”.
Possiamo, dunque, cominciare a dare profondità temporale alla forma Cusenze,
evidentemente dal locativo tardo-latino Cosentiæ, sul modello di Firenze, Rimini ecc.
Dall’altro lato, Pasquale Manfredi (Accademia Cosentina 1842-43) partiva dai
quartieri (Episcopio, Giostra, Li Pettini, Motta, Messerandrea, Tenimento ecc.) intorno
al Castello, significato secondo lui di βρέττος (per cui Βρέττιοι sarebbero ‘abitanti del
Castello’, Manfredi p. 413): l’insieme di questi, “dal consenso che si prestò per il luogo
della riedificazione” prese il nome di Consentia. Nessun riferimento a come si analizza
il sabellico o ai Romani che cambiano il nome. L’altra soluzione da lui proposta è
quella di un’origine egiziana in CON (Ercole) + ZEN (Giove), che egli stesso ritiene
(chi sa perché?) meno plausibile. Forse non si rendeva conto che il teonimo lWe

20
Una simile etimologia coinciderebbe con la dichiarazione di Strabone (Geographia 5. 3. 1) che i Brezi furono
ἄποικοι o ‘coloni’ dei Lucani.
ḤN[M]W- (nome di un dio solare trattato in Gardiner 41999: forse relato con il copto
xonbe ‘sorgente’), trascritto CON, con una vocale messa a caso (?), non
corrispondesse ad una divinità precisa greco-romana. Nello stesso modo il teonimo
t\\ oppure ItN|21 Tɜ-ṮNN (Erman-Grapow 5. 151, 227, 387), a volte trascritto
Tatjenen, rappresentava il dio di Menfi, una personificazione della terra stessa, non
identificabile in nulla con Giove, celeste o identificabile con le alture. Non è possibile
alcuna origine simile, sia per motivi fonologici sia per motivi mitico-religiosi. SIAMO
ANCHE IN QUESTO CASO ALLE FAMIGERATE SILLABE ‘FONETICHE’.
Sarà anche difficile chiamare ‘metodo’ un approccio che tratta un’entità mai definita
foneticamente come ‘sillaba’.
Manfredi citava innanzitutto Strabone e Livio, con le Annotazioni di Aceti a
Barrio, di Bombini e di Marafioti. Forse l’imbarazzo per l’egiziano riguardava il
metodo di analizzare sillaba per sillaba, oppure il ruolo delle divinità di cui non capiva
la valenza mitopoietica; il riferimento era del tutto fuori luogo. Marafioti nel 1601 dà
soltanto Cosenza/ Cosentia, senza fantasticare sull’origine del nome. Nel ’500 membri
dell’Accademia, come Bombini, scrivono solo Cosentia, Syla Cosentina, come
Marafioti e Barrio, e si citano sempre Strabone (Consentia), Trogo, Solino e così via.
Se portiamo indietro l’orologio, andando di tappa in tappa, fino a Luca Campano, nella
famosa Platea iniziata da Arnolfo poco dopo il 1170 e completata da Luca nel 1204
(ed. Cuozzo), troviamo nel Tardo Medioevo Cusentia/ Cusencia, Cusencię, Parrochię
Cusentinę, Vie publice p[er] qua[m] it[ur] a Cusentia, eccl[esi]am S[an]c[t]i
Steph[an]i ante portam Cusencie ecc. nelle foglie 7v a 10v. Prima di questi riferimenti,
importanti, comunque, per la forma Cusenze, dobbiamo tornare a Edrisi, geografo
arabo del Re Ruggero II (La Carta d’Italia del 1154, pubblicata da Amari negli Atti dei
Lincei del 1883). Qui è assente il nome della città, anche se sono menzionati
agglomerati minori come b.niān (Bisignano, < prædium Besidianum), ‘akrāk e ‘akri
(Acri < ἄκρις più che dal bretico OKAR-, come in Crucoli < Ocriculum). I primi
vescovi (poi arcivescovi) latini portano il titolo cusentinus archiepiscopus22. Cercando
nelle fonti tardo-bizantine dei monasteri calabresi dell’Impero d’Oriente, troviamo sia
la forma officiale ellenica Κωνσταντία (Vita di S. Elia il Piccolo, calabrese, 1080-
110023), consona con il nome officiale dei documenti imperiali, quali le Notitiæ

21
In genere trascritto ỉṯn- ‘terra’.
22
Arnolfo I firma un atto come cusentinus archiepiscopus nel 1099 (Trinchera 1865: 86), poi nel 1243 il
testimone di un atto di donazione si sottoscrive +Ego Nicolaus de Cusencia Iudex Squillacii testor (Trinchera
1865: 410), nel 1248 un altro sottoscrive +ego iohannes de Cusenca supradictis testor (Trinchera 1865: 416),
nel 1265 abbiamo pure +Ego Rogerius de Cusencia iudex Catanzarii interfui et rogatus subscripsi (Trinchera
1865: 430), mentre nel 1267 il testimone di un atto riguardante passaggi di proprietà sottoscrive l'atto +Ego
Nicolaus de Cusentia rogatus me subscripsi (Trinchera 1865: 438).
23
Edizione Rossi Taibbi §53, p. 82 “… ἐπὶ τὸ Ῥήγιον διέβη, κἀκεῖθεν αὖθις πρὸς Κωνσταντίαν ἔθει”. Il cambio
di nome è probabilmente in onore di Constantino VII Porfirogenito, nel periodo 913-99, piuttosto che di
Costante II, perché troppo remoto è il suo regno, cioè 614-668. Non è, comunque, del tutto escluso perché
Costante II è morto poco prima della battaglia di Rossano e dell’incorporazione della Calabria nell’Imperio
d’Oriente alla fine del settimo secolo d. C.
Episcopatuum del Patriarcato Ecumenico (Notitia 7, 31: ὁ Κωνσταντείας del ca. 850
d. C., Notitia 9, 31 ὁ Κωνσταντίας del tardo decimo secolo d.C., Notitia 10, 31 ὁ
Κωνσταντίας del 1070-80) sia forme più neolatine. Queste sono Κουσέντη[ς] (Atti vari
editi da Zampelios, in particolare documento 7 p. 10324), spesso l’etnico Κουσεντῖνος
-ίνος, come in Cusa 2. 421 (atto del 1167: “καὶ ἠς τὸ ἐπικάτο μέρος οἱ παῖδες συμεών
τοῦ καττὴ καὶ ἠς τὸ δυσικὸν αὐτὸς ἀγοραστὴς καὶ λέων ὁ κουσεντίνος”25), Trinchera
1865: 25, 2 (atto del 1178, con grafia Κουσεντήνος), 102 (atto dell’1145 nella lista dei
nomi di servi della gleba “ιωάννης κουσεντίνος συν τῶν παίδων αυτοὺ”), negli Atti editi
in Ménager 1957 pp. 339-340 nella forma Κουσεγτίνος26.
Troviamo Κουσεντία (Cronaca siculo-saracena detta ‘di Cambridge’ del 987-
988 d.C.27, Atti di S. Giovanni Teriste del 1093, Guillou et al. p. 267 “εἰς τὸ λιβάδι τῆς
Μαγίδας ἀπερχομένου μου εἰς Κουσεντίαν”28), anche Κονσεντία nella Cronaca
Cassanese (verso il 980 d.C.)29, persino Κουσένσα (Atti di S. Elia e S. Anastasio di
Carbone, in Lucania, del 113130), tutte forme del periodo 900-1150 d.C. Altri esempi
non mancano. L’ultimo caso è esemplare, perché presenta non solo
l’affricativizzazione della sequenza -tj- come –tz- ma in questo caso anche la
neutralizzazione dell’opposizione tra ‘s’ e ‘tz’ in posizione dopo nasale. In altre parole,
il periodo 900-1100 è quello in cui non è possibile nel volgare distinguere tra –enz- e
–ens-, di diversa provenienza, cioè una neutralizzazione già in quest’epoca, ossia in un
periodo assai antico, rispetto alla convinzione che si trattasse di una neutralizzazione
tardo-medioevale o rinascimentale. Rispetto a Κουσέντη o Κουσέντης ritroviamo, nel
periodo 678-681 d.C., la forma maschile Κονσέντος ai tempi del Concilio di Papa
Agatone (Migne Patrologia Latina 87 col. 1231); nella versione greca, più autentica, si
fa riferimento al vescovo Giuliano della città, il quale sottoscrive
“Ἰουλιανὸς ἀνάξιος ἐπίσκοπος τῆς ἁγίας ἐκκλησίας Κονσέντου ἐν ταύτῃ τῇ
ἀναφορᾶ ἣν ὑπὲρ τῆς ἀποστολικῆς ἡμῶν πίστεως ὁμοθυμαδὸν συνετάξαμεν, …”.

24
Come nome personale, come se ‘Cosentino’ (di Cosenza), cioè “πλησιον του Λεου Αλβου καὶ Ούρσου
Κουσέντη” al genitivo.
25
Il testo è meno corretto in Spata 1864: 20, 39-41, vale a dire “καὶ ης το επηκάτο μέρος οἱ παίδες συε του
καττή. καὶ ης το δυσικὸν ὁ ἑμὸς αγοραστής. καὶ λέων ὁ κουσεντίνος”.
26
Righi 8-9 “ἀνατολὰς τὼ σενόρην [per συνόριον] τοῦ χοραφίου τοῦ Μαύρου τῆς Κουσεγτίνας”, righi 40-41
“καὶ ἀποπόδη δε ἐχ τὴν καιφαλὴν τοῦ σινορίου τοῦ χοραφίου τοῦ Μαύρου Κουσεγτινοῦ”, anno 1128.
27
Ed. Cozza-Luzzi p. 48, anno 987-988: “παρελέφθη ἡ κουσεντία”.
28
Vi è una versione filologicamente inadeguata del testo in Trinchera 1865: 74, vale a dire: “εἰς το λιυάδι τῆς
μαγιδας ἀπερχομένου μου· εἰς κουσεντιαν”.
29
Edizione Saletta p. 64 “καὶ ἐν τῷ ͵ςυςς΄ ἔτει παρελήφθη ἡ Κονσεντία” (nel 988 fu presa Cosenza).
30
Atto di sottomissione all’egumeno del monastero di Carbone (Orientalia Christiana XV n° 53, 271),
testimoniato inter alios da (rigo 35-36) “… λέων μενσινά· ραναλδ[όσ] τῆσ κουσένσ[ασ]”, ecc. (sic: sono Leone
di Messina e Rinaldo di Cosenza).
Verso il 600 l’epistolario di Papa Gregorio Magno ci renderà Co[n]sentiæ, forse traccia
dell’antico locativo. Nel 700 d.C. Paolo Diacono nomina la città come Consentia
(Storia dei Longobardi II. 1731), per cui si registra una certa variazione.
Andando sempre indietro nel tempo, troviamo verso il 760 d.C un vescovo
Aufridus Cosentias, cioè ὁ Κουσεντίας, una forma tardo-latina grecizzata e poi
rilatinizzata attaccata a un nome che sembra longobardo. Questo è il periodo di Stefano
Bizantino che ci fornisce tre versioni del toponimo cittadino nell’antichità. Il primo
riferimento è a Dionisio d’Alicarnasso nel ca. 150 d. C., (Κωσεντία, πόλις τῆς Βρεττίας,
ὡς Διονύσιος ἐννεακαιδεκάτῳ Ῥωμαϊκῆς ἀρχαιολογίας), poi a p. 370 cita una breve
affermazione geografica ch’egli dice d’esser di Ecateo, nel terzo secolo a.C., vale a
dire
“Κόσσα, πόλις Οἰνώτρων ἐν τῷ μεσογείῳ Ἑκαταῖος Εὐρώπῃ. οἱ πολῖται Κοσσανοί”.
A p. 403 (edizione Meineke), invece, si parla di una Constantia, -esistono due città con
questo nome- una in Calabria (Κωνστάντεια… ἔστι καὶ Βρεττίας ἄλλη). Il primo caso è
la citazione di Dionisio, che possiamo controllare, ed è corretta, il secondo una
citazione ecataica, di cui Stefano è l’unica fonte (tra il 300 e 200 a. C.), il terzo è il
nome dato alla città dai Bizantini della sua stessa epoca. Visto che Stefano è l’unica
fonte che abbiamo di Ecateo, è difficile dire quant’è accurata la citazione ecataica,
dobbiamo cioè solo fidarci. Comunque, una conferma arriva da due fonti latine, la
prima è nell’Eneide X. 168-170 di Virgilio (Cosa)
“Quique urbem liquere Cosas: quîs tela, sagittæ, /
Corytique leues humeris, et letifer arcus,/
Una torvus abas.”
Ma potrebbe essere anche una forma generica (Cōsa) e non specifica; è sufficiente in
questo caso notare una forma presente con una geodistribuzione pan-sabellica. La
seconda è nel De Bello Civili 3. 22 di Cesare32, in cui la città è Cosa, i cittadini Cosāni,
senza sapere la quantità della ‘o’ (a giudicare da Virgilio dovrebbe essere,
metricamente Cōsa). Queste forme coincidono in pratica con Κόσσα e i cittadini
Κοσσανοί (Stefano, con riferimento ad Ecateo). Se quanto ipotizzato è veritiero, e non

31
Per essere precisi: “Porro octava Lucania … cum Brittia, … in qua Pestus et Lainus, Cassianum et Consentia
Regiumque positæ civitates”. Comunque, vi è un minimo di confusione nel settimo-ottavo secolo d.C., perché
Paolo Diacono nominava Brittia e Brixia la Βρεττία/ terra Brutiorum, come se avesse letto la Brittia/ per
Brittios, note varianti della Notitia Dignitatum. Brixia, comunque, è definitivamente un errore da parte di
Paolo, perché indicante ‘Brescia’ all’altro estremo dell’Italia, evidente celtismo da associare a *BRIG-S-I-
‘collina; montagna’ (Matasović 2009: 77) < *BERG-S-.
32
Il testo trasmesso è “quibusdam solutis ergastulis, Cosam in agro Turino oppugnare cœpit”, che già nel Sei-
Settecento alcuni classicisti volevano emendare in “… Cosam in agro Hirpino”, ipotizzando che si trattasse di
Compsa in Irpinia. Comunque, non si sono chiesti come si poteva andare da quest’ultima città direttamente a
Thurium sullo Ionio calabrese, visto che segue la frase “et Cœlius profectus, ut dictitabat, ad Cæsarem,
pervenit Thurios”. Continueremo, dunque, a leggere “… Cosam in agro T[h]urino …”.
vi è motivo per supporre di no, allora tra 300 e 50 a.C. si ha una base CŌSA, come
nome della città. Le altre forme ci ridanno sempre il nome romano, o almeno
romanizzato, vale a dire Orosio (ca. 370 d.C.) Consentia, l’Anonimo Ravennate
(Itinerarium) Conscentia (con un strano nesso –sc-), Claudio Tolemeo (ca. 170 d.C.)
Κονσεντία, Solino Consentia, Appiano Κωνσεντία, Plinio Consentia, Pomponio Melo
Consentia, l’Itinerarium Antonini Pii, gli Itineraria della Peutingeriana Co[n]sentia,
tutti tra il 40 e il 200 d.C. Trovo del tutto inutile qualsiasi citazione della Geographia
di Strabone (libro 6), dopo la stroncatura di Musti che parla della ideologia politica
straboniana, della mancanza di una visione stricto sensu geografica ed etnologica,
storiograficamente corretta. Prima ancora Κωσεντία di Dionisio di Alicarnasso, senza
–n- rispetto alla forma varroniana Consentia/ in agro Consentino ma concordante con
la forma che ritroviamo nella Bolla o Tabellario di Polla (indicazioni della Via Popilia
costruita da Popillio Lenas nel 132 a.C.), cioè Cosentia. Come detto, Cesare e Virgilio,
con Cōsa, sono gli unici che concordano in gran parte (COS-) con il nome Κόσσα
attribuito da Stefano ad Ecateo. Siamo in questi ultimi casi vicini a quel fatidico 201
a.C., anno in cui avvenne la disfatta di Annibale da parte dei Romani e l’aggregazione
del Bruzio, compresa Cosenza, alle regioni romane. Sembra che si abbia a che fare con
il cambiamento di un toponimo cittadino (per assonanza), Cōsa in *Cōsētĭa, Cōsĕntĭa,
seriormente da Cōsĕntĭa in Cōnsĕntĭa, in cui –ĔNTĬA è tipica formante latina che
indicasse la colonizzazione, cioè la formazione di colonie romane, come in Piacenza,
Vicenza, Faenza (Fav-entia), Valenza, Fidenza, Firenze, Potenza, ecc., e in fondo
anche Vibo Valentia [Valenzia]. Nell’ultimo caso tornerei all’unica affermazione
sensata delle varie ipotesi di Pasquale Manfredi in quel lontano 1842-43, quando disse
“dal consenso che si prestò per il luogo della riedificazione”, tagliando la parte
conclusiva e lasciando “dal consenso che si prestò per il luogo”. L’unico consenso è
in natura, vale a dire nella congiunzione dei due fiumi, da sempre, anche se in antico
la confluenza andava situata più vicino a Piazza Riforma, che all’attuale confluenza,
forse ancora più vicino a Vadue di Carolei di allora. Rohlfs 1974, infatti, voleva
derivare il toponimo Cosenza (conosceva la forma veramente dialettale, Cusenze, ma
non rimarcava la conservazione dell’antico locativo) da consentia 'confluenza', mentre
il DT 21997 (articolo Cosenza firmato C. Marcato) voleva un derivato di consentire,
ergo 'concordia'. Forse si tratta, in fondo, come si proponeva in Di Vasto-Trumper
1998, di una paretimologia romana consentia/ consentiæ fluminum, suggerita da Rohlfs
e con chiara motivazione idrologica, per spiegare una forma bretica *Cōsētĭa, derivata
da Cōsa, o la stessa Cōsa, non intesa dai Romani o forse troppo bene intesa, dunque ri-
etimologizzata con il cambio dei padroni. Comunque, la paraetimologia romana non
spiegherà di certo il primo nome della città.
È come se i Romani, dopo il 201 d.C. volessero dire: hic est locus ubi consentiunt
flumina, mascherando il nome originale con un nome assonante che avesse una sua
logica, per far inghiottire ai Bruzi la pillola amara di una brutale occupazione. Che
fosse stata brutale e violenta è attestato sia dai cumuli di monete locali sepolte
frettolosamente ovunque all’arrivo dei Romani, sia dalla toponomastica prediale poi
presente lungo tutta la Via Popilia ed intorno. Esempi sono:
Marmagnano di Grisolia (*Marminius), Magliano di Verbicaro (Malius,
Schulze p. 424), Cassano (Cassius o Cos[s]ius, Schulze pp. 158, 423), Tricignano di
Buonvicino (non da *Tricinus in Rohlfs 31990: 350, meglio da Tersinius in Alessio
1939: 405, Schulze 98), Trigiano di Buonvicino (dialetto Triggianu, < Trebius, Schulze
246, 375, 468, 450, nome più osco che latino), Roggiano (Rubius, Schulze p. 424),
Fagnano (Fannius, Schulze pp. 266, 424), Spezzano (Spedius, Schulze p. 236 e non
Pettius, impossibile, data la forma /spe’ʣan/ dell’italo-albanese locale), Torano
(Thurius, Schulze p. 96, uomo di Thurium), Sartano di Torano (cfr. Rohlfs 31990: 306),
Spezzano e Spezzano Piccolo (Spetius < Spetinius, Schulze p. 236; o forse da Pettius?),
Corigliano (Corellius < osco Corel-, Schulze p. 441), il paese distrutto di Torilliano
presso Corigliano (Taurilius, variante di Taurinius, Schulze p. 527), Malvitani di
Cetraro, Ortiano di Longobucco (Ort[h]ius, Schulze 174, < ὄρθιος), Bisignano
(Besidius < Besidiæ, Schulze p. 561, oppure Bisinius, Schulze p. 133), Santriano di
Acri (o da Santra in Schulze pp. 342, 369, o da riferire a Satriano), Aprigliano (Aprilius,
Schulze p. 110), Mussano di Cosenza (Mussius, Schulze pp. 197, 424), Turzano di
Cosenza (ora Borgo Partenope: Turcius, Schulze p. 161), Persano di S. Lucido (Persius,
Schulze p. 134), Cerisano (*Ceresius), Dipignano (Depinius o Depidius, unico nome
problematico, in discussione), Tessano (Tessius, Schulze pp. 98, 162, 425), Laurignano
(Laurinius, Schulze pp. 182, 560), Rogliano (Rubellius, Schulze pp. 220, 443), Marano
Principato e Marano Marchesato (Marius o osco Marís, Marahis o Maras, Schulze pp.
189, 299, 306, 313, 360, 424), Arvisano di Montalto Uffugo (Albius, Schulze pp.119,
221), Campagnano tra Rende e Cosenza (Campanius, Schulze pp. 352, 525, 532),
Scigliano (Scilius piuttosto che Sillius, Schulze p. 31), Pedivigliano (probabilmente da
Pedul[l]ius, Schulze p. 256, ma incrociato con Pedilius, pp. 276, 365, 443), Pellizzano
di Belsito (Pellitius < Pellius, chulze p. 424), Carpanzano (Carpentius, un unicum, cioè
un centurione d’origine gallica, cimrico cerbyd, goidelico carpat), Marigliano di S.
Sisto (*Marilius < Marius), Cerignano (Cerennius, Schulze pp. 271, 441), Malvitano
all’interno da Rossano, Camigliano di Pietrapaola (Camillius, Schulze pp. 140, 441:
Rohlfs 31990: 41 ipotizzava Camel[l]ius, come in Schulze pp. 140, 441), Pugliano di
Amantea (Pullius, Schulze p. 424), Magugnano di Caccuri (Magonius, Schulze 153),
Dorzano sopra Catanzaro (per Alessio 1939: 116 deriva da Drusius, per Rohlfs 31990:
98-99 da Orcius33), Settingiano (Septimius, Schulze 375), Gimigliano (optiamo per la
soluzione rohlfsiana, < Gemellius [Schulze p. 441] piuttosto di quella di Alessio),
Maesano e Magisano nella Sila catanzarese (Rohlfs 31990: 169 *Magisius), Vrazzano
di Magisano (Braccius, Schulze p. 423), Ragazzano di Catanzaro (Alessio 1939: 147;
Veratius, Schulze 379), Gagliano di Catanzaro (dialetto Gagghjanu, < Gallius, Schulze
p. 424), Varano (Varius, Schulze p. 249), e così via. Sono 50 casi sicuri appurati lungo
la Via Popilia o nei dintorni (77% dei casi totali, ¾ ).

33
Drusius si trova in Schulze p. 423, Orcius a p. 364. La seconda ipotesi suppone un’origine De-Orcio: la
prefissazione di ‘di’ è fenomeno assai raro in Calabria (comune in Friuli e nei dialetti alpini, ma all’altra
estremità dell’Italia). In base a questa considerazione optiamo per la soluzione di Alessio, che suppone una
metatesi (prædium) Drusianum > *Dursianu, fenomeno comune tra i dialetti calabresi.
Relativamente pochi sono i casi sotto la Via Popilia, vale a dire:
Caggiano (Rohlfs proponeva Cadius), Capistrano (Alessio 1939: 74 ipotizzava
il prediale di un centurione d’origine greca, < Καρπιστής), Crozzano (Curtius con
metatesi, prædium Curtianum > *Crutianu; Schulze p. 78), Curzano (var. Cursano,
della stessa origine del prediale precedente), Firmano (Firmius, Schulze 167, 356),
Garigliano (Garillius, Schulze p. 451), Marignano (Marinius, Schulze 188, 360),
l’antico Mesiano (Mæsius, Schulze p. 193, 469), Pezzano/ Pazzano (qui andrebbe fatta
una decisione su Pettius o Patius), Petriano (Petreius, Schulze p. 134), Satriano
(Satrius, Schulze 80, 225), Sitizzano (dialetto Sitiźanu < Setidius, Schulze p. 231),
Soriano (Surius/ Syrius, Schulze p. 235), con Sorianello, Traviano (Taurius), 15 casi
(23% del totale)34. A volte l’aggettivo derivato in –anus –a –um sottintende villa e non
prædium come in villa Augustiana > Gusciana (altri casi sono: Laureana, Laurenzana,
Pavigliana, Mariana, Trizzana, Casignana, Agnana), pochi casi (8 con villa rispetto a
64 con prædium). Oppure i prediali sono un po’ più lontano come Rossano (Roscius,
Schulze p. 176). In mezzo vi è Trunguale, vecchio nome del centro storico di Rota
Greca, l’attuale Babilonia, dal drungarius (> *trungaru > trungale > trunguale, con
cambiamento di formante35), nome latino derivante dal capo del drungus, dunque capo
della truppa dei mercenari del Pronto Intervento. Lungo la via vi era Vicesimus
(Amendolara), Settimo, Quattro Miglia, le distanze in milia passuum militari dalla
Statio o caserma più vicina. I nomi si trovano, quasi tutti, nella Geschichte Lateinischer
Eigennamen di Wilhelm Schulze. Questa stessa pratica verrà impiegata dai Bizantini,
da bravi ‘Romani’, dopo il 690 d. C., con nomi di santi, categorie religiose (ad es.
ricorso continuo al Trinitarismo in funzione anti-ereticale, anti-islamica), caserme di
mercenari, tutti dell’Europa Orientale (per i mercenari cfr. Lungro < Ungari,
probabilmente si sottintendevano i Bulgari; Schiavonea; Santi Quaranta a Lamezia per
le truppe armene ecc.), tutti segni di occupazione militari e difesa. Lunghe e accurate
discussioni si possono trovare nei contributi di Poccetti, Givigliano e miei degli Atti
della Toponomastica Calabrese II (2000).
A conferma della forma Cōsa, consideriamo innanzitutto gli esempi delle famose
27 monete cosentine antiche conservate e divise in cinque gruppi: di ΚΟΣ, è il gruppo
A (2 a Berlino, una a Catanzaro, una a Londra, una a Napoli), che consiste di 5
esemplari. I gruppi B, C, D, E presentano la lettura ΚΩΣ. Il gruppo B presenta due
monete conservate in Grecia, una a Cirò, una a Cambridge, una a Copenhagen, tre a
Londra, cinque a Napoli, una proprietà di privato, per un totale di 15 monete. C ha un
esemplare conservato a Catanzaro, come uno di E conservato a New York. Del gruppo
D abbiamo cinque esemplari, uno a Catanzaro, uno a Copenhagen, uno a Londra, due
a Napoli. Non vi è motivo di supporre che non siano di Cosenza, come dice Talercio
34
Altri casi o non sono affatto prediali, quali Guarano e Zumpano, o un’origine multipla (origo singola
indeterminabile), quale Lappano. Altri casi quali Guarassano sono ancora sub iudice, perché Garūtĭānus
(Schulze pp. 241, 279) > prædium Garutianum richiederebbe un esito *G(u)arazzanu e non Guarassano.
35
In molti dialetti della Valle del Crati esiste ancora il lemma trung[u]ale, ora col significato ‘gradassone;
spaccone’.
Mensitieri (Problemi Monetari del 1993): “allo stato attuale l’attribuzione a Cosenza
delle monete in questione è sostenibile” (con motivazione). Senza indicazione della
località del ritrovamento ma solo del luogo dove sono custodite, e senza che si sappia
ove si trovava una probabile zecca ‘cosentina’, alcuni problemi rimangono. Partendo
dalle indicazioni di numismatici quali Talercio Mensitieri, sappiamo che i gruppi A e
D (10 monete) sono databili tra il Quarto e il Terzo Secolo a.C., B, C, E (17 monete)
tra il Terzo e il Secondo, tutte prima della disfatta di Annibale e dei Bruzi e prima
dell’occupazione romana, tutte attribuibili ad una zecca locale. Cinque di queste
monete si trovano al British Museum, 8 a Napoli, 14 altrove. Come s’è detto, dobbiamo
partire da una forma sabellica *CŌS[-Ā], visto che più dell’80% degli esemplari
presentano la lettura ΚΩΣ (22/ 27: 81. 5%). Ritrovamenti con l’etnico ΚΩΣΑΝ sono
databili al Quarto-Terzo Secolo AC. L’etnico usato come cognomen lo si ritrova
nell’iscrizione forse più recente databile alla fine del IV secolo a. C. (Lazzarini 2009),
una delle defixiones scoperte e salvate dagli studiosi a Strongoli, disposta in quattro
colonne. La terza colonna (in quattro righe successive) legge (Lazzarini 2009: 427):
Α[ΦΕΣΑΥΔΑΙΣ // ΝΟ[ΙΩΑΛΑΦΙΩ
ΜΙΝΑΚΟΣΚΑΦΙΡΙΩ // ΒΑΝΤΙΝΩΚΩΣΣΑΝΩ.
Questa colonna rappresenta parte della lista o degli uomini sepolti o degli
offerenti. A parte il primo nome (Α[ΦΕΣ) non conosciuto in altre iscrizioni abbiamo
una serie di cognomina equivalenti romani, il secondo corrisponde al latino Audeius,
il terzo a Νόυιος noti dai bolli su laterizio a Petelia (latino Novius), il quarto è l’osco
Alafis (= Albius)36. Il quinto è Μίναξ, noto da iscrizioni, il sesto l’equivalente di un
romano Cafrius, il settimo un Bantins (= Bantius, uomo di Bantia), l’ottavo, quello più
interessante, è un etnico come Bantins usato come cognomen, un Cōssans al genitivo,
uomo di Cōs[s]a. Siamo di nuovo, con forse la testimonianza più antica, l’etnico
Cōs[s]ānus. Quest’ultima forma trova conferma nella Κοσσανοί di Ecateo e in quella
di Cosani di Cesare (De Bello Civili).
La prima a suggerire che ΚΩΣ e Cōsa di Cesare si riferissero alla Cosenza dei
Brezi è stata probabilmente Zancani Montuoro 1976; è stata ripresa l’ipotesi da un
glottologo, Paolo Poccetti, nell’articolo del 2001, p. 170:
“merita ricordare la possibilità del rapporto tra la Κόσσα enotria, le leggende
monetali ΚΟΣ/ ΚΩΣ di IV secolo, la testimonianza cesariana di una Cosa in
agro Thurino e il nome romano di Co(n)sentia, μετρόπολις τῶν Βρεττίων, …”.
Poccetti è ben conscio della correzione del passo cesariano da parte di molti editori,
ma perché emendare in base a considerazioni aprioristiche non legate al testo? Come
asserisce il collega, sono in genere più produttivi i toponimi d’origine fitonimica quali
36
L’anaptissi osservata in Alafis (= Alfius = Albius), Cafiris (= Cafrius) è del tutto regolare nell’osco. È ben
nota anche nei dialetti calabresi odierni, ad es. ex-cal[e]facĕre > scarfare [skarǝ’farǝ] ‘scaldare’, alba (f. di
albus) > all’arva ‘prima muta del baco da seta’ [al:‘arǝva], hĕrba > erva [‘erǝva] ecc. Più rara è l’anaptissi nei
casi di -fr- o –vr-. Il principio fonetico è quello di evitare nessi consonantici con le continue labiali ‘f’ o ‘v’.
Artemision, Ixias, o Δρῦς37, Πύξις38, o quelli derivati da fluviali quali Σιβερίνη (<
Σύβαρις, torrente della Grecia e della Calabria, < συβαρός, allotropo di σοβερός
‘impetuoso; violento’ [Trumper 2016: 181-182]), ma ciò non esclude che si possano
usare tali dati, se confortati dalla loro presenza in più autori o iscrizioni. Dare,
comunque, troppo peso all’uso del repertorio toponomastico risulta procedimento
pericoloso, come asserisce lo stesso Poccetti (p. 171), si corre il rischio di creare “meri
fantasmi … non esenti da pregiudizi ideologici”39. Si cercano sostrati preistorici che
non hanno alcuna base linguistica, seguendo la scia di inesistenti sillabe che non hanno
né definizione né coerenza, e poi questa affannata ricerca prescientifica si chiama
‘metodo’. Hewitt 2007: 253 ammoniva sull’abuso di categorie quali strato, sostrato
ecc., in termini assai forti, e sull’uso/ abuso di tratti anindoeuropei in lingue
indoeuropee con una lunga storia millenaria:
“Authors who are inclined towards a substratal explanation for shared features
appear at times to be a prey to a kind of ‘substrate frenzy’ as if prehistoric
contact can be the only possible explanation for ‘un-Indo-European’ traits in an
Indo-European language”.
Per tornare al nostro toponimo urbano, si parte da una forma sabellica dei Brezi,
CŌS[-Ā]/ ΚΩΣΑ, sapendo che l’osco dei Brezi in genere (tra il 600 e il 400 A.C.)
conserva come esito dell’Anatolico-Indoeuropeo –OU-/ -EU- un dittongo che, di solito,
nelle iscrizioni brettiche e lucane viene reso come ΩϜ, mentre in umbro è già
monottongato come la vocale lunga –Ō– (roufus acc. pl. > rōfu, touta > tōta ecc.). Il
latino lo innalza a –Ū–. Lo schema 2 indica la deriva sabellica.
SCHEMA 2.
Vocali Lunghe (Italiche)
+ Dittonghi
Ī Ū Ī Ū
Ē EI OU Ō > EI OU
AI Ā AU AI Ā AU.

37
La sua presenza ab antiquo ci aiuta a ricostruire un sabellico *DRU- ‘quercia’ e/ o ‘legno’ generico per
spiegare il nome del fiume Trionto (Trumper 2016: 155). La ripresa di δρῦς-δρυών (querceto) nel periodo
bizantino (cfr. δρυίνα nel Brebion di Reggio rr. 101-102 [ἔχει (καὶ) ἀμπ(έλιον) (καὶ) ὄρος πολὺν (καὶ) δρυΐνα
…], δρυετόν a r. 155 [ἔχ(ει) (καὶ) ἀμπ(έλια) (καὶ) χωρά(φια) (καὶ) δρυετά …] spiegherà il toponimo Drione
dell’Aspromonte, esito in cui si accetta il nesso dr- bizantino, perché non opera più, dopo il 700 d.C., la regola
italica dr- > tr-.
38
La sua presenza (< πύξος) è l’ovvia base del potamonimo Busento (cfr. il prestito greco in latino, buxus).
39
La colpa della creazione dei fantasmi della sostratistica è in genere attribuita a Krahe (vedi bibliografia).
Anche Poccetti op. cit. biasima Krahe per gli eccessi del ‘sostrato mediterraneo’.
Ē ed Ō sono state innalzate a Ī ed Ū rispettivamente, diversamente dalla situazione che
si conosce bene nell’antico latino, in cui i dittonghi EI e OU, invece, sono stati innalzati
ad Ī ed Ū rispettivamente. Nei testi sabellici più antichi per OU abbiamo dunque ÚV
nel cosiddetto alfabeto ‘nazionale’ capuano (LÚVKEI ‘nella radura sacra’; LÚVKIS
Lucius, il nome, TÚVTO ‘popolo’, TÚVTIKS ‘pubblico’, NÚVLANUS ‘di Nola’),
ma nell’alfabeto dorico, usato dai Brezi, abbiamo ΩϜ, perciò ΛΩϜΚΕΙ, ΛΩϜΚΙΣ,
ΤΩϜΤΟΥ, ΝΩϜΛΑΝΟΥΣ. L’umbro per primo riempie i vuoti del sistema, portando
OU non a Ū come in latino, ma a un nuovo fonema Ō, cioè locei, locis, tota, totco ecc.
(forme rilevabili nelle Tavole di Gubbio). Il dittongo EI > Ē doveva seguire la stessa
trafila, per riequilibrare il sottosistema vocalico. Riportando queste osservazioni
linguistiche al problema di CŌS-, va rimarcato che, forse, si è di fronte a un nuovo
livellamento di –OU–, perché –Ō– si era già innalzato a –Ū–. Se questo è il caso, allora
dobbiamo cercare una forma base italica *KOUH- o *KO[U](H)-WO-.
Dovremmo, di conseguenza, rifarci a una forma di Pokorny 1959 (il Dizionario
Etimologico dell’Indoeuropeo) IEW 1. 951-953 *[S]KEU(H)-/ *[S]KOU(H)- ‘coprire;
ornare; coperto, copertura; ‘coprire’ > ‘oscurare, scuro’, come *[S]KEUH- discusso in
Mallory-Adams 1997: 268, 507, 552, Watkins 22000: 78-79. Il derivato *(S)KOUH-
WO- ci dà il latino obscūrus, sanscrito skunāti, ma anche –più rilevante- il greco κῶας,
probabilmente anche il greco κóος ‘cavità nella terra’ (vedi sotto). Dà esiti armeni,
celtici, germanici ecc. Uno sviluppo di questa base come *KOW-SO- ci dà voci per
‘cavità corporee’ (gr. κυσός40, pers. kus ‘sesso femminile’), nonché in ittita la dote
come ‘prezzo della sposa’ KUŠATA, ma anche, probabilmente, il germanico hūs >
Haus, house. Con ulteriore adattamento come *KOW-S-DO-, *KOW-S-DRO-,
*KOW-S-NO- abbiamo dal primo il sanscrito kóṣṭham, (1) ‘bocca di un sacco’, (2)
‘magazzino’, pahlavi kust > persiano kušt ‘sesso femminile’, greco κύσθος id., esiti
celtici, generalmente dimenticati, come dal primo il cimrico cwd ‘sacchetto’, 2.
‘scroto’, dal secondo il cimrico cwthr ‘sesso femminile’, il bretone *couzr > kourz id.
(cimrico ar gwthr = ar agor ‘spalancato’, bretone i c’hourz ‘incinta’)41, dal terzo il
latino cŭnnus, dialetti persiani e il pashtú kūn ‘cavità corporea’, ‘sesso femminile’. Ci
troviamo in un campo semantico che va da ‘coprire, copertura’ e ‘nascondere’ a ‘casa,
abitazione’, da ‘cavità coperta’ a ‘grotta’, dal ‘coperto’ all’oscurato, allo scuro,
dall’insieme di questi significati a ‘cavità corporea’, ‘sesso femminile’, ma anche a
‘sacco’, e da lì a ‘scroto’. Il tutto può essere studiato in Pokorny 1959: 1. 951-953, in

40
Soltanto nel Glossario di Esichio K4738 “κυσός· ἡ πυγή· ἢ γυναικεῖον αἰδοῖον”.
41
Si dimenticano del tutto esiti greci di *(S)KEU-D- (con vocalismo pieno) quali il greco κεύθω ‘nascondere’
(> κεύθμος 1. ‘nascondiglio’, 2. ‘caverna; grotta’) o latini quali cūdō ‘elmo’ (copertura della testa e della
faccia), ma anche, dimenticanza forse sistematica, esiti celtici quali il cimrico cuddiaf, cornico cuthe, bretone
cuzaff ‘nascondere’ (Ernault 21895: 139 cuz: Stokes & Bezzenberger 1894: 89 *(S)KOU-DO-). È del tutto
probabile che il medio cimrico (> moderno) cwch 1. ‘arnia, alveare’ (copertura), 2 ‘barca’ (in base alla forma,
come un’arnia girata sottosopra), antico bretone cuh (Fleuriot 1964, > moderno kouc’h) id., siano da riportare
a *(S)KU-K‘-SO- o *(S)KU-S-K‘O- (con vocalismo zero).
Gamkrelidze & Ivanov 1995: 1. 645, 660, Mallory e Adams 1997: 134, 268 e 507,
Watkins 22000: 78-79. Ogni gruppo linguistico può essere riveduto nella manualistica
attinente a quelle lingue. L’estensione geolinguistica comprende i complessi baltico,
celtico, germanico, italico, greco, armeno, anatolico, indo-iranico e tocarico42: si
potrebbe concludere che gli esiti sono pan-anatolico-indoeuropei. Ciò implica che la
base (ampliata in -S-, -D-, -T-, -NO-, ulteriormente in –S-NO-, -S-DO-, -S-DRO-) sia
del nucleo proto-anatolico-indoeuropeo. In conclusione una forma sabellica CŌS-Ā
può essere tranquillamente confrontata con il greco κῶας, già omerico, e κóος43, il
persiano KUS, l’ittita KUŠATA, e il germanico Haus, house. È da decidere a questo
punto se Cōsa è solo ‘abitato’ o un riferimento a ‘grotte’, cioè abitato scavato nel tufo
(l’esempio vivente è Matera). Chiudiamo qui il cerchio.

42
Sembrano mancare all’appello solo lo slavo e l’albanoide.
43
Soltanto in Esichio K3546 (al pl.) “κόοι· τὰ χάσματα τῆς γῆς, καὶ τὰ κοιλώματα”. Si tratta di ‘grotte’ o
‘caverne’ (buchi in terra).
CARTA DELLE DIVISIONI DIALETTALI PRE-OTTOCENTESCHE DELLA
CALABRIA.

RIFERIMENTI ESPLICITI ED IMPLICITI.


Per classici greci o latini non inclusi qui sotto eventuali citazioni sono prese dalle
edizioni LOEB.
AA. VV. Crotone e la sua storia tra IV e III secolo a.C. Napoli, Loffredo 1993.
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