Principato Ecclesiastico
Principato Ecclesiastico
Principato Ecclesiastico
2002
00-Sommario Ministero 1000 13-09-2002 12:51 Pagina 3
SOMMARIO
INDICI 439
– dei nomi 441
– delle fonti manoscritte 461
– delle tavole 463
PREMESSA
8 MASSIMO MIGLIO
PREMESSA 9
10 MASSIMO MIGLIO
MASSIMO MIGLIO
Presidente Comitato Nazionale
Alessandro VI
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INTRODUZIONE
12 FRANCESCO TATEO
INTRODUZIONE 13
14 FRANCESCO TATEO
INTRODUZIONE 15
talia come quelli della tirannide borgiana e della conquista straniera», si di-
ce nella dedica. Ma l’autore, pur così impegnato sul versante della protesta
laica, sceglie con grande onestà di storico le sue fonti sottraendosi già com-
pletamente alle tentazioni moralistiche della denigrazione e della riabilita-
zione, che questi incontri di studio hanno inteso sin dall’inizio escludere. E
se ad un’autorità come quella di Gian Battista Picotti è parso che Gabriele
Pepe abbia «giudicato severamente, ma non spassionatamente» la politica
dei Borgia, ciò dipende dal taglio interpretativo e non erudito e analitico del
libro, dove certamente non si rinuncia alla condanna formulata da Guic-
ciardini, ma se ne condivide soprattutto la serietà storiografica, e dove il
fondamentale uso del metodo di Machiavelli preserva lo storico da giudizi
che non siano di ordine politico, come si vede soprattutto nella conclusio-
ne sui limiti ‘distruttivi’, ma in questo senso ‘positivi’, dell’opera di Cesa-
re. E, tuttavia, non di questa interpretazione che spetta agli storici intende-
vo parlare, ma solo di come il problema umanistico del Principato e dei suoi
rapporti con la cultura classica abbia trovato un momento critico nell’età di
Alessandro VI, tale da coinvolgere la riflessione politica e civile in una fa-
se recente e scottante della nostra storia. Aspetto collaterale e speculare ri-
spetto a quello dell’immagine storica dei Borgia, che ho cercato di illustra-
re nell’incontro di Valenza additando in un elogio offerto al Papa per la sua
elezione, il carme bucolico di Galeotto Del Carretto edito dal Renier nel
1885, gli elementi in altro senso polemici che attribuivano ad Alessandro il
provvidenziale ritorno dell’antica Spagna romanizzata nell’Italia decrepita
e corrotta.
***
16 FRANCESCO TATEO
sugli itinerari crociati che riguardano il Gargano hanno messo in luce una
situazione diversa del passato. Gli è che ad un certo punto la tematica del-
la tirannide, sottesa alla tradizione borgiana, mi ha fatto pensare – con l’aiu-
to della Civiltà del Rinascimento in Italia di Jacob Burckhardt – al senso
che l’immagine di san Michele che uccide il drago o sconfigge il demonio
possa aver avuto nel contesto rinascimentale, in anni di ascesa e di caduta
di tiranni, di congiure e di repressioni, specialmente nelle mani di Raffael-
lo, che giovanissimo assisteva alle vicissitudini dell’Umbria, delle Marche
e della Romagna, e svolgeva forse già nel 1500 il tema, accanto a quello a-
nalogo di san Giorgio, in una tavoletta dove emergono tratti fiamminghi al-
la Bosch, ma dove già il truce mondo demoniaco contrasta con il volto se-
reno ed umano dell’eroe divino armato e vittorioso. Quell’atteggiamento
stesso del volto viene richiamato nei tratti della più tarda e più nota rappre-
sentazione raffaellesca dell’Arcangelo che combatte col diavolo, questa
volta non un mostro ma una figura umana con le ali di Satana, e che Vasa-
ri interpreta con una chiara allusione etico-politica quando vede da una par-
te «Lucifero, incotto ed arso nelle membra con incarnazione di diverse tin-
te» rappresentare «tutte le sorti della collera, che la superbia invelenita e
gonfia adopera contra chi opprime la grandezza di chi è privo di regno do-
ve sia pace», ossia la superbia diabolica che sostiene la tirannide e combat-
te i difensori della libertà e della pace; dall’altra san Michele «che, ancora
che e’ sia fatto con aria celeste, accompagnato dalle armi di ferro e di oro,
ha nondimeno bravura e forza e terrore, avendo già fatto cader Lucifero».
Questa immagine, commissionata da Lorenzo duca di Urbino nel 1518 e in-
viata al re di Francia, poteva alludere, nelle intenzioni del committente e del
destinatario, a situazioni diverse da quelle dei primi anni del secolo, ma è,
certamente, una raffigurazione della lotta contro i tiranni, dove il volto an-
gelico, evidente nello studio preparatorio, e la mano armata richiamano in-
negabilmente la ben nota ideologia delle armi al servizio della pace, ossia
delle arti. Ma il primo san Michele, dipinto da Raffaello negli anni del suo
apprendistato, quando viveva tra Perugia e Città di Castello, appunto nel
1500 o giù di lì, non può essere estraneo a famose vicende proprio di que-
gli anni: il duca Valentino era stato costretto a ritirarsi dall’assedio di Faen-
za per opera di Astorre Baglioni, e l’evento fu salutato in Italia con ricordi
petrarcheschi (l’eroismo latino contro la barbarie); allo stesso tempo Cesa-
re Borgia trionfava sui tirannelli della Romagna. La vittoria di san Michele
si riferiva in quella prima esperienza pittorica ad un evento o ad un’aspira-
zione? Alla sconfitta di Cesare o alla sua vittoria? Un inquietante dilemma
per l’immagine stessa del grande artista. E si riferiva a Cesare o ad Ales-
sandro? Erano troppo ingombranti entrambi perché non se ne dovesse ri-
cordare chi rappresentava una lotta mitica di così alto profilo (non voglio
rammentare a questo proposito, per non fare identificazioni rischiose, le pa-
role di Guicciardini che parlando della morte di Alessandro raccontava la
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INTRODUZIONE 17
pubblica gioia di vedere «spento questo serpente che […] aveva attossicato
tutto il mondo»).
Lascio ovviamente agli storici dell’arte ogni problema di identificazio-
ne. A noi preme invece che in questa occasione, visitando il luogo sacro del
Gargano, legato ad un corredo di ricordi altomedievali, di testimonianze
folkloriche e iconografiche di carattere demologico, possiamo arricchire la
simbologia dell’Arcangelo di un livello classico che sembra essergli estra-
neo e prolungarne la vitalità, con un ricordo rinascimentale e con una sim-
bologia molto significativa per lo sviluppo della cultura moderna.
FRANCESCO TATEO
Preside della Facoltà di Lettere
dell’Università degli Studi di Bari
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Nel 1492 Michele Ferno doveva avere circa 25 anni. Facendo la spola fra
Roma e Milano, dove svolgeva la professione notarile, Ferno aveva stretto
rapporti con personaggi di altissimo rilievo; ne è testimonianza la fitta corri-
spondenza con Iacopo Antiquari, che lo incoraggerà nella edizione delle ope-
re di Giovanni Antonio Campano (1495), e la lettera del 13 febbraio 1494 a
Giorgio Merula intorno alla scoperta dei codici della biblioteca di Bobbio, al-
la forte impressione che la notizia aveva provocato fra gli umanisti romani del
circolo di Pomponio Leto che, a suo dire, lo avrebbero assediato di domande
«quod vidisse atque legisse ea me intelligant». Nell’ambiente romano Ferno
era entrato in contatto con Raffaele Maffei, con Iacopo Gherardi, con Paolo
Cortesi, nomi che emergono dai suoi scritti come conoscenze non occasiona-
li, e a Pomponio Leto il Ferno si indirizzerà più volte nella sua opera di edi-
tore, tessendone poi un vibrante elogio funebre contenuto in un lettera al-
l’Antiquari1. Sebbene non si abbiano notizie certe intorno all’attività svolta
1 Per notizie sull’attività del Ferno: M. CERESA, Ferno Michele, in DBI, 45, Ro-
ma 1996, pp. 359-361; la firma «Michael de Ferno» si legge in uno dei registri di pre-
stito della Biblioteca Vaticana (Vat. lat. 3966, f. 59v), per la ricevuta di un codice (Vat.
lat. 2048) con la biografia di Braccio da Montone scritta dal Campano: M. BERTÒLA,
I due primi registri di prestito della Biblioteca Apostolica Vaticana. Codici Vaticani la-
tini 3964, 3966 (Indice degli autografi a cura di A. CAMPANA), Città del Vaticano 1942,
p. 103; lo scambio epistolare fra il Ferno e Iacopo Antiquari, ancora non sufficiente-
mente esplorato, emerge dalle lettere inserite dal Ferno nelle edizioni a stampa da lui
curate e dai documenti pubblicati da G.B. VERMIGLIOLI, Memorie di Jacopo Antiquari
e degli studi di amena letteratura esercitati in Perugia nel secolo decimoquinto, Peru-
gia 1813, pp. 85, 89, 225; la lettera al Merula, conservata fra gli autografi del filologo
nell’Archivio di Stato di Milano, si legge in F. GABOTTO-A. BADINI CONFALONIERI, Vi-
ta di Giorgio Merula, «Rivista di Storia, Arte, Archeologia della provincia di Alessan-
dria», 3 (1894), p. 66 e nota 1; cfr. G. MERCATI, Prolegomena de fatis bibliothecae mo-
nasterii S. Columbani Bobiensis et de codice ipso Vat. lat. 5757, in M. TULLII CICERO-
NIS De re publica libri e codice rescripto Vat. lat. 5757 phototypice expressi, Città del
Vaticano 1934, pp. 77 e 86; per l’encomio del Leto cfr. il testo in G.D. MANSI, Adden-
da, in J.A. FABRICIUS, Bibliotheca Latina mediae et infimae aetatis, a cura di G.C. GAL-
LETTO, III, Firenze 1858, pp. 629-632. Osservazioni sul lavoro editoriale del Ferno in
A. GRAFTON, Correctores corruptores? Notes on the Social History of Editing, in Edi-
ting Texts. Texte edieren, edited by G.W. MOST, Göttingen 1998, pp. 58-59.
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teca Universitaria di Genova (sec. XVII) che alle cc. 238r-431v reca un resoconto e
documenti riguardanti l’elezione pontificia del 1484 con il titolo: «De morte Xisti
quarti et cerimonia eius funeris nec non Conclave Innocentii papae ottavi cum per-
fecta et exactissima ceraemoniarum eius coronationis descriptione, auctore Michae-
le Ferno Mediolanensi Sacri Palatii Apostolici ac Pontificum primario ceraemonia-
rum Magistro [sic]». Si tratta, infatti, di pagine estratte dal Liber notarum del Bur-
cardo. Cfr. JOHANNIS BURCHARDI Diarium sive rerum urbanarum commentarii
(1483-1506), a cura di L. THUASNE, I, Paris 1883-1885, pp. 9-109; Liber notarum di
Giovanni Burcardo, a cura di E. CELANI, RIS2, 32/1, (1907), pp. 13-84.
3 Cfr. infra n. 8.
4 Bibl. Ap. Vat., Barb. lat. 2639, ff. 1r-7r (sec. XVII); Urb. lat. 844, ff. 11r-24v
(sec. XVII); Vat. lat. 8656, ff. 1r-15v (sec. XVI); Vat. lat. 14203, ff. 175r-188v (sec. X-
VII); Vat. lat. 8407 ( sec. XVII), ff. 64r-77r (solo traduzione italiana). Altre copie sono
contenute nei manoscritti: Bergamo, Bibl. Civ. Angelo Mai, MA 502 (sec. XVI); Na-
poli, Bibl. Naz., IX B 7 (sec. XVI), XII C 11 (sec. XVII); Zaragoza, Bibl. del Semina-
rio sacerdotal de San Carlos, A. 4. 24 (sec. XVI); Roma, Bibl. Naz., Vitt. Em. 1024, ff.
261r-275r (sec. XVII): questo manoscritto reca il titolo, reso quasi illegibile dalla ero-
sione subita dalla carta, di De legationum Italicarum ad divum Alexandrum VI adventu
epistola ad Jacobum Antiquarium | Epitome. L’individuazione dei codici è frutto della
ricerca effettuata nel CD-ROM (Leiden 1995) contenente i volumi curati da P.O. KRI-
STELLER, Iter Italicum. A Finding List of Uncatalogued or Incompletely Catalogued Hu-
manistic Manuscripts of the Renaissance in Italian and Other Libraries, I-II, London-
Leiden 1963-1967; Iter Italicum. Accedunt alia itinera, III-VI, London-Leiden 1983-
1991.
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ma: segnalo, ad esempio, un refuso tipografico presente nel testo incunabulo del-
l’Epistola che si ripresenta nei manoscritti del Conclave: «Claustimi [per claustri]
ad ianuam principum residentes excubabant oratores» (FERNUS, Epistola, c. 15r).
7 Segnalo che il codice vaticano Barb. lat. 2639 presenta un testo più breve che
indirizzata dal Morro, «decretorum doctor», che fa da premessa alla edizione (cc.
2r-3v). Da essa si apprende che nel 1493 il Ferno era avvocato delle cause della Ro-
ta e già autore di un repertorio, l’Universae Curiae compendium, a noi non perve-
nuto; a questa professione il Ferno doveva affiancare spiccati e versatili interessi let-
terari: un Centifacetii opusculum è ricordato ancora dall’amico Giovanni Morro per
lo stile garbato e piacevole, «blande, ornate, dulciter omnia concinnaveris», con il
quale il riso e lo scherzo s’accompagnavano ad argomenti seri.
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tui, quibus, tuo beneficio, qui non perinde rerum urbanarum sunt gnari, imaginem
quandam ab obitu Innocentii compendioso ferme diario ad has usque legationes an-
te oculos habere videantur» (FERNUS, Epistola, c. 7r).
11 Ibid., c. 57v (lettera dell’Antiquari al Ferno datata nella stampa 22 maggio
1493; la risposta del Ferno è in data 23 maggio: le date in calce servivano, verosi-
milmente, alla veste editoriale come indicazione cronologica del testo a stampa).
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mento tanto significativo quanto reiterato nella storia di Roma del passag-
gio dei poteri alla morte del pontefice si condensa in una pagina di tono sal-
lustiano. Sotto il segno della inesorabile «rerum mutatio», la fortuna è ar-
bitra dei destini personali e non trovano posto sentimenti di pietas; con la
sede vacante la città è preda dei saccheggi ed incombe la minaccia di una
guerra civile:
Quis adeo fertili lingua, uberi ingenio huius diei gaudia, luctus
mixtumque cum fortitudine metum recensere poterit? Hi spe me-
lioris fortunae rerum mutatione maxime laeti erant; hos florentis
status praeceps ruina torquebat, atqui opulenti in urbe ferrentur
desudata opum foelicitate in apertam necem rapi formidabant et
quaelibet aura levis furentis Aquilonis instar erat; quosdam vero
tractandi Mavortis insana cupido inquietabat saevosque illi fac-
tiosa manu gladiatores cogebant, in res omnes novas accuebant
civilique rabie omni urbe pervagabantur. Laxa fluxaque in perni-
ciem omnia erant12.
Chi ricercasse nella porzione testuale dedicata agli eventi che precedo-
no il conclave qualche notizia esplicita sulle trattative diplomatiche o sul-
l’effettivo svolgimento degli scrutini rimarrebbe deluso13. Il filo della espo-
sizione sgrana momenti decisivi e figure paradigmatiche. La scelta cade, si-
gnificativamente, sugli artefici della elezione e poi sui più stretti collabora-
tori del neoeletto pontefice. A Gonsalvo de Heredia, il vescovo di Tarrago-
na che, seguendo le parole del Ferno, era stato accorto mediatore, dopo la
congiura dei baroni, della pace fra Innocenzo VIII e Ferdinando di Napoli,
viene affidata subito la milizia palatina con il compito di mantenere l’ordi-
ne pubblico durante il conclave e a malincuore, novello Scipione, accetterà,
una volta eletto il Borgia, la delicata carica di Gubernator Urbis14. Il po-
tente ambasciatore e vescovo spagnolo Bernardino Lopez de Carvajal pro-
nuncia il 6 agosto 1492, ad apertura del conclave e con la città praticamen-
te in stato d’assedio, l’orazione «de eligendo pontifice»; alle armi dell’elo-
ragona dal 1490 al 1511 (C. EUBEL, Hierarchia Catholica Medii Aevi, II, Monaste-
rii 19132, p. 273); per le vicende della pace con il re di Napoli: P. FEDELE, La pace
del 1486 tra Ferdinando d’Aragona e Innocenzo VIII, «Archivio storico per le pro-
vince napoletane», 30 (1905), pp. 481-503.
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quenza, come usano fare i comandanti nei discorsi rivolti agli eserciti, è af-
fidato il mandato di una vittoria che questa volta faccia prevalere sulle armi
della guerra le armi della parola, «ut tanquam verba, ferventis orationis tor-
rens, gladios accuerent, animos suppeterent, corpus denique quasi obarma-
rent»15. Lo sfoggio epidittico messo in mostra dal Ferno anticipa, nel co-
stante uso del lessico e dei modelli eroici antichi, la superiorità dei nova
tempora, mentre si rende pure esplicita una delle chiavi di volta della rico-
struzione storiografica; è il Carvajal con il suo discorso («quid elegantius,
quid ruditius dici potuit? quid gravius, sonantius, antiquius») il primo so-
stenitore della elezione borgiana, poiché i padri avrebbero trovato in questo
eccellente esempio di orazione deliberativa il suggerimento valido per la
scelta migliore:
15 FERNUS, Epistola, cc. 10v-11r. Per il Carvajal, prima vescovo di Badajoz e dal
27 marzo 1493 trasferito alla diocesi di Carthagena, cfr. H. ROSSBOCH, Das Leben
und die politish-kirchliche Wirksamkeit des B. L. de Carvajal, Breslau 1982; cfr. an-
che la ‘voce’ di G. FRAGNITO, in DBI, 21, Roma 1978, pp. 28-34.
16 FERNUS, Epistola, c. 12r.
17 PAULI CORTESII De cardinalatu, in Castro Cortesio 1510, cc. 8r, 56r, 58r,
69v. Su questo personaggio emergente dalle pagine del Cortesi che a lui si rivolse,
tra l’altro, per ricevere consiglio sulla scelta del dedicatario dell’opera, cfr. K. WEIL
GARRIS-J. F. D’AMICO, The Renaissance Cardinal’s Ideal Palace. A Chapter from
Cortesi’s De Cardinalatu, in Studies in Italian Art and Architecture 15th through
18th Centuries, edited by H. A. MILLON, Roma 1980, pp. 45-123; la lettera di ri-
sposta del Sanseverino al Cortesi in data 25 gennaio 1508, dalla quale apprendia-
mo la notizia riferita, si può leggere in P. CORTESI, De hominibus doctis dialogus,
testo, traduzione e commento a cura di M.T. GRAZIOSI, Roma 1973, pp. XII-XIII.
Per le motivazioni dell’opera cortesiana ricondotte alla società curiale di fine Quat-
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Alessandro VI , in Roma di fronte all’Europa al tempo di Alessandro VI, (Atti del Con-
vegno, Città del Vaticano-Roma, 1-4 dicembre 1999), a cura di M. CHIABÒ-S. MAD-
DALO- M. MIGLIO-A.M. OLIVA, Roma 2001, pp. 441-467; sulle orazioni di obbedien-
za, cfr. in questo volume F. MARTIGNONE, Le ‘orazioni di obbedienza’ ad Alessandro
VI: immagine e propaganda. Per un quadro delle orazioni coram pontifice in occasio-
ne di festività religiose, fra le quali anche una del Ferno per la festa di s. Giovanni E-
vangelista del 1495 – stampata dal Silber (GW 9803) e ricordata dal Burchard per
l’eccesso di adulazione – cfr. il sempre valido volume di J.W. O’MALLEY, Praise and
Blame in Renaissance Rome. Rhetoric, Doctrine and Reform in the Sacred Orators of
the Papal Court, c. 1450-1521, Durham 1979.
26 H 13295; IGI 8030; ISTC ip 00940000; IERS 1396. Girolamo Porcari era u-
ditore di Rota e nel Commentarius (E. Silber, 18 IX 1493) riportava, tra l’altro, sia
la sua orazione pro Rota offerta ad Alessandro VI, sia quella scritta per l’obbedien-
za dei Senesi che venne diffusa anche da stampe autonome (H *14676-77; IGI
8032-33; IERS 1262 e 1293), come pure le altre orazioni di obbedienza pronuncia-
te dalle diverse delegazioni ed anch’esse divulgate in stampe autonome. Sul motivo
del confronto fra la Roma imperiale e la Roma cristiana il Porcari insisteva ampia-
mente con individuabili prelievi da Biondo Flavio (PORCIUS, Commentarius, cc.
30v-35r). Cfr. A. MODIGLIANI, I Porcari. Storie di una famiglia romana tra Me-
dioevo e Rinascimento, Roma 1994, (RR saggi, 10), in particolare pp. 464-465, 501-
508.
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stività cittadine cfr. i materiali raccolti nel fondamentale studio di F. CRUCIANI, Tea-
tro nel Rinascimento. Roma 1450-1550, Roma 1983.
28 BERNARDINO CORIO, Storia di Milano, a cura di A. MORISI, II, Torino 1978,
p. 1488.
29 Cfr. le voci a questi monumenti dedicate da E. NEDERGAARD in Lexicon to-
pographicum Urbis Romae, a cura di E.M. STEINBY, Roma 1993, I, pp. 80-85. Sul-
la base degli elementi indicati si può escludere, inoltre, che il suggerimento alluda
all’arco presso il Pantheon che commemorava il trionfo di Augusto su Cleopatra,
descritto da MAGISTER GREGORIUS, Narracio de mirabilibus urbis Romae, éditée par
E.B.C. HUYGENS, Leiden 1970, pp. 24-25 (De arcu triumphali Augusti), o all’arco
di Ottaviano sito nei pressi di S. Lorenzo in Lucina (M. TORELLI, in Lexicon topo-
graphicum cit., p. 77).
30 Per il quale cfr. la ‘voce’ di A. CAPODIFERRO, ibid., pp. 86-91.
31 Per una recente analisi filologica di pagine petrarchesche, cfr. V. FERA, Il
trionfo di Scipione, in La critica del testo mediolatino, (Atti del Convegno Firenze,
6-8 dicembre 1990), a cura di C. LEONARDI, Spoleto 1994, pp. 415-430.
32 Per la problematica implicata rinvio al denso saggio di A. PINELLI, Feste e
mam absolvimus triumphantem, si unum operi claudendo addetur, non modo scilicet
scriptura sicut nuper fecimus depictos sed veros et priscis digniores triumphos Romae
ducendos esse sperari posse [...] neque enim forma et institutione, utinam ne magis
potentatu et magnitudine, multum abest ab ea, quam in hoc opere per singulas partes
descripsimus, romana et publica haec in qua vivimus ecclesiastica res romana».
39 È una conferma, credo, dell’esistenza di quella che è stata definita l’«auto-
41 Ibid., c. 20rv. Sul carattere violento del dominio degli imperatori romani in-
Ad eundem Antiquarium
e di Alessandro che, al contrario del Magno, instaura il culto del dio in ter-
ra senza ricorrere alla violenza; in grazia della patria iberica e del triplice
corpo è poi il mitico Gerione ad annunciare i segni dell’auctoritas pontifi-
cia. Nel sincretismo figurale pagano-cristiano assistiamo, cioè, ad una im-
plicita conversione rispetto al messaggio mitografico latino: Virgilio – cui
si deve per primo la traduzione di trisomatos (Aen. 6, 289: forma tricorpo-
ris umbrae) – aveva collocato Gerione fra i monstra all’ingresso dell’Aver-
no e nelle leggende del VII e dell’VIII libro Ercole, dopo aver ucciso in
Spagna Gerione ed essersi impadronito del suo gregge, attraversava con
questo il Lazio generando Aventino da Rea ed uccidendo Caco che gli ave-
va rubato gli armenti. Riannodando il filo delle reminiscenze virgiliane Fer-
no faceva ricomparire il mito erculeo, ma Alcide deve cedere il passo ad I-
bero che regna nel Lazio e ad un altro pastore che renderà temibili a Caco
i furti dei buoi: così il parziale recupero della leggenda erculea si svolgeva
solo sotto il segno cristianizzato della vittoria del bene contro il male46. Sul
versante di una diversa opzione culturale indirizzata al recupero del patri-
monio preclassico, Gerione e la sua discendenza quanto la discendenza del-
l’Ercole Libico compariranno in chiave negativa nella genealogia regale al-
legata da Annio da Viterbo ai suoi Commentaria47, dedicati a Ferdinando
d’Aragona ed Isabella di Castiglia, perché l’esaltazione dell’elemento ispa-
nico soggiacerà all’apoteosi della nuova dinastia trionfante nella difesa del-
la fede cattolica:
lare per l’episodio della lotta contro Caco, rinvio al fondamentale saggio di F. GAE-
TA, L’avventura di Ercole, «Rinascimento», 2 (1954), pp. 227-260.
47 IOHANNES ANNIUS VITERBIENSIS, Commentaria super opera diversorum auc-
torum de antiquitatibus loquentium, Romae, E. Silber, 10 VII-3 VIII 1498, cc. 219v
ss. (De primis temporibus et quattuor ac viginti regibus primis Hispaniae et eius an-
tiquitate).
48 Ibid. , c. 1r (dedica).
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Ad eundem Antiquarium
50 La lettera, conservata insieme ad altri materiali del Ferno nel codice 555 del-
la Bibl. Capitolare di Lucca (ff. 471v-473r), fu pubblicata con pregevole commento
da B.M. PEEBLES, La «Meta Romuli» e una lettera di Michele Ferno, «Rendiconti
della Pontificia Accademia Romana d’Archeologia», 12 (1936), pp. 21-63.
Cap. 03 Iurilli 37-48 13-09-2002 12:56 Pagina 37
ANTONIO IURILLI
and Scholarship in Renaissance Venice, Oxford 1979 (trad. ital. Il mondo di Aldo
Manuzio. Affari e cultura nella Venezia del Rinascimento, Roma 1984), pp. 159-
160. Egli lo attinge da R. FULIN, Una lettera di Alessandro VI, «Archivio Veneto»,
3 (1871), pp. 156-157, il quale a sua volta dichiara la fonte in A. BASCHET, Aldo Ma-
nuzio. Lettres et documents (1495-1515), Venezia 1867. Al Fulin appartiene il laco-
nico giudizio citato nel mio testo. Ecco la lettera con la quale Alessandro autorizza
il Patriarca di Venezia a sciogliere Aldo dal voto: «Venerabilis frater, salutem [...]
Exponi nobis fecit dilectus filius Aldus Manutius civis romanus, quod ipse alias pe-
stifero morbo correptus vovit, si ab eo evaderet, se sacros etiam presbiteratus ordi-
nes suscepturum. Cum vero liberatus dicto morbo fuit, et dicto voto non persisterit,
considerans se valde esse pauperem, nec aliunde se sustentare posse, nisi manuali-
bus quibus sibi victum quaerit, desiderat in saeculo remanere. Nos igitur, eius in hac
parte supplicantibus inclinati, Fraternitati tuae committimus ac mandamus, ut eun-
dem Aldum, si ita sit et id a te humiliter petierit, ab observatione voti praemissi, auc-
toritate nostra absolvas, illudque in alia pietatis opera sibi commutes, prout con-
scientiae tuae, quam desuper oneramus, videbitur expediri. In contrarium facienti-
bus non obstantibus quibuscumque. Data Romae [...] die 11 Augusti 1498 anno 6°».
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38 ANTONIO IURILLI
6 Sui risvolti giuridici dei privilegi cfr. R. FRANCESCHELLI, Trattato di diritto in-
prima di segnare quella di Alessandro VI, cfr. BLASIO,‘Cum gratia et privilegio’ cit.,
pp. 11-35.
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40 ANTONIO IURILLI
di soli tre anni (nel giugno del 1501), nel primo editto di censura libraria e-
manato dall’autorità pontificia, cioè da Alessandro VI, sia pure territorial-
mente, ma direi sintomaticamente, limitato ad alcune fra le più irrequiete,
dal punto di vista dottrinale, province ecclesiastiche della Germania. Senza
voler cedere alla ipertrofica considerazione che questo atto ha meritato
presso molti biografi di Alessandro, compreso il Pastor, non possiamo non
leggervi invece una lucida consapevolezza della necessità di regolamentare
una nuova forma di circolazione delle idee, una consapevolezza non certo
mossa da velleitarie tendenze repressive, anzi, al contrario, attenta a costi-
tuire la stampa come potere forte all’interno di una energica politica cultu-
rale e dottrinale e, ancor più latamente, all’interno di una vasta strategia di
consolidamento del potere personale8.
Ora, credo che l’incontro ideale di Alessandro con Aldo, al di là di
quello materiale consegnato al curioso reperto biografico precedente-
mente narrato, si consumi proprio sull’onda di questa progressiva azione
di sostegno del Borgia alla stampa, naturalmente ove essa si offrisse, al-
la stregua di altre arti geniali e creative da lui sostenute, come strumento
di edificazione della sua immagine di principe ecclesiastico. E nel segno,
appunto, della creatività e della genialità, non in quello, ormai istituzio-
nalizzato, della protezione commerciale del prodotto tipografico, l’ener-
gia innovativa di Aldo entra nelle strategie mecenatistico-normative di A-
lessandro, creando l’interessante primum di una originale forma di prote-
zione commerciale, destinata a rimanere a lungo senza seguito nella sto-
ria dell’editoria europea: la protezione pontificia dei caratteri di stampa,
nel caso specifico del carattere italico, conclamato fiore all’occhiello, no-
toriamente fragile e sensibile alla rozzezza concorrenziale, dell’editoria
aldina. Prima di questo atto, Alessandro aveva concesso un privilegio e-
ditoriale al tipografo Giovanni Besicken per la stampa della nuova reda-
zione dell’Ordo Missae predisposta per il clero dal maestro delle cerimo-
nie Giovanni Burckard dopo la revisione del cardinale Bernardino Car-
vajal.
La vicenda di questa protezione non esula, ovviamente, dal lungo e
ben noto contenzioso di Aldo contro i contraffattori delle sue più geniali
innovazioni editoriali. La documentazione abbondantemente disponibile
colloca fra gli anni 1496 e 1502 ben quattro richieste di Aldo ai dogi per-
ché lo difendano dai contraffattori prima dei suoi caratteri greci, poi del-
8
Cfr. PASTOR, Storia dei papi cit., p. 445; P. DE ROO, Material for a History of
Pope Alexander VI. His Relatives and his Time, III, Bruges 1924, pp. 1-9. Decisa-
mente celebrativa è la posizione di A. LEONETTI, Papa Alessandro VI secondo do-
cumenti e carteggi del tempo, III, Bologna 1880, pp. 228-232.
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protezione dei caratteri greci da lui brevettati e per alcune edizioni stampate con quei
caratteri («Conciosiache havendo facto intagliar lettere grece in summa belleza de o-
gni sorte in questa terra, ne la qual habia consumato gran parte della sua facultà cum
speranza di doverne qualche volta conseguir utilità, et za molti anni che l’ha consu-
madi nel intaglio de le dicte lettere, habia trovato, per lo Dio gratia, doi novi modi,
cum i qual, stampirà sì ben et molto meglio in grecho de quello che se scrive a pe-
na»): cfr. C. CASTELLANI, La stampa in Venezia dalla sua origine alla morte di Aldo
Manuzio seniore, Venezia 1889, pp. 72 (dalla quale è tratto il testo cit.) e 74.
10 Il 23 luglio 1500 Aldo ottiene il privilegio per l’edizione delle lettere di s.
Caterina (ibid., p. 74). Il 23 marzo 1501 Aldo ottiene il privilegio per la protezione
dell’Italico impiegato negli enchiridii dei classici latini («Perché Aldo Romano ha-
bitatore za molti anni in questa nostra Cità ha facto intagliare una lettera Corsiva et
Cancelleresca de summa belleza, non mai più facta. Supplica che per diexe anni a
niuno altro sia lecito stampare in lettera corsiva de niuna sorta nel Dominio di Vo-
stra Serenità, né portare et vendere libri stampati de terre aliene in loco alcuno de
esso nostro Dominio cum dicta lettera corsiva, sotto pena a chi contrafarà de perder
i libri et duxento ducati per cadauna volta che contrafacesse»): ibid., p. 75. Il 25
maggio 1498 viene accordato a Ottaviano de’ Petrucci il privilegio per la stampa del
canto figurato (ibid., p. 73).
11 Ibid., rispettivamente pp. 69 e 70.
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42 ANTONIO IURILLI
13 Il testo del breve si legge, dopo l’index rerum, nell’aldina del Cornucopiae di
Nicolò Perotti del 1513 («in aedibus Aldi et Andreae soceri»), c. 79v. Dalla stessa e-
dizione lo trae A. A. RENOUARD, Annales de l’imprimerie des Aldes ou histoire des
trois Manuce et de leurs éditions, Paris, 18343; poi: Annali delle edizioni Aldine. Con
notizie sulla famiglia dei Giunti e repertorio delle loro edizioni fino al 1550 ..., rist.
New Castle (Delaw.) 1991, (Bologna 1953), p. 505. Nel riportare il testo ho sciolto le
tachigrafie e normalizzato l’interpunzione.
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44 ANTONIO IURILLI
14
Cfr. la nota precedente.
15
Cfr. P. FONTANA, Inizi della proprietà letteraria nello Stato Pontificio. Sag-
gio di documenti dell’Archivio Vaticano, «Accademie e Biblioteche d’Italia», 3
(1929), pp. 204-221.
16 Cfr. BLASIO, ‘Cum gratia et privilegio’ cit., pp. 79-98.
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17 Se ne può leggere il testo nella silloge Aldo Manuzio editore. Dediche, pre-
fazioni, note ai testi, introd. di C. DIONISOTTI. Testo latino con traduzione e note a
cura di G. ORLANDI, II, Milano 1975, p. 170. La vicenda dell’Italico è ampiamente
storicizzata e problematizzata in L. BALSAMO-A. TINTO, Origini del corsivo nella ti-
pografia italiana del Cinquecento, Milano 1967; sul corsivo si veda anche A. TIN-
TO, Il corsivo nella tipografia del Cinquecento: dai caratteri italiani ai modelli ger-
manici e francesi, Verona 1972.
18 Sui Soncino cfr. essenzialmente G. MANZONI, Annali tipografici dei Sonci-
no, rist. Bologna 1979, (Bologna 1883-1886); cfr. anche G. CASTELLANI, Girolamo
Soncino, «La Bibliofilia», 9 (1907-1908), pp. 25 e s.
19 Questo risvolto della vicenda biografica e professionale di Aldo è ampia-
mente trattato, forse con qualche eccesso interpretativo, da LOWRY, The World of Al-
dus Manutius. Business and Scholarship in Renaissance Venice cit., pp. 120 e s.
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46 ANTONIO IURILLI
casuale: sembra anzi un dichiarato atto di ostilità proprio contro Aldo, ac-
cusato di essersi appropriato di un’invenzione, l’Italico, che apparteneva
tutta al suo creatore, appunto il Griffo, il quale solo avrebbe dovuto e potu-
to liberamente disporne:
20Il passo ricorre nella nuncupatoria della cit. edizione del Petrarca volgare
pubblicata da Soncino nel 1503. Certamente eccessiva e ingenerosa è l’accusa mos-
sa contro Aldo con tanta acrimonia da Soncino. Aldo non aveva, infatti, mancato di
lodare pubblicamente i meriti del Griffo nel luogo più adatto e prestigioso: la pre-
messa al Virgilio del 1501, prima edizione che impiega l’Italico. Condivisibile è per-
tanto quello che in proposito sostiene Carlo Dionisotti, quando delinea lo scarso
spessore culturale del Griffo a fronte delle sue qualità tecniche («Il paragone delle
sue [del Griffo] stampe bolognesi, stravaganti e sgraziate, con quelle che Aldo e il
Soncino, autentici editori, avevano prodotto servendosi dei suoi caratteri, è decisivo.
Appena occorre aggiungere che volendo, come editore, aprir bocca secondo la nor-
ma osservata da Aldo e dal Soncino, gli venne fatto di lasciar prova di una rozzezza
letteraria ai limiti dell’analfabetismo, sorprendente dopo tanti anni di famigliarità con
letterati e stampatori. Insomma si può tranquillamente concludere che se Aldo senza
Francesco Griffo non sarebbe giunto a produrre le sue stampe corsive, neppure ci sa-
rebbe mai giunto da solo il Griffo»: Aldo Manuzio editore cit., I, p. XL).
21 Cfr. BALSAMO-TINTO, Origini cit., pp. 43-44.
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zione del Cornucopiae di Perotti, cc. 79rv (v. la precedente nota 13). Il privilegio
leonino è sottoscritto da Pietro Bembo.
23 Cfr. LOWRY, The World of Aldus Manutius. Business and Scholarship in Re-
48 ANTONIO IURILLI
MAURO DE NICHILO
1 Vv. 442-7 (in NICCOLÒ MACHIAVELLI, Opere, IV, Scritti letterari, a cura di L.
BLASUCCI con la collaborazione di A. CASADEI, Torino 1989, pp. 311 e s.). Sul De-
cennale primo cfr. G. BARBERI SQUAROTTI, Storia ed etica in versi: il tono medio del
Machiavelli, «Italianistica», 3 (1974), pp. 15-32, poi in ID., Machiavelli o la scelta
della letteratura, Roma 1987, pp. 97-114; A. MATUCCI, Sul «Decennale I» di Nic-
colò Machiavelli, «Filologia e Critica», 3 (1978), pp. 297-327; A.M. CABRINI, In-
torno al primo «Decennale», «Rinascimento», n. ser., 33 (1993), pp. 69-89.
2 In NICCOLÒ MACHIAVELLI, Legazioni. Commissarie. Scritti di governo, II, a
50 MAURO DE NICHILO
4 «Surse di poi Alessandro VI, il quale, di tutti è pontefici che sono mai stati,
mostrò quanto un papa e col danaio e con le forze si poteva prevalere; e fece, con lo
instrumento del duca Valentino e con la occasione della passata de’ franzesi, tutte
quelle cose che io discorro di sopra [cap. VII] nelle azioni del duca. E benché la ‘n-
tenzione sua non fussi fare grande la Chiesa, ma il duca, nondimeno ciò che fece
tornò a grandezza della Chiesa: la quale dopo la sua morte, spento il duca, fu erede
delle sue fatiche» (Il Principe XI 12-13: ed. a cura di G. INGLESE, Torino 1995, p. 76).
Sul cap. VII del Principe vd. ora le edizioni con commento di INGLESE cit., pp. 38-54,
e di R. RINALDI, in NICCOLÒ MACHIAVELLI, Opere, a cura dello stesso, I 1, Torino
1999, pp. 170-192. Sulla figura del Valentino in Machiavelli cfr. G. SASSO, Machia-
velli e Cesare Borgia. Storia di un giudizio, Roma 1966; ID., Ancora su Machiavelli
e Cesare Borgia (1969) e Coerenza o incoerenza del settimo capitolo del «Princi-
pe»? (1972), in ID., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, Milano-Napoli 1988, II,
pp. 57-163; ID., Per alcune Machiavellerie, «La Cultura», 18 (1980), pp. 416-420; C.
DIONISOTTI, Machiavelli, Cesare Borgia e don Micheletto (1967 e 1970), in ID., Ma-
chiavellerie. Storia e fortuna di Machiavelli, Torino 1980, pp. 3-59; J.-J. MARCHAND,
L’évolution de la figure de César Borgia dans la pensée de Machiavel, «Schweizer
Zeitschrift für Geschichte/Revue Suisse d’Histoire», 19 (1969), pp. 327-355; E. GU-
SBERTI, Cesare Borgia e Machiavelli (in margine a una polemica), «Bullettino del-
l’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo», 85 (1974-1975), pp. 179-230; G. IN-
GLESE, Il Principe (De principatibus) di Niccolò Machiavelli, in Letteratura italiana,
dir. da A. ASOR ROSA, Le Opere, I, Dalle Origini al Cinquecento, Torino 1992, pp.
906-909 (e poi come Introduzione alla sua ed. cit. del Principe, pp. XVI-XX). V. an-
che R. DE MAIO, Alessandro VI nel giudizio di Guicciardini, in La fortuna dei Bor-
gia, (Atti del Convegno, Bologna, 29-31 ottobre 2000), di prossima pubblicazione.
5 Il Principe XVIII 11-12 (ed. cit., pp. 117 e s.).
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52 MAURO DE NICHILO
11 «Così morì papa Alessandro in somma gloria e felicità; circa la qualità del qua-
le s’ha a intendere che lui fu uomo valentissimo e di grande giudicio e animo, come
mostrorono e’ modi sua e processi; ma come el principio del salire al papato fu brut-
to e vituperoso, avendo per danari comperato uno tanto grado, così furono e’ sua go-
verni non alieni da uno fondamento sì disonesto. Furono in lui e abundantemente tut-
ti e’ vizi del corpo e dello animo, né si potette circa alla amministrazione della Chie-
sa pensare uno ordine sì cattivo che per lui non si mettessi a effetto; fu lussuriosissi-
mo nell’uno e nell’altro sesso, tenendo publicamente femine e garzoni, ma più anco-
ra nelle femine; e tanto passò el modo che fu publica opinione che egli usassi con ma-
donna Lucrezia sua figliuola, alla quale portava uno tenerissimo e smisurato amore;
fu avarissimo, non nel conservare el guadagnato, ma nello accumulare di nuovo; e do-
ve vedde uno modo di potere trarre danari, non ebbe rispetto alcuno: vendevansi a
tempo suo come allo incanto tutti e’ benefici, le dispense, e’ perdoni, e’ vescovadi, e’
cardinalati e tutte le dignità di corte; alle quali cose aveva deputati dua o tre sua con-
fidati, uomini sagacissimi, che allogavano a chi più ne dava. Fece morire di veleno
molti cardinali e prelati, ancora confidatissimi sua, quali vedeva ricchi di benefici e in-
tendeva avere numerato assai in casa, per usurpare la loro ricchezza. La crudeltà fu
grande, perché per suo ordine furono morti molti violentemente; non minore la ingra-
titudine colla quale fu cagione rovinare gli Sforzeschi e Colonnesi che l’avevano fa-
vorito al papato. Non era in lui nessuna religione, nessuna osservanzia di fede: pro-
metteva largamente ogni cosa, non osservava se non tanto quanto gli fussi utile; nes-
suna cura della giustizia, perché a tempo suo era Roma come una spelonca di ladroni
e di assassini; fu infinita la ambizione, e la quale tanto cresceva quanto acquistava e
faceva stato; e nondimeno, non trovando e’ peccati sua condegna retribuzione nel
mondo, fu insino allo ultimo dì felicissimo. Giovane e quasi fanciullo, avendo Calisto
suo zio papa, fu creato da lui cardinale, e poi vicecancelliere; nella quale degnità per-
severò insino al papato con grande entrata, riputazione e tranquillità. Fatto papa, fece
Cesare, suo figliuolo bastardo e vescovo di Pampalona, cardinale, contra tutti gli or-
dini e decreti della Chiesa che proibiscono che uno bastardo non possi essere fatto car-
dinale eziandio con dispensa del papa, fatto provare con falsi testimoni che gli era le-
gittimo. Fattolo di poi secolare e privatolo del cardinalato, e vòlto l’animo a fare sta-
to, furono e’ successi sua più volte maggiori ch’e’ disegni; e cominciando da Roma,
disfatti gli Orsini, Colonnesi e Savelli, e quegli baroni romani che solevano essere te-
muti dagli altri pontefici, fu più assoluto signore di Roma che mai fussi stato papa al-
cuno; acquistò con somma facilità le signorie di Romagna, della Marca e del ducato;
e fatto uno stato bellissimo e potentissimo, n’avevano e’ fiorentini paura grande, e’ vi-
niziani sospetto, el re di Francia lo stimava. Ridotto insieme uno bello esercito, dimo-
strò quanto fussi grande la potenza di uno pontefice, quando ha uno valente capitano
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54 MAURO DE NICHILO
Il giudizio storico del papa spagnolo dal Guicciardini affidato alle pa-
gine della Storia d’Italia rifletteva in ogni caso, sul finire degli anni Tren-
ta, quanto la storiografia primocinquecentesca aveva messo a punto sul per-
sonaggio del Borgia, compresa certa aneddotica sulla crudeltà e sulla per-
e di chi si possa fidare; venne a ultimo in termini, che era tenuto la bilancia della guer-
ra fra Francia e Spagna; fu insomma più cattivo e più felice che mai per molti secoli
fussi forse stato papa alcuno» (FRANCESCO GUICCIARDINI, Storie fiorentine dal 1378 al
1509, a cura di A. MONTEVECCHI, Milano 1998, p. 403 e s.).
12 Ed. cit., I, p. 555.
13 Ibid. Sul giudizio del Guicciardini mi limito a segnalare ora il brillante e pro-
versa sessualità, sua e dei suoi figli, che assieme alla simonia avrebbero per
sempre bollato con un indelebile marchio d’infamia il suo pontificato, a-
neddotica cui neppure lo storico fiorentino sa sottrarsi indulgendo a narra-
re nel cap. XIII del libro III «gli infortuni domestici, i quali perturborono la
casa sua con esempi tragici, e con libidini e crudeltà orribili», in particola-
re l’efferato assassinio del duca di Gandìa attribuito senza reticenze né ri-
serve alla gelosia del fratello Cesare14 e gli amori incestuosi che con Lu-
crezia avrebbero intrattenuto sia i fratelli che il padre15. Brano questo cen-
surato con altri tre ritenuti sconvenienti sul piano politico e soprattutto reli-
casa sua con esempli tragici, e con libidini e crudeltà orribili, eziandio in ogni bar-
bara regione. Perché avendo, insino da principio del suo pontificato, disegnato di
volgere tutta la grandezza temporale al duca di Candia suo primogenito, il cardinale
di Valenza il quale, d’animo totalmente alieno dalla professione sacerdotale, aspira-
va all’esercizio dell’armi, non potendo tollerare che questo luogo gli fusse occupato
dal fratello, e impaziente oltre a questo che egli avesse più parte di lui nell’amore di
madonna Lucrezia sorella comune, incitato dalla libidine e dalla ambizione (ministri
potenti a ogni grande scelleratezza), lo fece, una notte che e’ cavalcava solo per Ro-
ma, ammazzare e poi gittare nel fiume del Tevere secretamente. Era medesimamen-
te fama (se però è degna di credersi tanta enormità) che nell’amore di madonna Lu-
crezia concorressino non solamente i due fratelli ma eziandio il padre medesimo: il
quale avendola, come fu fatto pontefice, levata dal primo marito come diventato in-
feriore al suo grado, e maritatala a Giovanni Sforza signore di Pesero, non compor-
tando d’avere anche il marito per rivale, dissolvé il matrimonio già consumato; a-
vendo fatto, innanzi a giudici delegati da lui, provare con false testimonianze, e dipoi
confermare per sentenza, che Giovanni era per natura frigido e impotente al coito.
Afflisse sopra modo il pontefice la morte del duca di Candia, ardente quanto mai fus-
se stato padre alcuno nell’amore de’ figliuoli, e non assuefatto a sentire i colpi della
fortuna, perché è manifesto che dalla puerizia insino a quella età aveva avuto in tut-
te le cose felicissimi successi; e se ne commosse talmente che nel concistorio, poi-
ché ebbe con grandissima commozione d’animo e con lacrime deplorata gravemen-
te la sua miseria, e accusato molte delle proprie azioni e il modo del vivere che insi-
no a quel dì aveva tenuto, affermò con molta efficacia volere governarsi in futuro con
altri pensieri e con altri costumi: deputando alcuni del numero de’ cardinali a rifor-
mare seco i costumi e gli ordini della corte. Alla quale cosa avendo data opera qual-
che dì, e cominciando a manifestarsi l’autore della morte del figliuolo, la quale nel
principio si era dubitato che non fusse proceduta per opera o del cardinale Ascanio o
degli Orsini, deposta prima la buona intenzione e poi le lagrime, ritornò più sfrena-
tamente che mai a quegli pensieri e operazioni nelle quali insino a quel dì aveva con-
sumato la sua età» (Storia d’Italia III 13: ed. cit., I, pp. 323 e s.).
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16 Per la prima volta i passi del libro III, IV e X erano stati pubblicati separa-
tamente, sempre in terra protestante, i primi due nel 1569 a Basilea a cura di Celio
Secondo Curione e per i tipi di Pietro Perna (che già nel 1566 avevano stampato u-
na traduzione latina della Storia d’Italia), il terzo a Francoforte nel 1609. Per que-
ste notizie cfr. nel vol. I dell’ed. cit. della Storia le pp. CXVIII-CXXI.
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Ludovico a questo tanto male fusse destinato»17. Altri insistettero invece su-
gli errori personali dei principi italiani, ma mentre Sigismondo de’ Conti,
non annettendo in fondo un particolare significato all’episodio, si sentì in
dovere, da storico della Chiesa, di assolvere Alessandro VI – da lui del re-
sto ammirato come «uomo scaltrissimo, il quale all’ingegno aveva aggiun-
to la pratica dei più alti affari»18 – dall’accusa di aver portato i Francesi in
Italia («per la qual cosa fu mestieri ad Alessandro, benché a suo malincuo-
re, di volgere l’occhio sui Francesi, nazione se altra mai a Ferdinando infe-
sta e formidabile»)19, il fiorentino Bernardo Rucellai, pur avendo come ber-
saglio primo Piero de’ Medici, da lui con perverso orgoglio ritenuto re-
sponsabile della situazione che aveva reso inevitabile l’invasione francese,
per aver sconsideratamente deciso di appoggiare Napoli contro Milano, ri-
versò tuttavia nel De bello Italico commentarius tutte le colpe su papa Bor-
gia, «facinore omni insignis, ob simultates cardinalium auro ad pontifica-
tum evectus», addebitandogli l’«initium tantae calamitatis»: era stata pro-
prio la sua richiesta d’aiuto al re francese, messa in atto se non altro come
forma di minaccioso ricatto nei confronti di Alfonso d’Aragona, il primo a-
nello della catena di avvenimenti sfociata nella catastrofe del 149420. Per
quanto più ragionato e presentato con maggiore rigore, l’esame delle cause
dell’invasione francese e dei rivolgimenti da questa provocati, nelle Storie
fiorentine del Guicciardini, sembra conformarsi nelle linee essenziali all’a-
nalisi del Rucellai. Anche il Guicciardini, nell’intento di risalire all’origine
dei mali che avevano travolto la penisola dopo il 1494 («per questa passata
de’ franciosi, come per una subita tempesta rivoltatasi sottosopra ogni cosa,
si roppe e squarciò la unione di Italia»)21, condanna gli errori commessi in
gere, gentem prae cunctis Ferdinando infestam atque tremendam»: ibid., II, p. 59.
20 BERNARDI ORICELLARII De bello Italico commentarius, iterum in lucem edi-
tus, Londini [Firenze] 1733, pp. 5 e s. Sul Rucellai rinvio unicamente a M. DE NI-
CHILO, Un plagio annunciato: Girolamo Borgia e il «De bello italico» di Bernardo
Rucellai, in La memoria e la città. Scritture storiche tra Medioevo ed Età Moderna,
a cura di C. BASTIA-M. BOLOGNANI, responsabile culturale F. PEZZAROSSA, Bologna
1995, pp. 331-360, e R.M. COMANDUCCI, Il carteggio di Bernardo Rucellai. Inven-
tario, Firenze 1996.
21 GUICCIARDINI, Storie fiorentine X (ed. cit., p. 197).
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58 MAURO DE NICHILO
vimento sì grande, e per trattare la cosa in Francia con maggiore credito e autorità,
cercò, prima, di persuadere il medesimo al pontefice non meno con gli stimoli del-
l’ambizione che dello sdegno; dimostrandogli che, o per favore de’ prìncipi italiani
o per mezzo dell’armi loro, non poteva né di vendicarsi contro a Ferdinando né di
acquistare stati onorati per i figliuoli avere speranza alcuna. E avendolo trovato
pronto, o per cupidità di cose nuove o per ottenere dagli Aragonesi, per mezzo del
timore, quel che di concedergli spontaneamente recusavano, mandorono secretissi-
mamente in Francia uomini confidati a tentare l’animo del re»: Storia d’Italia, I 4
(ed. cit., I, p. 28).
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sa di Napoli di Carlo VIII. Commento ai primi due libri della Storia d’Italia del
Guicciardini, Napoli 1982, p. 67.
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se habent, parentibus longe dissimiles, patrum consiliis spretis, ea primum moliti dein-
de aggressi sunt unde calamitas Italiae simul et sui exitium oriretur. Quo factum est,
ut qui magni pollentesque erant, mox fortuna cum imperii artibus commutata, ipsi in-
ter pauca aerumnarum exempla miserandum spectaculum praebuerint. Caeterum un-
de minime decuit, tantae initium calamitatis fuit; nam postquam Alexander ille faci-
nore omni insignis ob simultates cardinalium auro ad pontificatum evectus est, veluti
in auctionem proponere summum sacerdotium haec aetas tulit, non contentus suis a-
lienas animo iam opes invaserat; neque has quibus modis assequeretur, dum sibi filiis-
que, quos plurimos susceperat, pararet, quicquam pensi habebat, domestico dedecori
addens immoderatam imperii cupiditatem. Igitur per homines sibi fidos acceptosque
Alfonsi animum, qui Ferdinando successerat, tentare, adniti, ut eius filiam ex concu-
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bina ortam, quam in deliciis habuisset, Alfonso filio in matrimonium daret, sperans,
quod in animo altius haeserat, non modo opulentam dotem liberis sedemque imperii,
sed sibi aditum ad opes suas amplificandas regnumque facturum. Quod ubi secus ces-
sit, indignatione et stomacho exardens, constituit Alfonsum regem dolo aggredi ac ex-
trema omnia experiri. […] Legatis igitur in Galliam missis, per eos Caroli regis ani-
mum sollicitare, multa polliceri, ut regnum de Gallis ab Alfonso seniore (quemadmo-
dum ipse aiebat) occupatum repetat; illi omnia in promptu esse, opes, exercitum, tor-
menta et, quod praecipuum est, Alfonsum ipsum imparatum, sociis atque principibus
ob superbiam et avaritiam iuxta invisum, tantummodo incepto opus esse, caetera deos
stantes pro iustiore causa gesturos»: ORICELLARII De bello Italico, pp. 4-6.
Sull’episodio dell’incontro del Rucellai con il Pontano, di cui resta testimo-
nianza in una lettera del Fiorentino a Roberto Acciaiuoli, prezioso compendio dei
criteri comunemente accettati dagli umanisti sul modo di scrivere storia, si era sof-
fermato già F. GILBERT, Machiavelli and Guicciardini. Politics and History in Six-
teenth-Century Florence, Princeton 1965, trad. ital. Machiavelli e Guicciardini. Pen-
siero politico e storiografia a Firenze nel Cinquecento, Torino 1970, pp. 175 e ss.
29 Cfr. GIOVANNI PONTANO, Eridanus II 20, Ad Borgium: in IOANNIS IOVIANI
62 MAURO DE NICHILO
commentario del Rucellai, che a differenza delle coeve Storie fiorentine del
Guicciardini, tutte concentrate su Firenze e sull’Italia, aveva tuttavia il me-
rito di aver colto uno scenario europeo sullo sfondo dell’invasione france-
se, il Borgia, che inizia a scrivere nel secondo decennio del Cinquecento ma
elabora il testo definitivo dell’Historia, limitatamente ai libri I-X relativi a-
gli anni 1494-1525, sino all’estate del 152632, non ha dubbi sulle conse-
guenze prodotte dal conflitto divampato nel 1494: la fine della libertà ita-
liana da un lato, una generale conflagrazione europea dall’altro. Colpa del-
la natura umana o della fortuna, dopo una pace lunga e felice era esplosa
non solo in Italia ma in quasi tutto il mondo una guerra lunga e crudele. Per
il Corio e il Rucellai l’Italia era stata il bersaglio a cui avevano mirato le po-
tenze europee; per il Borgia – in anticipo sul Guicciardini e sul Giovio – le
guerre italiane erano invece in funzione della più generale lotta per la su-
premazia in atto fra le grandi monarchie europee, e l’Italia pertanto soltan-
to una pedina nel gioco della loro politica di egemonia. Per cui se prima si
era badato molto alle colpe personali e il disastro italiano era stato attribui-
to ai vizi e ai difetti dell’intero popolo o dei singoli governanti, ora, se era
vero che quanto accadeva nella penisola dipendeva dalle vicende di paesi su
cui i signori italiani non avevano alcun potere di intervento, si doveva piut-
tosto parlare di causalità politica. E allora la tragedia italiana, più che ope-
ra di principi deboli e inetti, era forse il risultato di una rivoluzione celeste,
nel corso della quale Giove aveva rovesciato l’aureo regno di Saturno. For-
ze incontrollabili dominavano ormai gli eventi della storia. Non siamo lon-
tani dall’idea del Vettori dell’onnipotenza della fortuna e da quella nuova
coscienza – nata dalla difficoltà di conciliare la concezione umanistica eti-
co-retorica della storia con una visione pragmatica della stessa – del com-
pito dello storico, che consisterà piuttosto d’ora in avanti nello studiare e
descrivere il potere della fortuna, di cui è un esempio sintomatico appunto
il Sommario della storia d’Italia dal 1511 al 1527 di Francesco Vettori, ma
anche le seconde Storie fiorentine ovvero Cose fiorentine del Guicciardini,
regibus breviter memorare, quo probabilius externa nostris cohaereant. Fuit Carolus
[…] Hinc illum maioribus et copiis et opibus auctum maturius bellum italicum pa-
rasse ac Neapolim repetisse novimus, eo iure quod Renatus ab Alfonso pulsus sine
liberis moriens testamento reliquit haeredem Ludovicum, Caroli de quo nunc prae-
cipue agimus patrem. Hoc igitur iure innisus Carolus Neapolim et quae Renati fue-
rant in Italia sibi armis vindicare statuit. Et haec prima belli causa fuit. Ceterum non
tam Regni possessio quam ingens gloriae cupido, acerrimus magnorum principum
stimulus, ac tempestiva Ludovici Sfortiae adhortatio iuvenilem animum ad bellum
impulit. Rex, tametsi plerique principum togam armis praeferebant horrebantque I-
taliae nomen super Gallis exitiale, decrevit sibi tamen Italiam provinciam, nec prius
Cap. 04 De Nichilo 49-98 13-09-2002 12:57 Pagina 64
64 MAURO DE NICHILO
belli signum extulit quam res gallicas ex sententia composuit; cum Hispaniae et Bri-
tanniae regibus pacem foedusque iunxit, Rusinone etiam circa Pyrenaeum Hispanis
restituto» (M, f. 3rv).
37 M, f. 3v.
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Maximus, Alfonsi beneficiorum immemor, cuius auctoritate atque opibus antea Car-
dinalis, post Nicolao quinto mortuo Pontifex creatus fuerat, perversa consilia et per-
fidiae plena adversus Ferdinandum agitare coepit clamque cum primoribus civita-
tum ac regulis agere de rebellione, divulgatis etiam epistolis, quibus Ferdinandum
supposititium Alfonsi filium diceret, denique aqua et igni interdiceret, qui huius im-
perata facerent et in officio ac fide permanerent» (in L. MONTI SABIA, Pontano e la
storia. Dal De bello Neapolitano all’Actius, Roma 1995, p. 84).
41 Cfr. G.B. PICOTTI, La giovinezza di Leone X, Milano 1928, p. 460; DE FRE-
66 MAURO DE NICHILO
della corruzione e della immoralità, specie dei ‘grandi’ che hanno maggio-
ri responsabilità, è ancora uno dei valori forti di cui è intessuta la sua Hi-
storia, ma ad esso si accompagna la consapevolezza, se nulla può opporsi
al motore primo della storia, il ‘mutamento’, della ineluttabilità della trage-
dia. Nasce di qui la tensione narrativa dell’opera del Borgia, non mirata a
scopi immediatamente politici – dato che la politica non ha più senso e non
compete più allo storico e la storia stessa non può essere più magistra vitae
–, ma organizzata secondo criteri analitici tende a suscitare ‘riflessioni’.
Prende il sopravvento il linguaggio dei sentimenti e delle emozioni con l’al-
ternarsi e scontrarsi di due grandi campi semantici, quello positivo della
speranza, del desiderio, della volontà, o anche dell’ambizione e della cupi-
digia, pulsioni che muovono ogni più piccola azione e meglio identificano
la posizione esistenziale della maggior parte dei protagonisti della storia; e
quello negativo della paura, del terrore o dell’odio, della diffidenza, del ri-
sentimento che tendono ad opporsi all’azione o attraverso la simulazione a
mettere in moto azioni di segno contrario. Le pagine borgiane relative ai
Borgia sono da questo punto di vista assolutamente esemplari. Il groviglio
delle passioni e dei sentimenti che li muove, il cumulo delle emozioni che
domina il loro agire, l’inaudita efferatezza dei loro misfatti, non a caso de-
scritti con toni foschi da tragedia, e di per sé costituenti un esplicito mes-
saggio nel tentativo di trovare un senso e di dare un giudizio, dichiarato poi
apertamente nelle massime o nelle digressioni che punteggiano la narrazio-
ne, delineano la loro vicenda costantemente all’insegna dell’arbitrio, del-
l’eccesso e della straordinarietà. Ho affidato all’Appendice A la testimo-
nianza delle pagine dell’Historia borgiana relative ai Borgia, che toccano il
loro apice drammatico attorno alla morte di Alessandro VI. La notizia, men-
tre l’attenzione del lettore è tutta concentrata sul racconto dell’epica difesa
della rocca di Napoli ancora in mano francese, dopo che nel maggio del
1503 Consalvo ha già fatto il suo ingresso trionfale in Napoli, esplode im-
provvisa per comunicare con l’esempio della sua gratuita e beffarda casua-
lità l’inanità dell’umana condizione e l’imperscrutabilità del giudizio di
Dio: «Alexandri quidem mors eo fuit omnibus bonis gratior, quo iustiore
Dei iudicio missa palam apparuit»; «Alexander veneno prodigiose interiit,
qui fatale reipublicae christianae venenum extiterat»44. Eppure era «nel col-
mo più alto delle maggiori speranze (come sono vani e fallaci i pensieri de-
gli uomini)», commenterà il Guicciardini45, che forse aveva memorizzato il
«florebat tunc Alexander pontifex» con cui aveva esordito il Borgia46. Ma
mentre il Guicciardini faceva scaturire dal vivo della cronaca della repenti-
68 MAURO DE NICHILO
na e fortuita morte per veleno del pontefice l’exemplum di una verità asso-
lutà, la stessa che aveva affidato al Ricordo C 92, dove la giustizia di Dio è
definita abyssus multa sulla scorta del Salmo 35, 747, il Borgia ricorreva ad
una autorevole citazione letteraria, quella dell’Epigramma II 29 del Sanna-
zaro, l’Epitaphium Alexandri VI Pontificis Maximi, che a vent’anni di di-
stanza conservava ancora intatta tutta la sua viscerale carica di sdegno con-
tro l’immane bestia – campione di turpitudini e scelleratezze da far sfigura-
re nientemeno che Nerone, Caligola o Eliogabalo –, che per undici anni a-
veva regnato come pontefice nella città di Romolo48. E concludeva, quasi a
voler ristabilire il giusto grado di attenzione sulla vicenda, con il lepidum
dictum che il cardinale Ascanio Sforza aveva messo in circolazione al mo-
mento dell’elezione del papa spagnolo:
«Mendice homo, tecum meliore quidem sorte auctum est quam no-
biscum; tu enim evasisti, nos incidimus in Catalanorum manus»49.
nunc est Romaniola, filium suum Robertum cognoscere tentavit, verum ille in pa-
trem stricto pugione a scelere se vendicavit. Idem Sigismundus, incensus forma
Teutonicae cuiusdam matronae, Romam e terra Germania proficiscentis piaculo-
rum gratia, utque divorum templa Petri et Pauli visitaret, eam suos per fines iter
facientem aggressus, nulla cum ratione vivae afferre vim posset, iugulavit iugula-
tamque cognovit. Quid quod e filia eundem sua prolem suscepisse manifestissi-
mum quidem est? Quid igitur videre immanius coelum potuit? Sed vidit tamen et
videt quotidie immaniora [seguivano dieci righe su Alessandro VI], nec coelum ta-
men ruit, divinaque dormitat patientia verius quam prospicentia»: IOANNIS IOVIA-
NI PONTANI De immanitate liber, ed. L. MONTI SABIA, Napoli 1970, p. 33.
53«Ludovicus Galliarum rex Caroli octavi pater eius, qui regnum Neapolita-
num his ipsis vexavit annis, in fratrem etiam suum crassatus est, atque haud mul-
to post Ludovicus Maria in Galeacii fratris filium, quo ipse ducatu Mediolanen-
si liber ac solus poteretur. [Seguiva: Caesar Borgia, Alexandri VI pontificis maxi-
mi filius, fratrem suum noctu scortabundum confecit, eumque multis confossum
vulneribus abiecit in Tiberim, ut solus in aula regnaret pontificis]»: ed. cit., p. 14.
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70 MAURO DE NICHILO
cod. Vat. lat. 2839, il brano è al f. 385v con qualche variante nel testo d’impianto;
per intero omesso nel cod. Barb. lat. 338 (f. 186v), apografo di mano ignota, è ri-
pristinato, nella lezione della stampa, di pugno del Summonte.
Cap. 04 De Nichilo 49-98 13-09-2002 12:57 Pagina 71
APPENDICE A
72 MAURO DE NICHILO
Galliam missis, per eos Caroli animum sollicitare, multa polliceri, ut re-
gnum ab Alfonso maiore occupatum repetat, illi omnia in promptu esse, o-
pes, exercitum, tormenta et, quod praecipuum esset, Alfonsum ipsum im-
paratum, sociis atque principibus ob superbiam et avaritiam iuxta invisum,
tantummodo incepto opus esse, cetera deos pro iustiore stantes causa ge-
sturos. At Carolus iam antea repetendi regni cupidus, ubi intelligit Alexan-
drum quoque ocii pacisque hostem sibi praesto affuturum, magis magisque
ad bellum accenditur. Putabat enim praeter pontificiam auctoritatem, qua A-
lexander plurimum valuit, facile se ex illius finibus in agrum campanum im-
petum facturum, inde Neapolim caput arcemque Regni petiturum. Ceterum
nobis satis compertum est Alexandrum, ut erat ingenio subdolo, his magis
fuisse usum pollicitationibus, quo Alfonsum metu Gallorum perterritum af-
finitate sibi adiungeret, quam odio permotum. Quam rem cum Alfonsus
praesensisset – praelongae enim regum aures ad exploranda sunt aliena
consilia –, non modo pontificem non audivit mollireque eius animum stu-
duit, verum, quod omnium malorum initium fuit, longe diversa animo vo-
lutans, moliri in dies ardua ac demum contra Maurum bellum coepit. Hinc
enim prima animorum irritatio est orta57.
74 MAURO DE NICHILO
solitus fuerat. Hinc paucis diebus post vi morbi sensim irrepente Zizymus
Neapoli moritur58.
pp. 63 e s.
Cap. 04 De Nichilo 49-98 13-09-2002 12:57 Pagina 75
76 MAURO DE NICHILO
tuo referri duci. Dicito meorum me laborum nunc maximum cepisse fruc-
tum meque vehementer gaudere tanti et a pontifice et a filio fieri meam vi-
tam, ut meam mortem magno emere videantur xxx millibus aureorum in-
terfectori destinatis; verum, bone tubicen, haec vicissim tuo referas impe-
ratori velim: securus mei dormiat, neminem metuat, nullos percussores; e-
go enim ne xxx quidem obolos in eius vitam extinguendam erogarem».
Hinc Liviani nomen mirum in modum clarescere coepit ac plurimi fieri.
rit, veneno prodigiose periisse et, qui tantum in filiis propagandis atque ex-
tollendis elaboraverit, eius omnem prolem uno fortunae haustu absorptam
funditus occidisse, usque adeo ut ex tanta sobole et familia, ex tot thalamis
et spe tanta nepotum, nullus hodie sit superstes, praeter Goffredum Scylla-
ceum principem, quem rerum humanarum pertesum paternisque moribus e-
rubescentem anachoretam factum ultimo in Brutiorum angulo adhuc vivere
aiunt omnino aspectus hominum et oculos aversatum. Agite, in tantis lucti-
bus paulisper rideamus amaris dulcia commiscentes. Ceperat Valentinus
dux Catarinae Sfortiadis, Foroliviensium dominae ferocis ac facinorosae fe-
minae, filium captumque ad arcem, quam mater praesidio tenebat, propius
admoverat dominae minitans, nisi arcem subito dedat, fore ut in oculis ma-
tris filius obtruncaretur. Tum virago, ut erat animo elatissimo, ab arcis spe-
cula ridiculum dedit responsum; simul contractis ad umbilicum vestis, ge-
nitalia aperiens: «En – inquit –, Valentine, materia, en forma gignendorum
liberorum; si meum istum necaveris nunc filium, tot me a viris comprimi
curabo, ut facile stirpem virilem reparavero, tuas iniurias ulturam». Com-
plura imperiosae feminae viriliter facta et libere dicta narrantur, praesertim
in fratrum opprobria. Cum Ludovicus Maurus et Ascanius fratres nimis
prostitutae pudicitiae illam coarguissent, argute dedecus obiectum veluti pi-
lam retorsit: se, quod esset mulieris proprium, naturae imperio decenter
suum obire munus, ipsos vero adversos et aversos nimis impudenter mulie-
bria pati, immodicis abutentes fortunis; nefandae turpitudinis complures es-
se testes, alumnos et exoletos divitiis et honoribus indigne donatos, quos ae-
tatis flos non virtus ulla conciliasset. Ceterum Alexander, utpote hispanus,
genus hominum in primis mulierosum mulieribusque addictum, licet mul-
tas aleret concubinas, ex romana praecipue quattuor sustulit liberos, quo-
rum Candiensem ducem mirifice pater amabat. At Caesar invidia fervens
nec suis quidem parcens, fratrem noctu per urbem iuveniliter vagantem ex-
cipit, interficit atque in Tiberim proicit; eodem autem momento proba mu-
lier apud Lucretiam sororem domi assidens, subito correpta furore Sibyllae
more divinitus afflatae exclamavit: «Heu, domina, heu daemonas video fa-
cibus armatos tartareis tuumque fratrem cruentum ad Orcum certatim
trahentes!». Quo monstro attonita, Lucretia illico patrem adiit certioremque
novi prodigii fecit; tum pontifex totam cum noctem frustra filium quaesis-
set, postridie missis per amnem piscatoribus tandem multis confossum vul-
neribus comperit. Audi, lector, reliquos tragoediae actus ac detestare. Fi-
liam Lucretiam specie insignem Alfonso, Alfonsi regis iunioris filio, om-
nium pulcherrimo adolescenti, in matrimonium dederat, Goffredum vero fi-
lium natu minimum filiae Alfonsi venustissimae similiter duplici connubio
iunxerat. Dum novi Caligulae omnia tragica licentia inter se impune misce-
rent mutuisque fruerentur libidinibus, dum Caesar modo fratris uxorem,
modo germanam amplecteretur, pater autem modo natam modo nurum in-
terdumque inter utramque recubans lusitaret, ex nefandis exsecrandisque
Cap. 04 De Nichilo 49-98 13-09-2002 12:57 Pagina 78
78 MAURO DE NICHILO
59 Si tratta del primo distico dell’epigramma In Pontifices del Borgia, per cui
vd. Appendice B 3. Ma il distico con l’inversione dei due emistichi del pentametro
è presente anche nel cod. Vat. lat. 9948, f. 133v preceduto dalle iniziali «An. Fl.»
(sciolte nel catalogo dei Codices Vaticani Latini 9852-10300, a cura di M. VATTAS-
SO-E. CARUSI, Roma 1914, in An<tonius> Fl<aminius>), cui un’altra mano fece se-
guire «potius Sannazarii», e come tale pubblicato da A. ALTAMURA, La tradizione
manoscritta dei «Carmina» del Sannazaro, Napoli 1957, p. 87.
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lum non infame nemus circa Romam tunc erat, praesertim Algidum, Veli-
ternum, Bacchanum, tunc vere iterum Romae asylum Hispanis, Corsis ce-
terisque aliis latronibus diu apertum patuit. Id quod Sincerus aetatis nostrae
poeta nobilissimus eleganter ut omnia expressit:
Pollicitus cursum romanus ad astra sacerdos,
per scelera et caedes ad Styg[i]a pandit iter60.
Enim vero, bellua illa multiplici orbem lacerante, omnes pii, omnes bo-
ni de Deo impie sentire coeperant, aut Deum nihil humana curare aut nimis
sero ultricem iram differre obloquentes. Eum tandem excandescentem in
pontificis scelera sensimus, haudquaquam ob merita poenas dignas immit-
tentem. Dum enim voluptatum pater aestate media, ipso divi Petri festo,
caelo sereno, post prandium inter nurum filiamque nudus lecto in geniali a-
moribus frueretur, Iuppiter subita caelum caligine contristavit terribilique
tempestate effusa ipsum pontificem lusitantem caput et manum fulmine tac-
tum paene exanimavit. Qua ruina Caesar filius etiam obrutus ac saucius vix
evasit. Apud domum quoque Valentini ducis dulci fortuna ebrii monstrum
tale in Flaminia est ortum et Romam deportatum et in deliciis a quodam
eius familiari habitum. Canis erat niger, cutem Aethiopis mollem habens,
manibus pedibusque humanis, facie quoque humana simiae simillima, ocu-
lis vegetis et ardentibus, voce puerili et querula; compertum est ex catella et
Aethiopis coitu fuisse genitum et ambo ipsius erant Valentini. Quod quidem
monstrum caninam ipsius domini vitam referre videbatur, carnibus autem
paneque et ovis vescebatur, nec unquam humi fusus sed alte in extructa
mensa aliter inedia confici maluisset. Vixit tamen annum.
5
Altre imprese e misfatti del Valentino
80 MAURO DE NICHILO
6
Morte di Alessandro VI
63 M ha quos.
Cap. 04 De Nichilo 49-98 13-09-2002 12:57 Pagina 82
82 MAURO DE NICHILO
dira consilia volventem mors inopina idibus Augusti64 rapuit. Alexandri qui-
dem mors eo fuit omnibus bonis gratior, quo iustiore Dei iudicio missa palam
apparuit. Quippe cum in hortis amoenissimis apud Hadrianum cardinalem in-
ter suum Valentinum et aliquot optimates, quos veneno tollendos destinave-
rat, laute cenaret, Tisiphone ultrice dispensante feliciter pincerna erravit:
quod enim vinum letiferum conviviis miseris erat clam comparatum, ipsi e-
tiam pontifici et filio potandum dedit. Nec prius errorem pincernae animad-
vertit pontifex, quam sua torqueri viscera sensit; protinus exitiali errore co-
gnito mensam reliquit simulque filium admonuit, ut tuendae salutis curam su-
sciperet, quam praesentissimo expositam veneno consciret. Nec ita multo
post Alexander veneno prodigiose interiit, qui fatale reipublicae christianae
venenum extiterat. Res ipsa monet, ut epitaphium ab nostro Sincero in illum
conditum propter ipsius elegantiam huic loco adscribamus, idest huismodi:
pidum in eius creatione dictum. Qui a paupere catenis onerato stipem sic
posceretur: «Da, domine amplissime, aliquid quo miserias levem mihi ex
manibus catalanorum praedonum elapso», apposite respondit: «Mendice
homo, tecum meliore quidem sorte auctum est quam nobiscum; tu enim e-
vasisti, nos incidimus in Catalanorum manus».
84 MAURO DE NICHILO
APPENDICE B
66 Gli Epigrammi del Borgia, oltre 600, sono raccolti nel cod. Barb. lat. 1903
86 MAURO DE NICHILO
In eundem
(B, f. 26v)
In Pontifices
(B, f. 27r)
Aliud
(B, f. 27v)
88 MAURO DE NICHILO
Aliud
(B, f. 27bisv)
APPENDICE C
I 14
90 MAURO DE NICHILO
I 15
Ad eundem dum ab Ursinis premeretur
(V, ff. 68v-69v, 105r-106r)
I 22
De pace post Alexandri Sexti mortem
(V, f. 70v)
realtà il titolo recita De pace post Sixti mortem, e nel testo Sextus è Sixtus. L’epi-
gramma era stato composto evidentemente nel 1484 alla morte di Sisto IV e solo in
un secondo momento adattato per Alessandro VI; questo poté avvenire sia nel 1503,
alla morte del Borgia, sia più tardi in vista della pubblicazione, quando scrupoli re-
ligiosi indussero il Sannazaro a concentrare tutti gli epigrammi antipapapali contro
un unico bersaglio (cfr. GUALDO ROSA, A proposito degli epigrammi latini del San-
nazaro cit., pp. 90-93). Nella versione borgiana l’epigramma è anche in V1, f. 170r,
e nel Barb. lat. 1858, f. 183r (= B).
Cap. 04 De Nichilo 49-98 13-09-2002 12:57 Pagina 92
92 MAURO DE NICHILO
I 51
In Alexandrum VI Pont. Max.
(V, f. 75v)
I 51bis
(V, f. 75v)
I 52
In eundem
(V, f. 76r)
I 56
Ad Marinum Caracciolum
(V, ff. 76v-77v)
94 MAURO DE NICHILO
I 57
I 58
De Caesare Borgia
(V, ff. 77v, 106r)
I 58bis
(V, f. 106r)
I 59
Ad eundem
(V, f. 77v, 106r)
I 62
II 4
In Lucretiam de Alexandro Sexto
(V, f. 83r)
lat. 453, f. 48v, registra invece la variante captabas captabas per vincebas sperabas.
82 Et, nell’esametro, è aggiunto nell’interlinea. Il distico è tradito anche da V1, f.
172v, e da B, f. 183r. È citato con qualche variante dal Borgia (vd. Appendice A 4).
83 È presente anche in B, f. 183v.
Cap. 04 De Nichilo 49-98 13-09-2002 12:57 Pagina 96
96 MAURO DE NICHILO
II 4bis
(V, f. 83r)
Et natum et natam Sextus generumque nurumque
Paedicat, lingit, irrumat et futuit84.
II 27
De Alexandro VI pontifice maximo
(V, f. 87r)
Bello, inimicitiis furtisque et caedibus haustam
Italiam cernis, Sexte, et obire potes? 85
II 28
De eodem
(V, f. 87r)
Dic, in amicitiam coeant et foedera iungant
Mortales. Dixit Sextus et occubuit86.
II 29
(V, f. 87rv)
Epitaphium eiusdem
Fortasse nescis cuius hic tumulus siet.
Adsta, viator, ni piget.
Titulum, quem Alexandri vides, haud illius
Magni est, sed huius qui modo
Libidinosa sanguinis captus siti 5
Tot civitates inclytas,
Tot regna vertit, tot duces letho dedit,
Natos ut impleret suos.
Orbem rapinis, ferro et igne funditus
Vastavit, hausit, eruit. 10
Humana iura nec minus coelestia
Ipsosque substulit deos,
II 30
De eodem
(V, f. 87v)
Mirum, si vomuit nigrum post fata cruorem
Borgia? Quem biberat, concoquere non potuit88.
II 31
De eodem
(V, f. 87v)
Nomen Alexandri ne te fortasse moretur,
Hospes? Abi. Iacet hic et scelus et vitium89.
87 Già edito in Poeti latini del Quattrocento, a cura di F. ARNALDI-L. GUALDO RO-
SA-L. MONTI SABIA, Milano-Napoli 1964, p. 1158 (dove la lezione impleat per imple-
ret al v. 8 discende dalla stampa olandese del 1728, che così correggeva l’errore im-
plet dell’Aldina; ma impleat è lezione attestata anche da B, ff. 183v-184r). Oltre che
da V e da B l’epigramma è tramandato da V1, f. 173v (che condivide con B e con l’Al-
dina l’errore praesidet per praesedit al v. 18), e adespoto dal Reg. lat. 453, f. 48v (che
scrive illum per illius al v. 3, tot regna tot claros duces per tot regna vertit tot duces al
v. 7, in sinu commingere [ALTAMURA, La tradizione manoscritta cit., p. 77, legge co-
niungere] per sinum permingere al v. 14; commingere è lezione anche del Borgia, per
cui v. nota 65). Sul f. 48 del cod. Reginense si leggono adespoti quattro carmi anti-
borgiani; il secondo e il terzo sono facilmente identificabili con gli epigrammi II 29 e
I 59 del Sannazaro, il primo e il quarto (altri due epitaphia) restano invece senza at-
tribuzione. L’Altamura tuttavia, che non fa altresì alcuna menzione del quarto (v. La
tradizione manoscritta cit., p. 48), riconosce anche il primo come sannazariano e lo
pubblica tra gli inediti a p. 87.
88 Anche in V1, f. 173v (che scrive per errore vomit), e in B, f. 184r. Il penta-
98 MAURO DE NICHILO
II 31bis
II 70
In Borgiam
(V, f. 99v)
Le due redazioni (quella finale è anche in V1, f. 174v, e in B, f. 184v) erano già
state riprodotte in GUALDO ROSA, A proposito degli epigrammi latini cit., p. 92. U-
na redazione inesistente, che mescola il primo verso dell’epigramma per Leone X
con i restanti della versione per Alessandro VI, aveva invece pubblicato ALTAMURA,
La tradizione manoscritta cit., p. 86.
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ERMINIA IRACE
* Ringrazio Carla Frova per aver letto e discusso con me questo contributo.
1 La lettera è edita in G.B. VERMIGLIOLI, Memorie di Jacopo Antiquari e de-
gli studi di amena letteratura esercitati in Perugia nel secolo decimoquinto. Con
un’appendice di monumenti, Perugia 1813, pp. 431-432. Per la biografia dei due
personaggi cfr. ID., Memorie per servire alla vita di Francesco Maturanzio orato-
re e poeta perugino, Perugia 1807; G. ZAPPACOSTA, Francesco Maturanzio umani-
sta perugino, Bergamo 1970; nonché la voce Antiquari Iacopo, a cura di E. BIGI,
in DBI, 3, Roma 1961, pp. 470-472. Nella corrispondenza inviata a Maturanzio e
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ad altri corrispondenti (ad esempio al perugino Giovan Maria Vibi) Antiquari tornò
più volte sulla necessità di lasciare testimonianza con la scrittura degli avvenimen-
ti contemporanei e trattò, sia pure brevemente, dei criteri della historia umanistica:
Epistolae eruditissimi atque optimi viri Iacobi Antiquarii Perusini, Perusiae 1519,
I, epistole 23-27 (la raccolta fu edita postuma a cura di Vibi). Per i molteplici le-
gami che univano Antiquari al circuito degli umanisti italiani si veda altresì l’In-
troduzione a IACOPO AMMANNATI PICCOLOMINI, Lettere (1444-1479), a cura di P.
CHERUBINI, I, Roma 1997, in particolare pp. 5-7 e 72-74.
2 Se non si tratta di una cifra simbolica per indicare genericamente il passato
remoto, l’indicazione dei duecento anni rinvia all’inizio del XIV secolo, epoca del-
l’instaurazione a Perugia del Comune delle Arti, ossia l’ordinamento istituzionale
ancora formalmente vigente al tempo dello scrivente (sebbene la città nel 1424 a-
vesse concluso i capitoli di sottomissione con papa Martino V).
3 Nel 1488 Maturanzio aveva accettato di trasferirsi a Vicenza, dove era stato
dremo più avanti), una cronaca in volgare intorno alla storia recente della
sua patria cittadina. Ad ogni modo, attraverso la strategia del detto, del non
detto e del mezzo detto, la lettera maturanziana lasciava trasparire il disa-
gio dello scrivente posto a confronto con la questione della messa per i-
scritto della storia e in particolare della storia contemporanea. Un atteggia-
mento non troppo dissimile si rintraccia in altre due lettere, composte in-
torno al 1492 da un altro umanista, il segretario papale Sigismondo dei
Conti e indirizzate anch’esse ad Antiquari: una coincidenza, questa, forse
non casuale, giacché Antiquari rappresentò a lungo una figura centrale nel
fitto reticolo epistolare che tra Quattro e Cinquecento collegava ambienti u-
manisti diversi per appartenenza geografica e statuale quali i gruppi vene-
to, fiorentino ed anche romano4. Nella prima di tali lettere (forse di qual-
che anno precedente il 1492) Conti, alle prese con la stesura delle Histo-
riae sui temporis, manifestava il proprio timore circa le possibili reazioni
dei lettori e pregava pertanto Antiquari di esaminare attentamente la parte
del testo già completata e di passarla in seguito alla lettura di Giacomo
Gherardi, il Volterrano, e di Francesco Puteolano, essendo questi tre gli u-
nici di cui Sigismondo aveva totale fiducia. Nella seconda lettera (del 5 di-
cembre 1492) Conti dichiarava di essere alfine arrivato a raccontare della
morte di Innocenzo VIII – dunque al luglio dello stesso anno – e di spera-
re di portare avanti il racconto sempre che gli fosse riuscito di rispettare il
principio fondamentale dello scrivere di storia: «Historiam in obitum In-
nocentii perduxi; annectam in praesentia et futura, si mihi prima illa lege
uti licebit, ne quid falsi dicere audeam, ne quid veri non audeam». Le epi-
stole appena ricordate costituiscono altrettante testimonianze – relative al
circuito di rapporti interpersonali che legava l’area pontificia alla milanese
– del disagio via via crescente tra XV e XVI secolo percepito da quanti ri-
flettevano sulle specificità e sui limiti della pratica storiografica. Le regole
della scrittura umanistica della storia inducevano ad occuparsi con partico-
lare sollecitudine dell’età contemporanea, su imitazione degli scrittori clas-
sici; a scegliere per oggetti di analisi in specie le vicende belliche e politi-
che, quelle più di altre degne di essere tramandate al ricordo dei posteri; a
scrivere secondo le indicazioni canoniche riguardanti la costruzione del di-
scorso, la ricerca delle cause, la presentazione dei caratteri dei protagoni-
sti, diffusamente note e ricapitolate in trattati quali infine l’Actius di Pon-
4 Cfr. Notizie sulla vita e sulle opere di Sigismondo de’ Conti, premesse a SI-
GISMONDO DEI CONTI DA FOLIGNO, Le storie de’ suoi tempi dal 1475 al 1510. Ora la
prima volta pubblicate nel testo latino con la versione italiana a fronte, I, Roma-Fi-
renze 1883, pp. XXIX-XXX (le due lettere sono menzionate a p. XXIX, nota 45).
Circa la complessa vicenda dell’edizione del testo di Conti cfr. C. DIONISOTTI, Pre-
messa a Sigismondo dei Conti, ora in DIONISOTTI, Ricordi della scuola italiana, Ro-
ma 1998, pp. 251-262.
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taliana, tanto nelle produzioni della maggiore storiografia quanto nella cro-
nachistica locale6.
Le ricerche, ormai numerose, dedicate al tema hanno articolato in tre
tappe la scansione di tale crisi. Inizialmente (anni 1494 e 1495) storici e
cronisti assistettero con sorpresa alla discesa del re di Francia e ai conse-
guenti turbamenti istituzionali della penisola. Ne derivò che, per lo più sen-
za comprendere pienamente la portata degli accadimenti, essi lavorarono
accumulando particolari su particolari, come se questi da soli fossero suffi-
cienti a rendere il clima politico di quei momenti: esempi di tale comporta-
mento si riscontrano negli scritti di Bernardino Corio, Sigismondo dei Con-
ti e dei cronisti napoletani. In seguito (dopo il 1499) con la seconda calata
dei Francesi e, nel 1501, con l’arrivo degli Spagnoli, cominciò ad esser
chiaro che la fase iniziata nel 1494 non rappresentava una mera parentesi
ma aveva aperto un nuovo ciclo nelle vicende degli stati italiani e nei loro
rapporti con le altre monarchie europee. Una caratteristica di questa secon-
da tappa fu la ricerca delle responsabilità politiche che avevano condotto al-
le «calamità d’Italia», le quali furono volta a volta scaricate sull’uno o sul-
l’altro dei protagonisti – il Moro, Piero dei Medici, Alessandro VI: rappre-
sentano tale tendenza il De bello italico di Bernardo Rucellai e più in ge-
nerale la memorialistica redatta a Firenze, la città toccata più da vicino dai
sommovimenti della «rivolutione» (la definizione fu coniata da Piero Pa-
renti). La terza e ultima tappa si inaugurò a partire dagli anni venti e trenta
del Cinquecento: fu l’età delle elaborazioni maggiori – Machiavelli, Gio-
vio, Guicciardini – nelle quali i canoni umanistici dello ‘scrivere storia’ fu-
rono posti al servizio della ricostruzione del contesto generale della politi-
ca internazionale che aveva provocato la cesura del 1494. Ma prima che
l’ultima tappa sancisse l’interpretazione ‘definitiva’ della svolta realizzata-
si tra i due secoli, una parte cospicua degli estensori della memorialistica
cittadina, nelle città capitali allo stesso modo che nelle aree provinciali, subì
con forza e lungamente l’impatto di quanto si andava verificando, venendo
colta completamente impreparata dalla portata di accadimenti che sovverti-
6 Oltre alle opere di Gilbert e di Cochrane citate alla nota precedente cfr. A. DENIS,
Charles VIII et les Italiens: Histoire et Myhte, Genève 1979; G. SOLDI RONDININI, Lu-
dovico il Moro nella storiografia coeva e Spunti per un’interpretazione della Storia di
Milano di Bernardino Corio, entrambi in EAD., Saggi di storia e storiografia visconteo-
sforzesche, Bologna 1984, pp. 159-203 e 205-220; M. DE NICHILO, Un plagio annun-
ciato: Girolamo Borgia e il «De bello italico» di Bernardo Rucellai, in La memoria e
la città. Scritture storiche tra Medioevo ed Età Moderna, a cura di C. BASTIA-M. BO-
LOGNANI, responsabile culturale F. PEZZAROSSA, Bologna 1995, pp. 331-360; P. MAR-
GAROLI, «Traitres Lombardi»: the expedition of Charles VIII in the Lombard sources up
to the mid-sixteenth century, in The French Descent into Renaissance Italy, 1494-95.
Antecedents and Effects, edited by D. ABULAFIA, Aldershot 1995, pp. 371-389.
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famiglia guidava anzi una delle due fazioni che dominavano la vita politica
di Todi; nel 1495, allorché iniziò la redazione del suo manoscritto, egli ri-
copriva la carica di cancelliere del comune9. Francesco Mugnoni e Tom-
maso di Silvestro erano notai. Tuttavia, mentre Tommaso scrisse senza
muoversi da Orvieto, gli incarichi amministrativi itineranti che Mugnoni e-
sercitò nel corso degli anni come cancelliere e come podestà lo misero in
contatto con varie realtà territoriali toscane e pontificie10, contribuendo in
misura determinante alla crescita dell’interesse nei confronti della realtà
politica e alla prosecuzione della già avviata pratica di registrazione me-
morialistica.
Ho lasciato per ultima la presentazione della cronaca di Francesco Ma-
turanzio, la più importante tra quelle qui considerate: il testo, e il mano-
scritto, che ci sono oggi noti presentano infatti una serie di questioni relati-
ve alla cronologia compositiva dell’opera sulle quali merita conto soffer-
marsi, data la loro rilevanza all’interno del discorso che stiamo conducen-
do. La cronaca è conservata in un codice di mano di Maturanzio, custodito
presso la Biblioteca Comunale di Perugia (ms. I 109) 11. Il testo si presenta
mutilo della parte iniziale; di questa lacuna, un breve brano è ricostruibile
sulla base di una copia dell’opera eseguita in età moderna. Tale brano, do-
po aver raccontato delle opere di Colomba da Rieti, passa a riferire della
creazione di papa Alessandro «del quale parlavano scritture e profezie» (un
il contenuto di due carte (quindi in origine le cc. 17 e 18) è tràdito da una copia set-
tecentesca della cronaca (Perugia, Biblioteca Comunale Augusta, ms. 3217, cc. 2r-
3v). Secondo Ariodante Fabretti, l’ottocentesco editore della cronaca, il testo sareb-
be mutilo pure della parte finale, ma ciò potrebbe non essere vero, giacché la narra-
zione si arresta con la riconquista di Perugia da parte di Giampaolo Baglioni, subi-
to dopo la morte di papa Alessandro. Questo potrebbe essere il termine voluto, non
lacunoso, dell’opera. Per la citazione che segue cfr. MATURANZIO, Cronaca della
città di Perugia cit., pp. 3-4.
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Il brano, che diede molto filo da torcere agli studiosi ottocenteschi del-
la cronaca13, fornisce numerose informazioni. In primo luogo, costituisce la
di un altro, Francesco Matarazzo (che era il nome autentico, non latinizzato, del no-
stro). Appariva strano, infatti, che un dotto umanista avesse scritto una cronaca a-
doperando il volgare municipale e senza praticamente far riferimento al proprio ruo-
lo di testimone diretto di molti dei fatti narrati. Gli editori ottocenteschi (Bonaini,
Fabretti e Polidori) preferirono attribuire il testo a un Matarazzo omonimo dell’u-
manista ma diverso da lui, che sarebbe stato l’espressione della percezione ‘popola-
re’, cittadinesca, estranea insomma ai palazzi del potere, degli eventi accaduti tra
Quattro e Cinquecento. Cfr. E. IRACE, Medioevo risorgimentale. Ariodante Fabretti
storico dell’età dei comuni, «Annali della Facoltà di Lettere e filosofia dell’Univer-
sità degli studi di Perugia, 2, Studi storico-antropologici», 33 (1995-1996), pp. 107-
132. Correntemente ora si ritiene che l’umanista Maturanzio, autore-scrivente della
cronaca, faccia riferimento a se stesso in due soli passi (cfr. ms. I 109, cc. 124r e
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249r; pp. 107 e 200 dell’edizione), qualificandosi come «me ser Francesco Mata-
razzo» (fu anche per via dell’errata lettura di questi riferimenti, interpretati in en-
trambi i casi come «meser Francesco Matarazzo» che nel secolo XIX si corroborò
la convinzione che l’autore della cronaca non fosse l’umanista Maturanzio).
14 Cfr. C. BLACK, The Baglioni as Tyrants of Perugia, 1488-1540, «The English
15 Cfr., per quanto segue, VERMIGLIOLI, Memorie per servire cit., pp. 68-71, e
16 La parola «istoria» gli scappò dalla penna una sola volta nel manoscritto defi-
nitivo (ms. I 109, c. 236r), nel passo: «per dire appieno la mia istoria, scripse quanto
havete lecto et inteso di sopra». Ma subito lo scrivente si pentì e corresse: «per dire
appieno la mia opera, scripse quanto havete lecto et inteso di sopra». In un altro pun-
to, l’autore definisce il suo prodotto come «mio liberculetto» (p. 37 dell’edizione).
17 Ad esempio alle pp. 37, 62-63, 69, 78 dell’edizione.
18 Cfr. pp. 111, 123, 167 dell’edizione.
19 Il manoscritto che possediamo non appare aver avuto circolazione prima del-
la metà del Cinquecento: non ne esistono copie coeve, mentre risulta noto agli eru-
diti della seconda parte del XVI secolo. Nel testo, va detto, ricorrono continuamen-
te appelli a un pubblico di lettori e addirittura ascoltatori («Forse tu lettore et audi-
tore ti meraviglie del parlare mio troppo affectionato»; «commo oderete e contata
ve fia»; «commo io ve ho ditto»), che potrebbero tuttavia costituire un artificio let-
terario. Il cronista sembra aver scritto per sé e forse per una comunità ristretta di a-
mici, come lui esasperati dalle fazioni e dalla non sufficiente attenzione dei ponte-
fici nei riguardi della pacificazione del territorio ecclesiastico, un atteggiamento che
spiega gran parte dell’acredine riversata dall’autore sulla figura di papa Borgia. Per
voluto contrasto, più volte torna nel testo il rimpianto della prima metà del Quattro-
cento, periodo tratteggiato come di accordo in seno al ceto dominante municipale e
tra questo e la dirigenza pontificia.
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turale per scrivere una historia come da canoni umanistici, Maturanzio scel-
se volutamente di redigere una cronaca in volgare, apparentata peraltro in
alcuni punti al genere della novellistica20. Una scelta certo non scaturita da
motivi di prudenza politica (il testo riporta giudizi durissimi nei riguardi sia
dei Borgia sia del ceto dirigente perugino), ma forse esito obbligato delle
difficoltà che lo ‘scrivere storia’ umanistico comportava nei primi anni del-
le guerre d’Italia. Lo scrivente ebbe la consapevolezza che tra gli eventi mu-
nicipali, quelli del territorio pontificio e i fatti internazionali esisteva un
profondo intreccio; tuttavia – data la sua collocazione comunque periferica
e la mancanza di buone fonti di informazione – non era in grado di coglie-
re volta per volta le circostanze che legavano un evento all’altro. La strate-
gia discorsiva che egli scelse fu allora la giustapposizione in sequenza di
blocchi narrativi: un brano dedicato ai protagonisti internazionali delle vi-
cende (Francesi, Spagnoli), uno agli stati italiani (Milano, Napoli, Venezia,
Firenze), le mosse del pontefice – e, da un certo punto in poi, del Valentino
–, infine gli eventi locali: umbri in primo luogo, ma pure marchigiani, la-
ziali e ovviamente romagnoli. Il passaggio da un blocco all’altro fu effet-
tuato per il tramite di pericopi di collegamento, alcune delle quali, più ge-
neriche, servivano semplicemente a connettere tra loro brani posti in suc-
cessione («et ancora voglio sappiate», «et per non essere nel mio araccon-
tare troppo lungo e prolisso»), altre invece rivelavano l’attenzione posta
dallo scrivente al rispetto, per quanto possibile, della cronologia degli e-
venti e pertanto tradivano l’impostazione caratteristica dei quadri organiz-
zativi della cronachistica, che contemplava la coincidenza tra l’ordine del
discorso e l’ordo temporum: «et tornando al nostro proposito», «però in-
tendo alquanto tornare indrieto e recontarve alcun’altra cosa occursa in Ita-
lia in questo tempo», e così via. Questi tipi di sequenza traducevano nella
trama del narrato la molteplicità dei piani che si intersecavano, ovviando in
qualche modo alla mancata intelligenza delle cause generali e specifiche.
Quelle cause che sarebbero al contrario dovute figurare in primo piano se
la forma scelta fosse rientrata nel genere della storiografia umanistica.
20 Come nel caso del racconto del comportamento immorale di Lucrezia Bor-
gia, definita «la maggiore puttana di Roma […] Onde so’ satisfatto d’averne ditta ta-
le gintilezza, benché l’abbia raccontata cum brevità, ma serà bona per metterla de le
Centonovelle» (p. 73 dell’edizione).
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Filippo II, II, Torino 1986, p. 845; cfr. pure P. PARTNER, Il dio degli eserciti. Islam e
cristianesimo: le guerre sante, Torino 1997, pp. 141-177. Sulla menzione dei Tur-
chi nella letteratura profetica posteriore al 1453 cfr. R. RUSCONI, Profezia e profeti
alla fine del Medioevo, Roma 1999, pp. 187-209.
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Nei testi che abbiamo scelto come filo conduttore sono presenti tre ti-
pi di atteggiamento che esemplificano altrettante reazioni che connotarono
la storiografia e la cronachistica dell’Italia del tempo: l’incomprensione to-
tale, la presa di coscienza maturata soltanto a partire dal 1499, infine la let-
tura dei fatti nella chiave del profetismo di sciagure. Il primo atteggiamen-
to si riscontra nella cronaca todina di Gioan Fabrizio degli Atti, il quale per
la sua collocazione sociale e politica avrebbe avuto molte possibilità di le-
garsi a circuiti di informazione extralocali. Egli, al lavoro dal 1495 e per-
tanto in piena calata di Carlo VIII, iniziò trascrivendo nel proprio codice tre
testi – due cronache in latino, una cronaca podestarile trecentesca in volga-
re24 – che consentivano la ricostruzione per sommi capi della storia muni-
cipale a partire dalla fondazione della città e fino al 1322. La presentazione
generale dell’opera, posta a c. 2r del manoscritto25, rimandava alle motiva-
zioni che avevano guidato l’allestimento del codice, le quali andavano ri-
condotte alla preoccupazione dello scrivente nei confronti dei problemi in-
terni della sua patria e alla condizione di decadenza che essa al presente sta-
va vivendo. Arrivato, con la terza trascrizione, all’anno 1322 e non repe-
rendo altri testi per il periodo successivo, degli Atti inserì la cronaca di cui
egli stesso era l’autore e che prendeva le mosse dall’anno 146126. Come ab-
biamo accennato, la famiglia degli Atti era la capofila di una delle fazioni
cittadine; Gioan Fabrizio, tuttavia, non si riconosceva nel comportamento
politico dei propri parenti, che più volte stigmatizzò nel corso della propria
Tudertine civitatis e di una Cronicha dal 1155 al 1322: questi testi sono descritti,
commentati e editi in Le cronache di Todi cit.
25 «Per universale intelligentia et per adcomodare più a la verità el mio scri-
vare de le cose occurse, de le quale in questo presente volume, farò mentione vul-
garmente de le moderne dopo le antique croniche, ricolte da me Iohanfabritio de
meser Pietro de meser Honofrio Ufredutio de Atti da Tode in varii lochi, dal fun-
damento de la magnifica ciptà de Tode fine al presente dì, in latino et vulgare, non
continuatamente, ma secondo ho trovata memoria digna de fede: a la quale refe-
rendome ho sequitato lo stile, quantunqua non senza dispiacere grande et lacrimo-
si occhi per la mia filiare karità, actendendo un tanto egregio et magnifico populo
de la mia Republica, de stato, de signoria, de nobilità, de virtù et séquito, quale se
allega, honorato, in tanta declinatione abducto sia. Né per questo mancharò exhor-
tare et astrengere sotto l’obligho patriote ciaschuno fidel suo ciptadino amare la
prefata sua Republica et diponare ogni altra passione et voluntà»: ibid., p. 132.
26 «Cronica de la ciptà de Tode, principiata MCCCCLX [ma di fatto le note ini-
ziano dal 1461], brevemente recitata imparte da homini degni de fede de loro etade
et da me scriptore imparte de nostra etade medeximamente scripta et composta et ad
più notitia adfirmata»: ibid., p. 173 (c. 49r del codice).
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27 Si tratta delle cc. 57r-58r, cui segue una serie di carte lasciate in bianco, e
poi delle cc. 71r-72v (pp. 176-178 dell’edizione).
28 Cfr. p. 184 e seguenti dell’edizione; per le citazioni che seguono si vedano
zione. La citazione successiva, completa, suona: «Et parve che fusse volontà di Dio
che lo decto re de Francia havesse et optenesse tucta Ytalia et lo reame de Napole
quasi admodum senza colpo de spada, venendo la sua sacra corona da Francia ver-
so Ytalia et intrando Ytalia et segnoregiandola et non avendo alcuno appoghio et da
puoi andandose verso Napole et pigliandola. Fu cosa maravigliosa et credibile che
fusse volontà di Dio»: ibid., p. 33.
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30Ibid., p. 100.
31Così, nel 1508, lo scrivente procedette a fare nuovamente il punto della si-
tuazione, prendendo le mosse dalla diffusione della moda dei vestiti «alla francio-
sa»: «Et tutte queste cose sonno state facte da poi che incomenzaro ad passare li
franciosi et venire in Italia, et quando passò lo re di Francia verso Bolseno et andò
a Roma et da poi ad Napole, che fu del 1494 del mese di dicembre [in effetti, Car-
lo entrò a Roma il 31 dicembre 1494, per poi passare a Napoli nel febbraio 1495],
et da poi ritornò indirieto da Napole et venne pure ad Roma; et allora, in quel tem-
po, papa Alexandro papa sexto se partì de Roma et venne in Orvieto et andò in Pe-
roscia, et da puoi partendose da Peroscia alla passata del re de Francia che fece per
ritornare indrieto et andare in Francia, lo papa per non essere trovato in Roma re-
tornò qui in Orvieto, come già n’ò facta mentione qui nante nelli precedenti quin-
terni»: ibid., p. 361.
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serie di fogli volanti contenenti testi profetici che venivano alla sua cono-
scenza32. La cronaca orvietana appare, da questo punto in poi, dominata
dall’attenzione dello scrivente al dato anomalo, all’elemento prodigioso,
che tuttavia non costituiscono la traduzione di un atteggiamento forte di ri-
sposta nei confronti degli eventi, in grado di gestirne la portata, bensì rap-
presentano altrettanti momenti di smarrimento angosciato in relazione alle
‘novità’ che puntualmente venivano a presentarsi. Novità che se erano sta-
te inquadrate dal punto di vista politico nella percezione del cronista non
riuscivano a acquisire un senso di grado più generale.
Il ricorso agli avvertimenti profetici, assieme a un’interpretazione della
storia di tipo provvidenzialistico, è viceversa la chiave di lettura che domina
fin dall’inizio la cronaca di Francesco Mugnoni. Lo scrivente fu profonda-
mente influenzato dalle istanze di purificazione spirituale diffuse presso al-
cuni ambienti del francescanesimo, in specie nell’ambito dell’Osservanza,
con i quali egli era in rapporto e i cui esponenti vengono più volte ricordati
nel corso del testo, così come è ricorrente la menzione della predicazione dei
romiti itineranti33. Pur afferendo a filoni culturali differenti, le prediche dei
frati e dei romiti riprendevano temi classici del profetismo apocalittico che
sullo scorcio del XV secolo, come ha sottolineato Giovanni Miccoli, espri-
mevano, oltre che le inquietudini del tempo, il ripiegamento delle idee di
riforma primoquattrocentesche in un ambito ideale esclusivamente morale,
entro il quale (soprattutto nel caso dei romiti) ampio spazio assumeva la po-
lemica anticlericale, dunque l’attacco ai tradizionali vizi del clero quali l’a-
varizia, l’ipocrisia e il lusso34. Tale visione fortemente moralistica della storia
– che nell’area umbra esercitò un’influenza particolare per essere questa un
luogo di tradizionalmente intensa attività francescana – rappresentò il retro-
da Bernardino da Feltre (MUGNONI, Annali cit., pp. 102-105); narra altresì di avere
come padre spirituale un frate minore del convento trevano (pp. 122-123); per i rap-
porti con i membri dell’Osservanza cfr. ad esempio p. 136.
34 Cfr. G. MICCOLI, La storia religiosa, in Storia d’Italia, 2, Dalla caduta del-
l’Impero romano al secolo XVIII, I, Torino 1974, p. 967, e inoltre R. RUSCONI, Pre-
dicatori e predicazione (secoli IX-XVIII), in Storia d’Italia - Annali, 4, Intellettuali e
potere, a cura di C. VIVANTI, Torino 1981, in specie pp. 985-987; per tutta la que-
stione relativa alla circolazione degli scritti profetici, ID., Profezia e profeti cit., ma
pure Les textes prophétiques et la prophétie en Occident (XIIe-XVIe siècles), a cura di
A. VAUCHEZ, Rome 1990. Si veda inoltre Il rinnovamento del Francescanesimo.
L’Osservanza, (Atti dell’XI Convegno Internazionale, Assisi, ottobre 1983), Assisi
1985. Ma in generale, ed anche per notare le differenze con i temi che caratterizza-
vano gli ambienti fiorentini, si veda C. VASOLI, L’attesa della nuova èra in ambienti
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e gruppi fiorentini del Quattrocento, in L’attesa dell’età nuova nella spiritualità del-
la fine del Medioevo, (Convegni del Centro di studi sulla spiritualità medievale, III,
Todi, ottobre 1960), Todi 1962, pp. 370-432.
35 MUGNONI, Annali cit., p. 114, ma cfr. pure pp. 106-107, 118, 120.
36 La prima stoccata compare in occasione del passaggio per l’Umbria (giugno
1494) di Lucrezia Borgia, che si recava a Pesaro dal consorte Giovanni Sforza, ac-
compagnata da Giulia Farnese, «femena de papa Alexandro et toltala al marito […]
siché cusì vanno le cose de quisto mundo. Sepe Deus tollerat quos in perpetuum
damnat»: ibid., p. 143.
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ulteriore livore nel prosieguo degli anni. La discesa di re Carlo fu così in-
terpretata come inevitabile volontà divina, a punizione dei peccati degli uo-
mini: una lettura, questa, assai diffusa in Italia, attestata ad esempio nelle o-
pere di Girolamo Priuli e di Bernardino Corio37. La spiegazione in chiave
soprannaturale dell’evento politico fu resa possibile grazie al ricorso siste-
matico ai testi profetici, tra i quali principalmente figuravano gli scritti at-
tribuiti a santa Brigida e al beato Tommasuccio, la cui fortuna tardoquat-
trocentesca molto dovette all’attività dei predicatori38. Ma anche in questo
caso, come nella cronaca di Tommaso di Silvestro, la venuta dei Francesi
costituiva soltanto l’inaugurazione della stagione successiva, connotata dal
cumularsi di eventi catastrofici, che non sembravano conoscere fine per l’e-
normità dei peccati umani e la continua pravità del pontefice, responsabile
nello spirituale e nel temporale. Riportiamo un esempio di questo tipo di
lettura, ricordando che i testi del beato Tommasuccio comparvero anche in
scritti di rango certo non locale come ad esempio le Historiae di Sigismon-
do dei Conti :
Dubito che questo non duri insino al cento che finisce el curso de
novanta [ossia fino all’anno 1500]. Or que farimo? Dio, per tua
infinita misericordia sucurice ad noi, non guardare alli demeriti
nostri. Discese in quisto tempo del mese de septembre 1496 che
el re de Napoli, cacciato dal re de Francia col favore del papa A-
lexandro, apostolico falzo et non captolico, de Dio vero vicario,
et con favore de’ vinitiani et del duca de Milano ha recuperato
Napoli […] Credesi per li intendenti in sino in quisto jurno che a-
bia a durare questa rissa insino al cento39.
In Cesena caciate forono via parte che avìa lu stato et dato lu sta-
to ad quilli che non l’avìano; chi s’è fugito et chi non; […] in Ro-
magna guerra et in terra de Roma guerra contra el papa Alexan-
dro […] Ecco quanto bene ce governa papa Alexandro sexto: Pe-
non se disse più niente che cosa chiara fusse» [nei giorni che seguirono la
battaglia di Fornovo]; e in merito al Valentino in Romagna: «chi diciva una
cosa e chi un’altra» («incertibus omnibus quonam tenderet, trementibus ta-
men et paventibus populis», scrisse Sigismondo dei Conti riguardo alla
stessa impresa).
Gli eventi che caratterizzarono il pontificato borgiano segnarono la pre-
sa di coscienza della fine della centralità cittadina, di quell’ordinamento men-
tale prima ancora che istituzionale elaborato lungo i secoli comunali. La pe-
riferia pontificia (che solo con quei fatti si rese conto d’esser tale) fu proiet-
tata in una dimensione che la sovrastava per l’ampiezza degli orizzonti geo-
politici e forse pure per la diversità del modo di fare politica che sembrava ca-
ratterizzare il pontefice spagnolo: «Erat Alexander cuiusque rei tam egregius
simulator atque dissimulator ut ex eius verbis et vultu habitum animi nun-
quam deprehendere posses»45. In questa definizione, utilizzata da Sigismon-
do dei Conti dopo la strage di Senigallia, sembra quasi potersi cogliere l’av-
vento di un nuovo e ‘spagnolesco’ (come forse l’avrebbe chiamato Croce) pa-
radigma del comportamento politico. Un paradigma che Maturanzio, scri-
vendo qualche tempo dopo i fatti, tradusse: «Non se poteva sapere cum qua-
le possanza el papa avesse intelligenza e non se podde mai sapere e anco non
se cogniosce, perché ad ognuno mostrò voler essere in lega»; e più oltre, an-
cora con rimando all’abilità dissimulatoria: «Dicevano molti che el papa era
d’accordo cum la maestà de lo re de Ragona; molti dicevano che era d’ac-
cordo cum lo re di Francia, e non si poteva saper certo, né per favore che des-
se ad alcuno di loro, né per altre sperimento o opere». In questo panorama, la
via che fu battuta come uscita dallo sbandamento interpretativo che avrebbe
comportato la fine di ogni possibile messa per iscritto degli eventi, fu rappre-
sentata dal ricorso a tutte le fonti di informazione in grado di ragguagliare sul
dipanarsi dei fatti. Nei testi qui scelti come filo conduttore (non a caso scritti
da notai e cancellieri, costituzionalmente attenti a dar ragione delle proprie
fonti, come garanzia di veridicità del racconto), la narrazione è costruita tra-
mite l’utilizzazione costante e ininterrotta di formule quali «dicesi, dicevasi,
si seppe, venne nuova, venne novella, se disse molte novelle». Le formule di-
45 Ibid., p. 263 e, per le citazioni che seguono, MATURANZIO, Cronaca cit., pp.
12 e 18. Sul tema della simulazione, che Conti utilizza secondo un’accezione nega-
tiva, ma che nella trattatistica quattrocentesca sul principe aveva fatto la sua com-
parsa tra gli attributi necessari al buon esercizio di governo e alla conquista del con-
senso (specie nell’opera di Francesco Patrizi da Siena), cfr. F. GILBERT, Machiavel-
li e il suo tempo, Bologna 1977, pp. 171-208; M. PASTORE STOCCHI, Il pensiero po-
litico degli umanisti, in Storia delle idee politiche economiche e sociali, diretta da
L. FIRPO, III, Umanesimo e Rinascimento, Torino 1987, pp. 51-56; Q. SKINNER, Le
origini del pensiero politico moderno, I, Il Rinascimento, Bologna 1989, pp. 207-
244; M. SENELLART, Les arts de gouverner. Du regimen médiéval au concept de
gouvernement, Paris 1995, pp. 211-230.
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chiaravano che in quei punti specifici dei testi il racconto era costruito ado-
perando testimonianze orali da un lato, materiali scritti dall’altro, che veniva-
no sempre precisamente distinti46. «Fu ditto», mai poi «fu verificato per per-
sona che venne da Roma», scrive Mugnoni dando notizia della morte del du-
ca di Gandìa47; «vennero certe lectere da Fiorenza – inviate da Alberto Ma-
galotti, orvietano, commissario papale a Firenze – quale lectere fuoro lecte
qua in Orvieto», le quali annunciavano lo svolgimento della battaglia di For-
novo, racconta Tommaso di Silvestro. A Mugnoni, invece, lo scontro di For-
novo arrivò dapprima in forma di ‘novella’, subito registrata nella cronaca;
qualche giorno dopo, tuttavia, lo scrivente tornò sulla notizia trascrivendo u-
na «lista et informazione» che aveva compiuto ben cinque passaggi prima di
giungere fino a lui e che descriveva nei dettagli l’avvenimento. Le voci, le di-
cerie, riportate in forma anonima e collettiva («et vulgus multa dicit», scrisse
uno dei cronisti)48 lungo la trama dei testi si affiancano, si sovrappongono, ta-
lora verificate talora no, all’utilizzazione di quella messe di avvisi e fogli vo-
lanti, la cui produzione prese a intensificarsi proprio sul finire del Quattro-
cento, alla probabile ricezione dei poemetti in ottave dedicati alle guerre d’I-
talia ed alla trascrizione, laddove possibile, di lettere ufficiali che informava-
no i magistrati cittadini di eventi specifici49. Gli scriventi insomma compren-
sero la necessità di spiegare il locale con gli avvenimenti internazionali e cer-
carono informazioni laddove potevano reperirle. Mercanti, pellegrini, corrie-
ri, cavallari, amici impiegati nella curia romana vennero dichiarati latori e ta-
SILVESTRO, Diario cit., pp. 41-42, e MUGNONI, Annali cit., pp. 150-152. La circola-
zione delle informazioni risulta essere stata abbastanza rapida: le lettere di Magalot-
ti arrivano a Orvieto il 14 luglio, mentre la battaglia era stata combattuta il giorno 6.
Naturalmente la diffusione diveniva più rapida nel caso di notizie fondamentali nel-
la vita interna dello Stato (morte e elezione dei pontefici) o se la fonte dei cronisti e-
ra pubblica (una lettera ufficiale inviata ai reggitori della città, ad esempio).
48 È ancora Mugnoni: ibid., p. 151.
49 Sulla circolazione dei fogli volanti e degli avvisi cfr. NICCOLI, Profeti e po-
lora fonti dirette delle notizie riportate – così come imponevano sia le tradi-
zioni della cronachistica notarile sia i precetti dello scrivere umanistico. E tut-
tavia, come ha scritto Ottavia Niccoli, la circolazione delle notizie, lungi dal-
l’essere priva di connotazioni, seguiva immancabilmente strade precise, vale
a dire quelle del potere politico e dei suoi strumenti di propaganda50. L’origi-
ne delle notizie, a motivo delle strette relazioni che saldavano la periferia al-
la capitale, era quasi sempre, direttamente o indirettamente, Roma, che era
peraltro uno dei grandi centri italiani di attività dei menanti. «Le false notizie
– e qui è d’obbligo ricordare le parole di Marc Bloch, che appunto intorno a
una guerra formulò il proprio ragionamento – le false notizie, in tutta la mol-
teplicità delle loro forme – semplici dicerie, imposture, leggende – hanno
riempito la vita dell’umanità. Come nascono? Da quali elementi traggono la
loro sostanza? Come si propagano, amplificandosi a misura che passano di
bocca in bocca o da uno scritto all’altro? Nessuna domanda più di queste me-
rita di appassionare chiunque ami riflettere sulla storia»51.
4. La ‘leggenda nera’
Sulla storia della formazione della ‘leggenda nera’ intorno a papa Bor-
gia condussero un’approfondita riflessione dapprima Pastor e in seguito So-
131-132. E per altri esempi cfr. B. DOOLEY, De bonne main: les pourvoyeurs de nou-
velles á Rome au 17e siécle, «Annales», 6 (1999), pp. 1317-1344.
51 M. BLOCH, Riflessioni di uno storico sulle false notizie della guerra, cito dal-
52 Cfr. L. VON PASTOR, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, III, Roma
1912, pp. 460-478; G. SORANZO, Studi intorno a papa Alessandro VI (Borgia), Mi-
lano 1950, pp. 34-75.
53 Sono le espressioni di PASTOR, Storia dei papi cit., p. 461.
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to quello che capitava loro a tiro: dalle profezie (utilizzate come fonti di fat-
ti ‘veri’)54 fino appunto ai veri e propri testi di propaganda: lettere, sonetti
(a stampa e manoscritti), avvisi, fogli volanti e, a partire da tutto questo, di-
cerie che si andavano ripetendo di bocca in bocca.
La produzione dei materiali scritti infamanti si articolò – torniamo al-
le tesi di Pastor e di Soranzo – lungo una cronologia scandita in tre tappe:
1497, 1501, 1503. Nel 1497 avvenne lo scioglimento del matrimonio tra
Lucrezia e Giovanni Sforza, il quale si sarebbe vendicato spargendo male-
volenze, tra le quali spiccava l’accusa di rapporti incestuosi che Lucrezia a-
vrebbe intrattenuto con i fratelli e con il padre. Le accuse sembravano tro-
vare conferma nei fatti realizzati in un breve torno di mesi, che riguardava-
no tutti la cerchia familiare del papa: era già avvenuta la misteriosa ucci-
sione del duca di Gandìa, seguì la rinuncia di Cesare al cardinalato. Faccia-
mo un salto di quattro anni. Era datata 15 novembre 1501 la lettera infa-
mante – trascritta anche da Burcardo, fu anzi il maggiore attacco al papa ri-
portato da Burcardo, che la dice arrivata a Roma, dove la lesse lo stesso
pontefice, dalla Germania – redatta da un anonimo che sosteneva di scrive-
re dagli accampamenti spagnoli di stanza a Taranto. Nell’anonimo Grego-
rovius e Soranzo individuarono uno dei Colonna riparati in quei mesi a Na-
poli55; costui si rivolgeva a Silvio Savelli, esule presso la corte imperiale, al
quale descriveva la situazione italiana. Alessandro VI era definito «proditor
generis humani», «novus Machometus», i suoi tempi erano da interpretare
come quelli dell’avvento dell’Anticristo. Si dichiarava che presso la sua
corte, oltre alla simonia e all’avidità, dominavano gli incesti e gli stupri
(«quot stupra, quot incestus, quot filiorum et filiarum sordes, quot per Petri
palatium meretricum, quot lenonum greges atque concursus, postribula et
lupanaria, maiori ubique verecundia contineri?»), sì da oltrepassare la per-
fidia degli Sciti e dei Cartaginesi, le atrocità di Caligola e di Nerone – no-
tiamo al momento solo per inciso tale rimando a precedenti del mondo an-
54 RUSCONI, Profezia e profeti cit., p. 165, sottolinea come, nell’Italia tra Quat-
tro e Cinquecento, l’attrazione nei confronti dei testi profetici rinvenibile presso
«l’intellettualità minore, legata al ceto mercantile-borghese e cittadino» prenda la
forma della «curiosità segnata da una forte impronta politica» piuttosto che dalle
«attese escatologico-apocalittiche».
55 SORANZO, Studi cit., p. 73, riprendendo una tesi di Gregorovius, sostenne che
la lettera fu scritta da Napoli perché a Napoli risiedevano alcuni esponenti dei Co-
lonna e perché nel testo, pur tra tanti attacchi, nulla si dice di Giulia Farnese (spo-
sata ad Orsino Orsini, e gli Orsini erano in quel momento alleati dei Colonna). L’in-
terpretazione è un po’ macchinosa, ma comunque si può pensare che la missiva, re-
datta nel Regno, passò per la Germania? prima di arrivare a Roma. La lettera è ri-
portata per intero in JOHANNIS BURCKARDI Liber notarum ab anno MCCCCLXXXIII
usque ad annum MDVI, a cura di E. CELANI, RIS2, 32/1, (1912), pp. 312-315, da cui
le citazioni che seguono.
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56 INFELISE, Gli avvisi cit., sottolinea questi particolari per gli avvisi seicente-
schi e rileva come spesso le fonti delle notizie fossero gli ambienti curiali.
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gli avvenimenti cittadini. Ancora, e in ultimo, si può rilevare che proprio en-
tro le letture cronachistiche delle vicende fazionarie, secondo le linee di una
tradizione ricostruibile almeno a partire dal XIII secolo, l’individuazione
dell’‘avversario’ aveva preso la via dell’attribuzione di specifici vizi socia-
li (l’invidia, l’orgoglio, l’avidità) frutto di inclinazioni soggettive, persona-
li, derivanti dall’influsso demoniaco. In questo senso, è suggestiva la tesi
formulata qualche anno fa da J.K. Hyde, il quale ha sottolineato come nel-
la cronachistica italiana bassomedievale l’applicazione della categoria dei
vizi capitali all’analisi dei fatti politici abbia rappresentato una delle strade
maestre per una spiegazione immanente degli eventi storici, che altrimenti
sarebbero rimasti fuori dal dominio della comprensibilità umana qualora la
loro interpretazione fosse affidata esclusivamente all’intervento divino57.
Nell’Italia tra Quattro e Cinquecento, l’individuazione del responsabile del-
la corruzione politica e morale (a tutti i livelli, come recitava la lettera del
1501) e la sua demonizzazione era una pratica che poteva contare su una
ricca tradizione. Ricorrervi significava non soltanto inscriversi naturalmen-
te in un retaggio culturale; permetteva altresì di ricostituire quell’unitarietà
dell’interpretazione della contemporaneità che pareva essersi perduta nel
1494.
Nei contenuti della propaganda e di conseguenza nella ricezione da
parte dei cronisti locali l’argomento principe fu dunque che l’immoralità
privata spiegava le strategie pubbliche, divenendo il meccanismo di una ge-
nerale spiegazione politica. L’assenza di separazione tra il dominio del pri-
vato e quello del pubblico, caratteristica dell’età premoderna e che proba-
bilmente connotò in modo particolare l’azione politica di papa Borgia – lo
ha notato Paolo Prodi in conclusione del convegno borgiano tenutosi a Pe-
rugia – facilitò l’utilizzazione e la divulgazione di questo topos anche pres-
so i memorialisti che non risentivano particolarmente di orientamenti apo-
calittico-spirituali. Facciamo un esempio, che è poi quello che maggior-
mente ha incontrato fortuna nella storiografia ottocentesca e per conse-
guenza risulta ben noto anche al presente: i rapporti incestuosi tra Lucrezia
e il padre. «Io lascio da parte queste cose, questo però è certo, che il papa
si permette cose smodate e intollerabili»58: così recitava un passo della re-
lazione presentata da un ambasciatore veneziano al Senato nel settembre
1497, relazione riportata da Sanudo. Nel 1497 – e se accettiamo la tesi Pa-
stor-Soranzo, ad opera di Giovanni Sforza – l’accusa di incesto era perfet-
and Fourteenth Century Italy, in Violence and Civil Desorder in Italian Cities,
1200-1500, ed. by L. MARTINES, Berkeley-Los Angeles-London 1972, pp. 274-276;
cfr. ora C. CASAGRANDE-S. VECCHIO, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Me-
dioevo, Torino 2000.
58 PASTOR, Storia dei papi cit., p. 377 (e nota 1 per la citazione successiva).
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XIV, ora in ID., Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo. Studi sul france-
scanesimo spirituale, sull’ecclesiologia e sull’escatologismo bassomedievali, intro-
duzione e cura di P. VIAN, Roma 1997, pp. 129-146.
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68 VASOLI, L’attesa della nuova era cit., pp. 378-379, menziona passi delle cro-
nache romane e toscane che attestano l’effetto provocato dalla predicazione dei ro-
miti tra 1491 e 1496, ma gli esempi che si potrebbero ricordare sono tantissimi. Sul
tema dell’Anticristo cfr. R.K. EMMERSON, Antichrist in the Middle Age: A Study of
Medieval Apocalipticism, Art and Literature, Seattle 1981; in forma di rapida sinte-
si, B. MCGINN, L’Anticristo, Firenze 1996, pp. 238-272; soprattutto, si veda RU-
SCONI, Profezia e profeti cit., in specie pp. 89-140 e 265-294 (a proposito del ‘Papa
angelico’). La più importante raffigurazione dell’Anticristo eseguita in questo pe-
riodo fu l’affresco realizzato da Luca Signorelli nella Cappella Nova del Duomo di
Orvieto; ma l’‘uso politico’ della figura dell’Anticristo, identificato con papa Ales-
sandro VI, costituiva un tema presente pure negli scritti savonaroliani.
69 D. QUAGLIONI, Fra tolleranza e persecuzione. Gli ebrei nella letteratura giu-
ridica del tardo Medioevo, in Storia d’Italia - Annali, 11, Gli ebrei in Italia, a cura
di C. VIVANTI, I, Dall’alto Medioevo all’età dei ghetti, Torino 1996, pp. 652-657; cfr.
A. FOA, Ebrei in Europa: dalla peste nera all’emancipazione, XIV-XVIII secolo, Ro-
ma-Bari 1992, pp. 25-35.
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70 R. BONFIL, Gli ebrei in Italia nell’epoca del Rinascimento, Firenze 1991, pp.
25-30, dove sono commentati passi della predicazione di Bernardino da Siena, Gio-
vanni da Capestrano e Bernardino da Feltre. Ma sul ruolo della predicazione fran-
cescana nella divulgazione degli stereotipi antiebraici cfr., per quanto riguarda il ca-
so del territorio pontificio, le tesi non coincidenti di R. RUSCONI, «Predicò in piaz-
za»: politica e predicazione nell’Umbria del ’400, in Signorie in Umbria tra Me-
dioevo e Rinascimento: l’esperienza dei Trinci, (Atti del Congresso Storico Inter-
nazionale, Foligno, 1986), I, Perugia 1989, in specie pp. 134-141, e di A. TOAFF, The
Jews in Medieval Assisi, 1305-1487. A social and economic history of a small jewish
community in Italy, Firenze 1979, pp. 69-71. Cfr. altresì ID., Il vino e la carne. Una
comunità ebraica nel Medioevo, Bologna 1989, pp. 181-239.
71 SIGISMONDO DEI CONTI DA FOLIGNO, Le storie cit., II, p. 272. Per la connes-
sione ebrei-lebbrosi e per il passo di Flavio Giuseppe cfr. C. GINZBURG, Storia not-
turna. Una decifrazione del sabba, Torino 1989, pp. 10-13. E cfr. A. FOA, Il nuovo
e il vecchio: l’insorgere della sifilide (1494-1530), «Quaderni Storici», 19 (1984),
pp. 11-34.
72 Cfr. A. ESPOSITO, Gli Ebrei a Roma tra Quattro e Cinquecento, in Ebrei in
razione dei materiali utilizzati per dipingere al nero il ritratto del papa e dei
suoi familiari. Si trattava di materiali dalla varia provenienza, ognuno dei
quali dotato di rispettive autonomie argomentative; tutti stavano conoscen-
do una forte riattualizzazione sullo scorcio del Quattrocento e si trovarono
a convergere di fatto intorno alle accuse di eccessiva carnalità e di licenzio-
sità oltre ogni limite. Tale lettura faceva leva su richiami a una tradizione
stratificata e condivisa, che pertanto riusciva a trovare amplissima divulga-
zione, fino a divenire una fortuna interpretativa.
Il 30 dicembre 1501 si svolsero a Roma, nel Palazzo apostolico, i fe-
steggiamenti per il matrimonio di Lucrezia con Alfonso d’Este. Il racconto
particolareggiato (culminante in un’orgia collettiva) che ne scrisse Maturan-
zio, raccolto probabilmente a Roma, dove nel 1502 egli si recò come amba-
sciatore da parte della sua città, riprendeva assai da vicino la descrizione che
di un altro matrimonio di Lucrezia, quello avvenuto nel 1493 con lo Sforza,
aveva fornito il cronista romano Stefano Infessura. Ma se Infessura aveva
concluso stendendo una sorta di velo pietoso («Et multa alia dicta sunt quae
hic non scribo, quae aut non sunt vera vel, si sunt, incredibilia sunt»)73, Ma-
turanzio ne desunse una scatenata invettiva contro Alessandro74:
Nel 1502 furono divulgati dieci sonetti, che il cronista orvietano Tom-
maso di Silvestro trascrisse diligentemente senza fornire alcun tipo di com-
mento75. I sonetti celebravano le gesta e le figure dei congiurati della Ma-
gione; i «magnifici signori» vi venivano invitati a estirpare «de Ytalia que-
ne a cura di O. TOMMASINI, Roma 1890, (Fonti per la Storia d’Italia, 5), pp. 287-288.
74 MATURANZIO, Cronaca cit., pp. 188-190. Notiamo che il racconto riportato
sta secta falsa crudele e piena de onne vitio, a Dio e a tucto lo mondo omai
despecta» – vale a dire i sostenitori del Valentino – ma vi erano anche am-
moniti a guardarsi dal papa:
76F. TATEO, Il ritorno della barbarie, in ID., I miti della storiografia umanisti-
ca, Roma 1990, pp. 81-98. Cfr. anche A. BORST, Barbari, eretici e artisti nel Me-
dioevo, Roma-Bari 1988, pp. 15-28 (il capitolo Barbari: storia di un luogo comune
europeo).
77 Può essere un particolare interessante notare che TOAFF, Alessandro VI cit.,
p. 23, segnala la presenza tra i ‘familiari’ di papa Borgia di ebrei catalani (medici,
astronomi e banchieri). Ma cfr. pure A. FOA, Un vescovo marrano: il processo a Pe-
dro de Aranda (Roma 1498), «Quaderni Storici», 99 (dicembre 1998), pp. 533-551.
78 MATURANZIO, Cronaca cit., pp. 78-80 e, per le citazioni successive, pp. 125,
gli uomini del Valentino e i soldati che militavano dalla parte dei congiura-
ti della Magione, i quali ultimi riportarono la vittoria. Il felice, dal punto di
vista del cronista, esito della battaglia è ricondotto all’intervento divino, che
in tal modo punì «le immense crudeltà che facevano [i borgiani] a quelli po-
puli […] e avevano martoregiati li cristiani de onne generazione de tor-
mento e martorio». Quando alcuni frati minori andarono pietosamente a
seppellire «quelli cani [i soldati del Valentino] trovorno che tutte erano cir-
cuncise al modo antico e per questo tutte li lasciarono stare». Era qui il pun-
to culminante delle ingiurie antiebraiche disseminate lungo il testo; le ten-
sioni e i conflitti aperti che avevano caratterizzato le relazioni tra i Borgia e
i signori che dominavano le città dello Stato erano letti alla luce della con-
trapposizione irriducibile tra ebrei e cristiani. In Maturanzio i personaggi
positivi della storia che egli racconta sono protagonisti della politica, loca-
le e statuale, seppure trasfigurati attraverso l’utilizzazione delle tecniche re-
toriche. L’ottica tutta terrena con cui il cronista ricostruì la trama degli av-
venimenti fece sì che al centro della sua attenzione fosse comunque la con-
giuntura politica che segnò le sorti dello Stato e della sua città tra Quattro
e Cinquecento. Ma nel discorso che stiamo conducendo assume particolare
rilievo il fatto che tra i personaggi descritti nella Cronaca spicca Morgante
Baglioni, una figura di ambito locale alla quale lo scrivente dedicò un lun-
go elogio post mortem. Un elogio che ascriveva al personaggio tutte le virtù
opposte ai vizi incarnati da papa Borgia: «Mai alcuno signiore ebbe tante
virtù»; «era laudato insino da’ suoi inemice»; «mai non podde in esso ava-
ritia et denare»; «costui non arìa voluto mai essere stato rechiesto de alcu-
na simonia – nel significato, traslato, di corruzione – e chi di ciò li avesse
parlato, suo capital nimico deventava»; e infine, con un inevitabile richia-
mo classico: «onde costui fu più iusto che non fu Numma Pompilio, che per
sua vera iustitia li Romani lo fecero loro re»79. Viceversa, nel cronista di
Trevi Francesco Mugnoni l’esito ultimo della ricezione della campagna dif-
famatoria antiborgiana andò oltre la comprensione del quadro politico,
giungendo a tratteggiare precisi modelli di perfezione spirituale. L’eroe po-
sitivo di Mugnoni fu anch’esso un antiBorgia, nel senso della personifica-
zione di caratteristiche del tutto opposte a quelle malvagie del papa: si trat-
tava del ministro generale dell’ordine francescano Egidio d’Amelia, che il
cronista vide nel corso di una solenne cerimonia avvenuta nel febbraio del
1502:
79 Ibid., pp. 197-200. È a questo punto che il cronista ricorda di aver scritto
Fu, è da pensare, la veloce trasformazione del cadavere (si era nel me-
De qual morte lui murisse non so bene perché molte dicevano lui
una collo suo duca essere avenenate, ma la verità non se sa. […]
Io non vorrìa alcuna cosa preterire, ma io temo e dubbito de de-
scrivere la morte del papa commo m’è stata narrata: pure, par-
cente Deo, io la descriverò. Commo el diavolo en forma de abba-
te andò al papa e manifestandose chi lui era lo rechiese che an-
dasse con lui perché era suo. Allora el papa replicò che non era
suo né voleva essere; ma el diavolo illo tunc li mostrava una scrit-
ta per mano propria del papa la quale el diavolo aveva ben con-
servata e quella, ad uso de buono procuratore, li fe’ ricogniosce-
re, primo et ante omnia, la quale contineva che sì per sua malizia
el faceva far papa, li prometteva l’anima sua; e el diavolo ancora
li aveva fatta scritta de mano propria farlo papa a certo tempo, ma
el papa non aveva ben letta e imaginata la scritta, che el tempo più
presto iunse che lui non crese; e in questo se redussero a contra-
82 MATURANZIO, Cronaca cit., pp. 222-223. Un precedente del patto col diavo-
lo contratto da un pontefice poteva essere costituito dalla stratificata leggenda fiori-
ta attorno alla figura di Silvestro II, che a fine Quattrocento era nota attraverso gli
scritti di Vincenzo di Beauvais, Martino Polono, Riccobaldo da Ferrara, Platina e
grazie alla cosiddetta Recensio al Liber Pontificalis. Ma la leggenda di Silvestro co-
nobbe pure una riattualizzazione tra 1493 e 1520, allorché il cardinale Bernardino
de Carbajal, titolare della chiesa di S. Croce in Gerusalemme, fece lì apporre un’i-
scrizione che ricordava, in termini assai ambigui, la figura di quel pontefice (termi-
ni che turbarono Montaigne, che la lesse nel 1581: l’iscrizione alludeva all’ascesa
al pontificato ottenuta «non satis rite» e menzionava un non meglio qualificato «Spi-
ritus» che avrebbe avvertito Silvestro delle circostanze della propria morte). Per tut-
ta la questione cfr. M. OLDONI, «A fantasia dicitur fantasma» (Gerberto e la sua sto-
ria, II), «Studi Medievali», s. III, 21 (1980), pp. 493-622: 493-511 (sull’epigrafe);
ID., Gerberto e la sua storia, ibid., 18, 2 (1977), pp. 629-704, e infine ibid., 24, 1
(1983), pp. 167-245. Tuttavia, la versione fornita da Maturanzio pare dipendere da
modelli letterari altri da quelli rinvenibili a proposito di Silvestro, forse da ascen-
denze novellistiche. In ogni caso, l’esistenza di contratti scritti nei casi di patti con
il demonio contava su una ricca tradizione: se ne vedano vari esempi in A. GRAF, Il
diavolo, Milano 1889 (nuova edizione a cura di C. PERRONE, introduzione di L. FIR-
PO, Roma 1980), pp. 158-170.
Cap. 05 Irace E. 99-140 13-09-2002 12:57 Pagina 140
Ma la descrizione dai toni più forti, che forse fu anche quella più au-
tentica perché riportata da un testimone diretto, si rinviene nel testo di Bur-
cardo, il quale, senza evocare la presenza demoniaca, diede un resoconto
freddo della rapida trasformazione del cadavere83:
Il suo viso era divenuto sempre più orrendo e scuro, al punto che
verso l’ora ventitreesima, quando l’ho visto, era del colore di un
panno scurissimo, o se si vuole di un negro. Il volto era gonfio, il
naso era gonfio, la bocca era spalancata, mentre la lingua, rad-
doppiata di dimensioni, riempiva tutto lo spazio fra le labbra: si
trattava di uno spettacolo talmente orribile che tutti hanno detto
di non aver mai visto nulla di simile.
SEBASTIANO VALERIO
Un’allegoria di Alessandro VI
nell’Eremita di Antonio Galateo
pp. 306-307.
2 ANTONIO GALATEO, Eremita, ed. S. GRANDE, trad. it. L. STAMPACCHIA, Lecce
ta codici del De donatione valliano appartengono al tardo ’400 o agli inizi del ’500
ed i possessori identificati si dividono in due gruppi, mossi da opposte motivazioni:
personaggi legati al mondo della Riforma protestante, che quindi leggono il Valla in
piena adesione di spirito e spesso radicalizzandone il pensiero – e non è un caso che
la stampa più importante sia stata realizzata nel 1518 da un riformatore luterano co-
me Ulrich von Hutten – oppure qualificati personaggi di Curia o di Chiesa, che si
avvicinano all’opera valliana per conoscere un nemico e controbatterlo a ragion ve-
duta» (M. REGOLIOSI, Tradizione contro verità: Cortesi, Sandei, Mansi e l’Orazio-
ne del Valla sulla «Donazione di Costantino», «Momus», 3-4 [1995], p. 50). L’in-
teresse per l’opera del Valla, a parere della Regoliosi, si riaccende in questo perio-
do, proprio a seguito del consolidamento dello Stato pontificio, voluto dai papi a
partire da Sisto IV. Sull’argomento si vedano pure i seguenti contributi: D. MAFFEI,
La donazione di Costantino nei giuristi medievali, Milano 1964; S.I. CAMPOREALE,
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do bizantino, Bari 1982, pp. 157-178; O. MAZZOTTA, Monaci e libri greci nel Sa-
lento medievale, Novoli 1989; mentre sulla guerra otrantina del 1480 cfr. Gli Uma-
nisti e la guerra otrantina. Testi dei secoli XV e XVI, a cura di L. GUALDO ROSA-I.
NUOVO-D. DEFILIPPIS, Bari 1982.
8 L’Altamura avanzò il dubbio che il dono non fosse mai stato recapitato a Giu-
lio II, ma oggi Carlo Vecce ha riconosciuto nel codice 16, 40 della Biblioteca Me-
dicea Laurenziana di Firenze il manoscritto greco del Galateo. Cfr. C. VECCE, An-
tonio Galateo e la difesa della Donazione di Costantino, «Aevum», 59 (1985), pp.
353-360. I brani della lettera che citeremo in avanti, sono tratti da questa edizione.
Vi è infine da segnalare come già uno dei più antichi biografi galateani, G.B. Polli-
dori, avesse sostenuto che la lettera a Giulio II fosse datata al 1506.
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9 G.B. LEZZI, Memorie dei letterati salentini, Cod. D 5, Brindisi, Bibl. Arci-
mo fu Domenico de Angelis che ritenne che L’Esposizione del Pater Noster fosse
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ta a papa Giulio II. E l’unica lettera indirizzata dal Galateo a papa Giulio II
è appunto l’epistola di cui si è appena detto. Pensare che L’Esposizione del
Pater noster fosse l’atto di espiazione del Galateo per l’Eremita è in effetti
difficile, anche perché se l’Eremita è opera scomoda, opus intemperans o
dialogus caute legendus13, come venne definita nel ’700, certamente L’E-
sposizione non gli è da meno. Non sappiamo, invece, donde abbia desunto
questa notizia il Lezzi: fatto è che anche Giovan Battista Lezzi credette pos-
sibile che l’epistola indirizzata dal Galateo a papa Giulio II non fosse del tut-
to priva di secondi fini e che, evidentemente, la riaffermazione del proprio
credo nella legittimità del potere papale potesse rappresentare un atto ripa-
ratorio, rispetto a quanto contenuto nel dialogo. E a ben leggere l’epistola de
Constantini donatione, la lode di Giulio II avviene rovesciando alcune af-
fermazioni contenute proprio nell’Eremita. Nel dialogo il papa Pietro, fo-
mentatore di guerre, aveva creato le condizioni perché l’eremita dicesse: «at
mortales huc dicunt e terris iustitiam evolasse. Ego illam et hic pariter et il-
lic exstinctam arbitror»14, uno dei luoghi più ‘forti’ del dialogo, in cui il Pa-
radiso stesso veniva riconosciuto come regno dell’ingiustizia. Nella lettera a
Giulio II, Galateo pare tornare sui suoi passi, pur senza negare quanto so-
stenuto nel dialogo: «Ita pacata, ita festa, pace tranquilla et domi et foris sunt
omnia, ut omnes fateantur, te imperante, ex caelo iustitiam rediisse».
Gli anni in cui l’Eremita fu composto furono di travaglio profondo per
tutto il regno aragonese, e per l’intellettualità italiana tutta, chiamata ad un
drammatico confronto con una realtà storica che diveniva sempre meno de-
cifrabile dalla cultura umanistica e quando nel 1496 Galateo pose mano al
dialogo le vicende belliche, legate alla calata di Carlo VIII, non potevano
ancora dirsi del tutto concluse. Galateo non si sottrasse certo al confronto
con la realtà storica e impegnò tutta la sua cultura in esso, esprimendo in
maniera esplicita anche nell’Eremita la preoccupazione per le sorti dell’Ita-
lia. Una lunga galleria di personaggi affolla l’opera: ciò che però oggi ci in-
teressa è analizzare la figura di Pietro, quella del pontefice. Se l’eremita è
il protagonista indiscusso dell’opera, Pietro ne è l’antagonista: è sempre
stata scritta come atto di riparazione «per purgarsi da qualche cattiva opinione in cui
era caduto appresso di molti a cagion di questo dialogo» (DOMENICO DE ANGELIS, Le
vite dei letterati salentini, Firenze 1710, p. 44). La notizia fu quindi ripresa in GIO-
VANNI BATTISTA POLLIDORI, Vita Antonii Galatei, in Raccolta d’opuscoli scientifici e
filologici, Venezia 1733, IX, pp. 289-336.
13 Cfr. POLLIDORI, Vita cit., p. 316: «Opus intemperans, viris sanctis injuriosum,
Religioni, Pietati», mentre l’affermazione dialogus [...] caute legendus si legge sul
frontespizio del cod. D 2 della Bibl. Arcivesc. A. De Leo di Brindisi, opera di Ales-
sandro Tommaso Arcudi, datato al 1714 (cfr. A. IURILLI, L’opera di Antonio Gala-
teo cit., pp. 91-96).
14 Si noti il rovesciamento di questa frase nella lettera a papa Giulio II.
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pp. 174-177. In particolare si veda quanto scrive a p. 175: «Sotto un velo molto tra-
sparente si combattono la Chiesa di Roma, il Pontefice (era Alessandro VI), gli or-
dini monastici, i sacerdoti e la critica investe anche certi aspetti dogmatici e taluni
modi di intendere la Scrittura».
16 Cfr. l’epistola XXXV Ad Belisarium Aquevivum, in GALATEO, Epistole cit.,
p. 224: «Desinant igitur lacessere Iudaeos, patres nostros, quorum dogmata sequi-
mur, Isaac, Iacob, Mosen, Christum et apostolos illius Petrum et Paulum, doctores
gentium, qui nos docuerunt legem sanctam et orthodoxam, qui sanguine suo, regem
caelorum et illam caelestem patriam nobis pepererunt».
17 GALATEO, Eremita cit., p. 25: «Hoc profecto meruit fides quum ter antequam
gallos cantaret, Christum, qui tibi famem de ventre expulerat negasti aut cum infir-
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mus in fide et incostans senex, pene fluctibus submersus es, aut cum e carcere au-
fugisti aut cum Antiochie inde Romae latitabas in speluncis ne morieris pro eo qui
pro te ut rerum dominus fieres mortus est; qui tibi, etiam fugienti apparuit dixitque
se Romam iturum ut iterum crucifigeretur. Hoc factum est, ut accusaret ingratitudi-
nem, ne dicam perfidiam tuam».
18 Ibid., p. 55. Ancora si legge a p. 25: «Grandis postea coenae factus est co-
mes pro baculo et pera, auratas sellas et locupletissima gazophilacia, mensas ubique
locorum paratas et inemptas dapes, vestes sine impensa habuisti. Omnes te amplec-
tantur, omnes venerantur, omnes adorant, omnes pedes tuos sanctissimos osculant,
ad tua nudati veniunt vestigia reges».
19 Ibid., p. 24
20 GALATEO, De educatione, ed. a cura di C. VECCE, Leuven 1993, p. 74.
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21 Ibid., p. 56.
22 Epistola XXXIX, Ad Eleazarum, Caesarauguste commemorantem, in GA-
LATEO, Epistole cit., p. 257.
23 ID., Eremita, pp. 116-117.
24 Ibid., pp. 47-48.
25 Ibid., p. 48.
26 Alla decadenza di Roma, per Galateo, pur nelle sue mille affermazioni con-
traddittorie, pare accompagnarsi l’affermazione della «arx et spes altera», cioè Vene-
zia, definita con studiata contrapposizione «omnium bonarum artium officina» (Ad
Loisium Lauretanum, de laudibus Venatiarum, in GALATEO, Epistole cit., p. 74).
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sfruttare politicamente per propri personalissimi fini, come quelli che mos-
sero la politica di papa Rodrigo Borgia. Ciononostante mai nell’Eremita, e
nemmeno in altre sue opere, il Galateo mise in dubbio la legittimità (politi-
ca o teologica) del potere papale, come egli stesso affermò nel passo della
lettera a Giulio II con la quale abbiamo incominciato. Lì si ribadiva, anzi,
come Giulio II fosse la speranza di una palingenesi del papato. D’altro can-
to se il Galateo avesse inteso colpire la legittimità del primato di Pietro, a-
vrebbe potuto servirsi proprio delle considerazioni del Valla sulla Donazio-
ne di Costantino; e invece egli attaccò Valla, non solo nella citata epistola a
Giulio II, nella quale potevano prevalere ragioni d’opportunità, ma nello
stesso Eremita, quando, celandosi sotto la maschera dell’Eremita, invita s.
Matteo a parlare apertamente: «Ne time Mathee perversam grammaticorum
subtilitatem aut insani Vallae importunitatem: rerum natura perquirenda est
non verborum. Barbaries in moribus timenda est, non in vocabulis»27.
Credo perciò che si possa affermare che nell’Eremita le critiche alla
Chiesa si appuntino sulla specifica figura del papa. La decadenza della Chie-
sa ha ragioni ben precise e circostanziate: non sarebbe proprio dell’intelli-
genza politica del Galateo pensare ad una generica condanna morale. Come
pure impensabile sarebbe che il Galateo abbia taciuto, nell’opera più prossi-
ma temporalmente agli eventi, quelle considerazioni sulla condotta del pa-
pato negli anni dell’invasione francese, che ancora a dieci anni di distanza ri-
corrono nelle sue opere. La critica del Galateo è indirizzata, certo, alla de-
cadenza della Chiesa e del papato, ma è pur vero che egli ritenne che il mo-
mento di massima corruzione fosse corrisposto al pontificato di Alessandro
VI, il santo padre che «consente alla perditione de christiani», come scrisse
nell’Esposizione. Non vi è nulla di preriformista nell’Eremita, ma piuttosto
il vagheggiamento, tutto umanistico, del ritorno alla antica purezza della
Chiesa; nessuna accusa di illegittimità contro il papato, ma solo una coeren-
te e reiterata accusa di indegnità contro un papa, ultimo papa di una ormai
lunga serie di pontefici saliti al soglio di Pietro per curare i propri interessi.
Ciò non impedì, come si è visto, che sul letterato salentino piovessero accu-
se di irreligiosità da cui egli si dovette difendere in più di una circostanza.
Fu naturale, dopo la morte del Galateo (1517) e in un clima sempre più
condizionato dalla diffusione delle idee di riforma della Chiesa, rileggere
27 Il Valla più volte incappò nella critica del Galateo, come nell’epistola indi-
l’Eremita come uno scritto precorritore della Riforma protestante, ora per
condannarlo, ora per esaltarlo. Poco è noto invece dell’immediata fortuna
del dialogo galateano e tutti da indagare rimangono i rapporti con Erasmo.
Garin notò come in effetti il ‘sorprendente’ Eremita del Galateo potesse es-
sere conosciuto da Erasmo da Rotterdam28. Un dato macroscopico acco-
muna, ad esempio, l’Eremita allo Iulius exclusus. In meno di venti anni,
vennero concepite due opere assolutamente simili. Tanto nel dialogo era-
smiano, quanto in quello galateano si presenta a Pietro un’anima destinata
all’Inferno che Pietro tenta di tenere fuori dal Paradiso. I temi affrontati so-
no spesso affini a cominciare, è ovvio, dalla grande attenzione posta alla de-
generazione della Chiesa e del Papato, benché l’Eremita mostri una ric-
chezza e una varietà tematica che non appartiene allo Iulius. Non intendo
con ciò spingermi ad ipotizzare rapporti diretti tra l’opera galateana e quel-
la erasmiana che non è possibile con certezza dimostrare. E se è vero e in-
negabile che ricorrono spesso i medesimi temi, è pur vero che non esistono
strette dipendenze testuali che possano renderci certi dell’esistenza di un
rapporto; così la condanna della ricchezza dei monaci, della dissolutezza
morale del clero, il rimpianto per la Chiesa delle origini si ritrovano sia nel-
lo Iulius che nell’Eremita, ma fanno parte di una topica assai diffusa, trop-
po diffusa. Né probabilmente di per sé può dimostrare nulla che anche nel-
lo Iulius exclusus il titolo papale servus servorum Dei venga distorto e co-
sì Giulio proclami: «Eris rex regum et dominus dominantium», una frase
che ricorda quella pronunciata dal Pietro galateano per esaltare i propri po-
teri. Ciò che invece sicuramente si può affermare è che l’Eremita si pone
nell’alveo di una produzione letteraria di grande spessore e che, abbia illu-
minato o no Erasmo, il messaggio che veniva da quest’angolo dell’Italia,
come amava definire la propria Puglia il Galateo, non fu una rielaborazio-
ne minore e periferica di questioni altrove nate e sviluppatesi, quanto piut-
tosto una delle più originali e spregiudicate espressioni dell’inquietudine e
del travaglio che accomunò gli intellettuali italiani alla fine del XV secolo,
età di cui Galateo fu, come già volle Benedetto Croce, uno degli interpreti
più sinceri, schietti e vivaci.
GIACOMO FERRAÙ
50 (1987), pp. 44-56; R. FUBINI, L’ebraismo nei riflessi della cultura umanistica.
Leonardo Bruni, Giannozzo Manetti, Annio da Viterbo, «Medioevo e Rinascimen-
to», 2 (1988), pp. 296-324; V. DE CAPRIO, La tradizione e il trauma. Idee del Rina-
scimento romano, Manziana 1991, pp. 189-261; A. GRAFTON, Traditions of Inven-
tion and Inventions of Tradition in Renaissance Italy: Annius of Viterbo, in Defen-
ders of the Text. The Tradition of Scholarship in a Age of Science 1450-1800, Cam-
bridge-London 1991, pp. 76-103 e pp. 268-276.
2 Per gli interessi di Annio prima del suo ritorno a Viterbo soccorrono: E. FU-
MAGALLI, Aneddoti della vita di Annio da Viterbo O. P., I: Annio e la vittoria dei Ge-
novesi sugli Sforzeschi; II: Annio e la disputa dell’Immacolata Concezione, «Ar-
chivum Fratrum Praedicatorum», 50 (1980), pp. 166-199; ID., Dall’arrivo a Geno-
va alla morte di Galeazzo Maria Sforza, «Archivum Fratrum Praedicatorum», 52
(1982), pp. 197-218; e, per la discussione con Donato Acciaiuoli del 1464, a pro-
posito di problematiche morali, Giovani Rucellai e il suo Zibaldone. ‘Il Zibaldone
quaresimale’, a cura di A. PEROSA, London 1960, pp. 85-102 e pp. 125-135; per l’a-
spetto astrologico, infine, C. VASOLI, Profezia e astrologia in Annio da Viterbo, in
VASOLI, I miti e gli astri, Napoli 1977, pp. 17-49.
3 L’attività di Annio storico e antiquario in Viterbo segna una lunga prepara-
zione di quelle che saranno le Antiquitates in una traiettoria, tra il 1491 e il 1495,
che va dalla Epitome di storia Viterbese, ancora legata alle tradizioni delle crona-
che locali (su cui P. EGIDI, Relazioni delle cronache viterbesi del secolo XV tra di
loro e con le fonti, in Scritti vari di filologia a Ernesto Monaci, Roma 1901, pp.
37-59; ma utili osservazioni del Baffioni nelle note a NANNI, Viterbiae cit., pas-
sim), attraverso una proposizione ‘documentale’, che compie le prime prove di
falsi con l’edizione e l’esegesi degli pseudoritrovati epigrafici (in R. WEISS, An
Unknown Epigraphic Tract by Annius of Viterbo, in Italian Studies presented to E.
R. Vincent, a cura di C. P. BRAND-K. FOSTER-U. LIMENTANI, Cambridge 1962, pp.
101-120), e con la Lucubratiuncula borgiana (edita ed illustrata da O. A. DANIEL-
SON, Etruskische Inschriften in handschriftlicher Ueberlieferung, Upsala-Leipzig
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1928, pp. IX-XXI e pp. 1-50), sino alla Alexandrina lucubratiuncula, inedita e tra-
mandata dal codice della Biblioteca Estense di Modena Gamma Z. 3. 2 (Campo-
ri 2869), su cui importanti osservazioni in FUMAGALLI, Un falso cit., pp. 345-347,
opera in cui è la prima delineazione di una storia noachica, limitata, per altro, al-
la descrizione de origine Italiae e dedicata ad Alessandro Farnese, «princeps […]
Pharnesiae domus, quae ex Asia cum rege Turrheno adnavigans, Vetuloniam […]
incoluit». È un vanto per Annio «quia tot saeculis neglectam veritatem suscitave-
rim, […] quod meo Viterbo Italicae antiquitatis et originis principatum restitue-
rim» (ms., f. 1r).
4 Secondo un’osservazione del LIGOTA, Annius cit., p. 56, che, pertanto, an-
cora propone una qualche sospensione di giudizio sulla piena paternità anniana
dei falsi: ma sembra cogente la dimostrazione di FUMAGALLI, Un falso cit., pp.
343-345.
5 Si veda la bibliografia fornita alla nota 1, cui si aggiunga il recente V. DE CA-
PRIO, Il mito e la storia in Annio da Viterbo, in Presenze eterodosse nel Viterbese tra
Quattro e Cinquecento, a cura di V. DE CAPRIO-C. RANIERI, Roma 2000, pp. 77-103.
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porti, nella pagina del Nanni6. In altri termini, i ‘baroni’ Iasio Corito Erco-
le, le donne Elettra e Iside, i più tardi Paleologhi, sono tutti presenti presso
i cronisti locali sino alla vigilia della ‘riforma’ anniana, fanno parte di una
memoria comune cui il frate darà solo prospettiva e spessore con la stru-
mentazione resa disponibile dalla nuova offerta culturale classica, ma anche
allargando la leggenda a tutte le origini storiche dell’ecumene, secondo
connotati noachici. A questo proposito, se non esplicitamente dalle Anti-
quitates, certamente dalla Lucubratiuncula alessandrina si rileva come la
presenza di Noè in Italia è suggerita da una pagina di Martin Polono, Mar-
tinus chronographus, in cui venivano movimentati quei padri fondatori del-
la colonizzazione italica destinati a divenire gli attori principali del raccon-
to anniano7.
Se poi la dimensione cittadina, di medievalità cittadina, è senza meno
il punto di partenza di un intenso percorso storiografico, deve essere subito
rilevato che, a livello già di Lucubratiunculae, la prospettiva viene amplia-
ta tenendo conto di quanto l’antiquaria classicistica, ormai notevolissima
alla fine del secolo, poteva comportare in termini di arricchimento e signi-
ficazione culturale. Ma è un recupero prospettato in modi tali da non poter
essere neppure concepiti da un umanista ‘professionale’: l’approdo alla co-
struzione di una storia sacra e sapienziale deriva, infatti, da una formazione
culturale di tipo ‘ecclesiastico’ che aveva come libro peculiare la Historia
scholastica di Pietro Comestore: da questo modello Annio aveva appreso la
capacità di escussione minuziosa e ‘dialettica’ delle testimonianze, ma in
nelle note di Baffioni a NANNI, Viterbiae cit., pp. 165-238; ma, per un opportuno ri-
levamento generale dei dati culturali cittadini, si rimanda a M. MIGLIO, Cultura u-
manistica a Viterbo nella seconda metà del Quattrocento, in Atti della giornata di
studio per il V centenario della stampa a Viterbo, 12 novembre 1988, Viterbo 1991,
pp. 1-46.
7 La tradizione della colonizzazione noachica in Italia è abbastanza diffusa: si
direzione molto diversa da quella della contigua cultura filologica dei suoi
contemporanei8; un’istanza, quella anniana, tendente alla ricostruzione, non
del ‘certo’ di una tecnica filologica, ma del ‘vero’ di una significazione sa-
pienziale e sacerdotale.
Se si parte dal dato sicuro della formazione professionale si ricono-
scerà come naturale l’uso di auctores quali Giuseppe Flavio ‘latino’ e per-
sino Beroso, della cui presenza medievale non occorrerà più rintracciare le
vestigia presso frati antiquari inglesi, ma si potrà guardare alla più vicina
tradizione viterbese di un Goffredo, da Annio conosciuto e citato, per cui il
Pantheon dell’antico maestro viterbese presenta molti suggerimenti che tor-
nano nel suo successore: l’uso di una ‘bibliografia’ di storia ‘ecclesiastica’,
da Beroso a Giuseppe Flavio, a Pietro Comestore, il recepimento della sto-
ria noachica primitiva, la complessità e l’enciclopedismo della costruzione,
ma anche la dichiarazione, more pliniano, in apertura, delle fonti; e, anco-
ra, congruo risulta l’uso di s. Gerolamo ‘vocabulista’ che richiama la con-
ferma moderna dei maestri talmudisti e ‘caballarii’9. Sono tutte occorrenze
sicuramente riconducibili ad un archetipo culturale di tipo conventuale, se
English Friars and Antiquity in the Early Fourteenth Century, Oxford 1960, pp.
233-234 e pp. 260-261. Per l’uso della scienza talmudistica, spesso allegata accan-
to alla più autorevole, ma episodicamente utilizzata, fonte etimologica, il De nomi-
nibus iudaicis di s. Gerolamo, e per l’identificazione dei maestri talmudisti citati da
Annio a conferma delle derivazioni ‘aramee’, si veda la messa a punto di M. PRO-
CACCIA, Talmudistae Caballarii e Annio, in Cultura umanistica a Viterbo cit., pp.
111-121. Sulla presenza di Giuseppe Flavio insiste giustamente FUBINI, L’ebraismo
cit., pp. 301-302, dove occorrerà ricordare solo che Giuseppe ‘latino’ era presenza
familiare ad una tipologia culturale monastica, anche perché veicolato da maestri
quali Pietro Comestore. Infine deve essere sottolineata la presenza di Goffredo da
Viterbo, un auctor in cui erano tante delle caratteristiche riprese da Annio, ad e-
sempio la tavola delle fonti in sede proemiale pliniano more (GOTIFREDI VITERBEN-
SIS Memoria seculorum, MGH, XXII, p. 95), ma anche la ‘bibliografia’ per la leg-
genda noachica, Beroso e simili, ibid.; quanto alle citazioni di Goffredo nelle Anti-
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non più specificamente domenicano per la latitudine del suo impianto eru-
dito: e certo Annio conosce e cita il capolavoro della tipologia storiografi-
ca dell’ordine, lo Speculum di Vincenzo di Beauvais10.
Se una tale opzione culturale agisce fortemente nell’opera di Annio, al
limite forse di consentire l’autorizzazione ad una pia fraus fratesca nell’uso
di falsi per coonestare un superiore vero sapienziale, essa poteva tuttavia di-
venire inattuale in un contesto tardoquattrocentesco, soprattutto quando, con
le Antiquitates, l’orizzonte di riferimento si allargava all’ambiente romano,
in cui si erano da non molto consumate almeno le esperienze della arruffata
e pur agguerrita filologia pomponiana e della più raffinata proposta del Bar-
baro, in rapporto documentabile, quest’ultimo, con lo stesso Annio11.
In effetti, molta parte della disponibilità antiquaria poteva essere as-
sunta nel quadro della tradizione culturale di partenza, ed anzi col vantag-
gio di dare spessore e credibilità e attualità alla ricostruzione storiografica,
solo con un’opportuna capacità di selezione e d’interpretazione applicata ad
autorevoli testimonianze della classicità, e non soltanto ai falsi: i quali ulti-
mi, poi, sono ovviamente ricostruiti con frammenti destrutturati e ricompo-
sti della tradizione. Ma era un progetto che dipendeva da due opzioni preli-
minari: la scelta all’interno del corpus della letteratura antica di momenti
dotati di una determinata significazione e testimonianza di civilizzazione
quitates, rilevabili le seguenti occorrenze: c1v «viculum […] quod Annales Gotifre-
di vocant castrum Chlorae»; g2v-3r sempre a proposito di antichità viterbesi; f6r a
proposito della distruzione di Ferento: «anno salutis MLXXIV, ut Gotifredi Anna-
les memoria servant». Per altri autori medievali e umanistici richiamati da Annio,
oltre al de Lyra, s. Tommaso e il Barbaro, per cui si veda infra, si riscontrano: Pao-
lo Diacono, Antiquitates, K4v a proposito dei ducati longobardi di Spoleto e Bene-
vento; Alberto Magno, Antiquitates, S2v; la testimonianza viterbese di Fazio degli
Uberti, S6r; il commento oraziano di Cristoforo Landino, a proposito dei fasci, An-
tiquitates, M8r; ma soprattutto Giovanni Tortelli, di cui si citano alcune voci: Roma
a M3v (ma si veda anche infra), la voce Olympus a V3r e Italia a X3v.
10 A proposito del nome di Franco, capostipite dei Francesi in Antiquitates,
la proposta del primo libro dell’opera lattanziana: a proposito della lettura evemeri-
stica del mito greco in Div. Inst., I, 11, 30-34; del rilievo che i nomi degli dei paga-
ni nascondono antichi re ed eroi, Div. Inst., I, 15, 1-4; e perfino per quel che riguar-
da la polemica con la Graecia mendax, Div. Inst., I, 15, 14.
13 Per Giuseppe Flavio, si veda quanto afferma nel Contra Apionem, I, 3, a pro-
posito della discordia degli storici greci tra di loro, ripreso in Antiquitates, B2r:
«scimus […] in quot locis Hellanicus de genealogiis et temporibus ab Agisilao di-
screpat, et in quantis Herodotum corrigit Agisilaus, et Ephorus Hellanicum in pluri-
bus ostendit esse mendacem, et Ephorum Tymeus, Tymeum posteri, Herodotum
cuncti». Ma l’esemplarità del Contra Apionem sta alla base di tanta parte della con-
cettualizzazione anniana, ad esempio per quel che riguarda la storia ‘ufficiale’ ba-
sata sugli archivi e la tradizione sacerdotale di Egizi e Caldei, in Contra Apionem,
I, 4-6. Quanto a Diodoro, che pure soccorre nella registrazione di tanta parte della
mitologia orientale, è noto come in Bibl., II, 29, aveva prospettato una partitura re-
lativa alla differenza antropologica del fare cultura tra i Greci e i Barbari, questi le-
gati alla saldezza della tradizione in una dimensione castale e sacerdotale, quelli se-
guaci di un metodo più libero e dialettico, basato sulla discussione e l’innovazione
e socialmente attento anche all’aspetto economico: sono concetti che più volte tor-
nano nelle Antiquitates, segnalando la labilità e inaffidabilità della proposta greca,
ad esempio, a proposito degli Etruschi in O2r-v: «omnis illa theologia, philosophia
et naturalis divinatio et magia […] in quibus, teste Diodoro Siculo in sexto libro [V,
40], usque ad aetatem suam erant admirabiles toti orbi, equidem susceptis fabulis et
disciplina Graecorum, corruptae sunt, adeo ut omnia fabulosa et erronea graecanica
norint, et nihil de origine, disciplinis, et splendore antiquitatum italicarum […] ne-
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sciant»; e ciò riguarda lo stesso Aristotele, che «cum aliis semper altercans, incer-
tos discipulos reddit et animos nostros per omnem vitam errare compellit».
14 Significativamente, il modello pliniano veniva postulato anche da una diver-
talvolta la notizia accolta nei falsi. Inoltre, l’accesso agli auctores è quasi e-
sclusivamente veicolato sulle prime edizioni a stampa, per cui il sistema di
citazione, laddove il controllo è possibile, rinvia senza meno a qualche fon-
te incunabulistica: la profusione della notizia antiquaria, spesso ammirata
dai moderni, è, quindi, un portato della nuova possibilità di accesso alle
stampe, non una personale agguerrita competenza. Dall’uso delle stampe
deriva anche una comoda disinvoltura nell’adoperare singole lezioni, spes-
so di fantasia anniana, giustificate da una tradizione di diffidenza nei con-
fronti della correttezza del nuovo medium15, ma senza un vero criterio mi-
nimamente filologico. Nell’evidenziare la centralità dell’uso del nuovo
mezzo di diffusione, dovranno essere smorzati gli entusiasmi per la forma-
zione classica del domenicano e rilevata l’approssimazione, quando non
l’evidente disonestà intellettuale, con cui Annio si pone dinnanzi ai suoi
auctores: un atteggiamento che lo differenzia radicalmente dall’esperienza
filologica del nostro migliore umanesimo, anche se per tanti aspetti ne è
contiguo, approdando ad una sua strana filologia, non priva di fascino e ca-
pace di inserire le proprie fantasie anche nella posteriore tradizione16.
Con i frammenti di una notitia antiquitatis diffusa, e secondo i para-
metri culturali ‘monastici’ che si sono rilevati, Annio costruisce un labirin-
to che non ha nulla da invidiare a quello celebre di Porsenna: le Antiquita-
tes sono, infatti, una congerie d’opere di diversa tipologia e ‘committenza’,
anche se, come si vedrà, strettamente finalizzate ad un’unica prospettiva. Vi
sono, innanzi tutto, i falsi: si tratta di pseudo frammenti di auctores, in lati-
no17, sminuzzati in unità discrete ma complete che ricordano le pericopi
15 Per l’uso del Diodoro nella versione poggiana, seguita anche negli errori pe-
culiari, si veda quanto risulta in GRAFTON, Traditions cit., pp. 88-89 e p. 273. Per il
motivo della diffidenza nei confronti della correttezza testuale delle edizioni a stam-
pa, abbastanza diffusa nell’Umanesimo, si veda il materiale segnalato in PAULI COR-
TESII De hominibus doctis, a cura di G. FERRAÙ, Palermo 1979, p. 36, e, per una pun-
tualizzazione della problematica, V. FERA, Problemi e percorsi della ricezione uma-
nistica, in Lo spazio letterario di Roma antica, a cura di G. CAVALLO-P. FEDELI-A.
GIARDINA, III, La ricezione del testo, Roma 1990, pp. 532-534.
16 Per esempio, la sostituzione di Lucumonius al tradito Lycomedius di Proper-
zio, IV, 2, 51, che è passato presso lo Scaligero e quindi nelle moderne edizioni di
un Lachmann: FUMAGALLI, Un falso cit., p. 331; sulla filologia di Annio sia lecito
ancora il rinvio al mio contributo specifico che apparirà nella miscellanea Tateo.
17 Come è noto si tratta di una serie di frammenti che però non hanno nulla di
sequuntur in fracturis ita se habent: in prima fractura ‘cives non gravabis novis exac-
tionibus’; in secunda: ‘ex Papia venient’; in tertia: ‘Viterbenses’». L’origine dei
frammenti, escluso l’ultimo che è un falso epigrafico, è duplice: quasi tutti proven-
gono «ex collectionibus vetustis magistri Guilielmi Mantuani» (B1v), di cui si offre
pure la datazione, «collecta anno salutis MCCCXV»; si tratta, come specificato in
Antiquitates, f4r, di «Philonem, Xenophontem, Sempronium, Fabium Pictorem,
fragmenta Catonis et Itinerarii Antonini, Methastenem, Archilocum et Myrsilum». Il
più importante di tutti, Beroso, è invece un dono di frati armeni da lui conosciuti a
Genova: «frater autem Mathias, olim provincialis Armeniae ordinis nostri, quem exi-
stens prior Genuae illum comi hospitio excepi et a cuius socio magistro Georgio si-
militer Armeno hanc Berosi deflorationem dono habui», Antiquitates, P6v. Se non vi
è, e non vi poteva essere, giustificazione filologica di testi offerti in traduzione lati-
na, a proposito di Metastene si insinua l’attività di un traduttore ignoto e non sempre
accurato: «quisquis ille fuerit qui librum traduxit, existimo melius dixisset de censu-
ra quam iudicio», Antiquitates, E6r. Quanto ai nomi degli autori, è noto essere stati
ricavati da citazione di storici veramente tramandati: Mirsilo da Dionigi d’Alicar-
nasso, I, 23; Catone Sempronio e Fabio Pittore dalla stessa fonte, I, 15; Archiloco da
un fraintendimento di Eusebio, De temporibus e Metastene da cattiva lettura della Hi-
storia scolastica, p. 1453: FUMAGALLI, Un falso cit., p. 350; Manetone e Beroso so-
no ampiamente presenti in Giuseppe Flavio (se ne vedano le ‘schede’ del Contra A-
pionem, rispettivamente I, 14 e 19) e dalla stessa fonte poteva essere suggerito il no-
me di Filone. Mentre l’elegia properziana di Vertumno risulta l’unico testo non fal-
so, si costruisce un Itinerarium Antonini alternativo (Antiquitates, N3v: «patet […]
vulgatos codices non esse totos Antonini Itinerarium, sed eius magnam corruptionem
a posteris per additionem et diminutionem privato studio procuratam»); e un Se-
nofonte alternativo (Antiquitates, H8v: «quis fuerit iste Xenophon, nondum comper-
tum habeo; existimo tamen fuisse filium Griphonis, qui post Archilocum floruit»).
C’è da osservare che nessuno degli pseudoautori è riconducibile al personaggio sto-
rico di tale nome: ad esempio Catone anniano vive dopo l’età di Cesare, se nei fram-
menti è citato Menecrate, un comandante di flotta attivo nelle guerre civili (il cui no-
me è ricavato da Appiano, per cui si veda infra): difatti nella scheda introduttiva si
afferma quisquis fuerit iste Cato, Antiquitates, B1v. Del resto è possibile cogliere An-
nio in una specie di lapsus freudiano, quando, nel commento a Sempronio, Antiqui-
tates, K7v nota: «ipse non ex toto sequitur Augustum, Plinium et alios, qui per re-
giones diviserunt Italiam», dove non si vede come un autore presente in Dionigi d’A-
licarnasso, che Annio sa essere dell’età di Augusto, possa precedere Plinio (ma il to-
pos della differenziazione dai precedenti regionarii è comunque pliniano, N. H., III,
46). I falsi riportati sono una scelta nel vasto pelago delle possibilità di falsificazio-
ne e forse altri Annio avrebbe voluto presentare, se nel commento a Filone, Antiqui-
tates, H6r, a proposito di fatti di Arbace e Ciro si dice: «retulit supradictus Cthesia
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auctores, fonti degli storici conservati, presso i quali, invece, ha operato l’inquina-
mento della menzogna greca. Nel commentare i falsi, poi, allegando le autorità che
confermano le singole notizie, si procede costantemente con una cadenza binaria:
«Mirsilo e Dionigi affermano…», «Fabio Pittore e Plinio affermano…», dove la se-
conda è la vera fonte su cui si ricostruisce la notizia offerta dallo pseudotesto. Qual-
che volta il gioco sembra farsi persino impudente come quando ad Antiquitates, A1r
affermava l’utilità del falso reperto, «quamvis, qui Dionisium in primo libro legit,
etiam Myrsilum videatur legere». Una tale strategia testuale è valida anche in senso
polemico, quando ci si stacca dall’antigrafo effettivo reale per contrapporre un’in-
novazione significativa del progetto da costruire: in tale direzione Annio risulta in
fondo abbastanza scoperto e assolutamente controllabile sul retroterra delle fonti au-
tentiche, come ha dimostrato per Catone FUMAGALLI, Un falso cit., pp. 345-349.
19 Per l’origine di nomi degli pseudoautori si veda quanto detto supra.
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20 Secondo la linea del pur interessante contributo di W. GOEZ, Die Anfänge der
GREEN, Hugo of St. Victor, ‘De tribus maximis circumstantiis gestorum’, «Specu-
lum», 18 (1943), pp. 484-493, da manoscritti nordeuropei, ma per la sua circolazio-
ne in Italia, in ambienti dallo storico viterbese frequentati, ed in più trasmesso as-
sieme alla Historia scholastica, v. E. PELLEGRIN, La bibliothèque des Visconti et des
Sforza ducs de Milan au XV siècle, Paris 1955, p. 228.
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quam alias eloquentissimus. Nam aliud est eloqui, aliud recte narrare histo-
rias et origines»25. Un rifiuto di un certo tipo di scrittura storica che investe
ancor più duramente la proposta greca, in termini derivati dall’antica pole-
mica di un Giuseppe Flavio e di un Lattanzio: «et ideo, ut mendacia facilius
[Graeci] seminarent, studuerunt ornatui verborum. Nihil enim magis proficit
ad decipiendum, quam delectabilis fabula et lenocinium ornatus»26.
Di contro alla labilità della tipologia storiografica dominante, quindi,
Annio tenta di individuare regole certe e più sicuri sussidi, proponendo un
modello alternativo nel metodo e nei contenuti. Nascono da quest’esigenza
le celebri cinque regole: la prima vieta di seguire un autore, anche se pre-
stigioso, in tutte le sue affermazioni; la seconda prescrive che occorre dar
piuttosto credito «ipsi genti atque vicinis, quam remotis et externis»; la ter-
za indica negli annali delle quattro monarchie la via sicura dell’impianto
cronologico e fattuale; la quarta, poi, afferma che «si duo sunt pares patria
et antiquitate, afferenti probatiora creditur»; infine, in quinto luogo, «quod
absque certo auctore vel ratione dicitur, eadem facilitate contemnitur qua
profertur»27. Si tratta, come si vede, di regole dettate dal buon senso, ma i-
spirate a criteri divergenti, tra libertà critica (la prima, la quarta e la quinta)
e principio di auctoritas (la terza). Quest’ultima, poi, ha un preciso signifi-
cato e, nel complesso delle Antiquitates, più vasta applicazione: poiché pres-
so Annio, in parallelo con l’opposizione di storia retorica e storia erudita, vi
è quella tra storia laica e storia sacerdotale. A proposito del falso Metastene,
correggendo un supposto errore del suo antigrafo, Pietro Comestore, si dice:
25 Antiquitates, c2v. Ciò non toglie che Livio possa essere accolto a sua volta,
non soltanto come collettore di notizie, ma anche come maestro di metodo; a lui, in-
fatti, risale il principio nomen est argumento, uno dei capisaldi della costruzione an-
niana: Antiquitates, D2v, «notandum quod in historia invincibile argumentum est,
ubi nomen ducum limitibus geminatur, ut, quia superum et inferum mare, quibus
limitatur Italia, dicuntur Turrenum, consequens est ut tota Italia fuerit colonia et
potentatus Turrenorum, ut valido argumento Livius probavit in quinto [33, 7] ab ur-
be condita». O, ancora, Antiquitates, D1v, dove Livio, VII, 6, 6, suggerisce il valo-
re della tradizione come possibile metodo di decisione nella ricostruzione storica:
«standum est autem famae, ubi vetustas derogat certam fidem».
26 Antiquitates, O2r, che riprende la polemica ideologica di Flavio Giuseppe,
A3r-v.
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28 Antiquitates, E6r: da notare che, mentre il titolo del falso è derivato da un er-
30 Per il posto centrale della cronografia in tanta parte della storiografia me-
dievale, GUENÉE, Histoire cit., pp. 147-165.
31 Antiquitates, O5r. Che la linea progettata da Annio sia una linea di cronolo-
tis’, Antiquitates, c5r, anche questo definito invincibile, con rinvio ai Topica di Ci-
cerone, III, 12. La stessa struttura del periodo anniano non è di tipologia storiogra-
fica, ma piuttosto filosofica: si vedano i numerosi necessario consequens est e si-
mili, ad esempio in Antiquitates, C6v.
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33 Antiquitates, Q6r.
34 Nelle Antiquitates la dimensione linguistica e grammaticale in servizio del-
la ricostruzione antiquaria è uno dei filoni più corposi: sulla scorta di Donato e Pri-
sciano (per cui, DE CAPRIO, La tradizione cit., pp. 198-199) Annio offre vere e pro-
prie regole glottologiche soprattutto per quel che riguarda la formazione dei nomi
composti, la cui scomposizione in unità significative di temi aramaici, secondo
spunti derivati da s. Gerolamo nel De nominibus hebraicis, ma, soprattutto, dalle
tecniche dei talmudisti contemporanei, è via privilegiata per la comprensione del
passato. In tal senso si veda quanto detto in Antiquitates, D3r: «notandum item quod
nomina localia et gentilia et interdum communia, dum veniunt in compositione,
semper sincopantur, aut per sineresim ultima syllaba primae dictionis abicitur, nisi
fiat hiatus, quia tunc etiam prima syllaba secundae dictionis subtrahitur gratia eufo-
niae». Da questi principii nasce il metodo combinatorio delle derivazioni anniane,
da competenze geronimiane ed ebraiche (per cui utile bilancio in PROCACCIA, Tal-
mudistae Caballarii cit., pp. 111-121, dove, tra l’altro è prospettata una persuasiva
identificazione di quel rabbi Samuele che è il principale interlocutore di Annio); i-
noltre, la priorità temporale esclude possibili derivazioni latine o greche, nel caso,
ad esempio, di Arezzo e Fiesole, Antiquitates, B5r: «qui latine putant dicta fallun-
tur nimis. […] Haec enim nomina, ante latinam linguam ab Etruscis indita, sunt a-
rameae originis», o C5r, a proposito degli Orobici, che possono derivare da etimo-
logia greca, «graece enim oros mons et bios victus et vivens dicuntur», o aramaica,
«oros etiam apud Arameos […] est mons et bit filius vel filia. Hinc Orobii, filii mon-
tium». Ma in tali casi è decisiva la priorità temporale, «quod, ubi est nomen barba-
rum, ibi origo prorsus fuit barbara, etiam si id nomen postea effluxerit in linguam
latinam vel graecam». Se con la tecnica della sineresi non si raggiungono i risulta-
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ti, vi sono dei fenomeni che possono essere ricostruiti dall’esperienza del volgare:
l’aferesi ipocoristica, ad esempio, Antiquitates, I6r da Titanim la città di Tanim,
«truncata prima syllaba, […] quia ubi grammatice scribitur Philippus, Nicolaus,
[…] vulgo, truncata prima syllaba, pronunciamus Lippus, Colaus»; o per l’alter-
nanza nelle fonti Roma / Ruma, Antiquitates, L3r, «Etrusca olim lingua, et aetate
mea, non habet o integrum, sed inter o et u, et magis appropinquat u in compluri-
bus». Ma l’esperienza grammaticale di Annio attinge anche problematiche di un
successivo livello, ad esempio i problemi di semantica di s. Tommaso, Antiquitates,
g3v «in prima parte quaestionibus, quas de divinis nominibus facit, docet quod ali-
quando aliud est a quo nomen imponitur, et aliud ad quod significandum imponitur,
sicut lapis a ledendo pede imponitur, et significat substantiam duram». O la specu-
lazione dei modisti, a proposito della ricchezza semantica del nome di Viterbo, An-
tiquitates, c4r-v «nam, quaecunque eandem propriam derivationem et originem no-
minis habent eandem rem significant, licet possint differre in modo significandi, te-
ste auctore modorum significandi et speculativis, non vulgaribus, grammaticis». Il
riferimento può essere al modus significandi nominis di BOEZIO DI DACIA, Tractatus
modi significandi, a cura di J. PINBORG-H. ROOS-S.S. JENSEN, Copenaghen 1969, p.
262, o MARTINO DI DACIA, Tractatus de modis significandi, Copenaghen 1961, p.
161. Sulla problematica in generale, v. J. ROSIERS, La grammaire spèculative des
Modistes, Lille 1983, e M.G. AMBROSINI, Grammatica speculativa: Boezio di Dacia
e Tommaso di Erfurt, Palermo 1984.
35 Antiquitates, Q6r.
36 GUENÉE, Histoire cit., p. 181, che discute le regole e la valutazione del Goetz.
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fuisse regis cognomen, Larth vero nomen proprium, cum econtra Larth sit
dignitatis cognomentum commune»39.
In effetti, la presenza dell’onomastica come uno dei fili di Arianna
nel seguire la costruzione anniana si basa su due principi che sono dei ve-
ri e propri paralogismi: il primo consiste nel ridurre, a seconda delle cir-
costanze, un nome proprio a nome comune, come si è visto per Lars e, per
converso, un nome comune a nome proprio; il secondo è quello dei no-
mina aequivoca: la vita dello storico è infatti resa difficile dalla presenza
di omonimi di varia età, più Giovi, più Ercoli, e così via. Ma, ciò che può
essere un ostacolo per lo storico è invece una fortuna per il falsario; così
Annio si muove a suo agio tra gli equivoci, sfuggendo alle attestazioni
delle fonti coll’espediente di reduplicare i personaggi e distribuire quindi
i fatti secondo schemi a lui opportuni40. Se il signore sovrano dell’Etruria
è il Lars, la sua sede è senza dubbio Etruria, la futura Viterbo, intesa co-
me città capitale, non come regione. Il discorso che porta alla identifica-
zione di Etruria con Viterbo viene ripreso lungo tutto l’arco dell’opera,
ma sostanzialmente si basa su due passi di Livio e Plinio che testimonie-
rebbero il vero significato del toponimo: peccato che entrambi siano cita-
vo, Antiquitates, h2r: la lezione che figura nella edizione del Perotti, adoperata da
Annio è, appunto, Volaterrani, non corretta dal Barbaro: HERMOLAI BARBARI Casti-
gationes Plinianae et in Pomponium Melam, a cura di G. POZZI, Padova 1973, I, p.
108. Le edizioni moderne hanno piuttosto Volcentani.
43 Occorre osservare anzitutto che la lista dei re etruschi è fermamente inqua-
condo Gen. X, 2; e quindi Ochus Veius in base toponimica, a quo vestigium manet
mons Veiocus. In realtà, la minuta mappatura del territorio viterbese, in dimensione
anche diacronica, derivata dall’escussione di antichi documenti di possesso del con-
vento di S. Maria di Gradi, consente ad Annio una ricchezza di apporti onomastici
utilissima alla costituzione della lista.
44 Camese è personaggio misterioso che esercita per qualche tempo la correg-
genza con Giano: Macrobio, Sat., I, 7, 19, «cum Camese aeque indigena terram
hanc partecipata potentia possidebant, ut regio Camesena, oppidum Ianiculum vo-
citarentur. Post ad Ianum solum regnum redactum est». In base a questa scarna te-
stimonianza Annio costruisce un fantasioso racconto, con Cam che si stabilisce in I-
talia mentre Giano è occupato a colonizzare la Spagna, e ricomincia a propagare gli
errori e gli abomini che avevano causato il diluvio. Giano è costretto, quindi, a ri-
tornare e a cacciare il figlio, che passa in Sicilia (si veda il toponimo Camarina), e
in Africa, dove sarà il Saturno egizio, insigni empietate imbutus, ma padre del giu-
sto Osiride, secondo quanto si poteva leggere in Diodoro, III, 71, e Annio riprende-
va, con Beroso, ad Antiquitates, R5r-v.
45 Crano, modellato su Crane, la ninfa di Fasti, VI, 107, ma per Annio figlia di
Giano e regina del Lazio; quanto a Rasenna, si veda Dionigi d’Alicarnasso, I, 30.
46 Arunte è da toponimo, secondo la lettura anniana (per cui, Antiquitates, D5v)
di Plinio, N. H., III, 52 «memoriam servant eius coloniae»; Tagete è il celebre in-
dovino, più volte citato dalla tradizione classica (Ovidio, Met., XV, 558, Cicerone,
De div., 2, 23, 50 e Lucano, I, 637). Sicano è da toponimo, la Valle Sicana di Viter-
bo, e lo stesso per Enachio, dal toponimo Katenakios.
47 Tutta la vicenda della lotta di Osiride, identificato con Api, contro i giganti
me dice lo stesso Annio, pieni i codici, a partire dalla sua Epitome, pp. 96-104, e re-
lativa annotazione. Notizie potevano comunque derivare da Servio, per Atlante Ita-
lo, la chiosa ad Aen., VIII, 134; per Corito, a III, 167 (ma anche Lattanzio, Div. In-
st., XXIII, 3); si aggiunga per Italo e Morgete, Dionigi d’Alicarnasso, I, 12.
50 Notizie sulle vicende di Iaso Coribante e Cibele e sul trasferimento in Asia
Annio trovava spunti in Diodoro, V, 49 (ma Coribante era segnalato come re del
Lazio già da Martin Polono, Chronicon, 400); si coglie inoltre l’occasione per met-
tere d’accordo la tradizione indigena e quella meonica dell’origine etrusca (per cui
si veda anche Dionigi d’Alicarnasso, I, 28): infatti, dopo l’assassinio di Iaso e la
fuga di Dardano in Frigia, dove avrebbe fondato una gloriosa città, Cibele, essen-
do Coribante ancora troppo giovane, avrebbe raggiunto il cognato in Asia e con-
vinto Torebo, figlio di re Atu, a venire a reggere gli Etruschi, proprio perché an-
ch’egli di origine ianigena. Torebo poi si sarebbe chiamato Tirreno in omaggio al
suo nuovo popolo.
51 Con Torebo-Tirreno comincia da parte degli Etruschi una colonizzazione per
tiquitates, Z3v «a venenoso et terrifico serpente dictus, quem ad hanc aetatem Etru-
sci Oscorzonem dicimus». Il collegamento degli Osci col serpente deriva dalla chio-
sa di Servio ad Aen., VII, 730.
53 Il secondo Tarconte è colui che avrebbe imprigionato Caco nel Labirinto, co-
me risulta da Solino, Coll., I, 7, mentre di Tiberino e della sua lotta con Glauco nar-
ra le vicende Servio nella nota ad Aen., VIII, 330.
54 I nomi dei tre Lartes seguenti sono di celebre derivazione virgiliana: notis-
simo Mezenzio, le cui vicende sono ampiamente narrate nei libri VII-X dell’Enei-
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miglia Annia, nel cui futuro sarebbe stato destino imperiale; Felsino e Bon
sono gli ecisti etruschi di Bologna, Atreus dell’Adriatico; Marsia è re etru-
sco secondo la tradizione, Etalo viene da Ethalia55. Tornano per Celio Vi-
benna le fonti classiche; quanto al suo successore, Galerito, deriva da due
loci properziani, l’uno che descrive il rozzo lucumone primitivo galeritus,
cioè col capo coperto dal galero, con il consueto passaggio dall’aggettivo o
nome comune al nome proprio, personaggio identificato poi con il lucumo-
ne accorso in aiuto di Romolo contro i Sabini di un’altra elegia ‘romana’56.
Lukius e Cibicius provengono poi da pseudoepigrafi, Lucumone di Chiusi
da Livio, Rhetus è l’eroe fondatore dei Reti e Yellus è derivato da toponimi
e iscrizioni57.
L’ultimo periodo di indipendenza etrusca vede regnare Porsenna, To-
lumnio, Eques Tuscus e Livius Fidenas, secondo Annio tutti etruschi58. Infi-
ne Elbius, ancora da toponimo, viene sconfitto dai Romani e l’Etruria perde
la sua indipendenza, ma non i suoi Larthes; i nomi dei quali sono ricostrui-
ti da una iscrizione autentica, ma con un gioco di prestigio stupefacente59.
de; il terzo Tarconte è il condottiero degli ausiliari etruschi ad Enea, Aen., VIII, 506;
Ocno-Bianoro è il fondatore di Mantova, Aen., X, 198, e Buc., IX, 60, con relativo
commentario serviano.
55 Pipino si ricava da pseudoiscrizioni, ma anche da onomastica attuale (le ter-
me Pipiniane), non senza un ricordo liviano, IX, 41, 10; Piseo da Plinio, N. H., VII,
201; Nicio e Etalo dalle fondazioni etrusche di Nicea, in Corsica ed Etalia, l’isola
d’Elba, entrambe in Diodoro, V, 13; Tuscus iunior da una pseudoepigrafe di Tosca-
nella, a Tusco Larthe adaucta; Annius è il fondatore della gens Annia (orgoglio gen-
tilizio corroborato dalla genealogia degli Antonini: Historia Augusta, Antoninus
Pius, I, 7, e VI, 10); Felsino, Bon e Atrio sono tre nomi di ecisti, rispettivamente di
Bologna e dell’Adriatico; quanto a Marsia, è il re etrusco colonizzatore dei Marsi in
Plinio, N. H., III, 108.
56 Per Cele Vibenna, si veda Varrone, De lingua latina, V, 46; Galerito è rica-
Lars, per cui si veda supra, nota 37; Eques Tuscus è l’eponimo degli Equi, testimoniato
da iscrizione, in thermis Pauli Benigni; Livius Fidenas è in Macrobio, Sat., I, 11, 37-39.
59 Il nome di Elbio è ricavato da toponimo in Tolomeo, III, 1, 49 (secondo la
lezione testimoniata da BARBARO, Castigationes cit., III, p. 1220); quanto ai suoi im-
mediati successori, Annio, Antiquitates, E2r, dice: «in Surrenae thermis canale in-
gens plumbeum Cecynnae invenit Paulus Benignus ita latinis litteris excisum TURR.
TITIANI V. C. idest ‘Turreni Titiani Volturreni Cecynnae’. Ita Cecynnae epithetum
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ro (ricavato da Appiano, Bell. civ., V, 81, 342, e malamente collegato con l’Etruria),
Mecenate che conclude la serie dei Larthes, ormai soltanto personaggi di prestigio,
sin dentro l’età imperiale romana.
61 La volontà di completare la lista dei capi etruschi fa accogliere nel numero
personaggi che non avevano goduto di una buona stampa. Di fatto, per Seiano il ri-
ferimento è alla decima satira di Giovenale in cui, ai vv. 65-77, emergeva la possi-
bilità di accedere all’impero e, soprattutto, una devozione alla dea nazionale etrusca
Nortia. La vicenda di Scevino è testimonata da Tacito, Annales, XV, 49-55; infine
l’origine etrusca di Ottone è in Svetonio, Otho, L, 1. Non è possibile dire perché An-
nio ha voluto arrivare faticosamente con la lista al tempo di Nerone, e nulla è di-
chiarato esplicitamente in proposito: se è possibile prospettare una congettura, oc-
correrà osservare come il discorso sia condotto proprio al tempo in cui a Roma si
sarebbe insediato il primo pontefice massimo cristiano, nei cui confronti Annio evi-
denzierà una vera translatio imperii dai Larthes, per cui si veda infra.
62 L’importanza di Tolomeo ai fini del suo discorso era rilevata dallo stesso An-
nio, Antiquitates, K1r, dove è detto che, chi vuol capire Sempronio, «habeat ante se
pictam imaginem Italiae, praecipue quam Ptolomaeus describit». Poi la lezione del-
la geografia antica viene focalizzata attorno a Viterbo per ricercare più approfondi-
tamente le orme degli antichi eroi, non soltanto nella corografia contemporanea, ma
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anche in quella emergente da una ricerca storica e documentale per i toponimi non
più esistenti: Antiquitates, i1r, «quaerendum esset in contractibus vetustis si ea re-
gio aliquo prisco Arameo et Etrusco vocabulo tunc diceretur, quia nomina antiqui-
tatis prisca locorum sunt argumenta infallibilia originis ipsorum, ut omnes historici
asserunt». E difatti, immediatemente dopo, a proposito di Musarna si legge: «quam
adhuc Musarnam appellant et cuius ruinae visuntur, et de qua contractus nostri con-
ventus aiunt agellum nostrum esse in civitate Musarna». Per altro uso di documen-
tazione medievale, Antiquitates, y2v e h6v; a T5v la ricostruzione del toponimo Hor-
chia («nostrum est, donatione facta inter vivos ab archypresbitero eiusdem ecclesiae
[S. Petri] pro conventu Sanctae Mariae ad Gradus viterbensis, ut donationem in no-
stris archiviis servant contractus depositi») fa sì che tale forma assuma il nome del-
la dea etrusca attestata come Nortia in Livio, VII, 3 ,7, e Giovenale, X, 74.
63 I falsi epigrafici risultano la prima proposizione della costruzione anniana, a
livello del trattatello edito in WEISS, An Unknown cit., pp. 107-120, e si è visto il lo-
ro contributo alla compilazione della lista dei Larthes. Un uso altrettanto disinvolto
è quello delle epigrafi autentiche, come nel caso di quella relativa a Cecina. Ma un
altro caso interessante in Antiquitates, F4v, dove, per testimoniare il culto di Vertun-
no nel Vico Tusco è riportata la famosa iscrizione dell’arco degli argentieri, CIL, VI,
1035, ad Annio nota anche attraverso la voce Roma del Tortelli (GIOVANNI TORTELLI,
Roma antica, a cura di L. CAPODURO, Roma 1999, [RRinedita, 20], p. 71). Alla fine
l’epigrafe recita, secondo la lezione delle Antiquitates: «Imperatori Caesar. L. Septi-
mio Severo […] et imperatori Caesar. M. Aurelio Antonio Pio Felici […] et Iuliae
Aug. matri […] argentarii et negociantes Boarii huius loci devoti eorum numini». Do-
ve il numen, con sprezzo della reciprocazione sui et eius, è il dio Vertunno, e non il nu-
men degli imperatori, ed eorum è riferito agli argentieri e negozianti del Vico Tusco.
64 Una selezione e un metodo di lettura secondo una precisa scelta ideologica,
offrire una lettura innovativa, non tanto del Virgilio delle antichità italiche,
quanto di Ovidio e del Properzio delle elegie romane65.
Ma anche in questi casi l’opzione ideologica intesa a riconoscere le po-
stille di una continuità noachica viterbese, estesa poi al Lazio, alla peniso-
65 Che Annio volesse narrare una storia ‘primitiva’ risulta da quanto dice Bero-
so, Antiquitates, Q6r, «nostra caldaica et primordiali scythica historia». In effetti il pri-
mitivismo, spesso legato alla prospettiva dell’età dell’oro, è un luogo culturale di lun-
ga durata. Nel disegno di Annio confluiscono due tipologie: la prima è quella classi-
ca, derivata dalla lettura della grande erudizione latina antica e tardoantica, ma so-
prattutto dalla poesia di Virgilio, Ovidio e Properzio, non senza un apporto mirato del
capolavoro etnologico della Germania di Tacito (e una edizione di Venezia del 1481,
contenente i due testi capitali dell’uso anniano, la traduzione di Diodoro fatta da Pog-
gio e, appunto, l’opera di Tacito con postille del Nanni è segnalata in Viterbo dalla
MATTIANGELI, Annio cit., p. 280). L’altra tipologia è quella biblica, rilevabile da ele-
menti desunti dal Genesi e passata attraverso i Padri della Chiesa alla grande sistema-
zione del Comestore (e, per la prospettiva di tutto il problema, si vedano i fondamen-
tali contributi di A.O. LOVEJOY-G. BOAS, Primitivism and Related Ideas in Antiquity,
Princeton 1935, e G. BOAS, Essays on Primitivism and Related Ideas in the Middle A-
ges, New York 1978). Il primitivismo di Annio si situa alla confluenza delle due tra-
dizioni che si compongono nella identificazione di Noè con Giano, Ogige e Vertunno,
approdando a un sincretismo che nei vari momenti sottolinea l’una o l’altra linea: e si
veda il primitivismo ‘romano’ dei frammenti di Sempronio e Fabio Pittore e quello
‘giganteo’ dei primi frammenti di Beroso. Un primitivismo il cui interesse risultava
enfatizzato, soprattutto in ambito romano e curiale, dalla sua verifica nell’antropolo-
gia delle terre nuovamente scoperte, cui lo stesso Annio fa due volte riferimento per
corroborare la storicità del mito dei cannibali (Antiquitates, O3r: «neque hoc fabu-
la est, cum aetate nostra in insulis Cananeiis, quarum quasdam nunc subegit glorio-
sus rex Hispaniae Ferdinandus, homines captos castrent et in greges more pecudum
ad convivia servent»); e di quello delle Amazzoni (Antiquitates, S2r: «Amazones,
quae ad hanc aetatem perseverant, ut narrant Hispani nautae, qui occeanum Africum
circumquirunt»). Un primitivismo di paesaggio, la solitudo Italiae, dove, prima che le
città, erano pascua bobus, e un’età in cui «patiens [….] terra deorum esset, et huma-
nis numina mixta locis», ma che sa farsi anche ragionamento storico sulle fonti; e si
prenda l’intervento sulla figura del lucumone, quando, dinnanzi ad una testimonianza
di Festo-Paolo Diacono, Lindsay, 103, per cui «lucumones vero dicti quidam homines
ob insaniam, quod, loca ad quae venissent, festa [infesta Lindsay] facerent», Antiqui-
tates, e6r, si cavava d’impaccio postulando il consueto errore di stampa: «nisi forte
mendosus sit codex, ut corruptor ob insaniam scripserit, ubi ob fana scripsit Festus».
Ma sul problema Annio tornava nella quattordicesima questione anniana, Antiquita-
tes, g4rv, dove riprendeva la stessa testimonianza del lessicografo, dandone, però una
diversa lettura, non banale errore di tradizione ma precisa attestazione di un momen-
to di ritualità dei primitivi che «utebantur […] saltatione in religionibus». E coonesta
l’interpretazione con la nota di Servio a Buc., V, 73, «nullam partem corporis maiores
nostri voluerunt esse, quae non sentiret religionem», e soprattutto con l’opportuno e
funzionale esempio biblico di David che, danzando innanzi all’arca, fuerit scurra et
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gnala che striges è lezione anniana, contro tristes, probabilmente modellata sul pro-
sieguo del discorso dei Fasti, vv. 133-139.
67 L’elegia è commentata in Antiquitates, F1r-6v, ma la tecnica esegetica di un
testo autentico ha sollecitato delle riflessioni a parte, nel contributo Nota sulla ‘filo-
logia’ di Annio, che comparirà negli studi in onore di Francesco Tateo. Qui basti ra-
pidamente considerare la dimensione propriamente storica della notizia dell’aiuto e-
trusco a Romolo presentata dai vv. 49-54. Ciò che è interessante è la ricostruzione
di una vicenda con l’uso, sostanzialmente, di testi poetici: il già ricordato Properzio,
cui si aggiunga IV, I, 29, «prima galeritus posuit praetoria Lygmon», e i Fasti di O-
vidio, I, 271, per la militia sulphurata, al cui chiarimento è adoperato Plinio, Epi-
stulae, VIII, 20, confutando quanto asserito in Dionigi d’Alicarnasso, II, 42, secon-
do cui Lucumone sarebbe morto in difesa di Romolo.
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tem vera historia quod Thusca militia initiabatur ad lacum Vadymonis Etruriae. […] Pli-
nius nepos in epistula ad Gallum dicit lacum Vadymonis esse sulphureum et nullam ibi
navim, quia sacer est. […] Unde veritas historiae est: […] ad sulphureum lacum inicia-
ta milicia Galeriti tenebat pro Romulo Quirinalem collem; […] cumque Sabini fugien-
tem Romulum persequerentur, mox Galeritus sulphuratus, e Quirinali illapso, in locum
ubi est Ianus a tergo Sabinos cedens, coegit Metium Curtium ducem […] in paludem se-
se coniicere». Cui segue una lettura puntigliosamente evemeristica dei versi ovidiani.
69 L’episodio dell’aiuto etrusco a Romolo, taciuto da Livio, è un luogo che ri-
torna più volte nell’opera di Annio ed offre sempre l’occasione per puntualizzare
l’esigenza di un storiografia erudita, sino ad approdare in Antiquitates, N7r, ad un
vero excursus de malignitate Livii assolutamente inconsueto nella cultura dell’U-
manesimo: «dicam et ipse opinionem meam: Suetonius Tranquillus, in Vita Caii
Calligulae [xxxv], scribit paululum abfuisse quin ab omnibus bibliothecis statuas et
scripta Livii deleret, quod illum, ut verbosum et negligentem in historia, carpebat.
Est autem negligens is qui supprimit quae referenda sunt, et verbosus qui absque
probatione contradicit afferenti rationes et auctores. Et his duobus peccavit Livius
in multis, ut patet, […] quod profecto invidissimi hominis est officium et negligentis
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veritatem in historia, […] cum vero constet Livium non ignorasse quae Varro et Fa-
bius Pictor et alii referunt; constat equidem illum non ignoratione scientiae sed mali-
gnitate naturae in historia neglexisse dicenda et verbose dixisse subticenda». È ovvio
poi, secondo il costume di Annio, che lo storico romano viene adoperato in maniera
palese e occulta, come fonte di notizie e maestro di spunti metodici.
70 E si veda quanto emerge dal volume Presenze eterodosse cit., anche per ul-
teriore bibliografia.
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nio alle condizioni di una penisola non più locus conclusus. Quanto alla fortuna
europea della prospettiva delle Antiquitates, come rilevamento della formazione
delle nazioni, basti il rinvio ai due importanti contributi di A. BIONDI, Annio da Vi-
terbo e un aspetto dell’orientalismo di Guillaume Postel, «Bollettino della società
di studi valdesi», 103 (1972), pp. 49-67, e A. GRAFTON, Falsari e critici. Creati-
vità e finzione nella tradizione letteraria occidentale, Torino 1996, pp. 106-132.
Stranamente, il nome di Annio non figura nelle più autorevoli ricostruzioni dell’i-
dea di Europa, ad esempio D. HAY, Europe. The Emergence of an Idea, Edimburg
1957, o il più corposo C. CURCIO, Europa. Storia di un’idea, Firenze 1958. Vi è
poi una curiosa, ulteriore, scheda della fortuna di Annio: G. BILLANOVICH, Il Pe-
trarca e i retori latini minori, «Italia medioevale e umanistica», 5 (1962), pp. 153-
161, narra la vicenda di un Severianus auctus, in cui il testo dell’antico retore era
implementato di tutta una descrizione della cultura a Milano e Novara nell’età de-
gli imperatori Graziano e Valentiniano. Ma, come rileva il Billanovich, si tratta di
una Novara e di una Milano ‘di cartapesta’, opera di falsario cinquecentesco, in-
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sempio III, 122 «pudet a Graecis Italiae rationem mutuari», nella scheda relativa al
Po; o ancora, N. H., XXIX, 1, quando riporta i disdegni catoniani contro gli Elleni
corruttori; poi le affermazioni, che si sono sopra considerate, di Giuseppe Flavio;
ancora Giovenale, nelle sue numerose caratterizzazioni dell’intellettuale greculo po-
vero e corrotto, ad esempio III, 58-60; ma soprattutto Diodoro, II, 29, il testo più
presente ad Annio, proprio perché in esso è direttamente affrontato il problema del-
le differenze tra cultura greca e cultura caldaica. Tutta la tradizione confluiva nel-
l’autorevole voce cristiana di Lattanzio, dal cui capitolo I, 14 delle Divinae Institu-
tiones numerose sono le mutuazioni nelle Antiquitates.
74 Da parte, innanzi tutto, di F.N. TIGERSTEDT, Ioannes Annius and Graecia
tia fuerit inter priscos Graecos et Caldeos, quod Graeci fabulas nugasque et
errores seminaverunt, Caldei autem firmam et solidam veramque doctrinam
tribuerunt: testis est […] Diodorus»75. Cui segue una diffusa citazione del-
la celebre partitura in cui lo storico antico segnala la differenza tra il modo
di fare cultura, sacerdotale e tradizionale per gli Orientali, laico e sociale
per i Greci, ovviamente quest’ultimo, per la sua labilità e venalità connota-
bile come disvalore. Del resto, anche Strabone aveva sottolineato che i Gre-
ci sono recentiores, e quindi in prospettiva anniana deteriores, rispetto ai
barbari, «quoniam apud priscos barbaros veritas rerum erat»76. E, in parti-
colare, i Greci avevano confuso le cose nelle loro narrazioni storiografiche,
come ben sapeva Giuseppe che aveva polemicamente rivendicato il prima-
to della storia orientale, e come potevano confermare Diodoro e Lattanzio,
rilevando anche i motivi economici delle innovazioni: «quia de rebus maxi-
mis semper altercant, questus et lucri gratia»77.
Si confermava, quindi, la profezia catoniana sull’azione nefasta delle
lettere greche: «nam omnis illa theologia, philosophia et naturalis divinatio
et magia, quas disciplinas […] Ianus tradidit et in quibus Thusci, teste Dio-
doro Siculo in sexto libro [V, 40], usque ad aetatem suam erant admirabi-
les toti orbi […] corruptae sunt». Alla certezza della cultura ianigena su-
bentra l’incertezza dialettica della prospettiva greca, cui non sfugge lo stes-
so Aristotele, che sostituisce alla scienza conoscitiva ed operativa «fabulas
et nugaces disciplinas», di quegli Elleni che «dum omnia norunt, nihil in-
telligunt»78. Alla prospettiva ellenica Annio oppone la possibilità di una cul-
tura capace di conoscere veramente le cose, una opzione che trovava certo
precedenti nell’ultimo Quattrocento nelle tensioni intese a rilevare le po-
stille, all’interno della tradizione, di una prisca theologia, di una antichissi-
ma sapienza che fosse medicina alle incertezze di una età in cui si comin-
ciava a sentire la crisi di valori di un pur glorioso umanesimo filologico e
‘laico’. Coerentemente in Annio la scienza antichissima e nuova non può
essere se non quella teologia e magia operativa propria della cultura noa-
chica, di nobilissima tradizione perché infusa in Adamo al momento della
creazione e discesa, anche come trasmissione storica, dal protoplasto a E-
noch, a Lamech, a Noè79: una scienza la cui operatività è subito evidenzia-
[…] navim instar archae coopertam fabricari cepit». Forse è il caso di prospettare
qualche osservazione di lettura della complessa struttura anniana nel rapporto tra te-
sto e chiosa: come è noto, si tratta di una serie di frammenti attribuiti a falsi autori
e del relativo, profuso commentario che è la parte riconosciuta a se stesso dall’au-
tore. Ora, questa situazione è utilizzata nella fictio complessiva dell’invenzione del-
la storia alternativa, per cui si movimenta una certa dialettica tra le due sezioni, in
cui qualche volta la chiosa può differenziare e distinguere le proprie posizioni dal
testo (e si veda più avanti, Antiquitates, V2r, e V3v, dove Beroso attribuisce alla ma-
gia l’apertura del mar Rosso da parte di Mosè e Annio lo scusa perché danda venia
est gentilitati). Tuttavia, se vi è la possibilità di una tale dialettica, nel complesso
della costruzione le due posizioni non risultano differenziate: in particolare, per quel
che riguarda la previsione meramente astrologica del diluvio, non si riscontra alcu-
na reazione della chiosa che possa richiamare, contro l’autore pagano, alla provvi-
denza divina.
81 Perché Noè è un gigante e padre di giganti: la curiosa vicenda culturale eu-
di eroe culturale che circola in tutta l’opera nella misura consentita da una
ineludibile opzione cristiana, in una pagina di cui occorre rilevare lo spes-
sore mitico-filosofico83. Ma dei sono anche i suoi successori, «unde et pa-
ter deorum maiorum, scilicet filiorum, et minorum, scilicet nepotum et pro-
nepotum, dictus fuit, quia omnes fuerunt principes regnorum et coloniarum,
excellentissimi iudices et duces»84. Una colonizzazione aurea perché paci-
fica, superata presto in Oriente dall’attività guerresca di Nino, mentre è du-
rata più a lungo in Europa; e in certa misura dura ancora, dal momento che
la suprema magistratura stabilita da Giano-Noè per gli Etruschi ha le carat-
teristiche temporali e sacrali, come si vedrà, dell’attuale pontificato. La co-
lonizzazione noachica costruisce la struttura di una società primitiva che si
caratterizza per un alto grado di sapienzialità, accanto ad una semplicità e-
conomicistica, di uomini che abitano in caverne e carri, in piccoli nuclei ur-
bani, e usano vino e farro per scopi rituali85. Malgrado tale sobrietà della vi-
ta la competenza culturale è, per altro, altissima, per cui in Europa gli Iberi-
ci hanno conosciuto le lettere duemila anni prima di Augusto e gli antichi
Francesi hanno in Sarron un principe interessato alla pubblica istruzione e
mostrano un gusto raffinato e civile per la poesia dei bardi86.
Nella prospettiva di Annio la nobile Europa si forma, non nel travaglio
delle invasioni barbariche medievali, ma già al tempo della prima coloniz-
zazione noachica Tubal per la Spagna, Tuyscon per la Germania, il dotto
Samothes per la Francia costruivano la civilizzazione: «fuere litterae, phi-
83 Si veda in proposito almeno ALLEN, The Legend of Noah cit., e P.D. WALKER,
Spiritual and Demonic Magic from Ficino to Campanella, Notre Dame 1975, e, per
il più specifico ambiente romano, CH.L. STINGER, The Renaissance in Rome, Bloo-
mington 1985.
84 Antiquitates, O6v.
85 Annio torna più volte sulla vita semplice degli uomini dell’età dell’oro: An-
tiquitates, A1v, dove si dice che «principio Ianum invenisse vinum et far ad religio-
nem et sacrificia, magis quam ad usum». O, ancora, il frammento di Fabio Pittore a
L4v-5r, che offre un vero profilo dell’età dell’oro; infine a Q5v, dove si dice che
«moris fuisse antiquis, ut urbes non magnas, sed parvas et locis munitas conderent,
non quidem lapidibus, sed, ut ait Berosus, solum […] veis et cavernis; veias appel-
lant currus et cavos truncos arborum». Ma tutta la pagina è interessante per la deli-
neazione conclusiva dell’antropologia dei primitivi: «Ianus docuit humiles urbes ad
coetum et communionem politicam, non ad pompam et damnationis [forte domina-
tionis] libidinem».
86 Antiquitates, R5v-6r: «asserebant Hispani se habuisse litteras, leges et car-
mina iam ante sex milia annorum ibericorum, qui efficiunt duo milia solarium. […]
Igitur ante Cadmum fuere litterae, philosophia, carmina, theologia et leges Hispa-
nis, Gallis, Germanis et Italis per multa saecula et aetates»; quanto a Sarron, «ut
contineret ferociam hominum, […] publica litterarum studia instituit», Antiquitates,
S6r. Infine, per la funzione della poesia dei bardi, ovviamente, da un re Bardo, An-
tiquitates, T2v, su suggestioni di Diodoro Siculo, V, 31.
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scon, «tempore quo dicti tres duces formabant Hispaniam, Galliam, Germaniam»,
contro la funzione corruttrice di Cam-Saturno africano; ma ancora il motivo è in-
sistito a R2r ed R5r. Ad Antiquitates, R5v si rivendica la nobiltà europea delle ori-
gini noachiche contro la falsa e recenziore derivazione greca; polemica ripresa a
T6r, dove si sottolinea la provenienza europea degli asiani Eneti: «quos ab Europa
genitos, non Europae genitores probavimus». Si è già notato come, in via prelimi-
nare, Annio si scusasse di non poter procedere ad un discorso unitario sull’Europa,
nel momento in cui, tuttavia, ne affermava la coscienza della sua comunità.
91 Per la cultura primitiva dei Galli, degli Iberi e, in termini di più accentuato
primitivismo, dei Germani, si veda quanto emerge dal discorso precedente; la pa-
rentela delle stirpi europee tra di loro, e con i sacri ianigeni Etruschi, è più volte po-
stulata, e si veda quanto detto supra, a proposito degli Iberi Sagi al pari degli Etru-
schi e, per i Galli, Antiquitates, T2v, nostros consanguineos Gallos.
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Lars in Antiquitates, T4v, dove è in certo modo postulata una analogicità istituzio-
nale con gli imperatori romani e, soprattutto, con i pontefici cristiani.
95 La critica a Beroso emerge ad Antiquitates, F6v («Berosus falsum scribere
videtur, dicens quod solum haec duo regna, Italicum et Scythicum, venerantur
Noam cognomine Ianum») e si riferisce a quanto affermato nel frammento di Bero-
so a Q1r: «solum haec duo regna, Armenum quidem, quia ibi cepit, Italicum vero,
quia ibi finivit, […] illum venerantur», e ciò anche se nel prosieguo Beroso stesso
racconta i numerosi viaggi e colonizzazioni dell’ecumene di Noè-Giano. La discra-
sia tra i due passi si spiega col fatto che i frammenti erano già stati in qualche mi-
sura pubblicizzati quando Annio lavorava ancora in prospettiva italica (come emer-
ge da FUMAGALLI, Un falso cit., pp. 345-349), per cui, quando il materiale era con-
fluito nella grande opera finale, un’accorta regia di montaggio delle varie sezioni
sceglieva la via di una critica interna della chiosa nei confronti di specifici tratti del
testo, tra l’altro funzionale alla distinzione tra i due momenti che portava ad una sor-
ta di oggettivazione ed autenticazione della parte documentaria.
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rone96; e ciò è cosa nota e rilevabile quasi ad ogni pagina, ché anzi sono
menzionate sedute di studio con talmudisti locali nella settimana di Pasqua
del periodo viterbese: data interessante, se è vero che proprio quel tempo
doveva segnare la formazione di una più complessa ricostruzione anniana
del passato97.
Tuttavia, se lo strumento della ‘filologia’ ebraica è valido, sono i conte-
nuti della tradizione talmudistica che divengono oggetto di polemica diretta,
con puntate anche in direzione della stessa storiografia mosaica, un ramo mi-
nore e meno ecumenico della tradizione continuata dai Caldei98. In questa
traiettoria l’operazione prospettata da Annio è certo più complessa del nor-
male rapporto della cultura cristiana quattrocentesca col contiguo mondo i-
sraelitico, cui si può fare risalire, comunque, la distinzione tra un’ebraicità
scritturale e il moderno giudaismo, che avrebbe perso di vista gli stessi va-
lori dell’antica Legge99. Pur nella cautela imposta dalla materia, dal conte-
96 Si vedano Antiquitates, c1r-4r, dove Annio affronta addirittura problemi se-
mantici che l’antica erudizione varroniana aveva lasciato insoluti: «auctor est Varro,
de lingua Latina [VII, 45]: obscurae originis nomina sunt Diva, Volturna, Palatua,
Flora, Furina, Falucer, Pomona Pomonusque pater»; e li risolve con l’aiuto della e-
timologia aramaica, per cui, ad esempio, Flora «derivatur a Falor [dolore nell’acce-
zione ‘aramaica’], ut aiunt Talmudistae: a quo Falora, et per sincopam Floram: est
dea merentium».
97 Antiquitates, i4v: «in octavis Pascae ferme quinque iam annis superioribus
sto anniano risulta evidente una situazione per cui la prospettiva biblica dei
libri storici è certamente analoga a quella espressa da un Beroso, per la co-
munanza delle fonti, ma è in certa misura di derivazione secondaria rispet-
to ad una linea noachica rappresentata dai Caldei e direttamente verificabi-
le nella storia etrusca. A ben considerare, la presenza scritturale assume u-
na parte abbastanza limitata nella ricostruzione del frate viterbese, comun-
que spesso mediata da qualche sistemazione ‘professionale’, e si pensi ad
una Historia scolastica. Va, tuttavia, rilevato che sarebbe stato impossibile
per un intellettuale della tipologia di Annio affrontare una polemica espli-
cita e radicale con la tradizione ebraica, come aveva potuto, invece, fare nei
confronti della tradizione greca, senza il rischio di intaccare gli stessi fon-
damenti della sua formazione. In ogni caso, nello spazio ristretto che gli è
consentito, Annio fa di tutto per divaricare il momento noachico e quello a-
bramitico: Noè è infatti un gigante e portatore di cultura gigantea, trasmes-
sa a tutta l’ecumene e in particolare ai cananiti, i quali hanno creato la pri-
ma tradizione scolastica postdiluviana100.
Inoltre, la storia sacra penetra nell’opera anniana con civetterie ‘lai-
che’: in un frammento di Beroso, ad esempio, dove si narra la storia del pas-
saggio del Mar Rosso si afferma che il Faraone «cum Hebreis de magica
pugnavit et ab eis submersus fuit», senza che il commento reagisca, salvo a
ricordarsene due carte più tardi, assolutamente a sproposito, cercando di at-
tenuare la cosa: «sed, quod est grave in Beroso, magum Moisem appellat,
qui divina virtute vicit. Sed venia danda est gentilitati»101. In realtà, com’e-
ra stata proposta una storia alternativa alla linea classica, linea sacerdotale
sraeliti: «perdiderunt enim omnem sapientiam quam sui habuerunt», per cui è da di-
stinguere tra i «veteres Iudaeos» e i «modernos Iudaeos, quibus etiam ipsa lux Veteris
Testamenti ferme obscuratur»; salvo poi, poco più avanti, ad utilizzare la competenza
etimologica dei talmudisti, «dicunt autem Talmudistae». Ma certo il frammento filo-
niano è luogo privilegiato della presenza scritturale, l’unico in cui si fa esplicito osse-
quio alla verità biblica a proposito della eternità del mondo sostenuta dai Caldei e in-
vece negata da Mosè, il quale non ha, tuttavia, provato il suo assunto, ma, nella fatti-
specie «est […] omni humana opinione certior fides». Nei frammenti ‘storici’, e rela-
tivo commento, la posizione di Annio è, però, notevolmente più ‘laica’.
100 In effetti, tutta la mitologia anniana si diversifica da quanto emerge dai li-
bri storici della Bibbia: i giganti, ad esempio, sono visti con connotati non sempre
negativi, dato che lo stesso Noè è un gigante; inoltre, la terra Canaan risulta luogo
privilegiato di antica civilizzazione, se Giosuè vi trova Chyriat Sepher, «idest civi-
tas litterarum. [...] Illa urbs antiquitus id nomen accepit, quod ibi primum litterae et
memoriae Assyriorum et Phenicum libris mandatae fuerunt et Priscorum fuit Acha-
demia antiqua»: Antiquitates, I6v. Ma si veda anche O2v-3r, per la caratterizzazio-
ne della cultura adamitica e la sua trasmissione ai Caldei tramite laterculos coctiles
inscriptos.
101 Antiquitates, Y2r e Y3v.
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e ‘teologica’ contro linea laica e retorica, così si ripropone una nuova sa-
cralità direttamente trasmessa da Noè agli Etruschi e all’Europa tutta, una
scienza perfetta e conoscitiva che attinge a rami più alti di quelli abramiti-
ci dell’antica saggezza e che, in certo modo, dalla linea noachico-ianigena
alla potestà sacrale dei pontefici romani e alla comune civiltà europea pro-
cede rendendo non indispensabile l’apporto culturale e sacrale ebraico: e
occorre appena rilevare come Annio sottolinei più volte l’eguale nobiltà, ma
soprattutto la compatta caratterizzazione etnica ianigena del contesto euro-
peo.
Una prospettiva che torna centrale nella storia iberica antichissima a
conclusione dell’opera. Già nella dedica a Ferdinando e Isabella Annio a-
veva inquadrato l’interpretazione dell’attività dei nuovi regnanti entro
coordinate ianigene ed erculee: «hii enim soli tenebras a luce diviserunt;
tyrannos Hispaniarum et Geriones, tanquam semen herculeum, magna vi
atque fortitudine substulerunt; latrocinantes deleverunt; impios hereticos
tota Hispania pepulerunt; Mauros, crucis inimicos, illo potentissimo re-
gno Betico spoliaverunt». Su questa linea la successiva ricostruzione sto-
rica, che intendeva colmare le lacune antiquarie della prestigiosa proposta
storiografica dell’Arevalo, si configurava come una ulteriore rivendicazio-
ne di origini ianigene, di cui si può misurare la sacralità e la lunga durata,
dal momento che gli Iberi erano «Scythae Caspii», e i Goti «quum […] in
Hispanias penetraverint et ad hanc aetatem regnaverint, […] consequens
necessario est ut posteri Gothi non variaverunt priscam originem Hispani-
cae gentis»102. E, nel prosieguo del discorso, non mancano le puntate in-
tese a stabilire la recenziorità della tradizione ebraica rispetto alla linea ia-
nigena dei regni iberici103, mentre si marca piuttosto la vicinanza di san-
gue con l’Italia104.
Dalla complessa costruzione anniana deriva in fin dei conti una nuova
storia della nobile e pura Europa che forse comincia già a puntare in linea
preferenziale alla vicenda spagnola, investendo, ad esempio, di caratteri
‘romani’ quella Roma iberica che è Valenza, da cui non a caso provengono
gli eroi Borgia, il primo, Callisto, difensore strenuo dei valori europani con-
tro gli assalti Turchi, il secondo, Alessandro, che riporta alla luce l’antico
auspicio noachico propiziando le scoperte etrusche, «futurae sub eo ponti-
fice felicissimo propagationis imperii Christiani et sedis apostolicae illu-
102 Si cita da Antiquitates, a2r e k1v.
103 Ad esempio ad Antiquitates, k1v, dove si nota la recenziorità di Abramo ri-
spetto a Tubal, in un contesto in cui si ricorda l’antica colonizzazione iberica di Noè;
o, ancora, k2r, benedizione delle genti in nome di Cristo contro il Dio di Israele, de-
rivando da affermazioni di s. Paolo, Galati, 3, 8-9; k4d, dove le vicende di Deuca-
lione e Mosè sono messe in parallelo: «sub Sphero e Sycoro nati sunt duo salvato-
res, alter a diluvio ereptor, alter a servitute».
104 Antiquitates, k4v: Luso «multas duxit ex amicis Italiae colonias».
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MARIANGELA VILALLONGA
1 Cfr. M. VILALLONGA (a cura di), Jeroni Pau. Obres, Barcelona 1986; EAD., Je-
roni Pau en el umbral de un mundo nuevo: Quinto Centenario de su muerte, in Ac-
ta Conventus Neo-Latini Abulensis, (Proceedings of the Tenth International Con-
gress of Neo-Latin Studies, Avila, 4-9 August 1997), general editor R. SCHNUR,
Tempe (Arizona) 2000, pp. 647-657.
2 Cfr. W. BRACKE in questo stesso volume ed anche ID., «Contentiosa disputa-
tio magnopere ingenium exacuit», in Roma e lo Studium Urbis. Spazio urbano e cul-
tura dal Quattro al Seicento, (Atti del Convegno, Roma, 7-10 giugno 1989), Roma
1992, pp. 156-168; ID., Pietro Paolo Pompilio grammatico e poeta, Messina 1993;
M. CHIABÒ, Paolo Pompilio professore dello «Studium Urbis», in Un pontificato ed
una città. Sisto IV (1471-1484), (Atti del Convegno, Roma, 3-7 dicembre 1984), a
cura di M. MIGLIO-F. NIUTTA-D. QUAGLIONI-C. RANIERI, Roma-Città del Vaticano
1986, (Littera Antiqua, 3), pp. 503-514.
3 Cfr. M. VILALLONGA, Dos opuscles de Pere Miquel Carbonell, Barcelona
1988; EAD., La literatura llatina a Catalunya al segle XV, Barcelona 1993, pp. 63-
72; EAD., Pere Miquel Carbonell, un pont entre Itàlia i la Catalunya del segle XV,
«Revista de Catalunya», 85 (1994), pp. 39-59.
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sandro VI sarà oggetto di studio nelle pagine che seguono, a partire dai da-
ti biografici di Pau di cui sono a conoscenza. Mi soffermerò dunque su que-
gli aspetti della biografia di Jeroni Pau che lo collocano nel circolo del car-
dinale valenzano e su quelli che riflettono l’amicizia con Paolo Pompilio.
Da una parte, attraverso le parole che Pau scrisse nelle dediche e negli
epiloghi delle opere da lui dedicate ad Alessandro VI e in quei testi che han-
no come protagonista il valenzano, potremo conoscere il Rodrigo Borgia di
cui Pau ci fece il ritratto. Dall’altra, attraverso le opere di Pompilio e Pau,
potremo conoscere la portata della loro amicizia. Jeroni Pau era figlio di un
giureconsulto consigliere dei re Alfonso IV e Giovanni II e nipote del me-
dico di famiglia della moglie di Alfonso IV. Nacque a Barcellona intorno al
1458 e morì nella stessa città nel 1497. Studiò in alcune università italiane,
sicuramente a Bologna, Perugia, Firenze e Siena, ma ci è documentato sol-
tanto il suo soggiorno all’Università di Pisa negli anni 1475-14764. È sem-
pre chiamato doctor utriusque iuris. Come Rodrigo Borgia, il suo protetto-
re, fu anche alunno del giurista Andrea Barbazza. Pau fu canonico di Bar-
cellona ed anche di Vic. Nella sua attività più propriamente letteraria col-
tivò la poesia, il saggio storico, gli studi geografici e grammaticali, la giu-
risprudenza. Nel 1475 Jeroni Pau viveva già a Roma, dove rimase dicias-
sette anni, sempre accanto al cardinale Borgia, di cui fu, in un primo tem-
po, familiaris continuusque commensalis e infine ricoprì la carica di litte-
rarum apostolicarum vicecorrector alla curia. Sappiamo che quello stesso
anno Pau scrisse l’opera De fluminibus et montibus Hispaniarum. Dal pun-
to di vista cronologico, questa è la prima opera di Pau. Questo componi-
mento segue il modello di Boccaccio e, secondo l’autore, fu scritto nei mo-
menti d’ozio che gli concedeva lo studio del dirittto. L’opera dovette cono-
scere piú di una copia manoscritta in quel periodo, perché sappiamo che Pe-
re Miquel Carbonell ne inviò una a suo figlio Francesc e che lo stesso Pau
la inviò da Roma a Teseu Benet Ferran Valentí, che studiava a Bologna, du-
rante l’estate del 1475, affinché la facesse copiare e la consegnasse poi al
poeta Francesco del Pozzo. Ma fu stampata solo nel 1491 a Roma, senza in-
dicazione di stampa. Pau dedicò già quest’opera al suo mecenate, come ri-
sulta dalle prime parole del testo5:
tari della Toscana, «Studi Italiani di Filologia Classica», III ser., 10/1-2 (1992), pp.
1131-1143.
5 Cfr. VILALLONGA, Jeroni cit., I, pp. 206-209. Il testo latino dice: «Ad Reve-
sum manifestum praebere, quam tibi quem nemo ignorat et ingenio et rerum expe-
rientia nemini tui ordinis cedere, emendandum tribuissem. Accedit locorum regio-
numque notitia, quorum te nuper amplissima prouinciae nostrae legatio peritissi-
mum reddidit. Magnam enim Hispaniae partem feliciter peragrando, immensa tuae
dignationis et gloriae monumenta nostrae Hesperiae reliquisti. Spero dabuntur tuo
nomini aliquando maiora. Nunc autem aliquid ad Cosmographiam et suscitationem
antiquitatis pertinens, per vacationem a studio iuris collectum, haud iniocunde de-
gustasse sufficiat».
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6 Ibid., pp. 258-265. Il testo latino dice: «Hos tibi Reverendissime Pater exi-
guum admodum munusculum ex nostra Hispania rediens offero, cum sciam te anti-
quarum rerum cognitioni deditissimum, et earum maxime, quae originem dignitatis
tuae aperiunt. Et hoc saltem me effecisse iuuabit quod, etsi non multiplici ac pere-
grina varietate nominum, nostra tamen nec omnino aspernanda curiositate redebis».
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opere che portò a termine soprattutto nel campo architettonico. Così vedia-
mo che parla del castello di Subiaco e del palazzo Borgia di Roma, magni-
ficamente lodati da Pau. Il carme è pieno di reminiscenze classiche spe-
cialmente di Marziale, ma non vi mancano né Ovidio né Virgilio. All’inizio
di questo carme X, Rodrigo Borgia è paragonato a personaggi del mondo
classico: i Curi, Catone, Cicerone sono nominati direttamente, ma lo è an-
che Augusto attraverso una citazione da Svetonio, quando racconta che
l’imperatore voleva lasciare una Roma tutta di marmo. Rodrigo Borgia, co-
me i principi del Rinascimento, è trattato da Pau come un eroe dell’antichità
classica. Grazie alle sue grandi opere dovrà arrivare all’immortalità, tutto a
maggior onore e gloria del cardinale. Proprio l’elogio delle opere architet-
toniche portate a termine dal cardinale Borgia è motivo di alcuni versi del
carme. Quelle del Pau si aggiungono così alla lista delle lodi che meritò il
Palazzo della Cancelleria Vecchia. Ricorda anche la costruzione borgiana di
Subiaco. Però, subito dopo, il carme si addentra nella fama e nelle virtù del
cardinale valenzano, in un frammento pieno di iperboli e degli stereotipi
della poesia panegirica. Una volta di più, vediamo come si realizza, nell’o-
pera di un umanista, l’armonizzazione di cristianesimo e paganesimo, così
come sibille e profeti appaiono insieme negli appartamenti borgiani del Va-
ticano. Verso la fine della composizione, Pau vaticina il papato di Rodrigo
Borgia ed esprime il desiderio di poter vedere quei giorni anelati, promet-
tendo, allo stesso tempo, poemi lirici e poemi epici per cantare le gesta del
futuro papa. Mancano ancora dieci anni perché il secondo papa Borgia ar-
rivi ad occupare la massima carica della Chiesa e, secondo Pau, questo è il
desiderio del mondo cristiano. Ecco gli ultimi versi dell’elegia7:
Dio ti riserva per cose piú grandi, perché la sacra tiara conviene
solo al tuo capo. Oh! Che mi sia permesso vedere i giorni desi-
derati! Chi ti onorerà, Roma, una volta cambiato il nome? Allora
la mia Musa ti canterà con un poema lirico, allora canterà le gran-
di gesta con verso eroico. Se non lo sai, questo desidera Roma e
116-125. Il testo latino del carme X, 45-68 dice: «Sunt haec magna quidem, Deus
ad maiora reservat / namque decet tantum sacra tyara caput. / O utinam optatos li-
ceat mihi cernere soles! / Quis te mutato nomine, Roma, colet? / Tum mea te lyrico
cantabit carmine musa, / tunc canet heroo grandia gesta pede. / Si nescis, hoc Roma
cupit totusque precatur / orbis, nec mirum, te duce, tutus erit, / te duce, non oriens
Turca ditione premetur, / nec suberit tristi Graetia clara iugo. / Tu Solymas veteres
sacraria prisca tonantis / restitues, nostra relligione coli. / Tu Iopen Gazamque simul
Beritumque superbam / contundes, cedet Syria tota tibi. / [...] Nec dubites parcas Pe-
tri transcendere metas, / solvet enim legem Claviger ipse tibi. / Vive igitur felix,
praesul telluris Iberae, / Vive decus Latii, gloria magna patrum / exsuperesque, pre-
cor, plures uel Nestoris annos / nil melius, nam te maximus orbis habet».
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8Ho trascritto e studiato le due iscrizioni in VILALLONGA, Jeroni cit., I, pp. 49-53.
9Cfr. VILALLONGA, Jeroni cit., II, pp. 126-129. Il testo latino del carme XI, 11-
14 dice: «Quam pia cura fuit, sumptus quoque praebuit omnes, / Borgiacam dixit
ista decere domum, / Felices igitur tanto sub Principe nati, / qui cum sit dominus,
uult tamen esse pater».
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1485 è l’anno della presentazione delle bolle che attribuiscono a Pau un ca-
nonicato e, a parte altri dati significativi per lo studio della sua opera che
non è pertinente menzionare qui, è interessante per una notizia sull’umani-
sta Paolo Pompilio riguardante Pau. Così, ora come ora, possiamo dire che
già in quei momenti confluiscono gli itinerari biografici di questi due uo-
mini, un catalano e un romano, umanisti della Roma quattrocentesca, attra-
verso i quali conosciamo un po’ più a fondo l’ambiente della corte di Ro-
drigo Borgia. Di Pompilio vorrei ricordare che nacque nel 1455 e morì ver-
so la metà del 1491, che fece parte dell’Accademia Pomponiana ed esercitò
come professore nell’Università di Roma, allora sotto il patrocinio papale.
Sono evidenti i nessi che collegano Pompilio con gli spagnoli della cor-
te del cardinale Rodrigo Borgia residenti a Roma. Fu addirittura maestro di
Cesare Borgia. L’ammirazione e la buona conoscenza di quanto si riferisce
all’Hispania e più concretamente alla famiglia Borgia si manifestano nel
contenuto delle opere di Pompilio, come vedremo più avanti nel parlare del-
la sua produzione letteraria. Ora mi interessa mettere in evidenza il suo rap-
porto con Jeroni Pau. Sono senza dubbio molti i legami e le circostanze che
uniscono i due uomini. Per cominciare, sono quasi coetanei, vivono e lavo-
rano a Roma, sono universitari, intellettuali, poeti in latino, grandi conosci-
tori degli autori classici e con un grande interesse per la grammatica e la re-
torica, per la storia della lingua, per il passaggio dal latino alle lingue volga-
ri, per la filologia in generale. Sono due umanisti, in definitiva, che frequen-
tano gli stessi circoli letterari, due uomini di gusti affini che si muovono per
la Roma della seconda metà del XV secolo. La loro reciproca amicizia sfo-
ciò in una collaborazione letteraria e produsse una serie di opere che altri-
menti non sarebbero forse state redatte. In queste opere sono frequenti le ci-
tazioni e gli elogi dell’amico che le aveva ispirate, la qual cosa ci permette
di conoscere con maggior profondità il loro rapporto. Mi soffermerò, in pri-
mo luogo, su alcuni commenti di Paolo Pompilio relativi a Jeroni Pau, con-
tenuti in una delle sue opere, quella intitolata Notationum libri quinque, di
cui conserviamo i capitoli contenuti nel cod. Vat. lat. 2222.
In due di tali capitoli Jeroni Pau è il protagonista; il suo ruolo è quel-
lo di un erudito a cui si chiede l’opinione su temi tanto diversi come l’i-
dentificazione di un cadavere intatto ritrovato sulla via Appia10, o l’esi-
stenza di una o due lingue nel Lazio antico. Il primo intervento risale al
1485 ed è inserito nel capitolo 20 del libro I dell’opera citata di Pompilio.
Il secondo non ha data e si ritrova nel capitolo 3 del libro II. Non so quan-
ti capitoli avesse il libro, ma a causa della loro prossimità nell’opera, è pro-
babile che si possano far risalire allo stesso 1485 o poco dopo. La disser-
tazione di Pau sulla lingua latina, a quanto spiega Pompilio, ha luogo a ca-
sa del cardinale Rodrigo Borgia, in una riunione in cui Pau spicca per in-
telligenza ed erudizione. Purtroppo, Pompilio omette il nome degli altri
partecipanti perché nec fas est huiusmodi ignavos homines nominare. Gli
scrupoli intellettuali di Pompilio ci hanno privato di un’informazione che
avrebbe potuto esserci utile. Non è l’unica occasione in cui Pau è lodato
dal suo amico romano. Nel 1486 Pau sale di un altro gradino nella curia
vaticana, è nominato cioè litterarum apostolicarum vicecorrector. Tutta-
via, fino al 1491 non torneremo ad avere notizie romane di Pau. Questo fu
l’anno della pubblicazione della sua opera Barcino, stampata nella tipo-
grafia di Pere Miquel, a Barcellona, a spese di Joan Peiró, luogotenente del
protonotaio della città di Barcellona, buon amico di Carbonell e dello stes-
so Pau. Sebbene conosciamo l’anno di pubblicazione dell’opera, non sap-
piamo quale fu l’anno della sua redazione. L’opera è dedicata all’amico
Paolo Pompilio, che morì lo stesso anno della pubblicazione. In quest’o-
pera Pau ci fa sapere che Pompilio era il suo migliore amico, come pos-
siamo vedere nella dedica11:
Seneca dice che alcuni uomini sono ladri del tempo degli amici:
invece tu, Pompilio, fai il contrario, perché cerchi in tutti i modi
possibili che non venga né rubato dagli amici né sopraffatto dal-
le occupazioni. Chiedi una cosa o l’altra affinché l’impiego di
tempo procuri qualche beneficio letterario a quelli che ami. [...]
Qualche tempo fa, mediante una lettera con una richiesta molto
gradita, interrompesti le mie pesanti attività giuridiche. Perché
desideri che io ti riferisca per iscritto quanto ho letto negli auto-
ri antichi e fededegni sulla mia città, il suo territorio e la sua im-
portanza, i suoi abitanti e la sua posizione, e sulle sue gesta ec-
cellenti ed esemplari, aggiungendovi succintamente la sua storia
11Cfr. VILALLONGA, Jeroni cit., I, pp. 290-347. Il testo latino dice: «Amicorum
quosdam fures esse temporis ait Seneca. Tu contra, Pompili, facis; curas enim et in-
stigas ne surripiantur amicis neue negotiis obruantur. Rogas unum aut aliud, quo
temporum mora fructum aliquem litterarum his, quos diligis, pariat; [...] Interrupi-
sti nuper per epistolam negotiosas legum actiones, gratissimo rogatu. Cupis enim ut
quae de urbe mea eiusque agro et principatu, incolis et situ, deque eorum rebus prae-
clare magnificeque gestis apud priscos auctores et fide dignos legi, ad te scriberem;
addita perstrictim usque ad nostra tempora historia. Quod libens feci, id te expo-
scente, ut de eruditione taceam, amicorum optimo, placuitque mihi a nostra quan-
quam labori et vigiliis obnoxia, tamen, ut iurisprudentes volunt, non minus quam
tua, vera atque sacra philosophia ad mitiora et cunctis iucunda studia tui gratia et
materiae divertere, placidiorique exercitio patrium solum ceu praesens mente pauli-
sper collustrare».
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12 Il testo latino dice: «Haec perstrinximus, Pompili, de urbe in qua editi in lu-
cem sumus. [...] Te nunc invicem accingi cupio ad id quale ipse me rogasti utque
nos strictim de urbe nostra conscripsimus, tu quoque excelsas tuae vel potius com-
munis urbis res insto sed clariori opere absolvas, mihi sufficiat amico simul et pa-
triae quod debebam uel tenuiter exsolvisse».
13 Cfr. A. ERA, Il giureconsulto catalano Gironi Pau e la sua «Practica Cancella-
riae Apostolicae», in Studi in onore di Carlo Calisse, III, Milano 1939, pp. 369-402.
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14Cfr. J.M. CASAS HOMS, «Barcino» de Jeroni Pau. Història de Barcelona fins
al segle XV, Barcelona 1971.
15 Cfr. M. MIGLIO, Xàtiva, Roma, Barcellona: Pietro Garcia, «RR roma nel ri-
si sarebbe mai pubblicata la sua opera, che doveva essere di grande utilità
per i giuristi della curia romana. Troviamo riferimenti a Rodrigo Borgia an-
che nella Practica, in cui vediamo il fervore e l’obbedienza che Pau mani-
festa verso il cardinale, cui si riferisce sempre con reuerendissimus domi-
nus meus vicecancellarius. Torniamo al rapporto fra Pau e Pompilio. Dove
è più evidente l’amicizia intensa tra i due umanisti e la loro appartenenza
alla corte umanistica borgiana è, senza dubbio, nel manoscritto della Bi-
blioteca Vaticana menzionato in precedenza. Descriverò a grandi linee il
contenuto del manoscritto. Il volume presenta una prima parte stampata che
occupa le pagine 1-45 e una parte manoscritta che si può leggere nelle pa-
gine 46-135. Le opere a stampa, per ordine di apparizione nel volume, so-
no le seguenti: Vita Senecae, Sylua Alphonsina e Panegyris de Triumpho
Granatensi di Paolo Pompilio. Cominciano poi le opere manoscritte, in
quest’ordine: Dialogus de uero et probabili amore, De bonis artibus, Odys-
sea, Phasma e Panegyricum carmen ad Carvaialem di Paolo Pompilio. Se-
gue una biografia dell’umanista romano. E subito dopo Barcino di Jeroni
Pau, seguita da quattro capitoli delle Notationes di Pompilio, il carme Epi-
taphium Clarae Paulinae e il De fluminibus et montibus Hispaniarum li-
bellus di Jeroni Pau, ed infine Symbolum Nicenum di Paolo Pompilio. Gran
parte, dunque, della produzione dei due amici è raccolta in questo codice
vaticano. Se analizziamo l’identità dei personaggi a cui sono dedicate le o-
pere enumerate, vedremo che la presenza spagnola è evidente. Nelle opere
di Pompilio contenute nel codice vaticano ci sono correzioni a margine fat-
te dall’autore, a quanto risulta in una nota manoscritta dell’umanista roma-
no. Il destinatario della prima delle opere del codice, la Vita Senecae di
Pompilio, è ‘Joannis Lopis’, però gli elogi dell’umanista romano sono di-
retti anche a Rodrigo Borgia, alle cui dipendenze stava Llopis l’anno 1490,
quando si pubblicò l’opera. Ricordiamo che questo ‘Lopis’ era uno degli
abbreuiatores nominati contemporaneamente a Pau. D’altra parte, era stato
Pomponio Leto a suggerirne la redazione a Pompilio, a quanto riferisce lo
stesso autore. La Vita Senecae, oltre a una biografia di Seneca e di Lucano,
contiene un De Hispaniarum uiris illustribus, che sospetto essere stato i-
spirato da Jeroni Pau, a quanto ho detto altrove16. Sono convinta che que-
st’opera di Pompilio arrivò a Barcellona attraverso Jeroni Pau. Nel mano-
scritto 123 della Biblioteca Universitaria di Barcellona, Pere Miquel Car-
bonell copiò la Vita Senecae dalla pagina 47r alla pagina 68r. Il contenuto
di tale codice, scritto nella magnifica e mai abbastanza lodata grafia uma-
nistica del calligrafo Carbonell, è una miscellanea, secondo il sistema ri-
corrente nell’attività del notaio e archivista barcellonese17. La copia di Car-
fesor Luís Gil, a cura di J.M. MAESTRE-J. PASCUAL-L. CHARLO, II, 3, Cádiz 1997,
pp. 1217-1224.
18 Cfr. l’edizione moderna di questa opera in P. FAIDER, Pompilius. Vita Sene-
peritus et vir librati iudicii de te dicere solet: moribus es et doctrina agendisque re-
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bus omni exceptione maior. Asseverat etiam is munere diuino ad felicitatem Hispa-
niae factum, ut ipse ad eius principum negocia hoc maxime tempore gerenda natus
sis. Quibus omnibus ex rebus merito te iidem fovent sibique multis modis ornandum
proposuerunt. Ego verum cum propiorem observantiae meae nexum in tantam Regis
Reginaeque optimae maiestatem iampridem cuperem, nullam hactenus materiam in-
tervenisse tam idoneam existimo quam praesentis Triumphi concelebrationem».
21 Paola Farenga parla degli «intelletttuali organici agli interessi dei sovrani
spagnoli» nel suo capitolo Circostanze e modi della diffusione della Historia Baeti-
ca, in CARLO VERARDI, Historia Baetica. La caduta di Granata nel 1492, a cura di
M. CHIABÒ-P. FARENGA-M. MIGLIO-A. MORELLI, Roma 1993, (RRanastatica, 6), p.
XXIII.
22 Su questo personaggio cfr. J.N. HILLGARTH, Readers and Books in Majorca
vi stava passando un periodo di riposo a causa della peste che aveva invaso
Roma. Pere de Roca è anche uno dei destinatari delle epistole di Jeroni Pau.
Espanyol, a sua volta, era corrispondente dell’umanista maiorchino Arnau
Descós, amico di Pau. Arnau Descós23 scrisse una lunga epistola apologeti-
ca di Ramon Llull, che era introdotta da alcuni distici contro Pompilio24
perché aveva disprezzato il pensiero di Llull. Una volta di più, dunque, il
circolo di amicizie di Pau e Pompilio si chiude con gli stessi personaggi. Le
altre opere di Pompilio nel codice vaticano sono dedicate a personaggi i-
spanici della corte dei Borgia. E, in aggiunta, Pompilio scrisse un De sylla-
bis et accentibus dedicato al protonotaio apostolico Cesare Borgia. È dun-
que evidente che Paolo Pompilio, ancora più insistentemente di Pau, scrive
sui Borgia, scrive sotto la protezione dei Borgia e scrive per i Borgia e per
la loro corte di origine ispanica. È un chiaro esempio del fascino che l’ori-
gine straniera dei Borgia esercitò sugli italiani, in questo caso un romano,
della seconda metà del Quattrocento; è un chiaro esempio del potere eser-
citato dai Borgia e dalla loro corte arrivata dall’Hispania nella Roma papa-
le e umanistica del XV secolo25. La stessa seduzione subì un altro uomo,
Annio da Viterbo, che volle stabilire le origini antiche dell’Hispania ed eb-
be molta influenza non solo su Alessandro VI, ma anche sulla maggior par-
te della storiografia ispanica del XVI secolo26. Ma questo è un altro argo-
mento di studio, tanto interessante come quello che abbiamo appena tratta-
to. Attraverso l’opera di due uomini, Jeroni Pau e Paolo Pompilio, un cata-
lano e un romano, abbiamo passeggiato per la Roma su cui signoreggiava
l’onnipotente cancelliere Rodrigo Borgia. Abbiamo potuto renderci conto
della buona predisposizione del futuro papa Alessandro VI per tutto ciò che
rappresentavano gli umanisti, i cultori degli studia humanitatis; abbiamo
colto l’opinione che di Rodrigo Borgia avevano alcuni umanisti. Abbiamo
potuto constatare come la curia romana si andava sempre più riempiendo di
filologi, di uomini di lettere. Condotto dalle circostanze favorevoli al rin-
VI, «Revista de Catalunya», 103 (1996), pp. 49-64; EAD., El Renaixement i l’huma-
nisme (segles XIV-XVI), in M. VILALLONGA (a cura di), Llatí II. Llengua i cultura l-
latines en el món medieval i modern, Barcelona 1998, in particolare pp. 66-70.
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ANGELO MAZZOCCO
Già nella prima metà del Quattrocento la Spagna espresse grandi uma-
nisti, quali Juan de Mena (1411-1456), Alonso de Cartagena (Alonso
García de Santa María, 1384-1456), e il marchese de Santillana (Iñigo Ló-
pez de Mendoza, 1398-1458), ma fu solo nella seconda metà del secolo
quindicesimo e in particolare negli ultimi decenni del Quattrocento e all’i-
nizio del Cinquecento, il periodo che coincide grossomodo con il pontifi-
cato di Alessandro VI (1492-1503), che l’umanesimo spagnolo raggiunse
piena maturazione e riuscì ad avere un forte impatto sulla cultura spagnola.
Quasi tutti gli umanisti di questo periodo, scrittori come Rodrigo Sánchez
de Arévalo (1404-1470), Joan Margarit (1421-1484), Alfonso de Palencia
(1423-1490), Juan de Lucena (c. 1430-1506?), Gauberte Fabricio de Vagad
(affermatosi nella seconda metà del Quattrocento), Antonio de Nebrija
(1441/44-1522), Gonzalo García de Santa María (1447-1521), e Fernando
Alonso de Herrera (1460-1527) vissero e studiarono in Italia1. Alcuni di lo-
ro conobbero personalmente importanti esponenti dell’umanesimo italiano
e furono perfino coinvolti nelle loro controversie; quindi potettero appro-
priarsi dei precetti e delle modalità del progetto culturale umanistico, pre-
cetti e modalità che, al ritorno in Spagna, trapiantarono nella cultura del lo-
ro paese. L’umanesimo spagnolo del tardo Quattrocento e primo Cinque-
cento fu promosso pure da molti letterati italiani (Lucio Marineo Siculo
[1444-1533] e Pietro Martire d’Anghiera [1457-1526], per citare solo i più
famosi), che insegnarono nelle illustri Università di Salamanca e Alcalá o si
stabilirono alla corte dei Re Cattolici. Lo scopo di questo contributo è in-
dagare il rapporto tra gli umanisti italiani e quelli spagnoli al tempo di A-
generale si vedano J. ALCINA ROVIRA, Poliziano y los elogios de las letras en España
(1500-1540), «Humanistica Lovaniensia», 25 (1976), pp. 198-222; A. COROLEU,
L’area spagnola, in Umanesimo e culture nazionali europee, a cura di F. TATEO, Pa-
lermo 1999, pp. 249-290; O. DI CAMILLO, El humanismo castellano del siglo XV,
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Valencia 1976; J.N.H. LAWRENCE, Humanism in the Iberian Peninsula, in The Im-
pact of Humanism in Western Europe, a cura di A. GOODMAN-A. MACKAI, London-
New York 1990, pp. 220-258; MORENO, España y la Italia cit.; F. RICO, El sueño del
humanismo: de Petrarca a Erasmo, Madrid 1993 [trad. it.: Il sogno dell’Umanesi-
mo. Da Petrarca ad Erasmo, Torino 1998]; P.E. RUSSELL, Arms versus Letters:
Towards a Definition of Spanish Fifteenth-Century Humanism, in Aspects of the Re-
naissance: a Symposium, a cura di A.R. LEWIS, Austin 1967, pp. 47-58; D. YN-
DURÁIN, Humanismo y Renacimiento en España, Madrid 1994.
3 Sulla Biblia Poliglota cfr. M. BATAILLON, Erasmo y España, Città del Messi-
Avendo concluso che la Roma classica era la fonte del loro patrimonio
culturale, gli umanisti italiani si ripropongono di ricostruirne e riviverne la
grandezza. Nella canzone Spirto gentil, Francesco Petrarca (1304-1374) in-
cita lo sconosciuto e nobile personaggio romano a restituire alla Roma con-
temporanea la maestà dell’età antica: «e la richiami al suo antiquo viaggio»
(RVF, LIII 6). Similmente nel trattato De republica optime administranda
si augura che la magistratura classica descritta nell’opera serva come spec-
chio per Francesco da Carrara a cui è dedicata: «Ut hoc velut in speculo te-
te intuens»4. Nell’introduzione della Roma triumphans (forse l’opera più
importante sulla renovatio Romae prodotta dall’umanesimo italiano), Bion-
do ribadisce che il suo scopo è dare una descrizione della Roma classica al
massimo della sua magnificenza, affinché il sano vivere e le numerose virtù
dell’antichità servano da stimolo ed esempio per i suoi contemporanei5.
D’altronde Bruni attribuisce la grandezza della Firenze contemporanea al
suo legame genetico con l’antica Roma repubblicana. Tale legame aveva re-
so possibile la conquista di città importanti, l’accumulo di molte ricchezze
e la rinascita degli studia humanitatis6. Firenze, secondo Bruni, si era tra-
sformata in fons et origo degli studia humanitatis in Italia: «Denique studia
ipsa humanitatis [...] a civitate nostra profecta per Italiam coaluerunt»7.
L’intenso recupero ed appropriazione della cultura classica ad opera degli
umanisti italiani porta (per lo meno nei grandi centri umanistici della peni-
sola) ad una profonda classicizzazione della cultura italiana. Infatti, il pen-
siero umanistico è pervaso di un forte senso secolare. Per esempio, nella
Laudatio Florentinae urbis, Bruni nota che quanto è stato realizzato a Fi-
renze è frutto del genio dei fiorentini e non della Divina Provvidenza8. Un
forte spirito secolare si riscontra pure nelle opere letterarie come le Stanze
per la giostra del Magnifico Giuliano del Poliziano, un poema impregnato
di immagini e sentimenti classici. In quanto alla lingua e all’eloquenza, gli
umanisti italiani, tranne qualche eccezione (Biondo e Valla, per esempio),
si attengono alla terminologia e allo stile aulico di Cicerone. Mentre riclas-
sicizzano la cultura contemporanea, gli umanisti italiani sviluppano un
profondo disprezzo per il Medioevo; per loro l’età di mezzo era solo bar-
barie perché priva della cultura e dello spirito civile antichi, e barbari erano
Studies in Humanistic and Political Literature, Chicago 1968, pp. 232-263; per il
primo libro delle Historiae Florentini populi, cfr. l’edizione a cura di E. SANTINI,
RIS2, 29/3, (1934).
7 Oratio in funere Nannis Strozae, in G. D. MANSI, Stephani Baluzii Tutelensis
i responsabili del crollo della Roma classica: i Visigoti, i Vandali, gli Unni,
i Longobardi.
La renovatio Romae compiuta dagli umanisti italiani era sostenuta da
un profondo patriottismo che faceva dell’Italia la sola erede della cultura ro-
mana antica. A loro parere la civiltà latina poteva e doveva raggiungere la
sua più splendida e schietta rinascita solo in Italia. E infatti l’umanesimo i-
taliano stabilisce un forte nesso tra la Roma antica e l’Italia contemporanea.
Lo splendore della civiltà classica era tornato a vivere nelle città dell’Italia
del tempo. Come nel passato, l’Italia era di nuovo l’epicentro culturale del-
l’Europa9. D’altronde gli altri popoli europei erano considerati essenzial-
mente incolti, rivelando la rozzezza dei loro barbari antenati, quali i Visi-
goti della Spagna. Come tale i popoli stranieri erano privi delle bonae litte-
rae e di una buona conoscenza del latino10. Gli umanisti italiani furono par-
ticolarmente severi nella loro valutazione della Spagna e della cultura spa-
gnola11. Bruni situava la Spagna «in extremo mundi angulo», cioè al mar-
gine dell’Europa12, mentre Lucio Marineo faceva presente ai suoi colleghi
spagnoli che solamente gli italiani o gli spagnoli formatisi in Italia erano in
grado di scrivere un perfetto latino13. Inoltre, il giovane umanista spagnolo
Cristóbal de Escobar scriveva dalla Sicilia, dove attendeva all’insegnamen-
to delle humanae litterae, che gli studiosi spagnoli erano generalmente ca-
ratterizzati come barbari dai loro colleghi siciliani; «aunque bárbaro[s], co-
me suelen llamar aquí a los españoles»14. In genere quando gli umanisti i-
taliani criticavano il latino degli spagnoli, la loro critica non si limitava al-
l’aspetto linguistico, ma coinvolgeva l’intera gamma degli studia humani-
tatis. In altre parole, la loro critica si riferiva alla mancanza di quella peri-
«Ego certe et natus et altus Rome atque in romana, ut vocant, Curia, qui congrue lo-
queretur cognovi neminem» (Apologus II, in M. TAVONI, Latino, grammatica, vol-
gare. Storia di una questione umanistica, Padova 1984, p. 268).
11 MORENO, España y la Italia cit., pp. 304-312.
12 LEONARDI BRUNI ARRETINI Epistolarum libri VIII, rec. LAURENTIUS MEHUS,
naissance Quarterly», 50, 3 (1997), p. 706, e MORENO, España y la Italia cit., pp.
308-309.
14 Citato in F.G. OLMEDO, Nebrija (1441-1522), debelador de la barbarie, co-
zia filologica e culturale che tanto brillava nelle opere di un Lorenzo Valla
o di un Angelo Poliziano.
Il primato culturale reclamato dall’umanesimo italiano con il suo im-
plicito secolarismo, il suo forte senso di Romanitas, il suo disprezzo per
l’età di mezzo, e la sua pretesa di superiorità filologica e culturale suscita
una reazione antitaliana tra i dotti spagnoli, non accettando che gli Italiani
menassero vanto che la cultura classica romana fosse loro esclusivo patri-
monio e che pertanto solo l’Italia potesse godere dell’enorme prestigio che
da essa derivava. Gli Spagnoli rifiutavano di essere definiti barbari, anche
perché tale giudizio era condiviso da altri popoli europei15. Reagiscono per-
tanto, a loro volta, alle accuse degli umanisti italiani, criticando l’uso e la
valutazione che l’umanesimo italiano faceva della civiltà classica e svalu-
tando il ruolo culturale e politico della stessa Roma antica. Infatti, proprio
mentre emulano la perizia filologica dell’umanesimo italiano e fanno largo
uso delle tante opere classiche da quello recuperate, gli umanisti spagnoli
contestano agli Italiani il loro secolarismo, che sfiorava a volte il paganesi-
mo, e l’uso eccessivo del latino ciceroniano; perciò condannano opere co-
me le Stanze del Poliziano, il cui esasperato classicismo le rendeva peraltro
moralmente nocive, e rifiutano il forte sentimento secolare implicito nell’o-
pera storica di un Bruni e patrocinano invece una storiografia la cui forza
motrice è la Divina Provvidenza. Per esempio, nella Compendiosa historia
hispánica di Rodrigo Sánchez de Arévalo, la lotta per la conquista di Gra-
nada è ispirata dalla volontà divina. I guerrieri che avevano compiuto quel-
la nobile impresa erano stati guidati e sostenuti dalla Divina Provvidenza16.
Il fattore religioso costituisce una componente fondamentale della cultura
spagnola del tardo Quattrocento e primo Cinquecento e, come ha osservato
Cesare Vasoli, i temi umanistici che gli Spagnoli adottarono dall’umanesi-
mo italiano «assunsero in Spagna una coloritura e un significato del tutto
particolare, radicandosi nel solido sostrato di una religiosità intensa e seve-
ra»17. In quanto al latino, l’umanesimo italiano, secondo gli Spagnoli, era
schiavo di un ciceronianismo eccessivo che rendeva l’uso di questa lingua
incompatibile con la realtà linguistica contemporanea. Lo scrittore moder-
no doveva far sì uso del latino dell’età di Cicerone, ma doveva anche fon-
dere il latino di questo periodo con quello dei Padri della chiesa e di altri
15L. GIL, Panorama social del humanismo español (1500-1800), Madrid 1981,
pp 15-30.
16 R.B. TATE, Ensayos sobre la historiografía peninsular del siglo XV, Madrid
alcuni catalani, come Joan Margarit (sembra che l’umanesimo catalano sia
stato più filoitalico di quello delle altre regioni spagnole)22, gli umanisti
spagnoli, quali Arévalo, ritrovano questo passato non nell’ambito della sto-
ria romana, ma in quello dell’età pre-romana. Tramite l’utilizzo di miti ben
fondati e la manipolazione di alcuni fatti storici, i letterati spagnoli riesco-
no a creare un passato pre-romano di dimensioni epiche, sostenendo che la
Spagna pre-romana aveva espresso una civiltà più gloriosa e più colta di
quella della Roma antica23. L’enfasi sulla Spagna pre-romana porta ad una
minimizzazione del retaggio romano spagnolo. Per esempio, le rovine ro-
mane che tanto influenzarono la rinascita della civiltà classica tra gli uma-
nisti italiani (si pensi ad un Petrarca, ad un Biondo, o ad un Andrea Fulvio)
furono trascurate quasi del tutto dagli umanisti spagnoli della seconda metà
del Quattrocento24. Quando infatti si occupano della civiltà romana, il loro
interesse è diretto allo studio e all’esaltazione dei più illustri personaggi la-
tini di origine spagnola: l’imperatore Traiano, i due Seneca, i poeti Lucano,
Marziale e Silio Italico, il geografo Pomponio Mela, l’agronomo Columel-
la, e in particolare il retore Quintiliano25.
Gli umanisti spagnoli affermano inoltre che il prestigio e la gloria del-
la Spagna trovano riscontro non solo nell’età pre-romana, ma anche in quel-
la post-romana del regno visigotico. I Visigoti avevano devastato l’Italia e
antica che trova la sua ispirazione e il suo modello nelle opere antiquarie dell’uma-
nesimo italiano come la Roma triumphans di Biondo), Joan Margarit dimostra un
profondo interesse per le rovine romane. Infatti, Margarit ammira la magnificenza
della Roma antica e fa della civiltà romana una componente importante della storia
e della cultura spagnola. Come altri, anche Margarit trova necessario ricostruire la
storia del periodo pre-romano, ma, conformandosi al rigore scientifico della storio-
grafia umanistica italiana, la sua opera è priva delle fantasticherie che si riscontrano
in un Arévalo. Margarit registra solamente fatti ed episodi verificabili nelle fonti
classiche. Come ha osservato magistralmente Robert Tate: «Margarit había respon-
dido de manera más sensibile que ninguno de sus contemporáneos a las influencias
del humanismo italiano y, como resultado, que había dado el primer paso en la hi-
storiografía renacentista de la Península» (TATE, Ensayos cit., p. 150). Su Margarit
cfr. A. MAZZOCCO, Linee di sviluppo dell’antiquaria del Rinascimento, in Poesia e
poetica delle rovine romane, a cura di V. DE CAPRIO, Roma 1987, pp. 67-68.
23 TATE, Ensayos cit., pp. 13-32, 96-98, 289-294.
24 BATAILLON, Erasmo y España cit., p. 26.
25 Cfr. MORENO, España y la Italia cit., pp. 133-136.
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mayor gloria de nuestro Aragón que fasta de sus criados faze papas de Roma»: TA-
TE, Ensayos cit., p. 276.
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spagnolo fu oggetto presso gli Italiani: «Los mismos ytalianos que siempre
por invidia nos fueron tan enemigos que dissimularon quanto podieron, mas
escondieron a mas no poder las excellencias de nuestra Hespaña»29. L’e-
spansione nel Mediterraneo e nella penisola iberica stessa insieme alla con-
quista dell’appena scoperto Nuovo Mondo convinsero gli Spagnoli che la
Spagna era l’unica nazione europea degna di essere considerata una poten-
za imperiale. Reclamarono, perciò, una translatio imperii, contraddicendo
così la convinzione di una Spagna relegata ai margini dell’Europa (in «ex-
tremo mundi angulo», secondo Bruni)30, che gli Italiani avevano del loro
paese.
Come si è osservato sopra, Nebrija è la figura più importante e più rap-
presentativa dell’umanesimo spagnolo al tempo di Alessandro VI, perciò,
per meglio valutare il rapporto tra gli umanisti italiani e spagnoli in questo
periodo, è necessario soffermarsi sui momenti più salienti della sua vita e
della sua opera. Nebrija si mosse nell’intero dominio della filologia umani-
stica, dalla grammatica alla storia, dallo studio della lingua greca alla lessi-
cografia, dall’interpretazione della Sacra Scrittura a quella della giurispru-
denza, contribuendo in modo particolare al recupero e all’insegnamento del
latino, all’analisi filologica di opere classiche e cristiano-scritturali, alla
normalizzazione e politicizzazione della lingua castigliana, e alla ricostru-
zione della storia ispanica, sia antica che moderna. Fu un umanista di stam-
po valliano e fu al Valla che lo paragonarono i suoi contemporanei. Rife-
rendosi al ruolo di Nebrija nell’umanesimo spagnolo, Lucio Marineo rileva
che il suo contributo alla cultura spagnola era stato tanto importante quan-
to quello di Valla alla cultura italiana: «Al cual, finalmente, debe España
quanto Italia a Laurencio Valla, que también fué el primero que allá alum-
bró»31. Come quasi tutti gli umanisti spagnoli della sua generazione Nebrija
visse e studiò in Italia. Come ci informa egli stesso, all’età di diciannove an-
ni, nel 1460 circa, dopo cinque anni di studio all’Università di Salamanca,
essendosi reso conto che questa difettava di una solida cultura umanistica,
decise di trasferirsi in Italia, per abbeverarsi alla fonte degli studia humani-
tatis, che avrebbe poi, al ritorno, trasmesso ai suoi conterranei: «venir a la
29 Ibid., p. 293.
30 V. supra.
31 Citato in OLMEDO, Nebrija cit., p. 125. Lo stampo valliano di Nebrija è sta-
to riconosciuto anche dagli studiosi moderni. Per esempio, Marcel Bataillon osser-
va: «Desde Menéndez y Pelayo, se le [a Nebrija] define como el introductor en E-
spaña del ‘método racional y filosófico de Lorenzo Valla’. Es preciso ir más lejos,
y buscar en él al heredero de las audacias de Lorenzo Valla en materia de filología
sagrada, y quizá también de su actitud crítica frente a las tradiciones de la Iglesia»
(BATAILLON, Erasmo y España cit., p. 25).
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en su arte muy señalados [...] sospeché [...] que aquellos varones, aunque no en el
saber, en dezir sabían poco. Así que en edad de diez y nueve años io fué a Italia, non
por la causa que otros van, o para ganar rentas de iglesia, o para traer fórmulas del
derecho civil y canónico, o para trocar mercaderías; mas para que, por la ley de la
tornada, después de luengo tiempo restituiese en la posesión de su tierra perdida los
autores del latín, que estaban ia, muchos siglos había, desterrados de España [...]
nunca dexé de pensar alguna manera por donde pudiese desbaratar la barbaria, por
todas las partes de España, tan ancha y luengamente derramada» (NEBRIJA, Dictio-
narium cit., ff. aii-aiii).
34 Per la biografia di Nebrija v. l’ancora utile P. LEMUS Y RUBIO, El Maestro E-
los pedros elias, e otros nombres aun mas duros, los galteros, los ebrardos, pastra-
nas e otros [...] no merecedores de ser nombrados» (NEBRIJA, Dictionarium cit., f.
ai).
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señados varones»36. L’importanza degli autori antichi nel recupero del lati-
no classico induce Nebrija ad una valutazione della lingua e degli scrittori
antichi. Parafrasando, a quanto pare, il De lingue latine differentiis di Gua-
rino Veronese37, Nebrija afferma che il latino aveva avuto un’infanzia, una
giovinezza ed una vecchiaia. Il latino aveva raggiunto il suo fulgore lingui-
stico durante il periodo della giovinezza, cioè il periodo che va da Cicero-
ne a Quintiliano, ed aveva incominciato a degenerare nell’età di Adriano,
raggiungendo la completa corruzione dopo Isidoro di Siviglia. Nebrija so-
stiene che solo gli autori dell’età aurea (Cicerone, Ovidio, Virgilio, Livio,
Quintiliano) meritavano di essere imitati; quelli che si erano affermati do-
po l’età di Adriano, e in particolare coloro che erano venuti dopo Isidoro,
dovevano invece essere respinti del tutto: «Qui sequuntur, quod ad latini
sermonis rationem attinet, nec digni quidem sunt quorum meminisse de-
beamus»38. Però sembra, in conformità al profondo sentimento religioso
della cultura spagnola contemporanea39, che Nebrija faccia un’eccezione
per gli autori cristiani, l’uso dei quali, a suo parere, avrebbe inculcato negli
studenti il sapere sano e pio della dottrina cristiana, evitando così il perico-
lo di una paganizzazione culturale, ed avrebbe arricchito il loro latino di u-
na certa naturalezza e di una sobria eleganza, redendolo così idoneo ad e-
sprimere contenuti religiosi40. Nebrija si oppone al purismo di coloro, qua-
li gli zelanti classicisti italiani, che volevano fare del linguaggio di Cicero-
ne e di Virgilio lo strumento linguistico di ogni aspetto del discorso con-
temporaneo, inclusi la storia e i misteri del cristianesimo41.
ponenti fondamentali della dottrina di Nebrija. Il suo forte senso religioso fa sì che
egli privilegi l’esegesi di autori ed opere d’indole cristiana. E. ASENSIO-J. ALCINA
ROVIRA, «Paraenesis ad litteras». Juan Maldonado y el humanismo español en
tiempos de Carlos V, Madrid 1980, pp. 11-13.
41 «Pero nosotros no buscamos y no debemos buscar solamente la pureza del
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latín, sino el conocimiento de muchas otras cosas que aumentan el caudal de ideas
y de palabras». Perciò bisogna opporsi a coloro che «se empeñan en encerrar todo
el mundo y toda la historia y todos los misterios y grandeza de nuestra religión en
la lengua de Tulio o de Marón»: cit. in OLMEDO, Nebrija cit., pp. 151-152.
42 Sulle Introductiones latinae di Nebrija v. gli ottimi studi di F. RICO, Nebrija
frente a los bárbaros, Salamanca 1978, pp. 29-51 e C. CODOÑER, Las «Introductio-
nes latinae» de Nebrija: tradición e innovación, in Nebrija y la introducción del Re-
nacimiento en España, (Actas de la III Academia Literaria Renacentista), a cura di
V. GARCÍA DE LA CONCHA, Salamanca 1983, pp. 105-122.
43 Cfr., per esempio, RICO, Nebrija frente a los bárbaros cit., pp. 45, 49-50, 55.
44 Moreno nota che Nebrija «no tiñe su obra con el mismo tono polémico que
invade los cerca de quinientos capítulos de las Elegantiae» (España y la Italia cit.,
p. 83). Tale asserzione è insostenibile anche perchè Nebrija stesso afferma ripetuta-
mente che la sua attività di grammatico era contestata con veemenza. Si veda, per
esempio, il seguente commento: «Nullum est adhuc opus a me editum [...] quod non
ex ipsa rerum novitate invidiam atque odium ab imperita multitudine in auctorem
suum conflauerit», ANTONIO DE NEBRIJA, De vi ac potestate litterarum, a cura di A.
QUILIS-P. USÁBEL, Madrid 1987, p. 33.
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cora l’unica lingua del popolo romano. Il così detto volgare romano in uso
nella Roma del suo tempo non era altro che una corruzione del latino clas-
sico. Come tale questa entità linguistica andava ricostituita nel suo antico
splendore. Perciò un dizionario volgare (romano)-latino, analogo al dizio-
nario spagnolo-latino che Nebrija aveva realizzato per il pubblico spagno-
lo, era inconcepibile nel contesto dell’attività grammaticale di Valla. Data
l’importanza del latino classico per la Roma contemporanea, Valla procede
ad una ricostruzione linguistica che è più elegante e più pura di quella di
Nebrija. Infatti, sebbene l’umanista romano faccia uso di termini cristiani
(«virgines» invece di «sanctimoniales», Gesù invece di Giove, Maria inve-
ce di Minerva, ecc.), il suo latino è essenzialmente una ricostruzione fede-
le di quello dell’età aurea romana45.
L’immersione nell’ars grammatica latina aveva convinto Nebrija che il
grammaticus, cioè lo specialista della lingua latina, era in grado di analiz-
zare e interpretare ogni aspetto del sapere umano, da argomenti politici a
quelli religiosi, dal diritto civile e canonico alla medicina, e dagli studia hu-
manitatis alla Sacra Scrittura46; la straordinaria abilità scientifica del gram-
maticus era dovuta al suo sapere enciclopedico e ad un forte acume criti-
co47. Tale nozione del grammaticus porta Nebrija ad una prolifica attività fi-
lologica che comprende opere di argomento scientifico, giuridico, letterario
e biblico. L’umanista spagnolo diede un notevole contributo in particolare
nel campo della giurisprudenza (Lexicon iuris civilis e Annotationes in li-
bros pandectarum)48, ma la sua perizia filologica si estrinsecò nella manie-
MAZZOCCO, Linguistic Theories cit., pp. 69-81. Sulle Elegantiae cfr. V. DE CAPRIO,
La rinascita della cultura di Roma: la tradizione latina nelle «Eleganze» di Loren-
zo Valla, in Umanesimo a Roma nel Quattrocento, a cura di P. BREZZI-M. DE PA-
NIZZA LORCH, Roma 1984, pp. 163-190.
46 «El conocimiento dela lengua en que esta, no sola mente fundata nuestra re-
ligion y republica christiana, mas aun el derecho civil y canonico [...] la medicina
[...] el conocimiento de todas las artes que dizen de humanidad por que son proprias
del ombre en quanto ombre». Dalla conoscenza della lingua latina dipende pure «el
estudio de la Sacra Escriptura»: ANTONIO DE NEBRIJA, Introducciones latinas, con-
trapuesto el romance al latín (c.1488), a cura di M. A. ESPARZA-V. CALVO, Münster
1996, p. 5.
47 Sul concetto di grammaticus in Nebrija e sul suo rapporto con la nozione di
grammaticus in Poliziano, cfr. ALCINA ROVIRA, Poliziano y los elogios cit., pp. 201-
202.
48 Si veda A. GARCÍA Y GARCÍA, Nebrija y el mundo del derecho, in Antonio de
tiones di Valla quando scrisse la Quinquagena: «Whether Nebrija knew Valla’s work
on the New Testament when he composed the Tertia quinquagena remains an open
question». Infatti Nebrija, aggiunge Bentley, aveva incominciato a scrivere la Tertia
quinquagena prima che Erasmo publicasse le Adnotationes di Valla (1505). Il fatto
che Nebrija ignorasse le Adnotationes valliane al tempo in cui lavorava sulla Tertia
quinquagena rende la sua solida esegesi biblica ancora più eccezionale (cfr. J. BEN-
TLEY, Humanists and Holy Writ. New Testament Scholarship in the Renaissance,
Princeton 1983, pp. 84 e 85). Altri studiosi – cfr. A. MORENO, España y la Italia cit.,
p. 64 –, condividono il giudizio di Bentley. Che Nebrija, una delle figure dell’uma-
nesimo europeo più interessata alla filologia biblica (già nella terza edizione delle
Introductiones [1495] faceva presente alla Regina Isabella che da allora in poi si sa-
rebbe dedicato esclusivamente alla esegesi scritturale), non abbia conosciuto le Ad-
notationes di Valla, una delle opere più polemiche dell’umanesimo italiano (si pen-
si allo scontro tra Poggio e Valla), è inammissibile. Tra l’altro le Adnotationes furo-
no oggetto di intense discussioni in Italia durante la permanenza di Nebrija a Bolo-
gna (1460-1470 c.) e continuarono ad interessare gli umanisti italiani del tardo
Quattrocento con cui Nebrija e il suo fedele allievo, Arias Barbosa, mantennero
sempre un buon rapporto. Perciò, come ritiene Bataillon, non c’è dubbio che Nebrija
conosceva l’opera dell’umanista italiano: «Es seguro che no ignoraba [Nebrija] la o-
bra crítica [le Adnotationes] de Lorenzo Valla» (Erasmo y España cit., p. 34). Su
questo cfr. pure RICO, Nebrija frente a los bárbaros cit., pp. 62-67 e 70-71.
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fectamente las tres lenguas, o a Nicolao, Hugo, Papías, Mamotreto y a los demás au-
tores que vivieron en tiempos en que las letras griegas y latinas estaban olvidadas?»:
ibid., p. 133.
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54 Ibid., p. 130.
55 Sulle Adnotationes di Valla cfr. C.S. CELENZA, Renaissance Humanism and
the New Testament: Lorenzo Valla’s Annotations to the Vulgate, «The Journal of
Medieval and Renaissance Studies», 24 (1994), pp. 33-52, e J. MONFASANI, The
Theology of Lorenzo Valla, in Humanism and Early Modern Philosophy, a cura di
J. KRAY-M. W. F. STONE, London-New York 2000, pp. 1-23. Per la Tertia quinqua-
gena e l’Apologia di Nebrija cfr. BATAILLON, Erasmo y España cit., pp. 24-34, e
RICO, Nebrija frente a los bárbaros cit., pp. 62-72.
56 Sul rapporto tra la Gramática di Nebrija e l’umanesimo fiorentino del Quat-
gare cit., p. 224. Per una valutazione del volgare fiorentino di Bruni e Alberti e del-
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materia en que yo pudiesse ganar mucha honra, por ser nuestra lengua tan pobre de
palabras: que por uentura no podria representar todo lo que contiene el artificio del
latin. Mas despues que començe a poner en hilo el mandamiento de Vuestra Alteza,
contentome tanto aquel discurso, que ya me pesaua auer publicado por dos uezes u-
na mesma obra en diuerso stilo» (NEBRIJA, Introducciones cit., p. 6).
59 Sul predominio del volgare castigliano nella cultura spagnola del Quattro-
in cui gli Spagnoli erano riusciti a unificare il loro paese e a liberarlo della
‘peste’ di Maometto e dall’empia influenza ebraica, conquistando il regno
di Granada e bandendo gli ebrei; fu l’anno in cui si era realizzata la scoperta
del Nuovo Mondo e fu pure l’anno in cui uno spagnolo, Rodrigo Borgia, e-
ra assurto al soglio pontificio col nome di papa Alessandro VI. A ragione in
quegli anni tutta la Spagna era stata percorsa da un forte senso nazionalisti-
co e trionfalistico, nazionalismo e trionfalismo che sono riflessi nella
Gramática de la lengua castellana di Nebrija, secondo il quale i Re Catto-
lici avevano trasformato la Spagna da un agglomerato di stati, spesso in
guerra tra di loro, in una compatta e stabile entità politica dotata della stes-
sa religione e motivata dagli stessi obiettivi politici e militari61. Nebrija a-
vrebbe fatto altrettanto nel campo linguistico; la sua Gramática avrebbe
normalizzato («reduzir en artificio») e stabilizzato sulla scia dell’ars gram-
matica del greco e del latino antichi un volgare castigliano estremamente
plasmabile e, perciò, suscettibile di profonde trasformazioni linguistiche.
La sua Gramática sarebbe servita come efficace strumento linguistico per
gli storici spagnoli ed avrebbe facilitato l’apprendimento del latino; sareb-
be stata, inoltre, particolarmente utile al nascente impero dei Re Cattolici,
un impero che già includeva importanti regioni e stati (Navarra, Granada, I-
talia) e che nel futuro avrebbe senz’altro compreso molti altri popoli62. Nel
contesto di questo nascente impero, la Gramática del Nebrija sarebbe ser-
vita ad insegnare le leggi che i conquistatori spagnoli avrebbero imposto ai
popoli conquistati («las leies quel el vencidor pone al vencido») e la lingua
castigliana stessa, la cui conoscenza era necessaria non solo ai popoli sot-
tomessi alla Spagna, ma anche a quelle nazioni che per varie ragioni avreb-
bero intrattenuto rapporti diplomatici con la monarchia spagnola63.
Alla base di questo ragionamento sul rapporto tra lingua castigliana e
il nascente impero dei Re Cattolici c’è la nozione che la fortuna della lin-
gua è legata strettamente a quella dello stato: «siempre la lengua fue com-
pañera del imperio»64. Nebrija afferma che tale legame si era manifestato in
tutti i grandi popoli antichi: l’ebraico, il greco, il romano, ecc. Il legame tra
lingua e stato sostenuto da Nebrija è stato oggetto di molto interesse tra gli
studiosi dell’umanista spagnolo. In un articolo scritto parecchi anni fa65, le
cui conclusioni sono state accolte anche da altri, Eugenio Asensio sostiene
che l’espressione usata da Nebrija «siempre la lengua fue compañera del
cura di E. BIGI, Torino 1965, p. 308. Su lingua e stato in Nebrija e il suo rapporto
con Valla, Landino e Lorenzo cfr. MAZZOCCO, Los fundamentos italianos cit., pp.
368-369, 374-375. Quanto al legame tra latino e impero romano in Landino e Lo-
renzo v. ID., Linguistic Theories cit., pp. 94-105. Nell’ambiente della Firenze del
Quattrocento Nebrija trovò pure il modello per le norme grammaticali della sua o-
pera. Sembra che nel formulare la sua Gramática l’umanista spagnolo abbia tenuto
presente i criteri delle Regole della lingua fiorentina, una breve grammatica sul vol-
gare fiorentino attribuita ad Alberti, ma la sua è molto più dettagliata e completa di
quella fiorentina. Infatti la Gramática di Nebrija è la prima vera grammatica di una
lingua moderna prodotta dal Rinascimento europeo. Sull’aspetto grammaticale del-
la Gramática v. A QUILIS, Estudio, in NEBRIJA, Gramática de la lengua castellana
cit., pp. 9-97. Per il rapporto tra le Regole della lingua fiorentina e la Gramática di
Nebrija v. MAZZOCCO, Los fundamentos italianos cit., pp. 370-371, 374.
Cap. 09 Mazzocco 211-236 13-09-2002 12:59 Pagina 231
69 Tale metodologia è affermata da Nebrija stesso: «Erat enim facile vulgus in-
certum erroris conuincere, cum [...] haberem codices pervetustos et litterarum mo-
numenta lapidibus ac numismatis impressa quae meis observationibus astipularen-
tur»: De vi ac potestate litterarum cit., p. 33.
70 Cfr. MAZZOCCO, Los fundamentos italianos cit., p. 373.
71 Cfr. supra. Gregorio Hinojo Andrés attribuisce l’esagerata aderenza alla ter-
minologia classica di Nebrija al fatto che per gli umanisti «la lengua latina debe
continuar como una lengua viva, útil y suficiente, y que el material ofrecido por la
antigüedad es adecuado para cumplir o desarrolar todas las funciones de comunica-
ción, aunque a veces precise de alguna transformación. En esta actitud y creencia
Cap. 09 Mazzocco 211-236 13-09-2002 12:59 Pagina 232
hay que buscar la causa profunda de este interés»: Obras históricas de Nebrija. E-
studio filológico, Salamanca 1991, p. 55. Tale asserzione da parte di Hinojo Andrés
è insostenibile specialmente se si tiene presente che Nebrija aveva optato per una
simbiosi tra latino classico e latino cristiano e che Valla, il difensore più acerrimo
del purismo latino e colui che più aveva sostenuto l’uso e l’efficacia del latino clas-
sico, riconosce il valore di un aggiornamento terminologico e lo sperimenta nella
narrazione della sua opera storica.
72 FLAVIO BIONDO, Historiarum ab inclinatione Romanorum Decades, Basilea
1531, pp. 393-396. Su quest’aspetto della dottrina di Biondo, cfr. MAZZOCCO, Lin-
guistic Theories cit., pp. 43-46.
Cap. 09 Mazzocco 211-236 13-09-2002 12:59 Pagina 233
131.
76 Ibid.
Cap. 09 Mazzocco 211-236 13-09-2002 12:59 Pagina 234
padronanza del latino, Nebrija aveva anche una buona conoscenza della so-
cietà spagnola ed era sincero patriota ed orgoglioso sostenitore della monar-
chia. Perciò era in grado di fornire una narrazione dei fatti storici della Spa-
gna dei Re Cattolici più rappresentativa della realtà storica spagnola e indub-
biamente più fedele agli ideali monarchici di quanto avessero potuto fare gli
umanisti italiani, che vanagloriosi al massimo invidiavano la gloria del popo-
lo spagnolo e, irritati dal dominio spagnolo in Italia, bollavano gli Spagnoli
come barbari e selvaggi: «Invident nobis laudem, indignantur quod illis im-
peritemus [...] nosque Barbaros opicosque vocantes infami appellatione foe-
dant»77. Per di più gli umanisti italiani non avevano il minimo rispetto per il
sistema monarchico spagnolo, perché essendo guidati da un falso senso di li-
bertà («simulatae cuiusdam libertatis amore») odiavano persino il nome di re
e disprezzavano il regime monarchico78. Gli Italiani avrebbero voluto sotto-
mettere gli Spagnoli con la loro cultura, ma di questo modo di pensare si po-
teva dire di loro ciò che Catone, scrivendo a suo figlio, diceva dei Greci:
«quando questo popolo ci insegnerà le lettere, ogni cosa corromperà»79.
Tranne forse le Introductiones, la Divinatio è il documento più studia-
to tra le numerose opere di Nebrija. Tra le varie interpretazioni dello scrit-
to vanno segnalate quelle di Felix Olmedo e Jeremy Lawrence, due delle
più rappresentative. Per Olmedo la Divinatio è una dichiarazione rivendi-
cativa in cui Nebrija emerge come «el Aníbal vendigador de la Dido e-
spañola»80, mentre per Lawrence è un’espressione diffamatoria in cui un
Nebrija sicuro di sé inveisce contro la corruzione e la codardia degli Italia-
ni81. Sebbene non ci sia dubbio che rivendicazione e disprezzo informano
in certa misura il messaggio della Divinatio, la chiave di volta di quest’o-
pera è però un senso di inferiorità nei confronti della grande filologia del-
l’umanesimo italiano. L’inferiorità di Nebrija è implicita in quel suo auto-
definirsi scrittore di secondo rango, autodefinizione che però viene subito
mitigata dal riferimento alla sua permanenza a Bologna. Nebrija sembra vo-
ler dire che è vero che non era nato e non si era formato in uno dei grandi
centri umanistici italiani, che avevano tanto arricchito la perizia filologica
di un Pico della Mirandola o di un Ermalo Barbaro, ma era pure vero che
aveva studiato ed aveva imparato il latino a Bologna. Perciò, se non proprio
scrittore di prima categoria, era tuttavia dotato di una solida preparazione
filologica, in grado pertanto di scrivere una buona opera storica. La mitiga-
77Ibid., p. 128.
78Ibid.
79 «Quodque M. Cato ad filium de Graecis scribit, possumus et nos de Italis di-
cere, quandocunque gens ista nobis literas dabit, omnia corrumpet»: ibid.
80 OLMEDO, Nebrija cit., p. 191.
81 LAWRENCE, Humanism in the Iberian Peninsula cit., p. 242.
Cap. 09 Mazzocco 211-236 13-09-2002 12:59 Pagina 235
tata anche dagli umanisti italiani nella loro valutazione del rapporto tra Roma e Gre-
Cap. 09 Mazzocco 211-236 13-09-2002 12:59 Pagina 236
cia. Per esempio, mentre discute della conquista della Macedonia da parte di Paolo
Emilio, Biondo osserva che tale conquista aveva apportato molta gloria al popolo
romano, ma aveva anche dato l’avvio alla degenerazione del suo spirito austero e
ferreo, degenerazione che avrebbe portato alla decadenza e al collasso della Roma
antica: cfr. De Roma triumphante cit., p. 208. È probabile che Nebrija abbia presente
queste osservazioni degli umanisti italiani quando formula le sue critiche nei con-
fronti dell’Italia.
86 Cfr. supra.
87 Dovremmo aggiungere che tali contraddizioni si riscontrano pure negli u-
FRANCO MARTIGNONE
1
F. MARTIGNONE, L’orazione di Ladislao Vetesy per l’obbedienza di Mattia
d’Ungheria a Sisto IV, «Atti e Memorie della Società savonese di Storia patria», (V
Convegno storico savonese ‘L’età dei Della Rovere’, Savona, 7-10 novembre 1985),
25 (1989), parte II, pp. 205-250 (in part. pp. 205-207).
Cap. 10 Martignone 237-254 13-09-2002 13:00 Pagina 239
2 Ibid.
3 JOHANNISBURCKARDI Liber notarum ab anno MCCCCLXXXIII usque ad an-
num MDVI, ed. a cura di F. CELANI, RIS2, 32, (1907-1911).
Cap. 10 Martignone 237-254 13-09-2002 13:00 Pagina 240
Entrambe le relatrici del convegno romano che ho appena citate hanno in-
cluso, fra i motivi di stampa, la propaganda, oltre naturalmente al dono, al
modello letterario e ai contenuti (Bianca), segnalando anche (Farenga) l’e-
sistenza di stampatori specializzati, operanti in Roma, come Stephan
Plannck, Eucharius Silber e Andreas Fritag, cui mi sento di aggiungere, per
l’epoca di Innocenzo VIII, Bartholomaeus Guldinbeck. Non mancano, an-
che se sono poche, stampe in altre città, come Firenze, Milano, Parma, Pa-
via, Venezia: in questi casi è piuttosto facile pensare ad una stampa più tar-
da – e le date di pubblicazione, certe o supposte, ci autorizzano a dirlo – in
chiave di modello letterario o legata all’ambito geografico e politico del-
l’oratore. Dunque tutte le orazioni d’obbedienza – tranne la prima di cui
parleremo dopo – vedono la loro prima edizione, ed anche la maggior par-
te delle successive, a Roma, e vengono stampate a tambur battente, come ha
giustamente affermato Concetta Bianca facendo riferimento alla dedica
contenuta nell’orazione di Benvenuto di Sangiorgio ad Alessandro VI per
conto del marchese Bonifacio di Monferrato. Leggiamo i passi più interes-
santi di questa dedica:
l’IGI al 13 gennaio 1493, un mese esatto dopo il terminus post quem attri-
buito alle stampe del Plannck e del Fritag (13 dicembre 1492), non coinci-
dente in questo caso con la data di recita dell’orazione annotata dal
Burckard, perché evidentemente i catalogatori hanno altri più certi elemen-
ti su cui fondarsi rispetto alle indicazioni del cronista pontificio. Dunque ci
sono stampe che sono motivate anche sul piano essenzialmente umanistico-
letterario, come del resto è confermato dalla qualità estetica e dalla com-
plessità dell’orazione, degna del suo autore.
Anche la specificità dei contenuti, accompagnata naturalmente dalla va-
lidità estetica, può essere a volte causa di stampa, o meglio di ristampa, co-
me accadde nel caso dell’orazione d’obbedienza di Laszlo Vetesy8 a Sisto IV
per conto di Mattia Corvino: stampata a Roma nel 1475 da Johann Schure-
ner e fortemente caratterizzata come oratio inflammatoria contro i Turchi,
venne ristampata dal Plannck nel 1480, penso per la grande attualità che le
veniva dalle vicende dell’assedio turco di Rodi. Sempre in relazione al pro-
blema dei Turchi un’altra orazione d’obbedienza a Sisto IV conobbe un gran
successo editoriale, quella di Bernardo Giustiniani9 per conto della Repub-
blica di Venezia: penso che si tratti della prima orazione d’obbedienza stam-
pata subito dopo la recita e conobbe quattro edizioni – presumibilmente in
un breve arco temporale attorno al 1471 – quelle romane di Stephan Plannck
e di Johann Gensberg, quella patavina di Lorenzo Canozi e quella venezia-
na, più importante per formato e più accurata, di Nicolas Jenson. Venne poi
ristampata nel 1492 ancora a Venezia da Bernardino Benagli insieme ad al-
tri scritti del Giustiniani. L’orazione, indiscutibilmente pregevole sotto il
profilo estetico-letterario – ne ho completata l’edizione e la traduzione e
penso di pubblicarla nell’ambito di un lavoro sui Cavalieri di Rodi – fece e-
poca e la sua connotazione anti-turca è così forte che fece passare in secon-
do piano il fatto che si trattasse di un’orazione d’obbedienza a un pontefice,
al punto che i cataloghi la riportano sotto il titolo Iustinianus Bernardus, O-
ratio exhortatoria contra Turcos! Motivo per cui era sfuggita al mio primo
giro di ricerche relative alle orazioni d’obbedienza. Aggiungo solo che, co-
me molti sanno, questa orazione e quella del Vetesy possono essere consi-
derate le antesignane di una vasta produzione letteraria destinata alla stam-
pa che ha caratterizzato l’ultimo quarto del Quattrocento in relazione al pro-
blema costituito dai Turchi per la Cristianità.
Dagli esempi presi in esame sin qui non possiamo che dedurre che o-
gni stampa abbia una sua specifica motivazione, cosa del resto abbastanza
logica: un nuovo medium come la stampa non può che trovare molti ambi-
8V. nota 1.
9BERNARDUS IUSTINIANUS, Oratio exhortatoria contra Turcos, Venezia, Nico-
las Jenson, dopo il 2 XII 1471.
Cap. 10 Martignone 237-254 13-09-2002 13:00 Pagina 243
1488-1490.
Cap. 10 Martignone 237-254 13-09-2002 13:00 Pagina 246
1) sono stati tra i primi popoli in Italia che hanno celebrato pubblicamente
il sacrificio dell’Eucarestia;
2) non hanno mai dato ricetto ad alcuna eresia;
3) non hanno mai permesso agli Ebrei di soggiornare nella loro città;
4) non hanno mai preso le armi contro la Chiesa romana;
5) per la diffusione della fede cristiana hanno partecipato alla conquista di
Gerusalemme, alla conquista e alla difesa di Rodi, alla cacciata dei Tur-
chi da Otranto; hanno convertito alla fede cristiana Greci, Sciti, Armeni,
Cappadoci;
6) sono stati alleati di molti pontefici, li hanno ospitati se cacciati, li hanno
aiutati a risalire sul trono;
7) genovesi sono stati parecchi pontefici e innumerevoli cardinali.
un tale nocchiero»19! Non si può dire che l’adulazione sia assente, ed è for-
se proprio per questo che il nostro Benvenuto di Sangiorgio, che ha dovuto
sottoporre a vaglio la sue parole prima di pronunciarle, ha ritenuto oppor-
tuno nella stampa, dopo la dedica, premettere alla orazione stessa una ora-
tio ad lectorem in cui dà consigli di moderazione e chiarezza a chi deve par-
lare davanti al pontefice e ai cardinali, per essere capito e amato da tutti, an-
che dai semplici e da Dio, bandendo Gnatone dal teatro della retorica: di-
sperato tentativo di credibilità! Lasciamo in pace Benvenuto di Sangiorgio,
che per altro ha composto un’ottima orazione ed è perfettamente in linea
con tutti gli artifici oratori dell’epoca, e torniamo ancora ai doveri formali
di chi porge l’obbedienza, precisando in conclusione che l’oratore non può
esimersi, subito prima della formula sacrale del riconoscimento del ponte-
fice e dell’obbedienza, di dichiarare che tutti i beni e le forze di chi gli ha
affidato questo compito sono a disposizione del pontefice, che ne disporrà
come vorrà.
Veniamo ora alle lodi del pontefice, che si articolano di solito in tre parti:
Gli argomenti che attengono alla prima parte – le lodi del pontificato –
si incentrano sull’istituzione in quanto tale, dalle origini ai tempi correnti,
e sulla funzione di vicario di Cristo e di supremo depositario del potere ter-
reno del pontefice, tematiche queste ultime molto preziose per il rafforza-
mento in chiave teocratica del potere del papa e per contrastare le mai so-
pite teorie conciliariste. Contengono spesso anche dissertazioni sulla fun-
zione di Roma caput mundi e sui meriti dei pontefici precedenti, vicini o
lontani nel tempo, e danno occasione agli oratori di fare sfoggio delle loro
conoscenze in ambito religioso, giuridico e storico. Le lodi della persona
del pontefice sono, come è comprensibile, spesso la parte più importante
dell’orazione e partono innanzitutto dalle doti in termini di fede, ma poi
toccano le lodi della patria, quelle della famiglia, quelle delle vicende pre-
cedenti della vita del pontefice – riferite soprattutto all’ambito religioso –,
le qualità morali, intellettuali e di cultura, per giungere fino alle doti esteti-
che vere e proprie. Punto obbligato è anche il riferimento al nome che il
neo-eletto ha scelto come pontefice e, qualche volta, persino all’ordinale di
questo nome. È proprio in questa parte dell’orazione, in genere, che gli o-
ratori fanno sfoggio al massimo delle loro capacità e della loro inventiva,
19 V. nota 4.
Cap. 10 Martignone 237-254 13-09-2002 13:00 Pagina 250
costruendo con cura i periodi in una gradatio così serrata che qualche vol-
ta ci fa venire il fiatone, seminando citazioni e figure retoriche a ogni piè
sospinto, non riuscendo mai ad accontentarsi dei superlativi! (Vi confesso
che, nella prima lettura di certe orazioni di obbedienza, giunto al punto del-
le lodi del pontefice la mia sensazione era quella di trovarmi in bicicletta su
per un passo dolomitico – non sono un ciclista! – e mi chiedevo: «ma come
farà, più avanti, a dir di più»? Con questo tuttavia non voglio nascondere di
aver spesso apprezzato molto l’ingegnosità e l’estro, oltre alla cultura, de-
gli autori!)
Meno affannosa, di solito, risulta la lettura della parte riferita alle a-
spettative della Cristianità in seguito all’elezione del nuovo pontefice. Non
mancano certo le iperboli e i superlativi si sprecano, ma il periodare è più
disteso e l’intenzione di essere ben capito da parte dell’oratore appare più
evidente: è proprio questo il punto in cui possono essere avanzate proposte
di politica estera, naturalmente presentandole sotto la luce degli interessi
supremi della Cristianità. È il punto dove normalmente si invoca la crocia-
ta contro il Turco e la pace e la concordia per i principi cristiani, ma dove,
anche, l’oratore delinea quello che di massima può essere considerato il
programma di politica estera della realtà politica che rappresenta. A volte
può anche accadere che qui si abbandoni il tono encomiastico e ci si per-
metta, naturalmente sempre nell’ambito del rispetto, di stimolare il pontefi-
ce a compiere i suoi doveri di supremo pastore e di nocchiero della navi-
cella di san Pietro: lo fa Laszlo Vetesy, lamentando che il suo sovrano è sta-
to lasciato solo a reggere il peso delle offensive turche e, per di più, deve
combattere anche contro l’ostilità del re di Polonia. Il nostro oratore non ri-
sparmia a Sisto IV ed ai cardinali i toni polemici: «oppure pensate forse che
non vi riguardino per nulla i danni e i pericoli dei vostri fedelissimi alleati,
dei vostri fidatissimi amici e del popolo ungarico che ha ottimamente me-
ritato della Repubblica Cristiana? Senza dubbio siete vittime di una falsa o-
pinione se così pensate. Infatti non dovrei forse considerare salvezza del-
l’Italia e garanzia per gli Italici anche la ricchezza e la fedeltà, l’autorità e
la benevolenza degli amici, in primo luogo degli Ungheresi che, chiara-
mente, più di tutti i Cristiani si sforzano di spezzare con ogni mezzo l’im-
mensa potenza dell’empia gente dei Turchi»20? E l’oratore continua facen-
do riferimento alla determinazione dei Romani nella tutela del proprio no-
me e nel sostegno agli alleati, citando la distruzione di Corinto etc. In ge-
nerale però dobbiamo dire che gli oratori fanno a gara nel dimostrare la lo-
ro erudizione, le loro abilità retoriche e la loro efficacia nell’escogitare for-
me di laudatio sempre più sofisticate: non è soltanto il desiderio di figura-
V 1493.
23 RUTILIUS ZENO, Oratio pro Ferdinando Italo Rege ad Alexandrum VI, Roma,
origo est, Beatissime Pater!) sola Alexandri Magni vel statua vel inanis pic-
tura apud Gades conspecta ad eius magnifica gesta imitanda commovere
potuit, quid non effictam, sed veram vivamque Alexandri Maximi effigiem
effecturam credimus»? Ci si arrampica davvero sugli specchi!
Con queste ultime parole siamo entrati nel campo delle lodi dell’a-
spettto, affrontato anche da altri oratori: «Visa pulcherrima tui corporis
maiestate totaque eius harmonia equaliter referenti harmoniae caelesti»
(Giovanni Manili)25; «Accessit formae ellegantia, quae virtuti suffragium
addit: lata frons, regium supercilium, facies liberalis et tota maiestatis ple-
na, ingenuus et heroicus totius corporis decor, ut appareat naturam quoque
formae dignitatem indulxisse» (Giason del Maino)26. Potrei continuare con
le citazioni ma, se da una parte tutto sommato una citazione fuori dal con-
testo dell’insieme dell’orazione non rende giustizia a chi l’ha scritta, per
quanto chi si serve della citazione cerchi di non tradire l’intento dell’auto-
re, dall’altra mi pare di aver ormai parlato abbastanza, anche se non ho di-
chiarato che mi mancavano le parole, come fece il già lodato Cara!
Lasciatemi solo ancora dire che il riferimento ad Alessandro Magno è
un topos per quasi tutti gli oratori e segnalare che il Tigrini riesce a trova-
re un segno del destino anche nell’ordinale – VI – di Alessandro: «Senarius
numerus qui Alexandri nomini additur et in musicis, arithmetica et sacris
litteris perfectionem tenet»27, lanciandosi in una dotta argomentazione. A-
vrei forse dovuto prendere in esame con più cura l’orazione di Giason del
Maino, che è senz’altro una delle migliori, se non la migliore, ma penso sia
meglio rinviare l’operazione all’edizione dell’orazione stessa. Se sommia-
mo le lodi presenti nei diversi testi viene fuori purtroppo un’immagine ste-
reotipa di un pontefice dotato di ogni possibile virtù, inviato da Dio per sal-
vare la Cristianità dai nemici della Fede e per pacificarla, che già dalla più
giovane età ha cominciato a porre le basi per assumere sulle sue spalle il pe-
sante fardello che ora porta, chiamato a questo supremo compito dall’una-
nime volontà dei cardinali nel segreto del conclave, affermazione che ri-
corre in quasi tutte le orazioni. Sappiamo bene che non è andata così e co-
sì possiamo immaginare che molte delle doti attribuite ad Alessandro non
esistessero affatto, tuttavia penso di poter segnalare almeno un paio di ele-
menti abbastanza costanti, anche se non si tratta certo di novità eclatanti: la
profonda connotazione di uomo d’azione accompagnata da una grande e-
sperienza dei pubblici maneggi e il possesso di una viva intelligenza ac-
compagnata da una prodigiosa memoria, doti raramente congiunte in un’u-
nica persona, come ci dice Giason del Maino28.
25 V. nota 18.
26 V. nota 7.
27 V. nota 24.
28 V. nota 7.
Cap. 10 Martignone 237-254 13-09-2002 13:00 Pagina 254
Temo con ciò di aver contribuito poco o nulla a gettare nuova luce sul-
la figura del pontefice, ma almeno un pochino sulle orazioni d’obbedienza
ai pontefici.
Cap. 11 Haywood 255-274 13-09-2002 13:24 Pagina 255
ERIC HAYWOOD
Disdegno umanista?
Alessandro VI di fronte all’Irlanda
1 Enciclopedia Italiana, II, 1949, p. 343 (ad vocem «Alessandro VI»). Lo stes-
so ha sostenuto il prof. R. De Maio nel corso della sua brillante relazione su Ales-
sandro VI e Savonarola presentata alla sessione romana di questi Incontri di Studio.
2 Alexandri VI papae commissio ad inquirendum de vita, moribus, et miraculis
bastone un gran cerchio sulla terra. Ed ecco che la terra si aprì se-
guendo quel tracciato ed apparve un grande e profondissimo poz-
zo: seppe poi Patrizio per rivelazione divina che quel pozzo era
una specie di Purgatorio e chi voleva discendervi non avrebbe a-
vuto a soffrire altra penitenza dopo la morte3.
p. 231.
4 Sul Purgatorio di s. Patrizio cfr. L. FRATI, Tradizioni storiche del Purgatorio
di San Patrizio, «Giornale storico della letteratura italiana», 17 (1891), pp. 46-79, e
The Medieval Pilgrimage to St. Patrick’s Purgatory. Lough Derg and the European
Tradition, a cura di M. HAREN-Y. DE PONTFARCY, Clogher 1988.
Cap. 11 Haywood 255-274 13-09-2002 13:24 Pagina 257
305-308. Il «milite Egneo», le cui avventure sono qui descritte, sarebbe il cavaliere
Owein, il primo pellegrino nella storia del Purgatorio di s. Patrizio di cui si sia a co-
noscenza; il suo pellegrinaggio, descritto nel Tractatus de Purgatorio Sancti Patri-
cii (cfr. infra nota 27) sarebbe in realtà avvenuto nel XII secolo.
9 Ibid., p. 575.
10 La lettera di Francesco Chiericati a Isabella d’Este è citata in B. MORSOLIN,
neamente al nunzio pontificio (per modo di dire – è del 1516 la prima edi-
zione dell’Orlando furioso),
ra»: New Catholic Encyclopaedia, XI, Washington D.C. 1967, p. 1039 (ad vocem
«Purgatory, St. Patrick’s»).
14 J. LE GOFF, La naissance du Purgatoire, Paris 1981, p. 268.
15 M. HAREN, The Close of the Medieval Pilgrimage: the Papal Suppression
and its Aftermath, in The Medieval Pilgrimage cit., pp. 190-201 (p. 190).
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16 Ibid.,
p. 195.
17
F.X. MARTIN-A. DE MEIJER, Irish Material in the Augustinian Archives, Ro-
me, 1354-1624, «Archivium Hibernicum», 19 (1956), pp. 61-134 (p. 108).
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History of Pope Alexander VI, his Relatives and his Times, IV, Bruges 1924, p. 456.
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20 Su Enrico VII e i Tudor cfr. R. O’DAY, The Longman Companion to the Tu-
dor Age, London 1995, e J.A.F. THOMSON, The Transformation of Medieval En-
gland, 1370-1529, London 1995.
21 Su questo periodo della storia irlandese cfr. A. COSGROVE, Late Medieval I-
reland, Dublin 1981; S. ELLIS, Tudor Ireland. Crown, Community and the Conflict
of Cultures, 1470-1603, London 1985, e A New History of Ireland, II: Medieval I-
reland, 1169-1534, a cura di A. COSGROVE, Oxford 1993.
22 W.E. WILKIE, The Cardinal Protectors of England. Rome and the Tudors
Tale minaccia sarebbe poi stata ribadita dallo stesso Alessandro. Non
vi è dubbio, quindi, che, se Enrico avesse voluto, per completare la sua
riforma della chiesa irlandese o per consolidare il proprio potere di fronte a
baroni e principi ribelli, liberarsi del Purgatorio di s. Patrizio (il quale, oltre
a suscitare, come abbiamo visto, la cupidigia di poco reverendi sacerdoti,
fomentava discordia, a quanto pare, tra famiglie principesche rivali, che re-
clamavano, ciascuna per suo conto, il privilegio di esserne i custodi), e se
avesse pregato Alessandro di farlo distruggere «funditus», il pontefice non
avrebbe esitato ad accantonarlo.
Se accettiamo l’ipotesi che il pontefice fece distruggere il Purgatorio di
s. Patrizio per compiacere il re, dobbiamo riconoscere però che il suo inter-
vento negli affari d’Irlanda sarà stato motivato non solo da considerazioni
di ‘politica estera’ (per modo di dire) ma anche, e forse soprattutto, da con-
siderazioni di ‘politica interna’. In primo luogo avrà cercato – incoraggiato
in questo, probabilmente, dall’arcivescovo di Armagh, il fiorentino Antonio
del Palatio Spinelli, che fu primate della chiesa irlandese per più di trent’an-
ni (dal 1479 al 1513), durante i quali si mostrò sempre molto leale al soglio
pontificio (come del resto alla corona inglese) – di porre un freno all’inve-
terata insubordinazione degli Irlandesi, i quali avevano per costume di au-
toinvestirsi delle cariche ecclesiastiche, a dispetto degli ordini emanati da
Roma, e quando tali ordini minacciavano di pregiudicare i loro interessi, di
praetensum de jure de facto in regem coronarunt et Innocentii VIII bulla contra re-
belles domini regis, in WILKINS, Concilia cit., pp. 623-624.
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del rapporto tra Purgatorio di s. Patrizio e Purgatorio ‘vero e proprio’ sono delle i-
potesi che andranno ulteriormente verificate; sono desunte dal libro di Le Goff non-
ché dalla voce Purgatoire nel Dictionnaire de théologie catholique, XIII, Paris
1936, pp. 1163-1361, e da A. PIOLANTI, Il dogma del Purgatorio, «Euntes docete»,
6 (1953), pp. 287-311.
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dentali e cristiani orientali contro l’avanzata dei Turchi (come poi sarebbe
avvenuto durante il concilio di Trento, per tentare di porre riparo al diffon-
dersi delle idee protestanti) – ed era diventato, specie col consolidarsi della
monarchia papale dopo i lunghi anni di prostrazione causata dalla cosid-
detta cattività avignonese, dal grande scisma e dal periodo conciliare ad es-
so succeduto, un’arma indispensabile per garantire l’autorità (e la ricchez-
za) di Roma e la plenitudo potestatis del pontefice. «L’Eglise – scrive Le
Goff –, au sens ecclésiastique, clérical, tire grand pouvoir du nouveau sy-
stème de l’au-delà. Elle administre ou contrôle des prières, des aumônes,
des messes, des offrandes de toutes sortes accomplies par les vivants en fa-
veur de leurs morts, et elle en bénéficie. Elle développe, grâce au Purgatoi-
re, le système des indulgences, source de grands profits, de puissance et
d’argent»28. L’identificazione di Roma e Purgatorio era diventata tale, che i
nemici della Chiesa (sia politici che religiosi) considerarono raccolti in
quell’unica dottrina tutti gli abusi del ‘papismo’. Non molto prima dell’av-
vento di Alessandro VI, Masuccio Salernitano, facendo suo, nel Novellino,
l’anti-clericalismo (di ispirazione politica) dei re di Napoli, tradizionali an-
tagonisti delle mire espansionistiche dei vicari di Dio, aveva esclamato:
«che Idio possa presto destruere il purgatorio»29. E non molto dopo la
scomparsa di Alessandro il Purgatorio, com’è ben noto, sarebbe diventato,
insieme alle indulgenze (quei lasciapassare oltremondani che spalancavano
le porte del Purgatorio per semplice fiat papale e che la Chiesa smerciava in
modo svergognato), la causa immediata della riforma protestante, portando
i riformati, di lì a non molto, a negare la sua esistenza («impium et diaboli-
cum figmentum est papisticum purgatorium», dice la Confessione d’Erlau
del 1562)30.
Il Purgatorio era diventato a tal punto ‘papistico’, ai tempi di Alessan-
dro VI, che solo al papa ne doveva spettare il controllo, perché, sulla terra,
solo il papa, in ultima istanza, poteva essere arbitro dell’eterna salvezza dei
fedeli; e l’unica via per arrivare all’aldilà dovendo essere la via maestra,
cioè quella romana, l’esistenza di un’altra via, cioè quella irlandese, non e-
ra più da tollerare. Presentava infatti (siamo naturalmente sempre nel regno
della congettura) un duplice rischio per il papato. Se da un lato permetteva
a un altro pontifex di erigersi a giudice del destino oltremondano di anime
cristiane, anche senza il concorso di Roma, dall’altro – il che era, senza
dubbio, più grave – minacciava di far crollare, nel caso si spargesse con
troppa insistenza la voce (mercé l’indiscrezione di frati olandesi oltremodo
zelanti) che le visioni nel Purgatorio di s. Patrizio erano cessate – «anti-
quum miraculum [...] cessaverat», dicono gli Acta sanctorum – e che il Pur-
gatorio vero e proprio altro non era, quindi, che una favola (come sostene-
vano del resto alcune persone all’interno della Chiesa e avrebbero procla-
mato ad alta voce i nemici del Cattolicesimo), l’intero edificio eretto da Ro-
ma per salvaguardare la supremazia (e la ricchezza) del papa.
A Roma il Purgatorio di s. Patrizio doveva inoltre sembrare fin troppo le-
gato a un periodo di infamia per la Chiesa che, con l’avvenuta restaurazione
della supremazia papale, era meglio dimenticare, come era meglio dimenti-
care, ora che regnava un papa spagnolo, l’ultima volta che alla tiara era stato
elevato uno Spagnolo. Era stato durante la cosiddetta cattività avignonese, in-
fatti, che il pellegrinaggio irlandese aveva goduto di maggiore fama (grazie
alla campagna pubblicitaria – come si direbbe oggi – lanciata in proposito
presso la curia di Avignone dall’arcivescovo di Armagh, Richard Fitz-
Ralph)31, e tra coloro che più lo avevano favorito, a quanto pare, vi era stato
l’antipapa catalano Benedetto XIII, che fu uno dei principali artefici del gran-
de scisma e che (forse) «recitò un sermone sul Purgatorio di S. Patrizio che
fu stampato»32. Purtroppo nulla sappiamo (per ora) di questo sermone o del-
le circostanze in cui fu pubblicato – né, a dire la verità, possiamo affermare
con certezza che si tratti effettivamente di un sermone di Benedetto XIII de
Luna, che fu antipapa dal 1394 al 1424, e non di Benedetto XIII Orsini, che
fu papa dal 1724 al 1730 – ma ciò non ci impedisce di prospettare l’ipotesi di
un certo disagio da parte della Chiesa, ai tempi di Alessandro, nei confronti
di s. Patrizio, confermata dalle incertezze (cui si fa allusione negli Acta sanc-
torum) di chi in Italia compilava i primi breviari e messali a stampa, sull’op-
portunità o meno di includervi il santo irlandese:
Oltre a ciò, il periodo avignonese aveva fornito uno degli esempi più
noti di strumentalizzazione politica del Purgatorio di s. Patrizio (ma ve ne
saranno stati certamente degli altri). Nel 1397 vi si era recato in pellegri-
naggio il nobiluomo catalano Ramon de Perellós, intimo di Benedetto XIII
e del re d’Aragona da poco scomparso, Giovanni I (1387-96) – nonché u-
nico pellegrino dell’area spagnola ad aver lasciato una testimonianza scrit-
ta della sua visita34. A spingerlo a compiere il viaggio, oltre alla curiosità e
alla speranza di una personale redenzione, era stato il desiderio (fortunata-
mente esaudito!) di incontrarvi Giovanni I, perché costui potesse scagio-
narlo dall’imputazione di tradimento rovesciatagli addosso dai suoi nemici,
e allo stesso tempo confermare che chiunque si diceva papa, con l’eccezio-
ne di Benedetto XIII (di cui il re d’Aragona era stato accanito difensore e
grazie a cui – si sosteneva – si trovava adesso sulla via della salvazione), e-
ra un impostore. È ovvio quale risonanza dovette avere tale notizia per i fe-
deli dell’antipapa spagnolo. Altresì evidente è l’effetto che avrebbe potuto
produrre a Roma, ai tempi di Alessandro VI, una simile notizia divulgata
dagli antagonisti dei Borgia, o dai nemici dei Tudor (qualcuno dei preten-
dente al trono) a Londra. Perciò dovette sembrare poco prudente, sia al si-
moniaco Alessandro VI che al parvenu Enrico VII, i quali avevano già suf-
ficientemente da temere le minacce di chi per via naturale ne contestava il
diritto di regnare, permettere che i loro avversari potessero liberamente ac-
cedere all’aldilà, per poi riportarne chissà quali ‘prove’ della loro indegnità.
Per impedire che ciò si verificasse bisognava distruggere funditus quel poz-
zo che con l’aldiltà – a quanto si diceva – consentiva di comunicare.
Sulle incertezze di Alessandro e della chiesa nei confronti di s. Patrizio
e dell’Irlanda avranno anche pesato – di questo possiamo essere sicuri –
considerazioni di natura non strettamente ecclesiastica o teologica, ma per-
tinenti piuttosto all’universo culturale in cui vivevano gli Italiani (e gli In-
glesi) di quel periodo, vale a dire all’Umanesimo. Verso la metà del ‘400 –
come ho avuto occasione di mostrare altrove – si verificò in Italia un cam-
biamento nel modo in cui l’Irlanda veniva giudicata e immaginata, cambia-
mento dovuto alla riscoperta, da parte degli umanisti, delle opere dei geo-
grafi antichi35. Prima, l’Irlanda era stata vista come una specie di paradiso
terrestre, dall’irresistibile fascino e popolato da gente «dolce». Era così che
l’aveva descritta, in particolare, il poeta ed esule fiorentino Fazio degli U-
berti, il quale, nel suo Dittamondo, a malapena era riuscito a contenere il
desiderio che là lo trascinava:
Dopo, per contro, sarebbe diventata – perché così volevano gli antichi
(«Cultores [Iuvernae] inconditi sunt et omnium virtutum ignari [...], pieta-
tis admodum expertes» diceva, per esempio, la Corografia di Pomponio
Mela)37, e per gli umanisti, come ben sappiamo, era più importante ade-
guarsi ai modelli antichi che non fidarsi dell’osservazione personale – una
terra di barbari priva di qualsiasi interesse e da cui tenersi distanti quanto
più possibile. «Hybernia nunc nobis absolvenda esset» – scriveva, nel suo
De Europa, il primo grande geografo umanista (e futuro papa) Enea Silvio
Piccolomini, le cui vedute in proposito erano destinate ad avere larga riso-
nanza –, «sed quoniam nihil dignum memoria per hoc tempus, de quo scrip-
tio est, gestum accepimus, ad res Hispanicas festinamus»38.
Di non darsi pensiero per l’Irlanda ma di affrettarsi a considerare i ca-
si di Spagna sembra un consiglio ideato appositamente per aiutare un papa
spagnolo invischiato in questioni irlandesi. Naturalmente sarebbe azzarda-
to, senza ulteriori prove, attribuire all’influenza di Pio II l’atteggiamento di
Alessandro VI e dei suoi curiali nei confronti dell’Irlanda, ma non è da e-
scludere che, rispetto a quel paese, circolassero in curia una certa indiffe-
renza e un certo disdegno di ascendenza umanistica, spiegabili col fatto che
un gran numero di coloro che vi ricoprivano cariche importanti, e in parti-
colare di coloro che erano addetti alle relazioni con la corte di Enrico VII
(che ospitava anch’essa gran copia di intellettuali, per così dire, d’avan-
guardia, la maggior parte italiani), si era formato alla scuola degli umanisti
ed era dedito al culto dell’antichità39. Si potrebbero citare molti nomi in
tinentem historias, in Opera quae extant omnia, Basilea [1551], cap. XLVI («De
Scotia et mirandis apud Orcades arboribus suos fructus in aves mutantibus. Item de
Hibernia»).
39 Sull’Umanesimo inglese e i suoi rapporti con quello italiano cfr. il mio L’a-
sto, perfino nei documenti ufficiali della Chiesa di quel periodo si trovano
tracce di siffatta opinione.
Di lì a non molto sarebbe diventato un luogo comune della storiogra-
fia e della cosmografia umanistica, per merito anzitutto della Anglica hi-
storia di Polidoro Vergili – scritta su commissione di Enrico VII, modella-
ta in certa misura sul De Europa di Pio II, e contenente la prima descrizio-
ne ‘moderna’ dell’Irlanda, – che vi erano in realtà due Irlande, l’una abita-
ta da gente civile (perché colonizzata dagli Inglesi) e l’altra da gente sylve-
stris (quindi da colonizzare):
1570, p. 594. Sulla descrizione vergiliana dell’Irlanda cfr. il mio Brutti irlandesi? La
prima descrizione umanistica dell’Irlanda, in Disarmonia, bruttezza e bizzarria nel
Rinascimento, (Atti del VII Convegno internazionale di studi umanistici, Chiancia-
no-Pienza, 17-20 luglio 1995), a cura di L. SECCHI TARUGI, Firenze 1998, pp. 173-
187.
46 GIRALDUS CAMBRENSIS, In Topographia Hibernie, a cura di J. O’MEARA,
«Proceedings of the Royal Irish Academy», 52c (1949), pp. 113-178 (p. 163).
Cap. 11 Haywood 255-274 13-09-2002 13:24 Pagina 274
DAVIDE CANFORA
primo luogo segnalo qui alcuni studi di carattere generale: I. CIAMPI, Pietro Martire
d’Anghiera, «Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti», 30 (1875), pp. 39-79 e
717-744; J.-H. MARIEJOL, Un lettré italien à la cour d’Espagne (1488-1526): Pierre
Martyr d’Anghiera. Sa vie et ses oeuvres, Paris 1887; Pietro Martire d’Anghiera nel-
la storia e nella cultura, (Atti del II Convegno Internazionale di Studi Americanisti-
ci, Genova-Arona, 16-19 ottobre 1978), Genova 1980 (ricordo, tra l’altro, i seguenti
interventi: E. LUNARDI, Contributi alla biografia di Pietro Martire d’Anghiera, pp. 3-
62; G. PONTE, Pietro Martire d’Anghiera scrittore, pp. 151-174; F. DELLA CORTE, I
carmina di Pietro Martire d’Anghiera, pp. 187-194); L’umanista aronese Pietro
Martire d’Anghiera, primo storico del «nuovo mondo», (Atti del Convegno, Arona,
28 ottobre 1990), a cura di A.L. STOPPA-R. CICALA, Novara 1992. Notizie su Pietro
Martire sono inoltre presenti in: G.R. CARDONA, I viaggi e le scoperte (in Letteratu-
ra italiana, diretta da A. ASOR ROSA, V, Torino 1986, pp. 687-720); F. TATEO, Storio-
grafi e trattatisti, filosofi, scienziati, artisti, viaggiatori (in Storia della Letteratura
italiana, diretta da E. MALATO, IV, Roma 1996, pp. 1083-1093). Numerose ricerche
sull’umanista di Anghiera si devono a Francesco Della Corte: oltre al già citato sag-
gio compreso nel volume Pietro Martire d’Anghiera nella storia e nella cultura, ri-
cordo qui Pietro Martire d’Anghiera e il Cantalicio ‘praeceptores publici’ a Rieti (F.
DELLA CORTE, Opuscula, X, Genova 1987, pp. 251-260), Un poeta alla corte d’Isa-
bella (ID., Opuscula, XI, Genova 1988, pp. 247-257) e Umanisti italiani giudicati in
Spagna (ID., Opuscula, XIII, Genova 1992, pp. 231-236). Da ultimo sul carme Supra
casum Hispani regis – oltre all’edizione curata da Ursula Hecht, su cui torneremo –
segnalo J.L. GOTOR, Il carme ‘de casu regis’ di Pedro Martire d’Anghiera e la tragi-
commedia ‘Fernandus servatus’ di Marcellino Verardi, in La rinascita della tragedia
nell’Italia dell’Umanesimo, (Atti del IV Convegno di Studio del Centro di Studi sul
Teatro Medioevale-Rinascimentale, Viterbo, 15-17 giugno 1979), Viterbo 1980, pp.
185-203.
Cap. 12 Canfora 275-284 13-09-2002 13:24 Pagina 276
cospicua della sua ricca e varia produzione2. Quelli precedenti alla parten-
za dall’Italia, in ogni caso, non erano stati anni improduttivi o di semplice
apprendistato umanistico, bensì avevano rappresentato per Pietro Martire
un periodo di primi esperimenti letterari e, soprattutto, di vivaci scambi cul-
turali con l’ambiente dell’Umanesimo romano. Tra le sue frequentazioni ri-
cordiamo Pomponio Leto e Platina. Il nome di Pietro Martire, oltre che ad
alcuni scritti nati a seguito di missioni affidategli dai sovrani (è il caso del-
la Legatio Babylonica, composta dopo un viaggio in Egitto), è soprattutto
legato alle Decades de orbe novo, serie di lettere composte a partire dal
1493 intorno alla scoperta dell’America: il nesso tra l’attività strettamente
letteraria di Pietro Martire e il suo impegno all’interno della corte è, in que-
sto caso, testimoniato dal fatto che, a partire dal 1518, l’umanista autore di
quell’opera celebrativa dell’impresa compiuta da Colombo e patrocinata da
Isabella e da Ferdinando fu altresì introdotto come autorevole componente
del Consiglio delle Indie. Nella produzione di Pietro Martire si segnala i-
noltre l’Opus epistolarum, ampia raccolta di lettere di argomento vario,
scritte nel corso del lungo soggiorno spagnolo: si tratta di un’opera che, co-
me ebbero a notare già i primi editori, rappresenta una insostituibile testi-
monianza storica, non solo letteraria, dell’età a cavallo tra la fine del XV e
il principio del XVI secolo3.
2 Si può dire che, con la sua vicenda di umanista ‘naturalizzato’ spagnolo, Pie-
tro Martire rappresentò uno dei tramiti più importanti attraverso cui l’Umanesimo i-
taliano approdò nella penisola iberica tra la fine del Quattrocento e il principio del
Cinquecento: l’Anghiera fu, tra l’altro, uno degli autori più letti e apprezzati nel-
l’ambito dell’Umanesimo spagnolo (A. COROLEU, L’area spagnola, in Umanesimo
e culture nazionali europee. Testimonianze letterarie dei secoli XV-XVI, a cura e con
prefazione di F. TATEO, Palermo 1999, p. 259). Pietro Martire, peraltro, rappresenta
un caso indubbiamente singolare, in quanto non solo esercitò la propria influenza di
maestro italiano sulla nascente cultura umanistica di Spagna: la sua produzione
composta in Spagna venne a sua volta presa a modello in Italia, come dimostra il ca-
so della tragicommedia Fernandus servatus di Marcellino Verardi, direttamente i-
spirata dal carme Supra casum Hispani regis dell’Anghiera (GOTOR, Il carme ‘de
casu regis’ cit., pp. 187 e s.).
3 L’editio princeps delle Decades complete fu stampata nel 1530 ad Alcalà,
quattro anni dopo la morte dell’autore, «apud Michaelem de Eguia». La prima de-
cade era stata invece edita, probabilmente senza l’autorizzazione dell’autore, già nel
1511 a Siviglia per cura di Antonio de Nebrija, il quale diede poi alle stampe le pri-
me tre decadi nel 1516 ad Alcalà, preoccupandosi in quest’ultimo caso «di fare qual-
che correzione al latino dell’Anghiera» (R. CICALA-V.S. ROSSI, Per una bibliografia
dell’umanista Pietro Martire d’Anghiera, in L’umanista Aronese cit., p. 180). La
prima decade è oggi disponibile in edizione moderna: PIERRE MARTYR D’ANGHIERA,
La première Décade du Nouveau Monde (De orbe noro Decas prima), introd., tex-
te latin, trad. et notes par B. GAUVIN, Paris 2000. Sui rapporti tra Pietro Martire e il
Nebrija, rinvio a A.M. MIGNONE, Tre umanisti a corte: Pietro Martire, Lucio Mari-
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Qui si parlerà del carme in esametri latini Supra casum Hispani regis,
dedicato al pontefice Alessandro VI. Il carme si data al principio del 1493,
quando Pietro Martire era in Spagna già da cinque anni. Il 7 dicembre del
1492 il re Ferdinando fu vittima a Barcellona di un grave attentato, a se-
guito del quale rischiò di rimanere ucciso: il gesto fu compiuto da un oscu-
ro contadino catalano, esasperato dalle misere condizioni di vita sue e del
suo ceto. Il fatto venne descritto a caldo dall’umanista in alcune lettere
comprese nell’Opus epistolarum4. Quando apparve chiaro che la salvezza
del sovrano non era più in pericolo, solo allora nacque il poema, noto an-
che con il titolo, presente in parte della tradizione a stampa, di Pluto furens.
Dell’opera sopravvivono, che io sappia, quattro testimoni: tre copie a
stampa (l’incunabolo del 1497, l’edizione del 1511 e quella del 1520) ed
una manoscritta (conservata nel codice della Bibl. Ap. Vat. Barb. lat.
1705). Sulla base delle due cinquecentine il testo è stato recentemente edi-
to a cura di Ursula Hecht5. Il manoscritto Vaticano – non considerato, così
come l’incunabolo, nell’edizione Hecht e fin qui, per quel che mi risulta,
neo e Antonio de Nebrija, in Pietro Martire nella storia e nella cultura cit., pp. 287-
292. Per quanto riguarda l’Opus epistolarum, l’editio princeps di esso è contempo-
ranea a quella delle Decades complete: Alcalà, 1530, «apud Michaelem de Eguia».
L’opera fu poi ristampata ad Amsterdam nel 1670 «apud Danielem Elzevirium» (O-
pus epistolarum PETRI MARTYRIS ANGLERII Mediolanensis protonotarii apostolici,
prioris archiepiscopatus Granatensis atque a Consiliis rerum Indicarum Hispanicis,
tanta cura excussum, ut praeter styli venustatem quoque fungi possit vice luminis
Historiae superiorum temporum, cui accesserunt Epistolae Ferdinandi de Pulgar
coaetanei, Latinae pariter atque Hispanicae, cum tractatu Hispanico De viris Ca-
stellae illustribus, editio postrema, Amstelodami, typis Elzevirianis, veneunt Pari-
siis, apud Fredericum Leonard typographum regium MDCLXX). Nel frontespizio
dell’edizione di Amsterdam dell’Opus epistolarum – da cui sono tratte le citazioni
delle lettere di Pietro Martire presenti in queste pagine – si noti l’espressione «tan-
ta cura excussum, ut praeter styli venustatem quoque fungi possit vice luminis Hi-
storiae superiorum temporum»: l’editore seicentesco non mancò dunque di mettere
in luce il valore storiografico della raccolta epistolare di Pietro Martire. Segnalo in-
fine che una copia manoscritta dell’Opus epistolarum è conservata nel cod. Barb.
lat. 2117: essa è, molto probabilmente, una copia tratta dall’editio princeps del
1530.
4 La prima lettera sull’argomento, intitolata De vulnere regis nostri e scritta il
Dokumentation, Frankfurt am Main 1992 (il testo del carme alle pp. 117-163).
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inesplorato – presenta alcuni nuovi dati relativi alla tradizione del testo del
poema, che trovano solo in parte riscontro nell’incunabolo del 14976. Si
deve preliminarmente precisare che, a quel che pare, le due cinquecentine
non furono pubblicate sotto il diretto controllo dell’autore7. Nelle stampe
del 1511 e del 1520 i versi del carme sono preceduti da due brevi scritti
prefatori: la dedica di Pietro Martire al pontefice Alessandro VI e un rias-
sunto del testo che si presenta sotto forma di «argumentum et praefatio ad
lectorem»; a tutto ciò è premessa, nell’edizione del 1520, un’epistola al let-
tore dell’umanista spagnolo Alphonsus Ordonius, colui il quale curò l’ini-
ziativa della pubblicazione in quell’anno. Segue il poema, intitolato nel
modo seguente: «Petri Martyris Anglerii Mediolanensis protonotarii regii
senatoris Pluto furens»; tra il titolo e il carme, il cui inizio è indicato dalla
precisazione «exordium», le cinquecentine (ed anche l’incunabolo) pro-
pongono un distico elegiaco chiaramente modellato sull’incipit del poema
epico virgiliano ed esso pure indicato come «argumentum»: «Fortunae ra-
biem, Plutonis fulmina, regum / divorum laudes et pia gesta cano»8. Nel
manoscritto (e nell’incunabolo) la situazione appare alquanto diversa. Il
poema è preceduto dalla sola epistola di dedica composta da Pietro Marti-
re per Alessandro VI. Il titolo dell’opera si presenta nella forma seguente:
«Petri Martyris de Angleria Mediolanensi Supra casum Hispani regis ad A-
lexandrum VI pontificem maximum carmen». Inoltre, nel testo della lette-
ra dedicatoria e in quello del carme ci sono, rispetto alle versioni date alle
stampe nel secondo decennio del ‘500, alcune varianti non prive di impor-
tanza.
In primo luogo, la lettera di dedica contenuta nel manoscritto si pre-
senta, confrontata con il testo delle cinquecentine, con una diversa dispo-
sizione delle parole esordiali9. Essa reca inoltre, nella parte finale, due fra-
si in più, che sono rivolte direttamente al pontefice. Dopo avere infatti di-
Hispano imperio ante pedes tuae Sanctitatis obsequium praestiturus isthuc se contu-
lit Diecus Lopes de Haro, quem ob eius virtutes suo generi respondentes et singula-
rem in me benivolentiam hoc quinquennio, quo me tenuit Hispania, mirifice semper
observavi et colui» (HECHT, Der ‘Pluto furens’ cit., p. 119); nel manoscritto e nel-
l’incunabolo: «Didacum Lopez de Aro, generis humani custos et presidium, qui pro
Hispano imperio ante pedes tuae Sanctitatis obsequium prestiturus istuc se contulit,
ob eius virtutes, suo generi respondentes, et singularem in me benivolentiam hoc
quinquennio, quo me tenuit Hispania, mirifice semper observavi et colui» (cito qui
dal f. 1r del ms.).
Cap. 12 Canfora 275-284 13-09-2002 13:24 Pagina 279
papa circolava presso quella corte sin dal momento della sua nomina al so-
glio pontificio. Alcune lettere dello stesso Pietro Martire sono illuminanti in
proposito. Scrivendo a Franciscus Pratensis Oriolanus, «Alexandri pontificis
familiaris», l’autore delle Decades de orbe novo ostenta, in modo neppure
troppo cauto, notevoli perplessità intorno alla persona del papa: «Hinc nam-
que spes lenit, inde timor urget. Pollet ingenio vir iste, magnique animi argu-
menta prae se tulit multa. Quae duo salutem aut, veluti gladius in manu fu-
rentis, turbines parere solent. Si esse cupidus desierit, si ambitiosus, si filio-
rum, quos sine rubore ostentat, oblitus Ecclesiam augustam se converterit, fe-
licem fore sedem Apostolicam iudicabo. Ast si cum maiore potentia filialem
caecitatem adauxerit, in praeceps omnia ruent, concutietur Italia, Christianus
orbis tremiscet, multa subvertentur. Novimus namque hominem alta semper
agitantem vesanoque amore, ut filios ad summum evehat, rapi. Dubius igitur
inter spem et metum vivo, nec quid velim intelligo». Alessandro VI – prose-
gue Pietro Martire – si è costruito la scala che lo ha portato al pontificato «non
litteris, non continentia, non charitatis fervore», bensì, come qualcuno «ad au-
rem susurro» gli ha riferito, compiendo «nescio quae turpia, sacrilega, nefan-
da», «auro et argento pollicitisque grandibus». Ma una scala del genere è sta-
ta innalzata, conclude l’umanista, per scalzare Cristo dal suo trono, non af-
finché fosse venerato e glorificato21. I commenti di Pietro Martire all’elezio-
ne di Alessandro VI si fanno ancora più vivaci se si legge la lettera indirizza-
ta pochi giorni dopo al conte di Tendilla: non più, dunque, a un «familiaris»
del pontefice, bensì ad un uomo di fiducia della corte di Ferdinando e Isabel-
la. Scrive l’Anghiera riferendosi all’annuncio dell’elezione di Alessandro VI:
«Nullus est ob hanc rem in regibus animi motus ad laetitiam, nulla frontis se-
renitas: tempestatem potius in orbe christiano, quam tranquillos portus, prae-
sagire videntur, magisque quod sacrilegos se habere filios turpiter glorietur
[...] direptionem Petraeae tiarae adfore suspicantur. Cardinalis ille tantum pa-
trimonia filiis ingentesque titulos omni nixu quaeritabat: quid fore sperandum
est in summa licentia? [...] Si forte paternam naturae vim Christiana charitas
superaverit, pontem Christianis omnibus sublicio aut lapideo fortiorem ad su-
peros stabiliet [...]. Deus faxit, ut ad meliorem eum partem direxisse inge-
nium, quo maxime pollet, audiamus»22.
Si noti, in queste parole, il riferimento al notevole «ingenium» del pon-
tefice, presente anche nella già citata epistola a Franciscus Pratensis Orio-
lanus e nella prefazione dell’Oratio di Brandolini (nonché ricorrente, in for-
ma analoga, in molte descrizioni del papa risalenti a quel tempo)23. Allo
la Storia d’Italia di Guicciardini (I 2): «In Alessandro sesto (così volle essere chia-
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GRAZIA DISTASO
no e del papa Alessandro VI», recitata ad Urbino nel febbraio del 1504, che è una sor-
ta di cronaca-spettacolo di ciò che, ad opera dei Borgia, si era verificato nello stato
di Urbino fra il 1501 e il 1503. Cfr. F. CRUCIANI, Alessandro VI, in CRUCIANI, Teatro
nel Rinascimento. Roma 1450-1550, Roma 1983, p. 246 (per una ricostruzione del
quadro culturale romano all’epoca di Alessandro VI si vedano le pp. 241- 302).
5 Cfr. E. RAIMONDI, Una tragedia del Trecento, in RAIMONDI, Metafora e sto-
DBI, 30, Roma 1984, pp. 98-100; si vedano, inoltre, G. PULLINI, Cossa P., in En-
ciclopedia dello spettacolo, III, coll. 1547-1549, e C. APOLLONIO, P. Cossa, in La
letteratura italiana. I minori, Milano 1962, IV, pp. 2837-2850.
7 Cfr., per una visione d’insieme dei problemi dello spettacolo e della recitazio-
ne dalla metà alla fine dell’ Ottocento, R. ALONGE, Teatro e spettacolo nel secondo Ot-
tocento, Roma-Bari 1988, e G. PULLINI, Teatro italiano dell’Ottocento, Milano 1981.
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sottolinea, fra l’altro, come il Cossa si sia assunto il compito di borghesizzare la tra-
gedia in versi.
10 P. COSSA, Prologo del Nerone, in Il teatro italiano, V, La tragedia dell’Otto-
cento, a cura di E. FACCIOLI, II, Torino 1981, p. 394 (si veda, del Faccioli, la nota
bio-bibliografica su Cossa che precede il dramma).
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ed un epilogo, Torino 1881. Da questa edizione verranno tratte tutte le citazioni del
dramma (che fu riproposto col sottotitolo dramma storico in cinque atti nella colla-
na «Fiore di ogni letteratura», Milano 1923).
12 F. GREGOROVIUS, Lucrezia Borgia (La leggenda e la storia), Milano 1932.
13 Ibid., p. 84. Quanto alle notazioni del Burcardo cui si riferisce Gregorovius
cfr. JOHANNIS BURCKARDI Liber notarum ab anno 1483 usque ad annum 1506, a cu-
ra di E. CELANI, RIS2, 32/2, (1912).
Cap. 13 Distaso 285-296 13-09-2002 13:25 Pagina 289
re», dirà Valentino al padre, I V), costituisce in realtà la voce straniante che
giudica, ed è con questa duplice connotazione che appare come personaggio
di un dramma che è, innanzitutto, l’affresco della corruzione e della deca-
denza del papato, un affresco tanto più fosco quanto più leggera e vacua è
l’intonazione delle battute che si susseguono sulla scena per i primi tre atti.
L’interesse del Cossa va in effetti verso le epoche e le società che offrono lo
spettacolo della dissolutezza, della brutalità, del delitto, come la Roma anti-
ca dei Neroni o delle Messaline, o la Roma borgiana del Rinascimento, con
un’evidente propensione verso il minuto, l’aneddotico, i particolari di costu-
mi, le singolarità dei personaggi, visti nella loro vita privata; sicché, la con-
clusione è del Croce, amorevole interprete delle virtù e dei limiti dell’opera
cossiana, «cercò più volentieri Svetonio che Livio, più i diari del Burcardo
che le storie del Machiavelli o del Varchi»14, in ossequio a un concetto di sto-
ria mosso e graffiante. Non meraviglia perciò trovare, in questa sorta di ca-
leidoscopio15 che è per molti aspetti il dramma borgiano del Cossa, veloci
cenni ai più disparati fatti storici, dall’incoronazione di Massimiliano a Mi-
lano alla scoperta dell’America («Da quei paesi – dice Alessandro Farnese,
in riferimento ai re di Spagna e ai loro patti con il Vaticano – asporteranno
l’oro, / v’ apporteran la fede», I I), dalla sconfitta degli eserciti della lega al-
la predicazione del Savonarola, o al farsi e disfarsi delle varie alleanze, da
quella con il Moro a quella con gli Aragonesi; oppure filtrano – a volte con
alterazioni della cronologia storica – eventi culturali di rilievo che riguarda-
no la presenza a Roma di Copernico o la morte di Pomponio Leto16 o anco-
ra l’Orfeo del Poliziano, presentato da Aurelio Brandolini, poeta di corte che
ha asservito la sua musa al mecenatismo papale, come «una recente e famo-
sa tragedia» che egli invano cerca di rendere accetta allo spensierato entou-
rage di Alessandro («Non vogliamo tragedie», I I). E non mancava l’eco dei
pettegolezzi che circolavano a Roma sulla relazione fra Alessandro e Giulia
o sulla vivacità di donna Sancia, contesa fra il duca di Gandìa, il Valentino e
il cardinale Ippolito d’Este, o sul fatto che il Pinturicchio, l’intelligente pit-
tore integrato nella corte borgiana ma anche lui, a tratti, critico e impietoso
commentatore delle vicende della munifica famiglia tiestea («Son famiglia /
tiestèa questi Borgia!», III V) avesse raffigurato una Madonna col volto di
Giulia Farnese nei famosi affreschi dell’appartamento papale17. Anche un
versità di Roma non nel 1497, epoca in cui è ambientato il dramma, ma nel 1500
(cfr. CRUCIANI, Alessandro VI cit., p. 243); Pomponio Leto, poi, morì nel 1498.
17 Cfr. L. VON PASTOR, Le pitture del Pinturicchio nell’appartamento Borgia,
in PASTOR, Storia dei Papi dalla fine del Medioevo, III, Roma 1959, p. 628.
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grande evento storico quale la discesa di Carlo VIII giungeva riflesso attra-
verso l’episodio, che il Cossa riprendeva direttamente dal Liber notarum,
dell’incontro avvenuto nel giardino segreto del Vaticano fra Alessandro VI e
Carlo VIII, quando il papa aveva finto di non vedere la genuflessione fatta
dal re per ben tre volte; un fatto minuziosamente annotato nel diario burcar-
diano sotto la data 16 gennaio 149518. Nel dramma a richiamare l’episodio
è lo stesso Alessandro, rivendicando addirittura i suoi sentimenti di italianità
(«Piero Capponi vendicò Firenze, / io vendicai l’Italia», II IV). Ed è certo sin-
golare che il Cossa, che aveva combattuto nella prima guerra d’indipenden-
za e militato nella Repubblica romana e che, adolescente, era stato espulso
dal Collegio romano perché «accusato di eresia e di italianità troppo spin-
ta»19, attribuisse proprio ad un papa spagnolo questi sentimenti, capovol-
gendo con decisione l’ormai consueto topos, risalente alla storiografia sette-
centesca, che vedeva il Borgia come fiancheggiatore dell’invasione di Carlo
VIII20; il fatto è che dietro il Cossa c’erano non solo Burcardo e Gregoro-
vius, ma anche il grande storico della Civiltà del Rinascimento in Italia, ap-
parsa in traduzione italiana nel 1876 e certamente ben nota al laico dram-
maturgo dalla formazione romantico-risorgimentale, che nelle linee del libro
trovava tracciato il suo ideale di secolarizzazione dello stato spregiudicata-
mente impersonato da Cesare Borgia col sostegno di Alessandro21. Nella fi-
gura del Valentino il Cossa coglieva dunque il singolare comportamento del
tiranno, ai limiti quasi della credibilità; ma poneva in rilievo anche la lucida
consapevolezza che sosteneva Cesare nella vigorosa distinzione fra la Chie-
sa e lo stato borgiano («Son diversa / cosa la Chiesa e i Borgia, ed io com-
batto / per i Borgia», Epilogo, scena V), nella contrapposizione fra l’età vi-
gliacca e il sogno – definito magnanimo – di «redentore / feroce d’una gen-
te» (IV V), nella centrale riflessione infine, chiaramente ispirata al Machia-
velli, sulle milizie mercenarie e sull’ inettitudine dei principi di una Italia as-
servita allo straniero, con i propositi di riscatto nazionale pur pronunciati a
suggello dell’imminente assassinio del fratello: «Pur ch’io / arrivi là dove
l’ardir mi spinge, / sia buona ogni arte» (IV IV). Un monologo ad effetto è
18 BURCKARDI Liber notarum cit., p. 605. Di questo incontro non si parla nel li-
bro di Gregorovius.
19 PETROCCHI, Cossa, Pietro cit., p. 98.
20 Sulla «demonizzazione del personaggio nel clima ‘civile’ del Settecento» si
questo di Cesare in IV IV, nel corso del quale l’endecasillabo cossiano natu-
ralmente prosastico aveva modo di innalzarsi con uno scatto lirico che cul-
minava in una vibrante e retorica apostrofe al Tevere:
Il Tevere! La tua
gloria dov’è, fiume divino? Un tempo
lavacro ai forti, l’onda tua portava
superbamente i lauri che i tuoi figli
ti gittavano in seno: ora il tuo fango
scintilla a stento al raggio della luna
che sorge là dietro quel colle, e scorri
tardo come il pensier d’un idiota,
tu che ispirasti gl’inni e fosti onore
degli antichi trionfi!
(pausa)
Nei primi tre atti del dramma l’identificazione fra Alessandro e il Va-
lentino è pressoché perfetta e la stilizzazione tipologica è quella, di matri-
ce machiavelliana ma non dimentica degli «orridi affetti» del despota al-
fieriano, del tiranno dominato da una smisurata brama di potere, oggetto di
«invidia paurosa», ma anche perennemente destinato a vivere in una soli-
tudine che si nutre di sospetto e di diffidenza, all’insegna di una stravolta
visione dell’esistere: «Non sa che nel tenere il principato / il più sciocco e
dannoso dei consigli / [è Alessandro che parla riferendosi all’operato del
duca di Gandìa, ma potrebbe benissimo essere il Valentino] viene sempre
dal core, e che bisogna, / quand’egli parla, ripudiar gli orecchi […] / Ma
cosa fatta più non si corregge» (II IV). Anche al livello della disposizione
dei personaggi, a parte le figure che sono di contorno risultando tuttavia
necessarie alla caratterizzazione del costume e dell’epoca, una netta con-
trapposizione, per blocchi antitetici, va posta in questi primi tre atti fra il
binomio Alessandro / Valentino e il blocco costituito da Vannozza, dal du-
ca di Gandìa, il figlio prediletto da Vannozza, e per certi aspetti da Lucre-
zia, sospesa fra la leggerezza delle feste di corte, il ricordo dell’infanzia fe-
lice e pura accanto alla madre, la tormentata decisione del nuovo matri-
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Colui
mi deride: ò nell’anima l’inferno,
e mi chiama beato! Ahi! la natura
si vendica del Dio fatto dall’uomo,
ella soltanto diva ed immortale!
(lunga pausa)
Sforza, e alle terze, del 1502, con Alfonso d’Este, cfr. CRUCIANI, Alessandro VI cit., p.
256. Quanto ai festeggiamenti indetti a Roma per le nozze di Lucrezia con Alfonso
d’Este, cfr. G. GERMANO, Gli spectacula lucretiana e il loro sfondo storico, in GIOVAN
BATTISTA CANTALICIO, Bucolica, a cura di L. MONTI SABIA - Spectacula lucretiana, a
cura di G. GERMANO, Messina 1996, pp. 115-159; CRUCIANI, Alessandro VI cit., pp.
286-298.
24 L. RANKE, Istoria del Papato nel XVI e XVII sec., trad. di E. ROCCO, I, Na-
poli 1862, p. 72. Cfr., inoltre, G. PEPE, La politica dei Borgia, Napoli 1944.
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che parlava del modo «affatto spaventevole»25 con cui il Valentino era giun-
to ad isolare il padre togliendo di mezzo quanti potessero fargli ombra.
L’avvicinamento ideale, nel segno di questo comune dramma, fra due per-
sonaggi sinora contrapposti, come Alessandro e Vannozza, è soprattutto la
proiezione esterna della stessa metamorfosi che è nell’animo di Alessandro;
sicché nell’isolamento del Valentino e nella emblematica sostituzione, mor-
to il duca di Gandìa, accanto a Vannozza di Alessandro, si configura allusi-
vamente la nuova disponibilità del pontefice verso una vagheggiata riforma
della Curia; un’aspirazione che papa Alessandro – si è detto da più parti –
dové realmente sentire, nello sconvolgimento provocato da un delitto inter-
pretato come ammonimento divino, anche se poi lasciò presto cadere sino
al completo e definitivo svanire di ogni proposito26. Non così, però, l’Ales-
sandro del dramma cossiano. In un linguaggio che mescola echi scritturali,
reminiscenze leopardiane («tu bacia / la man che ti percote», V IV)27, sug-
gestive riprese tassiane28, punte retoriche e battute alquanto grottesche («Tu
pria desisti dai malvagi fatti, / e poi t’udrà il Signore», ibid.), rivelatrici del
borghese buon senso cossiano, si ricompone l’antico dissidio fra Alessan-
dro e Vannozza, nel segno del riconoscimento – ed è naturale che sia un an-
ticlericale e massone come Cossa a farlo – delle ragioni più autenticamen-
te spirituali opposte a ogni fasto e grandezza delle istituzioni terrene, nel
proposito di totale espiazione che solo con l’abbandono del trono pontifi-
cio, scandalosamente comprato, può giungere in realtà a trovare la sua de-
finitiva realizzazione. Un proposito forte, questo della rinuncia, prospettato
da una Vannozza che a qualche critico è parsa assumere, iperbolicamente, i
connotati di santa Caterina da Siena29. Ma se è poi certo che da simili pen-
sieri Alessandro VI nella sua realtà storica non fu nemmeno sfiorato, im-
porta qui considerare come dietro la drasticità e poi l’immediata caduta, nel
dramma, di questo disegno di Vannozza per il furioso sopraggiungere del
Valentino con la terribile frase rivolta al padre «Nulla puoi, / io tutto» (V V),
Roma 1960, pp. 196-205 (per la problematica sopra accennata, cfr. p. 201).
27 Cfr. Amore e morte, v. 112: «la man che flagellando si colora».
28 «In erme / lontane solitudini t’è dato / soltanto aver la pace ed il perdono /
del cielo», dice Vannozza ad Alessandro (V IV), recuperando i vv. 1-4 della Geru-
salemme Liberata XIV 10, in cui Ugone, apparso in sogno a Goffredo, fra richiami
al Somnium Scipionis e a Dante invitava l’amico a considerare dall’alto dei cieli
«quanto è vil la cagion ch’a la virtude / umana è colà giù premio e contrasto! / in
che picciolo cerchio e fra che nude / solitudini è stretto il vostro fasto!».
29 Cfr. TREVISANI, Gli autori drammatici cit., p. 162.
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com’è noto – all’artista dal cardinale francese Jean de Bolhères, legato di Carlo VIII
presso Alessandro VI.
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soltanto, qui, l’accenno alla scena d’apertura dell’atto II del Saul alfieriano:
«E che? celarmi / l’orror vorresti del mio stato? Ah, s’io / padre non fossi,
come il son, pur troppo! / di cari figli […] Precipitoso / già mi sarei fra g’i-
nimici ferri / scagliato io, da gran tempo: avrei già tronca / così la vita or-
ribile, ch’io vivo» (vv. 27-34), con quel da gran tempo a metà emistichio,
amplificato dal Cossa nella risonanza di fine verso, attraverso il motivo del-
l’angoscia del breve sonno e del terrore apportato dai sogni33. È la notte del-
l’abisso, dice Alessandro, che si spalanca dinanzi ai suoi occhi, atterriti dal-
la prospettiva del giudizio di Dio che Cesare non può accettare o compren-
dere. Ma forse un altro richiamo, più laico, potrebbe aver ragione della sua
follia: «Usa clemenza, / figlio mio!» (scena V). Nel vecchio pontefice, a te-
stimonianza della morte del tiranno di un tempo, quello che lui stesso era
stato, e come monito rivolto al tiranno che gli sta dinanzi, tornava a risuo-
nare, adesso, il richiamo alla virtù per eccellenza del principe umanista, ap-
punto la Clemenza. Ma il Valentino, vera facies ormai dell’immane furor ti-
rannico che di lì a poco avrebbe sconvolto la scena tragica rinascimentale e
barocca, parlava un’altra lingua, perso dietro il sogno della «potenzia e
virtù sua»34, che la sorte ben presto si sarebbe incaricata di calpestare e tra-
volgere: «Papa Borgia, la tua lingua / dice stoltezze» (ibid.). E a papa Bor-
gia, allora, non restava che bere il veleno, per libera scelta35, non per tragi-
co errore, come nella casualità degli eventi storici sembra sia invece avve-
nuto. Unica via di scampo per uscire, alfierianamente, dalla soggezione di
un allucinato torpore e per ritrovare la propria libertà interiore, il suicidio
abbracciato quasi per caso, con un’improvvisa folgorazione, sembra anche
poter configurare quel rito in largo senso classico e laico di espiazione che
le ragioni artistiche di un dramma sospeso fra teatro verista ante litteram e
teatro dell’anima36 additavano con romantico slancio al Cossa per la raffi-
gurazione di quel misterioso punctum che è la morte. In essa di solito si ri-
flette, ma non di rado può anche sovvertirsi – come forse in questo caso –
l’umano e fisso giudizio della storia: e Alessandro cerca nella morte la re-
denzione.
PAOLA CASCIANO
1 Lo troviamo sul monte Posillipo, presso gli osservanti di San Giovanni a Car-
bonara, tra la primavera del 1499 e il giugno 1501; presso gli osservanti della con-
gregazione leccetana durante l’estate del 1502; nell’isola Martana sul lago di Bol-
sena nei mesi di luglio, agosto e settembre del 1503; ancora a Lecceto nell’ottobre
e novembre del medesimo anno; nuovamente sull’isola Martana durante i mesi di
giugno e luglio del 1504. Da qui si trasferì in un romitorio sul monte Cimino dove
restò, sia pure con qualche interruzione, fino al 1506. Solo sporadiche e brevi le so-
ste a Roma; cfr. F.X. MARTIN, Friar, Reformer, and Renaissance Scholar. Life and
Work of Giles of Viterbo. 1469-1532, Villanova 1992, pp. 45-47; EGIDIO DA VITER-
BO, Lettere familiari, 1494-1506, a cura di A.M.VOCI ROTH, I, Roma 1990, pp. 51-
53. Quelli del romitaggio furono periodi di riposo, e soprattutto di meditazione, al-
ternati a spostamenti legati all’intensa attività di predicatore, che lo portò nelle più
svariate località della penisola.
2 Per le resistenze di Egidio cfr. J.W. O’MALLEY, Giles of Viterbo on Church
rum fuit, nunquam: delatorum copia, sicariorum licentia, latronum vel numerus vel au-
datia maior, ut portis urbis prodire fas non esset, urbem ipsam incolere non liceret: pro
eodem tunc habitum maiestatem ledere, hostem habere, auri aut formosi aliquid domi
cohibere; non domi, non in curriculo, non in turri tuti: nihil ius, nihil fas; aurum, vis et
Venus imperabat»; cfr. M. CREIGTHON, A History of the Papacy during the Period of the
Reformation, V, London 1894, p. 284. La critica di Egidio, è noto, non avvenne solo a
posteriori; ad esempio nel giugno 1503, dal romitaggio dell’isola Martana, vivo Ales-
sandro VI, così scriveva all’amico Antonio Zoccoli, che si trovava a Roma: «Musset
quantumvis ista Babilon tua in alienis explorandis sedulior quam in suis facinoribus di-
gnoscendis [...] Dies divinus iudicabit omnia, dies ille omnium teterrimus, quo insa-
niens ista civitas insaniam quandoque recognoscat suam. Utinam camerarius meus a fe-
ce istarum rerum sese eripiat et [...] ab aliorum se peste recipiat»; cfr. EGIDIO DA VITER-
BO, Lettere familiari cit., I, p. 194 e s. Nell’opera Scechina Egidio dà una interpretazione
del Sacco di Roma del 1527 come punizione divina, il corrispettivo storico del diluvio bi-
blico: Roma era stata punita per il suo traviamento morale e religioso; cfr. V. DE CAPRIO,
La tradizione e il trauma. Idee del Rinascimento romano, Manziana 1991, pp. 287 e s.
4 Cfr. nota 1.
5 Cfr. A.M. VOCI, Idea di contemplazione ed eremitismo in Egidio da Viterbo,
vervi lavorato tra il 1439 e il 1443 la lasciò interrotta al l. XVI. L’ impresa fu porta-
ta a termine da Francesco Griffolini; cfr. LAURENTII VALLE Epistole, edd. O. BESO-
MI-M. REGOLIOSI, Patavii 1984, pp. 173 e s.
Cap. 14 Casciano P. 297-320 13-09-2002 12:48 Pagina 299
sanatense nel 1736, come risulta dalla data tracciata sulla carta di guardia
dalla mano di Giovanni Battista Audiffredi (1714-1794), durante la cui pre-
fettura la biblioteca acquistò un gran numero di manoscritti e di libri a stam-
pa da alcuni conventi che versavano in difficoltà economiche, tra cui quel-
lo dei padri Minori Osservanti di Viterbo9. Il volume, già nella sua attuale
composizione – come sembra provare la legatura originale, in marocchino
marrone, risalente all’inizio del XVI sec.10–, appartenne a Egidio da Viter-
bo. Il suo nome, autografo, vi compare infatti complessivamente sette vol-
te: quattro nella stampa dell’opera del Bessarione, tre nel margine inferiore
della prima e dell’ultima carta dell’Iliade11, sulla quale si legge anche una
nota, ugualmente autografa, nella quale Egidio registrò dove e quando ave-
va ultimato la lettura: «in insula Pharnesia. 1504. Iunio ardenti»12.
9 Cfr. Biblioteca Casanatense, Ideazione e presentazione di C. PIETRANGELI, Roma
1993, p. 15. L’Audiffredi, dopo la data, scrisse: «Censeo notas quas vides autografas fra-
tris Aegidii Viterbiensis eremitae fuisse. Celebris cardinalis Aegidii Viterbiensis dicti or-
dinis ad calcem habes eiusdem manu scriptam in margine “in insula Pharnesia1504”».
10 Cfr. Legature antiche e di pregio. Secc. XIV-XVIII, Catalogo a cura di P. QUILI-
CI, Roma 1995, I, p. 114: «Legatura veneta degli ultimi anni del XV sec., in marocchi-
no marrone su assi di legno, impressa a secco. I piatti sono ornati da due cornici ret-
tangolari concentriche, sottolineate da fasce di filetti, quella esterna a rabeschi vegeta-
li di tipo aldino, quella interna a cordami intrecciati. Lo specchio presenta un semina-
to di crocette, tracce di fermagli a punta metallica. Dorso a quattro cordoni completa-
mente rifatto. Taglio rustico. Restaurata nel 1961; della legatura originaria è conserva-
ta solo la pelle dei piatti, con il rilievo piuttosto appiattito». Dal momento che una del-
le stampe vide la luce nel 1503, la data della legatura andrà posticipata all’inizio del se-
colo XVI.
11 Le carte dell’Adversus calumniatorem Platonis presentano due numerazioni
– una a stampa, l’altra a matita – che non coincidono tra di loro, in quanto la prima
trascura la tabula che inaugura l’opera. Le carte dell’Iliade hanno invece solo la nu-
merazione a matita. A quest’ultima quindi faccio riferimento, qui e in seguito. L’o-
pera del Bessarione occupa le cc. 1-121, la traduzione valliana le cc. 124-211. Pre-
mettendo che l’oscillazione nell’uso del dittongo è nell’originale, il nome di Egidio
compare nel marg. sup. della c. 3r (fratris Aegidii Viterbiensis eremite), nel marg.
sup. e in quello inf. della c. 10r (fratris Aegidii Viterbiensis eremite / fratris Egidii Vi-
terbiensis Augustiniani), nel marg. inf. della c. 121v (fratris Egidii Viterbiensis Au-
gustiniani), nel marg. inf. delle cc. 124r (fratris Egidii Viterbiensis eremite) e 211r
(fratris Aegidii Viterbiensis / Φ ΑΓ ΒΙ). Nell’ultimo caso Egidio, come in altri libri,
ha scritto le iniziali del proprio nome in caratteri greci; cfr. J. WHITTAKER, Giles of
Viterbo as Classical Scholar, in Egidio da Viterbo cit., p. 92.
12 Non è chiaro dove esattamente si trovasse, perché nell’epistolario, quando fa
mo, che si era recato nella sua tenda per chiedere la restituzione del corpo di Etto-
re, fece ricorso al mito consolatorio dei due dolia piantati sulla soglia di Giove, pie-
ni di doni – l’uno di mali, l’altro di beni – che il dio elargisce agli uomini. Egidio in
marg. annota «dolia duo. Mala, bona: mista» e disegna un dolium [Tav. 2].
15 Per altre stampe glossate da Egidio, cfr. V. CILENTO, Glosse di Egidio da Vi-
terbo alla traduzione ficiniana delle Enneadi in un incunabolo del 1492, in Studi di
Bibliografia e di Storia in onore di Tammaro De Marinis, Verona 1964, pp. 281-295;
F. SECRET, Un Hérodote annoté par Egidio da Viterbo, «Augustiniana», 29 (1979),
pp. 194-196.
16 Le eccezioni sono rare; annotazioni più lunghe si leggono alle cc. 130v,
136v.
17 Una numerazione si trova nel margine esterno, l’altra in quello interno.
18 In entrambi i casi la numerazione (progressiva per uno: 1, 2, 3...) non si ri-
ferisce alle righe del testo, ma allo sviluppo del racconto omerico. Nel senso che il
nuovo numero compare allorché interviene un cambio di situazione: comparsa di un
personaggio, inizio di un dialogo o di un combattimento, ecc.
19 La nota è seguita da un altro appunto – tracciato con un inchiostro differen-
te – non del tutto comprensibile: «exteriores: parvi sunt Homeri; interiores: antiqui
et magni». Sembrerebbe che Egidio alluda ancora ai numeri, in quanto il formato di
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quelli tracciati nel margine esterno è più piccolo di quello dei numeri apposti sul
margine interno. Difficile da comprendere resta, a mio avviso, la presenza di Ho-
meri: se i numeri interni vengono qualificati come antiqui e magni, per gli esterni
ci si aspetterebbe, insieme a parvi, un aggettivo (ad esempio: novi) che li caratte-
rizzasse in contrapposizione a antiqui. A meno che – tenuto conto che l’appunto fu
tracciato come promemoria personale, e pertanto in forma molto sintetica – Egidio
non abbia inteso dire che i numeri esterni erano stati apposti nel corso di una se-
conda lettura, più cursoria, che definisce parvi Homeri («i numeri esterni sono del
piccolo Omero», cioè ‘della lettura affrettata di Omero’); gli interni, antiqui e ma-
gni, durante una lettura precedente e più attenta. Ma è solo un’ipotesi [Tav. 3].
20 Non è sempre possibile distinguere le note che appartengono alla prima lettura
– che, se vale quanto detto per i numeri, furono tracciate in un inchiostro ruffo – da
quelle della seconda lettura – scritte in inchiostro nigro –, in quanto in molti casi il
tempo ha uniformato i colori, rendendo vano il tentativo di distinzione di Egidio. In
ogni caso esse qualitativamente si equivalgono; nel senso che il tipo di interesse che
sottintendono è il medesimo.
21 Nel 1504 Egidio aveva trentacinque anni (era nato nel 1469; cfr. G. ERNST, E-
gidio da Viterbo, in DBI, 42, Roma 1993, p. 341); tenuto conto della sua padronan-
za della lingua greca acquisita negli anni giovanili, dell’ampiezza degli interessi e
delle letture, della presenza di citazioni omeriche (anche in greco) in scritti anteriori
a tale data, si può supporre che egli avesse già letto i poemi omerici, e che li avesse
letti in originale. Infatti, ad esempio, nel commento platonico alle Sententiae di Pier
Lombardo, iniziato nei primi anni del 1500 e lasciato incompiuto nel 1512, Egidio
cita più volte i poemi omerici e, in almeno due casi – una volta per l’Odissea, l’altra
per l’Iliade – ne cita il testo greco (cfr. EGIDIO MASSA, I fondamenti metafisici della
«Dignitas hominis», Torino 1954, pp. 62, 94. Per i numerosi riferimenti omerici nel
commento, cfr. D. J. NODES, Homeric Allegory in Egidio of Viterbo’s Reflections on
the Human Soul, «Studi Umanistici Piceni», 18 (1998), pp. 91-100). Presenti i ri-
chiami omerici anche in lettere anteriori al 1504: nel luglio 1497 Egidio fa esplicito
riferimento a Il. X 830-832; nel 1502 cita Il. III 8 in una traduzione poetica latina:
«procedunt tacitum spirantes robur Achivi» (cfr. EGIDIO DA VITERBO, Lettere familia-
ri cit., I, pp. 91, 169. Non ho svolto una ricerca specifica per individuare la prove-
nienza dell’esametro; sono però in grado di dire che sicuramente non appartiene al-
la traduzione del Poliziano, che rese il verso omerico così: «Martis anhelabant furias,
tacitique ruebant»; cfr. ANGELO AMBROGINI POLIZIANO, Prose volgari inedite e poe-
sie latine e greche edite e inedite, raccolte e illustrate da I. DEL LUNGO, Firenze 1867,
p. 460 = POLIZIANO, Opera omnia, ristampa anastatica a cura di I. MAIER, II, Torino
1970, p. 462). Inoltre nel 1508 e nel 1509 Egidio cita in greco Il. I 231 e IX 69 non-
ché Od. IX 29-30 (Cfr. GILES OF VITERBO OSA, Letters as Augustinian General.
1506-1517, C. O’REILLY ed., Romae 1992, pp. 235, 241, 261). Nell’incunabolo egli
annota solo tre parole in greco: in due casi non è possibile ricavare indizi sulla sua
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l’Iliade restava quella in questione, iniziata dal Valla e portata a termine dal Griffo-
lini, nella seconda metà del Quattrocento avevano visto la luce alcune traduzioni
parziali, prosastiche e esametriche; cfr. R. FABBRI, Sulle traduzioni latine umanisti-
che di Omero, in Posthomerica I. Traduzioni omeriche dall’Antichità al Rinasci-
mento, a cura di F. MONTANARI-S. PITTALUGA, Genova 1997, pp. 99-124.
23 Ben diverso lo spessore filologico delle annotazioni apposte dal Poliziano al-
la propria traduzione dei libri II-V dell’Iliade, conservate nei mss. Vat. lat. 3298 e
3617, e pubblicate da A. LEVINE RUBINSTEIN, The Notes to Poliziano’s «Iliad», «I-
talia Medioevale e Umanistica», 25 (1982), pp. 205-239.
24 c. 211r [Tav. 1].
25 Il distico sembra alludere a due diversi metodi di approccio al testo omeri-
co: quello che si ferma al senso letterale e quello che ne ricerca il senso allegorico-
mistico.
26 Cfr. FABBRI, Sulle traduzioni cit., p. 105.
27 Cfr. I. MAIER, Ange Politiene. La formation d’un poète humaniste (1469-
30 Cfr. WHITTAKER, Giles of Viterbo cit., p. 96; MARTIN, Friar, Reformer cit.,
p. 14.
31 Cfr. A.M. VOCI, Marsilio Ficino ed Egidio da Viterbo, in Marsilio Ficino e
sco della ‘sapientia’ platonica, “Studi umanistici piceni”, 15 (1995), pp. 227-239;
E. GARIN, Marsilio Ficino e il ritorno di Platone, in Marsilio Ficino cit., I, pp. 3-13.
34 Cfr. G. SAVARESE, La cultura a Roma tra Umanesimo ed Ermetismo, Anzio
1993, p. 85: «Egidio sentiva in quelle tre voci di tempi e culture diversi, Scrittura,
Platone e Virgilio, una profonda unità, nella quale proprio al poeta latino era se mai
assegnata la funzione di anello di congiunzione tra parola divina e verbo platonico».
Per la assoluta predominanza della figura di Virgilio nel magistero letterario di Egi-
dio e di tutta la cultura romana del primo Cinquecento cfr. ID., Egidio da Viterbo e
Virgilio, in Un’idea di Roma. Società, arte e cultura tra Umanesimo e Rinascimen-
to, Roma 1993, pp. 121-142.
35 La nota ha una rilevanza anche da un punto di vista grafico: le parole furo-
41 Cfr. VOCI, Marsilio Ficino cit., pp. 477 e s. Il ms. Ang. gr. 101, che traman-
da tra l’altro la Respublica di Platone, proviene dalla biblioteca di Egidio e presen-
ta nei margini interventi autografi; cfr. WHITTAKER, Greek Manuscripts cit., pp. 228-
31.
42 Cfr. nota 46 e s.
43 L’immagine è di SAVARESE, La cultura a Roma cit., p. 73.
44 Mi riprometto la pubblicazione completa delle note in un prossimo futuro.
45 Nella protasi dell’Iliade viene esposto in breve il tema del componimento:
dei, ma esprime una aperta condanna; ad es.: c. 163v = X 497: Diomede uccise, Pal-
ladis beneficio, il tredicesimo nemico; Egidio annota: Palladis homicidio.
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47 In Il. XIV 159-351 è trattato l’episodio famoso in cui Giunone, per poter
intervenire liberamente nella lotta a sostegno degli Achei, progettò di sedurre Gio-
ve in modo da indurlo al sonno. Pertanto, entrata nel talamo e chiusa la porta con
un chiavistello segreto, che nessun dio poteva aprire, lavò e cosparse d’un olio
profumato il bel corpo, pettinò le splendide trecce, indossò una veste ricamata me-
ravigliosamente, applicò ai lobi orecchini a tre pietre da cui riluceva una grazia in-
cantevole, pose sulla testa un velo splendente come il sole, e calzò ai piedi sanda-
li belli. Uscita quindi dal talamo e convocata in disparte Venere, con una menzo-
gna si fece consegnare il cinto d’amore, nel quale erano raccolte tutte le arti del-
la seduzione. Così agghindata – assicuratasi l’aiuto del Sonno con la promessa di
concedergli la più giovane delle Cariti – raggiunse Giove, che al vederla fu preso
d’amore e che, per descriverle l’intensità del suo desiderio e per convincerla a gia-
cere con lui sulla cima dell’Ida, elencò tutte le dee e le donne famose con le qua-
li aveva intrattenuto relazioni amorose, anteponendola infine a tutte le altre per
bellezza e capacità di seduzione. Alle rimostranze di Giunone, la quale faceva no-
tare che sarebbe stato per lei vergognoso se qualcuno degli dei li avesse scorti,
Giove addensò all’intorno una fitta nebbia dorata, mentre la terra sotto di loro pro-
duceva, a mo’ di soffice e folto tappeto, erba odorosa, loto rugiadoso, croco e gia-
cinto. Dopo aver giaciuto con lei, il dio si addormentò lasciando gli Achei in balìa
degli dei ostili. Nel monologo di Giove la critica ha ravvisato uno dei numerosi
spunti burleschi del l. XIV (cfr. OMERO, Iliade. Traduzione di G. CERRI, commen-
to di A. GOSTOLI, con un saggio di W. SCHDEWALDT, testo greco a fronte, Milano
1996, p. 761); ma Egidio ignora la dimensione ludica, e condanna drasticamente
i due dei come ‘lussuriosi’. Di luxuria sono anche accusati, ad es., Agamennone
(c. 124v = I 12: luxuriam fatetur), Elena (c. 134v = III 161 ss.: luxuriosam pudet
et penitet; c. 147v = VI 345 ss.: luxurie penitet; c. 151r = VII 351: Helenam red-
di: luxuriosa procul), Paride (c. 148v = VI 506: luxuria Paridis), Antea (c. 146r =
VI160: luxuria femine).
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re, ammonire una persona o un gruppo di persone, spesso egli esprime an-
che un giudizio sull’orazione. Sebbene l’interesse oratorio sia fuori di dub-
bio, l’impressione complessiva è che Egidio, predicatore instancabile e di
successo48, si accosti a queste porzioni di testo non tanto come a modelli e-
semplari49 quanto piuttosto con l’atteggiamento dell’oratore di esperienza,
che valuta i discorsi di suoi antichi colleghi, e esprime eventuali apprezza-
menti, ben consapevole della difficoltà del parlare publicamente, e di come
la buona oratoria possa incidere sulle scelte e sui comportamenti altrui50.
Anche in questo caso mi limito a qualche esempio:
ma metà del Quattrocento (cfr. LEVINE RUBINSTEIN, The Notes cit., p. 207), come ben
prova la scelta di Leonardo Bruni, nel terzo decennio del secolo, di tradurre le tre o-
razioni del l. IX dell’Iliade (cfr. FABBRI, Sulle traduzioni umanistiche cit., pp. 104 e
s.).
50 Un’analisi delle caratteristiche dell’oratoria di Egidio in MARTIN, Friar,
suade singulis».
53 La frase, che si legge sia nel marg. esterno che in quello inferiore, nel testo ome-
54 Come per gli autori classici, anche in questo caso i riferimenti espliciti non
sono numerosi; tuttavia, come appare evidente dalle sottolineature e dai segni di ri-
chiamo, Egidio presta grande attenzione a quegli elementi che hanno un corrispet-
tivo nella simbologia cabalistica; ad es. i numeri, i carri (la Merkava, il cocchio re-
gale e trono di Dio), alle colombe, alle piante; cfr. G. SCHOLEM, La Kabbalah e il
suo simbolismo, Torino 1990; E.R. WOLFSON, Along the Path. Studies in Kabbali-
stic Myth, Symbolism, and Hermeneutics, New York 1995.
55 I miei ringraziamenti vanno a Lucio Milano e a Micaela Procaccia.
56 Cfr. MARTIN, Friar, Reformer cit., pp. 162-168.
57 Per questo motivo Girolamo, che pure meritava la riconoscenza di tutti i teo-
logi per aver emendato il testo latino collazionandolo sull’originale, si era fermato
al senso letterale della Scrittura, senza raggiungerne il significato profondo, senza
penetrare l’hebraica veritas; cfr. F. SECRET, Pico della Mirandola e gli inizi della
cabala cristiana, «Convivium» 1 (1957), pp. 46 e s.
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58 Cfr. G. SCHOLEM, Le grandi correnti della mistica ebraica, Torino 1993, pp.
219-226. Un quadro generale del grande interesse che alcuni ambienti umanistici
d’Italia e di Germania, allo scadere del XV sec., nutrirono per il misticismo cabali-
stico, in K.S. DE LEÓN-JONES, Giordano Bruno and the Kabbalah. Prophets, Magi-
cians, and Rabbis, New Haven-London 1997, pp. 29-52.
59 Per la traslitterazione dei termini ebraici Cheter e Hocma mi sono attenuta a
pera a cui Egidio lavorò per molti anni e che dedicò a Clemente VII60: nel
capitolo quinto, l’ultima delle Sephirot, che è la voce narrante, espone al-
l’imperatore Carlo V – considerato il nuovo David, Salomone e Ciro, e a cui
spettava quindi il compito di promuovere la riforma della Chiesa, nonché
quello di sconfiggere i Turchi – la teoria delle emanazioni divine: «Cheter:
sephira prima Patris: [...] in eius vero sinu est filius, sephira secunda, in qua
sunt plane omnia: ubi velut in nido: in abietis archane [...] vertice colloca-
to: nos octo divini Homeri passeres nidificamus». Quindi, secondo l’esege-
si di Egidio, nel passo ilidiaco (così come nella profezia del salmo 103, do-
ve si fa riferimento a un cedro del Libano e ai passeri che vi avrebbero ni-
dificato) sono adombrate le dieci Sephirot: otto nei passeri; una – la nona,
Hocma – nella madre; una – la decima, Cheter – nell’albero stesso. Per pro-
vare l’affinità dei due testi, egli così procede nella Scechina: i cabalisti, gli
aramaei theologi, intrepretano gli aves di Isaia (31 c), «sicut aves [...] vo-
lantes: proteget Dominus Ierusalem», come le sante Sephirot. Il vocabolo
che si legge nel testo originale di Isaia è ‘Zipur’ – il medesimo che si trova
nel salmo 103 –, che scritto senza vocali diventa ZPR e si legge Zapar. Per-
tanto, argomenta Egidio, «Zade in S littera transit [...]: si secunda littera
praeponatur primae: facit PSR: Passar: passer eisdem constans litteris»61.
Stabilita l’equivalenza Zipur / Passer e, di conseguenza, quella tra i passe-
res del salmo 103 e del passo omerico, resta ancora ad Egidio da chiarire il
nitatem: qui Apostolo teste [1 Tim. 6] solus habet immortalitatem: est autem is Che-
ter: sephira prima Patris: et quae in eo sunt: in eius vero sinu est filius: sephira se-
cunda: in qua sunt plane omnia: ubi velut in nido: in abietis archanae: ut ibidem di-
citur, vertice collocato: nos octo divini Homeri passeres nidificamus primae: dein
Angeli: postremae animae mortalium: de quibus Isaias [31 c]: Sicut aves, inquit, vo-
lantes: proteget Ierusalem Dominus: ubi idem est vocabulum Zipurim: quod in ver-
su psalmi: quod passeres nidificabunt: quin multis psalmis prophetisque: pro passe-
ribus aves accipi vult: ubicumque enim passeres leges apud veteres: hanc vocem in-
tellige: septies eo nomine usa sum in psalmis [8, 10, 81, 103, 123, 148]: ut transmi-
gra in montes, ut passer: passer invenit sibi domum et hirundo nidum: passer etiam
in tecto solitarius: et id quod diximus, passeres nidificabunt: anima quoque nostra
sicut passer erepta dicitur: duobus aliis locis interpres, aut oblitus sui: aut certe va-
riae orationis amator: aves transtulit: cum et communi apelatione pro avibus: qui-
busdam in locis capi par sit: sed passeris speciei praeter genus iccirco convenit:
quod eaedem in Zipur et passere litterae sint: radix enim nominis est ZPR legitur
Zapar: Zade in S litteram transit: ut patrisse et Sabaoth: si secunda littera praepona-
tur primae: facit PSR: Passar: passer eisdem constans litteris».
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numero otto. Sempre nella Scechina, egli così prosegue: il vocabolo Zipur
è presente sette volte nei Salmi; compare un’ ottava volta nel Deuteronomio
22. 6, la nuova legge. Quindi, conclude Egidio, David e la vetus Lex co-
nobbero sette sephirot; l’ottava venne elargita nel Deuteronomio, la nova
Lex62. Per questo il divinus Omero, che ebbe contezza sia della vetus che
della nova Lex, nell’Iliade, sotto il manto poetico, fa riferimento a otto pas-
seri. Grazie all’equazione Zipur / Passer, stabilita sulla base della punti-
gliosa ricerca di corrispondenze del cabalista, Egidio realizza quindi un per-
fetto sincretismo tra Scrittura e testo ilidiaco. Il dato di questa esegesi che
a me sembra particolarmente interessante è che Egidio, non solo quando
glossa l’Iliade ma anche successivamente, mentre compone la Scechina –
quando quindi presumibilmente ha il tempo per riflettere con tutta calma –
sembra considerare del tutto ininfluente il fatto che il termine passer è pre-
sente nella traduzione latina del Valla mentre il divinus, il divus Omero u-
sa, ovviamente, il termine greco νεσσóς.
Una considerazione conclusiva: due avvenimenti, tra quelli che carat-
terizzarono i primi tre lustri del Cinquecento, appaiono di particolare rile-
vanza:
1) il sempre crescente malcontento determinato dalla politica pontificia de-
gli ultimi settant’anni, che sfocerà nella Riforma del 1517;
2) l’affermarsi di un nuovo modo di approccio ai classici e, più generica-
mente, alla problematica dell’Antico. Accanto al persistere della grande fi-
lologia di fine Quattrocento, caratterizzata da un estremo rigore – che fa ca-
62 Ibid., p. 234 e s.: «Dixi in beato patris sinu quiescere sapientiam: nos octo
FRANCESCA NIUTTA
feceris si ad me, amice, ut soles, iudicium scripseris. Nam quum plaerique sint quo-
rum possim sententiae et iudicio acquiescere, cuius auctoritate sim libentius quam
tuae acquieturus est nemo».
2 Ibid., f. 46v. Sabellico riporta questo passo anche nella Pomponii vita acclu-
sa al Compendium.
3 Ibid.: «Legi litteras tuas eo avidius, quod intellexi frugiferis Enneadibus vi-
tra forum Romanum» (ma la lettera conservata da Sabellico non riporta le iscrizioni).
5 La data 1497 è fornita da fra Giocondo di Verona, che includeva nella sillo-
ge epigrafica del codice Cicogna 1632 (già 2704) del Museo Correr (P.O. KRISTEL-
LER, Iter Italicum, I, London-Leiden 1967, p. 282) le otto iscrizioni appena ritrova-
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te nelle rovine del tempio di Vesta: CIL VI.1, 2131-2145. È probabile che fosse sta-
to lo stesso Pomponio a comunicarle a Giocondo: cfr. ibid. VI.1, p. XLIV.
6 È al f. [14]v della prima edizione (Venezia, B. Vitali, 23 aprile 1499) del Ro-
esse riguardino la lingua; invece secondo V. ZABUGHIN, Giulio Pomponio Leto. Sag-
gio critico, II, Grottaferrata 1912, pp. 230 e 232, 387, «le pietre d’inciampo, con le
quali angolosità lottò a lungo lo scrupolo del Sabellico» furono un paio di aneddo-
ti «degni delle Facezie di Poggio» (p. 232). Ma si può forse avanzare una terza ipo-
tesi. Sabellico, pur minimizzando le offensiunculae («offensiunculae quaedam nec
adeo multae»), ci tiene a dissociarsi dalla responsabilità della pubblicazione; forse
appariva anche al suo occhio di curatore designato una certa farraginosità dell’in-
sieme, in contrasto proprio, come vedremo, con gli intenti di limpidità e chiarezza
espressi da Pomponio nella prefazione; in questo consistevano forse le offensiuncu-
lae.
9 «Veritus ne […] tollerem quae auctor maxime probaret, diu multumque du-
bitavi quae essent mei officii partes in commentariis his publicandis» scrive nella
Pomponii vita.
10 SABELLICO, Opera cit., f. 46v: «Tui Caesares nondum impressoriam subie-
runt officinam; subibunt tamen intra paucos dies, daboque operam ut quam emen-
datissime in apertum prodeant». La lettera, non datata, nella raccolta di Sabellico se-
gue immediatamente quella di Pomponio con l’invio dei Caesares; ma è in un’altra
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posta più avanti (ibid., f. 47v) che Sabellico dice di aver letto avidamente i Caesa-
res, anzi di averli utilizzati per le Enneades, appena uscite a stampa («librum de
Caesaribus quem ad me misisti tam cupide legi quam quod cupidissime, nec res mi-
nori fuit usui quam voluptati, quod tute facile iudicabis quum ea quae sunt in calce
nostrarum Enneadum quandoque legeris. Quod ut facilius contigeret dedi operam ut
tria ex his Enneadibus volumina istuc perferrentur»): è la lettera in cui parla anche
delle sue esitazioni a pubblicare i Caesares per le offensiunculae che contengono.
Allora però si deve supporre che Sabellico avesse temporeggiato quasi un anno in-
tero prima di dare risposta alla lettera di Pomponio del 7 maggio 1497. O forse si
può congetturare che nella rielaborazione dell’epistolario Sabellico condensasse in
una unica lettera quello che era compreso in un carteggio diluito nel tempo.
11 La data è discussa da M. DE NICHILO, I Viri illustres del cod. Vat. lat. 3920,
Roma 1997, (RRinedita, 3), p. 135; ad ulteriore conferma delle testimonianze da lui
riportate a favore della datazione al 9 giugno 1498 (anziché al 21 maggio 1497) del-
la morte di Pomponio si può aggiungere anche la lettera citata alla nota precedente
in cui Sabellico preannuncia a Pomponio l’invio di tre copie delle Enneades, che
presuppone Pomponio vivente al 31 marzo 1498, data di stampa dell’opera.
12 «Sed tutiorem viam ingressus librum archetypum cum Pomponii chiro-
grapho ea conditione librariis obtuli, ut nihil illi adderent, nihil adimerent; quod ut
commodius fieret totum negocium detuli Democrito Taracinensi».
13 Il ruolo di Democrito non emerge molto chiaramente dalla lettera di Sabel-
lico, che è soprattutto un’autoapologia. Ma si ritiene che Democrito sia stato l’edi-
tore del volume: cfr. P. VENEZIANI, Il frontespizio come etichetta del prodotto, in Il
libro italiano del Cinquecento: produzione e commercio, Roma 1989, p. 111. Sul-
l’identità di Democrito e la sua attività editoriale ora anche D. FATTORI, L’avventu-
rosa vita di Democrito Terracina (fra libri ed altro), «RR roma nel rinascimento, Bi-
bliografia e note», 1998, pp. 305-316.
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prile 1499, quasi un anno dopo la morte di Pomponio e due anni dopo
l’invio a Sabellico, accompagnati dalla prefazione dell’autore indirizzata
a Francesco Borgia, vescovo di Teano e prefetto dell’erario pontificio, ol-
tre che dalla Pomponii vita14, che è anche una sorta di postfazione in cui
Sabellico ripercorre le vicende della pubblicazione, citando stralci dal
carteggio con Pomponio e assicurando, contro l’evidenza, che Pomponio
glieli aveva affidati poco prima di morire («Pomponius haud multo post-
quam hanc suam ad me misit lucubrationem fato decessit»). Il ritardo nel-
la pubblicazione fu largamente compensato dal successo del Compen-
dium. La princeps fu seguita a brevissima distanza di tempo da una se-
conda edizione (12 dicembre 1500)15 che correggeva alcune sviste tipo-
grafiche e apportava qualche modifica nella Vita Pomponii, e da un’altra
ancora16 – tutte stampate a Venezia da Bernardino Vitali che era anche il
tipografo del Sabellico – e nel secolo successivo da un numero cospicuo
di edizioni, anche fuori d’Italia17. L’esigenza di disporre di una rassegna
completa delle vicende dell’impero romano è mostrata dalla frequente as-
sociazione nelle edizioni incunabole delle Vite dei Cesari di Suetonio con
l’Historia Augusta18, a cui erano aggiunti Eutropio e l’Historia Romana
di Paolo Diacono, ad ottenere una sequenza cronologica completa fino al-
la fine del VII secolo. Ora arrivava il Compendium a racchiudere per la
prima volta in un volumetto di poco più di 50 carte le biografie degli im-
peratori dalla morte di Gordiano III (244) fino agli ultimi discendenti di
Eraclio (fine del VII secolo). L’intento di Pomponio era stato infatti, co-
me egli scrive nella dedica a Francesco Borgia, di raccogliere quello che
nella raccolta degli storici dell’impero romano pubblicata nel 1518 a Basilea da
Froben, l’editore di Erasmo, a fianco delle Vite dei Cesari di Suetonio curate dallo
stesso Erasmo. Testimonianza ulteriore del successo del Compendium è il volga-
rizzamento italiano pubblicato da Giolito de’ Ferrari nel 1549, che dovette avere u-
na tiratura altissima a giudicare dalla diffusione nelle nostre biblioteche; era opera
di Francesco Baldelli, traduttore anche di Cesare, Giuseppe Flavio, Dione Cassio.
18 A partire dalla princeps dell’Historia Augusta di Milano, Philippus de La-
vagna, 1475, curata da Bono Accorsi (IGI 8847) e anche in quelle immediatamente
successive (IGI 8848-8849): cfr. anche A. BELLEZZA, Historia Augusta. I. Le edi-
zioni, Genova 1959, pp. 19-25. Anche Poliziano abbinava alla lettura di Suetonio
quella dell’Historia Augusta: V. FERA, Una ignota Expositio Suetoni del Poliziano,
Messina 1983, p. 33.
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Intento ribadito a conclusione del primo libro, che si chiude con Caro,
Numeriano e Carino, gli ultimi imperatori dell’Historia Augusta:
19 Dagli inizi della stampa erano state pubblicate, anche replicatamente, le Vi-
te dei Cesari di Suetonio e l’Historia Augusta; lo iato fra le Vite, che si chiudono
con Domiziano (morto nel 96 d. C.) e l’Historia Augusta, che inizia con Adriano
(117-138), era stata colmato pochi anni prima, nel 1493, con la pubblicazione pro-
prio a Roma della traduzione latina di Bonifacio Bembo delle Vite di Nerva e Traia-
no tratte da Dione Cassio, che fu dedicata al cardinale Francesco Todeschini Picco-
lomini (IGI 3445), sulla quale M.G. BLASIO, L’editoria universitaria da Alessandro
VI a Leone X: libri e questioni, in Roma e lo Studium Urbis. Spazio urbano e cul-
tura dal Quattro al Seicento, (Atti del convegno, Roma, 7-10 giugno 1989), Roma
1992, pp. 298-299. Uscì poco dopo presso lo stesso stampatore l’Historia de impe-
rio post Marcum di Erodiano, che abbraccia gli anni 180-238, nella traduzione di
Poliziano (IGI 4689), su cui D. GIONTA, Pomponio Leto e l’Erodiano del Poliziano,
in Agnolo Poliziano, poeta, scrittore, filologo, (Atti del Convegno Internazionale di
Studi, Montepulciano, 3-6 novembre 1994), a cura di V. FERA-M. MARTELLI, Firen-
ze 1998, pp. 425-458, in particolare p. 439. (Dall’aldina di Egnazio del 1516 in poi
le edizioni di Suetonio e Historia Augusta sarebbero state accompagnate anche dal-
le vite di Nerva, Traiano e Adriano da Dione Cassio nella traduzione di Giorgio Me-
rula: BELLEZZA, Historia Augusta cit., pp. 26 e ss.). Ma rimaneva ancora nella se-
quenza delle biografie dell’Historia Augusta la lacuna fra Gordiano III e Valeriano
(anni 244-253); e l’Historia Augusta si arrestava comunque al 284 con Caro, Nu-
meriano e Carino.
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München 1963), pp. 100-125; A.N. STRATOS, Byzantium in the Seventh Century,
Amsterdam 1968-1980.
22 Pomponio trovava forse il nome abbreviato per sospensione, o espresso da
976; G. MUZZIOLI, Due nuovi codici autografi di Pomponio Leto, «Italia medioeva-
le e umanistica», 2 (1959), p. 340; cfr. anche GIONTA, Pomponio Leto cit., p. 454.
L’indagine sulla scrittura di Pomponio Leto e di altri accademici è stata più di re-
cente ampliata da P. SCARCIA PIACENTINI, Note storico-paleografiche in margine al-
l’Accademia Romana, in Le chiavi della memoria. Miscellanea in occasione del pri-
mo centenario della Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica, a
cura dell’Associazione degli ex-allievi, Città del Vaticano 1984, (Littera Antiqua, 4),
pp. 491-549.
26 Al f. 135v.
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Cioè Costante II muore per una congiura ordita da Mezezio che, inca-
pace di guadagnarsi il consenso dell’esercito27, rimane sul trono per breve
tempo e viene a sua volta ucciso dal figlio di Costante, Costantino IV, il
quale lascerà il regno a Giustino (o meglio Giustiniano II). E così la se-
quenza genealogica recupera la sua integrità. Nella princeps il testo termi-
na esattamente con l’ultima riga della pagina, che è anche l’ultima pagina
del binione (f. [56]v); il successivo binione contiene la Pomponii vita. Il so-
spetto è che l’editore infedele per mere necessità tipografiche tagliasse la
frase in modo da far coincidere la fine del testo con la fine della pagina. L’o-
missione si perpetuerà in tutte le edizioni successive.
mente leggibile, dà copiose notizie ZABUGHIN, Giulio Pomponio Leto cit., II, pp.
387-388.
31 Cfr. Catalogus codicum Latinorum Bibliothecae Regiae Monacensis, I, 1,
Monachii 1892, p. 149, e inoltre ZABUGHIN, Giulio Pomponio Leto cit., II, pp. 223-
225 e 383-384.
32 Talvolta è invece il manoscritto che presenta passi mancanti nell’edizione: si
è visto sopra della frase omessa nelle ultime righe dalla stampa, ma se ne è anche
indicata la giustificazione; a volte esso reca la lezione corretta, a fronte di quella er-
rata della stampa; ma per questo rinvio a ZABUGHIN, Giulio Pomponio Leto cit., II,
pp. 224-225 e 383-384, che già rilevava che la redazione della copia di Schedel non
coincide con quella della stampa, indicando rispettivi errori e lacune.
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33 Nel Monacense, l’explicit del capitolo intitolato a Eraclio (f. 74r) è: «Impe-
ravit Heraclius annos XXXI». Nella stampa (f. [55]r) segue: «Ferunt hidropisi oc-
cubuisse. Alii scribunt novo (nono P) cladis genere testium folliculo sursum verso
simul cum virili membro et semper tento adeo ut quotiens meieret, nisi tabula um-
bilico admota prohibente, vultum locio sparsisset; existimant ob inlicitas nuptias id
adcidisse. Lapsus est fertur in haeresim monotelitarum»; e poi l’excursus su Mao-
metto, che occupa i ff. [55]r-[56]r.
34 Nel Monacense (f. 74v) il capitolo De progenie Heraclii segue immediata-
te di cui Pomponio si serve sostanzialmente per i due capitoli (l’aneddoto sul fune-
rale di Fabia Eudocia a XIV, 15; quello sulla malattia di Eraclio a XIV, 17, dove si
tratta anche di Maometto), combinandola con l’Historia Romana di Paolo Diacono,
XVII, 25-40 (v. anche infra).
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bliothèque Vaticane. Catalogue établi par E. PELLEGRIN [et alii], I. Fonds Archivio di
San Pietro e Ottoboni, Paris 1975, pp. 217-219, non include il Compendium. Ne do
quindi una sintetica descrizione: mm 190 x 114, ff. I, 64-199, con foliazione antica
1-136 sull’angolo superiore esterno. Si compone di un quinione (il primo fascicolo)
e di quaternioni; sono bianchi i ff. 198-199. Specchio di scrittura mm 138 x 60, 18
linee, con scrittura che inizia sotto la prima riga; rigatura verticale a piombo, oriz-
zontale a inchiostro. Della scrittura italica del codice il tratto più caratteristico è co-
stituito dalle legature sp, ss, st, che terminano con una curva appuntita verso destra.
I ff. 144 e 151 (rispettivamente 83 e 90 della numerazione originale), primo e ulti-
mo di un quaternione, che dovettero sostituire quelli originali probabilmente a cau-
sa di una macchia di cui restano tracce nei fogli contigui, sono scritti da una diver-
sa mano, che ha posto anche richiami ai ff. 144v e 150v. Mancano sistematicamen-
te le iniziali all’inizio dei capitoli, per le quali è stato lasciato lo spazio. Rare po-
stille, della mano del testo, contengono correzioni e integrazioni di parole saltate ed
eccezionalmente notabilia. La filigrana della carta, sirena a due code, è molto simi-
le, se non identica (non se ne vede la parte centrale, nascosta dalla legatura), a BRI-
QUET 13883, Napoli 1499. Al f. 62r, dove inizia la dedica a Francesco Borgia, c’è
un timbro con lo stemma Boncompagni. Il manoscritto pomponiano è segnalato da
P.O. KRISTELLER, Iter Italicum, VI, London-Leiden 1992, p. 410.
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Sarmatae, Halani et Bastarnae iugum subierant una cum Carpis, Cattis et Quadis [qui
è l’excursus]. Ex barbaris multi adducti captivi; qui non fuere secuti, caesi».
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tistes S. Petri a Vinculis». Vescovo di S. Pietro in Vincoli era allora Giuliano Della
Rovere, che però dal 1492 aveva abbandonato Roma e vi tornò solo dopo la morte
di Alessandro VI; comunque non è del tutto chiaro come si debba intendere la defi-
nizione di «antistes S. Petri a Vinculis».
45 V. supra nota 5.
46 La testimonianza di Pomponio sfuggì a R. LANCIANI, Storia degli scavi di
Roma e notizie intorno le collezioni di antichità, I, Roma 1902, p. 169, che riferisce
la prima notizia sull’identificazione del tempio di Vesta presso la chiesa di S. Maria
Antiqua (allora S. Maria Liberatrice) a Francesco Albertini all’inizio del secolo suc-
cessivo. L’unico tempio di Vesta noto a Poggio Bracciolini, che circa mezzo secolo
prima offre una preziosa rassegna dei monumenti romani, è quello rotondo sul Te-
vere: «Extat et Vestae templum iuxta Tiberis ripam ad initium montis Aventini ro-
tundum»: P. BRACCIOLINI, Les ruines de Rome, De varietate fortunae, livre I, texte
établi et traduit par J.-Y. BORIAUD, introduction et notes de PH. COARELLI-J.-Y. BO-
RIAUD, Paris 1999, p. 23; cfr. p. 82, nota 4.
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47 Un’altra sul tempio dei Castori («in aede Castoris et Pollucis in parte fori
Romani versus Palatium cuius vestigia effodi vidimus») la troviamo nella biografia
di Decio: v. infra.
48 Cfr. CIL XII, 2229.
49 Lo rilevava anche ZABUGHIN, Giulio Pomponio Leto cit., II, p. 237.
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del si procurò poi due esemplari a stampa del Compendium nonché l’edizione Ar-
gentorati 1510 degli Opera di Pomponio: ibid., pp. 192, 204, 209.
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3. Francesco Borgia
il 17 dicembre 1506 a nome del cardinale dal suo familiare Gentile di Foligno, il co-
dice venne restituito il 7 gennaio dell’anno appresso. Delle Vitae di Platina esiste-
vano tre edizioni a stampa: Venezia 1479, Norimberga 1481, Treviso 1485.
62 CIC., de orat. 2, 9, 35-36 e 2, 15, 62. Ma Pomponio aggiunge qualcosa sul-
quod velis dices, habiturus mendaciorum comites, quos historicae eloquentiae mi-
ramur auctores». Era stata usata dal Valla nell’Antidotum in Facium; cfr. Histoire
Auguste cit., pp. LXVIII, LXXXI.
64 G. MARINI, Degli archiatri pontificj, Roma 1784, II, p. 246. Angelo Leonini
fu dal 1499 vescovo di Tivoli e dal 1500 nunzio a Venezia (ibid., I, pp. 303-306).
Gaspare Biondo fu ucciso a Pesaro il 7 dicembre 1493: V. FANELLI, Biondo, Ga-
spare, in DBI, 10, Roma 1968, p. 559.
65 V. infra.
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4. Pomponio e le fonti
senator sine decreto senatus Augustus ab exercitu appellatus est»; ma cfr. anche
PAUL. DIAC., H. R. 9, 1: «Maximinus ex corpore militari primus ad imperium ac-
cessit sola militum voluntate, cum nulla senatus intercessiset auctoritas neque ipse
senator esset».
72 «Imminet Maximinus, natura furiosus, truculentus, immanis».
73 Ma nella fonte il paragone è fra Cesare e Catone: Hist. Aug., Max. Balb. 7,
bo Cornelio Theophane originem ducens, qui per Cn. Pompeium civitatem merue-
rat, cum esset suae patriae nobilissimus idemque historiae scriptor». Questa serie di
coincidenze mostra con certezza che Pomponio si serviva dell’Historia Augusta.
Sulle quattro fittissime pagine di estratti pomponiani dall’Historia Augusta nel ma-
noscritto miscellaneo Vat. lat. 3311 (ff. 170r-171v), che attendono ancora di essere
studiati, oltre a ZABUGHIN, Giulio Pomponio Leto cit., II, pp. 229 e 386-387, e MUZ-
ZIOLI, Due nuovi autografi cit., p. 349, ora anche D. GIONTA, Il Claudiano di Pom-
ponio Leto, in Filologia umanistica. Per Gianvito Resta, Padova 1997, p. 928, e
EAD., Pomponio Leto cit., pp. 446-447; del Varrone contenuto nel manoscritto si oc-
cupa M. ACCAME LANZILLOTA, Il commento varroniano di Pomponio Leto, «Miscel-
lanea greca e romana», 15 (1990), pp. 309-345; EAD., Le annotazioni di Pomponio
Leto ai libri VIII-IX del De lingua Latina di Varrone, «Giornale italiano di filolo-
gia», 50 (1998), pp. 41-57.
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Poi di nuovo riprende l’Historia Augusta (Gord. 31, 2-3), stavolta pa-
rafrasata fedelmente, e fa un passo indietro tornando a Filippo l’Arabo e
Gordiano:
(Hist. Aug., Gord. 31, 2-3). Philippus autem […] Romam litteras
misit, quibus scripsit Gordianum morbo perisse seque a cunctis
militibus electum. Nec defuit ut senatus de his rebus, quas non
di Zonara.
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76 Agelastos era stato il soprannome di Marco Crasso, avo del triumviro; Pom-
ponio poteva averlo trovato in CIC., fin. 5, 30, 92 (cfr. anche PLIN., nat., VII, 19, 79).
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ai monumenti romani connessi con i fatti narrati. Qui dà una notizia inedita sull’i-
dentificazione del tempio dei Castori.
79 f. [7]r: « Decii mares duo prioribus saeculis, alter bello Etrusco, alter bello
Latino, constanti animo inter confertissimos hostes pro victoria patriae se devoven-
tes occubuere. Hunc devovendi morem primus creditur introduxisse Linus Codri fi-
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lius qui pro patria bello Dorico se devovit». L’episodio, citato più volte da Cicerone,
narrato da Livio, ripreso da Valerio Massimo, apparteneva ad un repertorio piuttosto
abusato. Pomponio ha probabilmente presenti CIC., Tusc. 1, 37, 89, dove come nel
Compendium si parla di guerre rispettivamente contro Latini ed Etruschi per i due
Deci, e in più VAL. MAX. 5, 6, 5-6 («P. Decius Mus, qui consulatum in familiam suam
primus intulit, cum Latino bello Romanam aciem inclinatam et paene prostratam vi-
deret, caput suum pro salute rei publicae devovit […] Unicum talis imperatoris spe-
cimen esset, nisi animo suo respondentem filium genuisset. Is namque in quarto con-
sulatu suo patris exemplum secutus») e 5, 6 ext. 1 per la leggenda del re ateniese Co-
dro che si immola per la patria; ma forse Pomponio citava a memoria, anche perché
la menzione di Lino è del tutto fuori posto: Lino non ha nulla a che vedere con Co-
dro; invece una delle leggende che lo hanno a protagonista lo voleva nipote del re ar-
givo Crotopo. Dall’assonanza dei due nomi deriva forse la confusione di Pomponio,
che mostra qui di non essere del tutto a suo agio nella mitologia greca.
80 H. R. 9, 17: «Hic cum bella innumera gessisset, pace parata dixit brevi mili-
tes necessarios non futuros»; ma cfr. anche Hist. Aug., Prob. 22, 4: «Ipsa vox Probi
clarissima indicat, quid se facere potuisse speraret, qui dixit brevi necessarios mili-
tes non futuros»
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la caduta di Mezezio. Il seguito: «Qui dum pace Constantinopoli fruitur mortem obiit,
regnumque per manus filio Iustino tradidit» è estratto da ZONAR., Epit. XIV, 21:«Kα%
Tν οIτω π!ντοθεν ε1ρηνε:οντα το&ς ,Pωµαοις τ) πρ!γµατα, ως τς τελευτς
τοδε το ατοκρ!τορος (Costantino IV). ’Eτελε:τησε δ’/π% διαδ*χω τ2 υU2
’Iουστινιαν2, βασιλε:σας /νιαυτοKς Lπτακαδεκα». ' ' '
' in evidenza GIONTA, Il Claudiano cit., pp. 1001-1002, per un pas-
83 Lo mette
so del Compendium ripreso quasi alla lettera dal commento a Claudiano; anche ZA-
BUGHIN, Giulio Pomponio Leto cit., II, pp. 226-229, indicava assonanze fra i Caesa-
res e passi pomponiani nel Vat. lat. 3311; ma più che di «lavori preparatori» per il
Compendium, come li definisce Zabughin, mi sembra si tratti di annotazioni riuti-
lizzate.
84 V. supra nota 20.
Cap. 15 Niutta F. 321-354 13-09-2002 12:50 Pagina 349
pora fuit» (f. [56]r): è Giovanni Zonara, alla cui Epitome historiarum ha at-
tinto a piene mani («illa tempora» sono quelli dell’espansione araba; Zona-
ra è in verità di qualche secolo successivo). Invece non nomina mai Eutro-
pio e Paolo Diacono, la cui Historia Romana utilizza estesamente soprat-
tutto nel secondo libro85, quando gli viene a mancare il supporto dell’Hi-
storia Augusta. Soltanto per presentare versioni alternative ricorre alle e-
spressioni «quidam tradunt», «quidam dicunt», «alii scribunt», che fareb-
bero pensare che stia egli stesso mettendo a confronto fonti diverse. E in-
vece riprende dalla fonte sia l’espressione «quidam scribunt» che la diver-
sa versione86. Eccezionalmente fa il nome di qualche autore, per riferire pe-
raltro particolari secondari. Per esempio, parlando di Giuliano l’Apostata
riporta una citazione da Ammiano Marcellino, ma per un dettaglio margi-
nale, il reperimento del diadema allorché Giuliano venne proclamato Au-
gusto dall’esercito87; per il resto anche in questa parte Pomponio segue non
l’ampio racconto di Ammiano ma l’Epitome di Zonara (XIII, 10). Menzio-
na, nel capitolo su Anastasio, che regnò fra il 491 e il 518, un altro Marcel-
lino, autore nel VI secolo di una cronaca relativa agli anni 374-534 assai
sione dell’impero dopo la sua morte, Pomponio scrive (f. [28]v): «Quidam tradunt
Costantinum orbem heredibus testamento divisisse, quidam filios sorte fecisse» che
corrisponde a ZONAR., Epit. XIII, 5: «‘Ως µν τινες συνεγρ!ψαντο παρ) το
πατρ0ς σφσι διανεµηθε&σα, Xς δ’τεροι καθ’LαυτοKς τα:την ατ2ν
διελοµνων». A proposito della versione alternativa sulla malattia e morte di Era-
clio, per cui v. anche supra nota 33, scrive (f. [55]r): «Ferunt hidropisi occubuisse.
Alii scribunt […]», attingendo il tutto da ZONAR., Epit. XIV, 17: «‘Hρ!κλειος δ,
Xς ε?ρηται […], ν*σω περιππτει [δερικ. Λγεται δ. κα [...]».
'
87 Al f. [34]v: «Marcellinus ' comitem ordinis detraxisse sibi tor-
scribit Maurum
quem – draconarius enim erat – et capiti principis aptasse»; cfr. AMM. MARC. 20, 4:
«Maurus nomine quidam, postea comes qui rem male gessit apud Succorum angu-
stias, Petulantium tunc hastatus, abstractum sibi torquem quo ut draconarius uteba-
tur capiti Iuliani imposuit».
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88 Al f. [49]r: «Marcellinus tamen tradit eum natum supra annos LXXX subita
morte occubuisse». I Chronica di Marcellinus Comes sono editi in MGH, Auct. ant.,
11, 60-104.
89 Al f. [28]r: «Iulianus in oratione de Caesaribus scribit Mercurium interroga-
tum a patruo Constantino quis esset modus boni principis respondisse regem opor-
tere multa possidere et multa impendere»; cfr. JUL., Caes. 36. Veramente i Caesares
(Saturnalia, o Symposium) sono una satira menippea; Pomponio li definisce ora-
zione seguendo Zonara, che li designa col termine di logos.
90 CRIVELLUCCI, in Pauli Diaconi Historia Romana cit., p. VIII, ne conosceva
V, Città del Vaticano 1965, pp. 133-134, 138, 149; i tre codici sono identificati con
i Vat. gr. 136, 482 (dubitativamente), 639. L’Epitome è conservata in varie decine di
manoscritti.
94 Solo qualche esempio: «ex lectione historiarum illud compertum habeo, vic-
toriam semper fore in ea parte quae iure pugnat» (f. [43]v); «Romani semper iusta
movere arma» (f. [17]v: le guerre dei Romani furono sempre giuste, diversamente
da quelle mosse da altri popoli, spinti da odio e rabbia); «felix est qui victoriam ad-
secutus temperare se didicerit» (f. [52]v).
95 Vi aveva fatto riferimento all’inizio del secolo perfino il greco Manuele Cri-
solora nella Synkrisis tes palaias kai neas Rhomes, V, 3: «Non potresti più distin-
guere la sorte di Pompeo e di Lucullo da quella di Mitridate e Tigrane» (Le due Ro-
me. Confronto tra Roma e Costantinopoli. Con la traduzione latina di Francesco A-
leardi, a cura di F. NIUTTA, in corso di stampa).
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caedem Magnentium. Opilius Laenas reus capitis M. Tullio defensori caput absci-
dit; Magnentius servatori suo mortem intulit. Nam cum milites exorto tumultu in Il-
luriis occidere vellent, obiecto paludamento imperator texit et servavit». Pomponio
attingeva probabilmente l’episodio da VAL. MAX. 5, 3, 4: «M. Cicero C. Popilium
Laenatem […] defendit […] Hic Popilius postea nec re nec verbo a Cicerone laesus
ultro M. Antonium rogavit ut ad illum proscriptum persequendum et iugulandum
mitteretur, impetratisque detestabilis ministerii partibus gaudio exultans Caietam
cucurrit et virum […] iugulum praebere iussit ac protinus caput Romanae eloquen-
tiae et pacis clarissimam dexteram per summum et securum otium amputavit».
L’imputazione di parricidio da cui Popilio Lenate era stato difeso da Cicerone, che
manca in Valerio Massimo, si trova in PLUT., Cic. 48 (per il quale peraltro l’ucciso-
re di Cicerone non fu Popilio ma il centurione Erennio). Quindi Pomponio doveva
conoscere anche la versione di Plutarco. Verrebbe il sospetto che più che volonta-
riamente contaminare Pomponio citasse l’episodio a memoria.
97 ZABUGHIN, Giulio Pomponio cit., II, pp. 170-194, per gli interessi archeologi-
mai neutrale. Mutua dalle sue stesse fonti delle categorie interpretative: che
abbracci la tradizione filosenatoria avversa al potere militare espressa dal-
l’Historia Augusta, e continui ad applicarla all’impero bizantino del VII se-
colo, si è già visto; si è visto come condanni la «desidia Romanorum prin-
cipum» che non sono stati capaci di impedire l’espansione dei seguaci di
Maometto. Agli imperatori rimprovera anche di avere abbandonato l’occi-
dente ai barbari – che è un altro dei Leitmotiven dell’opera («nescio quo fa-
to praefectis obtemperavimus et aliquando Augustulis et saepenumero regi-
bus Gothorum», ff. [36]v-[37]r, è il tema di molte pagine). La vena di anti-
bizantinismo, latente in tutto il Compendium, diventa qui esplicita. Pompo-
nio non fa ricorso alla categoria della translatio imperii, non imputa alla
fondazione di Costantinopoli l’origine remota della decadenza dell’impero
romano, come faceva Flavio Biondo qualche decennio prima98; però «ubi
nova Roma, praesentibus Augustis, lacertos extulit, absentia principum no-
stra Roma paululum inminuta, utraque tamen urbe principatum sibi vindi-
cante». A differenza di altri suoi contemporanei Pomponio non si interroga
sulla fine dell’impero romano99; è lontanissimo dal ricercare le cause degli
eventi, non tenta periodizzazioni; registra solo dei fatti. Ma senza distacco
cronachistico.
Dalle età trascorse scivola nel presente. Totila entra in Roma, ne allon-
tana tutti gli abitanti, la incendia (ff. [50]v-[51]r). Il saccheggio antico evo-
ca saccheggi recenti, lotte intestine, la rovina che esse portano: «Sed iam ci-
vili intestinoque odio eo lapsa es, ut honorificentior haberes, si nomen tuum
tantummodo extaret […] A tuis praesertim dilaniata es». I Cristiani invece
di combattere contro i nemici della fede sono costantemente assorbiti («oc-
cupantur») da guerre civili e odii reciproci, «sed proeliandum esset contra
hostes fidei»; i príncipi «ad tam pernitiosum facinus stipendia solvunt»100.
Fin qui solo allusioni; ma poi un lungo encomio viene tributato non al de-
dicatario del lavoro, né al papa, ma a Ferdinando il Cattolico, come unico
fra i prìncipi che abbia mosso una guerra giusta. Le sue vittorie sugli Arabi
erano state ampiamente esaltate dai Pomponiani all’epoca della presa di
Granada (1492)101. E allora viene da chiedersi quanto vi sia, nel motivo an-
rata perorazione contro le guerre che i Cristiani conducono fra loro, autentiche
guerre civili, che riportano forse alle incursioni in Italia di Carlo VIII del 1494 e
del 1495.
101 È superfluo rievocare il clima di entusiasmo che si determinò allora a Ro-
mondo letterario e agli ambasciatori stranieri, quaranta prelati della Chiesa romana:
SABELLICO nella Pomponii vita cit., f. [59]v.
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Gli anni del pontificato di Alessandro VI furono, com’è noto, anni no-
dali per la scoperta di nuove terre e l’apertura di imprevedibili rotte com-
merciali. A tale tema e al ruolo giocato dal pontefice nel dirimere le molte-
plici questioni connesse con il periodo più fruttuoso delle esplorazioni o-
ceaniche hanno offerto un importante contributo le relazioni svolte durante
i Convegni di Roma del dicembre 19991 e di Cagliari del maggio 2001.
Questo contributo intende cogliere invece sul duplice versante, quello del-
l’orizzonte scientifico e quello dell’orizzonte etico, le inaspettate reazioni
che tali eventi sollecitarono tra gli intellettuali del tempo, muovendo da u-
na specola privilegiata, la scrittura di Antonio Galateo, assai attenta a co-
gliere, anche in questo caso, gli umori di una intellettualità in crisi, dibattu-
ta tra problemi di natura etico-politica2 e l’ardua risoluzione di controverse
conoscenze scientifiche.
1. L’orizzonte scientifico
Nella dedica premessa all’edizione veneziana del 1511 della Geo-
graphia di Tolomeo il curatore dell’opera, Bernardo Silvano da Eboli, ma-
nifestava al Duca d’Atri, Andrea Matteo Acquaviva, la propria sorpresa nel
constatare l’inattendibilità dei dati sulla longitudine e la latitudine delle va-
rie località forniti dall’Alessandrino, quando questi fossero stati confrontati
e verificati con le misure desunte dai moderni portolani e dalla recente rap-
presentazione cartografica delle scoperte oceaniche. Ma ancora più sorpren-
dente era notare che nei vari codici greci e latini consultati le discrepanze
maggiori riguardavano i numeri indicanti appunto la posizione, laddove in-
* Domenico Defilippis ha redatto le pp. 343-373; Isabella Nuovo le pp. 373-391.
1 In particolare quelle di G. AIRALDI, Il ruolo di Alessandro VI nelle scoperte geo-
vece i verba del testo sembravano essere in sintonia con i dati rilevati dalla
moderna cartografia. Occorreva pertanto, secondo il Silvano, correggere
quelli, che erano assai spesso in contrasto perfino con le stesse parole di To-
lomeo, e ridisegnare, come egli fece per primo, le carte tolemaiche tenendo
conto degli inediti apporti dei contemporanei, senza disconoscere l’autore-
vole lavoro di risistemazione del pensiero geografico antico prodotto da To-
lomeo, che «più diligentemente degli altri geografi ha descritto le posizioni
e le distanze tra i luoghi», e senza ricorrere, com’era avvenuto nelle più re-
centi edizioni della Geographia, all’aggiunta di nuove carte cui affidare i ri-
sultati della moderna indagine corografica3. La vicenda editoriale e i suoi
versali figura et cum additione locorum quae a recentioribus reperta sunt diligenti cu-
ra emendatus et impressus, Venetiis, per Iacobum Pentium de Leucho, MDXI, moder-
namente riprodotto in Theatrum orbis terrarum, Series of Atlases in Facsimile, 5, 1, con
un’Introduzione di R.A. SKELTON, Amsterdam 1969. Sull’edizione del Silvano v. A.E.
NORDENSKIÖLD, Facsimile-Atlas to the Early History of Cartography, translated from
the swedish original by J.A. EKELÖF-C.R. MARKHAM, New York 1973, pp. 18 e ss.; l’In-
troduzione cit. di SKELTON; A. BLESSICH, La geografia alla corte aragonese in Napoli,
Roma 1897; G. GUGLIELMI-ZAZO, Bernardo Silvano e la sua edizione della Geografia
di Tolomeo, «Rivista geografica Italiana», 32 (1925), pp. 37-56, e 33 (1926), pp. 25-52;
R. ALMAGIÀ, Studi di cartografia napoletana, in ALMAGIÀ, Scritti geografici, Roma
1961, pp. 247-249. Su Bernardo Silvano da Eboli non è possibile rintracciare altre no-
tizie al di fuori di quelle che egli stesso offre indirettamente nella dedica premessa alla
sua edizione: dopo aver approntato per Andrea Matteo il codice della Geographia tole-
maica, per il quale v. oltre, ne divenne suddito quando l’Acquaviva, sposando in se-
conde nozze Caterina della Ratta (1509, †1511), contessa di Caserta, assunse anche la
signoria di Eboli; fu legato da una sincera amicizia al poeta veronese Giovanni Cotta,
che, conosciuto probabilmente a Napoli, dov’era vissuto prima del 1507, elogia nel-
l’introduzione al suo lavoro per aver corretto le «dimostrazioni matematiche» del I e del
VII libro nell’edizione della Geografia del 1507 curata da Marco Beneventano, che ac-
cusa invece di «inscitiam atque negligentiam»; frequentò non solo la ricca biblioteca
del suo signore, ma ebbe accesso anche alla raccolte più preziose di testi antichi della
sua età e agli altrettanto importanti documenti cartografici contemporanei, la cui con-
sultazione gli consentì di perfezionare l’opera tolemaica. Su Andrea Matteo Acquaviva
cfr. la ‘voce’ redazionale del DBI, 1, Roma 1960, pp. 185-187, e F. TATEO, Feudatari e
umanisti nell’impresa tipografica, in TATEO, Chierici e feudatari del Mezzogiorno, Ba-
ri 1984, pp. 69-96; ID., Aspetti della cultura feudale attraverso i libri di Andrea Matteo
Acquaviva, in Il territorio a sud-est di Bari in età medievale, (Atti del Convegno di stu-
di, Bari, 13-15 maggio 1983), Bari 1985, pp. 371-384; ID., Sulla cultura greca di An-
drea Matteo Acquaviva e C. BIANCA, Andrea Matteo Acquaviva e i libri a stampa, in
Territorio e feudalità nel Mezzogiorno rinascimentale. Il ruolo degli Acquaviva tra XV
e XVI secolo, a cura di C. LAVARRA, I, Galatina 1995, pp. 31-38 e 39-53, e più in gene-
rale i saggi raccolti nel medesimo volume. Concorda con le osservazioni del Silvano il
giudizio espresso dal Galateo in un’opera di poco anteriore (1509) alla pubblicazione
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del Tolomeo: «Ptolemaei descriptio, quae multa alibi quam sint locat. Sive id acciderit
aliorum relatu, sive auctoris incuria, sive quod chorographiam recte scribere nemo po-
test nisi qui in ea regione diu versatus aut natus fuerit, sive transcriptorum aut transla-
torum inscitia et librorum mendositate, nescio», A. GALATEI De situ Iapygiae, Basilea
1558, p. 80 (emblematico è il caso di Lecce, ibid., p. 85).
4 NORDENSKIÖLD, Facsimile-Atlas cit., p. 19.
5 È il Paris. lat. 10764: su di esso cfr. J.H. HERMANN, Miniaturhandschriften
aus der Bibliothek des Herzog Andrea Matteo III Acquaviva, «Jahrbuch der Kunst-
historischen Sammlungen des allerhochsten Kaiserhauses», 19 (1898), pp. 147-216;
T. DE MARINIS, Un manoscritto di Tolomeo fatto per Andrea Matteo Acquaviva e I-
sabella Piccolomini, Verona 1956; M. MILANESI, Testi geografici antichi in mano-
scritti miniati del XV secolo, in Columbeis V. Relazioni di viaggio e conoscenza del
mondo fra Medioevo e Umanesimo, (Atti del V Convegno internazionale di studi
dell’Associazione per il Medioevo e Umanesimo Latini, Genova, 12-15 dicembre
1991), a cura di S. PITTALUGA, Genova 1993, p. 350.
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L’interesse per gli studi geografici a Napoli, rilevante fin dall’età angioi-
na, ebbe quindi un notevole impulso al tempo degli Aragonesi, certamente an-
che per effetto del magistero del Pontano, di cui sono noti gli studi e gli scrit-
ti di carattere astronomico e astrologico e le polemiche posizioni antipichiane
della produzione ultima6. Non va tuttavia sottovalutata, come conseguenza di-
retta del mutato assetto di governo del Regno e degli avvenimenti politici con-
temporanei, la irrinunciabile esigenza di conoscere e quindi di descrivere con
la massima precisione possibile un territorio notevolmente vasto, di enorme
importanza, per la sua posizione geografica, sotto il profilo strategico e com-
merciale e perciò dai confini quanto mai insicuri. Motivazioni di ordine teo-
retico, speculativo e letterario si combinavano con l’ineludibile necessità di
un’accorta difesa dello Stato, costantemente esposto ai desideri di riconquista,
mai sopiti negli animi dei re di Francia e dei loro sostenitori regnicoli, forte-
mente ambito nelle sue città costiere del basso Adriatico e dello Ionio dalla
agguerrita Repubblica di Venezia, tenacemente decisa a procurarsi nuovi e si-
curi scali per i propri commerci nel ‘suo’ golfo, e infine preda delle incessan-
ti scorrerie dei Turchi, che erano ormai giunti ad occupare la sponda adriatica
opposta alla regione pugliese7. Nella Napoli aragonese il recupero dell’antico
significò pertanto, quantomeno in questo caso, riappropriazione non solo del
Tolomeo dell’Almagesto e del Centiloquio, di Macrobio e di quel Manilio che,
riscoperto da Poggio nel 1416, fu studiato e commentato durante il suo sog-
giorno partenopeo dal Bonincontri (tra il 1450 e il 1475), e precocemente
stampato a Napoli presso Hohenstein nel 1476 ca.8, ma anche del Tolomeo
grafici, in Atti del Convegno Nazionale su «La presa di Gallipoli del 1484 ed i rap-
porti tra Venezia e Terra d’Otranto», Bari 1986, pp. 77-105 e la bibliografia ivi cit.
8 Cfr. la ‘voce’ di C. GRAYSON, in DBI, 12, Roma 1970, pp. 209-211; BLESSICH,
cati: C. PLINIO SECONDO, La Storia Naturale [Libri I-XI], tradotta in ‘napolitano mi-
sto’ da Giovanni Brancati. Inedito del sec. XV, a cura di S. GENTILE, I, Napoli 1974,
pp. V-XII; R. CARDINI, La critica del Landino, Firenze 1973, pp. 149-191; C. LAN-
DINO, Scritti critici e teorici, a cura di R. CARDINI, I, Roma 1974, pp. 81-93, II, pp.
86-92. Sull’interesse per la cultura geografica da parte del re Ferdinando I, v. MI-
LANESI, Testi geografici cit., pp. 343 e ss.
10 Cfr. HERMANN, Miniaturhandschriften cit.; G. CAVALLO, Libri greci e resi-
stenza etnica in Terra d’Otranto, in Libri e lettori nel mondo bizantino. Guida sto-
rica e critica, a cura di G. CAVALLO, Bari 1982, pp. 155-227: 164 e ss.; C. BIANCA,
La biblioteca di Andrea Matteo Acquaviva, in Gli Acquaviva d’Aragona Duchi di A-
tri e Conti di S. Flaviano, I, Teramo 1985, pp. 159-173; per il PLUTARCHI De virtu-
te morali libellus graeca cum latina versione et Commentaria Andreae Matt. Ac-
quavivi Hadrianorum Ducis, Napoli 1526 (si rinvia in particolare alle cc. LX-LXXI
del commento: A.M. AQUIVIVI HADRIANORUM INTERAMNATUMQUE DUCIS Commen-
tarii in translationem libelli Plutarchi de virtute morali. Liber secundus), v. G. GU-
GLIEMI-ZAZO, Bernardo Silvano cit., p. 43, e di F. TATEO, oltre alla bibliografia già
segnalata alla nota 3, il saggio Sulle traduzioni umanistiche di Plutarco. Il De vir-
tute morali di Andrea Matteo Acquaviva, in Filosofia e cultura. Per Eugenio Garin,
a cura di M. CILIBERTO-C. VASOLI, Roma 1991, I, pp. 195-214.
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Centuriae Latinae, Ginevra 2001 e alla aggiornata bibliografia critica che la correda.
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tal caso, venivano interpretate come l’atteso segnale dell’inizio di una nuo-
va era e si avviavano a costituire non tanto l’oggetto diretto della trattazio-
ne, ma piuttosto la motivazione sottaciuta di questa. Ma su questi problemi
ci si soffermerà più diffusamente sulla seconda parte di questo saggio.
Ora, una sicura testimonianza, viva e diretta, di quei dibattiti che coin-
volsero l’ambiente di corte nello scorcio del secolo XV è conservata negli o-
puscoli scientifici del Galateo, che furono pubblicati a Basilea nel 1558, un
quarantennio dopo la morte del loro autore, a cura del Marchese di Oria Gio-
vanni Bernardino Bonifacio, conterraneo dell’umanista13. Il De situ elemen-
torum, il De situ terrarum e l’Argonautica, sive de Hierosolymitana pere-
grinatione14 possono essere letti come tre momenti di una unitaria ricerca
che muove dalla rivisitazione delle tematiche cosmologiche per approdare
e il terzo ad Andrea Matteo Acquaviva e si leggono nell’ordine alle pp. 9-63, 65-80,
81-87 della stampa basileense cit.; sono preceduti da una dedicatoria del Bonifacio
al patrizio veneto Vincenzo Cappello, datata il giorno di Capodanno del 1558, e so-
no seguiti da un quarto e un quinto opuscolo, entrambi adespoti e di cui è dubbia
l’attribuzione al Galateo, sul livello e l’estesione della massa acquea del globo ri-
spetto a quella terrestre e sulla origine dei fiumi, il Libellus de mari et aquis (pp. 89-
113) e il De fluviorum origine (pp. 114-120), e dall’operetta di analogo contenuto
di Sebastiano Foxio Morzillo, De aquarum origine (pp. 121-143), cui sono pospo-
sti l’indice dei nomi e delle cose notevoli (cc. K5r-I3v), l’Errata corrige e in ap-
pendice, con numerazione propria, l’In Alphonsum regem epithaphium del Galateo:
v. P. ANDRIOLI NEMOLA, Catalogo delle opere di A. De’ Ferrariis (Galateo), Lecce
1982, pp. 73-75, 188-190, 205-210, 278 e ss., cui si rinvia anche per i problemi di
datazione e per la bibliografia specifica; per la tradizione manoscritta v. invece A.
IURILLI, L’opera di Antonio Galateo nella tradizione manoscritta. Catalogo, Napo-
li 1990. Il De situ terrarum e il De Hierosolymitana peregrinatione sono stati ri-
pubblicati modernamente in ANTONIO DE FERRARIIS GALATEO, Epistole, ed. critica a
cura di A. ALTAMURA, Lecce 1959, pp. 23-31 e 77-80; del primo opuscolo ha forni-
to l’edizione, fondata su un testo criticamente curato, e la traduzione F. Tateo in AN-
TONIO GALATEO, Epistole, in Puglia Neo-Latina. Un itinerario del Rinascimento fra
autori e testi, a cura di F. TATEO-M. DE NICHILO-P. SISTO, Bari 1994, pp. 62-79: su
di esso v. anche TATEO, L’etica umanistica cit.
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li 1979.
17 L’analogia tra queste discussioni e quelle tenute presso l’Accademia ponta-
ponente baronale del Regno, aveva trovato un valido supporto nell’élite cul-
turale, sempre attenta a garantirne il prestigio, sebbene fosse però non sem-
pre disposta a rinnegare le antiche prerogative di gestione del potere vantate
dalla potente nobiltà regnicola tout-court: si pensi ai trattati delle virtù so-
ciali del Pontano, o agli opuscoli del Caracciolo, o ai Memoriali del Carafa,
da cui emana una forte traccia di realismo politico18. Ma le res, l’esperienza,
non possono da sole produrre la scientia: occorre infatti il preventivo con-
fronto con i verba perché possa elaborarsi un giudizio veritiero, equilibrato,
maturo, insomma esatto. «Tunc enim res bene cedit […], ut Aristoteles ait in
libro de Coelo, [...] quando ratio apparentibus attestatur et apparentia ratio-
ni; cum haec duo sibi invicem non consentiunt omnia falsa, omnia erronea
sunt»19. Muove da questo assunto aristotelico, ricordato in un trattatello co-
rografico, il De situ Iapygiae, ma sinteticamente richiamato anche nel De si-
tu elementorum20, la severa analisi critica cui il Galateo sottopone le scon-
volgenti notizie che giungono, per vie diverse, alla corte napoletana. Da un
canto le relazioni di viaggio e l’esperienza diretta dei naviganti, i cui racconti
sono talora così sovvertitori delle idee correnti da apparire incredibili e per-
ciò poco degni di fede; dall’altro la parola autorevole degli auctores, che non
18 Cfr. GIOVANNI PONTANO, I libri delle virtù sociali, a cura di F. TATEO, Roma
nisi qui, quod obiectis nesciat respondere, sensum ipsum et rerum apparentiam et,
ut Cicero ait, visa et perspicua negaverit. Nam negare sensum propter rationem, ra-
tionis est indigere»: ANTONII GALATEI Liber de situ elementorum, Basilea 1558, p.
23 (il nesso ciceroniano rinvia forse a De inventione, 2, 22, 65).
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(traduzione italiana del Landino) e in quella del 1480-1483, a Colombo, che lasciò
traccia della sua lettura nelle postille apposte nei margini dei volumi a lui apparte-
nuti e ora custoditi presso la Biblioteca Colombina di Siviglia: v. J. GIL, Le postille
colombiane, in C. COLOMBO, Gli scritti, a cura di C. VARELA, Introduzione di J. GIL,
ed. ital. a cura di P. COLLO, traduzione e revisione di P. L. CROVETTO, Torino 1992,
pp. XL-XLIII, e 3-10; E. SARMATI, Le postille di Colombo all’Imago mundi di Pier-
re d’Ailly, in Columbeis IV, Genova 1990, pp. 23-42; F. RICO, Il Nuovo Mondo di
Nebrija e Colombo. Note sulla geografia umanistica in Spagna e sul contesto intel-
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24 «Quel che io so è che l’anno ’94 navigai 24 gradi a ponente in nove ore e non
loga a quella del nostro emisfero, né dalla prospettiva tolemaica che vole-
va Africa e India unite a sud dell’equatore da una «Terra incognita»25. Al
contrario queste posizioni parevano accreditare l’idea, ricorrente nelle
Scritture, che le acque si distendessero appena sulla settima parte del glo-
bo. Credo perciò che il dubbio del Galateo, la sua sospensione di giudizio,
che lo porta ad affermare che «maioris fortasse partis terrae locus sit a-
qua»26, dipenda proprio dalla notizia dei lunghi tratti di costa africana so-
lo di recente riscoperti dai Portoghesi, dopo le mitiche imprese di circum-
navigazione dell’Africa ricordate dai testi dei geografi antichi27. L’effetti-
va estensione del mare al di là del Capo Bojador, designato nelle leggende
medievali e dalla superstizione dei marinai quale estremo limite invalica-
bile, posto all’inizio della zona torrida, e invece superato nel 1434 da Gil
Eannes e Alfonso de Baldaja, l’impresa di Bartolomeo Dias, che nel 1487
aveva raggiunto il Capo di Buona Speranza28 e le resistenze sempre mag-
bitur, ita aqua et terra intermixtas habent regiones et consitas. Et quamvis maioris for-
tasse partis terrae locus sit aqua, tamen nulli dubium est quod illarum partium, quas a-
qua non inundat, quas nos incolimus, locus est aer»: GALATEI Liber de situ elemento-
rum cit., p. 13, ma v. anche la successiva nota 33. Nell’ultima revisione dell’opera, co-
me si vedrà più avanti, Galateo avrebbe mostrato minore reticenza nel sostenere la
propria opinione sulla maggior superficie delle acque rispetto alle terre emerse.
27 Cfr. R. ALMAGIÀ, La geografia nell’età classica e Concetto e indirizzi della geo-
grafia attraverso i tempi, in ALMAGIÀ, Scritti geografici cit., pp. 325-406 e 553-573; M.
MILANESI, Tolomeo sostituito cit., pp. 75-143; S.E. MORRISON, Storia della scoperta
dell’America, I. Viaggi del Nord, Milano 1976, pp. 15-23; M. DE NARDIS, Aristotelismo
e doxografia antica (ancora sul Perì tês toû Neílou anabàseos), «Geographia antiqua»,
1 (1992), pp. 89-108, e J. DESANGES, La face cachée de l’Afrique selon Pomponius Mé-
la, «Geographia antiqua», 3-4 (1994-1995), pp. 79-88; G. GAGGERO, Conquistatori ai
confini del mondo. Le imprese di Sesostri, Semiramide, Tearco, Nabucodonosor tra
realtà storica e deformazione leggendaria, in Columbeis VI, Genova 1997, pp. 7-37.
28 Cfr. BROC, La geografia cit., pp. 43 e 62; SURDICH, Verso il Nuovo Mondo
cit., p. 23; ID., L’Africa cit., pp. 195-196 e 212-213, cui si rinvia per un dettagliato
elenco cronologicamente ordinato dei ‘progressi’ compiuti dai Portoghesi nel Quat-
trocento, fino a giungere al superamento dell’equatore (1474) e quindi alla circum-
navigazione dell’Africa: sull’impresa del Dias v. nota 47.
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giori che incontrava anche fra i dotti l’ipotesi tolemaica dell’esistenza del-
la «Terra incognita», ipotesi di cui già Pio II aveva sottolineato la fragi-
lità29, imposero probabilmente al Galateo un atteggiamento più cauto. E
proprio la più generale quaestio de aqua et terra costituiva l’oggetto pri-
vilegiato della trattazione del De situ elementorum. Le prove addotte per
dirimere una quaestio ampiamente dibattuta nelle età precedenti – si pen-
si solo agli interventi di Alberto Magno o dello stesso Dante –, non rivela-
no grosse novità metodologiche: Galateo risolve il quesito sulle ragioni
della maggiore altezza delle terre abitabili rispetto al livello del mare e
spiega i motivi per cui la terra, pur essendo più pesante dell’acqua, la so-
vrasti, adducendo le testimonianze degli auctores già menzionati e ricor-
rendo alla forza inattaccabile dell’esperienza; ma premette a questa sezio-
ne dimostrativa dei prolegomena, necessari alla corretta impostazione del
problema, tra i quali colloca il lungo excursus in cui annota e discute il si-
gnificato delle recenti scoperte geografiche30.
Occorre, a questo punto, definire con maggior precisione i limiti cro-
nologici della composizione del De situ elementorum. Il trattato è indub-
biamente la registrazione letteraria di una o più discussioni su quel tema,
reso attuale dalla apertura delle nuove rotte oceaniche, svoltesi tra gli acca-
demici, presso la corte, alla presenza di Federico d’Aragona e di altri nobi-
li del Regno. Un’immagine assai precisa di quegli incontri ci è restituita
dallo stesso Galateo nel De situ terrarum, ove il contesto dialogico consen-
te una più precisa schematizzazione delle posizioni espresse dai singoli in-
terlocutori. Ma anche nel De situ elementorum l’opzione per la forma del
trattato non impedisce all’autore di offrire ampi squarci di carattere vaga-
mente dialogico. In essi domina la figura del re Federico, unico ad essere
menzionato tra i protagonisti di un dibattito sicuramente a più voci: «inter
disputandum», dice l’umanista. Galateo ne ricorda innanzitutto l’abitudine
di definire ‘parentesi’ le inevitabili e non inutili considerazioni accessorie
pera omnia, Basilea 1551, pp. 284-285: «Consensu omnium receptum est totius
habitabilis treis praecipuas existere portiones, quarum prae magnitudine prima est
Asia, secunda est Aphrica, tertia Europa. Asia coniungitur Aphricae (sicut Ptole-
maeo visum est) per dorsum Arabiae, quod mare nostrum ab Arabico sinu di-
siungit. Nemo id negat, sed adiicit ille alio in loco coniungi per terram incogni-
tam, quae Indicum pelagus circumplectitur, in qua sententia pene solus est. Om-
neis enim quos offendumus de situ orbis scribenteis, mare Indicum ad Austrum et
Orientem sine terminis ponunt, et partem Oceani esse volunt, sicut ab his tradi-
tum est, qui ab Arabico sinu in Atlanticum mare et ad columnas Herculis naviga-
runt».
30 Cfr. TATEO, L’etica umanistica cit.
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et haec est nostra, ut scis, parenthesis: sic enim rex Federicus appellare solebat»:
GALATEI Liber de situ elementorum cit., p. 15.
32 «Imprimis assero rationem Achilleam, quam ipse rex Federicus pro ingenii
condo cui l’Oceano circonderebbe tutta la terra emersa e non viceversa, trova un au-
torevole precursore nell’agostiniano Jaime Pérez de Valencia († 1490), che nelle sue
Expositiones in CL Psalmos dedicate a Rodrigo Borgia, il futuro Alessandro VI,
stampate a Valencia nel 1484, ma composte tra il 1478 e il 1480, asseriva: «Oceanus
non circuit totam terram, ut vulgares putant, ymo clauditur undique montibus, nam
litora eius orientalia et etiam meridionalia sunt nobis nota, licet occidentalia et aqui-
lonaria sint ignota; sed multe et vaste insule reperte sunt a nautis versus occasum; nec
enim multum distant litora occidentalia eius, secundum Aristotelem in fine secundi
De caelo»; ma diversamente dall’umanista salentino egli riteneva, concordemente
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con le Scritture e col profeta Esdra che «Nec mare est maius terra, ut quidam putant,
ymo terra est maior in spacio septies quod omnia maria, ut legitur in tercio libro E-
sdre capitulo vi, ubi sic dicitur […]. Ex supradictis patet quod terra est maior omni-
bus maribus septupliciter, et tamen mare quod dicimus Oceanus est magnum et ex-
tensum per multos sinus et brachia, ut dictum est» (si cita da GIL, De Rubruc a Colòn
cit., pp. 427-428, note 29 e 30, che utilizza l’ed. di Lione del 1531): è quindi ben
comprensibile in tale varietà di opinioni il «fortasse» del Galateo (v. nota 26).
34 GALATEI Liber de situ elementorum cit., p. 18: il testo diverge solo per l’as-
senza di nondum dopo fide e per la presenza di an invece che aut da quello moder-
namente edito da F. JACOBY (PSEUDO-ARISTOTELE, Perì tês toû Neílou anabáseos, in
FGrHist, 646 F 1, pp. 195, rr. 22-24 e 198, r. 8); sull’attribuzione dell’opera ad A-
ristotele nota solo attraverso la traduzione latina, sulla diffusione di quest’ultima in
età medievale e umanistica e sulla sua importanza nel dibattito geografico sulla cir-
cumnavigabilità dell’Africa si rinvia a DE NARDIS, Aristotelismo e doxografia anti-
ca cit., e alla bibliografia ivi cit.
35 GALATEI Liber de situ elementorum cit., p. 18 (= ARISTOTELE, Meteorologi-
ca, 353b).
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delle colonne d’Ercole confina con quella dell’India, e che in tal modo il
mare è uno solo. Essi affermano questo ritenendo che ne siano un indizio
anche gli elefanti, la cui specie si ritrova nelle due regioni estreme; e que-
sto accadrebbe in quanto i due estremi si toccano. […] Argomentando sul-
la base di tutti questi elementi, abbiamo che non solo la mole della terra ri-
sulta di necessità sferica, ma anche che essa non è grande, se la si raffron-
ta alla dimensione degli altri astri»36.
Certo Galateo ben conosceva quel passo del De caelo, che è opera am-
piamente utilizzata nella stesura del De situ elementorum, ma in questa oc-
casione volutamente ‘dimenticata’, e sapeva bene perciò che richiamarsi ai
testi aristotelici, in contrasto tra loro, non avrebbe potuto fornire un appi-
glio sicuro. E non lo convinceva neppure l’opinione dei geografi antichi,
quali ad esempio Mela e Plinio, ripreso, quest’ultimo anche da Marziano
Capella, che avevano con maggior vigore confortato l’idea del collegamen-
to tra i due mari. L’umanista infatti, pur affermando che concorderebbero con
l’ipotesi riportata da Aristotele le idee di costoro – che tuttavia non nomina
in modo esplicito («Nec me latet nonnullos ex veteribus esse, qui hoc ipsum
sentiant») –, i quali «asserant testes quosdam e Mauritania et Gadibus sol-
visse atque ad Rubrum mare et Arabiam et ex Arabia in Gaditanos fines, cir-
cumlustrata tota fere Africa, pervenisse et rostra aliaque fragmenta Lusitana-
rum navium reperta fuisse in Arabico sinu»37, finiva poi per avvertire l’indi-
lazionabile esigenza di richiamarsi ancora una volta alla propria esperienza di
vita per cercare di dirimere una questione lasciata sostanzialmente irrisolta
dagli antichi. Le testimonianze a favore della circumnavigabilità, che il Ga-
lateo aveva pazientemente intercettato ed elencato, venivano infatti inesora-
bilmente invalidate dai pareri contrari, altrettanto noti e autorevoli che l’u-
manista non riferisce, ma che certamente nel corso della discussione erano
stati sottoposti al vaglio degli interlocutori. In verità quelle testimonianze si
fondavano tutte, indistintamente, su notizie lontane e di seconda mano, intri-
se talora di racconti favolosi, e non sulle conoscenze dirette e sperimentate
degli auctores, e ciò ne inficiava ovviamente il valore probatorio38. Potrebbe
perciò a ragione esser sollevata, anche in questa circostanza, la corretta obie-
zione avanzata dall’umanista-scienziato nel De situ Iapygiae circa l’esisten-
za e l’azione di vampiri: «Mirum est: totum orbem invasit et in miseras erra-
vit fabula gentes, nullo certo auctore, nulla ratione, nullo experimento unus-
quisque credit quae neque vidit, neque vera sunt, stamus alienis et indoctissi-
morum hominum testimoniis [...] et plus fidei auribus, quam oculis adhibe-
mus»39. L’applicazione di una affidabile metodologia della conoscenza esige
perciò di attenersi solo a quanto si è sperimentato di persona e si conosce per
certo. Muovendo da tale presupposto la circumnavigabilità dell’Africa sem-
brerebbe avvalorata, secondo l’umanista, dalla qualità delle merci importate
da alcuni navigatori portoghesi da poco («nuper») ritornati, a loro detta, dal
Mare Indiano e dal golfo della Colchide, l’importante centro commerciale
dell’Oriente, e dal giudizio, autorevolissimo, del genovese Giorgio Interiano,
che aveva dimorato a Napoli, in casa del Sannazaro, mentre il Galateo anda-
va componendo il De situ elementorum. Ora, il passo dell’opuscolo galatea-
no che ci consegna queste informazioni è molto simile ad un altro attestato in
un’operetta di analogo contenuto scientifico, tramandataci da un manoscritto
appartenuto ad Angelo Colocci. Il codice, miscellaneo, accorpa scritti diver-
si, che sarebbero dovuti servire all’umanista marchigiano per comporre una
mai realizzata opera De mensuris. Non si conosce l’autore del De situ ele-
mentorum colocciano40, e incerta è anche l’identificazione della mano del co-
pista dell’opuscolo, nella quale Tateo individua, con qualche riserva, quella
del Pontano41. Ma in questa sede importa non tanto tornare sul difficile pro-
blema dell’attribuzione, quanto analizzare i parallelismi esistenti tra le due te-
stimonianze, per meglio rilevare i tempi e i modi della ricezione delle sco-
perte geografiche presso la corte aragonese.
39 GALATEI Liber de situ Iapygiae cit., p. 116. Il lungo passo, nel quale vengo-
42 Brano parzialmente già citato in TATEO, Gli studi scientifici cit., nota 9, p. 137.
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43 Si vedano il Diario del secondo viaggio e il Diario del terzo viaggio pub-
blicati in Nuovo Mondo. Gli Italiani. 1492-1565, Torino 1991, pp. 32 e ss.
44 «E credo che nessuno potrà mai raggiungere la vetta come ho già detto, e
credo che quest’acqua possa scaturire proprio da quel luogo per quanto lontano e
poi sfociare là da dove io vengo, formandovi questo lago. Grandi indizi del Paradi-
so terrestre sono questi, perché tale sito è conforme all’opinione di questi santi e sa-
cri teologi»: COLOMBO, Diario del terzo viaggio, in Nuovo Mondo cit., pp. 65, su cui
cfr. CROVETTO, «Andando más, más se sabe» cit., pp. 410-411; M.L. FAGIOLI CI-
PRIANI, Cristoforo Colombo. Il Medioevo alla prova, Torino 1985, pp. 179-184; per
l’identificazione del Paradiso terrestre v. la successiva nota 73.
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I, Torino 1978, pp. 619-653. Secondo von Humboldt sarebbe stato Diogo Dias, che
aveva fatto parte anche della precedente spedizione di Vasco de Gama, e non il fra-
tello Bartolomeo, che nel 1487 aveva solo scoperto il Capo, a «doppiare» per primo
«il Capo di Buona Speranza e a costeggiare l’estremità australe dell’Africa da est
verso ovest», VON HUMBOLDT, L’invenzione del Nuovo Mondo cit, p. 166, nota 50.
48 Si vedano le lettere di Mestre João, la relazione di un pilota anonimo (è l’au-
vatoci dal codice colocciano richiede forse una breve ulteriore postilla. Si è
detto dello stretto rapporto che lega quel testo alla figura del Pontano, ma
non mi sembra che ne sia stata posta sufficientemente in evidenza la rela-
zione con le già ricordate testimonianze pontaniane del XIV libro del De re-
bus coelestibus e del De hortis Hesperidum. Il riferimento alla conquista
spagnola delle Canarie e alla loro civilizzazione («Ispanique item alii For-
tunatis potiti sunt insulis ad easque civile cultum religionemque ac ritus
Christianos attulerunt») trova riscontro in quel «Quo sinu tempestate nostra
ab Hispanis enavigato, occupatis insulis, quae Fortunatae olim, nunc Cana-
riae ab illarum dicuntur maxima […] Nulli sunt apud Fortunatas insulas
rethores aut iuris consulti, scilicet quod nullae iis in insulis sint respubli-
cae, literae nullae, leges item quae scripto sanciant nullae, neque aliis
quam naturae ipsius institutis vivant insularum earum incolae» del De re-
bus coelestibus51; ma sicuramente più interessante è il raffronto con la nar-
razione della spedizione portoghese contenuta nel De hortis Hesperidum:
innanzitutto il comune uso del pontaniano Caletii («a nautis […] Calaetiis»
e «a Calaetiis ipsis occupatis», De situ elementorum; «Callaetia pubes», De
hortis Hesperidum, I, 346) per indicare i Portoghesi52, e poi la descrizione
stessa del viaggio: la rotta verso Sud-Ovest dopo la partenza dal Portogallo
(«classem […] in altum digressam longius, […] inter occasum meridiem-
que iter tenuisse […] procul a terrarum omnium conspectu, traiecta aequi-
noctiali linea, quae Aethiopiam secat mareque aethiopicum, sinum ultra
Hesperium53, delatamque a ventis esse lineam versus Capricorni, quippe
cum septemtriones atque arcticas stellas plurimos interim dies nullo modo
prospexerint», De situ elementorum; «Nuper enim Hesperio oceano Calle-
tia pubes / digressa […]. Hinc Austro approperans coeloque intenta caden-
ti / sideraque adverso servans labentia mundo / incidit obscurum gelidi Ae-
gocerotis in orbem attonita et rerum novitate et umbra locorum», De hortis
Hesperidum, I, 351-354), e quindi l’inversione di direzione per risalire lun-
go la costa orientale dell’Africa fino all’India («conversis proris, tenuisse i-
ter ad aethiopicum Africaeque exterioris litus […] sensimque conspectis
septemtrionibus ac coelo arctico, relicto aethiopico litore, indicum mare in-
gressam maximoque enavigato pelago delatam esse Colicutos. [...] Igno-
rasse Ptolemeum inter Prassum, Aethiopiae promontorium, et Catigora, Si-
narum oppidum», De situ elementorum; «inde pedem referens Prassi con-
51 Si cita dai testi riportati nei saggi di TATEO, Gli studi scientifici cit., nota 9,
v. MONTI SABIA, Echi cit., p. 285, nota 9: la denominazione risale tuttavia a Tolo-
meo (Geographia, 4, 6, 1-2).
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54 Cfr. VON HUMBOLDT, L’invenzione del Nuovo Mondo, cit, p. 184; «[Marino
I, pp. 607-617.
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58 Galateo in questa fase di elaborazione del suo opuscolo mostra di non aver
tentennamenti nel perpetuare l’intoccabile dogma (cfr. a riguardo PLINIUS, Natura-
lis historia, 2, 172), relativo all’impraticabilità della cosiddetta zona torrida: v.
BROC, La geografia cit., pp. 63-64, e tra le testimonianze avverse a quel dogma ad-
dotte dai moderni navigatori, quella, ad es., di Diogo Gomes citata in SURDICH, L’A-
frica cit., pp. 211-213 e la precedente nota 8. Sulla questione e sulle opinioni degli
auctores su di essa, riprese e sintetizzate da Alberto Magno nel De natura locorum,
il quale ribadiva l’impossibilità di pervenire agli antipodi, sebbene suggerisse la
possibilità che la zona torrida fosse abitabile, cfr. VON HUMBOLDT, L’invenzione del
Nuovo Mondo cit, pp. 39-40, e RICO, Il Nuovo Mondo cit., p. 583.
59 Ecco come viene registrato l’arrivo a Lisbona, di ritorno da Calicut, della na-
ve di Nicolau Coelho, l’«Anunciada», che faceva parte della flotta di Cabral, in una
lettera del mercante fiorentino Bartolomeo Merchionni, armatore insieme con altri
italiani dell’imbarcazione, contenuta in un codice appartenuto a Pietro Vaglienti
(Riccardiano 1910): «Dicevisi p(er) l’ultima nostra chome delle charovelle che an-
donno al viaggio di Chalicut n’era tornata una, e p(er) esa vi si mandò el charicho
suo. Dipoi delle cinque restate adietro n’è tornate 3, l’altre sono pure, e queste àn-
no rechate chant(ar)a 3000 di pepe e chant(ar)a 1000 di chanella e gengavo e ghe-
rofani e altre spezierie, i·modo che qui si stima abbi a fornire p(er) questa via tuto
‘l Ponente e anche chol tenpo l’Italia, e che abbi a dare una gran·noia a’ Veneziani,
e vie più al Soldano», c. 484ra: si cita da L. FORMISANO, La geografia dei mercan-
ti nella compilazione di Piero Vaglienti, in Columbeis V cit., pp. 241-256: 255; e
cfr. Navigazion cit., p. 652.
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in consulatu collegae, sed tum Galliae proconsuli, Indos a rege Sueborum dono da-
tos, qui ex India commercii causa navigantes tempestatibus essent in Germaniam
abrepti. Sic maria circumfusa undique dividuo globo partem orbis auferunt nobis,
nec inde huc nec hinc illo pervio tractu»: PLINIUS, Naturalis historia, 2, 170. È evi-
dente che Galateo, forse citando a memoria, abbia confuso la testimonianza di Pli-
nio con quella assai simile di Pomponio Mela, Chorographia, 3, 44-45: «ultra Ca-
spium sinum quidnam esset ambiguum aliquamdiu fuit, idemne oceanus an tellus
infesta frigoribus sine ambitu ac sine fine proiecta. Sed praeter physicos Homerum-
que qui universum orbem mari circumfusum esse dixerunt Cornelius Nepos ut re-
centior, auctoritate sic certior; testem autem rei Quintum Metellum Celerem adicit,
eumque ita rettulisse commemorat: cum Galliae pro consule praeesset, Indos quo-
sdam a rege Botorum [sed alii Boiorum] dono sibi datos; unde in eas terras deve-
nissent requirendo cognosse, vi tempestatium ex Indicis aequoribus abreptos, e-
mensosque quae intererant, tandem in Germaniae litora exisse»: sulla testimonian-
za cfr. VON HUMBOLDT, L’invenzione del Nuovo Mondo cit, pp. 328-329.
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rivela come l’umanista non tenesse nel debito conto la necessità di tacere
sulla nuova rotta e di sviare ad arte le notizie su di essa, prima che i Porto-
ghesi l’avessero ulteriormente sperimentata e avessero occupato strategica-
mente gli scali più funzionali ad una sicura e continua navigazione verso
l’India. È quanto immancabilmente avvenne subito dopo l’impresa di Ca-
bral, quando le spedizioni si susseguirono a cadenza annuale: «João de No-
va nel 1501, Vasco de Gama nel 1502, Francisco de Albuquerque, Alfonso
de Albuquerque e Antonio Saldanha nel 1503, Lopo Soares nel 1504 [...]
Dal 1502 si tratta di flotte da guerra: rendendosi conto che l’Oceano India-
no è dominato nei suoi scambi marittimi dai mercanti arabi, e che la spera-
ta presenza cristiana vi è inesistente, i Portoghesi ricorrono immediatamen-
te alla forza, cercano di procurarsi l’esclusiva dell’importazione di spezie in
Europa, bloccando il Mar Rosso: compiti commerciali e militari si assom-
mano nelle persone degli Albuquerque, dei Saldanha, dei Soares»62. Ed è
proprio questa situazione di maggiore instabilità di rapporti politico-milita-
ri che il Galateo puntualmente sottolinea nella breve integrazione al testo
dell’opuscolo, precocemente invecchiato nel giro di pochi anni. Le tesi co-
sì fermamente sostenute fino al 1500-1501 risultavano infatti definitiva-
mente obsolete e pericolosamente false e ingannevoli negli anni immedia-
tamente successivi. Il De situ elementorum, composto, per affermazione del
suo stesso autore, durante il regno di re Federico e «divulgato» nell’ultimo
anno di vita del sovrano napoletano, il 150463, registra nell’estrema postil-
la la fine di un dominio politico, quello aragonese, e di un predominio in-
tellettuale, quello di Tolomeo, e segna, più in generale, la crisi della fede dei
moderni nel pensiero cosmologico antico. Alla scoperta, ormai certa – i
so noto il suo opuscolo «postremo anno Federici regis», ha diviso sul problema del-
la datazione gli studiosi galateani, intentendo taluni quell’anno quale l’ultimo di re-
gno del sovrano (1501), altri, invece, quale l’ultimo della sua vita (1504): per un e-
lenco di quanti abbiano sostenuto, con diverse e motivate argomentazioni, le diver-
genti posizioni rinvio a ANDRIOLI NEMOLA, Catalogo cit., pp. 205-210, cui è da ag-
giungere la proposta di TATEO, Gli studi scientifici cit., nota 11, pp. 138-139, il qua-
le propende per il 1501. La data del 1504 mi sembra possa meglio accordarsi con il
riferimento a quegli scontri bellici che le testimonianze coeve dicono sì avvenuti a
partire dalla spedizione di Cabral, ma che si intensificarono sensibilmente negli an-
ni successivi, e di cui si è conservato il lucido ricordo anche nell’episodio del viag-
gio di Astolfo nel paese del Prete Gianni narrato nel Furioso (33, 102 e ss.), su cui
v. SURDICH, L’Africa cit., p. 201; MILANESI, Tolomeo sostituito cit., pp. 235-251; A.
CARACCIOLO ARICÒ, Da Cortés a Colombo, da Ariosto a Tasso, in Il letteraro tra mi-
ti e realtà del Nuovo Mondo: Venezia, il mondo iberico e l’Italia, a cura della stes-
sa, Roma 1994, pp. 131-139.
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Portoghesi, dice l’umanista, si sono spinti fino alla lontana e mitica isola di
Taprobane64 –, è immediatamente seguita la conquista, sicché il Galateo
non manca di riportare la notizia recentissima degli scontri militari verifi-
catisi all’imboccatura dei golfi arabico e persiano tra l’armata portoghese e
la flotta dei potentati arabi di Egitto e Siria, detentori, fino ad allora, del
commercio con l’oriente in quel tratto di mare. Nel 1505 Francisco de Al-
meida sarà nominato primo viceré dell’India portoghese e nel 1510 gli suc-
cederà nel prestigioso incarico quell’Alfonso de Albuquerque che, per pri-
mo, tra il 1503 e il 1504, aveva cominciato a consolidare con la forza delle
armi la nuova rotta65. Sebbene fosse anch’essa sottoposta a revisione, la
parte più strettamente dimostrativa del De situ elementorum non offre ulte-
riori spunti polemici.
Nel 1504 la scoperta delle nuove realtà geografiche è ormai un dato
acquisito alla cultura scientifica del Galateo, al punto che egli ne parla sen-
za riserve e la porta a sostegno delle proprie tesi senza più discuterla. Ac-
certata è la navigabilità dell’Oceano occidentale, giornalmente solcato dal-
le navi spagnole dirette in America, avviata è ormai l’esplorazione della fa-
volosa isola dell’Oceano Indiano, Taprobane, la moderna Ceylon, e smen-
tita è stata l’opinione di quanti, fra cui lo stesso Colombo, avevano ritenu-
to che le terre sopravanzassero di molto il mare: sembrerebbe vero invece il
contrario e in tal caso l’esperienza avrebbe dato ragione ad una convinzio-
ne largamente diffusa tra gli auctores, a iniziare dallo stesso Tolomeo. Non
stupisce quindi che, nella sezione finale del trattato, quasi in un crescendo,
l’umanista giunga a ridicolizzare le assurde affermazioni di Alberto di Sas-
sonia sull’invalicabilità delle colonne d’Ercole richiamandosi non più ai
verba degli antichi, che non conoscevano, ma alle res dei moderni naviga-
tori, che invece hanno sperimentato e sanno: «Addit et quoddam dictum ri-
diculum, ab Hercule positas fuisse columnas ne quis navigaret mare, quod
ipse appellat impermeabile. Nescio quid sibi velit. Hic quoque hi loque-
bantur de mundo (parcant mihi manes illorum) ac si non fuissent in mundo.
Nam quotidie audimus Hispanos navigare per multa millia stadiorum, seu
passuum, seu leucarum, ut mos est Gallis et Hispanis appellare»66. La
schiacciante vittoria delle res sui verba potrebbe tuttavia lusingare al punto
da far riporre cieca fiducia nell’experientia e da far identificare con essa
tout-court la scientia. È per evitare questo sottile inganno che l’umanista la-
scia invariato nella stesura ultima i termini di una discussione di dati e di
fonti a prima vista inutile perché chiaramente smentita nelle sue conclusio-
ni iniziali dall’incalzare degli eventi. Mantenendo un atteggiamento appa-
rentemente sviante il Galateo vuole non rinunciare aprioristicamente a mi-
surarsi con la modernità in nome di una fede mal riposta nell’antico, ma
piuttosto ammonire i lettori ad esercitare sempre e in qualsiasi circostanza
la facoltà di critica, perché se «negare il senso per la ragione è mancar di
ragione», è altrettanto riprovevole il contrario. La critica costruttiva, che
conduce alla vera scientia non passa quindi attraverso il feticistico salva-
taggio dell’antica auctoritas, ma sa accortamente valersi di essa pur non ri-
nunciando all’idea di progresso. Il Galateo si pone perciò sulla stessa linea
operativa seguita dal Silvano, che riuscì ad aggiornare Tolomeo senza però
negarne l’autorevolezza, e scrivendo il De situ elementorum volle puntua-
lizzare e umanisticamente esaltare la funzione degli auctores: gli antichi so-
no in ogni caso da anteporre ai teorici dell’età di mezzo, i cui errori furono
generati dall’ignoranza delle opere del mondo classico, ma devono essere
anche essi costante oggetto di rilettura, di verifica e di reinterpretazione67.
Se si tien presente questo orizzonte culturale ed ideologico entro cui si
formò l’uomo del Rinascimento, non sorprende né l’ostinata ricerca con-
dotta da Colombo per rintracciare negli auctores elementi che avallassero e
provassero la sua felice intuizione e la scoperta del Mondo Nuovo, né l’af-
fannosa e appassionata rilettura dei testi dei geografi e dei filosofi greci e
latini nei quali anche il Galateo, in quegli stessi anni, tentava di individua-
re una traccia, un segnale dell’inedito assetto del globo terracqueo proposto
dai moderni. A parte la grave svista di Tolomeo, l’errore dei moderni, sem-
bra suggerire l’umanista, è stato quello di prestare maggior credito alle te-
stimonianze classiche che concordassero con il pensiero della scolastica,
piuttosto che soffermarsi a soppesare obiettivamente le ragioni, ad esempio,
sostenute da Plinio e da Mela. In tal modo il pensiero antico si riappropria,
in virtù di una più attenta azione di analisi, libera da svianti sovrastrutture,
del suo ruolo di guida che il Galateo, in perfetta sintonia con gli ideali pro-
posti dal movimento umanistico non può e non vuole né rinnegare, né di-
sconoscere.
2. L’orizzonte etico
Letteratura italiana, dir. da A. ASOR ROSA, V, Le questioni, Torino 1986, pp. 687-713.
70 M. MASOERO, I mostri nella letteratura della scoperta, in Disarmonia, brut-
tezza e bizzarria nel Rinascimento, (Atti del VII Convegno Internazionale, Chian-
ciano-Pienza, 17-20 luglio 1995), a cura di L. SECCHI TARUGI, Firenze 1998, pp.
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Milano 1991; CROVETTO, «Andando más, más se sabe» cit.; SURDICH, Verso il Nuo-
vo Mondo cit.
73 Si rinvia a A. GRAF, Il mito del Paradiso terrestre, in Miti, leggende e su-
perstizioni del Medio Evo, rist. Bologna 1985 (Torino 1892), pp. XI-XXIII, 1-238
(riedizione incompleta a cura di G. BONFANTI, Milano 1984); L. OLSCHKI, Storia let-
teraria delle scoperte geografiche, Firenze 1937; A. GERBI, La natura delle Indie
Nove. Da Cristoforo Colombo a Gonsalo Fernandez de Oviedo, Milano-Napoli
1975; S. FASCE, Colombo, il Paradiso terrestre e Mircea Eliade, in Columbeis I, Ge-
nova 1986, pp. 199-205; M. CENTANNI, Da Aristotele ai confini del mondo: Ales-
sandro o dell’inveramento della meraviglia, «Strumenti critici», n.ser., 3 (1988), pp.
249-255; M. MIGLIO, Il giardino come rappresentazione simbolica, in L’ambiente
vegetale nell’Alto Medioevo, II, Spoleto 1990, pp. 709-724; G. TARDIOLA, Cristofo-
ro Colombo e le meraviglie dell’America. L’esotismo fantastico medievale nella
percezione colombiana del Nuovo Mondo, Roma 1992; F. SBERLATI, Esplorazione
geografica e antropologia: esperienze di viaggio tra ’400 e ’500, in L’Odepori-
ca/Hodoeporics: on Travel Literature, a cura di L. MONGE, «Annali d’Italianistica»,
14 (1996), pp. 183 e ss.; G. BOGLIOLO BRUNA, Paese degli iperborei, ultima Thule,
Paradiso terrestre, in Columbeis VI cit., pp. 161-178; MILANESI, Tolomeo sostituito
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cit.; F. CARDINI, Alla cerca del Paradiso, in Columbeis V cit., pp. 67-88. Cfr., per le
opinioni dell’Ammiraglio, COLOMBO, La storia del viaggio cit., in COLOMBO, Gli
scritti cit., pp. 220-221; GIL, Miti e utopie della scoperta cit., pp. 142-154; CRO-
VETTO, «Andando más, más se sabe» cit., pp. 411-413.
74 Cfr. GIL, Miti e utopie della scoperta cit., p. 69 e ss.; SURDICH, I riflessi del-
la scoperta sulla realtà europea, in SURDICH, Verso il Nuovo Mondo cit.; L’Ameri-
ca tra reale e meraviglioso cit.; Il letterato tra miti e realtà del Mondo Nuovo. Ve-
nezia, il mondo iberico e l’Italia, a cura di A. CARACCIOLO ARICÒ, Roma 1994;
L’impatto della scoperta cit.; Temi colombiani, Roma 1988; Il Nuovo Mondo tra
storia e invenzione. L’Italia e Napoli, a cura di G.B. DE CESARE, Roma 1990; E-
spaña e Italia: un encuentro de culturas en el nuevo mundo, (Atti del Colloquio I-
talo-Spagnolo, Barcellona, 20-22 aprile 1989), Roma 1990; Firenze e la scoperta
dell’America: umanesimo e geografia nel ‘400 fiorentino. Catalogo della mostra,
Firenze 1992, a cura di S. GENTILE, Firenze 1992; L’impatto della scoperta dell’A-
merica nella cultura veneziana cit.; Uomini dell’altro mondo. L’incontro con i po-
poli americani nella cultura italiana ed europea, (Atti del Convegno di Siena, 11-
13 marzo 1991), Roma 1993; Andando más más se sabe, (Atti del Convegno Inter-
nazionale «La scoperta dell’America e la cultura italiana», Genova, 6-8 aprile
1992), a cura di P.L. CROVETTO, Roma 1994.
75 Cfr. la precedente nota 12; l’epistola al sovrano spagnolo è pubblicata in DE
ti dagli esiti dei viaggi oceanici e delle scoperte76. L’epistola al Cattolico ri-
maneva invece agganciata alla raccolta di lettere perché, pur risalendo alla
comune matrice dei progressi geografici compiuti dagli Spagnoli, approda-
va poi ad una dimensione ideologica ben più articolata, che la sottraeva per-
tanto ad una lettura scientifica tout-court. D’altra parte anche l’intervallo
cronologico che separa questi opuscoli (1494 ca. il De situ terrarum77; 1504
il De Hierosolymitana peregrinatione; 1510 l’epistola Ad Catholicum re-
gem Ferdinandum) riflette una diversa messa a fuoco del problema geogra-
fico-politico imputabile più che a incoerenza o a volubilità dell’autore, ad
una sua rassegnata accettazione dei mutati equilibri di potere. Le tre epi-
stole, concepite con finalità senz’altro diverse, dirette a tre distinti destina-
tari, finiscono col canalizzare le loro argomentazioni verso un unico obiet-
tivo, che ci aiuta a recuperare i meccanismi interpretativi adottati dal Gala-
teo nell’esposizione di fatti e vicende solo apparentemente slegati tra di lo-
ro. Il De situ terrarum, anch’esso diretto al Sannazaro, come il De situ ele-
mentorum, registrava una dotta discussione avvenuta a corte alla presenza
di Federico, fratello del re Alfonso II e valoroso ammiraglio della sua flot-
ta, il quale prendendo spunto dall’esame di un recente portolano e avvalen-
dosi di una sicura esperienza nell’arte nautica, oltre che del prezioso baga-
glio di una raffinata cultura umanistica, aveva introdotto una vivace dispu-
ta sulla discussa distribuzione delle terre in rapporto alle acque. Il tema ri-
mandava esplicitamente alla ridefinizione delle concezioni classiche rimo-
dellate sull’apporto della moderna experientia e relegava nell’ambito delle
favole antiche il mitico racconto della penetrazione di Oceano, attraverso le
Colonne d’Ercole, fin nella più interna Propontide, variamente accolto ed e-
laborato da una tradizione classica alla quale il Galateo non voleva rinun-
ciare pur riconoscendone ovviamente l’infondatezza scientifica. Così come
non si sottraeva alla tentazione di segnalare, sia pure rapidamente, la inve-
rosimile esistenza della mitica Atlantide platonica78. Ma se l’orizzonte mi-
tologico esaurisce tutto lo spazio conosciuto e conoscibile entro i confini
delle terre percorribili e degli oceani navigabili, riducendo sempre più l’im-
maginario geografico in precise coordinate cartografiche, topografiche e to-
ponomastiche, si ingigantiva, per contrappeso quasi, la dimensione mitica
della ritrovata età dell’oro, in cui le nuove terre sembravano felicemente im-
merse79. È estremamente significativo infatti che il Galateo, dopo aver e-
spresso un convinto elogio dell’ardire umano e dei navigatori che osarono
compiere un’impresa veramente degna di memoria, si soffermi poi ad in-
terrogarsi sull’effettivo vantaggio che quelle genti ritrovate avrebbero trat-
to dal contatto con la civiltà: «Macti virtute viri et memoratu dignissimi, de
nobis et posteris benemeriti, ausi se credere ignoto et infinito pelago, ausi
penetrare illud nescio quid vastum et inana naturae! […] O macti iterum at-
que iterum virtute viri, facinus ausi magnum et memorabile! Sed nescio an
gentibus quas reperistis in bonum cessit»80. Un lungo passaggio è impiega-
to dall’umanista per tracciare con provocatoria lucidità i danni, gli inganni,
le simulazioni e gli equivoci che un’ambigua idea di progresso e di civilitas
possono contrabbandare in terre eticamente ancora vergini e presso popoli
il cui felice stato di natura è senz’altro preferibile alla dilagante corruzione
dei loro più civili scopritori81. Questa lamentatio, retoricamente costruita
na (v. GALATEO, Epistole, a cura di F. TATEO, cit., pp. 25-26), sebbene «il nome dei
naviganti» sia «studiosamente taciuto (probabilmente in uniformità a certi voleri po-
litici dei sovrani spagnoli)»: MONTI SABIA, Echi cit., p. 301, nota 65, cui si rinvia per
il rapporto tra l’epistola galateana e le testimonianze pontaniane, cui si è accennato,
sulla scoperta dell’America.
81 Cfr. TATEO, L’etica umanistica cit. La denuncia degli aspetti negativi legati
alla conquista spagnola trovano nel Galateo una precoce voce di dissenso, all’inter-
no di un panorama italiano nettamente filospagnolo; non a caso tale atteggiamento
dell’umanista salentino si affianca a quello antispagnolo sostenuto da alcuni am-
bienti europei, soprattutto francesi, in cui le accuse di un Las Casas, la cui Historia
de las Indias fu avviata nel 1527, avrebbero avuto ampia eco, e precede invece di
poco più di un decennio la analoga posizione assunta dal contemporaneo storico ge-
novese Agostino Giustiniani (Psalterium, Hebraeum, Graecum, Arabicum et Chal-
deum cum tribus latinis interpretationibus et glossis, Genova 1516) e di alcuni de-
cenni la dura «critica ai sistemi di colonizzazione impiegati nel Nuovo Mondo, che
costituisce il motivo dominante nel testo della ‘Historia’» di Girolamo Benzoni (G.
BENZONI MILANESE, La historia del Mondo Nuovo, Prefazione e note a cura di A.
VIG, Milano 1965, p. XIII): cfr. su tali aspetti ROMEO, Le scoperte americane cit.,
pp. 39-62, 87 e ss.; M. LANIERI, Colombo e la Spagna nell’opera di Agostino Giu-
stiniani, in Columbeis V cit., pp. 565-590: 579; SURDICH, Verso il Nuovo Mondo cit.,
pp. 111 e ss. e 190 e ss.; G.B. DE CESARE, Il Mezzogiorno d’Italia nella disputa sul
Nuovo Mondo, in Il Nuovo Mondo tra storia e invenzione cit., pp. 235 e ss.; G. BEL-
LINI, Las Casas, Venezia e l’America e L. SILVESTRI, Lo sguardo antropologico di
Girolamo Benzoni, in Il letterato tra miti e realtà cit., pp. 39-59 e 491-502.
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82 «Vereor ne, dum vos ad cultiorem vitam illos ducere creditis […] afferre cu-
ratis, ingeratis simul et nostra vicia. […] Nec deerit in tam magno populo aliquis,
cui a natura ingenii lumen insitum sit (homines enim sunt) cognoscatque ab exter-
nis non tam cultos mores quam depravatos»: GALATEO, De situ terrarum cit., pp. 66-
68; e cfr. A. GIUSTINIANI, Psalterium cit.: «Mittit Hispania iam sua in innocuum or-
bem venena, oneratur plurima et serica et aurata veste, et cui non satis erat de hoc
nostro orbe triumphasse, navigat in puros et innocuos populos luxus» (si cita da LA-
NIERI, Colombo e la Spagna cit., p. 579, nota 43).
83 «Vere fortunatae gentes et, ut ait Horatius [Epod. 16, 41-48], beatorum in-
sulae, suis contentae rebus, aurea vivebant secula», GALATEO, De situ terrarum
cit., p. 66. Cfr. su tali aspetti in generale ROMEO, Le scoperte americane cit., p. 27
e ss.; T. J. CACHEY JR., Le Isole Fortunate nella storiografia di scoperta del Cin-
quecento, in Le Isole Fortunate. Appunti di storia letteraria italiana, Roma 1995,
e per la figura del Galateo il cap. Diagnosi del potere nell’oratoria di un medico,
in TATEO, Chierici e feudatari del Mezzogiorno cit., pp. 3 e ss.; ANTONIO DE FER-
RARIIS DIT GALATEO, De educatione (1505), a cura di C. VECCE-P. TORDEUR, Lo-
vanio 1993. Risalta ancor più l’eccentrica autonomia della posizione del Galateo
se confrontata con quella corale encomiasticamente volta a dichiarare i valori del-
la conquista spagnola rilanciata, ad esempio, anche dall’anonimo estensore del De
situ terrarum colocciano: sebbene le «isole fortunate» designino nei due testi
realtà geografiche diverse – l’America per l’uno, le isole Canarie per l’altro – è
tuttavia analogo il processo di assoggettamento e di acculturazione di popolazio-
ni primitive interpretato positivamente nel manoscritto del Colocci: «Ispanique i-
tem alii fortunatis potiti sunt insulis, ad easque civile cultum religionemque ac ri-
tus Christianos attulerunt», cui fa eco la voce neutra del Pontano, il quale si limi-
ta a registrare poeticamente lo stato di primitiva beatitudine in cui si sarebbero tro-
vate a vivere le Canarie, senza produrre giudizi sulla conquista: v. De rebus coe-
lestibus, l. XIV, ed. cit., c. V8r; De aspiratione, Napoli 1481, c. 7v (citati in MON-
TI SABIA, Echi cit., pp. 294-296).
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pur accortamente sottaciuto, della posizione che egli assumeva nella premessa alla
narrazione del dibattito de situ terrarum – anche qui il cantuccio che l’autore si ri-
servava per manifestare la sua opinione è il luogo già privilegiato da Seneca (Natu-
rales quaestiones, 3, Praef., 7 e 10) –, un interessante spunto per la descrizione del-
l’azione della Fortuna contenuta anch’essa all’interno di un contesto squisitamente
geografico e programmaticamente collocata, per il suo condizionante valore etico,
in apertura del De situ Iapygiae cit., p. 11; i luoghi in cui Plinio e Cicerone legano
la meditazione sulla precarietà dell’azione umana sottoposta all’incessante azione
della fortuna e sulla finitezza e sulla vanità della gloria terrena, ponendola in rap-
porto contrastivo con la piccolezza del mondo abitato e inserendola, anche in que-
sto caso, in contesti di tipo cosmografico, sono quel passaggio della Naturalis hi-
storia in cui si parla della divinità, dopo aver illustrato le plaghe del mondo (2, 22),
e quei capitoli della parte conclusiva del sesto libro della Repubblica ciceroniana,
tramandataci da Macrobio col titolo di Somnium Scipionis e già utilizzata da Pe-
trarca nell’Africa per il suo ‘Magone morente’, in cui l’illustrazione dell’ecumene
introduce e precede la serrata meditazione etica (6, 20 e ss.). Seneca fornisce quin-
di con la sua opera argomentazioni utili a persuadere Colombo della fattibilità del-
l’impresa (e anche qui in una Prefazione, quella al primo libro: v. nota 24), ma an-
che a indirizzare l’uomo ad un corretto uso delle più ampie conoscenze cui pervie-
ne e del potere e delle ricchezze che da esse derivino.
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nuovo mito: quello del buon selvaggio85. Qui si possono leggere solo le pre-
messe di un discorso destinato ad arricchirsi e a complicarsi notevolmente
nelle scritture storiche posteriori, ma è già molto importante individuare in
questa fase cronologica (1494 ca.) il referente classico, cui il Galateo si i-
spira, e il referente politico, sul quale si ribalta la condanna della falsa ci-
viltà. I re spagnoli, ai quali pur si fa risalire il merito delle scoperte, diven-
tano poi l’implicito bersaglio della polemica invettiva contro la devastante
degenerazione di un costume etico e politico che proprio nella Spagna tro-
vava la sua matrice. Sebbene infatti in queste pagine del De situ terrarum il
circostanziato catalogo di vizi e nefandezze non assuma una chiara identità
politica e geografica, stemperandosi preferibilmente nella più vaga e uni-
versale criminalizzazione della civilitas, in altre opere successive, come il
De educatione e l’Espositione del Pater Noster, quell’identico repertorio di
mali morali, di degenerati costumi sociali, di perfidi atteggiamenti compor-
tamentali, di vacue millanterie militari diventerà il codificato schema de-
scrittivo per qualificare inequivocabilmente gli Spagnoli86. Per ora all’uma-
nista importava essenzialmente smascherare i limiti di una civilitas che si
riappropriava integralmente del suo primato solo nella sfera della cono-
scenza, nella duplice valenza di sapientia ed experientia e della virtus nel
duplice livello di areté e téchne, ma cedeva inesorabilmente di fronte al-
l’intatta società primitiva. Con un prestito virgiliano l’autore faceva escla-
mare ad un indigeno più dotato degli altri: «Felice, ah troppo felice, se nem-
meno le sponde / della nostra terra avessero mai navi straniere toccato»87.
Chiuso il problematico excursus prendeva la parola l’Acquaviva, che ricon-
duceva il percorso della discussione nel solco più consueto e scientifica-
mente più rigido della esatta collocazione di terre ed acque.
Alcuni anni dopo, intorno al 1504-1505, si era appena compiuto il de-
stino della dinastia aragonese e l’infelice Regno di Napoli era ormai ridot-
to a semplice Viceregno, sul quale incombeva l’inquietante fantasma del
dominio spagnolo. Il Galateo, che da quella terribile vicenda usciva parti-
colarmente frustrato e avvertiva fino in fondo l’umiliazione politica e l’ap-
piattimento morale e culturale che quella tragedia storica rappresentava
per la superstite accademia pontaniana, oltre che per lo smarrito ceto ba-
cit., pp. 106-108 e passim; ID., Esposizione del ‘Pater Noster’, in La Giapigia e va-
rii opuscoli di A. De Ferrrariis detto il Galateo, a cura di S. GRANDE, Lecce 1867-
1871, IV, pp. 149-238, XVIII, e 1-104 passim.
87 «Felix heu nimium felix, si littora tantum / externae nunquam tetigissent no-
stra carinae», VERG., Aen., 4, 658-659: GALATEO, De situ terrarum cit., pp. 68-69.
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89 «Scis noster Iason quantum tibi gloriae ex hac expeditione accedet: non e-
nim referes aureum vellus aut Medeam, veneficum scortum et truculentum, sed pa-
radysum, hoc est felicitatem et beatam vitam, et inter Christianos immortale nomen
et multarum rerum peritiam: qua in re, ut scis, maxime laudavit Homerus»: GALA-
TEO, De Hierosolymitana peregrinatione cit., pp. 77-78.
90 Cfr. F. BRAUDEL, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, I,
Torino 1986.
91 «Salve tellus sacra et veneranda mihi, divino Hippocrate cive nobilis et Ga-
races terras, quam Hispaniae aut Galliae pompas et vanitates»: ibid., p. 78.
93 «O mens mundi, o Dei patris sapientia, illumina mentes nostras, ut sapien-
vedrà impegnato insieme con i suoi sodali argonauti a combattere una dif-
ficile battaglia, quella dell’estrema difesa del primato della civiltà classica
e della purezza evangelica della chiesa cristiana94.
Con la terza epistola, quella Ad Catholicum regem Ferdinandum, scrit-
ta presumibilmente intorno al 1510 e comunque subito dopo la conquista di
Tripoli, alla quale si fa riferimento, la vis oratoria del Galateo muta decisa-
mente segno e imbocca una direzione del tutto inedita. Dal modulo scienti-
fico e mitologico si passa a quello storiografico. L’elogio di Ferdinando, re-
toricamente costruito sul topico schema del panegyricus, rappresenta un u-
nicum nel corso dell’epistolario e nella produzione letteraria dell’umanista,
per nulla incline a celebrare i potenti, tanto più se stranieri e spagnoli. Va su-
bito chiarito dunque che la mutata disposizione psicologica e l’inaspettato
atteggiamento ideologico registrano più che un opportunistico compromes-
so politico la coraggiosa dichiarazione di un suddito, che dopo aver ostina-
tamente negato il suo assenso quando le sorti del Regno di Napoli sembra-
vano poter ancora giocare un ruolo diverso ed aspirare alla restaurazione del-
la dinastia aragonese, riconosceva ora, di fronte alla ineluttabile forza degli
eventi, il legittimo dominio del Cattolico e si apprestava ad esaltarne i meri-
ti abbandonando l’ormai inattuale polemica antispagnola e riabilitando l’im-
magine di un popolo che si era riscattato grazie alla singola virtus di un uni-
co re, Ferdinando. Ma per quanto riconcigliatosi con la terra iberica, l’uma-
nista non intende rinnegare la gravitas italiana, tante volte contrapposta nel
passato alla vanitas degli stranieri95, e pertanto concepisce un esordio in cui
il nuovo punto di vista è programmaticamente affidato all’impegnativo rico-
94 «Haec litterarum quondam mater, conditore suo non magis quam architecti
industria celebris, Alexandrea. Haec est omnium occidentis populorum commune
emporium. […] Peragremus Idumeam et Palaestinam et terram illam fluentem lac et
mel, hoc est salutem animarum, nostrarum et virtutum omnium dulcissimos et salu-
berrimos fructus. […] Hinc, Aquevive, salutatis sanctis locis, redibimus sanctiores.
[…] Satis sit nobis vidisse sancta et nobilissima orbis loca, satis sit peregisse sacrum
iter, ut habeamus quod pueris senes narremus. In magnificis vero Hispaniarum et
Galliarum rebus stabimus relatui aliorum, quibus, quantum ipsi nobis, tantum nos
illis fidei adhibebimus. Tu, noster dux, incipe de peregrinatione cogitare, si Sarace-
norum res compositae sint: nam diebus in maximo erant tumultu»: ibid., pp. 78-80
passim.
95 «Quis enim eum qui suo regi aureas vestes, vascula aurea atque argentea, aut
ipsa humanae vanitatis indicia indicas gemmas et vitro non absimiles lapillos, quo-
rum ipse locupletissimus est, donaverit, non cauponem aut foeneratorem appellave-
rit, aut potius piscatorem qui sub parva esca grandem venari putet acipenserem aut
rhombum?»: GALATEO, Ad Catholicum regem Ferdinandum, de capta Tripoli cit., p.
151.
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96 «Hic est mos Deo immortali, inclyte rex, necnon et vobis regibus, qui illius
rissimis donis, farre et ture et spiceis sertis et oleo! […] Neque ego deliquerim si
magnitudini nominis, immo et numinis tui, parva quidem sed pura et sincera obtu-
lerim munera; ut qui pro tuis partibus, pro fide in te servanda, ut plerique Hispano-
rum noverunt, superioribus bellis res meas, me ipsum, uxorem et filios periculis om-
nibus exponere non dubitaverim»: ibid., pp. 151-152.
98 «Quid dicam? Ubicumque tuum venerandum nomen exauditur, eodem et vic-
toria sequitur. Tu solus inter christianos principes non christianorum, sed hostium
Christi, sanguinem semper sitisti. Iam tenes Christo duce munitiora et tutiora utriu-
sque Mauritaniae et Numidiae et Aphricae orae loca»: ibid., p. 153.
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99 «Iam ad Taprobanem per maria nullius ante trita rate devenimus. Taprobane hi-
spana et signa et arma vidit. Vestrum nomen iam utrumque horret hemisphaerium.
Nec fraudabo Lusitanos tuos suis laudibus. O inclyti, o felices occidentis reges! nun-
quam satis a me laudati, quamvis vestra egregia facta et aetema digna memoria, ubi-
cumque locus tempusque suasit, nunquam tacui neque hic tacebo. Vos vos ausi estis
rem futuris saeculi memorandam atque admirandam, quam nec confines et praepo-
tentes Carthaginienses noverunt, nec rerum domini Romani, nec is qui se Iovis filium
et mundi regem appellari iussit. Coniunxistis Indos Hispanis; sulcastis ignotum va-
stum illud et inane naturae; ostendistis nobis ignotas terras et inaudita nedum visa ma-
ria; iunxistis indicum hispanico oceano, et circumfluam demonstrastis esse Aphricam,
quod astrologorum maximus in Aegypto sub florente romano imperio natus, necnon
et Iuba rex rerum diligentissimus indagator ignoravit. Quid aliud hoc est quam aut ex
duobus unum, aut ex disiuncto terrarum orbe continuum fecisse? Auxistis commercia
et consuetudines gentium totque immanes nationes et pecorum more viventes ad reli-
gionem et ad bene et culte vivendum instituistis. Non est facile dicere quantum vobis
humana immo et christiana res debeat»: ibid., pp. 153-154.
100 «Haec sunt, magnanime rex, quae mihi fidem faciunt, celsitudinem tuam ad
multo maiores res gerendas a Christo servatam. […] Suadet mihi, ut credam, haec
ita ut dico futura esse, ordo et series quaedam rerum humanarum a Deo instituta. In
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oriente apud Assyrios, Medos, Persas coepere imperia. Inde Aegyptii et Scythae in
magna parte terrarum, Iudaei et Phoenices in quota parte dominati sunt. Post vero
Macedones rerum potiti, ultimo oriente terminaverunt imperium. Carthaginienses
quoque Aphricae et Hispaniae et Mediterranei maris nonnullis insulis imperaverunt.
Romani longius latiusque quam ceterae nationes, quas unquam legimus, propaga-
verunt imperii sui fines; sanctius iustiusque quam ceteri omnes mortales suis viribus
usi sunt; gentes, quas subegerunt, humanitate et bonis moribus instituerunt partici-
pesque fecerunt imperii; ab una urbe orbis victus est plus fide, clementia, liberalita-
te et beneficiis quam armis. Gothi et Longobardi diu regnaverunt. Prisci Galli usque
in Asiam et Taurum montem penetraverunt. Posteriores vero, quos potuit Francos
appellaverim (sunt enim ab antiqua origine Germani), sub romanorum pontificum
umbra multas orbis partes occupaverunt praeclaraque gesserunt opera. Germani
iamdiu dono pontificum romanorum obtinent imperium. Soli Hispani hucusque
suam vicissitudinem non habuerunt; soli Hispani sua signa nunquam e solo patrio
extulerunt. Fortissimi viri, ut constat apud omnes scriptores, Hispani semper habiti
sunt, sed sub alienis signis, sub alienis auspiciis, nunc sub romanis, nunc sub poe-
nis ducibus. Iam redditae sunt Hispaniae suae vices et, te regnante, iam caput orbis
erit. Plus tibi se debere Hispaniam fateri necesse est quam omnibus ante te regibus.
Tu illam a servitute eripuisti, militari disciplina et mitissimis moribus instruxisti. Ne
perdite, Hispani, occasionem. Venere vestra tempora. Hoc non a vate, sed a viro non
malo dictum accipite et credite; sub Ferdinandi istius auspiciis toti terrarum orbi im-
perabitis; si modo in victoriis vestris et in tanto et novo afflatu fortunae vobis tem-
perare didiceritis, memores humanarum rerum et eorum qui vobiscum una periculis
se suaque omnia exposuerunt. Indignabunda res victoria est, et cum se non perbeni-
gne ac perhumane, sed superbe et insolenter tractari noverit, alas habet et fugit alio,
et quos ante afflixerat nonnunquam amplectitur. Illius hae tantum leges sunt: parce-
re subiectis et debellare superbos»: ibid., pp. 155, 157-158. Su questo tema cfr. F.
TATEO, Il ritorno della barbarie, in TATEO, I miti della storiografia umanistica, Ro-
ma 1990, pp. 81-98, ma v. anche G. FERRAÙ, La concezione storiografica del Valla:
i Gesta Ferdinandi Regis Aragonum, in L. Valla e l’Umanesimo italiano, a cura di
O. BESOMI-M. REGOLIOSI, Padova 1986, pp. 265-310; e ora ID., Il tessitore di Ante-
quera cit.
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gresso che alla fine accomunava l’uomo di mare e l’uomo di lettere. È no-
ta quanto profonda fosse la formazione e la fede cristiana di Colombo e con
quanta convinzione fosse andato raccogliendo dopo i primi viaggi non solo
un erudito apparato di fonti classiche con le quali confortare le sue espe-
rienze e modellare i suoi racconti impreziosendoli con dotte citazioni, ma
era anche venuto raccogliendo un altrettanto ricco repertorio di fonti bibli-
che e scritturali, di profezie testamentarie, che giustificassero e interpretas-
sero la sua mitica impresa101. Per questo era convinto di compiere una mis-
sione provvidenziale, voluta e guidata da Dio stesso: «Già dissi come per la
realizzazione dell’impresa delle Indie non m’avessero giovato né ragione né
matematica né mappamondi; semplicemente si compì ciò che disse Isaia»,
aveva detto nella famosa lettera ai sovrani del 1501102. Secondo una diffu-
sa mentalità tardomedievale Colombo riteneva, come molti suoi contempo-
ranei, che Dio avesse costellato il cammino della storia di segnali inequi-
vocabili, annunciati dai profeti. L’attesa escatologica si faceva sempre più
assillante e il navigatore non ignorava la misteriosa predizione di Gioac-
chino da Fiore secondo cui agli Spagnoli sarebbe spettata la conquista di
Gerusalemme103. Ma il Genovese era ancora più esplicito: Dio lo aveva fat-
to messaggero «del nuovo cielo e della nuova terra che Nostro Signore an-
101 Cfr. nota 73 e P. COLLO, Andando más, más se sabe, in COLOMBO, Gli scrit-
di storia, le cronache, i libri di filosofia e di altre arti alle quali Nostro Signore mi
aprì l’intelletto con mano palpabile, per darmi a intendere ch’era possibile navi-
gare di qui alle Indie, e mi provvide di volontà per mandare a esecuzione il mio pro-
getto. […] Tutte le scienze, di cui ho detto sopra e l’autorità loro non mi furono
d’alcun giovamento. Solo nelle Vostre Altezze trovai fede e tenacia. Chi mai po-
trebbe dubitare che tale luce non procedesse dallo Spirito Santo, così come da me?
Il quale […] venne in soccorso con l’alta e chiarissima voce della Santa e Sacra
scrittura, con i quarantaquattro libri del Vecchio Testamento e i quattro Evangeli,
e le ventitre Epistole di quei bonavventurati Apostoli, incitandomi a che io dessi
corso all’impresa. […] La Sacra Scrittura nel Vecchio Testamento […] testimonia
che questo mondo deve aver fine […] Sant’Agostino dice che cadrà la fine di que-
sto mondo nel settimo millennio della sua creazione […] Secondo questo compu-
to non mancano che centocinquantacinque anni al compimento dei settemila […]
E il Nostro Redentore disse che prima della fine del mondo dovrà compiersi tutto
ciò che i Profeti hanno annunciato […] Isaia è fra tutti il più celebrato […] Già dis-
si come [...]»: CRISTOFORO COLOMBO, Lettere ai Re, da Cadice o Siviglia, 1501, in
COLOMBO, Gli scritti cit., pp. 289-293: 292-293. Sul significato e l’importanza del-
la famosa lettera indirizzata ai re cattolici si rinvia a GIL, Miti e utopie della sco-
perta cit., pp. 198-227.
103 «E questo è quanto bramo di scrivere per ricondurlo alla memoria delle Vo-
stre Altezze e perché vi rallegrino del resto che dirò loro di Gerusalemme con paro-
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nunciò per mano di san Giovanni nell’Apocalisse, e prima disse per bocca
di Isaia»104, il quale dice nel versetto 65, 17 e ss.: «Poiché, ecco, io creo cie-
li nuovi e una nuova terra: non sarà più ricordato il passato, non verrà più
in mente […] poiché, ecco, rendo Gerusalemme una gioia, il suo popolo un
godimento [...] fabbricheranno case e le abiteranno, pianteranno vigne e ne
mangeranno i frutti». L’apparizione dunque della Gerusalemme celeste di-
ventava un punto dominante dell’orizzonte mentale colombiano105, che a-
deriva perfettamente con quelle ansie mistiche di renovatio e di devotio mo-
derna che un’accorta predicazione andava sollecitando e favorendo in ampi
settori della popolazione. Sempre più infervorato da queste evidenti corri-
spondenze Colombo persiste nella sua utopia: «e poiché al tempo che io
mossi per andare a scoprire le Indie lo feci con l’intenzione di impetrare al
Re e alla Regina Nostri Signori che dalla rendita che le Loro Altezze traes-
sero dalle Indie deliberassero di finanziare la conquista di Gerusalemme, e
così in tal senso io li supplicai»106. D’altra parte la conquista di Granata a-
veva risvegliato nei re cattolici nuove ambizioni imperialistiche, che ben si
coniugavano con il progetto dell’immediata conquista di Gerusalemme, e
le delle stesse autorità; della quale impresa, se c’è fede, tengano per certissima la
vittoria. […] L’abate Joahachin Calabrese disse che sarebbe venuto di Spagna colui
che doveva riedificare la casa del monte Sion»: COLOMBO, Gli scritti cit., p. 193; v.
anche A. PROSPERI, America e Apocalisse. Nota sulla «conquista spirituale» del
Nuovo Mondo, «Critica storica», 13, 1 (1976), pp. 1-61.
104 CRISTOFORO COLOMBO, Lettera a Doña Juana de la Torre, in COLOMBO, Gli
scritti cit., pp. 274-275; il controverso riferimento a Isaia contenuto nella lettera ai
re cattolici può in parte chiarirsi proprio alla luce di quanto Colombo afferma in
questa Lettera a Doña Juana de la Torre; l’altro riferimento è all’Apocalisse di Gio-
vanni (21, 1 e ss.), che così si esprime: «E vidi un cielo nuovo e una terra nuova. In-
fatti, il primo cielo e la prima terra passarono, e il mare non è più. E vidi la città san-
ta, Gerusalemme nuova, che scende dal cielo […] preparata come una sposa che è
stata ornata per il marito».
105. Si legga il centone di testimonianze che compone il Libro della Profezie, in
COLOMBO, Gli scritti cit., pp. 299-305, e GIL, Miti e utopie della scoperta, cit.
106 E l’Istituzione del Maggiorasco, redatta a Siviglia il 22 febbraio del 1498, co-
sì significativamente prosegue: «e, ove lo facciano, che sia la buon’ora, e che altri-
menti rimanga saldo il detto Don Diego o chi ne sia l’erede nel proposito di accumu-
lare quanto più denaro potrà per accompagnare il Re Nostro Signore a Gerusalemme
a conquistarla, o andarvi da solo quanto potere piacesse a Dio Nostro Signore, che se
egli avesse o avrà detta intenzione, gli si dia soccorso perché possa farlo e lo faccia»,
in COLOMBO, Gli scritti cit., p. 201; ma v. anche la Relazione del quarto viaggio, Iso-
la di Giamaica, 7 luglio 1503, dove si sostiene la necessità del corretto uso dell’oro
proveniente dalle Indie («David nel suo testamento lasciò tremila quintali d’oro delle
Indie a Salomone per soccorrerlo nell’edificazione del Tempio, e, secondo Giuseppe,
proveniva esso oro da queste stesse terre. Gerusalemme e il Monte Sion debbon ese-
re riedificati per mano di Cristiano: chi abbia da esser costui lo dice Dio per bocca del
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Profeta nel Salmo decimo quarto. L’abate Gioachino disse che costui sarebbe partito
di Spagna. […] L’oro che possiede il Quibian a Beragna e gli altri di quella regione,
sebbene sia – a quanto si dice – molto, non mi parve equo né conveniente il servizio
delle Loro Altezze strapparlo ad essi per via di rapina: il buon ordine scongiurerà o-
gni sorta di scandalo e di cattiva fama, e garantirà che tutto, senza eccezione di un gra-
no, converga al tesoro»: in COLOMBO, Gli scritti cit., p. 346; ma si veda l’intero passo
alle pp. 344-346) e la polemica invettiva contro il cattivo uso che di quell’oro aveva-
no fatto gli Spagnoli e più in generale l’intero mondo cristiano, affidata dal Galateo
alla sua Esposizione del ‘Pater Noster’, che andava componendo proprio in quegli an-
ni e che in tutt’altro senso intende l’elogio, pronunciato da Colombo, dell’oro messo
al servizio della salvezza della anime («dell’oro si fanno tesori e chi lo possiede fa e
opera quanto gli aggrada nel mondo, al punto che giunge a guadagnare il Paradiso al-
le anime»: Relazione del quarto viaggio cit., p. 345): «io dico che mai foro li miglio-
ri omini e tempi, li seculi aurei, si non al presente. Vedimo che lo mundo è tutto de o-
ro: oro se veste, oro se calza, in oro si beve, in oro se mangia, in oro se dorme, oro se
cinge, de oro s’incatena lo collo, de oro se copre lo capo, oro resplende nelli templi,
nelli teatri, nelle piazze e fi’ alle taverne; non è cosa oggie in precio si non l’oro, che
tiene subiette tutte le virtuti: l’oro è adorato e stimato, ‘Omnia per ipsum facta sunt’
(‘tutte le cose si fanno per suo mezzo’). All’oro ubbidisce omne cosa; l’oro fa lo drit-
to parer torto, e lo torto dritto, l’oro doma la severità delle leggi, l’oro fa li summi pon-
tifici, l’oro fa li ri, l’oro dà gli onori, li magistrati, li cappelli, le mitre; l’oro fa li vica-
rii, l’oro fa priori e ministri e guardiani, l’oro dà el Paradiso, l’oro vince la fortezza,
l’oro espugna la pudicizia, l’oro abbatte alte castella, l’oro apre le insepugnabili for-
tezze, l’oro cieca gli occhi de quelli chi son tenuti, e non son savi», GALATEO, Esposi-
zione del ‘Pater noster’ cit., p. 200.
107 «Haec sunt, magnanime rex, quae mihi fidem faciunt, celsitudinem tuam ad
multo maiores res gerendas a Christo servatam. Nec a me expectes obscura et vana apo-
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telesmata, quibus ego quamvis ea non penitus ignorem, nihil tamen fidei adhibeo, ut quae
mihi fidei nostrae catholicae minime convenire videantur. […] Memini me puerum (ita
Deus bene me amet, non mentior) vulgo audisse Ferdinandum quemdam futurum qui Sa-
racenos ex Hispania pelleret eumdemque recuperaturum sanctam Dei civitatem Hieru-
salem. Idem omnes sentiunt, nemine auctore praeter Deum optimum maximum, a quo i-
ta fore decretum est. Consensus gentium ex Deo est. Utere felicitate tua, optime rex, dum
licet, et restitue nobis rem christianam, quae ad angulum mundi redacta erat. Satis est no-
bis hactenus ora Aphricae, dum et portus et receptus habeamus, et Saracenis adimamus
spem incursionum. Arentia loca et sitientes campos, quos multo difficilius est tutari quam
vincere, vagi et nudi sibi habeant Nomades. Aggrediamur imperium romanum a Turcis
occupatum. Quae quidem expeditio tanto facilior erit, quanto maior est spes praemio-
rum»: GALATEO, Ad Catholicum regem Ferdinandum, de capta Tripoli cit., p. 155.
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CHIARA CASSIANI
Rime predicabili.
La poesia in volgare di Giuliano Dati
1 Egli stesso dichiara la propria identità al termine dei suoi cantari, sottoscri-
vendosi come «messer Giuliano Dati, fiorentino in Roma». Trasferitosi a Roma in-
torno al 1485 Dati fu penitenziere in Laterano durante il pontificato di papa Borgia;
poi divenne decano dei penitenzieri e Giulio II lo nominò rettore della parrocchia
dei SS. Silvestro e Dorotea in Trastevere. Infine da Leone X fu eletto vescovo di San
Leone in Calabria. Cfr. P. FARENGA-G. CURCIO, Dati, Giuliano, in DBI, 33, Roma
1987, pp. 31-35.
2 Sono tutte edizioni non datate e prive della sottoscrizione del tipografo, ma per
conservati per lo più in esemplari unici. Si tratta infatti di quel particolare tipo di li-
bri illustrati, di consultazione quotidiana, che A. PETRUCCI, Alle origini del libro
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ne Quattrocento hanno dato avvio le indagini sulla prima stampa romana: A.M. A-
DORISIO, Cultura in lingua volgare a Roma fra Quattro e Cinquecento, in Studi di
biblioteconomia e storia del libro in onore di Francesco Barberi, Roma 1976, pp.
19-36; P. FARENGA, «Indoctis viris ... mulierculis quoque ipsis». Cultura in volgare
nella stampa romana?, in Scrittura, biblioteche e stampa a Roma nel Quattrocento.
Aspetti e problemi, (Atti del Seminario, 1-2 giugno 1979), a cura di C. BIANCA-P.
FARENGA-G. LOMBARDI-A.G. LUCIANI-M. MIGLIO, Città del Vaticano 1980, (Littera
Antiqua, 1,1), pp. 403-416; EAD., Le prefazioni alle edizioni romane di Giovanni Fi-
lippo De Lignamine, in Scrittura, biblioteche e stampa a Roma nel Quattrocento,
(Atti del 2° Seminario, 6-8 maggio 1982), a cura di M. MIGLIO, con la collabora-
zione di P. FARENGA-A. MODIGLIANI, Città del Vaticano 1983, (Littera Antiqua, 2),
pp. 135-174; S. COLAFRANCESCHI, Giuliano Dati: «Historia et legenda di Sancto
Biasio vescovo et martyre», ibid., pp. 257-269; G. CURCIO, Giuliano Dati: «Comin-
cia el tractato di Santo Ioanni Laterano», ibid., pp. 271-304.
5 GIULIANO DATI, La storia della inventione delle nuove insule di Channaria in-
mo, La gran magnificentia del Prete Janni6, reca impressa sul frontespizio
un’immagine xilografica di forte valore allegorico, che chiarisce il contenuto
del testo ma, più in generale, anche le intenzioni dell’autore7. L’illustrazione
ritrae il sovrano orientale seduto in trono in atto di benedire con in capo il tri-
regno, simbolo del suo potere spirituale e temporale, e nella mano sinistra la
Sacra Scrittura8. Intorno a lui sono seduti i dodici consiglieri in abito cardi-
nalizio e alle sue spalle c’è l’albero della vite con al centro il crocifisso9. Al
trono si accede mediante sette gradini, ciascuno simboleggiato da un mate-
riale diverso, sui quali è ripetuta sette volte l’ingiunzione a fuggire i vizi ca-
pitali. La xilografia riassume e memorizza il contenuto del cantare: in parti-
colare le ottave XI-XX descrivono, sulle orme del Guerin Meschino, il son-
tuoso palazzo del sovrano orientale, ornato d’oro e di pietre preziose.
317. Ha indagato le consonanze di temi e motivi tra i cantari di Dati sulle meravi-
glie d’Oriente e la geografia fantastica del Furioso L. FORTINI, Ariosto, Roma e la
geografia del meraviglioso, «RR roma nel rinascimento, Bibliografia e note», 1994,
pp. 75-93.
6 Più esattamente La gran magnificentia de Prete Janni Signore dell’India
Maggiore et della Ethiopia o anche Primo cantare dell’India, completato poi dal Se-
condo cantare dell’India.
7 Per i particolari iconografici e le relative fonti resta tuttora prezioso un sag-
duzione a La lettera del Prete Gianni, a cura di G. ZAGANELLI, Parma 1992, pp. 7-44.
9 Al motivo del trono e dell’albero, interpretato come simbolo del potere impe-
riale, dedica ampio spazio OLSCHKI, I «Cantari dell’India» cit., pp. 300-311. Ma il
crocifisso con la vite rievoca anche le associazioni di base che avevano alimentato l’o-
pera di san Bonaventura: sul Lignum vitae e sulle sue diverse raffigurazioni nel Me-
dioevo si veda L. BOLZONI, La Torre della Sapienza, «Kos», 30, 3 (1987), pp. 54-61.
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l’intera produzione di Giuliano Dati. Alla vigilia della Riforma egli aveva tra-
dotto la propria esperienza spirituale in un’azione concreta di intervento nella
vita cittadina, a stretto contatto con il mondo dei laici. Svolse infatti un’attivo
apostolato in prima persona, promosse importanti opere caritative e assisten-
ziali, ebbe inoltre un ruolo significativo nella confraternita del Gonfalone e più
tardi anche nella compagnia del Divino Amore11. Non sembra esserci estra-
neità né soluzione di continuità fra l’uomo di Chiesa, il predicatore, e il ver-
satile compositore di rime volgari, il quale probabilmente sovrintese egli stes-
so alla stampa dei propri poemetti12. Nella realtà variegata dell’editoria roma-
na, infatti, il caso di Dati rappresenta un esempio privilegiato della circola-
zione di opuscoli che alimentavano un rapporto con la tradizione scritta non
circoscritto a una dimensione puramente libresca13.
Il poeta menziona di frequente le fonti da lui utilizzate, compiacendosi
della propria cultura storica:
11 Le prime riunioni del Divino Amore si tennero, intorno al 1514, nella par-
rocchia dei SS. Silvestro e Dorotea in Trastevere, di cui Dati era rettore. A lui si de-
ve anche l’iniziativa, nel 1517, dell’aggregazione del Ridotto degli Incurabili di Ge-
nova all’Arciospedale S. Giacomo di Roma, fondato nel 1515 da papa Leone X co-
me filiazione della Compagnia romana. Cfr. P. PASCHINI, Un parroco romano in sui
primi del Cinquecento, «Roma», 6 (1928), pp. 19-25; ID., Le compagnie del Divino
Amore e la beneficenza pubblica nei primi decenni del Cinquecento, in Tre ricerche
sulla storia della Chiesa nel Cinquecento, Roma 1945, pp. 3-90; G. GABRIELI, Me-
morie spirituali trasteverine (il «Divino Amore»), «Roma», 12 (1934), pp. 499-510.
Sul ruolo non secondario svolto dai sodalizi laicali nella vita devozionale, assisten-
ziale e artistica della città pontificia la bibliografia oggi è molto vasta; si rinvia a L.
FIORANI, «Charitate et pietate». Confraternite e gruppi devoti nella città rinasci-
mentale e barocca, in Storia d’Italia, Annali, 16: Roma, la città del papa, a cura di
L. FIORANI-A. PROSPERI, Torino 2000, pp. 431-476.
12 L’ipotesi è stata formulata da ADORISIO, Cultura in lingua volgare a Roma cit.,
p. 21. In tal senso potrebbe anche essere interpretata la presenza sul frontespizio di
molte edizioni del Dati del suo stemma familiare: tre teste d’uomo sovrastate da un
lambello; cfr. anche R. LEFEVRE, Fiorentini a Roma nel ’400: i Dati, «Studi Romani»,
20/2 (1972), pp. 187-197. Ad avvalorare l’ipotesi contribuisce, inoltre, l’interesse di-
mostrato dal canonico fiorentino per le illustrazioni che ornano i suoi testi: cfr. CUR-
CIO, Giuliano Dati: «Comincia el tractato di Santo Ioanni Laterano» cit., p. 275.
13 Dati attinge, nelle più diverse articolazioni, al patrimonio del cantare in ottava
ca (1960), in JAKOBSON, Saggi di linguistica generale, trad. ital., Milano 1966, pp. 181-
218.
16 Cfr. A. ESPOSITO, Apparati e suggestioni nelle «feste et devotioni» delle con-
fraternite romane, «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 106 (1983),
pp. 311-322; EAD., La richiesta di libri da parte dell’associazionismo religioso ro-
mano nel tardo Medioevo, in Produzione e commercio della carta e del libro. Secc.
XII-XVIII, (Atti della «Ventitreesima Settimana di Studi», Prato, 15-20 aprile 1991),
a cura di S. CAVACIOCCHI, Firenze 1992, pp. 869-879; EAD., Le confraternite roma-
ne tra arte e devozione: persistenze e mutamenti nel corso del XV secolo, in Arte,
committenza ed economia a Roma e nelle corti del Rinascimento (1420-1530), (At-
ti del Convegno Internazionale, Roma, 24-27 ottobre 1990), a cura di A. ESCH-CH.L.
FROMMEL, Torino 1995, pp. 107-120.
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sicken e Andreas Fritag nel 1496. Ha illustrato il significato dell’opera e i suoi rap-
porti con la sacra rappresentazione fiorentina R. ALHAIQUE PETTINELLI, La Compa-
gnia del Gonfalone e la ‘Passione’ al Colosseo, in Un’idea di Roma. Società, arte e
cultura tra Umanesimo e Rinascimento, a cura di L. FORTINI, Roma 1993, pp. 73-
98; v. anche R. GUARINO, Prospettive dello spettacolo religioso nell’Italia del Quat-
trocento, in Esperienze dello spettacolo religioso nell’Europa del Quattrocento,
(Atti del XVI Convegno Internazionale del Centro Studi sul Teatro Medioevale e Ri-
nascimentale, Roma-Anagni, 17-21 giugno 1992), a cura di M. CHIABÒ-F. DOGLIO,
Roma 1993, pp. 25-58, in particolare pp. 52 e s. Secondo Adorisio (Cultura in lin-
gua volgare a Roma cit., p. 21), sarebbe da attribuire a Dati anche una Resuscita-
zione di Lazzaro in rima vulgari secondo che recita de parola in parola la dignissi-
ma compagnia de lo Gonfalone, stampata a Roma dopo il 1500 e conservata presso
la Biblioteca Colombina di Siviglia; cfr. Catalogo dei libri a stampa in lingua ita-
liana della Biblioteca Colombina di Siviglia, a cura di K. WAGNER-M. CARRERA,
Ferrara-Modena 1991, n. 450.
18 Sull’argomento cfr. L. BOLZONI, Oratoria e prediche, in Letteratura italiana, di-
retta da A. ASOR ROSA, III 2, Le forme del testo. La prosa, Torino 1984, pp. 1041-1063.
19 G. DATI, Del diluvio di Roma del 1495, Roma, Johann Besicken e Sigismund
Mayr, 1495-96, 6 cc. non num. (la citazione è alla c. 2v). Seguo il testo dell’esempla-
re posseduto dalla Biblioteca Nazionale di Napoli. Di quest’opera esistono anche al-
tre due edizioni: Roma, Eucharius Silber, 1495-96, di cui un esemplare è conservato
presso la Biblioteca Trivulziana di Milano, e Firenze, Antonio di Bartolomeo Misco-
mini, 1495-96, presente alla British Library e al Metropolitan Museum di New York.
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dagli eventi della storia profana20, i cantari di Dati adempiono ad una fun-
zione mnemonico-emotiva, mediante il forte uso di strumenti retorici co-
me la ripetizione, l’allitterazione, la giustapposizione e l’esclamazione.
L’intento è quello di far rivivere episodi del testo biblico e insieme avve-
nimenti della cronaca contemporanea, visualizzarli, per provocare nell’a-
nimo del lettore un’esperienza di meditazione e di trasformazione inte-
riore, una conversione appunto:
Nell’esordio del cantare sulla terribile alluvione del Tevere del dicem-
bre 149522 i segni prodigiosi che Dio, in presenza di Mosè e Aronne, aveva
inviato al Faraone d’Egitto per liberare il suo popolo dalla schiavitù diven-
gono ammonimento per il presente. Infatti, rimasti inascoltati, furono se-
guiti da un terribile castigo:
minando i vari livelli di diffusione sociale e la forte incidenza della stampa sull’im-
maginario religioso del tempo, O. NICCOLI, Profeti e popolo nell’Italia del Rinasci-
mento, Roma-Bari 1987. La studiosa ha attribuito, in questo senso, un ruolo non se-
condario al poemetto di Dati sul Diluvio; cfr. le pp. 27-29, 47-48, 126-127.
21 DATI, Del diluvio di Roma del 1495 cit., c. 2r.
22 Il ricordo della disastrosa inondazione è vivo anche nelle testimonianze dei
Alla base dei componimenti di Dati c’è una lettura profetica della Sa-
cra Scrittura e la sua conseguente attualizzazione. Così il pacifico pontifi-
cato di Innocenzo VIII rinvia a «quel che predisse / Ioseph a Faraon nel Gie-
nesisse»24, cioè il sogno premonitore che annunciava un periodo di grande
abbondanza cui avrebbero fatto seguito anni altrettanto lunghi di dura care-
stia25:
23 DATI, Del diluvio di Roma del 1495 cit., c. 1v. Ho corretto al v. 4 ‘prelungi’
Poi, di fronte agli atti di feroce crudeltà compiuti nel Regno di Napo-
li, preso «a sangue, a fuoco, a sacho, a tutti e danni»37 dai Francesi, il cro-
nista che si dichiara «parato ad ogni correctione»38 invoca la suprema giu-
stizia divina ed esprime la propria difficoltà nel comprendere la storia:
32 Sulla tensione profetica che aveva a lungo circondato la figura del re france-
se, cfr. C. VASOLI, Umanesimo ed escatologia, in L’attesa della fine dei tempi nel
Medioevo, a cura di O. CAPITANI-J. MIETHKE, Bologna 1990, pp. 245-75, in partico-
lare pp. 271-72. Al momento dell’arrivo di Carlo VIII le reazioni degli italiani furo-
no molteplici: cfr. C. DE FREDE, «Più simile a mostro che a uomo». La bruttezza e
l’incultura di Carlo VIII nella rappresentazione degli italiani del Rinascimento,
«Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», 44 (1982), pp. 545-585; S. BERTEL-
LI, «Li portamenti del re Carlo», in Italie 1494 cit., pp. 121-141. Cfr. anche A. LIN-
DER, An unpublished ‘Pronosticatio’ on the return of Charles VIII to Italy, «Journal
of the Warburg and Courtauld Institutes», 47 (1984), pp. 200-203.
33 DATI, Storia di tutti i re di Francia cit., c. 5v, ott. XLVII, 5.
34 Ibid., ott. XLVI, 6.
35 Ibid., c. 5r, ott. XXXIV, 4.
36 Ibid. Ho corretto al v. 7 ‘diren’ con ‘direm’.
37 Ibid., c. 6v, ott. LXIII, 8.
38 Ibid., ott. LXIX, 4.
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li cielesti segni e delle moderne tribulationi e della ultima acqua inundata in nel-
l’alma, veneranda e santa ciptà di Roma nella nostra ferrea e ultima etade collecta e
messa in versi per messer Giuliano de’ Dati a laude della cielestial corte».
42 Ibid., c. 3r. È il brano di Luca 21, 25-28: «Vi saranno dei segni nel sole, nel-
la luna e nelle stelle: e sulla terra le nazioni si troveranno in angoscia, spaventate dal
rimbombo del mare e dei suoi flutti. Gli uomini saranno tramortiti dallo spavento e
dall’attesa angosciosa di quel che avverrà sopra la terra [...]. Quando cominceranno
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ad accadere queste cose, guardate in alto e alzate il capo, perché la vostra redenzio-
ne è vicina». Al valore che i ‘segni’ e le alterazioni degli astri avevano nella divina-
zione popolare ha dedicato pagine illuminanti NICCOLI, Profeti e popolo cit., pp. 47-
48, partendo proprio da queste ottave di Dati.
43 GIULIANO DATI, Aedificatio Romae, Roma, J. Besicken e S. Mayr, 1494, 6 cc.
non num. (la citazione è alla c. 1v, ott. I, 7-8). Seguo il testo dell’esemplare posse-
duto dalla Biblioteca Nazionale di Venezia.
44 Ibid.
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quasi tutti gli studiosi che in tempi diversi si sono occupati di Giuliano Dati; cfr. A.
BIANCONI, L’opera delle compagnie del «Divino Amore» nella riforma cattolica,
Città di Castello 1914, p. 13; CURCIO, Giuliano Dati: «Comincia el tractato di San-
to Ioanni Laterano» cit., p. 302. Ha avvicinato la figura di Dati a quella del fioren-
tino Castellano Castellani, ritenuto anch’egli per alcuni aspetti seguace del frate fer-
rarese, ALHAIQUE PETTINELLI, La Compagnia del Gonfalone e la ‘Passione’ al Co-
losseo cit., pp. 75 e ss.
48 Dati menziona «el ferrarese» subito dopo «quel da Ginazano», il filomedi-
ceo Mariano da Genazzano che solo qualche anno più tardi avrebbe esortato Ales-
sandro VI a ricorrere ai provvedimenti più estremi nei confronti di Savonarola: cfr.
DATI, Del diluvio di Roma del 1495 cit., c. 3v, ott. XLV, 1.
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co, appellandosi alla dimensione della natura, del corpo, delle cose49. Me-
diante questa scelta rivoluzionaria il mondo cristiano si è riappropriato del-
la tradizione retorica pagana. Le «rime inepte»50 di Dati riescono felice-
mente a coniugare la ragione didascalica dell’utile dulci con l’immediata
disponibilità al riuso collettivo tipica del genere canterino, per divenire vei-
coli di una devozione che in quegli anni necessitava una veste diversa, più
piacevole, ma anche diretta e incisiva51. Anche la poetica della brevitas fat-
ta propria dal Dati, con le frequenti dichiarazioni di voler abbreviare il di-
scorso ‘per non essere noioso, per non tediare’, si rifà al precetto evangeli-
co della semplicità del parlare. Sono soprattutto passi di appello al lettore,
spesso collocati a conclusione di un’ottava. Ciò di cui l’autore racconta ri-
guarda da vicino il destinatario, è un invito alla collaborazione del lettore,
perché le parole devono continuare a crescere nella sua mente, vincendo la
noia, devono germogliare e cooperare. Attraverso una marcata tendenza al-
la visualizzazione espressiva il poeta esorta l’ascoltatore a udire e a ‘porre
mente’, ossia a vedere con gli occhi dell’anima. Mettendo in scena luoghi
e personaggi reali, raccontando avvenimenti che si svolgevano sotto gli oc-
chi di tutti, il testo cerca di creare un punto di vista sulle cose e insieme par-
tecipa a un processo di costruzione di immagini mentali efficaci, atte a rap-
presentare un preciso codice per ricordare. La muta predicatio affidata al-
l’immagine appare idonea infatti, più degli altri strumenti retorici, a far pre-
sa sulla sensibilità e sulla memoria del lettore per la sua forza emotiva. Pro-
duce conoscenza e insieme trasformazione interiore:
cite: «Chi usa el tempo suo così passare, / non tien le voglie sue mai otiose; / non è
più dolcie cosa o più felice / che lo ’mparare, el tuo poeta el dicie» (ibid., ott. LVIII),
oppure «Or fa che tu stie ’ttento, o auditore, / e della Bibia intenderai gran chose, /
ben che lo possi udire a tutte l’ore / sonti fors’a studiarle fatichose; / i’ te l’ò messe
in versi per amore / che sono a qualchedun più dilettose; poi tal potrà quest’opera
tenere / che non può la gran Bibia in casa avere»: cfr. GIULIANO DATI, Historia di S.
Job propheta, Firenze, L. Morgianni e J. Petri, ca. 1495, c. 2v, ott. XXV (esempla-
re conservato presso la Biblioteca Casanatense di Roma).
52 DATI, Del diluvio di Roma del 1495 cit., c. 2v.
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53Ibid., c. 3v.
54Ibid., c. 5v.
55 Soprattutto nelle Stazioni e indulgenze di Roma, nell’Aedificatio Romae, nel
Trattato de Santo Ioanni Laterano e nella più tarda Vita di tutti e pontefici.
56 DATI, Del diluvio di Roma del 1495 cit., c. 4r, ott. LVII.
57 Mi sono soffermata su questi temi, prendendo in esame l’intero svolgimen-
to narrativo del poemetto sul Diluvio e i punti di contatto con la contemporanea tra-
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dizione colta, nel mio «Delli celesti segni e delle moderne tribulationi». Tensione
profetica e renovatio religiosa nelle ottave di Giuliano Dati, in Roma nella svolta
tra Quattro e Cinquecento, (Atti del Convegno Internazionale di Studi, Roma, 28-
31 ottobre 1996), in corso di stampa.
58 DATI, Historia di S. Job propheta cit., c. 2r.
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59 Così recitano i suoi versi: «io vo’ chantare, / a nostro esemplo, la sua santa
vita / che fu fra l’altre sola singulare; / beato a chi la segue o chi la imita», ibid., c.
1v, ott. IV, 1-4 (correggo al v. 4 ‘inmita’ con ‘imita’). Al medesimo scopo Dati ave-
va composto altri cantari di argomento agiografico, dedicati a san Biagio, santa Bar-
bara e alla beata Giovanna da Signa. Cfr. M. SIMHART, Una leggenda in versi su San-
ta Barbara del 1494, «La Bibliofilia», 27 (1925), pp. 142-146.
60 DATI, Historia di S. Job propheta cit., c. 5v.
61 Ha studiato questo cantare come rara testimonianza della ripresa del culto di
te italiane del tardo Medio Evo: «libri da compagnia» e libri di pietà, in Le mou-
vement confraternel au Moyen Âge. France, Italie, Suisse, (Actes de la table ronde,
Lausanne, 9-11 mai 1985), Genève 1987, pp. 133-153.
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ti, da CURCIO, Giuliano Dati: «Comincia el tractato di Santo Ioanni Laterano» cit.
I contenuti del testo sono avvalorati anche dall’immagine xilografica presente sul
frontespizio, che raffigura quattro episodi della Donazione costantiniana.
69 L’intento encomiastico è esplicito nelle ottave d’apertura de La storia della
inventione delle nuove insule di Channaria indiane: «Ma chi potesse legier nel fu-
turo / d’uno Allexandro magnio papa sexto, / de la sua creatione il modo puro, /
grat’a ciascuno, a nullo mai molesto, / e del prim’anno suo el magnio muro / che
non gli può nessuno esser infesto; / sest’Alessandro Papa Borgia ispano, / giusto nel
giudicare et tutto humano»; cfr. LEFEVRE, Nel 500° dell’impresa colombiana. Dalle
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prime cronache ai «Cantari» di Giuliano Dati cit., p. 84, ott. VI. Il poemetto, è no-
to, era stato commissionato a Giuliano Dati dal De Ligmamine, «domestico fami-
liare dello illustrissimo re di Spagna»: cfr. FARENGA, Le prefazioni alle edizioni ro-
mane di Giovanni Filippo De Lignamine cit., pp. 166-167.
70 GIULIANO DATI, La magna lega, Roma, Johann Besicken, 1495-96, cc. 6 non
num. (la citazione è alla c. 2r). Seguo il testo dell’esemplare conservato a Firenze,
presso la Biblioteca della Facoltà di Medicina.
71 Ibid, c. 3v.
72 Ibid., ott. XLIV, 8.
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dale di San Giovanni, ad esempio, «un pozo d’or non tanto vale / quant’e-
gli à speso e spende»73. Diversamente,
merica, basti citare A. PROSPERI, America e Apocalisse. Note sulla «conquista spiri-
tuale» del Nuovo Mondo, «Critica Storica», 13 (1976), pp. 1-61; R. ROMEO, Le sco-
perte americane nella coscienza italiana del Cinquecento, Bari 1989; A. PROSPERI, I
limiti dello spazio e quelli del tempo. La scoperta dell’America nel profetismo apo-
calittico italiano del ’500, «Rassegna europea di letteratura italiana», 1 (1993), pp.
177-191; F. TATEO, L’etica umanistica di fronte alle «scoperte», ibid., pp. 193-204.
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più tardi anche nel Libellus ad Leonem X Pontificem Maximum (1513) composto da
Paolo Giustiniani e Vincenzo Quirini. Significative coincidenze tra questo testo e il
cantare del Dati sono state individuate da R. ALHAIQUE PETTINELLI nel suo recente
intervento, Letterati e Riforma cattolica, in La comunità cristiana a Roma: la sua
vita e la sua cultura dall’età ottoniana agli inizi dell’età moderna, (Atti del 2° Con-
vegno di studio, Roma, 15-17 aprile, 1999), in corso di stampa.
83 DATI, La gran magnificentia de Prete Janni cit., ott. XXIII, 3.
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WOUTER BRACKE
cato ed una città: Sisto IV (1471-1484), (Atti del Convegno, Roma, 3-7 dicembre
1984), a cura di M. MIGLIO-F. NIUTTA-D. QUAGLIONI-C. RANIERI, Città del Vaticano-
Roma 1986, (Littera Antiqua, 3), pp. 503-514; D. BRIESEMEISTER, Episch-dramati-
sche Humanistendichtungen zur Eroberung von Granada (1492), in Texte, Kontexte,
Strukturen. Beiträge zur französischen, spanischen und hispanoamerikanischen Lite-
ratur. Festschrift zum 60. Geburtstag von Karl Alfred Blüher, hersg. von A. DE TO-
RO, Tübingen 1987, pp. 249-263.
4 Catalogus Translationum et Commentariorum: Mediaeval and Renaissance
Latin Translations and Commentaries. Annotated Lists and Guides, VII, Washing-
ton D.C. 1992, s.v. Catullus.
5 W. BRACKE, Pietro Paolo Pompilio grammatico e poeta, Tesi di dottorato di ri-
cerca, Messina 1993. Sulle note catulliane si veda ora W. BRACKE, À propos d’un
commentaire sur Catulle datant du XVe siècle, «Latomus», 59, 2 (2000), pp. 414-426.
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biografia del nostro sulla base della vita anonima conservata nel Vat. lat.
22226. Il suo interesse per la figura di Pompilio era nato senz’altro da un
piccolo libro prezioso conservato tutt’ora presso la Biblioteca universitaria
di Gand. Si tratta dell’edizione olandese della Vita Senecae pubblicata da
Ricardo Pafraet a Deventer tra il 1491 e il 1497 (HC *13251). L’edizione,
di poco posteriore all’editio princeps eseguita da Eucario Silber a Roma il
16 febbraio 1490 (HCR 13252, IGI 7983, IERS 1172), testimonia una cer-
ta e rapida fortuna del suo autore oltralpe. Il testo costituisce l’ultima ope-
ra conservata del nostro e ha tutte le caratteristiche di un lavoro scientifico
concepito per motivi tutt’altro che scientifici. Prima di tutto il contenuto.
L’opera, una raccolta di materiale sparso «quemadmodum coloni in male
cultis agris utiles herbas aut raras aut latentes rimantur»7, è dedicata non so-
lo alla figura del filosofo spagnolo, ma costituisce una lode del popolo spa-
gnolo in generale e dei suoi letterati in particolare. Lo scopo, così sottoli-
nea Pompilio alla fine della Vita Senecae, fu «notari ut quanta fuerit Hispa-
nia tum hominum claritudine, tum rerum omnium splendore, eo tempore
coniici possit cum ex una civitate et quae in angulo orbis terrarum est, et in
oceano, tanta nobilitas conspici potuerit»8. La città cui si riferisce Pompilio
è ovviamente Cordova, città dei Seneca e di Lucano. L’elenco comprende
personalità ed autori dall’antichità al Trecento ed include anche rappresen-
tanti della cultura araba. Nel secondo capitolo De nobilitate Gentis Hispa-
niae Pompilio si limita all’epoca romana enumerando tra gli altri Pompo-
nio Mela, Silio Italico, Quintiliano, Marziale, Columella, Nerva, Traiano,
Adriano, Teodosio, Galba e erroneamente Floro9. Nell’ultimo capitolo De
nobilitate Cordubae et reliquae Hispaniae ripete alcuni di questi nomi ag-
giungendone tanti altri, tra i quali Avicenna, Averroes, Rasis, Albucasis, A-
li Abbas, Moses, Avenzoar, Alfonso X, Valeriano, Prudenzio, Orosio, Isido-
ro, Eutropio, Iuvenco, Raimundo Lullo10. Pompilio si sofferma più a lungo
su Quintiliano e soprattutto su Lucano (cui sono dedicati i capitoli 6, 15-
17), tutti e due autori che ebbero grande rilievo all’interno dell’umanesimo
romano. L’opera è dedicata al segretario di Rodrigo Borgia, allora vicecan-
celliere, Giovanni Lopez, decano di Valenza, con il quale, stando alla lette-
ra dedicatoria, Pompilio era in buoni rapporti da quando era piccolo: «Ea
[benivolentia] quidem a tenera aetate inita ad hanc usque diem constantis-
sime crevit»11. Gliela dedicò anche per altri motivi. In primo luogo perché
cfr. JERONI PAU, Obres, edició a cura de M. VILALLONGA, I, Barcelona 1986, pp. 99-
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100. Un Giovanni Lopez, protonotario e luogotenente nel governo d’Orvieto per Ro-
drigo Borgia, fu sepolto nella chiesa dei Borgia, Santa Maria del Popolo. Nell’epi-
taffio, però, è chiamato decanus Segobiensis (cfr. Biblioteca Hispana Vetus, sive Hi-
spani scriptores qui ab Octaviani Augusti aevo ad annum Christi MD. floruerunt,
auctore D. NICOLAO ANTONIO HISPALENSIS I. C., curante FRANCISCO PEREZIO BAYE-
RIO, II, ab anno M ad MD, Matriti 1788, pp. 337-339, in particolare p. 338, nota 1).
12 FAIDER, Études cit., pp. 281-282.
13 Vat. lat. 3406. Sulla vita si veda M.G. BLASIO, Interpretazioni storiche e fil-
tri autobiografici nella Vita Ioannis Milini di Bartolomeo Platina, in Le due Rome
del Quattrocento. Melozzo, Antoniazzo e la cultura artistica del ’400 romano, (Atti
del Convegno Internazionale di Studi, Università di Roma «La Sapienza» - Facoltà
di Lettere e Filosofia Istituto di Storia dell’arte, Roma, 21-24 Febbraio 1996), a cu-
ra di S. ROSSI-S. VALERI, Roma 1997, pp. 172-182. La vita viene citata anche nel-
l’introduzione a BARTHOLOMAEI PLATYNAE De falso et vero bono, a cura di M.G.
BLASIO, Roma 1999, p. 49.
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l’Istituto Universitario Orientale di Napoli. Sezione romanza», 30/1 (1988), pp. 223-
229, in particolare p. 223. Per il testo di Carlo Verardi, si veda CARLO VERARDI, Histo-
ria Baetica, a cura di M. CHIABÒ-P. FARENGA-M. MIGLIO-A. MORELLI, Roma 1993,
(RRanastatica, 6).
16 Vat. lat. 2222, ff. 86v-90r.
17 Vat. lat. 2222, ff. 90r-92v. Su Bernardino Carvajal si veda G. FRAGNITO in
cundum pontificem maximum, in Castro Cortesio 1510, cap. II, de domo cardina-
lium (f. 50r).
19 Vat. lat. 2222, ff. 27r-45r.
20 M. MALLETT, The Borgias. The Rise and Fall of a Renaissance Dynasty, Lon-
Lopez, era però più intimamente legato con il coetano Girolamo Pau, sul
quale si veda il contributo di Mariangela Vilallonga in questo volume. Pro-
va della stima che gli portava il catalano si legge nella dedicatoria del suo
Barcino, descrizione storico-geografica di Barcellona, città natale del Pau21.
L’opera fu pubblicata nel 1491 poco prima della sua morte. Paolo Pompilio
gli aveva chiesto di scrivere la storia della città22. Una richiesta che dimo-
stra la volontà del nostro per un approfondimento delle sue conoscenze del
mondo spagnolo. Girolamo Pau era venuto per la prima volta a Roma nel
1475 e vi si era sistemato definitivamente nel 1477 dopo un breve soggior-
no a Pisa. A quest’epoca Pau era già membro della corte del cardinale Ro-
drigo Borgia per il quale stese la prima redazione dell’iscrizione destinata
alla Torre Borgiana a Subiaco in occasione del suo restauro. Altre compo-
sizioni seguirono nei primi anni Ottanta, epoca in cui probabilmente fece
conoscenza con Pompilio in quanto giovane maestro di grammatica nel rio-
ne Campo Marzio e da poco professore alla Sapienza. Paolo Pompilio lo
menziona nel terzo libro delle Notationes, quando parla dei prodigia acca-
duti negli anni 1484-85 a Roma, che considera di una certa importanza23.
Uno di questi ostenta costituisce la scoperta sulla via Appia del corpo di una
giovane romana perfettamente conservato. Tutta la città accorse a guardare
il corpo. Dei letterati che si precipitarono a dare la loro interpretazione ri-
guardo all’identificazione della giovane romana, solo Girolamo Pau è no-
minato espressamente in quanto «vir certe paucorum similis pudore et eru-
ditione». Per quanto riguarda l’opera di Girolamo Pau, pubblicata intera-
mente in anni recenti, vale forse la pena menzionare un nuovo testimone per
tre delle opere più significative della produzione letteraria del catalano. Il
manoscritto di Bruxelles (BR, 10565, in 8°) è datato alla fine del ‘400, ed è
probabilmente di fattura italiana. Tra i 57 fogli che costituiscono il mano-
scritto, si conservano il Barcino (ff. 1-24v), l’Hymnus panegyricus in festo
divi Aurelii Augustini (ff. 24v-37r) e il De fluminibus et montibus Hispa-
Nella lettera dedicatoria (f. 2r) Pompilio gli dice: «Perge, nostri temporis Borgiae
familiae spes et decus, libentique animo Syllabas nostras cape, amicissimi clientis
munus». Al f. 47r scrive ancora: «Respicio tamen officii mei curam in te, cuius e-
minens ingenium solicitam praeceptoris diligentiam meretur». Sul De syllabis si ve-
da W. BRACKE, «Contentiosa disputatio magnopere ingenium exacuit», in Roma e lo
Studium Urbis. Spazio urbano e cultura dal Quattro al Seicento, (Atti del Conve-
gno, Roma, 7-10 giugno 1989), Roma 1992, pp. 156-168.
32 A. FRUGONI, Carteggio umanistico di Alessandro Farnese (Dal cod. Gl. Kgl. S.
2125, Copenaghen), Firenze 1950, pp. 52-53: «Quod si virtus tua pene incredibilis
[…] et doctissimi praeceptoris Pompilii sedula cura non solum admonitione non indi-
gerent, verum et aliis exemplo non essent, omni conatu ac studio te ad huiuscemodi
imbibenda excitassem, et ad iucundissimum illum sapientiae fontem hauriendum
frequenter impulissem».
33 H *13254 f. [2r].
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antiquae nobilitatis Borgius splendor qui longe lateque et olim et nunc per
Italiam, Gallias, Hispanias omnemque Europam coruscavit, non ad scri-
bendum excitabit?»34. In questi anni Paolo Pompilio preparò anche la pub-
blicazione della Vita Senecae, di cui si è già parlato. Alla fine di questo te-
sto si legge una composizione che a prima vista sembra fuori posto. Il car-
me di 59 esametri, intitolato Vita Alphonsina, è dedicato alla memoria del
papa Callisto III, Alfonso Borgia. Il rapporto con la Vita Senecae che pre-
cede è tutt’altro che chiaro. I Borgia non furono nemmeno menzionati nel-
l’elenco degli spagnoli famosi che occupa il secondo e l’ultimo capitolo
della Vita Senecae. Certo, la fama della famiglia nasce nel ’400 e la fami-
glia non aveva prodotto autori di rilievo. Leggendo gli esametri, però, si ca-
pisce il vero scopo dell’aggiunta. La Vita Alphonsina, ovvero Sylva Alphon-
sina, denominazione con la quale si chiude il carme, che fu aggiunto alla
Vita Senecae, sembra l’abbozzo per un progetto epico di più ampio respiro
che il nostro intendeva realizzare in un prossimo futuro. Infatti Pompilio
termina, o, per dir meglio, interrompe, il carme con una promessa di conti-
nuazione: «Sint haec pauca satis, Clio, iam barbyton intra / Thecam conde
suam et serva; cras plura canemus». I primi 19 versi sono un dialogo con
Clio, musa della storia, sugli argomenti da affrontare nella poesia epica:
Pompilio non vuole scrivere la storia di un eroe classico, e tanto meno su
Apollo vanaque priscae numina culturae; preferisce invece trattare un tema
sacro. Decide infatti di scrivere di Alfonso Borgia, ossia Callisto III, di cui
potrà cantare la dottrina, che fu alla base della sua elezione, la modestia e
l’onestà. Discuterà dei patti di pace, dei concili, delle sue ambascerie, e so-
prattutto della sua crociata contro i Turchi. Si tratta, quindi, di una materia
da elaborare in un epos di ampia dimensione, un epos cristiano, non paga-
no. Pubblicando questo primo abbozzo alla fine della Vita Senecae, dedica-
ta al segretario di Rodrigo Borgia, Paolo Pompilio rendeva pubblico il pro-
posito di scrivere l’epopea dei Borgia. Il tempo non poteva essere più pro-
pizio: nel 1492 Rodrigo Borgia diventò papa con il nome di Alessandro VI.
Purtroppo, a questa data Paolo Pompilio era già morto da un anno.
34 H *13254 f. [1r].
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APPENDICE
(*) Trascrizione del Testimonium vitae Callisti Tertii pontificis maximi pie in-
tegerrimeque actae quocunque suae aetatis gradu dal Vat. lat. 2222, ff. 24r-25r.
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Leonzio Pilato, imp.: 327, 348 Luigi XI, re di Francia: 63, 69, 70, 80
Lestrigon: 172 Lünig Johann Christian: 238
Leto Pomponio: 7, 19, 207, 276, 289, Lutero Martin: 315
321-324, 326-327, 332-333, 335, Macedonia: 236
337-343, 344-348, 350-354 Machiavelli Niccolò: 12, 14-15, 49-51,
Levita Elijah: 311 66, 103, 129, 258, 289-290, 337
Lezzi Giovanni Battista: 144-145 Macrobio Aurelio Teodosio: 358, 365,
Libano: 313 392, 422
Libia: 370 Maddaleni Capodiferro Evangelista,
Libio: 170 detto Fausto: 8
Licinio Valerio Liciniano, imp.: 353 Maffei Agostino: 336
Lino, imp.: 345-346 Maffei Raffaele, detto il Volterrano: 19,
Lione: 267 36, 337
Lipsia: 238 Magalotti Alberto: 123
Liri, fiume: 74 Magnenzio: 351-352
Lisbona: 374, 377, 379, 381 Magone: 392
Lituania: 251 Magonza: 245
Liviano Bartolomeo: v. Alviano Bartolo- Mai A.: 142
meo d’ Maio Giuniano: 86
Livio Tito: 130, 158, 164, 169-171, 174, Maino Giason del: 241, 253
179-180, 222, 231, 289, 346, 410, Malatesta Roberto: 69
417 Malatesta Sigismondo Pandolfo: 69, 83
Livius Fidenas: 174 Malindi: 377
Llopis Joan: v. López Juan Mallett M.: 432
Lloris Francesco, card.: 336 Mancinelli Antonio: 178
Llull Ramon: 208, 430 Manetone: 160, 335
Lombardia: 414 Manili Giovanni Antonio: 248, 253
Lombardo Pietro: 301 Manilio Marco: 358-359
Lo Monaco F.: 394 Mantova: 138, 174, 251
Londra: 260, 270 Manuzio Aldo: 7, 37-38, 40-43, 45-48,
— British Library: 411 233, 380
López Giovanni, card.: 430-432, 435 Manuzio Paolo: 68, 89
López Juan: 198, 205 Maometto: 229, 329-330, 348, 353
López de Haro Diego: 278-279, 281 Maometto II, detto il Conquistatore: 73
López de Mendoza Iñigo, conte di Ten- Marca: v. Marche
dilla: 211, 275, 277, 283-284 Marcellinus Comes, cronista: 349
Lot: 70 Marche: 16, 45, 53
Lough Derg, lago: 255, 261 Marco Beneventano: 356
Luca, s.: 416 Margarit Joan: 211, 218
Lucano Marco Anneo: 205, 218, 233, Mariano da Genazzano: 418
365, 430 Marineo Lucio, detto Siculo: 211, 215,
Lucca: 251-252 217, 220, 232
Lucena Juan de: 211 Marino, vesc. di Glaudères: 262
Lucullo Lucio Licinio: 351 Marino di Tiro: 365-366, 379
Lucumone: 173, 179 Mario Caio: 81
Ludovico il Moro: v. Sforza Ludovico Marsia: 174
Lukius: 173 Marso Pietro: 354, 431-432, 434
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GENOVA PERUGIA
ARCHIVIO DI STATO BIBLIOTECA COMUNALE AUGUSTA
ms. 70: 244 I 109: 106-107, 110
BIBLIOTECA UNIVERSITARIA 3217: 106
E.III.1: 20
E.III.3: 21 ROMA
BIBLIOTECA ANGELICA
LUCCA gr. 101: 305
BIBLIOTECA CAPITOLARE lat. 351: 181
555: 36 BIBLIOTECA CASANATENSE
1227/a-b: 298
MODENA
BIBLIOTECA NAZIONALE CENTRALE
BIBLIOTECA ESTENSE
VITTORIO EMANUELE II
Gamma Z.3.2 (Campori 2869):
Vitt. Em.1024: 20
153
MÜNCHEN TORINO
NAPOLI VENEZIA
INDICI 463