Principato Ecclesiastico

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MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI


Comitato Nazionale Incontri di studio per il
V centenario del pontificato di Alessandro VI
(1492-1503)

PRINCIPATO ECCLESIASTICO E RIUSO


DEI CLASSICI
GLI UMANISTI E ALESSANDRO VI

Atti del convegno


(Bari-Monte Sant’Angelo, 22-24 maggio 2000)

a cura di D. CANFORA - M. CHIABÒ - M. DE NICHILO

Roma nel Rinascimento

2002
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PUBBLICAZIONE DEGLI ARCHIVI DI STATO


SAGGI 72

Principato ecclesiastico e riuso dei classici


Gli umanisti e Alessandro VI

Atti del convegno di Bari-Monte S. Angelo


(22-24 maggio 2000)

MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI


DIREZIONE GENERALI PER GLI ARCHIVI
2002
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DIREZIONE GENERALE PER GLI ARCHIVI


SERVIZIO DOCUMENTAZIONE E PUBBLICAZIONI ARCHIVISTICHE

Direttore generale per gli archivi: Salvatore Italia


Direttore del Servizio: Antonio Dentoni-Litta

Comitato per le pubblicazioni: Salvatore Italia, Presidente, Paola Carucci,


Antonio Dentoni-Litta, Ferruccio Ferruzzi, Cosimo Damiano Fonseca,
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© 2002 Ministero per i beni e le attività culturali


Direzione generale per gli archivi
ISBN 88-7125-227-6.
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Piazza Verdi 10, 00198 Roma

Stampato dalla Union Printing SpA


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SOMMARIO

MASSIMO MIGLIO, Premessa 7


FRANCESCO TATEO, Introduzione 11
MARIA GRAZIA BLASIO, Retorica della scena: l’elezione di Ales-
sandro VI nel resoconto di Michele Ferno 19
ANTONIO IURILLI, Carattere di Papa: Alessandro, Aldo, l’italico 37
MAURO DE NICHILO, Papa Borgia e gli umanisti meridionali 49
ERMINIA IRACE, Il pontefice, la guerra e le ‘false notizie’. L’età di
Alessandro VI nella cronachistica umbra 99
SEBASTIANO VALERIO, Un’allegoria di Alessandro VI nell’Eremita di
Antonio Galateo 141
GIACOMO FERRAÙ, Riflessioni teoriche e prassi storiografica in An-
nio da Viterbo 151
MARIANGELA VILALLONGA, Rapporti tra umanesimo catalano e uma-
nesimo romano 195
ANGELO MAZZOCCO, Il rapporto tra gli umanisti italiani e gli uma-
nisti spagnoli al tempo di Alessandro VI: il caso di Antonio de
Nebrija 211
FRANCO MARTIGNONE, Le ‘orazioni d’obbedienza’ ad Alessandro VI:
immagine e propaganda 237
ERIC HAYWOOD, Disdegno umanista? Alessandro VI di fronte all’Ir-
landa 255
DAVIDE CANFORA, Il carme Supra casum Hispani regis di Pietro
Martire d’Anghiera dedicato al pontefice Alessandro VI 275
GRAZIA DISTASO, Il mito umanistico del tiranno in una riscrittura
tardo romantica (I Borgia di Pietro Cossa) 285
PAOLA CASCIANO, Le postille di Egidio da Viterbo alla traduzione
dell’Iliade di Lorenzo Valla 297
FRANCESCA NIUTTA, Il Romanae historiae compendium di Pomponio
Leto dedicato a Francesco Borgia 321
DOMENICO DEFILIPPIS-ISABELLA NUOVO, I riflessi della scoperta del-
l’America nell’opera di un umanista meridionale, Antonio De
Ferrariis Galateo 355
CHIARA CASSIANI, Rime predicabili. La poesia in volgare di Giuliano
Dati 405
WOUTER BRACKE, Paolo Pompilio, una carriera mancata 429
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INDICI 439
– dei nomi 441
– delle fonti manoscritte 461
– delle tavole 463

Durante i lavori del Convegno è stata presentata anche la relazione di


AMEDEO QUONDAM, Letteratura curiale e Alessandro VI, che non è stato
possibile acquisire agli Atti.
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PREMESSA

Bari, a differenza di Roma, Valencia e Perugia dove si sono tenuti i pre-


cedenti Convegni, non è luogo alessandrino, ma uno dei centri universitari
più attivi e raffinati sull’umanesimo e sul rinascimento, con una consolida-
ta tradizione di ricerca. E Bari propone una sfida all’immaginario colletti-
vo, una verifica della cultura di età alessandrina.
Nell’opinione comune legata ad Alessandro VI hanno solida residenza
complotti e conflitti familiari, stragi e amori perversi; hanno asilo raffinati
pittori e complesse iconografie; trova difficile e marginale sopravvivenza
qualche estenuato verseggiatore di corte. Questo a leggere romanzi anche
recenti e a scorrere libretti d’opera e sceneggiature di films. Il tema propo-
sto sembra sconvolgere i ritmi consolidati dell’immaginario: non solo la
cultura del pontificato di Alessandro, ma come questa cultura (che dunque
esiste, ma non poteva essere diversamente) usi la cultura dei classici.
È una resistenza, quella di immaginare l’assenza di una cultura e i sen-
si di questa cultura, che sembra contagiare anche gli storici del pontificato.
Nei dizionari biografici, nelle battute finali delle biografie di Alessandro VI,
compare sempre il ricordo del pontefice come protettore delle arti, non
compare alcun riferimento a forme di mecenatismo nei confronti della cul-
tura scritta. Così nel Dizionario biografico degli Italiani, nel Dizionario
storico del papato, nella recente Enciclopedia dei papi – che, anche nel-
l’aggiornamento bibliografico, non ha ritenuto opportuno segnalare titoli in
proposito –; con la sola significativa eccezione della voce di Miguel Battlori
nel Diccionario de Historia Eclesiastica de España, che indica come il
pontefice: «En lo cultural extendió su mecenazgo a la vez a los canonistas
y a los humanistas: Lascaris, Aldo Manuzio, Brandolini, Podocataro, Pom-
ponio Leto, etc». I nomi dei canonisti sono sottintesi, quelli degli umanisti
sembrano accostati con una certa casualità, ma includono certo personaggi
non marginali.
Lo stesso Pastor, che dobbiamo sempre continuare a leggere, accanto
ai nomi dei canonisti Felino Sandei, Giovanni Antonio di S. Giorgio e Fran-
cesco da Brevio non poteva ricordare, tra gli umanisti, che Pomponio Leto
(che morirà il 27 maggio dei 1497), Michele Ferno, Pietro Gravina, Tom-
maso Inghirami, Aurelio e Raffaele Brandolini, Aldo Manuzio, Scipione
Forteguerri e Giovanni Lascaris, Annio da Viterbo, Giovan Battista Canta-
licio, tangenzialmente Egidio da Viterbo. Aggiungeva di seguito i sicura-
mente meno noti Carlo Valgulio, Francesco Uberti, Pietro Lazzaroni, Poli-
doro Vergilio, Girolamo Porcari, Andrea Iacobazio, Silvestro Bandoli e
Francesco Sperulo; e accantonava invece Adriano Castellesi e Ludovico Po-
docataro, per i quali il discorso dovrebbe essere in parte di segno diverso.
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8 MASSIMO MIGLIO

Se poi oggi tentiamo un aggiornamento del Pastor, anche soltanto o-


nomastico, e consultiamo l’Iter Italicum del Kristeller, le integrazioni pos-
sono essere poche: Marcellino Verardi, Antonio Tebaldeo, Matteo Bossi,
Girolamo Bologna, Fausto Evangelista Maddaleni Capodiferro, il notaio
Camillo Beneimbene, Giovan Francesco da Pisa (nomi, per il resto, alcuni,
già sufficientemente noti alla letteratura critica).
Una ricerca sulla cultura umanistica d’età alessandrina in Italia ed in
Europa, allora, non soltanto per capire e investigare il rapporto tra umanisti
e pontefice, tra la corte pontificia e l’umanesimo, quanto forse anche per
cercare di verificare se la scelta a favore degli artisti sia legata solamente a
una personale preferenza pontificia tra le arti o abbia un significato più am-
pio; se indichi una diversa comune consapevolezza dei mezzi da utilizzare
per l’affermazione di un pontificato. Una cultura vissuta attraverso l’utiliz-
zazione continua delle culture antiche, non soltanto quella greca e latina.
Ancora una volta le suggestioni sembrano venire dalle arti figurative.
Quell’accumulo di mitografie che ogni affresco suggerisce, quell’intrico da
bestiario fantastico che affolla marmi e travertini, quell’incalzare di divinità
pagane che definiscono l’immagine del nuovo pontefice è solo una conse-
guenza dell’affermazione di modelli artistici, o invece trasmette una preci-
sa volontà curiale?
A leggere le cronache i segnali furono immediati. In occasione del pos-
sesso del 1492 vi è un grande utilizzo di pittori d’occasione, di artisti e di
artigiani dell’effimero; che hanno il nome di Antoniazzo, del Perugino e di
Pier Matteo d’Amelia. Sono realizzate scenografie e fondali di un trionfo
che oramai, dopo Biondo Flavio, sapeva dove leggere le sue fonti. «V’era-
no constructi alchuni superbissimi archi triumphali [...] il primo era a simi-
litudine de quello de Octaviano presso al Coliseo, con quattro colonne di
grande grossezza e alte a due parte, e sopra capitelli quatro homini armati a
modo de baroni antiqui con le spade nude in mano; sopra l’archo, et al ca-
po de li bomini era la corona de l’archo con l’arma dil pontefice e chiave,
et a lato corni de divitia e mirabili festoni con le sue cornice [...] e molte al-
tre cose a proposto moderno».
Il proposto moderno delle iconografie si riempie anche di molta scrit-
tura: «era uno spacio grandissimo azurlo con littere d’oro in mezo che fa-
cilmente se leggevano de lontano e dicevano: Alexandro sexto pontifice
maximo [...] sotto la volta al piano era depinto uno acto de vaticinio e sotto
era una tavola a modo antiquo pendente con littere che dicevano Vaticinium
Vaticani Imperii. A l’altro canto era una simile volta con la coronatione e
queste littere: Divi Alexandri magni coronatio. Et a canto una grande tavo-
la missa azurlo con littere d’oro: Qui se suis in actionibus moderatur faci-
le ac parvo cum labore ad omnia pervenit. E ancora un incalzare di tabelle
esplicative: «Oriens», «Occidens», «Liberalitas. Roma. Iusticia», «Pudici-
tia. Florentia. Charitas», «Eternitas», «Victoria», «Europa», «Religio», «A-
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PREMESSA 9

lexander VI Pontifex Maximus», «D.A.VI.P.M.E.H.»; scritture che frantu-


mavano nello spazio il dettato della pagina dello scrittore, perché poi la sug-
gestione del lettore lo ricomponesse e articolasse nella propria intelligenza.
Non si tratta di individuare l’ordinator della scenografia e dei suoi par-
ticolari, quanto piuttosto di verificare la consonanza con i versi che subito
circolarono in Italia e in Europa e che dettavano «Cesare magna fuit nunc
Roma est maxima, / Sextus regnat Alexander, ille vir, iste deus», e tentare
di capire se quei versi possono essere ricondotti solo all’adulazione (una ca-
tegoria a cui bisognerà dare dignità storiografica) di un poeta d’occasione
(il cui nome, a differenza di quello dei pittori, rimane anonimo) o non e-
splicitino una volontà più alta.
Una volontà che si concretizza nelle immagini, ma che non rinuncia al-
l’uso della scrittura, e che tra le scritture privilegia i versi alla prosa. Versi e
scritture che sembrano raggiungere la loro apoteosi al palazzo del protonota-
rio Ludovico Agnelli, dove il pontefice e tutti i partecipanti alla processione,
tutti gli spettatori di quell’apparato, avrebbero visto tavole ansate, stemmi cli-
peati e festoni di scritture, con motti e divise: «in campo azzurro littere d’o-
ro, nel scuro littere bianche», che propongono il pontefice come libertatis rex,
copiae equitas et pacis pater»; augurano «Alexandro invictissimo, Alexandro
pientissimo, Alexandro magnificentissimo, Alexandro in omnibus maximo
honor et gloria»; esaltano i nuovi tempi: «Viventibus eternitatem letam danti
gloriam eternam. Prisca novis cedant, rerum nunc aureus ordo est, invictoque
Iovi est cura primis honor»; prospettano una pace eterna «Sancta fuit nullo
maior pax tempore, tuta omnia sunt, agnus sub bove et angue iacet»; riper-
corrono sempre modelli antichi «Libertatis pia iusticia et pax aurea, opes que
sunt tibi, Roma, novus fert deus iste tibi»; mescolano fiori a incenso, Giove
alle fiamme, riti cristiani a riti pagani: «Ambrosie nectar violae rosae lilia a-
momum / turaque sunt aris tibia cantus honos / accumulent fora letitiam te-
stantia flamma / scit venisse suum patria grata Iovem».
Troppo ricorrente Giove, troppo iterata l’equazione Alessandro/dio, trop-
po frequenti i temi politici come l’esaltazione della pace e della giustizia, per
poter pensare soltanto al proposto moderno della cultura scritta del tempo: a
contrasto, ad esempio, con la maniera tradizionale delle biografie pontificie.
Se questa è la presenza della scrittura nel primo giorno di pontificato
di Alessandro – un personaggio che non era homo novus nella società cu-
riale ma che conosceva le pieghe più riposte di questa società da oltre mez-
zo secolo; che era ormai profondamente italianizzato –, non è però ovvio
che negli anni successivi tutto sia continuato secondo gli stessi presupposti.
Per i pontefici romani non è quasi mai il conto delle opere dedicate al
papa (tranne qualche caso eccezionale) a dare il senso dello spessore cultu-
rale del pontificato. Ma ha un senso che la storia scritta non sembri avere
più cittadinanza a Roma; che si riconoscano da parte di chi scrive storia –
accentuandole – le difficoltà della scrittura; che la memoria storica si auto-
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10 MASSIMO MIGLIO

definisca spesso imago, allontanandosi, anche nella definizione, da quelli


che erano stati da sempre i canoni della storiografia (quello di Giovanni
Burcardo è un Liber che ha una lunga tradizione alle spalle, ma che può ri-
ferirsi alla storia della liturgia e non a quella della società; Felino Sandei
scrive solo un’epitome sul Regno di Sicilia; Michele Ferno scrive qualcosa
che sembra essere la premessa ad una storia che gli avvenimenti successivi
dovranno scrivere); o, soprattutto, che prevalgono i versi. La biografia pon-
tificia sembra ormai scomparsa. È qualcosa che aveva avuto i suoi prodro-
mi già con Sisto IV, contestualmente alla riproposta da parte del Platina di
quello che avrebbe dovuto essere il nuovo Liber pontificalis, il Liber de vi-
ta Christi ac omnium pontificum. Lo stesso Sisto IV aveva preferito che la
sua biografia avesse un diverso impatto da quella affidata ai manoscritti e
alla stampa, e venisse tracciata, compendiata per immagini e per scrittura,
sulle pareti della corsia sistina dell’Ospedale di S. Spirito.
La tendenza al compendio continua e molte delle nuove memorie di
storia si avviano su questa strada, anche se la presunzione del nuovo, di vi-
vere in una nuova società, di rappresentare una nuova cultura, di scrivere
contenuti nuovi, farà aggiungere a molti dei titoli l’aggettivo nuovo: Nova
istoria, Nova apocalypsis, Nova lex.
Bernardino Corio concludeva la prima pagina, trionfale, della nova isto-
ria di Alessandro VI, sopra ampiamente ricordata, con una finale riflessione,
significativa, che svelava i tempi della sua scrittura e proponeva un giudizio
sul pontificato: «Entrò al pontificato Alexandro sexto mansueto come bove,
l’ha administrato come leo». Forse, in tal modo, proponeva anche un giudi-
zio sull’utilizzazione parossistica della scrittura d’apparato nella cerimonia
del possesso e dava un senso alla sua attenta registrazione delle scritture. Non
solo quindi curiosità erudita è anche la sua trascrizione integrale dei quattor-
dici versi che, accanto alla casa dei Massimi, accostavano cornucopia («Lae-
ta Ceres»), stemma pontificio («Divo Alexandro magno maiori maximo»),
scrittura e immagini, ad una «tavola come li antiqui usavano, quale havea so-
pra uno bove di metallo indorato e sotto gli era questi versi:
Est piger in celo, sunt et tua pigra boote
Signa que emerito pacis ad usque bove
Perge piger tardoque magis rege tramite currum
Tardus ut in terris bos quoque noster eat.
[...]
Urse leo aquila alta simul simul alta columna
Et mea habes dominum cum bove Roma bovem.

MASSIMO MIGLIO
Presidente Comitato Nazionale
Alessandro VI
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INTRODUZIONE

Il convegno che oggi avviamo si colloca in una regione certamente tan-


genziale rispetto al raggio d’azione dei Borgia, e particolarmente del ponti-
ficato di Alessandro VI – il fatto che Lucrezia fosse duchessa di Bisceglie
non ha nel nostro caso alcuna rilevanza. Tuttavia l’orizzonte insolitamente
ampio e l’articolazione complessa con cui è stata ideata la serie di convegni
in occasione del Giubileo ha consentito di prevedere la partecipazione di-
retta della nostra Università. Siamo grati a Massimo Miglio, presidente del
Comitato «Incontri di studio per il V centenario del pontificato di Alessan-
dro VI», costituito dal Ministero per i Beni e le Attività culturali, e a «Ro-
ma nel Rinascimento», con cui una sezione del Dipartimento di Italianisti-
ca di questo Ateneo collabora da vari anni, se in questo orizzonte e in que-
sta articolazione sia stato compreso il contributo di studio e di organizza-
zione proveniente da questo nucleo universitario, che è soprattutto versato
nella ricerca filologica e letteraria dell’età umanistico-rinascimentale, ed ha
sempre operato nella prospettiva di un’indagine storica in senso lato e di
storia della cultura in senso specifico. Nella serie degli incontri, quello at-
tuale vuol essere un momento di riflessione sul quadro culturale, dominato
dal riuso dei classici, nel quale Alessandro VI si è mosso, lasciando anche
qualche sua impronta diretta o decifrabile, ma lasciando soprattutto – fra i
tanti problemi che suscita la sua enigmatica figura – il desiderio, da parte
degli studiosi del Rinascimento, di conoscere il senso della sua presenza al
vertice della Chiesa in un decennio dei più decisivi per la cultura umanisti-
ca. Per gli anni precedenti quel decennio e per quelli successivi non si può
far storia dell’Umanesimo e delle lettere in genere senza riferirsi all’auto-
rità di un organismo come quello ecclesiastico che gestiva da secoli e con-
tinuerà a gestire una parte considerevole dell’attività intellettuale, mentre
pare che lo studioso dell’Umanesimo per quel che riguarda quel decennio
non sia obbligato a fare il nome di Alessandro VI se non per registrare un’e-
pidittica andata in disuso e una letteratura epigrammatica di diffamazione
che non rappresenta ormai che una curiosità. Schiacciato almeno fra Sisto
IV da una parte e Giulio II e Leone X dall’altra, che ereditavano un’auten-
tica tradizione di cultura umanistica, Alessandro VI non ha meritato, né for-
se potrà meritare, un capitolo su ‘Papa Borgia e l’Umanesimo italiano’, ed
ha un significato riduttivo l’argomento ‘Gli umanisti e Alessandro VI’, an-
che a voler respingere, come potrà contribuire a fare questo convegno, l’i-
dea che egli fosse in certo qual modo estraneo se non ostile ai letterati, che
è l’idea che avevamo quando ci siamo inseriti in questa iniziativa.
Ma la storia non è più quella dei protagonisti, bensì quella dei contesti
(o meglio, non è più solo quella dei protagonisti, perché costoro o esistono
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12 FRANCESCO TATEO

o la immaginazione li fa esistere e li fa durare più a lungo di quelli reali).


Alessandro VI non è diventato, né lo era, un protagonista della cultura u-
manistica, ma ha vissuto da grande qual era l’età più delicata, più critica ed
anche più espansiva dell’Umanesimo. Come parlando del Giubileo del
1500 non si può tacere il suo nome e la sua attiva presenza nella manife-
stazione giubilare, anche se non fu certo merito suo se Dio concesse l’in-
dulgenza ai fedeli, così non si può tacere il nome di Alessandro VI parlan-
do del decennio in cui, morto appena Lorenzo il Magnifico, venivano a
mancare tre pilastri della cultura umanistica, Angelo Poliziano, Giovanni
Pico della Mirandola ed Ermolao Barbaro, lo stesso anno – come osserva-
va sgomento Pietro Crinito (De honesta disciplina, XV 9) – che vedeva l’in-
vasione di Carlo VIII alla quale è legata una delle prime e più discutibili a-
zioni di Papa Borgia. Quel decennio in cui veniva a mancare la presenza
forte del Re aragonese di Napoli, e che vide il ritiro ‘ciceroniano’ di Gio-
vanni Pontano dalla vita politica con la composizione delle sue opere più
feconde nella prospettiva culturale del Rinascimento; che vide la formazio-
ne di Bembo, di Machiavelli e di Guicciardini, gli iniziatori della riflessio-
ne critica, politica e storiografica del Cinquecento, presso i quali il caso di
Alessandro VI assume l’evidenza di un evento epocale, sia che servisse a ri-
cordare la crisi che aveva subìto la lingua italiana con l’arrivo degli Spa-
gnoli in veste di dominatori («Valenzia il colle Vaticano occupato avea» –
lamentava Bembo nelle Prose della volgar lingua – come ho avuto modo di
ricordare nel convegno di Valenza parlando dell’atteggiamento del grande
letterato ecclesiastico), sia che servisse a dimostrare il nodo più critico del-
la nuova dottrina machiavelliana della virtù, sia che servisse a definire un
momento significativo d’avvio del nuovo secolo nella prospettiva guicciar-
diniana. Alla morte di Lorenzo, gravida di dolorose conseguenze, corri-
spondeva dieci anni più tardi la morte di Alessandro, la quale avrebbe inve-
ce assunto nella prospettiva ottimistica del Rinascimento e poi del Sette-
cento riformatore il significato di una liberazione da una parentesi di orro-
re. In realtà, nel corso di quel decennio – pieno di luci e di ombre come tut-
ti i periodi storici, del resto – si assisté nella storia della cultura allo sboc-
co più decisivo dell’editoria manuziana e al rilancio della poesia in volga-
re, all’affermarsi del ciceronianismo che avrebbe suscitato la ben nota po-
lemica erasmiana animata da motivazioni religiose non estranee al timore
del risorgente paganesimo nel seno stesso della Chiesa, di cui proprio que-
gli anni erano stati un esempio; si assistette alle avventure stravaganti della
scrittura latina, che segnava la crisi della scuola classicheggiante, mentre il
classicismo si trasferiva nel toscano letterario avviatosi a diventare la lingua
italiana, col decisivo contributo romano proveniente dalla proposta corti-
giana, che aggiornava la dottrina dantesca della curialità della lingua. Né va
dimenticata un’altra tematica culturale che si maturava in quegli anni, di
fronte ad una rediviva età del ferro, cioè l’evasione esoterica verso forme di
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INTRODUZIONE 13

irenismo e di ermetismo convergenti con il passaggio solenne del giubileo.


Quale fu la presenza di Alessandro in tutto questo rivolgimento?
Nel nostro convegno potranno esservi dirette o implicite risposte, potrà
farsi valere anche l’argomento ex silentio nel trattare vicende culturali solo
cronologicamente legate al decennio borgiano, ma va rammentata, magari
per un’ulteriore interpretazione, la preziosa – aggiungerei equivoca – testi-
monianza rilasciata da chi si era distinto per un bilancio della recente scrit-
tura umanistica, Paolo Cortesi, il quale non mancava di ricordare Alessandro,
dopo la sua morte, trattando nel De cardinalatu (De sermone 93) del com-
portamento e della cultura che si addice ad un principe della Chiesa, per l’ec-
cezionale capacità che Papa Borgia avrebbe avuto di applicare uno fra i mag-
giori compiti dell’oratore, cioè la convenienza della parola alla circostanza, a
proposito dell’arte di atteggiare la voce alla ‘persona’, ossia alla maschera
che l’oratore assume nel parlare: «Alessandro, per universale consenso, fu ri-
tenuto eccellente in quest’arte, perché adattava lo stile alla ‘persona’, a tal
punto che nulla poteva esserci di più calibrato della sua espressione quando
usava la prosopopea, e di quello stile dicono che si fosse servito specialmen-
te quando s’incontrò con Carlo VIII». C’è, infatti, un evidente riferimento al-
l’impiego politico, e in certo qual senso furbesco, dell’arte oratoria, non sa-
prei dire quanto spassionatamente funzionale, da parte del Cortesi, ad un me-
ro problema di retorica o ad una maliziosa aneddotica. Forse è interessante
proprio il fatto che l’autorevole testimonianza della pratica retorica del Papa
riguardasse l’aspetto istrionesco della sua personalità; eppure va rilevato che
essa riguardava un settore fra i più importanti della cultura umanistica, la ri-
flessione sul sermo, che accompagnava in quegli anni la complessa trasposi-
zione della sapienza retorica latina alle nuove esigenze dell’oratoria e alla
lingua volgare. Analogamente la presenza di Alessandro al centro di un’ab-
bondante letteratura cortigiana e satirica non basta a dargli un posto nella cul-
tura umanistica, al di là di quello che ha certamente nei ‘versi’ degli umani-
sti. Sappiamo come la rievocazione dell’età dell’oro si sprecasse anche nei
suoi confronti, e come non mancasse di essere esaltata in lui e in Cesare (in-
credibile!) la sconfitta della tirannide: «finalmente giace abbattuta ed estinta
la feroce violenza dei tiranni; nessuno più ruba ai pupilli; nessuno oserà
strappare alle fanciulle il fiore della loro tenera età», così cantava – ‘cantava’
si fa per dire – Francesco Sperulo, un poeta dei Coryciana.
Rimane tuttavia l’interesse per alcune esperienze letterarie cui i Borgia
offrirono l’occasione, come ha dimostrato la recente edizione dei versi del
Cantalicio, uscita nell’edizione nazionale dei testi umanistici, versi che docu-
mentano, spesso oscuramente, nella forma bucolica di moda e secondo una
tradizionale funzione dell’egloga, gli eventi politici contemporanei, o descri-
vono nella forma epigrammatica di Marziale gli spettacoli allestiti per il ma-
trimonio di Lucrezia Borgia con Alfonso d’Este. L’umanista, che diverrà ve-
scovo di Atri proprio in forza della protezione dei Borgia, non è in effetti suf-
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14 FRANCESCO TATEO

ficientemente sganciato dalla stretta osservanza encomiastica, anche quan-


do si diverte a descrivere le corse di uomini e animali, o una sorta di corri-
da, o la sfilata dei carri allegorici, e ad usare il leggero endecasillabo catul-
liano caricato di anafore e di omoteleuti per ricordare l’origine spagnola dei
suoi protettori. Valenza è l’«urbs a magnifico valore nomen (un’interpreta-
tio etimologica) / urbs hispanica clara, grata nobis / urbs et Romuleis ama-
ta semper: / haec et magnanimos viros ducesque, / haec et pontifices tulit
beatos, / haec et cardineos tulit caleros, / haec Papam tulit et benigna Sex-
tum, / unus qui reserat serratque coelum» (Spectacula, VIII; cito dalla re-
cente edizione di Liliana Monti Sabia, inclusa nell’Edizione nazionale dei
testi umanistici). Ma quando egli introduce nelle egloghe due pastori pu-
gliesi (la mia scelta è ovviamente dettata dalla circostanza che ci fa ritrova-
re in questa regione), Salentinus e Daunus, a lamentare i lutti portati dal-
l’esercito francese e a sperare nel ristabilimento del Regno di Napoli, o ce-
lebra la vittoria del Borgia sugli Orsini come ristabilimento della pace, e
quando poi seguiamo il letterato deluso dal ritorno degli Aragonesi e attrat-
to dai vantaggi di un potere più solido come quello ecclesiastico, non pos-
siamo né criticare l’ingenuità di vedere Alessandro capace di aprire e chiu-
dere il cielo, o di mescolarsi a coloro – come dice Guicciardini – che lo e-
saltarono per una «rarissima e quasi perpetua prosperità», o l’accortezza di
ottenere proprio mediante un sopravvissuto dei Borgia, Pier Luigi, il ve-
scovato di Atri da Giulio II, quanto piuttosto registrare la confusione di fi-
ne secolo nella quale si dibattevano disorientati gli umanisti, non sapendo a
chi più attribuire il marchio del tiranno o l’aureola del liberatore.
Al di là della miseria cortigiana c’era una realtà contraddittoria e com-
plessa di fronte alla quale si dissolveva uno dei temi fondanti della cultura
umanistica, la missione civile delle lettere, la vocazione per la civitas con-
tro la tirannide feudale e per il principato giusto e pacificatore o la repub-
blica aristocratica riconoscitrice dei meriti; né potevano attendersi altre so-
luzioni se non il nuovo metodo del Machiavelli o il cedimento all’autorita-
rismo della Riforma. Era rimasto un forte dubbio su quale fosse la parte del-
la tirannide, Ferrante o i baroni ribelli; il dubbio poteva ben nascere anche
di fronte allo scontro fra Papa Borgia e gli Orsini, fra Cesare e i signori del-
l’Italia centrale. La letteratura umanistica o era impegnata a lamentare la
miseria del letterato, oppure – scegliendo in buona o in mala fede la parte
del vincitore – continuava a denigrare la tirannide e a sognare il principato
giusto.
Non posso tacere, aprendo un convegno su Alessandro VI in questa U-
niversità, che uno dei libri più validi su questo ordine di problemi interpre-
tativi è stato, alla metà del secolo trascorso, quello dovuto ad uno dei fon-
datori della nostra Facoltà di Lettere e Filosofia, Gabriele Pepe, con La po-
litica dei Borgia, scritto nel 1945 e dedicato a Benedetto Croce, «che ci in-
segnò a non disperare della libertà e della patria in giorni così tristi per l’I-
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INTRODUZIONE 15

talia come quelli della tirannide borgiana e della conquista straniera», si di-
ce nella dedica. Ma l’autore, pur così impegnato sul versante della protesta
laica, sceglie con grande onestà di storico le sue fonti sottraendosi già com-
pletamente alle tentazioni moralistiche della denigrazione e della riabilita-
zione, che questi incontri di studio hanno inteso sin dall’inizio escludere. E
se ad un’autorità come quella di Gian Battista Picotti è parso che Gabriele
Pepe abbia «giudicato severamente, ma non spassionatamente» la politica
dei Borgia, ciò dipende dal taglio interpretativo e non erudito e analitico del
libro, dove certamente non si rinuncia alla condanna formulata da Guic-
ciardini, ma se ne condivide soprattutto la serietà storiografica, e dove il
fondamentale uso del metodo di Machiavelli preserva lo storico da giudizi
che non siano di ordine politico, come si vede soprattutto nella conclusio-
ne sui limiti ‘distruttivi’, ma in questo senso ‘positivi’, dell’opera di Cesa-
re. E, tuttavia, non di questa interpretazione che spetta agli storici intende-
vo parlare, ma solo di come il problema umanistico del Principato e dei suoi
rapporti con la cultura classica abbia trovato un momento critico nell’età di
Alessandro VI, tale da coinvolgere la riflessione politica e civile in una fa-
se recente e scottante della nostra storia. Aspetto collaterale e speculare ri-
spetto a quello dell’immagine storica dei Borgia, che ho cercato di illustra-
re nell’incontro di Valenza additando in un elogio offerto al Papa per la sua
elezione, il carme bucolico di Galeotto Del Carretto edito dal Renier nel
1885, gli elementi in altro senso polemici che attribuivano ad Alessandro il
provvidenziale ritorno dell’antica Spagna romanizzata nell’Italia decrepita
e corrotta.

***

Devo ringraziare per il sostegno dato il Magnifico Rettore e il Consi-


glio di Amministrazione della nostra Università, l’Associazione «Roma nel
Rinascimento», il Ministero per i Beni e le Attività culturali, il Ministero
dell’Università e della Ricerca Scientifica; giovani e meno giovani studiosi
che lavorano nel nostro Dipartimento di Italianistica per l’apporto scientifi-
co e organizzativo; gli Enti che hanno dato il patrocinio, i collaboratori del
Comitato scientifico e del Comitato organizzatore; gli studiosi qui conve-
nuti, dai quali dipende l’esito del convegno; il Dipartimento di Studi classi-
ci e cristiani che ha consentito l’escursione che si farà a Monte Sant’Ange-
lo, dove avrà luogo una sessione del convegno presso il Centro di Studi Mi-
caelici e Garganici.
La scelta di questo luogo per una giornata di studio e di pausa non di-
pende soltanto dalla possibilità di utilizzare una sala adeguata in un Centro
che persegue ricerche consone all’occasione del Giubileo, storia ecclesia-
stica e tradizione classica; non dipende soltanto dall’interesse che offre un
luogo normalmente non raggiunto da chi viene in Puglia, anche se gli studi
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16 FRANCESCO TATEO

sugli itinerari crociati che riguardano il Gargano hanno messo in luce una
situazione diversa del passato. Gli è che ad un certo punto la tematica del-
la tirannide, sottesa alla tradizione borgiana, mi ha fatto pensare – con l’aiu-
to della Civiltà del Rinascimento in Italia di Jacob Burckhardt – al senso
che l’immagine di san Michele che uccide il drago o sconfigge il demonio
possa aver avuto nel contesto rinascimentale, in anni di ascesa e di caduta
di tiranni, di congiure e di repressioni, specialmente nelle mani di Raffael-
lo, che giovanissimo assisteva alle vicissitudini dell’Umbria, delle Marche
e della Romagna, e svolgeva forse già nel 1500 il tema, accanto a quello a-
nalogo di san Giorgio, in una tavoletta dove emergono tratti fiamminghi al-
la Bosch, ma dove già il truce mondo demoniaco contrasta con il volto se-
reno ed umano dell’eroe divino armato e vittorioso. Quell’atteggiamento
stesso del volto viene richiamato nei tratti della più tarda e più nota rappre-
sentazione raffaellesca dell’Arcangelo che combatte col diavolo, questa
volta non un mostro ma una figura umana con le ali di Satana, e che Vasa-
ri interpreta con una chiara allusione etico-politica quando vede da una par-
te «Lucifero, incotto ed arso nelle membra con incarnazione di diverse tin-
te» rappresentare «tutte le sorti della collera, che la superbia invelenita e
gonfia adopera contra chi opprime la grandezza di chi è privo di regno do-
ve sia pace», ossia la superbia diabolica che sostiene la tirannide e combat-
te i difensori della libertà e della pace; dall’altra san Michele «che, ancora
che e’ sia fatto con aria celeste, accompagnato dalle armi di ferro e di oro,
ha nondimeno bravura e forza e terrore, avendo già fatto cader Lucifero».
Questa immagine, commissionata da Lorenzo duca di Urbino nel 1518 e in-
viata al re di Francia, poteva alludere, nelle intenzioni del committente e del
destinatario, a situazioni diverse da quelle dei primi anni del secolo, ma è,
certamente, una raffigurazione della lotta contro i tiranni, dove il volto an-
gelico, evidente nello studio preparatorio, e la mano armata richiamano in-
negabilmente la ben nota ideologia delle armi al servizio della pace, ossia
delle arti. Ma il primo san Michele, dipinto da Raffaello negli anni del suo
apprendistato, quando viveva tra Perugia e Città di Castello, appunto nel
1500 o giù di lì, non può essere estraneo a famose vicende proprio di que-
gli anni: il duca Valentino era stato costretto a ritirarsi dall’assedio di Faen-
za per opera di Astorre Baglioni, e l’evento fu salutato in Italia con ricordi
petrarcheschi (l’eroismo latino contro la barbarie); allo stesso tempo Cesa-
re Borgia trionfava sui tirannelli della Romagna. La vittoria di san Michele
si riferiva in quella prima esperienza pittorica ad un evento o ad un’aspira-
zione? Alla sconfitta di Cesare o alla sua vittoria? Un inquietante dilemma
per l’immagine stessa del grande artista. E si riferiva a Cesare o ad Ales-
sandro? Erano troppo ingombranti entrambi perché non se ne dovesse ri-
cordare chi rappresentava una lotta mitica di così alto profilo (non voglio
rammentare a questo proposito, per non fare identificazioni rischiose, le pa-
role di Guicciardini che parlando della morte di Alessandro raccontava la
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INTRODUZIONE 17

pubblica gioia di vedere «spento questo serpente che […] aveva attossicato
tutto il mondo»).
Lascio ovviamente agli storici dell’arte ogni problema di identificazio-
ne. A noi preme invece che in questa occasione, visitando il luogo sacro del
Gargano, legato ad un corredo di ricordi altomedievali, di testimonianze
folkloriche e iconografiche di carattere demologico, possiamo arricchire la
simbologia dell’Arcangelo di un livello classico che sembra essergli estra-
neo e prolungarne la vitalità, con un ricordo rinascimentale e con una sim-
bologia molto significativa per lo sviluppo della cultura moderna.

FRANCESCO TATEO
Preside della Facoltà di Lettere
dell’Università degli Studi di Bari
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MARIA GRAZIA BLASIO

Retorica della scena: l’elezione di Alessandro VI


nel resoconto di Michele Ferno

Nel 1492 Michele Ferno doveva avere circa 25 anni. Facendo la spola fra
Roma e Milano, dove svolgeva la professione notarile, Ferno aveva stretto
rapporti con personaggi di altissimo rilievo; ne è testimonianza la fitta corri-
spondenza con Iacopo Antiquari, che lo incoraggerà nella edizione delle ope-
re di Giovanni Antonio Campano (1495), e la lettera del 13 febbraio 1494 a
Giorgio Merula intorno alla scoperta dei codici della biblioteca di Bobbio, al-
la forte impressione che la notizia aveva provocato fra gli umanisti romani del
circolo di Pomponio Leto che, a suo dire, lo avrebbero assediato di domande
«quod vidisse atque legisse ea me intelligant». Nell’ambiente romano Ferno
era entrato in contatto con Raffaele Maffei, con Iacopo Gherardi, con Paolo
Cortesi, nomi che emergono dai suoi scritti come conoscenze non occasiona-
li, e a Pomponio Leto il Ferno si indirizzerà più volte nella sua opera di edi-
tore, tessendone poi un vibrante elogio funebre contenuto in un lettera al-
l’Antiquari1. Sebbene non si abbiano notizie certe intorno all’attività svolta

1 Per notizie sull’attività del Ferno: M. CERESA, Ferno Michele, in DBI, 45, Ro-

ma 1996, pp. 359-361; la firma «Michael de Ferno» si legge in uno dei registri di pre-
stito della Biblioteca Vaticana (Vat. lat. 3966, f. 59v), per la ricevuta di un codice (Vat.
lat. 2048) con la biografia di Braccio da Montone scritta dal Campano: M. BERTÒLA,
I due primi registri di prestito della Biblioteca Apostolica Vaticana. Codici Vaticani la-
tini 3964, 3966 (Indice degli autografi a cura di A. CAMPANA), Città del Vaticano 1942,
p. 103; lo scambio epistolare fra il Ferno e Iacopo Antiquari, ancora non sufficiente-
mente esplorato, emerge dalle lettere inserite dal Ferno nelle edizioni a stampa da lui
curate e dai documenti pubblicati da G.B. VERMIGLIOLI, Memorie di Jacopo Antiquari
e degli studi di amena letteratura esercitati in Perugia nel secolo decimoquinto, Peru-
gia 1813, pp. 85, 89, 225; la lettera al Merula, conservata fra gli autografi del filologo
nell’Archivio di Stato di Milano, si legge in F. GABOTTO-A. BADINI CONFALONIERI, Vi-
ta di Giorgio Merula, «Rivista di Storia, Arte, Archeologia della provincia di Alessan-
dria», 3 (1894), p. 66 e nota 1; cfr. G. MERCATI, Prolegomena de fatis bibliothecae mo-
nasterii S. Columbani Bobiensis et de codice ipso Vat. lat. 5757, in M. TULLII CICERO-
NIS De re publica libri e codice rescripto Vat. lat. 5757 phototypice expressi, Città del
Vaticano 1934, pp. 77 e 86; per l’encomio del Leto cfr. il testo in G.D. MANSI, Adden-
da, in J.A. FABRICIUS, Bibliotheca Latina mediae et infimae aetatis, a cura di G.C. GAL-
LETTO, III, Firenze 1858, pp. 629-632. Osservazioni sul lavoro editoriale del Ferno in
A. GRAFTON, Correctores corruptores? Notes on the Social History of Editing, in Edi-
ting Texts. Texte edieren, edited by G.W. MOST, Göttingen 1998, pp. 58-59.
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20 MARIA GRAZIA BLASIO

dal Ferno a Roma durante il pontificato di Innocenzo VIII2, probabilmente in


quegli anni egli iniziò a svolgere quella professione forense che lo avrebbe
portato a ricoprire in curia l’ufficio di avvocato delle cause della Rota3. La te-
stimonianza intorno alla elezione di Alessandro VI reca nei manoscritti il tito-
lo di Conclave Alexandri Sexti Pontificis Maximi Michaele Ferno Mediola-
nensi auctore; lo scritto è conservato in codici del XVI e XVII secolo, di cui
cinque nella Biblioteca Apostolica Vaticana, tutti tipologicamente omogenei:
si tratta infatti di anonime compilazioni costituite, per la maggior parte, da se-
rie di resoconti intorno alle elezioni pontificie disposte in ordine cronologico,
memorie selezionate da opere più ampie di autori diversi e ricucite in blocchi
testuali compatti4. Queste raccolte, diffusissime, non sono state studiate dal
punto di vista della ricostruzione della tradizione e della fortuna dei testi in es-
se contenuti e non ultimo dei rapporti che esse hanno con le compilazioni e-
rudite pubblicate a stampa. Si deve procedere, dunque, con cautela circa il fat-
to che il testo intitolato Conclave possa essere nato come prodotto original-
mente autonomo, poiché non si può escludere che esso sia stato prelevato da
altra opera del Ferno e rielaborato da persona diversa dall’autore. Le tessere
che compongono il testo intitolato nei manoscritti Conclave Alexandri VI si
trovano infatti, pressoché identiche, in un secondo ed assai più ampio scritto
del Ferno. Si tratta dell’opera indicata comunemente con il titolo di De lega-
2 Del tutto inattendibile è l’indicazione contenuta nel ms. E. III. 1 della Biblio-

teca Universitaria di Genova (sec. XVII) che alle cc. 238r-431v reca un resoconto e
documenti riguardanti l’elezione pontificia del 1484 con il titolo: «De morte Xisti
quarti et cerimonia eius funeris nec non Conclave Innocentii papae ottavi cum per-
fecta et exactissima ceraemoniarum eius coronationis descriptione, auctore Michae-
le Ferno Mediolanensi Sacri Palatii Apostolici ac Pontificum primario ceraemonia-
rum Magistro [sic]». Si tratta, infatti, di pagine estratte dal Liber notarum del Bur-
cardo. Cfr. JOHANNIS BURCHARDI Diarium sive rerum urbanarum commentarii
(1483-1506), a cura di L. THUASNE, I, Paris 1883-1885, pp. 9-109; Liber notarum di
Giovanni Burcardo, a cura di E. CELANI, RIS2, 32/1, (1907), pp. 13-84.
3 Cfr. infra n. 8.
4 Bibl. Ap. Vat., Barb. lat. 2639, ff. 1r-7r (sec. XVII); Urb. lat. 844, ff. 11r-24v

(sec. XVII); Vat. lat. 8656, ff. 1r-15v (sec. XVI); Vat. lat. 14203, ff. 175r-188v (sec. X-
VII); Vat. lat. 8407 ( sec. XVII), ff. 64r-77r (solo traduzione italiana). Altre copie sono
contenute nei manoscritti: Bergamo, Bibl. Civ. Angelo Mai, MA 502 (sec. XVI); Na-
poli, Bibl. Naz., IX B 7 (sec. XVI), XII C 11 (sec. XVII); Zaragoza, Bibl. del Semina-
rio sacerdotal de San Carlos, A. 4. 24 (sec. XVI); Roma, Bibl. Naz., Vitt. Em. 1024, ff.
261r-275r (sec. XVII): questo manoscritto reca il titolo, reso quasi illegibile dalla ero-
sione subita dalla carta, di De legationum Italicarum ad divum Alexandrum VI adventu
epistola ad Jacobum Antiquarium | Epitome. L’individuazione dei codici è frutto della
ricerca effettuata nel CD-ROM (Leiden 1995) contenente i volumi curati da P.O. KRI-
STELLER, Iter Italicum. A Finding List of Uncatalogued or Incompletely Catalogued Hu-
manistic Manuscripts of the Renaissance in Italian and Other Libraries, I-II, London-
Leiden 1963-1967; Iter Italicum. Accedunt alia itinera, III-VI, London-Leiden 1983-
1991.
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RETORICA DELLA SCENA 21

tionum Italicarum ad divum Alexandrum Pontificem Maximum VI, pro obe-


dientia, adventu et apparatu plurimisque ab obitu Innocentii memorandis e-
pistola tratto dalla edizione stampata a Roma da Eucario Silber certamente
dopo il 23 maggio 1493, ultima data fittizia della corrispondenza inserita nel-
la pubblicazione, ma la stessa edizione reca nell’ultimo foglio la diversa inti-
tolazione di Historia nova Alexandri VI ab Innocentii obitu VIII5. I risultati
della collazione fra il testo manoscritto intitolato Conclave6 e quello della E-
pistola a stampa indicano che il Conclave è frutto di un mero successivo pre-
lievo dei paragrafi iniziali della Epistola, dalla cui stampa furono selezionati
interi brani sottoposti solo a piccoli ritocchi del dettato: insomma il Conclave
risulta da un’opera di estrapolazione dovuta presumibilmente ad un unico
compilatore iniziale da cui altri trassero, poiché le oscillazioni testuali presenti
nella tradizione manoscritta sono davvero minime7.
Il materiale presentato nella tarda compilazione si ritrova dunque tut-
to, nella sua veste e collocazione originale, nel primo scaglione narrativo
della Epistola (cc. 7v-21r) che introduce alla minuziosa descrizione delle
legazioni d’obbedienza al nuovo pontefice. Il resoconto, indirizzato appun-
to in forma epistolare a Iacopo Antiquari che aveva richiesto da Milano no-
tizie dettagliate, è accompagnato da un ricco quanto interessante corredo

5 H 6978; GW 9802; IGI 3823; ISTC (The Illustrated Incunabula Short-Title

Catalogue on CD-ROM, London 19982), if 00104000. Dalla edizione incunabula


della Epistola, di cui non si conservano attualmente manoscritti, traggo le citazio-
ni oggetto di questo intervento (d’ora in avanti FERNUS, Epistola, indicando con que-
sta abbreviazione, e per non generare incertezze rispetto alle indicazioni dei catalo-
ghi, l’insieme dei testi raccolti nella stampa intitolata Historia nova). Nella trascri-
zione conservo la grafia dell’incunabulo, correggendo solo i patenti refusi e ade-
guando all’uso moderno maiuscole e punteggiatura.
6 Ho esaminato il testo tradito dai sopraindicati manoscritti conservati a Ro-

ma: segnalo, ad esempio, un refuso tipografico presente nel testo incunabulo del-
l’Epistola che si ripresenta nei manoscritti del Conclave: «Claustimi [per claustri]
ad ianuam principum residentes excubabant oratores» (FERNUS, Epistola, c. 15r).
7 Segnalo che il codice vaticano Barb. lat. 2639 presenta un testo più breve che

omette tutti i paragrafi concernenti la descrizione della cerimonia di incoronazione


del pontefice (FERNUS, Epistola, cc. 18r-20v); lo stesso testo abbreviato si legge in
traduzione italiana anche nel ms. E. III. 3 (sec. XVII) della Biblioteca Universitaria
di Genova.
8 Notizie sull’attività e gli scritti del Ferno si leggono nella lettera fittizia a lui

indirizzata dal Morro, «decretorum doctor», che fa da premessa alla edizione (cc.
2r-3v). Da essa si apprende che nel 1493 il Ferno era avvocato delle cause della Ro-
ta e già autore di un repertorio, l’Universae Curiae compendium, a noi non perve-
nuto; a questa professione il Ferno doveva affiancare spiccati e versatili interessi let-
terari: un Centifacetii opusculum è ricordato ancora dall’amico Giovanni Morro per
lo stile garbato e piacevole, «blande, ornate, dulciter omnia concinnaveris», con il
quale il riso e lo scherzo s’accompagnavano ad argomenti seri.
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22 MARIA GRAZIA BLASIO

paratestuale: lettere scambiate tra il Ferno, Iacopo Antiquari e Giovanni


Morro Tifernate collega e promotore della stampa del Ferno8, dediche e ver-
si rivolti dall’autore all’Antiquari e al cardinale Federico Sanseverino.
L’ampiezza del testo travalica i limiti della tipologia epistolare o, per me-
glio dire, ne segna la perentoria evoluzione verso la forma assai versatile e
fortunata della epistola descrittiva di ragguaglio storico-cronachistico, una
categoria che pure poteva trovare antichi ascendenti nel vasto mare del ge-
nere epistolografico9. Lo stesso Ferno spiega, nella dedica all’Antiquari, di
aver voluto abbracciare gli avvenimenti successivi alla morte di Innocenzo
VIII in un resoconto steso in forma di cronaca (diarium) e di rappresenta-
zione (imago) da porre davanti agli occhi di quanti fossero assenti10. Que-
sti caratteri sono connotati stilistico-semantici individuabili nell’intera
scrittura del Ferno impegnato appunto, con un obiettivo di elaborazione re-
torica affatto diverso dalla semplice informazione, ad evocare immagini,
percezioni sensibili, sentimenti: vidisti, audisti, sensisti sono espressioni
reiterate nell’impianto narrativo che disegna, con assoluta padronanza di
tutto il repertorio lessicale antico, le «rerum urbanarum imagines», la pro-
sopografia «in laudem tantorum virorum», i «simulacra ad gloriae amplifi-
cationem», gli «apparatus triumphi», i «monumenta». Il corrispondente mi-
lanese riconoscerà al Ferno lo sforzo di tradurre il senso spettacolare im-
presso agli avvenimenti dal cerimoniale romano: «Tu vero qui singulari
semper fuisti humanitate, non actum, non personas, non comoediam tantum
perscripsisti, sed totam pinxisti scoenam et quibus spectatoribus quove po-
puli plausu tota res acta sit singulari amoenitate demonstravisti»11. Con ra-
pidi, efficaci tratti ispirati a rigorosi stilemi classici, il Ferno ricordava co-
me la notizia, ormai scontata, della morte del pontefice fosse caduta nella
festosa preparazione delle vacanze estive, costringendo quanti si fossero già
rifugiati in ameni recessi ad un frettoloso quanto sgradito ritorno. Il mo-

9 Per l’evoluzione tipologica nel genere epistolare cfr.: N. LONGO, De epistola


condenda. L’arte di «componer lettere» nel Cinquecento, in Le «carte messaggie-
re». Retorica e modelli di comunicazione epistolare: per un indice dei libri di lette-
re del Cinquecento, a cura di A. QUONDAM, Roma 1981, pp. 177-201 (ora in LON-
GO, Letteratura e lettere. Indagine nella epistolografia cinquecentesca, Roma 1999,
pp. 119-140); M.L. DOGLIO, L’arte delle lettere. Idea e pratica della scrittura epi-
stolare tra Quattro e Seicento, Bologna 2000.
10 «Postquam haec mihi periclitanda erant, pauca quaedam introserere consti-

tui, quibus, tuo beneficio, qui non perinde rerum urbanarum sunt gnari, imaginem
quandam ab obitu Innocentii compendioso ferme diario ad has usque legationes an-
te oculos habere videantur» (FERNUS, Epistola, c. 7r).
11 Ibid., c. 57v (lettera dell’Antiquari al Ferno datata nella stampa 22 maggio

1493; la risposta del Ferno è in data 23 maggio: le date in calce servivano, verosi-
milmente, alla veste editoriale come indicazione cronologica del testo a stampa).
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RETORICA DELLA SCENA 23

mento tanto significativo quanto reiterato nella storia di Roma del passag-
gio dei poteri alla morte del pontefice si condensa in una pagina di tono sal-
lustiano. Sotto il segno della inesorabile «rerum mutatio», la fortuna è ar-
bitra dei destini personali e non trovano posto sentimenti di pietas; con la
sede vacante la città è preda dei saccheggi ed incombe la minaccia di una
guerra civile:

Quis adeo fertili lingua, uberi ingenio huius diei gaudia, luctus
mixtumque cum fortitudine metum recensere poterit? Hi spe me-
lioris fortunae rerum mutatione maxime laeti erant; hos florentis
status praeceps ruina torquebat, atqui opulenti in urbe ferrentur
desudata opum foelicitate in apertam necem rapi formidabant et
quaelibet aura levis furentis Aquilonis instar erat; quosdam vero
tractandi Mavortis insana cupido inquietabat saevosque illi fac-
tiosa manu gladiatores cogebant, in res omnes novas accuebant
civilique rabie omni urbe pervagabantur. Laxa fluxaque in perni-
ciem omnia erant12.

Chi ricercasse nella porzione testuale dedicata agli eventi che precedo-
no il conclave qualche notizia esplicita sulle trattative diplomatiche o sul-
l’effettivo svolgimento degli scrutini rimarrebbe deluso13. Il filo della espo-
sizione sgrana momenti decisivi e figure paradigmatiche. La scelta cade, si-
gnificativamente, sugli artefici della elezione e poi sui più stretti collabora-
tori del neoeletto pontefice. A Gonsalvo de Heredia, il vescovo di Tarrago-
na che, seguendo le parole del Ferno, era stato accorto mediatore, dopo la
congiura dei baroni, della pace fra Innocenzo VIII e Ferdinando di Napoli,
viene affidata subito la milizia palatina con il compito di mantenere l’ordi-
ne pubblico durante il conclave e a malincuore, novello Scipione, accetterà,
una volta eletto il Borgia, la delicata carica di Gubernator Urbis14. Il po-
tente ambasciatore e vescovo spagnolo Bernardino Lopez de Carvajal pro-
nuncia il 6 agosto 1492, ad apertura del conclave e con la città praticamen-
te in stato d’assedio, l’orazione «de eligendo pontifice»; alle armi dell’elo-

12 Ibid., cc. 8rv.


13 Per un quadro della situazione diplomatica, delle fasi del conclave e delle vi-
cende immediatamente collegate all’elezione: P. DE ROO, Material for a History of
Pope Alexander VI, His Relatives and His Time, II, Roderic de Borgia from the
Cradle to the Throne, Bruges 1924, pp. 307-410.
14 FERNUS, Epistola, c. 10v. Gonsalvo Fernandez de Heredia fu vescovo di Tar-

ragona dal 1490 al 1511 (C. EUBEL, Hierarchia Catholica Medii Aevi, II, Monaste-
rii 19132, p. 273); per le vicende della pace con il re di Napoli: P. FEDELE, La pace
del 1486 tra Ferdinando d’Aragona e Innocenzo VIII, «Archivio storico per le pro-
vince napoletane», 30 (1905), pp. 481-503.
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24 MARIA GRAZIA BLASIO

quenza, come usano fare i comandanti nei discorsi rivolti agli eserciti, è af-
fidato il mandato di una vittoria che questa volta faccia prevalere sulle armi
della guerra le armi della parola, «ut tanquam verba, ferventis orationis tor-
rens, gladios accuerent, animos suppeterent, corpus denique quasi obarma-
rent»15. Lo sfoggio epidittico messo in mostra dal Ferno anticipa, nel co-
stante uso del lessico e dei modelli eroici antichi, la superiorità dei nova
tempora, mentre si rende pure esplicita una delle chiavi di volta della rico-
struzione storiografica; è il Carvajal con il suo discorso («quid elegantius,
quid ruditius dici potuit? quid gravius, sonantius, antiquius») il primo so-
stenitore della elezione borgiana, poiché i padri avrebbero trovato in questo
eccellente esempio di orazione deliberativa il suggerimento valido per la
scelta migliore:

Quam optimum, quam meritissimum ea oratione nimirum sic im-


buti patres summum praesulem Alexandrum Magnum Sextum
Maximum Pontificem delegere, constituere, praefecere. Quae hic
oratione commeminisset apposite, diserte, luculenter, hi talem
pontificem creando penita mente percepisse tenaciterque obser-
vasse demonstravere. Soles, mi Antiquarie, virorum optimorum
Romanam Curiam seminarium, hunc ego Carthaginensem ponti-
ficem virtutum omnium seminarium possum appellare16.

Nella solenne teoria dei cardinali, i senatores della Chiesa entrati in


conclave, spicca la figura del cardinale Federico Sanseverino, figlio del
conte Roberto e dedicatario dell’opera del Ferno. Personaggio centrale e
costante punto di riferimento nella esposizione degli eventi perché insieme
al cardinale Ascanio Sforza artefice della elezione borgiana, il Sanseveri-
no è fra i patroni del Ferno, che lo aveva certamente incontrato alla corte

15 FERNUS, Epistola, cc. 10v-11r. Per il Carvajal, prima vescovo di Badajoz e dal

27 marzo 1493 trasferito alla diocesi di Carthagena, cfr. H. ROSSBOCH, Das Leben
und die politish-kirchliche Wirksamkeit des B. L. de Carvajal, Breslau 1982; cfr. an-
che la ‘voce’ di G. FRAGNITO, in DBI, 21, Roma 1978, pp. 28-34.
16 FERNUS, Epistola, c. 12r.
17 PAULI CORTESII De cardinalatu, in Castro Cortesio 1510, cc. 8r, 56r, 58r,

69v. Su questo personaggio emergente dalle pagine del Cortesi che a lui si rivolse,
tra l’altro, per ricevere consiglio sulla scelta del dedicatario dell’opera, cfr. K. WEIL
GARRIS-J. F. D’AMICO, The Renaissance Cardinal’s Ideal Palace. A Chapter from
Cortesi’s De Cardinalatu, in Studies in Italian Art and Architecture 15th through
18th Centuries, edited by H. A. MILLON, Roma 1980, pp. 45-123; la lettera di ri-
sposta del Sanseverino al Cortesi in data 25 gennaio 1508, dalla quale apprendia-
mo la notizia riferita, si può leggere in P. CORTESI, De hominibus doctis dialogus,
testo, traduzione e commento a cura di M.T. GRAZIOSI, Roma 1973, pp. XII-XIII.
Per le motivazioni dell’opera cortesiana ricondotte alla società curiale di fine Quat-
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RETORICA DELLA SCENA 25

di Ludovico il Moro, come dovette esserlo di Paolo Cortesi che lo ricor-


derà più volte nel De cardinalatu17. Il tono della dedica del Ferno denun-
cia, infatti, una reciproca familiarità, interessi comuni sostenuti dalla be-
nevolenza del cardinale. Così quando il Ferno spiega come l’idea di riela-
borare la corrispondenza con l’Antiquari e l’offerta del libello al cardina-
le seguissero il desiderio del Cortesi, «ut Paulo tuo Cortesio quin etiam no-
stro, hac tempestate ingenio et doctrina nemini secundo, morem gere-
rem»18; o nei motivi che lo avevano indotto a mantenere la forma epistola-
re per la ricchezza e duttilità del genere, ma proprio per questo sottopo-
nendo il materiale accumulato ad una stringente revisione guidata dalla
normativa retorica:

epistolari utimur stilo, qui plus historiarum, plus orationis pa-


nagyricaeque contentionis habeat, quam eruditiores comproba-
rint. Fecimus eius non ignari epistolariamque quandam farragi-
nem, quae moneret, testaretur et delectaret, concinnavimus ma-
gisque saperet eruditionisque debitae certa documenta serva-
ret19.

Sono parole che fanno implicitamente appello alla sensibilità e ai gu-


sti letterari del Sanseverino la cui immagine aderisce, anche nelle pagine
della Epistola, a quel canone di magnificenza e liberalità che proprio il
Cortesi avrebbe fissato come carattere definente il primato della carica car-
dinalizia; le tensioni che probabilmente già si aggregavano intorno a que-
sto progetto nell’ambiente intellettuale romano sembrano guidare le scelte
del Ferno, suggerire gli elementi esornativi che accompagnano la descrip-
tio delle due ali del corteo dei conclavisti chiuse l’una dal Sanseverino,
l’altra dal Borgia:

Federicus Sanseverinas ille extremus, ille magnanimus, quem a-


nimi fortitudo, totius corporis honesta decensque maiestas, ar-

trocento, rinvio ai più recenti contributi di G. FERRAÙ, Politica e cardinalato in


un’età di transizione. Il De cardinalatu di Paolo Cortesi, in Roma Capitale (1447-
1527), (Atti del IV Convegno di studio del Centro studi sulla civiltà del tardo me-
dioevo, San Miniato, 27-32 ottobre 1992), a cura di S. GENSINI, Pisa 1994, pp. 519-
540; A. QUONDAM, Roma e le sue corti. Il secondo libro del De cardinalatu di Pao-
lo Cortesi, in L’umana compagnia. Studi in onore di Gennaro Savarese, a cura di
R. ALHAIQUE PETTINELLI con la collaborazione di F. CALITTI-C. CASSIANI, Roma
1999, pp. 325-367.
18 FERNUS, Epistola, c. 4r (nuncupatoria al Sanseverino).
19 Ibid., c. 4v.
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26 MARIA GRAZIA BLASIO

duum regaleque supercilium et indolis mirificae decor adeo com-


mendabant ornantque, ut iam nihil huic celeberrimo patrum con-
cilio optatius esse potuerit. Cum omnium patrum extremos con-
spiceres duo potentissima, uti pro acie pridem consules, ex mili-
tari disciplina cornua, alterum Rodoricum illum, hunc alterum
contra impios fidei hostes intueri viderere; quorum ille ad victo-
riae gloriam proximus esset, hic consecuturus et paribus auspiciis
quandoque triumphaturus20.

Ma nel passaggio ad una dimensione più privata e domestica, Ferno a-


pre di nuovo uno spiraglio sul quel mondo delle corti cardinalizie spesso a-
silo di aspirazioni politiche coniugate con una cultura avvezza a rendere no-
ta la propria alterità etico-morale: lontana dagli intrighi di curia la casa ro-
mana del Sanseverino diventa allora dimora ideale dove il principe «nequa-
quam viros salaces, protervos arcet, litteratos asciscit domumque suam li-
terarum officinam, quae semper in principe primaria gloria est, virtutumque
altricem perhiberi summa voluptate adnititur»21. Al Sanseverino spetterà
l’onore dell’innalzamento del pontefice eletto (11 agosto), dell’ostentazio-
ne del robusto corpo di Alessandro VI al popolo accorso da ogni angolo del-
la città per la cerimonia dell’acclamazione, circostanza di cui il Ferno si di-
chiara testimone oculare componendo, in un gioco di anafore, quei partico-
lari che stagliano in primo piano la figura del cardinale reggente il corpo del
pontefice:

In diluculo porrecta cruce vox in omnem Urbem exiit Rodericum


vicecancelarium natione Hispanum, patria Valentinum, gente
Borgia, pontificem summum creatum. Ruunt patres ex omni Ur-
be immixta plebe ad Aram divi Petri maximam Alexandrumque
VI, quod id sibi nomen indixerat, festiva clamitatione consaluta-
bant omnes, tantaque fuit omnibus admiratio populique frequen-
tia quanta vel unquam. Arae assidebam ego, cum Sanseverinas il-
lustris, illo solus nativo robore pontificem complexus, qui et com-
page grandis et succulenta habitudine ponderosus, supra aram
sessum sustulit. Foelix et rursum vere beatus Sanseverinas qui la-
certis tuis gratissimum et foelicissimum onus suscipiens, primus
deo maximo vicarium presentasti; primus venerabile sustinens
corpus romanae modo partem gloriae modo deponens praesulem
maximum, totius orbis dominum, reddidisti; primus Alexandrum
VI antistitem maximum in sedem Christi locasti22.

20 Ibid., cc. 13rv.


21 Ibid., c. 14v.
22 Ibid., cc. 15v-16r.
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RETORICA DELLA SCENA 27

Tutte le testimonianze del tempo raccolgono con dovizia i particolari


dei grandiosi festeggiamenti che salutarono l’elezione di Alessandro VI. Si
cominciò, nella notte del 12 agosto, con la fiaccolata a cavallo delle auto-
rità municipali e dei nobili romani dal Campidoglio al palazzo pontificio,
segno tangibile della fine dei fuochi di guerra che avevano sconvolto la
città. Nello scenario il Ferno cesella frammenti eruditi, come nel caso del
ricordo della biografia plutarchiana di Antonio (26, 6-7) implicata a pro-
posito della notte festiva, tanto rischiarata a giorno dalla luce delle fiacco-
le da superare il chiarore prodotto dalle torce fatte allestire da Cleopatra
per l’accoglienza di Antonio in Cilicia; o della suggestione visiva di anti-
chi rituali pagani, le feste notturne in onore di Bacco evocate a proposito
delle evoluzioni equestri dei cavalieri giostranti nel cortile del palazzo
pontificio, delle voci sonoramente acclamanti:

Collucebant viae totaque clarescebant compita mediusque revec-


tus videbatur dies. Neque unquam Cleopatram tanto taedarum
fulgore M. Antonium ad Cydnum suscepisse reor. Ambibant pa-
latium in gyrumque versi ante Vaticani postes collis sese implica-
bant, sicuti universa stellarum facies versari illic videretur totius-
que coeli machina zonatim circunflecteretur, ut vel inter rara
praeclarissimarum rerum spectacula tanta lumina haberentur. E
culmine palatii pontifex benedictione lustrabat. Patentibus deinde
amolitis pessulis foribus, superato clivo intra aream palatinam ad-
missi gyrum implicabilemque in orbem labyrinthi imaginem mul-
tis nodis ambagibus convolventes, mutua hortatione, consonis ac-
clamationibus resonabant. Non potui tantis rebus non adesse sa-
craque nocturna priscorum flammigerosque debacchantes in or-
gia vates videbar intueri23.

Malgrado il Ferno rivendichi nella scena uno sguardo personale, si trat-


tava pur sempre di topoi generati da accumuli eruditi. Con maggiore fedeltà
filologica Biondo, nel X libro della Roma triumphans, aveva notato come
nelle raffigurazioni dei cortei trionfali le vergini vestali fossero accompa-
gnate da donne che saltavano e si fingevano matte, con atti e gesti che egli
trovava di frequente scolpiti nel marmo, figure di donne «pariter et debac-
chantes»24. Anche per l’incoronazione ed il possesso pontificio, le testimo-

23 Ibid., cc. 17v-18r.


24 «Subinde vestalibus psaltriae et phanaticae mulierculae praeluserunt, qua-
rum gesticulationes marmoribus insculptas quotiens per Urbem offendo, quin sub-
sistens inspiciam nequeo continere, pariter et debacchantes quae suis Bacchi sacer-
dotibus bacchidibusque, haud secus quam in orgiis capillo per humeros sparso, nu-
dae potius volare quam saltare videntur. Suum quoque inter alios pompae sacerdo-
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28 MARIA GRAZIA BLASIO

nianze concordano sulla eccezionalità dei festeggiamenti e sulle forme de-


gli apparati. L’evento determinò a Roma, fra il 1492-93, la nascita di un ve-
ro e proprio filone pubblicistico divulgato con il mezzo della stampa, ovve-
ro attraverso quel tramite che dilatava con nuovi connotati, primo fra tutti
quello di una sostanziale ufficialità nella diffusione immediata e capillare
della cronaca, il dominio della retorica ad uso politico e il fenomeno di per
sé usuale della letteratura d’encomio offerta ai pontefici neoeletti. Tenendo
presente che alla stampa approdavano sia l’orazione del Carvajal sia le ora-
zioni d’obbedienza pronunciate dalle diverse delegazioni inviate a Roma
dal territorio pontificio e dagli stati italiani25, lo straordinario sistema di co-
municazione messo in atto nel 1492 trovava eco immediata con l’ausilio an-
che del supporto storiografico offerto dalla Epistola/Historia del Ferno e
dal Commentarius de creatione et coronatione Alexandri VI di Girolamo
Porcari26, estese didascalie sovrimpresse sul percorso iconografico del rito
pontificio. Il programma ideologico sotteso alle scenografie cerimoniali ac-
quista nella narratio la propria definitiva e duratura ridisposizione osten-
tando i materiali eruditi che ne compongono la trama progettuale. La ripro-
duzione dei monumenti antichi allestiti nelle copie effimere insiste nella fe-
sta in onore di papa Borgia sulla presenza degli archi trionfali e delle iscri-
tum, sodalium et epulonum ordines munus, mimi, histriones, pantomimi et caetera
ludionum turba praestiterunt, ut, dum ea subit menti et memoriae recordatio, hos e-
go strepitus, has saltantium insanias calamo nunc cupiam declinare» (BLONDI FLA-
VII FORLIVIENSIS De Roma triumphante libri X ..., Basileae, Froben, 1559, p. 215 D).
25 Per l’orazione del Carvajal cfr. C. BIANCA, Le orazioni a stampa al tempo di

Alessandro VI , in Roma di fronte all’Europa al tempo di Alessandro VI, (Atti del Con-
vegno, Città del Vaticano-Roma, 1-4 dicembre 1999), a cura di M. CHIABÒ-S. MAD-
DALO- M. MIGLIO-A.M. OLIVA, Roma 2001, pp. 441-467; sulle orazioni di obbedien-
za, cfr. in questo volume F. MARTIGNONE, Le ‘orazioni di obbedienza’ ad Alessandro
VI: immagine e propaganda. Per un quadro delle orazioni coram pontifice in occasio-
ne di festività religiose, fra le quali anche una del Ferno per la festa di s. Giovanni E-
vangelista del 1495 – stampata dal Silber (GW 9803) e ricordata dal Burchard per
l’eccesso di adulazione – cfr. il sempre valido volume di J.W. O’MALLEY, Praise and
Blame in Renaissance Rome. Rhetoric, Doctrine and Reform in the Sacred Orators of
the Papal Court, c. 1450-1521, Durham 1979.
26 H 13295; IGI 8030; ISTC ip 00940000; IERS 1396. Girolamo Porcari era u-

ditore di Rota e nel Commentarius (E. Silber, 18 IX 1493) riportava, tra l’altro, sia
la sua orazione pro Rota offerta ad Alessandro VI, sia quella scritta per l’obbedien-
za dei Senesi che venne diffusa anche da stampe autonome (H *14676-77; IGI
8032-33; IERS 1262 e 1293), come pure le altre orazioni di obbedienza pronuncia-
te dalle diverse delegazioni ed anch’esse divulgate in stampe autonome. Sul motivo
del confronto fra la Roma imperiale e la Roma cristiana il Porcari insisteva ampia-
mente con individuabili prelievi da Biondo Flavio (PORCIUS, Commentarius, cc.
30v-35r). Cfr. A. MODIGLIANI, I Porcari. Storie di una famiglia romana tra Me-
dioevo e Rinascimento, Roma 1994, (RR saggi, 10), in particolare pp. 464-465, 501-
508.
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RETORICA DELLA SCENA 29

zioni27. In particolare dalla Patria Historia di Bernardino Corio veniamo a


sapere che un arco era stato eretto all’ingresso della chiesa di San Celso e
modellato «a similitudine de quello de Octaviano presso al Coliseo con
quattro colonne di grande grosseza et alte a due parte, e sopra capitelli qua-
tro homini armati a modo de baroni antiqui con le spade nude in mano; so-
pra l’archo et al capo de li homini era la corona de l’archo con l’arma dil
pontifice e chiave»28. La descrizione topografica e architettonica del mo-
dello suggerito dal Corio potrebbe effettivamente rinviare ad uno degli ar-
chi legati al nome di Augusto siti nel Foro e rappresentati in antiche mone-
te29, di cui, in mancanza di altre fonti, non possiamo tuttavia valutare la vi-
sibilità e le caratteristiche all’epoca della descrizione. Si tratta dell’imma-
gine frontale di un arco a tre fornici – con quattro colonne per lato e statue
poggiate sui capitelli –, un disegno che parrebbe molto simile a quello del-
l’arco dedicato presso il Colosseo alla vittoria di Costantino su Massenzio,
monumento abbondantemente ricordato nelle fonti medievali e umanisti-
che30. L’assunzione dell’arco trionfale con esplicite valenze cristiane, ed in
particolare di quello di Costantino, è, come è noto, fenomeno politico-cul-
turale già ravvisabile in epoca altomedievale, resuscitato poi dai recuperi
degli apparati trionfali ripensati dalla cultura umanistica31 e con essa dal si-
stematico sforzo compiuto dall’antiquaria di Biondo Flavio32. Il calco della
ricostruzione alessandrina sembra innestare vari elementi archetipici del-

27 Per le fonti concernenti il cerimoniale pontificio del possesso e le altre fe-

stività cittadine cfr. i materiali raccolti nel fondamentale studio di F. CRUCIANI, Tea-
tro nel Rinascimento. Roma 1450-1550, Roma 1983.
28 BERNARDINO CORIO, Storia di Milano, a cura di A. MORISI, II, Torino 1978,

p. 1488.
29 Cfr. le voci a questi monumenti dedicate da E. NEDERGAARD in Lexicon to-

pographicum Urbis Romae, a cura di E.M. STEINBY, Roma 1993, I, pp. 80-85. Sul-
la base degli elementi indicati si può escludere, inoltre, che il suggerimento alluda
all’arco presso il Pantheon che commemorava il trionfo di Augusto su Cleopatra,
descritto da MAGISTER GREGORIUS, Narracio de mirabilibus urbis Romae, éditée par
E.B.C. HUYGENS, Leiden 1970, pp. 24-25 (De arcu triumphali Augusti), o all’arco
di Ottaviano sito nei pressi di S. Lorenzo in Lucina (M. TORELLI, in Lexicon topo-
graphicum cit., p. 77).
30 Per il quale cfr. la ‘voce’ di A. CAPODIFERRO, ibid., pp. 86-91.
31 Per una recente analisi filologica di pagine petrarchesche, cfr. V. FERA, Il

trionfo di Scipione, in La critica del testo mediolatino, (Atti del Convegno Firenze,
6-8 dicembre 1990), a cura di C. LEONARDI, Spoleto 1994, pp. 415-430.
32 Per la problematica implicata rinvio al denso saggio di A. PINELLI, Feste e

trionfi: continuità e metamorfosi di un tema, in Memoria dell’antico nell’arte italia-


na, a cura di S. SETTIS, II, I generi e i temi ritrovati, Torino 1985, pp. 281-350; cfr. an-
che CRUCIANI, Teatro nel Rinascimento cit.; La festa a Roma dal Rinascimento al
1870, a cura di M. FAGIOLO, Torino 1997, I, pp. 34-49.
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30 MARIA GRAZIA BLASIO

l’arco trionfale romano. Le varianti sono ridotte al minimo perché il pro-


cesso di identificazione e traslazione ha raggiunto il suo apice: l’arma pon-
tificia e le chiavi sostituiscono nel coronamento dell’arco il carro del vinci-
tore, mentre i «quatro homini armati a modo de baroni antiqui» – che oc-
cupano sopra i capitelli la posizione assai caratterizzante che nell’arco di
Costantino hanno le statue dei Traci prigionieri33 – innovano solo nei titoli
la diretta discendenza dai guerrieri rappresentati nei modelli antichi. Un al-
tro arco innalzato in fondo alla chiesa di San Giovanni, fulcro della presa di
possesso, era «simile de altitudine et arme sì diligentemente facte che pare-
va dovesseno essere perpetue»34, ed ancora «passata la casa dove stava il
San Franceschetto […] v’era constructo uno altro archo triumphale non
puoco ingeniosamente ornato, puoi seguitando al palazo di Napoli si gli e-
ra un altro mirabile, diviso da li altri primi, lavorato con herbe, et avante
l’archo tanti capitelli, feste antique, penture […] Sopra la porta de l’archo
era l’arma dil papa con molti fanciulli e feste in campo azurlo et oro»35. Se
il confronto con l’antico aveva stemperato e ridotto al minimo la tensione
dei contenuti mimetici nell’apoteosi delle armi pontificie e delle iscrizioni
– «Viventibus eternitatem letam danti gloria eternam. Prisca novis cedant,
rerum nunc aureus ordo est, invictoque Iovi est cura primus honor», «Divo
Alexandro Magno Maiori Maximo», «Sancta fuit nullo maior pax tempore,
tuta omnia sunt, agnus sub bove et angue iacet»36 –, l’Epistola poteva chio-
sare con il trionfo delle armi della parola, estremo retaggio del celebre ap-
pello ciceroniano (off. 1, 77: «Cedant arma togae, concedat laurea lin-
guae»), ma la parola è ora limine del verbo divino:
Quid admirantur, quid obstupescunt? […] Sedentem pacis ac bel-
li in toto terrarum orbe dicionem habere, habenas moderari, ore
arcere, ore maiora iniicere bella quam manu gerere, omnia sine
ullo armorum fragore, sine militaribus copiis, sine exercitu, armi-
potentis sine sanguine Martis in vota conficere posse37.
Aveva preconizzato Biondo nell’offrire a Pio II la Roma triumphans:
«si può sperare di celebrare a Roma reali trionfi più degni di quelli antichi
e non solo raffigurati per iscritto, come abbiamo fatto poc’anzi»38. Il tema
classico della rigenerazione – elaborato accanto a quello delle rovine nelle
pagine di Petrarca, di Poggio Bracciolini, di Biondo – è raccolto da Ferno
che ne orienta i possibili significati con l’ausilio dell’accumulo figurale,
33 Escluderei, a riguardo, una riconversione allusiva ai prigionieri effigiati nell’ar-
co di Costantino perché non pertinente al messaggio trionfale dell’elezione pontificia.
34 CORIO, Storia di Milano cit., p. 1489.
35 Ibid., p. 1490.
36 Ibid.
37 FERNUS, Epistola, c. 18r.
38 BLONDI FLAVII De Roma triumphante cit., p. 216 H: «Triumphos viam et Ro-
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RETORICA DELLA SCENA 31

dell’iterazione, dei parallelismi39. Il confronto con l’antico risale fino agli


ultimi grandi nomi della Roma repubblicana, a Cesare, ovviamente, a Pom-
peo, a Crasso e si fanno espliciti gli accenti polemici contro i «difensori di
quella età». Il senso stesso della nova historia àncora, in perfetta sintonia
con i tempi, motivi ideologici diversi, fino ad inglobare nell’appropriazio-
ne integrale del passato i contenuti dell’apologetica cristiana, la scelta del-
l’humilis sermo e il filone anticlassicista dei teorici della monarchia ponti-
ficia che dell’impero romano avevano sottolineato il carattere sanguinario:

Sunt qui cum Cesarem, cum Pompeium, <cum> Crassum nomi-


nant, quid amplius Superi, Tellus, Dis, pater Oceanus habeat non
inveniunt; ardua supercilia attollunt, turgent ilia, haerent oculi
immotaque ora protendunt. Sed quis maior hoc Alexandro si se
per omnia coniectent pontifice? Ogganiant licet! Is equidem non
sum qui meme huic certamini committere velim. Nam impetunt,
ut est hominum mos, varia incursim plurimorum illius aevi in-
fensa assertorum studia. Veruntamen nec illud ego obnubilabo, hi
neque vetustatis asseclae, si ex omni hominum memoria percen-
seant, inficiabuntur maiorum in scribendo florida perfervuisse in-
genia [...] At christicolae nostri hoc dicendi grandiloquum genus,
haec congiaria, sola manifesti dei cognitione contenti, contem-
psere; quo factum ut orationis subducta maiestate minora langui-
dioraque gesta viderentur40.

Nell’apostrofe alla Città dall’alterna fortuna viene dedotta la gloria di


una rinascenza esaltata a questa altezza cronologica dai nuovi confini del
mondo e da un potere instaurato senza spargimento di sangue:
O Roma, Roma inquam, semper rerum domina, quasi per certas
vitae humanae aetates coaluisti, uti scriptorum monumenta pro-

mam absolvimus triumphantem, si unum operi claudendo addetur, non modo scilicet
scriptura sicut nuper fecimus depictos sed veros et priscis digniores triumphos Romae
ducendos esse sperari posse [...] neque enim forma et institutione, utinam ne magis
potentatu et magnitudine, multum abest ab ea, quam in hoc opere per singulas partes
descripsimus, romana et publica haec in qua vivimus ecclesiastica res romana».
39 È una conferma, credo, dell’esistenza di quella che è stata definita l’«auto-

coscienza della cultura umanistica curiale», un modello di riferimento che si forma


nella prima metà del secolo e si consolida nel tempo travalicando le differenti pro-
venienze geografiche e culturali dei suoi artefici. Cfr. V. DE CAPRIO, La tradizione
e il trauma. Idee del Rinascimento romano, Manziana 1991; M. MIGLIO, Petrarca.
Una fonte della «Roma instaurata» di Biondo Flavio, in Magistra mundi. Itineraria
culturae medievalis. Mélanges offerts au Père E. Boyle à l’occasion de son 75e an-
niversaire, Louvaine-la-Neuve 1998, pp. 615-625.
40 FERNUS, Epistola, cc. 18v-19r.
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32 MARIA GRAZIA BLASIO

didere et interdum, uti humanis obnoxia contagiis languescens,


convaluisti alternoque fortunae pede fluis refluisque. Sopita iam
atque tui oblita ferebare sordescereque caput ad florentissima
membra predicabare. Nunc pristinos supergrederis honores, non
contenta veteres repetis et vegetiori splendore hoc tanto pontifice
in omne usque extremi Oceani littus fulguras. Et cum aliquando
aequari superiori aevo crederere, huius in nomine ac foelicitatis
alveo antecellere et praestare constans hominum iuditium est et
enodis sententia […] Quis eorum quos usque adeo tollimus, prae-
cinimus, regum aut imperatorum sine sanguine sceptra impe-
riumque attigit? quis non aut praenecato germano, per nefas eiec-
to parente, pupillo decantato, civili flamma, militaribus copiis in
altum dominandi vestigium proripuit? Huic virtus ad inaccessa
quaeque pervium tramitem praestitit, hunc sola animi sapientia
pervexit, ad Petri solium accivit 41.

L’insistenza sugli elementi del trionfo e la massima espansione del les-


sico della vittoria leggibili nel cerimoniale dell’agosto del 1492 ereditavano
la funzione dimostrativa degli apparati che pochi mesi prima erano stati alle-
stiti a Roma in occasione delle feste per la caduta di Granata. È una conti-
nuità mantenuta sul filo della selezione dei materiali semantici del trionfo cri-
stiano. L’impresa divina realizzata per il tramite di uomini mortali è ora em-
blematizzata nelle ricostruzioni degli archi trionfali, la cui ratio consisteva
appunto nell’elevare «super ceteros mortales» (Plin. nat. 34, 12, 27). Non a
caso nell’Epistola, che avrebbe dovuto trattare gli avvenimenti successivi al-
la morte di Innocenzo VIII, il Ferno operava una interruzione della naturale
successione diegetica per ricordare un altro episodio di cui era stato testimo-
ne oculare e riproporre con diversa modulazione il tema del trionfo dei re
spagnoli all’indomani della caduta di Granata42, trionfo già assimilato a quel-
lo degli imperatori romani dalla contemporanea Historia Baetica di Carlo
Verardi43. Nel mutamento delle circostanze è il quadro astrale, con il percor-
so del sole dal segno dei pesci a quello del leone, ad annunciare dopo il re di
Spagna un secondo e più eminente protagonista generato dalla terra spagno-

41 Ibid., c. 20rv. Sul carattere violento del dominio degli imperatori romani in-

sisteva con enfasi il Commentarius del Porcari.


42 «Vidimus nos in ipsa terrarum principe Roma et festa et ludos et taurorum

venationes […] simulachra ad gloriae amplificationem […] currusque triumphalis


cum omni spectatissimi trumphi apparatu et splendore invictissimo illi Ferdinando
Hesperiae regi ac Hellisabe reginae sapientissimae […] dicatus» (ibid., c. 23v).
43 CARLO VERARDI, Historia Baetica. La caduta di Granata nel 1492, a cura di

M. CHIABÒ-P. FARENGA-M. MIGLIO, con una nota musicologica di A. MORELLI, Ro-


ma 1993, (RRanastatica, 6), p. 4.
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RETORICA DELLA SCENA 33

la «quasi hic rursum imperator, ille consul illorum maiorum aemulatione»44.


Abbiamo colto nelle pagine del Ferno le linee di quel processo ideolo-
gico basato sul nesso impero-pontefice-curia pontificia ricostruito già in mo-
do sistematico, e dunque culturalmente fondativo, dall’opera di Biondo Fla-
vio. Se questo procedimento aveva consapevolmente adottato, perché frutto
di un processo storico-politico, l’emarginazione di un diversa idea di roma-
nitas legata alla tradizione cittadina, elemento che pure rimaneva al centro
dell’identità fisica e culturale di Roma ‘trasformata’ in apparato esornativo
dell’istituzione pontificia, non sembra inutile soffermarsi sui testi presentati
dal Ferno nei punti di massima esposizione della Epistola. Sono le sezioni
del corredo paratestuale ed in primo luogo i distici dedicati a Iacopo Anti-
quari che precedono nella stampa il corpo della Epistola/Historia.

Ad eundem Antiquarium

Debita Romulidum longo, Antiquarie, solvi


gloria perscribens ordine quanta fuit.
Pompa patet latias fuerit quae advecta per oras,
cum ad sacros Itali procubuere pedes.
Magnus Alexander populos et terruit orbem, 5
numinis ut terris cultus honore foret.
Sextus Alexander pietate et clavibus orbem,
non armis cohibens, numine digna tulit.
Quando maior erit sub sydera splendor Iberis,
Hesperiae quando gloria tanta fuit? 10
Gerion hispanis fuerat num maior in oris,
qui grege, qui triplici corpore tantus erat?
Pareat Alcides, Latio dominatur Iberus,
in quem sancta nitent nomina trina dei.
Pastor Aventinas rupes circunsidet alter, 15
cuius erunt Caco furta verenda bovum.
O quantum coelo prospexit Stellifer orbi,
hic Vaticano dum sedet in solio.
Quanta fuit quondam, tanta est vel maxima Roma,
sceptra, fides surgunt, relligionis amor. 20
Borgia stirps, bos atque Ceres transcendit Olympo,
cantabunt nomen saecula cuncta suum45.
Occorre, in prima battuta, il leitmotiv secondo il quale la gloria dei di-
scendenti di Romolo si perpetua ed eleva nella gloria dell’impero pontificio

44 FERNUS, Epistola, c. 23v.


45 Ibid., c. 5v.
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34 MARIA GRAZIA BLASIO

e di Alessandro che, al contrario del Magno, instaura il culto del dio in ter-
ra senza ricorrere alla violenza; in grazia della patria iberica e del triplice
corpo è poi il mitico Gerione ad annunciare i segni dell’auctoritas pontifi-
cia. Nel sincretismo figurale pagano-cristiano assistiamo, cioè, ad una im-
plicita conversione rispetto al messaggio mitografico latino: Virgilio – cui
si deve per primo la traduzione di trisomatos (Aen. 6, 289: forma tricorpo-
ris umbrae) – aveva collocato Gerione fra i monstra all’ingresso dell’Aver-
no e nelle leggende del VII e dell’VIII libro Ercole, dopo aver ucciso in
Spagna Gerione ed essersi impadronito del suo gregge, attraversava con
questo il Lazio generando Aventino da Rea ed uccidendo Caco che gli ave-
va rubato gli armenti. Riannodando il filo delle reminiscenze virgiliane Fer-
no faceva ricomparire il mito erculeo, ma Alcide deve cedere il passo ad I-
bero che regna nel Lazio e ad un altro pastore che renderà temibili a Caco
i furti dei buoi: così il parziale recupero della leggenda erculea si svolgeva
solo sotto il segno cristianizzato della vittoria del bene contro il male46. Sul
versante di una diversa opzione culturale indirizzata al recupero del patri-
monio preclassico, Gerione e la sua discendenza quanto la discendenza del-
l’Ercole Libico compariranno in chiave negativa nella genealogia regale al-
legata da Annio da Viterbo ai suoi Commentaria47, dedicati a Ferdinando
d’Aragona ed Isabella di Castiglia, perché l’esaltazione dell’elemento ispa-
nico soggiacerà all’apoteosi della nuova dinastia trionfante nella difesa del-
la fede cattolica:

Hii enim soli tenebras a luce diviserunt, tyrannos Hispaniarum et


Geriones tanquam semen herculeum magna vi atque fortitudine
substulerunt, latrocinantes delerunt, impios hereticos tota Hispa-
nia pepulerunt, Mauros crucis inimicos illo potentissimo regno
Betico spoliaverunt48.

Se questo discorso vale a rendere trasparenti le coincidenze ricorrenti


nelle motivazioni celebrative e le modifiche implicate in modelli culturali
profondamente radicati, si deve pure riscontrare che il Ferno lasciava so-
pravvivere nella cornice propagandistica anche i contenuti più intimi, e vor-

46 Per l’assunzione della figura di Ercole in chiave cristologica, ed in partico-

lare per l’episodio della lotta contro Caco, rinvio al fondamentale saggio di F. GAE-
TA, L’avventura di Ercole, «Rinascimento», 2 (1954), pp. 227-260.
47 IOHANNES ANNIUS VITERBIENSIS, Commentaria super opera diversorum auc-

torum de antiquitatibus loquentium, Romae, E. Silber, 10 VII-3 VIII 1498, cc. 219v
ss. (De primis temporibus et quattuor ac viginti regibus primis Hispaniae et eius an-
tiquitate).
48 Ibid. , c. 1r (dedica).
Cap. 02 Blasio M.G. 19-36 13-09-2002 12:56 Pagina 35

RETORICA DELLA SCENA 35

remmo dire viscerali, della riflessione letteraria. All’Epistola Ferno affida-


va infatti un doppio livello di elaborazione sulla tematica del destino di Ro-
ma. Nel registro alto del carme saffico rivolto in chiusura del libro a Iaco-
po Antiquari, l’excusatio per la personale pochezza si nutre dei motivi ispi-
rati alla riflessione che da Petrarca in avanti aveva accompagnato l’opzione
classicista e il discorso letterario sulle rovine di Roma:

Ad eundem Antiquarium

Credidisti forte tibi venire


litteras quales dederat Vetustas,
cum vigebant ingenia et dabantur
praemia doctis.
Saecla nunquam restituentur Urbe 5
illa, tales amplius, hercle, gignet
nec viros aetas; opibus vacandum
vivitur illis.
Sunt Rotae causae mihi non Minervae
persequendae. Sed volui latinae 10
experiri si meditata49 linguae
nostra placerent.
Non ego laurum peto gloriamve,
doctus aut vates volo nominari:
nemo sarciret mihi ob id lacernam; 15
cedite, Musae.
Sacra dantur phana viris regenda
imperitis, quam malus est habebit
quisque tam toto unde trahat choraeas
tempore vitae. 20
Pallet alter nescius ad lucernam,
noxiorum servitium miselli
sustinebunt triste alii, reportant
nil nisi poenas.
Aedibus sacris habitent prophani, 25
auferant census, potiantur, alvum
farciant, cedant steriles corymbi
et lyra Phoebi.
49 Sia nell’esemplare vaticano dell’incunabulo dell’Epistola sia in quello della

biblioteca Casanatense e in quello della biblioteca Palatina di Parma (come mi se-


gnala Giulia Aurigemma), viene cassata la lezione stampata meditamina e corretta
a penna sul margine in rudimenta: la correzione risulta ametrica e la lezione origi-
naria dovrebbe essere meditata.
Cap. 02 Blasio M.G. 19-36 13-09-2002 12:56 Pagina 36

36 MARIA GRAZIA BLASIO

Nosse credo quantum opus est Camoenas 30


litteras et scire necesse, sed quod
ille Moecenas obiit, laborem est
perdere stultum.
Parce, si indocte facimus, nimis si
rustice: florum est mihi non maniplus.
Obviam ut venere modo notavi 35
ordine cuncta.
Vita conandum mage criminosa
ne sit ab Baccho Venerisque labe,
in foro et causis alios inanis
gloria pascat. 40

Il passato diventa forse modello inerte rispetto ad un presente solo me-


taforicamente ripudiato. Tuttavia, sia che di stereotipi si tratti o del disagio
reale di una letteratura costretta agli obblighi dell’encomio, con questa di-
chiarazione di totale pessimismo tanto legata ai temi e agli stilemi petrar-
cheschi – si pensi, solo ad esempio, al testo archetipico della Familiare 24,
4 a Cicerone in difesa della propria identità culturale – Ferno legava l’hi-
storia degli esordi del nuovo pontificato, anche per un certo ostentato mo-
ralismo, agli umori più profondi della cultura romana come ad un ambiguo
Proteo. Nel 1499, in occasione dell’abbattimento della piramide nota con il
nome di Meta Romuli che intralciava il percorso della nuova via Alessan-
drina da Castel S. Angelo a S. Pietro, Michele Ferno tornerà a scrivere con
i medesimi accenti a Raffaele Maffei di una età che cancellava la memoria
dell’antico in una diversa ‘prospettiva antiquaria’:

Placet mihi quidem summopereque laudatur ista viae extruendae


ratio, propter publicum suburbani ornamentum proque arcis et
palatii magnificentia et splendore. At non abscedit animo ille do-
lor quod tantae vetustatis memoria evertitur et quae in contem-
platione priscorum operum reliqua est sopitur extinguiturque glo-
ria50.

50 La lettera, conservata insieme ad altri materiali del Ferno nel codice 555 del-
la Bibl. Capitolare di Lucca (ff. 471v-473r), fu pubblicata con pregevole commento
da B.M. PEEBLES, La «Meta Romuli» e una lettera di Michele Ferno, «Rendiconti
della Pontificia Accademia Romana d’Archeologia», 12 (1936), pp. 21-63.
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ANTONIO IURILLI

Carattere di Papa: Alessandro, Aldo, l’italico

La condensazione allusiva che, forse eccessivamente, segna il titolo del


mio contributo, mi induce a rendere innanzitutto più perspicua l’identità
delle dramatis personae destinate a caratterizzarlo. Lo farò attraverso un
documento che certifica di un voto (quello di diventare sacerdote), fatto da
Aldo Manuzio, «a cui s’era troppo leggermente legato», se fosse guarito
dalla peste che afflisse Venezia nel 1498. Il documento rivela che dalla ma-
lattia egli guarì, ma che al voto corrispose subito una dispensa, grazie alla
quale, per nostra fortuna, il grande editore fu restituito al suo prezioso ruo-
lo di innovatore della cultura editoriale europea1. A concedere quella di-
spensa (l’11 agosto 1498) fu nientemeno Alessandro VI, il quale suggerì al
Patriarca di Venezia, Tomaso Donà, di commutare il voto «in alia pietatis o-
pera»: non ritengo di avventurarmi nelle non poche singolarità di quell’at-
to, a cominciare dalle ragioni stesse della supplica, che tentano di accredi-
tare l’immagine di un Aldo indigente, e perciò bisognoso di far girare i suoi
impianti, piuttosto che serenamente disposto all’esercizio pastorale. Nell’e-
conomia del discorso che mi accingo a fare è infatti sufficiente avervi col-
to il segno di un atteggiamento di attenzione (frutto ovvio di considerazio-
ne e di stima) di Alessandro nei confronti di Aldo: di attenzione – dico –

1 L’episodio è ricordato da M. LOWRY, The World of Aldus Manutius. Business

and Scholarship in Renaissance Venice, Oxford 1979 (trad. ital. Il mondo di Aldo
Manuzio. Affari e cultura nella Venezia del Rinascimento, Roma 1984), pp. 159-
160. Egli lo attinge da R. FULIN, Una lettera di Alessandro VI, «Archivio Veneto»,
3 (1871), pp. 156-157, il quale a sua volta dichiara la fonte in A. BASCHET, Aldo Ma-
nuzio. Lettres et documents (1495-1515), Venezia 1867. Al Fulin appartiene il laco-
nico giudizio citato nel mio testo. Ecco la lettera con la quale Alessandro autorizza
il Patriarca di Venezia a sciogliere Aldo dal voto: «Venerabilis frater, salutem [...]
Exponi nobis fecit dilectus filius Aldus Manutius civis romanus, quod ipse alias pe-
stifero morbo correptus vovit, si ab eo evaderet, se sacros etiam presbiteratus ordi-
nes suscepturum. Cum vero liberatus dicto morbo fuit, et dicto voto non persisterit,
considerans se valde esse pauperem, nec aliunde se sustentare posse, nisi manuali-
bus quibus sibi victum quaerit, desiderat in saeculo remanere. Nos igitur, eius in hac
parte supplicantibus inclinati, Fraternitati tuae committimus ac mandamus, ut eun-
dem Aldum, si ita sit et id a te humiliter petierit, ab observatione voti praemissi, auc-
toritate nostra absolvas, illudque in alia pietatis opera sibi commutes, prout con-
scientiae tuae, quam desuper oneramus, videbitur expediri. In contrarium facienti-
bus non obstantibus quibuscumque. Data Romae [...] die 11 Augusti 1498 anno 6°».
Cap. 03 Iurilli 37-48 13-09-2002 12:56 Pagina 38

38 ANTONIO IURILLI

anzi di astuto controllo, ammantato di clemenza, nei confronti di un edito-


re, che poco prima aveva sollevato con un’edizione di Giamblico qualche
perplessità nell’influente canonico-giurista Felino Sandei di Lucca, il qua-
le aveva annotato su un esemplare: «multa in his libris a Christiano non le-
genda». E lo stesso Patriarca di Venezia, incaricato di commutare il voto di
Aldo in opere di pietà, aveva cominciato proprio in quegli anni ad interes-
sarsi ad alcune opere a stampa – per così dire – non gradite all’entourage
curiale veneziano2.
Un papa, un editore, allo spirare della stagione incunabolistica: il pen-
siero non può non correre ai primi e ben noti episodi di mecenatismo, tal-
volta di vera e propria assistenza, messi in atto dai pontefici che, in anni di
poco precedenti quelli del pontificato borgiano, videro il faticoso affermarsi
nel loro dominio temporale della nuova ars artificialiter scribendi3. Ma, so-
prattutto, non può non connettere questo singolare quanto occasionale rap-
porto di un pontefice con l’editore italiano per antonomasia con l’atteggia-
mento che Alessandro complessivamente tenne nei confronti della stampa
all’interno della politica culturale da lui perseguita, segnata anche da una
controversa, ma sempre viva, attenzione per questo imprevisto e inquietante
strumento di diffusione delle idee, da lui intuito, assai meglio dei suoi pre-
decessori, nelle sue crescenti e problematiche potenzialità4. Di questa atten-
zione per il libro Alessandro aveva, del resto, dato prova fin dal 1498, sotto-
scrivendo il primo privilegio di stampa accordato da un pontefice a un tipo-
grafo/editore: ad Eucario Silber per la pubblicazione delle Antiquitates di
Annio da Viterbo5.
Al di là del suo indubbio valore all’interno della storia dell’editoria i-
2Ibid., p. 160.
3Sulla protostampa nello Stato della Chiesa cfr. i due volumi Scrittura, bi-
blioteche e stampa a Roma nel Quattrocento. Aspetti e problemi, rispettivamente
(Atti del Seminario, 1-2 giugno 1979), a cura di C. BIANCA-P. FARENGA-G. LOM-
BARDI-A.G. LUCIANI-M. MIGLIO, Città del Vaticano 1980 (in appendice: Indice del-
le edizioni romane a stampa. 1467-1500, a cura di P. CASCIANO-G. GASTOLDI-M.P.
CRITELLI-G. CURCIO-P. FARENGA-A. MODIGLIANI, (Littera Antiqua, 1, 1-2), e (Atti
del 2º Seminario, 6-8 maggio 1982), a cura di M. MIGLIO con la collaborazione di
P. FARENGA-A. MODIGLIANI, Città del Vaticano 1983, (Littera Antiqua, 2). Cfr. an-
che M.G. BLASIO, ‘Cum gratia et privilegio’. Programmi editoriali e politica pon-
tificia, Roma 1487-1527, Roma 1988, (RRinedita, 2).
4 Si deve – come è noto – ad Alessandro VI l’emanazione del primo editto te-

so a regolamentare (ma di fatto a limitare) la libertà di stampa nei territori di alcu-


ne province ecclesiastiche germaniche. Esso porta la data del 10 giugno 1501: cfr.,
anche per le referenze archivistiche, L. VON PASTOR, Storia dei papi dalla fine del
Medio Evo, III, Trento 1896, pp. 445-446. Ma sullo specifico argomento v. oltre, in
questo contributo.
5 Il privilegio fu concesso il 23 luglio 1498. Sull’argomento cfr. BLASIO,‘Cum

gratia et privilegio’ cit., p. 25.


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CARATTERE DI PAPA: ALESSANDRO, ALDO, L’ITALICO 39

taliana, questo episodio introduce importanti elementi di novità nella ge-


stione di una politica culturale, nella quale l’autorizzazione a stampare un
libro e la protezione commerciale che gli si accorda (entrambe in forma di
concessione, non certo di riconoscimento di un diritto), diventano pubbli-
che scelte ideologiche e perfino sottili indirizzi di politica estera6. Non era,
del resto, la prima volta che la gestione commerciale di un libro a stampa
interferiva, imbarazzante, con l’azione politica di Alessandro: cinque anni
prima, nel 1493, egli era stato costretto a ridimensionare l’energico divieto
di diffusione delle Conclusiones di Giovanni Pico comminato da Innocen-
zo VIII ai danni dello stesso Silber che le aveva pubblicate, dichiarando non
eretiche le tesi pichiane e consentendo di fatto la circolazione del libro. A
distanza di un solo anno dalla sua elezione, la tutela dei delicati rapporti con
Firenze, dove Pico – come è noto – aveva goduto della stima dello stesso
Lorenzo, valeva bene un calcolato atteggiamento remissivo nei confronti di
una intrapresa editoriale per molti versi provocatoria, ma proprio per que-
sto pericolosa da reprimere7. Ora, al cospetto di un altro libro inquietante
come le Antiquitates di Annio, che diffondeva in Roma il fascino dei culti
mistico-esoterici dell’Oriente e perciò minacciava di creare una nuova,
preoccupante tendenza nell’offerta editoriale, Alessandro non aveva potuto
non pensare al ruolo svolto da Annio nella progettazione ‘ideologica’ e ‘di-
nastica’ degli affreschi dell’appartamento Borgia e alle non celate inclina-
zioni mistico-esoteriche dell’Accademia Pomponiana, e si era regolato di
conseguenza, assumendo attraverso il privilegio accordato a Silber, una sor-
ta di patrocinio morale dell’opera, quasi a volerne così neutralizzare la po-
tenziale carica eversiva.
Non è difficile, credo, leggere nei due episodi citati, sia pure a dispet-
to della loro marginalità nella storia della protostampa, i primi segni di una
strategia pontificia tesa ad imbrigliare la ormai evidente energia comunica-
tiva di un’arte affrancatasi dal suo momento aurorale, attraverso meccani-
smi decisamente nuovi di controllo giuridico della circolazione delle idee,
a cominciare, appunto, dal privilegio di stampa (una forma impropria, ma
al passo coi tempi, di mecenatismo), per finire alla censura, dotata di capa-
cità preventive di intervento sui prodotti della cultura scritta, destinata alla
diffusione editoriale.
Non è dunque un caso che quella strategia si materializzi, nel volgere

6 Sui risvolti giuridici dei privilegi cfr. R. FRANCESCHELLI, Trattato di diritto in-

dustriale, I, Milano 1960, pp. 338 e s.


7 Sulla complessa vicenda, che segnò la politica culturale di Innocenzo VIII

prima di segnare quella di Alessandro VI, cfr. BLASIO,‘Cum gratia et privilegio’ cit.,
pp. 11-35.
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40 ANTONIO IURILLI

di soli tre anni (nel giugno del 1501), nel primo editto di censura libraria e-
manato dall’autorità pontificia, cioè da Alessandro VI, sia pure territorial-
mente, ma direi sintomaticamente, limitato ad alcune fra le più irrequiete,
dal punto di vista dottrinale, province ecclesiastiche della Germania. Senza
voler cedere alla ipertrofica considerazione che questo atto ha meritato
presso molti biografi di Alessandro, compreso il Pastor, non possiamo non
leggervi invece una lucida consapevolezza della necessità di regolamentare
una nuova forma di circolazione delle idee, una consapevolezza non certo
mossa da velleitarie tendenze repressive, anzi, al contrario, attenta a costi-
tuire la stampa come potere forte all’interno di una energica politica cultu-
rale e dottrinale e, ancor più latamente, all’interno di una vasta strategia di
consolidamento del potere personale8.
Ora, credo che l’incontro ideale di Alessandro con Aldo, al di là di
quello materiale consegnato al curioso reperto biografico precedente-
mente narrato, si consumi proprio sull’onda di questa progressiva azione
di sostegno del Borgia alla stampa, naturalmente ove essa si offrisse, al-
la stregua di altre arti geniali e creative da lui sostenute, come strumento
di edificazione della sua immagine di principe ecclesiastico. E nel segno,
appunto, della creatività e della genialità, non in quello, ormai istituzio-
nalizzato, della protezione commerciale del prodotto tipografico, l’ener-
gia innovativa di Aldo entra nelle strategie mecenatistico-normative di A-
lessandro, creando l’interessante primum di una originale forma di prote-
zione commerciale, destinata a rimanere a lungo senza seguito nella sto-
ria dell’editoria europea: la protezione pontificia dei caratteri di stampa,
nel caso specifico del carattere italico, conclamato fiore all’occhiello, no-
toriamente fragile e sensibile alla rozzezza concorrenziale, dell’editoria
aldina. Prima di questo atto, Alessandro aveva concesso un privilegio e-
ditoriale al tipografo Giovanni Besicken per la stampa della nuova reda-
zione dell’Ordo Missae predisposta per il clero dal maestro delle cerimo-
nie Giovanni Burckard dopo la revisione del cardinale Bernardino Car-
vajal.
La vicenda di questa protezione non esula, ovviamente, dal lungo e
ben noto contenzioso di Aldo contro i contraffattori delle sue più geniali
innovazioni editoriali. La documentazione abbondantemente disponibile
colloca fra gli anni 1496 e 1502 ben quattro richieste di Aldo ai dogi per-
ché lo difendano dai contraffattori prima dei suoi caratteri greci, poi del-

8
Cfr. PASTOR, Storia dei papi cit., p. 445; P. DE ROO, Material for a History of
Pope Alexander VI. His Relatives and his Time, III, Bruges 1924, pp. 1-9. Decisa-
mente celebrativa è la posizione di A. LEONETTI, Papa Alessandro VI secondo do-
cumenti e carteggi del tempo, III, Bologna 1880, pp. 228-232.
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CARATTERE DI PAPA: ALESSANDRO, ALDO, L’ITALICO 41

l’Italico9. Negli stessi anni anche Ottaviano Petrucci di Fossombrone, ge-


niale inventore dei segni tipografici atti a riprodurre il canto figurato, ave-
va chiesto e ottenuto dal doge protezione commerciale per la sua inven-
zione10. Il privilegio da accordare a un carattere di stampa era di fatto una
novità persino nella ormai consumata politica editoriale di Venezia, la qua-
le aveva precedentemente concesso altro genere di privilegi: a Giovanni da
Spira il monopolio per cinque anni dell’esercizio dell’arte tipografica sul
territorio della Serenissima (18 settembre 1469), e al Sabellico il privile-
gio per la stampa in esclusiva della Storia di Venezia (1 settembre 1486).
Nei due casi i privilegi avevano coperto il primo un’intera attività impren-
ditoriale, il secondo la trasformazione in prodotto tipografico di un’opera
fondamentale nella politica, non solo culturale, dei dogi11.
Chi ha cercato in tempi recenti di delineare una storia della protezione
commerciale dei caratteri tipografici ha dovuto, in effetti, registrare l’origi-
nalità dell’iniziativa aldina al cospetto di un vuoto legislativo precedente e,
lungo non pochi decenni, successivo. Destinatari delle prime forme di pro-
tezione legale concesse dalle autorità erano stati, infatti, tipografi e editori
(assai meno gli autori) per attività e prodotti di rilevante significato nel ci-
clo produttivo e nella economia aziendale. La tutela dei caratteri non aveva
in alcun modo segnato la stagione incunabolistica, dominata – come è noto
– dalle due grandi famiglie dei caratteri gotici e dei romani, cui è ricondu-

9 Il 25 febbraio 1496 e il 6 dicembre 1498 Aldo rivolge ai dogi supplica per la

protezione dei caratteri greci da lui brevettati e per alcune edizioni stampate con quei
caratteri («Conciosiache havendo facto intagliar lettere grece in summa belleza de o-
gni sorte in questa terra, ne la qual habia consumato gran parte della sua facultà cum
speranza di doverne qualche volta conseguir utilità, et za molti anni che l’ha consu-
madi nel intaglio de le dicte lettere, habia trovato, per lo Dio gratia, doi novi modi,
cum i qual, stampirà sì ben et molto meglio in grecho de quello che se scrive a pe-
na»): cfr. C. CASTELLANI, La stampa in Venezia dalla sua origine alla morte di Aldo
Manuzio seniore, Venezia 1889, pp. 72 (dalla quale è tratto il testo cit.) e 74.
10 Il 23 luglio 1500 Aldo ottiene il privilegio per l’edizione delle lettere di s.

Caterina (ibid., p. 74). Il 23 marzo 1501 Aldo ottiene il privilegio per la protezione
dell’Italico impiegato negli enchiridii dei classici latini («Perché Aldo Romano ha-
bitatore za molti anni in questa nostra Cità ha facto intagliare una lettera Corsiva et
Cancelleresca de summa belleza, non mai più facta. Supplica che per diexe anni a
niuno altro sia lecito stampare in lettera corsiva de niuna sorta nel Dominio di Vo-
stra Serenità, né portare et vendere libri stampati de terre aliene in loco alcuno de
esso nostro Dominio cum dicta lettera corsiva, sotto pena a chi contrafarà de perder
i libri et duxento ducati per cadauna volta che contrafacesse»): ibid., p. 75. Il 25
maggio 1498 viene accordato a Ottaviano de’ Petrucci il privilegio per la stampa del
canto figurato (ibid., p. 73).
11 Ibid., rispettivamente pp. 69 e 70.
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42 ANTONIO IURILLI

cibile la pletora di varianti prodotte da singole officine tipografiche. La pro-


tezione commerciale dei caratteri tipografici sembra, invece, aver avuto un
séguito, dopo l’iniziativa aldina, solo in quella, assunta però molto più tar-
di, dopo la metà del Cinquecento, dal tipografo/editore francese Robert
Granjon per proteggere i suoi altrettanto innovativi «caractères de civilité»
in un clima di acceso nazionalismo. Nessuna iniziativa analoga si registra
nei secoli successivi, dominati dalla concentrazione ‘industriale’ della pro-
duzione dei caratteri, che toglie di fatto spazio a velleità concorrenziali o
contraffattorie. Forse il problema potrebbe risorgere nel nostro tempo, do-
minato dalla videoscrittura che facilita la riproduzione a costo zero dei ca-
ratteri12.
La tutela di un carattere di stampa era naturalmente tanto più efficace
quanto più vasta era l’estensione territoriale di validità del privilegio. Lo sa-
peva bene Aldo, il quale, dopo aver lucrato i privilegi dogali sul suo Italico,
rivolse identica supplica ad Alessandro, il quale vi soddisfece con un breve
datato 17 dicembre 1502, che accordò un privilegio decennale all’Italico al-
dino non solo su tutto il territorio direttamente sottomesso alla potestà pon-
tificia, ma anche su tutto l’orbe cristiano. Eccone il testo:

Universis et singulis praesentes literas inspecturis salutem et apo-


stolicam benedictionem. Quoniam dilectus filius Aldus Manutius
Romanus ad communem doctorum utilitatem novis excogitatis
characterum formis, assiduam operam libris emendandis impri-
mendisque impendit, magnosque in ea re labores sumptusque fa-
cit, vereturque ne insurgente invidia aemulationeque excitata, ali-
qui sumpto de eius characteribus exemplo, ad eandem formam li-
bros imprimant, deque alterius invento novum sibi lucrum quae-
rant, iccirco nobis fecit humiliter supplicari ut eius indemnitati de
opportuno remedio providere dignaremur.
Nos, quoniam ea, quae ad literatorum commoditatem spectant li-
benter annuimus, huiusmodi supplicationibus inclinati, ut inge-
nia ad plura melioraque in dies invenienda excitentur, librique,
sublata omni aemulatione, diligentius prodeant impressi et e-
mendati, confidentes de diligentia dicti Aldi, de cuius doctrina et
in libris emendandis studio fide dignorum testimonio facti sumus
certiores, omnibusque et singulis impressoribus et artem ipsam
in Italia exercentibus sub excommunicationis, illis autem, qui in
alma urbe nostra et terris nobis mediate vel immediate, subiectis

12 Cfr. H. LA FONTAINE VERWEY, Les débuts de la protection des caractères ty-

pographiques au XVI siècle, «Gutenberg Jahrbuch», 1965, pp. 24-34.


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CARATTERE DI PAPA: ALESSANDRO, ALDO, L’ITALICO 43

morantur sub eadem et confiscationis librorum impressorum


poenis, quas contrafacientes absque alia declaratione eo ipso in-
currere volumus, districtius inhibemus, ne per spatium decem
annorum a tempore cuiusvis libri, tam graeci, quam latini ab eo-
dem Aldo impressi illis ipsis, aut similibus characterum formis
pro eorum voluntate, aut ad instantiam quarumque personarum
cuiuscunque dignitatis, status, gradus, ordinis, nobilitatis, praee-
minentiae vel conditionis fuerint, quovis quaesito colore impri-
mere aut imprimi facere quovis modo praesumant. Volentes ut
omnes et singuli librorum venditores, penes quos dicti libri, et si
extra Italiam impressi essent, inventi forent, similes poenas in-
currant.
Mandantes nihilo minus dilecti filiis nunc et pro tempore loco-
rum ordinariis per ipsam Italiam existentibus, quatenus per se vel
alium, seu alios faciant authoritate nostra, inhibitionem nostram
huiusmodi inviolabiliter observari, contradictores per censuras
ecclesiasticas et alia opportuna iuris remedia appellatione post-
posita compescendo, invocato ad hoc, si opus fuerit, auxilio bra-
chii secularis, non obstantibus constitutionibus et ordinationibus
apostolicis caeterisque contrariis quibuscunque. Datum Romae
apud sanctum Petrum sub annulo Piscatoris. XVII Decembris
MDII Pontificatus nostri anno undecimo13.

È evidente che il breve concesso da Alessandro non si limita alla con-


sueta, epigrafica formula di privilegio apposta in calce al testo stesso del-
la supplica, come è nei privilegi dogali precedentemente lucrati da Aldo;
quella formula quasi sempre non faceva che confermare le sanzioni per i
contraffatori e i diritti reclamati dal supplicante stesso nel dispositivo di
supplica. Alessandro, invece, emana, appunto, un breve, il cui lungo e ar-
gomentato preambolo, pur nel suo stereotipo dettato cancelleresco, insiste
sulle qualità e sui meriti culturali del supplicante, riconosciuto come pro-
tagonista di un’editoria filologicamente controllata, ai quali meriti fanno
naturalmente riscontro quelli del concedente, identificati nella illuminata
azione promotrice della cultura anche attraverso il sostegno giuridico al

13 Il testo del breve si legge, dopo l’index rerum, nell’aldina del Cornucopiae di
Nicolò Perotti del 1513 («in aedibus Aldi et Andreae soceri»), c. 79v. Dalla stessa e-
dizione lo trae A. A. RENOUARD, Annales de l’imprimerie des Aldes ou histoire des
trois Manuce et de leurs éditions, Paris, 18343; poi: Annali delle edizioni Aldine. Con
notizie sulla famiglia dei Giunti e repertorio delle loro edizioni fino al 1550 ..., rist.
New Castle (Delaw.) 1991, (Bologna 1953), p. 505. Nel riportare il testo ho sciolto le
tachigrafie e normalizzato l’interpunzione.
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44 ANTONIO IURILLI

miglioramento tecnico dell’arte tipografica. Il pontefice riconosce esplici-


tamente al carattere che si accinge a porre sotto la sua protezione il valore
di una profonda innovazione non solo tecnica, ma anche culturale, desti-
nata ad accrescere il consumo librario dei letterati, i quali non potranno
non apprezzarne la raffinata semplicità. Viene confermato nel suo dettato
il riconoscimento principale all’invenzione aldina: quello di aver abbre-
viato le distanze fra la scrittura tipografica e la tradizione amanuense, e-
sattamente quello che alcuni influenti umanisti reclamavano per vincere la
loro resistenza ai libri stampati. L’energico censore, solo un anno prima,
della pericolosa spregiudicatezza dottrinale dell’editoria germanica, an-
nuiva, dunque, con compiaciuta lungimiranza alle potenzialità educative e
promotrici di cultura della stampa, specialmente quando a dettarne le re-
gole era un geniale umanista, rispettoso dell’ortodossia e diverso dai ve-
nali prototipografi, pronti a lucrare anche attraverso il libro irresponsabil-
mente trasgressivo.
L’originale del breve alessandrino ha resistito non dirò alle mie recenti
ricerche, ma a quelle antiche e puntigliose di Renouard, il quale pubblicò ne-
gli annali manuziani il testo del documento pontificio attingendolo dalle pa-
gine iniziali di un’aldina del Cornucopiae di Perotti del 151314. Nessuno, fi-
nora, è riuscito a fare meglio consegnando agli storici della stampa la fonte
primaria; neanche chi, assai più tardi di Renouard e nel quadro di una ricer-
ca espressamente mirata alla ricostruzione documentaria dei primi compor-
tamenti pontifici verso la stampa, ha frugato l’Archivio Segreto Vaticano al-
la ricerca di documenti che illuminassero il ruolo dei pontefici nella storia
della prototipografia15. Né ha potuto colmare la lacuna documentaria (in
quanto l’ambito era quello delle edizioni romane) il pur meritorio inventario
dei libri dotati di privilegio pontificio, compilato in tempi recenti dalla Bla-
sio fino alla data emblematica del 152716. A parte la non infrequente perdita
del documento originale, credo sia necessario, soprattutto, rimarcare la di-
stanza cronologica, a prima vista inspiegabile, che separa la data di emana-
zione del breve (appunto il 17 dicembre 1502) dal suo primo e (sembra) u-
nico testimone a stampa noto (1513), testimone destinato a rimanere unico
almeno fino a quando l’imponderabile fatalità che spesso decide le sorti del-
la ricerca non ci avrà consentito altre deduzioni. È inevitabile rilevare l’in-
congruità fra questa inspiegabilmente tarda pubblicazione di un atto di tute-
la da parte dello stesso tutelato e i consueti, del tutto antitetici comporta-

14
Cfr. la nota precedente.
15
Cfr. P. FONTANA, Inizi della proprietà letteraria nello Stato Pontificio. Sag-
gio di documenti dell’Archivio Vaticano, «Accademie e Biblioteche d’Italia», 3
(1929), pp. 204-221.
16 Cfr. BLASIO, ‘Cum gratia et privilegio’ cit., pp. 79-98.
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CARATTERE DI PAPA: ALESSANDRO, ALDO, L’ITALICO 45

menti tenuti da Aldo in occasione del conseguimento di altri privilegi. Del


resto, Aldo certamente era consapevole che l’efficacia del privilegio dipen-
deva anche, se non in gran parte, dalla sua immediata pubblicità. Ancor più
inspiegabile è il suo silenzio sul privilegio pontificio persino in quell’esa-
sperato quanto imprudente cahier de doléance (il Monitum in Lugdunenses
typographos) che egli pubblicò il 16 marzo del 1503 (solo tre mesi dopo la
concessione del privilegio), illudendosi di smascherare tutti i difetti delle
ormai dilaganti contraffazioni, e offrendo invece ai contraffattori impareg-
giabili suggerimenti atti a perfezionare le tecniche contraffattorie17.
Ora, per tentare una sia pure provvisoria interpretazione del comporta-
mento di Aldo, devo segnalare la pubblicazione di un Petrarca volgare pres-
so Giacomo Soncino a Fano verso la metà del 1503, cioè sei mesi dopo la
concessione del privilegio alessandrino all’Italico aldino. Il famoso antesi-
gnano dell’editoria in caratteri ebraici in Italia, segnato da non poche disav-
venture, era da poco approdato nella operosa città della Marca con la spe-
ranza di potervi impiantare un’officina che rinverdisse la sua fama di inno-
vatore dell’arte tipografica, specie nel campo dei caratteri18. Il Petrarca vol-
gare del 1503 costituisce appunto il primo atto di questa strategia, che Son-
cino definisce con calcolata enfasi nella dedica che precede i testi, sottoli-
neando la sua capacità di aggregare maestranze di alta qualità professio-
nale e di geniale creatività artistica, capaci di fare scuola, a cominciare da
quel Francesco Griffo da Bologna, che solo qualche anno prima aveva in-
tagliato per Aldo varie serie di Italico, e che ora lavorava per Soncino. Cre-
do sia importante rilevare che risale proprio alle ultime settimane del 1502,
esattamente al tempo in cui Alessandro concede a Aldo il privilegio sul cor-
sivo, la rottura fra Aldo e Francesco, il quale lascia addirittura Venezia, e
passa al servizio di Soncino. Non è, del resto, ignoto il difficile rapporto fra
i due, complicato dall’indole del Griffo19. La citazione dell’ormai celebre
intagliatore vistosamente inserita nella dedica dal Soncino non può essere

17 Se ne può leggere il testo nella silloge Aldo Manuzio editore. Dediche, pre-
fazioni, note ai testi, introd. di C. DIONISOTTI. Testo latino con traduzione e note a
cura di G. ORLANDI, II, Milano 1975, p. 170. La vicenda dell’Italico è ampiamente
storicizzata e problematizzata in L. BALSAMO-A. TINTO, Origini del corsivo nella ti-
pografia italiana del Cinquecento, Milano 1967; sul corsivo si veda anche A. TIN-
TO, Il corsivo nella tipografia del Cinquecento: dai caratteri italiani ai modelli ger-
manici e francesi, Verona 1972.
18 Sui Soncino cfr. essenzialmente G. MANZONI, Annali tipografici dei Sonci-

no, rist. Bologna 1979, (Bologna 1883-1886); cfr. anche G. CASTELLANI, Girolamo
Soncino, «La Bibliofilia», 9 (1907-1908), pp. 25 e s.
19 Questo risvolto della vicenda biografica e professionale di Aldo è ampia-

mente trattato, forse con qualche eccesso interpretativo, da LOWRY, The World of Al-
dus Manutius. Business and Scholarship in Renaissance Venice cit., pp. 120 e s.
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46 ANTONIO IURILLI

casuale: sembra anzi un dichiarato atto di ostilità proprio contro Aldo, ac-
cusato di essersi appropriato di un’invenzione, l’Italico, che apparteneva
tutta al suo creatore, appunto il Griffo, il quale solo avrebbe dovuto e potu-
to liberamente disporne:

Messer Francesco da Bologna, l’ingenio del quale certamente


credo che in tale exercitio non trove un altro equale. Perché non
solo le usitate stampe perfectamente sa fare, ma etiam ha excogi-
tato una nova forma di littera dicta cursiva o vero cancelleresca,
de la quale non Aldo Romano né altri che astutamente hanno ten-
tato de le altrui penne adornarse, ma esso Maestro M. Francesco
è stato primo inventore e designatore, el quale e tutte le forme de
littere che mai habbia stampato dicto Aldo ha intagliato, e la pre-
sente forma con tanta gratia e venustate, quanta facilmente in es-
sa se comprende20.

Il Petrarca sonciniano esce in effetti stampato in una nuova serie di ca-


ratteri corsivi incisi dal Griffo, in nulla inferiori (anzi!) a quelli aldini: più
arioso è il disegno grazie agli occhi più grandi e arrotondati, e alla minore
inclinazione del corpo; più sciolto il ductus, alleggerito di molte legature fra
vocali e consonanti; più largo l’interlinea, che compensa l’ingrossamento
del corpo; più stretto lo specchio di stampa21. Insomma un gradevole effet-
to di levità calligrafica, ottenuto anche con sostanziali modifiche delle aste
e dei filetti di congiunzione delle legature: esce, il Petrarca volgare di Son-
cino – ripeto – solo sei mesi dopo la concessione del priviegio a Aldo da
parte di Alessandro VI. Ho volutamente omesso finora il nome del dedica-
tario del Petrarca volgare, al quale nella ricordata dedica Soncino rappre-

20Il passo ricorre nella nuncupatoria della cit. edizione del Petrarca volgare
pubblicata da Soncino nel 1503. Certamente eccessiva e ingenerosa è l’accusa mos-
sa contro Aldo con tanta acrimonia da Soncino. Aldo non aveva, infatti, mancato di
lodare pubblicamente i meriti del Griffo nel luogo più adatto e prestigioso: la pre-
messa al Virgilio del 1501, prima edizione che impiega l’Italico. Condivisibile è per-
tanto quello che in proposito sostiene Carlo Dionisotti, quando delinea lo scarso
spessore culturale del Griffo a fronte delle sue qualità tecniche («Il paragone delle
sue [del Griffo] stampe bolognesi, stravaganti e sgraziate, con quelle che Aldo e il
Soncino, autentici editori, avevano prodotto servendosi dei suoi caratteri, è decisivo.
Appena occorre aggiungere che volendo, come editore, aprir bocca secondo la nor-
ma osservata da Aldo e dal Soncino, gli venne fatto di lasciar prova di una rozzezza
letteraria ai limiti dell’analfabetismo, sorprendente dopo tanti anni di famigliarità con
letterati e stampatori. Insomma si può tranquillamente concludere che se Aldo senza
Francesco Griffo non sarebbe giunto a produrre le sue stampe corsive, neppure ci sa-
rebbe mai giunto da solo il Griffo»: Aldo Manuzio editore cit., I, p. XL).
21 Cfr. BALSAMO-TINTO, Origini cit., pp. 43-44.
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CARATTERE DI PAPA: ALESSANDRO, ALDO, L’ITALICO 47

senta, in contrapposizione ai suoi personali meriti e alle sue ambizioni di ti-


pografo innovatore, l’arroganza e la disonestà di Aldo nel rivendicare a sé
l’esclusiva dell’Italico: il dedicatario è Cesare Borgia, e questo particolare,
insieme alla legittima rivendicazione di una libertà creativa che il Griffo a-
veva ritenuto di offrire a un concorrente, non è certo marginale nello spie-
gare il silenzio di Aldo e la sua rinuncia a rendere pubblico il privilegio ot-
tenuto da Alessandro per il suo corsivo. Aldo aveva insomma fatto brevet-
tare un prodotto dell’ingegno che non gli apparteneva se non per la trovata,
certamente geniale, di commercializzarlo, insieme ad altre innovazioni e-
pocali come l’ottavo, in un prodotto tipografico assolutamente nuovo so-
prattutto nella felice combinazione fra queste innovazioni tecniche e i con-
tenuti dei libri cui venivano applicate. La sua prudenza e la sua sensibilità
lo avevano probabilmente dissuaso dal rendere noto un brevetto concesso
da Alessandro, mentre un temibile concorrente lamentava presso Cesare
l’illegittimo possesso da parte sua del titolo brevettato.
Sta di fatto che, dopo averlo così a lungo taciuto, al volgere del deci-
mo anno, puntuale, Aldo chiede la conferma del privilegio a Giulio II, il
quale la concede il 27 gennaio del 1513, intestandola, con un compiaci-
mento pari almeno a quello del suo predecessore, all’«instaurator utriusque
linguae librorum». Alla fine dello stesso anno, il 28 novembre, egli la riot-
tiene da Leone X, frattanto asceso al soglio pontificio22. La pubblicazione
sinottica dei tre brevi pontifici nel citato in-folio del Cornucopiae di Perot-
ti, stampato da Aldo nel 1513 tutto in Italico, ha in realtà del patetico: or-
mai le contraffazioni del carattere dilagavano in tutta Europa, mentre appe-
na l’anno prima Francesco Griffo aveva consegnato a Bernardino Stagnino
da Trino una nuova doppia serie di corsivi per un Dante che sarebbe uscito
nel gennaio del 1512. La seconda serie era costituita da caratteri di appena
nove punti, destinati al commento: un vero esercizio di virtuosismo inciso-
rio. Frattanto, nel luglio del 1514, i Giunti, contando sul filo-fiorentinismo
di Leone X, si erano spinti ad impugnare il privilegio sull’Italico reiterato a
favore di Aldo, accampando la loro primogenitura sull’uso del carattere.
Del resto, già nel 1507 Aldo aveva dovuto difendersi dai plagi dei Giunti,
ottenendo dai Signori di Notte di Venezia una sentenza di condanna contro
Filippo23. Erano, peraltro, questi gli ultimi episodi della identificazione di
una serie di caratteri con la tipografia che li aveva commissionati. L’acce-

22 Entrambi i privilegi, insieme a quello alessandrino, figurano nella cit. edi-

zione del Cornucopiae di Perotti, cc. 79rv (v. la precedente nota 13). Il privilegio
leonino è sottoscritto da Pietro Bembo.
23 Cfr. LOWRY, The World of Aldus Manutius. Business and Scholarship in Re-

naissance Venice cit., pp. 205-206.


Cap. 03 Iurilli 37-48 13-09-2002 12:56 Pagina 48

48 ANTONIO IURILLI

lerazione delle trasformazioni in atto nell’editoria cinquecentesca vanifica-


va di fatto ogni tentativo di porre sotto tutela una creatività che alcune fon-
derie specializzate avevano praticamente annullato in una produzione seria-
le dei caratteri venduta a tutti i tipografi d’Europa, mentre si scaltrivano le
scelte del formato e le tecniche di ornamentazione: proprio quelle qualità
del prodotto tipografico sulle quali Aldo, con spirito pionieristico, aveva
scommesso, e che avevano saputo resistere e fare scuola anche senza una
protezione, dogale o pontificia che fosse.
Cap. 04 De Nichilo 49-98 13-09-2002 12:57 Pagina 49

MAURO DE NICHILO

Papa Borgia e gli umanisti meridionali

malò Valenza e, per aver riposo,


portato fu fra l’anime beate
lo spirto di Alessandro glorioso;
del qual seguirno le sante pedate
tre sue familiari e care ancelle,
Lussuria, Simonia e Crudeltate.

Con tale sottile antifrasi, rievocando i terribili avvenimenti del decen-


nio 1494-1504, il Machiavelli ‘commemorava’ nel Decennale primo Ales-
sandro VI1. Iniziava con quest’opera, a stampa nel 1506, la ‘fortuna’ postu-
ma dei Borgia, che si sarebbe poi, sempre per la penna del Machiavelli, fis-
sata in alcune pagine famose del Principe, dove, se il Valentino sarà addi-
rittura proposto a modello esemplare di tutti i principi nuovi e occuperà con
la sua eroica e tragica epopea l’intero capitolo VII – ma l’intuizione del
Borgia come esempio di virtù politica, come incarnazione di una politica
nuova, forte, ‘rivoluzionaria’, che potesse risolvere i problemi di Firenze e
dell’Italia, è già nella lettera ‘pubblica’ ai Dieci di Libertà del 13 novembre
1502, scritta subito dopo le sue due legazioni presso il duca2, e quindi nel-
l’opuscolo Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati del
1503, in cui per quanto avesse dubitato dell’opportunità di tentare una si-
mile impresa in quel momento, aveva condiviso il disegno del Valentino di
costituire un forte stato nell’Italia centrale3 –, Alessandro VI sarà gratifica-
to con uno di quei ritratti che costituiscono il punto di forza necessitante

1 Vv. 442-7 (in NICCOLÒ MACHIAVELLI, Opere, IV, Scritti letterari, a cura di L.
BLASUCCI con la collaborazione di A. CASADEI, Torino 1989, pp. 311 e s.). Sul De-
cennale primo cfr. G. BARBERI SQUAROTTI, Storia ed etica in versi: il tono medio del
Machiavelli, «Italianistica», 3 (1974), pp. 15-32, poi in ID., Machiavelli o la scelta
della letteratura, Roma 1987, pp. 97-114; A. MATUCCI, Sul «Decennale I» di Nic-
colò Machiavelli, «Filologia e Critica», 3 (1978), pp. 297-327; A.M. CABRINI, In-
torno al primo «Decennale», «Rinascimento», n. ser., 33 (1993), pp. 69-89.
2 In NICCOLÒ MACHIAVELLI, Legazioni. Commissarie. Scritti di governo, II, a

cura di F. CHIAPPELLI, Bari 1973, pp. 283-287.


3 In NICCOLÒ MACHIAVELLI, Tutte le opere, a cura di M. MARTELLI, Firenze

1971, pp. 13-16.


Cap. 04 De Nichilo 49-98 13-09-2002 12:57 Pagina 50

50 MAURO DE NICHILO

delle argomentazioni del trattato. Il papa spagnolo, che in ogni caso vi è


sempre presente come alter ego del figlio, ispiratore, anzi reale ‘soggetto’
politico della sua azione – il Valentino in fondo è il suo instrumento4 –,
compare nel famoso cap. XVIII come unico esempio fresco, cioè moderno,
di principe golpe, che sappia «questa natura […] ben colorire ed essere gran
simulatore e dissimulatore»:

Io non voglio delli esempli freschi tacerne uno. Alessandro sesto


non fece mai altro, non pensò mai ad altro che a ingannare uomi-
ni, e sempre trovò subietto da poterlo fare: e non fu mai uomo che
avessi maggiore efficacia in asseverare, e con maggiori iuramen-
ti affermassi una cosa, che la osservassi meno; nondimeno sem-
pre gli succedettero gl’inganni ad votum, perché conosceva bene
questa parte del mondo5.

Anche il Guicciardini sosterrà il racconto dell’ambigua politica del


papa e del figlio nei confronti del re di Francia in Storia d’Italia VI 2 con

4 «Surse di poi Alessandro VI, il quale, di tutti è pontefici che sono mai stati,
mostrò quanto un papa e col danaio e con le forze si poteva prevalere; e fece, con lo
instrumento del duca Valentino e con la occasione della passata de’ franzesi, tutte
quelle cose che io discorro di sopra [cap. VII] nelle azioni del duca. E benché la ‘n-
tenzione sua non fussi fare grande la Chiesa, ma il duca, nondimeno ciò che fece
tornò a grandezza della Chiesa: la quale dopo la sua morte, spento il duca, fu erede
delle sue fatiche» (Il Principe XI 12-13: ed. a cura di G. INGLESE, Torino 1995, p. 76).
Sul cap. VII del Principe vd. ora le edizioni con commento di INGLESE cit., pp. 38-54,
e di R. RINALDI, in NICCOLÒ MACHIAVELLI, Opere, a cura dello stesso, I 1, Torino
1999, pp. 170-192. Sulla figura del Valentino in Machiavelli cfr. G. SASSO, Machia-
velli e Cesare Borgia. Storia di un giudizio, Roma 1966; ID., Ancora su Machiavelli
e Cesare Borgia (1969) e Coerenza o incoerenza del settimo capitolo del «Princi-
pe»? (1972), in ID., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, Milano-Napoli 1988, II,
pp. 57-163; ID., Per alcune Machiavellerie, «La Cultura», 18 (1980), pp. 416-420; C.
DIONISOTTI, Machiavelli, Cesare Borgia e don Micheletto (1967 e 1970), in ID., Ma-
chiavellerie. Storia e fortuna di Machiavelli, Torino 1980, pp. 3-59; J.-J. MARCHAND,
L’évolution de la figure de César Borgia dans la pensée de Machiavel, «Schweizer
Zeitschrift für Geschichte/Revue Suisse d’Histoire», 19 (1969), pp. 327-355; E. GU-
SBERTI, Cesare Borgia e Machiavelli (in margine a una polemica), «Bullettino del-
l’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo», 85 (1974-1975), pp. 179-230; G. IN-
GLESE, Il Principe (De principatibus) di Niccolò Machiavelli, in Letteratura italiana,
dir. da A. ASOR ROSA, Le Opere, I, Dalle Origini al Cinquecento, Torino 1992, pp.
906-909 (e poi come Introduzione alla sua ed. cit. del Principe, pp. XVI-XX). V. an-
che R. DE MAIO, Alessandro VI nel giudizio di Guicciardini, in La fortuna dei Bor-
gia, (Atti del Convegno, Bologna, 29-31 ottobre 2000), di prossima pubblicazione.
5 Il Principe XVIII 11-12 (ed. cit., pp. 117 e s.).
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PAPA BORGIA E GLI UMANISTI MERIDIONALI 51

l’affermazione che la loro «simulazione e dissimulazione […] era tanto


nota nella corte di Roma che n’era nato comune proverbio che ’l papa non
faceva mai quello che diceva e il Valentino non diceva mai quello che fa-
ceva»6. Ma il suo punto di vista è decisamente più radicale rispetto a quel-
lo del Machiavelli. Il Guicciardini, incapace di rinunciare al giudizio mo-
rale, specie nei confronti di coloro cui è stato dato in sorte l’esercizio del
potere, non riesce a provare ammirazione per le presunte doti politiche del
più giovane Borgia, che resta per lui soprattutto figlio di suo padre, papa
corrotto e potente, cui deve oltre che la sua personale tendenza all’ingan-
no e alla crudeltà, tutto ciò che per breve tempo ha ottenuto. Sui due cade
allora inappellabile la sua sentenza di condanna per scelleratezza, effera-
tezza, frode, uso perverso e sconsiderato della potenza della Chiesa. Nel-
la prospettiva storica della Storia d’Italia Alessandro VI rappresentava per
il Guicciardini la causa prima della tragedia che si era abbattuta sull’Italia
nel 1494, «principio degli anni miserabili», da cui si era prodotta quella
spirale inarrestabile di guerre, discordie e distruzioni che aveva portato al-
l’esplosione dell’ordine conosciuto, a quelle «innumerabili e orribili cala-
mità, delle quali si può dire che per diversi accidenti abbia di poi parteci-
pato una parte grande del mondo»7. Perché quella tragedia – essendo la
storia per il Guicciardini storia di decadenza e la decadenza in primo luo-
go corruzione della ‘virtù’ individuale – era stata provocata innanzitutto
dalla scomparsa di tre grandi uomini di stato, Lorenzo de’ Medici, Ferran-
te d’Aragona, Innocenzo VIII, cui erano succeduti uomini inetti, impru-
denti o scellerati, i figli Piero de’ Medici e Alfonso d’Aragona a Firenze e
a Napoli, Alessandro VI sul soglio di Pietro. In particolare il nuovo papa
avrebbe contribuito a quella «mutazione degli antichi costumi»8, premessa
necessaria della rovina, divenendo nel racconto del Guicciardini il simbo-
lo della corruzione della sede papale.

6FRANCESCO GUICCIARDINI, Storia d’Italia VI 2 (ed. a cura di S. SEIDEL MEN-


CHI, Torino 1971, I, p. 459).
7 Storia d’Italia I 6 (ed. cit., I, p. 50). E ancora I 9 (p. 78): «[Carlo VIII] entrò

in Asti il dì nono di settembre dell’anno mille quattrocento novantaquattro, condu-


cendo seco in Italia i semi di innumerabili calamità, di orribilissimi accidenti, e va-
riazioni di quasi tutte le cose: perché dalla passata sua non solo ebbono principio
mutazioni di stati, sovversioni di regni, desolazioni di paesi, eccidi di città, crude-
lissime uccisioni, ma eziandio nuovi abiti, nuovi costumi, nuovi e sanguinosi modi
di guerreggiare, infermità insino a quel dì non conosciute; e si disordinorono di ma-
niera gli instrumenti della quiete e concordia italiana che, non si essendo mai poi
potuta riordinare, hanno avuto facoltà altre nazioni straniere e eserciti barbari di
conculcarla miserabilmente e devastarla»
8 Ibid. I 1 (ed. cit., I, p. 5).
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52 MAURO DE NICHILO

A Innocenzio succedette Roderigo Borgia, di patria valenziano,


una delle città regie di Spagna, antico cardinale, e de’ maggiori
della corte di Roma, ma assunto al pontificato per le discordie
che erano tra i cardinali Ascanio Sforza e Giuliano di san Piero
a Vincola, ma molto più perché, con esempio nuovo in quella età,
comperò palesemente, parte con danari parte con promesse degli
uffici e benefici suoi, che erano amplissimi, molti voti di cardi-
nali: i quali, disprezzatori dell’evangelico ammaestramento, non
si vergognarono di vendere la facoltà di trafficare col nome del-
la autorità celeste i sacri tesori, nella più eccelsa parte del tem-
pio. Indusse a contrattazione tanto abominevole molti di loro il
cardinale Ascanio, ma non già più con le persuasioni e co’ prie-
ghi che con lo esempio; perché corrotto dall’appetito infinito
delle ricchezze, pattuì da lui per sé, per prezzo di tanta scellera-
tezza, la vicecancelleria, ufficio principale della corte romana,
chiese, castella e il palagio suo di Roma, pieno di mobili di gran-
dissima valuta. Ma non fuggì, per ciò, né poi il giudicio divino
né allora l’infamia e odio giusto degli uomini, ripieni per questa
elezione di spavento e di orrore, per essere stata celebrata con ar-
ti sì brutte; e non meno perché la natura e le condizioni della per-
sona eletta erano conosciute in gran parte da molti …9.

Tra i contemporanei il Guicciardini fu uno dei più severi accusatori del


Borgia, anche se nella pagina sopra citata la sua condanna è primo di tutto
rivolta ai cardinali, che non si erano vergognati del turpe mercato. In Ales-
sandro VI il Guicciardini è infatti disposto a riconoscere «solerzia e saga-
cità singolare, consiglio eccellente, efficacia a persuadere maravigliosa, e a
tutte le faccende gravi sollecitudine e destrezza incredibile»; malaugurata-
mente tutte queste ‘virtù’ erano sopravanzate «di grande intervallo» dai vi-
zi: «costumi oscenissimi, non sincerità non vergogna non verità non fede
non religione», e ancora «avarizia insaziabile, ambizione immoderata, cru-
deltà più che barbara e ardentissima cupidità di esaltare in qualunque mo-
do i figliuoli i quali erano molti; e tra questi qualcuno, acciocché a esegui-
re i pravi consigli non mancassino pravi instrumenti, non meno detestabile
in parte alcuna del padre»10. Pur conservando le forme dell’obiettività, il
giudizio dello storico è inequivocabile e ripetuto con impietosa durezza a
conclusione della parabola, quando la vicenda terrena del Borgia assume al-
la fine una sua singolare esemplarità. Come già nel ritratto finale di Ales-
sandro VI nel cap. XXIV delle Storie fiorentine, dove il Guicciardini, dopo

9 Ibid., I 2 (ed. cit., I, p. 11).


10 Ibid., I 2 (ed. cit., I, p. 12).
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PAPA BORGIA E GLI UMANISTI MERIDIONALI 53

aver esaminato tutte le colpe del pontefice defunto, trasferisce il giudizio


fuori della più immediata logica politica, esprimendo la sua meraviglia per
il fatto che tanti peccati non avessero trovato «condegna retribuzione nel
mondo» – che anzi il Borgia «fu insino allo ultimo dì felicissimo», «in-
somma più cattivo e più felice che mai per molti secoli fussi forse stato pa-
pa alcuno» 11 –, la descrizione della sua morte nel cap. IV del libro VI del-

11 «Così morì papa Alessandro in somma gloria e felicità; circa la qualità del qua-

le s’ha a intendere che lui fu uomo valentissimo e di grande giudicio e animo, come
mostrorono e’ modi sua e processi; ma come el principio del salire al papato fu brut-
to e vituperoso, avendo per danari comperato uno tanto grado, così furono e’ sua go-
verni non alieni da uno fondamento sì disonesto. Furono in lui e abundantemente tut-
ti e’ vizi del corpo e dello animo, né si potette circa alla amministrazione della Chie-
sa pensare uno ordine sì cattivo che per lui non si mettessi a effetto; fu lussuriosissi-
mo nell’uno e nell’altro sesso, tenendo publicamente femine e garzoni, ma più anco-
ra nelle femine; e tanto passò el modo che fu publica opinione che egli usassi con ma-
donna Lucrezia sua figliuola, alla quale portava uno tenerissimo e smisurato amore;
fu avarissimo, non nel conservare el guadagnato, ma nello accumulare di nuovo; e do-
ve vedde uno modo di potere trarre danari, non ebbe rispetto alcuno: vendevansi a
tempo suo come allo incanto tutti e’ benefici, le dispense, e’ perdoni, e’ vescovadi, e’
cardinalati e tutte le dignità di corte; alle quali cose aveva deputati dua o tre sua con-
fidati, uomini sagacissimi, che allogavano a chi più ne dava. Fece morire di veleno
molti cardinali e prelati, ancora confidatissimi sua, quali vedeva ricchi di benefici e in-
tendeva avere numerato assai in casa, per usurpare la loro ricchezza. La crudeltà fu
grande, perché per suo ordine furono morti molti violentemente; non minore la ingra-
titudine colla quale fu cagione rovinare gli Sforzeschi e Colonnesi che l’avevano fa-
vorito al papato. Non era in lui nessuna religione, nessuna osservanzia di fede: pro-
metteva largamente ogni cosa, non osservava se non tanto quanto gli fussi utile; nes-
suna cura della giustizia, perché a tempo suo era Roma come una spelonca di ladroni
e di assassini; fu infinita la ambizione, e la quale tanto cresceva quanto acquistava e
faceva stato; e nondimeno, non trovando e’ peccati sua condegna retribuzione nel
mondo, fu insino allo ultimo dì felicissimo. Giovane e quasi fanciullo, avendo Calisto
suo zio papa, fu creato da lui cardinale, e poi vicecancelliere; nella quale degnità per-
severò insino al papato con grande entrata, riputazione e tranquillità. Fatto papa, fece
Cesare, suo figliuolo bastardo e vescovo di Pampalona, cardinale, contra tutti gli or-
dini e decreti della Chiesa che proibiscono che uno bastardo non possi essere fatto car-
dinale eziandio con dispensa del papa, fatto provare con falsi testimoni che gli era le-
gittimo. Fattolo di poi secolare e privatolo del cardinalato, e vòlto l’animo a fare sta-
to, furono e’ successi sua più volte maggiori ch’e’ disegni; e cominciando da Roma,
disfatti gli Orsini, Colonnesi e Savelli, e quegli baroni romani che solevano essere te-
muti dagli altri pontefici, fu più assoluto signore di Roma che mai fussi stato papa al-
cuno; acquistò con somma facilità le signorie di Romagna, della Marca e del ducato;
e fatto uno stato bellissimo e potentissimo, n’avevano e’ fiorentini paura grande, e’ vi-
niziani sospetto, el re di Francia lo stimava. Ridotto insieme uno bello esercito, dimo-
strò quanto fussi grande la potenza di uno pontefice, quando ha uno valente capitano
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54 MAURO DE NICHILO

la Storia d’Italia dà luogo alla disingannata constatazione della impossibi-


lità di un qualche ristabilimento della giustizia in questo mondo:

Concorse al corpo morto d’Alessandro in San Piero con incredi-


bile allegrezza tutta Roma, non potendo saziarsi gli occhi d’alcu-
no di vedere spento un serpente che con la sua immoderata am-
bizione e pestifera perfidia, e con tutti gli esempli di orribile cru-
deltà di mostruosa libidine e di inaudita avarizia, vendendo senza
distinzione le cose sacre e le profane, aveva attossicato tutto il
mondo; e nondimeno era stato esaltato, con rarissima e quasi per-
petua prosperità, dalla prima gioventù insino all’ultimo dì della
vita sua, desiderando sempre cose grandissime e ottenendo più di
quello desiderava12.

La vicenda di Alessandro VI diviene allora esempio potente della in-


sondabilità del giudizio di Dio, contro chi presume di conoscere l’abissale
profondità della sua volontà:

Esempio potente a confondere l’arroganza di coloro i quali, pre-


sumendosi di scorgere con la debolezza degli occhi umani la
profondità de’ giudìci divini, affermano ciò che di prospero o di
avverso avviene agli uomini procedere o da’ meriti o da’ demeri-
ti loro: come se tutto dì non apparisse molti buoni essere vessati
ingiustamente e molti di pravo animo essere esaltati indebita-
mente; o come se, altrimenti interpretando, si derogasse alla giu-
stizia e alla potenza di Dio; la amplitudine della quale, non ri-
stretta a’ termini brevi e presenti, in altro tempo e in altro luogo,
con larga mano, con premi e con supplìci sempiterni, riconosce i
giusti dagli ingiusti13.

Il giudizio storico del papa spagnolo dal Guicciardini affidato alle pa-
gine della Storia d’Italia rifletteva in ogni caso, sul finire degli anni Tren-
ta, quanto la storiografia primocinquecentesca aveva messo a punto sul per-
sonaggio del Borgia, compresa certa aneddotica sulla crudeltà e sulla per-

e di chi si possa fidare; venne a ultimo in termini, che era tenuto la bilancia della guer-
ra fra Francia e Spagna; fu insomma più cattivo e più felice che mai per molti secoli
fussi forse stato papa alcuno» (FRANCESCO GUICCIARDINI, Storie fiorentine dal 1378 al
1509, a cura di A. MONTEVECCHI, Milano 1998, p. 403 e s.).
12 Ed. cit., I, p. 555.
13 Ibid. Sul giudizio del Guicciardini mi limito a segnalare ora il brillante e pro-

blematico saggio di DE MAIO, Alessandro VI nel giudizio del Guicciardini cit.


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PAPA BORGIA E GLI UMANISTI MERIDIONALI 55

versa sessualità, sua e dei suoi figli, che assieme alla simonia avrebbero per
sempre bollato con un indelebile marchio d’infamia il suo pontificato, a-
neddotica cui neppure lo storico fiorentino sa sottrarsi indulgendo a narra-
re nel cap. XIII del libro III «gli infortuni domestici, i quali perturborono la
casa sua con esempi tragici, e con libidini e crudeltà orribili», in particola-
re l’efferato assassinio del duca di Gandìa attribuito senza reticenze né ri-
serve alla gelosia del fratello Cesare14 e gli amori incestuosi che con Lu-
crezia avrebbero intrattenuto sia i fratelli che il padre15. Brano questo cen-
surato con altri tre ritenuti sconvenienti sul piano politico e soprattutto reli-

14 L’episodio, tutt’oggi controverso, è discusso, attraverso il resoconto meto-


dologicamente e ideologicamente esemplare che ne diedero nell’Ottocento il
Burckhardt, il Gregorovius e il Pastor, nel saggio di G. LOMBARDI, Storici dell’Ot-
tocento sui Borgia (Burckhardt, Gregorovius, Pastor), negli Atti cit., di prossima
pubblicazione, La fortuna dei Borgia.
15 «Ma non potette già fuggire gli infortuni domestici, i quali perturborono la

casa sua con esempli tragici, e con libidini e crudeltà orribili, eziandio in ogni bar-
bara regione. Perché avendo, insino da principio del suo pontificato, disegnato di
volgere tutta la grandezza temporale al duca di Candia suo primogenito, il cardinale
di Valenza il quale, d’animo totalmente alieno dalla professione sacerdotale, aspira-
va all’esercizio dell’armi, non potendo tollerare che questo luogo gli fusse occupato
dal fratello, e impaziente oltre a questo che egli avesse più parte di lui nell’amore di
madonna Lucrezia sorella comune, incitato dalla libidine e dalla ambizione (ministri
potenti a ogni grande scelleratezza), lo fece, una notte che e’ cavalcava solo per Ro-
ma, ammazzare e poi gittare nel fiume del Tevere secretamente. Era medesimamen-
te fama (se però è degna di credersi tanta enormità) che nell’amore di madonna Lu-
crezia concorressino non solamente i due fratelli ma eziandio il padre medesimo: il
quale avendola, come fu fatto pontefice, levata dal primo marito come diventato in-
feriore al suo grado, e maritatala a Giovanni Sforza signore di Pesero, non compor-
tando d’avere anche il marito per rivale, dissolvé il matrimonio già consumato; a-
vendo fatto, innanzi a giudici delegati da lui, provare con false testimonianze, e dipoi
confermare per sentenza, che Giovanni era per natura frigido e impotente al coito.
Afflisse sopra modo il pontefice la morte del duca di Candia, ardente quanto mai fus-
se stato padre alcuno nell’amore de’ figliuoli, e non assuefatto a sentire i colpi della
fortuna, perché è manifesto che dalla puerizia insino a quella età aveva avuto in tut-
te le cose felicissimi successi; e se ne commosse talmente che nel concistorio, poi-
ché ebbe con grandissima commozione d’animo e con lacrime deplorata gravemen-
te la sua miseria, e accusato molte delle proprie azioni e il modo del vivere che insi-
no a quel dì aveva tenuto, affermò con molta efficacia volere governarsi in futuro con
altri pensieri e con altri costumi: deputando alcuni del numero de’ cardinali a rifor-
mare seco i costumi e gli ordini della corte. Alla quale cosa avendo data opera qual-
che dì, e cominciando a manifestarsi l’autore della morte del figliuolo, la quale nel
principio si era dubitato che non fusse proceduta per opera o del cardinale Ascanio o
degli Orsini, deposta prima la buona intenzione e poi le lagrime, ritornò più sfrena-
tamente che mai a quegli pensieri e operazioni nelle quali insino a quel dì aveva con-
sumato la sua età» (Storia d’Italia III 13: ed. cit., I, pp. 323 e s.).
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56 MAURO DE NICHILO

gioso (relativi, nell’ordine, all’origine e sviluppo del potere temporale del-


la Chiesa [IV 12], all’interpretazione corrente del versetto di un salmo che
contrastava con i risultati delle recenti scoperte geografiche [VI 9], al reso-
conto del discorso di Pompeo Colonna e Antimo Savelli ai romani per inci-
tarli alla rivolta contro il potere papale [X 4]) dalla commissione presiedu-
ta da Bartolomeo Concini, segretario di Cosimo I, in occasione della stam-
pa postuma del 1561. Fu ripristinato, insieme con il passo del libro IV, sol-
tanto nell’edizione ginevrina della Storia pubblicata dallo Stoer nel 1621,
in area protestante, dove molto precoce era stata del resto la fortuna dell’o-
pera guicciardiniana, proprio in virtù dell’ampio spazio in essa riservato al-
la polemica contro la corruzione del papato e della Chiesa di Roma; nel
frattempo era comunque autonomamente circolato, con gli altri luoghi cen-
surati, sia manoscritto che a stampa, in diverse lingue, e spesso inserito in
florilegi di propaganda anticattolica16. L’impostazione guicciardiniana del
discorso sui Borgia trovava pieno riscontro – ripeto – nella coeva produzio-
ne storiografica che, identificato nel 1494 l’anno fatale che aveva segnato
l’inizio della tragedia italiana, aveva predisposto i parametri interpretativi
della prima passata francese, letta come irreversibile fine di un’epoca. Una
volta riconosciuta la gravità degli effetti a catena da quella messi in moto,
un episodio per nulla effimero, simile ad altri del passato, come a caldo e-
ra stato liquidato, e specie dopo che la lega italiana, in fretta costituitasi, eb-
be costretto Carlo VIII a ripassare le Alpi, e invece, visto retrospettivamen-
te, dopo la seconda discesa francese del 1499 e la concomitante conquista
spagnola di Napoli del 1501, epocale spartiacque tra un’età di pace e di sta-
bilità – o almeno tale divenuta nella idealizzazione di un interassato sche-
ma storiografico – ed una di guerre incessanti e di bruschi rivolgimenti e
«variazioni», ci si era dovuti necessariamente interrogare sul perché i prin-
cipi italiani non avessero potuto o voluto impedire quella ‘calata’ dando
prova di una miopia politica a dir poco sbalorditiva. Bernardino Corio, che
aveva fatto carriera al servizio di Ludovico il Moro, non riuscendo a com-
prendere come mai un uomo di così consumata abilità politica avesse potu-
to commettere l’errore di istigare il re francese, dimenticando che Dio «per
confina tra oltramontani e Italiani constituì li monti a ciò l’una con l’altra
natione non havesse ad interponerse», fatalisticamente ammise l’intervento
divino: la sconfinata insaziabile ambizione che aveva condotto lo Sforza ad
una impresa «sì cativa» era predestinata: «io penso per nostri peccati che

16 Per la prima volta i passi del libro III, IV e X erano stati pubblicati separa-

tamente, sempre in terra protestante, i primi due nel 1569 a Basilea a cura di Celio
Secondo Curione e per i tipi di Pietro Perna (che già nel 1566 avevano stampato u-
na traduzione latina della Storia d’Italia), il terzo a Francoforte nel 1609. Per que-
ste notizie cfr. nel vol. I dell’ed. cit. della Storia le pp. CXVIII-CXXI.
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Ludovico a questo tanto male fusse destinato»17. Altri insistettero invece su-
gli errori personali dei principi italiani, ma mentre Sigismondo de’ Conti,
non annettendo in fondo un particolare significato all’episodio, si sentì in
dovere, da storico della Chiesa, di assolvere Alessandro VI – da lui del re-
sto ammirato come «uomo scaltrissimo, il quale all’ingegno aveva aggiun-
to la pratica dei più alti affari»18 – dall’accusa di aver portato i Francesi in
Italia («per la qual cosa fu mestieri ad Alessandro, benché a suo malincuo-
re, di volgere l’occhio sui Francesi, nazione se altra mai a Ferdinando infe-
sta e formidabile»)19, il fiorentino Bernardo Rucellai, pur avendo come ber-
saglio primo Piero de’ Medici, da lui con perverso orgoglio ritenuto re-
sponsabile della situazione che aveva reso inevitabile l’invasione francese,
per aver sconsideratamente deciso di appoggiare Napoli contro Milano, ri-
versò tuttavia nel De bello Italico commentarius tutte le colpe su papa Bor-
gia, «facinore omni insignis, ob simultates cardinalium auro ad pontifica-
tum evectus», addebitandogli l’«initium tantae calamitatis»: era stata pro-
prio la sua richiesta d’aiuto al re francese, messa in atto se non altro come
forma di minaccioso ricatto nei confronti di Alfonso d’Aragona, il primo a-
nello della catena di avvenimenti sfociata nella catastrofe del 149420. Per
quanto più ragionato e presentato con maggiore rigore, l’esame delle cause
dell’invasione francese e dei rivolgimenti da questa provocati, nelle Storie
fiorentine del Guicciardini, sembra conformarsi nelle linee essenziali all’a-
nalisi del Rucellai. Anche il Guicciardini, nell’intento di risalire all’origine
dei mali che avevano travolto la penisola dopo il 1494 («per questa passata
de’ franciosi, come per una subita tempesta rivoltatasi sottosopra ogni cosa,
si roppe e squarciò la unione di Italia»)21, condanna gli errori commessi in

17 BERNARDINO CORIO, Storia di Milano, a cura di A. MORISI GUERRA, II, Tori-


no 1978, pp. 1492 e s. Sul Corio cfr. S. MESCHINI, Uno storico umanista alla corte
sforzesca. Biografia di Bernardino Corio, Milano 1995.
18 «E tanto numero elegerunt Rodericum Borgiam Valentinum, Sanctae Roma-

nae Ecclesiae vicecancellarium, virum versatissimum, qui ingenio maximarum re-


rum usum addiderat»: SIGISMONDO DEI CONTI DA FOLIGNO, Le storie de’ suoi tempi
dal 1475 al 1510, ed. G. MELCHIORRI-G. RACIOPPI, II, Roma 1883, p. 53.
19 «Quae res Alexandrum ad Gallos, quod alias facturus non erat, coegit respin-

gere, gentem prae cunctis Ferdinando infestam atque tremendam»: ibid., II, p. 59.
20 BERNARDI ORICELLARII De bello Italico commentarius, iterum in lucem edi-

tus, Londini [Firenze] 1733, pp. 5 e s. Sul Rucellai rinvio unicamente a M. DE NI-
CHILO, Un plagio annunciato: Girolamo Borgia e il «De bello italico» di Bernardo
Rucellai, in La memoria e la città. Scritture storiche tra Medioevo ed Età Moderna,
a cura di C. BASTIA-M. BOLOGNANI, responsabile culturale F. PEZZAROSSA, Bologna
1995, pp. 331-360, e R.M. COMANDUCCI, Il carteggio di Bernardo Rucellai. Inven-
tario, Firenze 1996.
21 GUICCIARDINI, Storie fiorentine X (ed. cit., p. 197).
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58 MAURO DE NICHILO

quel frangente dai signori italiani, imputandoli in particolare a Piero de’


Medici, al Moro e ad Alessandro VI, che in egual misura avevano dato pro-
va di scarsa previdenza politica, resi ciechi dalle loro debolezze umane, pri-
me fra tutte ambizione, vanità, meschinità, invidia e cupidigia. Nella Storia
d’Italia, la necessità di maggiore contestualizzazione, al fine di mettere in
risalto la valenza epocale dell’avvenimento, induceva nel racconto quel sal-
to all’indietro verso la mitizzazione dell’età di Lorenzo, che aveva assicu-
rato pace e prosperità alla penisola italiana, conformemente ad uno schema
storiografico già adottato nelle sue Storie fiorentine ma operante anche nel
De bello Italico del Rucellai e nella Storia di Milano del Corio. Nel 1492,
la morte a breve distanza l’uno dall’altro del Magnifico e di Innocenzo VIII
contribuì a produrre un’alterazione così profonda e improvvisa («le cala-
mità d’Italia […] cominciorono con tanto maggiore dispiacere e spavento
negli animi degli uomini quanto le cose universali erano allora più liete e
più felici»)22 che nulla sarebbe stato mai più come prima. In merito alla di-
scesa di Carlo VIII, il Guicciardini restava indubbiamente fermo alla re-
sponsabilità dello Sforza – attribuitagli del resto da tutti i contemporanei,
compreso il Commynes di parte francese23 –, alla sua ambizione smodata a
danno dei diritti del nipote Gian Galeazzo (Storia d’Italia I 3); nel capitolo
seguente dava seguito, tuttavia, alle responsabilità del duca di Ferrara e del
papa, che si era disposto ad assecondare il Moro unendosi con lui e con Ve-
nezia in una nuova lega, dopo il malaugurato affare della vendita dei castelli
di Anguillara e di Cerveteri a Virginio Orsini e il rifiuto napoletano al ma-
trimonio di Cesare Borgia con Lucrezia, bastarda di Ferrante24. In realtà
l’intento di Alessandro VI era stato unicamente quello di ricattare gli Ara-
gonesi per ottenere da loro più facilmente ciò che ambiva per i suoi figli, e
invece si trovò a pieno implicato nella chiamata dei Francesi, ben presto
sollecitata dal duca di Milano. Ancora nel febbraio del 1493 si era sospet-

22 GUICCIARDINI, Storia d’Italia I 1 (ed. cit., p. 5).


23 Cfr. PHILIPPE DE COMMYNES, Mémoires, éd. par J. CALMETTE, III, Paris 1925,
pp. 19 e s.
24 «E nondimeno Lodovico, parendogli pericoloso l’essere solo a suscitare mo-

vimento sì grande, e per trattare la cosa in Francia con maggiore credito e autorità,
cercò, prima, di persuadere il medesimo al pontefice non meno con gli stimoli del-
l’ambizione che dello sdegno; dimostrandogli che, o per favore de’ prìncipi italiani
o per mezzo dell’armi loro, non poteva né di vendicarsi contro a Ferdinando né di
acquistare stati onorati per i figliuoli avere speranza alcuna. E avendolo trovato
pronto, o per cupidità di cose nuove o per ottenere dagli Aragonesi, per mezzo del
timore, quel che di concedergli spontaneamente recusavano, mandorono secretissi-
mamente in Francia uomini confidati a tentare l’animo del re»: Storia d’Italia, I 4
(ed. cit., I, p. 28).
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PAPA BORGIA E GLI UMANISTI MERIDIONALI 59

tato che il papa volesse appoggiare le pretese di Carlo: l’oratore napoletano


a Firenze, Marino Tomacelli, veniva a sapere di pratiche in tal senso con-
dotte da Michele Marullo notoriamente filofrancese25. È tuttavia certo che
quando più tardi il Borgia tornò a favorire gli Aragonesi, il cardinale Asca-
nio Sforza gli rinfacciò che l’«impresa s’era mossa con partecipatione, vo-
lontà et consiglio suo»; ne era convinto anche il Commynes che nell’otto-
bre 1494, in un colloquio con l’ambasciatore fiorentino Paolo Antonio So-
derini, accusava il papa di aver sollecitato la discesa francese «con suoi bre-
vi e diversi mezzi» 26.
Ma leggiamo ora il seguente passo:

Principio omnibus constat Alexandri sexti pontificis, Ludovici


Sfortiae, quem Maurum ob colorem vafrumque ingenium appel-
labant, et Alfonsi secundi Neapolitanorum regis regnandi libidi-
nem immanissimam fontem originemque omnium Italiae fuisse
malorum. Hos enim primum, veluti tres furias, semper nova belli
crimina ferentes statumque Italiae evertentes, ad extremum se
ipsos et suos praecipitantes vidimus. Atque ut Alexandri facino-
ra, quae iustum per se volumen requirunt, primum attingamus,
postquam pontifex ille omni facinore insignis ob simultates ava-
ritiamque cardinalium auro ad supremum honorem evectus est, ac
velut in auctionem proponere summum sacerdotium haec aetas
tulit, non contentus suis alienas opes invasit, neque has quibus
modis assequeretur, dum sibi filiisque, quos plurimos susceperat,
pararet, quicquam pensi habebat, domestico dedecori addens im-
moderatam imperii cupiditatem. Igitur per homines sibi fidos
Alfonsi animum, qui Ferrando nuper successerat, tentare et adni-
ti, ut filiam ex concubina, quam in deliciis habuisset, ortam
Alfonso regis filio in matrimonium daret, sperans, quod in animo
altius haeserat, non modo opulentam dotem liberis sedemque im-
perii, sed sibi aditum ad opes suas amplificandas regnumque fac-
turum. Quod ubi secus cessit, indignatione et stomacho exardens,
Alfonsum regem dolo aggredi constituit et extrema omnia expe-
riri. […] Legatis igitur in Galliam missis, per eos Caroli animum
sollicitare, multa polliceri, ut regnum ab Alfonso maiore occupa-
tum repetat; illi omnia in promptu esse, opes, exercitum, tormen-
ta et, quod praecipuum esset, Alfonsum ipsum imparatum, sociis

25 Si veda la lettera del Pontano a nome di re Ferrante al Tomacelli in F. TRIN-


CHERA, Codice aragonese, II 1, Napoli 1868, p. 291 (lett. CCCXXV).
26 Entrambe le notizie e relative citazioni sono tratte da C. DE FREDE, L’impre-

sa di Napoli di Carlo VIII. Commento ai primi due libri della Storia d’Italia del
Guicciardini, Napoli 1982, p. 67.
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60 MAURO DE NICHILO

atque principibus ob superbiam et avaritiam iuxta invisum, tan-


tummodo incepto opus esse, cetera deos pro iustiore stantes cau-
sa gesturos.

Il brano non aggiunge in effetti nulla di nuovo al quadro storiografico


sin qui delineato. Al ribadimento, come dato di fatto ormai accertato e ar-
chiviato, delle responsabilità di Alessandro VI, Alfonso II d’Aragona e Lu-
dovico Sforza, che come furie mosse da «regnandi libidinem immanissi-
mam» avevano causato la rovina loro e dell’Italia, segue nei dettagli lo
squadernamento dei facinora del Borgia, accusato esplicitamente, oltre che
di simonia e di nepotismo, di essere stato il fomite primo delle guerre che
avevano travolto la penisola. «Indignatione et stomacho exardens» nei con-
fronti di Alfonso d’Aragona che non aveva accondisceso al matrimonio dei
loro figli, cedendo alle pressioni del Moro, il papa aveva inviato suoi am-
basciatori in Francia allo scopo di persuadere Carlo VIII a scendere in Ita-
lia a riprendersi il Regno illegittimamente conquistato dal Magnanimo. Ma
l’interesse del passo sta nel fatto che, ad eccezione del suo incipit, in cui
l’autore, insieme alle rituali enunciazioni di programma e di metodo storio-
grafico, precostituisce il giudizio generale sulla vicenda che si accinge a
narrare, facendo suo quello che era un topos storiografico corrente27, il vo-
lumen dei facinora di Alessandro VI è ripreso pari pari dal De bello Italico
del Rucellai, il libro sulla storia della prima invasione francese, che per es-
sere opera di un letterato non di professione, ma di un politico coinvolto ne-
gli avvenimenti narrati, era risultato un felice specimen dello stretto nesso
fra teoria e prassi storiografica degli umanisti, alle cui prescrizioni il Fio-
rentino si era scrupolosamente attenuto (e sappiamo che sull’argomento a-
veva consultato come massimo esperto il Pontano, mentre si trovava in mis-
sione a Napoli nel 1495)28. L’umanista autore del brano in discussione, an-

27 Il passo è stato da me interamente trascritto in Un plagio annunciato cit., pp.


345 e s.
28 «At liberi [Piero de’ Medici e Alfonso d’Aragona], ut interdum res humanae

se habent, parentibus longe dissimiles, patrum consiliis spretis, ea primum moliti dein-
de aggressi sunt unde calamitas Italiae simul et sui exitium oriretur. Quo factum est,
ut qui magni pollentesque erant, mox fortuna cum imperii artibus commutata, ipsi in-
ter pauca aerumnarum exempla miserandum spectaculum praebuerint. Caeterum un-
de minime decuit, tantae initium calamitatis fuit; nam postquam Alexander ille faci-
nore omni insignis ob simultates cardinalium auro ad pontificatum evectus est, veluti
in auctionem proponere summum sacerdotium haec aetas tulit, non contentus suis a-
lienas animo iam opes invaserat; neque has quibus modis assequeretur, dum sibi filiis-
que, quos plurimos susceperat, pararet, quicquam pensi habebat, domestico dedecori
addens immoderatam imperii cupiditatem. Igitur per homines sibi fidos acceptosque
Alfonsi animum, qui Ferdinando successerat, tentare, adniti, ut eius filiam ex concu-
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ch’egli stimolato a coltivare la storiografia dal Pontano, avendo deciso di


scrivere la perpetua series rerum gestarum del suo tempo a iniziare dal
1494, aveva dovuto supplire per i primi anni alla mancanza di testimonian-
ze autoptiche facendo ricorso alla fonte narrativa più attendibile per essere
la più vicina agli avvenimenti descritti, il De bello Italico del Rucellai, dal
quale infatti prende le mosse inglobandolo nel suo commentario. È ormai
tempo di svelare il nome dello sconosciuto autore: Girolamo Borgia, l’u-
manista autore di ventuno libri di Historiae, nato a Senise in Lucania nel
1479 da un Pietro Borgia sicuramente di origine spagnola – suo nonno, va-
lente uomo d’armi, vi era giunto al seguito di Alfonso il Magnanimo29 –, e
invece secondo la fantasiosa genealogia fornita dalla sua biografia secente-
sca, figlio di Antonio, figlio di Ximenio Borgia, e dunque nipote di papa
Callisto e fratello di Rodrigo30. In ogni caso spesso Girolamo sottolinearà
la estraneità ai Borgia, o almeno al ramo famigerato della famiglia, prefe-
rendo per il suo cognome la grafia Borgius, che compare già nel colophon
del cod. Vat. lat. 5175, apografo di suo pugno dell’Urania e del Meteoro-
rum liber del Pontano sottoscritto in data 25 luglio 150031. Affrancatosi dal

bina ortam, quam in deliciis habuisset, Alfonso filio in matrimonium daret, sperans,
quod in animo altius haeserat, non modo opulentam dotem liberis sedemque imperii,
sed sibi aditum ad opes suas amplificandas regnumque facturum. Quod ubi secus ces-
sit, indignatione et stomacho exardens, constituit Alfonsum regem dolo aggredi ac ex-
trema omnia experiri. […] Legatis igitur in Galliam missis, per eos Caroli regis ani-
mum sollicitare, multa polliceri, ut regnum de Gallis ab Alfonso seniore (quemadmo-
dum ipse aiebat) occupatum repetat; illi omnia in promptu esse, opes, exercitum, tor-
menta et, quod praecipuum est, Alfonsum ipsum imparatum, sociis atque principibus
ob superbiam et avaritiam iuxta invisum, tantummodo incepto opus esse, caetera deos
stantes pro iustiore causa gesturos»: ORICELLARII De bello Italico, pp. 4-6.
Sull’episodio dell’incontro del Rucellai con il Pontano, di cui resta testimo-
nianza in una lettera del Fiorentino a Roberto Acciaiuoli, prezioso compendio dei
criteri comunemente accettati dagli umanisti sul modo di scrivere storia, si era sof-
fermato già F. GILBERT, Machiavelli and Guicciardini. Politics and History in Six-
teenth-Century Florence, Princeton 1965, trad. ital. Machiavelli e Guicciardini. Pen-
siero politico e storiografia a Firenze nel Cinquecento, Torino 1970, pp. 175 e ss.
29 Cfr. GIOVANNI PONTANO, Eridanus II 20, Ad Borgium: in IOANNIS IOVIANI

PONTANI Carmina, a cura di B. SOLDATI, I, Firenze 1902, pp. 385 e s.


30 Cfr. la De Hieronymi Borgiae vita excerpta ex Pauli Anisii scriptis premes-

sa ai Carmina lyrica et heroica del Borgia editi a cura di un omonimo pronipote a


Venezia nel 1666.
31 Cfr. a questo riguardo M. DE NICHILO, Un coetaneo dei Gaurico: Girolamo

Borgia, in I Gaurico e il rinascimento meridionale, (Atti del Convegno di studi,


Montecorvino Rovella, 10-12 aprile 1988), a cura di A. GRANESE-S. MARTELLI-E.
SPINELLI, Salerno 1992, pp. 373 e ss. Sul Borgia vd. anche L. SANTO, Schede bor-
giane. Materiale per un saggio su Gerolamo Borgia, Venezia 1983; M. DE NICHI-
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62 MAURO DE NICHILO

commentario del Rucellai, che a differenza delle coeve Storie fiorentine del
Guicciardini, tutte concentrate su Firenze e sull’Italia, aveva tuttavia il me-
rito di aver colto uno scenario europeo sullo sfondo dell’invasione france-
se, il Borgia, che inizia a scrivere nel secondo decennio del Cinquecento ma
elabora il testo definitivo dell’Historia, limitatamente ai libri I-X relativi a-
gli anni 1494-1525, sino all’estate del 152632, non ha dubbi sulle conse-
guenze prodotte dal conflitto divampato nel 1494: la fine della libertà ita-
liana da un lato, una generale conflagrazione europea dall’altro. Colpa del-
la natura umana o della fortuna, dopo una pace lunga e felice era esplosa
non solo in Italia ma in quasi tutto il mondo una guerra lunga e crudele. Per
il Corio e il Rucellai l’Italia era stata il bersaglio a cui avevano mirato le po-
tenze europee; per il Borgia – in anticipo sul Guicciardini e sul Giovio – le
guerre italiane erano invece in funzione della più generale lotta per la su-
premazia in atto fra le grandi monarchie europee, e l’Italia pertanto soltan-
to una pedina nel gioco della loro politica di egemonia. Per cui se prima si
era badato molto alle colpe personali e il disastro italiano era stato attribui-
to ai vizi e ai difetti dell’intero popolo o dei singoli governanti, ora, se era
vero che quanto accadeva nella penisola dipendeva dalle vicende di paesi su
cui i signori italiani non avevano alcun potere di intervento, si doveva piut-
tosto parlare di causalità politica. E allora la tragedia italiana, più che ope-
ra di principi deboli e inetti, era forse il risultato di una rivoluzione celeste,
nel corso della quale Giove aveva rovesciato l’aureo regno di Saturno. For-
ze incontrollabili dominavano ormai gli eventi della storia. Non siamo lon-
tani dall’idea del Vettori dell’onnipotenza della fortuna e da quella nuova
coscienza – nata dalla difficoltà di conciliare la concezione umanistica eti-
co-retorica della storia con una visione pragmatica della stessa – del com-
pito dello storico, che consisterà piuttosto d’ora in avanti nello studiare e
descrivere il potere della fortuna, di cui è un esempio sintomatico appunto
il Sommario della storia d’Italia dal 1511 al 1527 di Francesco Vettori, ma
anche le seconde Storie fiorentine ovvero Cose fiorentine del Guicciardini,

LO, Dal Pontano al Giovio: L’Historia di Girolamo Borgia, in La storiografia u-


manistica, (Convegno internazionale di studi, Messina, 22-25 ottobre 1987), a cu-
ra di A. DI STEFANO-G. FARAONE-P. MEGNA-A. TRAMONTANA, I. 2, Messina 1992,
pp. 699-729; ID., Un plagio annunciato: Girolamo Borgia e il «De bello Italico»
di Bernardo Rucellai cit.; ID., Girolamo Borgia, Guicciardini, Machiavelli-Nifo e
la caduta degli aragonesi, in Filologia umanistica. Per Gianvito Resta, a cura di V.
FERA-G. FERRAÙ, Padova 1997, I, pp. 527-564. Il passo dell’Historia borgiana so-
pra trascritto appartiene al libro I De bellis Italicis (cod. Marc. lat. X 98 [3506] =
M, f. 4r).
32 Quando li dedica con una lettera datata 1° agosto 1526 ai fratelli Fabrizio e

Camillo Gesualdo, conte e vescovo di Conza in Irpinia (M, f. 1rv).


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opere significativemente composte in quello tragico scorcio del terzo de-


cennio del Cinquecento che vide il definitivo affermarsi del dominio di Car-
lo V in Italia33.
Anche il Borgia da parte sua vi si conformava. Non poteva tacere sui
peccata dei principi italiani, la cui ignavia o ambizione aveva reso la terra
«omnium olim gentium dominam» soggetta ai ‘barbari’, ma al contempo
non poteva ignorare che in nessun altro tempo mai come nel suo, «innume-
ris cladibus memorabile», la fortuna aveva esercitato perniciosius le sue
‘variazioni’34. Ma questo insondabile mistero della fortuna gratificò e affinò
ancor di più il mestiere dello storico, che se non poté più dedurre leggi ge-
nerali dal libro della storia, dal momento che questa si svolgeva al di fuori
del suo controllo e si ripeteva inanemente, senza fornire strumenti di previ-
sione, poteva però offrire la spiegazione di come le cose si erano svolte, e
quanto meno consentire una loro comprensione postuma. Il Borgia, prima
di dar spazio alla fonte del Rucellai, di cui avvertiva la limitatezza dell’ot-
tica spazio-temporale, premette alcune pagine in cui, convinto che «ad e-
vertenda regna varias fortuna vias invenire solet», risale – al di là delle più
note causae urgentiores – alle cause remote della tempestas gallica, tra le
quali riconosce, almeno come suo determinante irritamentum, l’azione di
persuasione esercitata su Carlo VIII dai baroni napoletani esuli in Francia
scampati alla carneficina di Ferrante e di Alfonso35. Ma non sfuggiva nep-
pure al Borgia la considerazione della giovane potenza francese divenuta u-
na forte monarchia nazionale, che poteva ora anche permettersi di rivendi-
care l’eredità di Renato d’Angiò sul Regno di Napoli36. In tale ottica le vi-

33 Cfr. GILBERT, Machiavelli e Guicciardini cit, pp. 202 e ss. e il volume di M.


SANTORO, Fortuna, ragione e prudenza nella civiltà letteraria del Cinquecento, Na-
poli 19782.
34 Le citazione sono tratte dal Prologo al libro I (M, f. 2rv).
35 Cfr. DE NICHILO, Un plagio annunciato cit., pp. 354 e ss., e Girolamo Bor-

gia, Guicciardini cit., pp. 541 e s.


36 «Ceterum non erit ab instituto opere alienum quaedam quoque de Gallorum

regibus breviter memorare, quo probabilius externa nostris cohaereant. Fuit Carolus
[…] Hinc illum maioribus et copiis et opibus auctum maturius bellum italicum pa-
rasse ac Neapolim repetisse novimus, eo iure quod Renatus ab Alfonso pulsus sine
liberis moriens testamento reliquit haeredem Ludovicum, Caroli de quo nunc prae-
cipue agimus patrem. Hoc igitur iure innisus Carolus Neapolim et quae Renati fue-
rant in Italia sibi armis vindicare statuit. Et haec prima belli causa fuit. Ceterum non
tam Regni possessio quam ingens gloriae cupido, acerrimus magnorum principum
stimulus, ac tempestiva Ludovici Sfortiae adhortatio iuvenilem animum ad bellum
impulit. Rex, tametsi plerique principum togam armis praeferebant horrebantque I-
taliae nomen super Gallis exitiale, decrevit sibi tamen Italiam provinciam, nec prius
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64 MAURO DE NICHILO

cende napoletane perdevano il significato contingente di guerra dinastica e


di fazioni rivali – l’angioina e l’aragonese –, che avevano avuto dai tempi
di Giovanna II fino alla congiura dei baroni e al conflitto tra Ferrante e In-
nocenzo VIII, e acquistavano invece quello di fulcro d’una inedita compe-
tizione fra le grandi potenze europee. La profetica consapevolezza della
nuova situazione è dal Borgia affidata al personaggio di Ferrante d’Arago-
na che «pacatam iam Galliam et tantas Caroli res bene gestas motusque
cum audiisset […] fertur graviter ingemuisse et suis gravius timuisse vati-
cinatus ex Galliae pace maximum perniciosissimumque Italiae bellum iam
iam oriturum». Ma ben presto si sarebbe aggiunto un altro, per lui più gra-
ve, motivo di preoccupazione, l’elezione di Rodrigo Borgia, alla cui notizia
il vecchio re, presagendo di quanta rovina sarebbe stata foriera per l’Italia
e per il mondo intero, avrebbe esternato piangendo il suo cocente dolore al-
la moglie Giovanna:

Huc accesserat, quod audito Alexandri sexti vitioso pontificatu,


vir alioqui gravissimus et mortalium constantissimus, qui nun-
quam vel ipsis filiorum funeribus lacrimari visus sit, ante reginam
uxorem animo concidit atque moesto vultu lacrimisque obortis a-
liquantum statum Italiae futurum deploravit et horrendum, quod
passi sumus, excidium orbi terrarum ex malo pontificis ingenio
nasciturum nimis vere praedixit37.

La melodrammatica teatralità dell’aneddoto raccontato dal Borgia


piacque al Guicciardini – che lo aveva conosciuto a Napoli nei primi mesi
del 1536 e in quell’occasione aveva avuto modo di leggere e trascrivere al-
cuni brani delle sue Historiae –, tanto da ricordarsene al momento della ste-
sura della Storia d’Italia e riproporlo pressoché alla lettera nel cap. II del li-
bro I a commento della notizia dell’elezione simoniaca di Rodrigo Borgia,
motivo di spavento e di orrore per i «molti» che conoscevano «la natura e
le condizioni della persona eletta»:

e, tra gli altri, è manifesto che il re di Napoli, benché in pubblico


il dolore conceputo dissimulasse, significò alla reina sua moglie
con lacrime, dalle quali era solito astenersi eziandio nella morte
de’ figliuoli, essere creato uno pontefice che sarebbe perniciosis-

belli signum extulit quam res gallicas ex sententia composuit; cum Hispaniae et Bri-
tanniae regibus pacem foedusque iunxit, Rusinone etiam circa Pyrenaeum Hispanis
restituto» (M, f. 3rv).
37 M, f. 3v.
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simo a Italia e a tutta la repubblica cristiana: pronostico vera-


mente non indegno della prudenza di Ferdinando38.

In realtà Ferrante d’Aragona, che inutilmente aveva tentato di far usci-


re dal conclave un papa di suo gradimento39, se ufficialmente espresse sen-
si di ottimismo all’indomani dell’elezione, non aveva motivi di ben spera-
re, dal momento che Alessandro VI era nipote di quel Callisto III, che di-
menticando che la sua fortuna era iniziata grazie al favore del Magnani-
mo40, aveva impugnato la successione del secondo aragonese, emanando
nel luglio 1458 una bolla che rivendicava alla Chiesa, come suo feudo, il
Regno di Napoli e diffidava i sudditi dal prestargli giuramento di fedeltà.
Ma che l’elezione del Borgia non fosse gradita a Ferrante sappiamo da una
lettera dell’ambasciatore fiorentino a Roma Filippo Valori del 14 agosto
149241, e di fatto l’Aragonese si lagnerà ripetutamente sul conto del nuovo
papa. Una lunga requisitoria sulle sue malefatte è in una istruzione al suo
ambasciatore Antonio d’Alessandro del 7 giugno 1493, dove accusa il pon-
tefice di persistere nell’odio che suo zio e predecessore Callisto aveva nu-
trito contro di lui, imputandogli tra l’altro di aver fatto fallire, grazie alle ca-
lunnie diffuse sul suo conto, il progetto di un duplice matrimonio con i so-
vrani di Spagna, che prevedeva le nozze del principe di Castiglia don Juan

38 Ed. cit., pp. 11 e s.


39 Cfr. SIGISMONDO DEI CONTI DA FOLIGNO, Storie de’ suoi tempi: «Timebat e-
nim rex Alexandrum pontificem, ut nepotem imitatoremque Calisti III, qui cum a-
nimadvertisset quam graves quamque timendi romanis pontificibus reges neapolita-
ni esse solerent, defuncto Alphonso Ferdinandi patre, regnum illud Borgiae sororis
filio in feudum dare statuerat, effecissetque procul dubio, ni in ipso conatu exces-
sisset e vita. Itaque Ferdinandus post Innocentii obitum omnibus machinis est an-
nixus, ut Alexandrum spe pontificatus deiceret; totus namque incubuit in Iulianum
cardinalem Sancti Petri ad Vincula multorum cardinalium amicitiis et Sixti consa-
guinitate, benevolentia Innocentii et sua ingenti liberalitate subnixum, et ipsi A-
lexandro parum amicum, cum quo paucis ante diebus fuerat altercatus; atque etiam
praeter alios oratorem hunc ipsum Virginium Romam misit, qui suffragia Alexandro
subtraheret» (ed. cit., p. 56).
40 Cfr. GIOVANNI PONTANO, De bello Neapolitano I: «Interea Callistus Pontifex

Maximus, Alfonsi beneficiorum immemor, cuius auctoritate atque opibus antea Car-
dinalis, post Nicolao quinto mortuo Pontifex creatus fuerat, perversa consilia et per-
fidiae plena adversus Ferdinandum agitare coepit clamque cum primoribus civita-
tum ac regulis agere de rebellione, divulgatis etiam epistolis, quibus Ferdinandum
supposititium Alfonsi filium diceret, denique aqua et igni interdiceret, qui huius im-
perata facerent et in officio ac fide permanerent» (in L. MONTI SABIA, Pontano e la
storia. Dal De bello Neapolitano all’Actius, Roma 1995, p. 84).
41 Cfr. G.B. PICOTTI, La giovinezza di Leone X, Milano 1928, p. 460; DE FRE-

DE, L’impresa di Napoli cit., p. 37.


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66 MAURO DE NICHILO

e dell’infanta Isabella rispettivamente con Giovanna figlia del re e con Fer-


rante principe di Capua suo nipote. Denunciava inoltre che «el papa fa tale
vita che è da tutti abbominata, senza respecto de la Sedia dove sta, né cura
de altro che ad dericto et reverso fare grande li figlioli et questo è solo el
suo desiderio»42. E siamo al luogo comune43. Dell’immoralità del pontefi-
ce spagnolo è piena la letteratura del tempo. Il Borgia vi indugia indignato
e compiaciuto insieme, avendo scelto di narrare la tragedia che aveva tra-
volto la civiltà italiana, nella quale la potenza misteriosa della fortuna si e-
ra spesso manifestata anche attraverso i comportamenti aberranti, la psico-
logia abnorme dei protagonisti. La verità storica si mescola allora all’in-
venzione e indugia nel racconto di aneddoti, di prodigia o di episodi di cro-
naca nera, espedienti che garantiscono una maggiore vivacità diegetica ma
insieme all’autore di ritagliarsi pause di riflessione, di interrompere la ten-
sione del racconto storico con interventi metanarrativi cui affidare giudizi
specifici su fatti e personaggi, che finiscono in tal modo per assumere im-
mediatamente la veste di exempla. Con il vantaggio di sapere in anticipo co-
me andranno le cose il narratore costruisce percorsi che privilegiano taluni
personaggi piuttosto che altri, in modo da prefigurare ed anticipare il giu-
dizio morale o politico su di loro, da cui non sa esimersi. Le Historiae del
Borgia sono una ricca galleria di grandi personaggi, ciascuno accompagna-
to da giudizi che punteggiano via via il suo comportamento, più spesso me-
daglioni riassuntivi post mortem molto circostanziati e quasi sempre nega-
tivi. È il caso dei pontefici, descritti tutti, per quanto molto diversi l’uno dal-
l’altro, come dotati a loro modo di una notevole statura, che li avrebbe po-
tuti legittimare come principi temporali, ma non certo della Chiesa di Ro-
ma. Senza alcuna soggezione misura il valore di ognuno e s’impegna da
storico in un giudizio documentato e teso a ridurre al minimo l’arbitrarietà.
Lo sforzo è evidente perché l’indignazione morale a volte cede alla fazio-
sità. Il Borgia avverte molto bene, quanto gli altri interpreti più acuti della
crisi italiana, il problema di non riuscire a conciliare la responsabilità poli-
tico-morale, soggettiva, dei singoli principi, con la potenza travolgente del-
la fortuna o con la logica sovranazionale della politica europea. L’orrore

42 TRINCHERA, Codice aragonese cit., II 2, pp. 41-48.


43 «A li mille e 492, a li X de agusto se fece papa Alesandro Sesto, che fo in dì de
santo Laurienczo, in la cità de Roma, lo quale fo fatto per semonia, et fo spagniolo et fo
pessimo homo» (FERRAIOLO, Cronaca, ed. crit. a cura di R. COLUCCIA, Firenze 1987, p.
24). Per quanto lapidario, e subito stemperato nei passi successivi nell’ortodosso osse-
quio formale tributato alla persona del pontefice, il poco gratificante giudizio con cui il
Ferraiolo accompagnava la registrazione nella sua cronaca dell’elezione del nuovo papa
rifletteva, dal modesto osservatorio nei paraggi della corte da cui il cronista napoletano,
spettatore interessato e partigiano, guardava agli avvenimenti della città, lo sdegno e le
preoccupazioni che quell’avvenimento aveva provocato nei principi aragonesi.
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della corruzione e della immoralità, specie dei ‘grandi’ che hanno maggio-
ri responsabilità, è ancora uno dei valori forti di cui è intessuta la sua Hi-
storia, ma ad esso si accompagna la consapevolezza, se nulla può opporsi
al motore primo della storia, il ‘mutamento’, della ineluttabilità della trage-
dia. Nasce di qui la tensione narrativa dell’opera del Borgia, non mirata a
scopi immediatamente politici – dato che la politica non ha più senso e non
compete più allo storico e la storia stessa non può essere più magistra vitae
–, ma organizzata secondo criteri analitici tende a suscitare ‘riflessioni’.
Prende il sopravvento il linguaggio dei sentimenti e delle emozioni con l’al-
ternarsi e scontrarsi di due grandi campi semantici, quello positivo della
speranza, del desiderio, della volontà, o anche dell’ambizione e della cupi-
digia, pulsioni che muovono ogni più piccola azione e meglio identificano
la posizione esistenziale della maggior parte dei protagonisti della storia; e
quello negativo della paura, del terrore o dell’odio, della diffidenza, del ri-
sentimento che tendono ad opporsi all’azione o attraverso la simulazione a
mettere in moto azioni di segno contrario. Le pagine borgiane relative ai
Borgia sono da questo punto di vista assolutamente esemplari. Il groviglio
delle passioni e dei sentimenti che li muove, il cumulo delle emozioni che
domina il loro agire, l’inaudita efferatezza dei loro misfatti, non a caso de-
scritti con toni foschi da tragedia, e di per sé costituenti un esplicito mes-
saggio nel tentativo di trovare un senso e di dare un giudizio, dichiarato poi
apertamente nelle massime o nelle digressioni che punteggiano la narrazio-
ne, delineano la loro vicenda costantemente all’insegna dell’arbitrio, del-
l’eccesso e della straordinarietà. Ho affidato all’Appendice A la testimo-
nianza delle pagine dell’Historia borgiana relative ai Borgia, che toccano il
loro apice drammatico attorno alla morte di Alessandro VI. La notizia, men-
tre l’attenzione del lettore è tutta concentrata sul racconto dell’epica difesa
della rocca di Napoli ancora in mano francese, dopo che nel maggio del
1503 Consalvo ha già fatto il suo ingresso trionfale in Napoli, esplode im-
provvisa per comunicare con l’esempio della sua gratuita e beffarda casua-
lità l’inanità dell’umana condizione e l’imperscrutabilità del giudizio di
Dio: «Alexandri quidem mors eo fuit omnibus bonis gratior, quo iustiore
Dei iudicio missa palam apparuit»; «Alexander veneno prodigiose interiit,
qui fatale reipublicae christianae venenum extiterat»44. Eppure era «nel col-
mo più alto delle maggiori speranze (come sono vani e fallaci i pensieri de-
gli uomini)», commenterà il Guicciardini45, che forse aveva memorizzato il
«florebat tunc Alexander pontifex» con cui aveva esordito il Borgia46. Ma
mentre il Guicciardini faceva scaturire dal vivo della cronaca della repenti-

44 BORGIA, Historia IV (M, f. 66r).


45 Storia d’Italia VI 4 (ed. cit., p. 554).
46 Cfr. Appendice A 6.
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na e fortuita morte per veleno del pontefice l’exemplum di una verità asso-
lutà, la stessa che aveva affidato al Ricordo C 92, dove la giustizia di Dio è
definita abyssus multa sulla scorta del Salmo 35, 747, il Borgia ricorreva ad
una autorevole citazione letteraria, quella dell’Epigramma II 29 del Sanna-
zaro, l’Epitaphium Alexandri VI Pontificis Maximi, che a vent’anni di di-
stanza conservava ancora intatta tutta la sua viscerale carica di sdegno con-
tro l’immane bestia – campione di turpitudini e scelleratezze da far sfigura-
re nientemeno che Nerone, Caligola o Eliogabalo –, che per undici anni a-
veva regnato come pontefice nella città di Romolo48. E concludeva, quasi a
voler ristabilire il giusto grado di attenzione sulla vicenda, con il lepidum
dictum che il cardinale Ascanio Sforza aveva messo in circolazione al mo-
mento dell’elezione del papa spagnolo:

«Mendice homo, tecum meliore quidem sorte auctum est quam no-
biscum; tu enim evasisti, nos incidimus in Catalanorum manus»49.

La libellistica contro Alessandro VI, spesso anonima per motivi di cen-


sura (molta fortuna ebbe il distico «Sextus Tarquinius, Sextus Nero, Sextus
et ipse. / Semper sub Sextis perdita Roma fuit»)50, è vasta e annovera tra i
suoi autori anche il nostro Borgia, che confezionò sul modello del Sanna-
zaro alcuni epigrammi, ancora inediti nel cod. Barb. lat. 1903 dei suoi Epi-
grammata, emulo della lezione del suo maestro, il Pontano, che non si era
lasciato sfuggire occasione, in sintonia con quello che era il sentire comu-
ne della corte aragonese nei confronti dell’odiato papa spagnolo, per bolla-
re con parole di fuoco la sua immoralità senza freni. «Et regnat tamen pon-
tifex Romanus parentque etiam adulanter ei principes Christiani populus-
que universus», aveva scritto di lui nel De magnanimitate II 5, dipingendo-
lo, dopo averlo accusato di aver comprato col danaro la sua elezione («sed
pro Christe optime maxime, coemit nuper a paucis, imo a cunctis, Alexan-
der sextus pontificatum maximum trecentis millibus etiam amplius») come

47 FRANCESCO GUICCIARDINI, Ricordi, a cura di V. DE CAPRIO, Roma 1990, p. 82.


48 Presente nella stampa veneziana degli Opera omnia latine scripta curata da
Paolo Manuzio nel 1535, dopo il Concilio di Trento l’epigramma del Sannazaro sarà
tuttavia espunto dalle edizioni italiane insieme con tutti gli altri epigrammi antipa-
pali; ricomparirà soltanto nell’edizione di Amsterdam del 1728 (ACTII SINCERI SAN-
NAZARII … Opera latine scripta ex secundis curis JANI BROUKHOUSII …, Amstelae-
dami 1728, p. 239 e s.). Il Sannazaro si era particolarmente accanito contro Ales-
sandro VI e i suoi indirizzando loro un gran numero di epigrammi tra i più violenti
e blasfemi dell’intero corpus. Li ho raccolti, a testimonianza, nell’Appendice C.
49 Vd. Appendice A 6 e C (II 29).
50 Menzionato nell’ed. cit. degli Opera latine scripta del Sannazaro, p. 228.
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«homo impudicus omni parte corporis, sacerdos impurus et inquinatus, car-


dinalis sceleratissimus, pontifex agmine liberorum circumseptus»51. Con u-
na movenza stilistica simile («Quid igitur videre immanius coelum potuit?
Sed vidit tamen et videt quotidie immaniora») il Pontano commentava con
sdegno ed esecrazione, nella stesura d’impianto dell’autografo superstite
del De immanitate, il brano del cap. XVII (De immanitate quae versatur
circa veneream voluptatem) relativo ad alcune irriferibili perversioni ses-
suali di Alessandro VI, che poi cancellò con estrema cura (la Monti Sabia è
riuscita ciò nonostante a decifrarlo quasi per intero, per cui lo si può legge-
re nell’apparato critico all’edizione critica da lei curata), in virtù del quale
pentimento la battuta finale del commento finì per riferirsi alle nefandezze
sessuali di Sigismondo Pandolfo Malatesta52. La stessa sorte toccò poi al
brano del cap. IV (De immanitate quae existit ex occupata patriae liberta-
te), dove all’esplicita accusa di avvelenamento rivolta a Ludovico il Moro
ai danni del nipote Gian Galeazzo faceva seguito quella altrettanto esplici-
ta dell’assassinio del duca di Gandìa ad opera del Valentino53, accusa so-
pravvissuta in forma impersonale come incontrollabile diceria nel passo ci-
tato del De magnanimitate: «e quibus [liberis] sunt qui fratres impiissime
necaverint, interfectosque noctu clam in Tiberim proiecerint». Restava la
saffica Ad Fidem – l’unica forse di contenuto satirico di tutta la letteratura
in latino –, XIV della Lyra, in cui la semantica traslata del linguaggio poe-

51 IOANNIS IOVIANI PONTANI De magnanimitate, ed. crit. a cura di F. TATEO, Fi-

renze 1969, pp. 103 e s.


52 «Sigismundus Malatesta, qui non exiguae parti Aemiliae imperitavit, quae

nunc est Romaniola, filium suum Robertum cognoscere tentavit, verum ille in pa-
trem stricto pugione a scelere se vendicavit. Idem Sigismundus, incensus forma
Teutonicae cuiusdam matronae, Romam e terra Germania proficiscentis piaculo-
rum gratia, utque divorum templa Petri et Pauli visitaret, eam suos per fines iter
facientem aggressus, nulla cum ratione vivae afferre vim posset, iugulavit iugula-
tamque cognovit. Quid quod e filia eundem sua prolem suscepisse manifestissi-
mum quidem est? Quid igitur videre immanius coelum potuit? Sed vidit tamen et
videt quotidie immaniora [seguivano dieci righe su Alessandro VI], nec coelum ta-
men ruit, divinaque dormitat patientia verius quam prospicentia»: IOANNIS IOVIA-
NI PONTANI De immanitate liber, ed. L. MONTI SABIA, Napoli 1970, p. 33.
53«Ludovicus Galliarum rex Caroli octavi pater eius, qui regnum Neapolita-

num his ipsis vexavit annis, in fratrem etiam suum crassatus est, atque haud mul-
to post Ludovicus Maria in Galeacii fratris filium, quo ipse ducatu Mediolanen-
si liber ac solus poteretur. [Seguiva: Caesar Borgia, Alexandri VI pontificis maxi-
mi filius, fratrem suum noctu scortabundum confecit, eumque multis confossum
vulneribus abiecit in Tiberim, ut solus in aula regnaret pontificis]»: ed. cit., p. 14.
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70 MAURO DE NICHILO

tico sfumava in allusioni non sempre immediatamente decriptabili la fero-


cia dei riferimenti personali contro papa Borgia e i suoi figli, per quali è in-
vocata una fine apocalittica54. Mentre nel libro XIII del De rebus coelesti-
bus passava nella redazione a stampa – ma in questo caso potrebbe trattar-
si di uno dei soliti interventi arbitrari del Summonte – una versione che cen-
sura il nome di Alessandro VI, che si legge invece esplicitamente nell’auto-
grafo, in cui il Pontano tornava ad accusare il Borgia di aver ‘conosciuto’
sua figlia Lucrezia, versione in cui lo sdegno per tale nefandezza, per la
quale del resto si poteva invocare l’illustre precedente biblico di Lot, sem-
bra placarsi nella consapevolezza dell’esistenza di tanti altri pontefici e san-
ti sacerdoti di cui la Chiesa di Roma poteva nel passato, e avrebbe nel fu-
turo continuato a vantarsi:

Temporibus nostris Pontificem Maximum secutum fortasse Lothi


exemplum, de quo hebraicis in historiis fit mentio, filiam suam et
cognovisse et gravidam fecisse opinio est et aulae totius et urbis
Romae universae. De quo tamen parcius, propter sedis pontificiae
maiestatem, in qua tot sanctissimi sacerdotes tanta cum integrita-
te et pene dixerim divinitate et olim sedere et, ut mihi persuadeo,
etiam sedebunt55.

54 In L. MONTI SABIA, La Lyra di Giovanni Pontano edita secondo l’autografo


codice Reginense latino 1527, «Rendiconti dell’Accademia di Archeologia Lettere
e Belle Arti di Napoli», 47 (1972), pp. 61 e s.
55 Dalla princeps curata dal Summonte, Napoli 1512, f. 175v. Nell’autografo,

cod. Vat. lat. 2839, il brano è al f. 385v con qualche variante nel testo d’impianto;
per intero omesso nel cod. Barb. lat. 338 (f. 186v), apografo di mano ignota, è ri-
pristinato, nella lezione della stampa, di pugno del Summonte.
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PAPA BORGIA E GLI UMANISTI MERIDIONALI 71

APPENDICE A

DALL’HISTORIA DI GIROLAMO BORGIA56

Responsabilità di Alessandro VI nella discesa di Carlo VIII

Libro I (M, f. 4rv)

Principio omnibus constat Alexandri sexti pontificis, Ludovici Sfor-


tiae, quem Maurum ob colorem vafrumque ingenium appellabant, et Alfon-
si secundi Neapolitanorum regis regnandi libidinem immanissimam fontem
originemque omnium Italiae fuisse malorum. Hos enim primum, veluti tres
furias, semper nova belli crimina ferentes statumque Italiae evertentes, ad
extremum se ipsos et suos praecipitantes vidimus. Atque ut Alexandri faci-
nora, quae iustum per se volumen requirunt, primum attingamus, postquam
pontifex ille omni facinore insignis ob simultates avaritiamque cardinalium
auro ad supremum honorem evectus est – ac velut in auctionem proponere
summum sacerdotium haec aetas tulit –, non contentus suis alienas iam o-
pes invasit, neque has quibus modis assequeretur, dum sibi filiisque, quos
plurimos susceperat, pararet, quicquam pensi habebat, domestico dedecori
addens immoderatam imperii cupiditatem. Igitur per homines sibi fidos
Alfonsi animum, qui Ferrando nuper successerat, tentare et adniti, ut filiam
ex concubina, quam in deliciis habuisset, ortam Alfonso regis filio in ma-
trimonium daret, sperans, quod in animo altius haeserat, non modo opulen-
tam dotem liberis sedemque imperii, sed sibi aditum ad opes suas amplifi-
candas regnumque facturum. Quod ubi secus cessit, indignatione et stoma-
cho exardens, Alfonsum regem dolo aggredi constituit et extrema omnia ex-
periri. Id ea gratia pronius tutiusque agitabat, quod tanti vis pontificiae po-
testatis est, tot aucta artibus et munita religionis praesidiis, ut facillime et
bellum excitare et ab eo desistere incolumi statu rerum possit, unde non fa-
cile reperias, ex eo tempore quo ipsa abunde pollens potensque fuit, a qui-
bus magis quam a pontificibus belli incendia excitata sint. Legatis igitur in

56 Si trascrive dal cod. M cit.


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72 MAURO DE NICHILO

Galliam missis, per eos Caroli animum sollicitare, multa polliceri, ut re-
gnum ab Alfonso maiore occupatum repetat, illi omnia in promptu esse, o-
pes, exercitum, tormenta et, quod praecipuum esset, Alfonsum ipsum im-
paratum, sociis atque principibus ob superbiam et avaritiam iuxta invisum,
tantummodo incepto opus esse, cetera deos pro iustiore stantes causa ge-
sturos. At Carolus iam antea repetendi regni cupidus, ubi intelligit Alexan-
drum quoque ocii pacisque hostem sibi praesto affuturum, magis magisque
ad bellum accenditur. Putabat enim praeter pontificiam auctoritatem, qua A-
lexander plurimum valuit, facile se ex illius finibus in agrum campanum im-
petum facturum, inde Neapolim caput arcemque Regni petiturum. Ceterum
nobis satis compertum est Alexandrum, ut erat ingenio subdolo, his magis
fuisse usum pollicitationibus, quo Alfonsum metu Gallorum perterritum af-
finitate sibi adiungeret, quam odio permotum. Quam rem cum Alfonsus
praesensisset – praelongae enim regum aures ad exploranda sunt aliena
consilia –, non modo pontificem non audivit mollireque eius animum stu-
duit, verum, quod omnium malorum initium fuit, longe diversa animo vo-
lutans, moliri in dies ardua ac demum contra Maurum bellum coepit. Hinc
enim prima animorum irritatio est orta57.

Carlo VIII a Roma

Libro I (M, ff. 10v-11v)

Quae omnia ubi Ferrandus, qui ad Caesenam castra habebat, cognovit,


Florentinorum ope destitutus, utpote qui post Medices pulsos Carolum re-
cepissent, Romam cum omnibus copiis contendit, ut ibi communicato cum
Alexandro consilio ac viribus sese atque urbem tueretur. Callebat enim iam
tum iuvenis immo vir ad militaria facinora natus bellum fama constare Gal-
lumque, si minus ipse ab urbe Roma avertisset, nullo negocio Regnum in-
vasurum. Alfonsus autem, qui cum maiore exercitu in finibus Regni even-
tum rerum externarum excipiebat, confestim Virginium Ursinum Romam
misit, ut pariter rem romanam et regiam tueretur filioque studium et opem
ferret. Interea rex ad suburbana accesserat et urbem se velle omnino visere

57 Con alcuni adattamenti e minime varianti il passo corrisponde a RUCELLAI,

De bello Italico cit., pp. 5-7.


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PAPA BORGIA E GLI UMANISTI MERIDIONALI 73

praedicabat, et ut Romam pacate ingredi liceret per litteras et nuntios ab A-


lexandro petebat. Contra ille impense conatus regem proposito avertere,
modo inopiam commeatus excusabat, modo civium dissentione futurum as-
serebat ut tanti exercitus accessu continuo aliquis novus in urbe tumultus o-
riretur; conscientia enim scelerum trepidam Alexandri mentem vexabat, ne-
que satis praesidii in maiestate pontificia neque virium in Ferrando duce
praefectisque copiarum nutantibus ad tuendam urbem fore arbitrabatur. Ita
undique premente metu, dum haec ancipiti motu agitantur, signa gallica non
procul a Vaticano prospiciuntur et classica ad moenia circumsonare au-
diuntur. Tum pontifex fractus animo (nam omnia ad Gallos inclinare vide-
bat) Ferrandum, qui paulo ante ex Flaminia cum exercitu Romam venerat,
Virginiumque et Aragonios omnes ut Urbe mature excedant exortatur si-
mulque fortunae et Carolo cedant. Tum facta potestate Romam cum exerci-
tu adeundi, ea nocte quam ob Christi natalem celebramus, annum millesi-
mum quadragentesimum nonagesimum quintum auspicantem, Carolus
exercitum sub signis praemittens Urbem victor ingreditur consternata ad-
modum civitate, Alexandro sexto pontifice maximo, furia humani generis,
ignem accensum irritante, fovente, augente. Bellis enim, quae per tot annos
consecuta sunt, non alius maiorem flagrantioremque quam Alexander su-
biecit facem, homo ingeniosissime nequam et audax malo publico. Nam
praeter innumerabilia suum in gregem commissa scelera ausus est etiam,
nuntio ad Baizetem Turcarum regem misso, eum de successibus Caroli
transmarinam expeditionem parantis facere certiorem et ad acriter resisten-
dum cohortatus simul se nunquam ei defuturum polliceri. Quin etiam sce-
leri scelus nefarium addidit, quo ipse gravi diuturnaque infamia flagravit.
Aderat tum Romae Zizymus othomanus Maometi filius, qui Constantino-
poli de Graecis capta magnum in Europa imperium sibi comparavit. Is cum
Baizete fratre orta de regno contentione magnoque propterea exercitu u-
trinque comparato, victus ex proelio Rhodum profugerat, unde a praefecto
insulae in Galliam, exinde Romam missus in liberis custodiis habebatur.
Hunc Carolus, qui terras ac maria animo conceperat, quod erat Zizymus
manu promptus, munificentia animi carus acceptusque popularibus, perido-
neum nactus quem fratri opponeret, ab Alexandro extorserat, ut suo ductu
auspicioque contra Turcas militaret, existimans permultum conducere chri-
stiano nomini simul et gloriae suae, si ille, quem noverat et benevolentia et
aura populari in Asia et Graecia plurimum posse cuncti<s>que a populis de-
siderari, popularium factione ac viribus Gallorum fultus cum fratre confli-
geret, perfacile factu esse ut, intestino odio inter se certantibus, integrum re-
gnum in partes distractum laberetur, nihil tam firmum tamque vetustate ro-
boratum, quin labefactari frangique discordia possit. Verum Alexander,
quem primum decuit communis hostis exitum procurare, consilio tam salu-
tari adversatus est, lento veneno opportunissimum novandis rebus hominem
aggressus, sive pecunia a Turcis accepta corruptus sive fraudatus multo au-
ro, quod Baizetes fortunis suis atque otio consulens illi quotannis pendere
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74 MAURO DE NICHILO

solitus fuerat. Hinc paucis diebus post vi morbi sensim irrepente Zizymus
Neapoli moritur58.

Alessandro VI, Cesare Borgia e la rovina d’Italia

Libro III (M, ff. 37r-39r)

Defuncto sine liberis Carolo, Ludovicus Aureliorum dux legitima serie


in regno successit. Hic in primis Annam reginam ducis Britanniae Citerio-
ris filiam, de qua permulta suo loco narravimus, sibi connubio iungi cura-
vit, quo iustius regno eius paterno potiretur; sed cum religione impediretur,
cum Alexandro pontifice per internuntios egit ut illam, quae, ut vulgo dici-
tur, commater erat, per pontificiam potestatem sibi coniungi liceret; ipse au-
tem rex Caesari Borgiae Alexandri filio aliquam ex prosapia regia uxorem
daret. Itaque rex puellam regiam et urbem Valentinam cum ducatus titulo
Caesari large concessit. Iis pactionibus clam firmatis, protinus pudore posi-
to Caesar, qui maximus ac lucupletissimus erat supremi ordinis antistes, di-
gnitatem purpuream deposuit in Galliamque ad nuptias celebrandas prope-
ravit, quo firmius quae animo diu conceperant vasto ipse ac pater, scilicet
ut praesidio armisque Gallorum Italiam invaderent, moliretur et perficeret,
quippe qui statuisset a Pado ad Lyrim usque sibi novum condere imperium.
Quis autem commemorare potest quot quantosque pontifices aetatis nostrae
divinis humana miscentes, suos ut filios, nepotes cognatosque implerent hu-
moque tollerent, unde potissimum Italiae extremae sunt ortae calamitates,
quis – inquam – commemorare potest malitiosas conventiones, impura con-
nubia, urbium eversiones, dominorum ex propriis sedibus exilia, usque a-
deo ut turpius quam publicani, quam mercatores omnia habuerint venalia?
Non enim pontifices hi, qui per hosce annos fremuerunt, sed ecclesiarum
mercatores, sed funera labesque ruentis Italiae fuere, rerumque divinarum vo-
ragines sacrarumque dignitatum venditores, quorum mentes caelestium ina-
nes, angustae, humiles, parvae, oppletae tenebris ac sordibus nomen ipsum
pontificatus, splendorem illius honoris, magnitudinem tanti imperii nec in-
tueri nec sustinere nec capere potuerunt. Enim vero sacrae iubent leges ne-

58 Tutto l’episodio di Gem (o Zizim) è ripreso da RUCELLAI, De bello Italico,

pp. 63 e s.
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minem incesta libidine conceptum spuriumve sacras ad dignitates adsciri e-


vehique debere. Hinc bonus pontifex, ut suum Caesarem purpureo donaret
galero, productis testibus, ipsum legitimo natum esse matrimonio probari
primum curavit, deinde maiore impulsus libidine maius est adortus facinus,
scilicet quantum terrae Italiae posset suo nato subigere; itaque recantata fi-
lii genitura facinus primum retexuit, productis iterum obsequiosis testibus
seu potius assentatoribus, indignum roseo pileo nothum esse pius pastor iu-
dicavit; mox sacris exutum insignibus ad profana vastis conatibus extollere
aggressus est ac pro pileo galea, pro purpura fulgentibus armis terribilem in
castra misit. Denique pater filiusque duae faces christiane reipublicae exi-
tiales merito appellari possunt, qui dum tyrannico more privatis serviunt u-
tilitatibus, omnem rempublicam everterunt. […] Interea Alexandro pontifi-
ce Italiae incendium nutriente, cunctis avaritia dominante et Tisiphone bel-
li crimina passim disseminante, principes furiis correpti, qui ignem barba-
rico furore accensum restinguere debebant, hi accensum certatim irritare at-
que alere contendebant, ac veluti servi opulentam domum domino orbatam
atrociter spoliare ac diripere solent, sic principes itali sua ipsi stulta invidia
incitati, communem patriam crudeliter perdiderunt. In primis Ursini et Co-
lumnenses mutuis se cladibus hostiliter conficere, Florentini cum Pisanis
continenter crudelissimis concurrere proeliis; par etiam tempestas et sum-
mos et infimos obruit viros. Paulus enim Vitellius florentini exercitus dux
proditionis insimulatus, quod cum in ipsa expugnatione moenia iam ingres-
sus Pisas capere potuisset noluerit, Florentiam accersitus subito patrum fu-
rore securi percutitur; et haec illi clades ex Ludovici Mauri pisanam domi-
nationem nimis perdite affectantis et cum Vitellio, ut deprehensum est, id
molientis oborta est machinationibus. Alexander pontifex, mortuo Virginio,
collabentem iam Ursinorum domum funditus evertere machinatur, quo mi-
nus negotii ad evertendam Columnensem – id quod postea effecit – ipsi re-
staret ac demum omnia ipse cum filiis solus teneret, atque in primis Brac-
chianum in Tuscia ad vigesimus ab Urbe lapidem oppidum magni momen-
ti expugnare conatur. Verum heroica virtus Bartholomaei Liviani, qui ad
Bracchianum Ursinorum reliquias coegerat, Alexandri conatus irritos red-
didit. Livianus enim intra Bracchianum obsessus, dum Ursinam domum in-
victo animo sustinet, tot praeclara manu exigua edidit facinora, tot incom-
modis noctes atque dies ab oppido erumpens pontificium exercitum affecit,
ut tandem, fusis Candiae ducis eius filii copiis, ingenti potius praeda fuerit
summa cum gloria liberatus. Nec vero illud facetum Liviani dictum silebo.
Cum obsidionis initio Candiensis dux per praeconem, permittente Liviano,
munitiones ingressum edici imperasset, ut quicunque Livianum vivum du-
ci tradidisset xxx aureorum millia, qui vero mortuum x millia, praemium fi-
de publica certissimum, acciperet, Livianus edicto iam pervulgato haec
praeconi respondit: «Bono esto animo, ducis magnanimi caduceator; scio
tuum nomen esse hostibus sanctum et munus innocens; aequum est aliqua
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76 MAURO DE NICHILO

tuo referri duci. Dicito meorum me laborum nunc maximum cepisse fruc-
tum meque vehementer gaudere tanti et a pontifice et a filio fieri meam vi-
tam, ut meam mortem magno emere videantur xxx millibus aureorum in-
terfectori destinatis; verum, bone tubicen, haec vicissim tuo referas impe-
ratori velim: securus mei dormiat, neminem metuat, nullos percussores; e-
go enim ne xxx quidem obolos in eius vitam extinguendam erogarem».
Hinc Liviani nomen mirum in modum clarescere coepit ac plurimi fieri.

Il Valentino conquista la Romagna. Crimini e misfatti dei Borgia

Libro III (M, ff. 40v-43r)

Dum seditiones populorum acerbas componeret, tempestatem Regni


malorumque temporum reliquias sedaret, Caesar Valentinus dux, quae ani-
mo vasto conceperat, palam acri studio parere molitur saevioremque tem-
pestatem in Hetruria, Piceno, Umbria et Flaminia suscitat; uno namque bel-
li impetu Perusiam, Tuder, Camerinum, Fanum, Pisaurum, Forolivium, A-
riminum, Caesenam, Faventiam, Urbinum, Anconam, Senogalliam, Senas,
Clusium ceteraque his connexa oppida, pulsis ex his urbibus veris dominis
ac dynastis, occupat. Quo bello seu potius latrocinio immani, dii boni, quot
quantasque nobilium virorum caedes quantamque populorum stragem, quot
urbium direptiones commisit, quot principes, viros veneno, quot ferro per
iussos satellites sustulit. Illud unum omittere nolim scelus in primis dete-
stabile. Cum Faventinum principem formosisssimum adolescentem sub fi-
de cepisset, eum in castris aliquot dies in deliciis habuisse ac suis commili-
tonibus nefariis fruendum praebuisse, deinde Romam ad pontificem patrem
tamquam nobile ex manubiis munus misisse; tum pontificem sceleri scelus
addentem noctu in Tiberim una cum infelici nutricio fune eodem connexum
immergi iussisse, non aliam ob causam nisi ut spem ac desiderium populo-
rum, a quibus summe diligebatur, funditus extingueret. Scelus profecto i-
nauditum, immane, barbarum et nostro caelo inusitatum! Credetne unquam
posteritas haec a pontifice commissa, haec in pontificis mentem cadere po-
tuisse? Plura quidem pudoris causa praetereo; nisi enim christianae me pie-
tatis reverentia cohiberet, ea qua peccavit licentia, pontificis scelera insignia
conscriberem. Verum quamquam sunt ea omnibus, qui usquam sunt viven-
tibus, notissima, tamen non videtur esse nefas ea etiam posteritati noscen-
da tradere, ut posteri, tanto moniti exemplo, a nefariis voluptatibus simul et
taetris flagitiis abstineant, legentes illum, qui humani generis venenum fue-
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PAPA BORGIA E GLI UMANISTI MERIDIONALI 77

rit, veneno prodigiose periisse et, qui tantum in filiis propagandis atque ex-
tollendis elaboraverit, eius omnem prolem uno fortunae haustu absorptam
funditus occidisse, usque adeo ut ex tanta sobole et familia, ex tot thalamis
et spe tanta nepotum, nullus hodie sit superstes, praeter Goffredum Scylla-
ceum principem, quem rerum humanarum pertesum paternisque moribus e-
rubescentem anachoretam factum ultimo in Brutiorum angulo adhuc vivere
aiunt omnino aspectus hominum et oculos aversatum. Agite, in tantis lucti-
bus paulisper rideamus amaris dulcia commiscentes. Ceperat Valentinus
dux Catarinae Sfortiadis, Foroliviensium dominae ferocis ac facinorosae fe-
minae, filium captumque ad arcem, quam mater praesidio tenebat, propius
admoverat dominae minitans, nisi arcem subito dedat, fore ut in oculis ma-
tris filius obtruncaretur. Tum virago, ut erat animo elatissimo, ab arcis spe-
cula ridiculum dedit responsum; simul contractis ad umbilicum vestis, ge-
nitalia aperiens: «En – inquit –, Valentine, materia, en forma gignendorum
liberorum; si meum istum necaveris nunc filium, tot me a viris comprimi
curabo, ut facile stirpem virilem reparavero, tuas iniurias ulturam». Com-
plura imperiosae feminae viriliter facta et libere dicta narrantur, praesertim
in fratrum opprobria. Cum Ludovicus Maurus et Ascanius fratres nimis
prostitutae pudicitiae illam coarguissent, argute dedecus obiectum veluti pi-
lam retorsit: se, quod esset mulieris proprium, naturae imperio decenter
suum obire munus, ipsos vero adversos et aversos nimis impudenter mulie-
bria pati, immodicis abutentes fortunis; nefandae turpitudinis complures es-
se testes, alumnos et exoletos divitiis et honoribus indigne donatos, quos ae-
tatis flos non virtus ulla conciliasset. Ceterum Alexander, utpote hispanus,
genus hominum in primis mulierosum mulieribusque addictum, licet mul-
tas aleret concubinas, ex romana praecipue quattuor sustulit liberos, quo-
rum Candiensem ducem mirifice pater amabat. At Caesar invidia fervens
nec suis quidem parcens, fratrem noctu per urbem iuveniliter vagantem ex-
cipit, interficit atque in Tiberim proicit; eodem autem momento proba mu-
lier apud Lucretiam sororem domi assidens, subito correpta furore Sibyllae
more divinitus afflatae exclamavit: «Heu, domina, heu daemonas video fa-
cibus armatos tartareis tuumque fratrem cruentum ad Orcum certatim
trahentes!». Quo monstro attonita, Lucretia illico patrem adiit certioremque
novi prodigii fecit; tum pontifex totam cum noctem frustra filium quaesis-
set, postridie missis per amnem piscatoribus tandem multis confossum vul-
neribus comperit. Audi, lector, reliquos tragoediae actus ac detestare. Fi-
liam Lucretiam specie insignem Alfonso, Alfonsi regis iunioris filio, om-
nium pulcherrimo adolescenti, in matrimonium dederat, Goffredum vero fi-
lium natu minimum filiae Alfonsi venustissimae similiter duplici connubio
iunxerat. Dum novi Caligulae omnia tragica licentia inter se impune misce-
rent mutuisque fruerentur libidinibus, dum Caesar modo fratris uxorem,
modo germanam amplecteretur, pater autem modo natam modo nurum in-
terdumque inter utramque recubans lusitaret, ex nefandis exsecrandisque
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78 MAURO DE NICHILO

voluptatibus exortus est exitialis furor ac letalis invidia. Prosequebatur enim


Alexander miro amore Alfonsum generum, qui ob aetatis florem eximiam-
que pulchritudinem ac regium nomen cunctis venerabile omnium Romano-
rum in se oculos convertebat. Hic accensus furiis Caesar et consortis impa-
tiens egressum palatio propter divi Pauli statuam Alfonsum aggreditur mul-
tisque confectum vulneribus exanimem ac moribundum reliquit. Cuius sa-
luti cum Alexander diligenti studio consuluisset et nobilium medicorum
scientia, quos Federicus rex patruus celerrime Neapoli miserat, a mortis
faucibus ad vitam revocasset, iam convalescentem, iam incolumem in lecto
clam Nero alter iterum necavit. Item Perottetum formosum iuvenem a cu-
biculo pontifici carum, sibi rivalem et a pelice adamatum, in ipsius pontifi-
cis sinu permultis astantibus ordinis senatorii viris purpuratis iugulavit, a-
deo ut innocentis sanguine patrium foedarit vultum. Acer etiam Catilinae i-
mitator, sui profusus, alieni appetens, cardinalem Venetum pecuniosum ad-
ortus, cum nullis nec precibus nec minis pecuniam ab auro sane extorquere
potuisset, innumeris verberibus pugnisque contusum reliquit; ille autem
mox ubi ad patrem confugit gemens imploransque auxilium, hanc accepit
ab optimo pastore opem graviora timente ac dictitante: «Surrige, miser, ca-
ve, moneo ne te meque ipsum simul malus coluber mortifero dente com-
mordeat». Iam enim pridem pater coeperat filium graviter timere, Deo in-
sanam libidinem pontificis et amorem filiorum immoderatum ulciscente. Il-
lud quoque domo ex tragica est memoratu dignum: Ioannes Cervilion hi-
spanus equestris ordinis nobilissimus a pontifice custos nurui datus, dum
vitae honestioris alumnam impudicam moneret, monitori asperam, per eius
satellitem noctu fuit uno ictu obtruncatus, ut vix caput a cervice recisum
fuerit procul repertum. Quis tandem tanta excellit scribendi facultate ut
huiusce domus nefariae caedes, stupra, incesta, latrocinia rapinasque innu-
merabiles memorare plene possit? Primus hic pontificum, pudore pulso, pa-
lam coepit sacra omnia exponere venalia; hinc illud distichon in eum pau-
cis multa comprehendit:

Vendit Alexander claves, altaria, Christum.


Vendere iure potest; emerat ille prius59.
Quid de latrociniis intra et extra urbem impune commissis dicam? Nul-

59 Si tratta del primo distico dell’epigramma In Pontifices del Borgia, per cui
vd. Appendice B 3. Ma il distico con l’inversione dei due emistichi del pentametro
è presente anche nel cod. Vat. lat. 9948, f. 133v preceduto dalle iniziali «An. Fl.»
(sciolte nel catalogo dei Codices Vaticani Latini 9852-10300, a cura di M. VATTAS-
SO-E. CARUSI, Roma 1914, in An<tonius> Fl<aminius>), cui un’altra mano fece se-
guire «potius Sannazarii», e come tale pubblicato da A. ALTAMURA, La tradizione
manoscritta dei «Carmina» del Sannazaro, Napoli 1957, p. 87.
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PAPA BORGIA E GLI UMANISTI MERIDIONALI 79

lum non infame nemus circa Romam tunc erat, praesertim Algidum, Veli-
ternum, Bacchanum, tunc vere iterum Romae asylum Hispanis, Corsis ce-
terisque aliis latronibus diu apertum patuit. Id quod Sincerus aetatis nostrae
poeta nobilissimus eleganter ut omnia expressit:
Pollicitus cursum romanus ad astra sacerdos,
per scelera et caedes ad Styg[i]a pandit iter60.
Enim vero, bellua illa multiplici orbem lacerante, omnes pii, omnes bo-
ni de Deo impie sentire coeperant, aut Deum nihil humana curare aut nimis
sero ultricem iram differre obloquentes. Eum tandem excandescentem in
pontificis scelera sensimus, haudquaquam ob merita poenas dignas immit-
tentem. Dum enim voluptatum pater aestate media, ipso divi Petri festo,
caelo sereno, post prandium inter nurum filiamque nudus lecto in geniali a-
moribus frueretur, Iuppiter subita caelum caligine contristavit terribilique
tempestate effusa ipsum pontificem lusitantem caput et manum fulmine tac-
tum paene exanimavit. Qua ruina Caesar filius etiam obrutus ac saucius vix
evasit. Apud domum quoque Valentini ducis dulci fortuna ebrii monstrum
tale in Flaminia est ortum et Romam deportatum et in deliciis a quodam
eius familiari habitum. Canis erat niger, cutem Aethiopis mollem habens,
manibus pedibusque humanis, facie quoque humana simiae simillima, ocu-
lis vegetis et ardentibus, voce puerili et querula; compertum est ex catella et
Aethiopis coitu fuisse genitum et ambo ipsius erant Valentini. Quod quidem
monstrum caninam ipsius domini vitam referre videbatur, carnibus autem
paneque et ovis vescebatur, nec unquam humi fusus sed alte in extructa
mensa aliter inedia confici maluisset. Vixit tamen annum.

5
Altre imprese e misfatti del Valentino

Libro IV (M, ff. 59v-61r)

Iam dux Valentinus, regnandi cupiditate ardens, in dies augere imperium


conabatur et in Ioannem Bentivolum Bononiae tyrannum movere61 bellum pa-
rabat, ut Bononiam sui imperii caput constitueret. Id postquam Ursini princi-
pes praesensere, horrentes tyranni nimium invalescentis immodicam domina-
tionem una decreverunt sibi melius consulere continuoque Bentivolis suis ne-

60 SANNAZARO, Epigrammata I 62. Il primo verso propone la lezione cursum …


ad astra (per coelum … et astra) che non ha riscontro nella tradizione a me nota del-
l’epigramma del Sannazaro. Vd. Appendice C (I 62).
61 Variante marginale di inferre.
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80 MAURO DE NICHILO

cessariis opem ferre; praeterea depressis funditus Columnensium fortunis ac


plurimorum principatibus eversis, veriti eandem sibi imminere calamitatem, a
Valentino duce et Alexandro pontifice defecere suisque opibus freti nomen
Ursinum sustinere magnifice connitebantur. Habebant enim sub signis supra
mille et quingentos gravis armaturae equites ac legionem Vitelliorum Tiferna-
tium exercitatissimam, oppida quam plurima satis munita et animos sociorum,
qui Guelfi barbaro nomine nuncupantur, ad omne facinus paratissimos. Erat
tunc Caesar Valentinus dux in Aemilia curarum plenus atque ob tantam foe-
deratorum ducum defectionem suis admodum rebus diffidens. Nam non pro-
cul inde illi armati stabant et cuncta Italia Ursinorum virtuti favere coeperat,
sperans fore ut filii et patris superbia non ferenda tandem frangeretur, et pro-
fecto nulli dubium fuit, si Ursini et foederati duces mature ad vim apertam
consurrexissent, facile Valentinum opprimi potuisse auxiliis destitutum
bonisque omnibus invisum. Ceterum sive ambitione quorundam, sive gentis
ruiturae fato, cui humana consilia frustra opponuntur, nulla vis est ab his
tunc, cum sine dubio valitura fuit, intentata, at circa Perusiam unum in lo-
cum congressi, dum de summa rei consultant, spatium hosti dederunt Gallo-
rum ad se auxilia ex proximo accersendi; sed eo magis Ursinorum secordia
est accusanda, quod cum a Ludovico Gallorum rege moniti essent, ut ab im-
pendentibus Valentini insidiis caverent, non dubitarunt cum hoste infido ite-
rum conciliare pacem, a quo semel defecissent. Verum eorum peccata ut a-
liorum Italiae principum erant aliquando vindicem subitura; iamque Seno-
galliam, fato urgente, caeci et amentes ad tyrannum ibant. Cum Fabius Ur-
sinus Pauli filius adolescens viris prudentior patrem et socios revocare <ni-
teretur> magnisque praecibus obtestari ne se et suos perditum irent, nihilo-
minus illi obviam tyranno processerunt, suntque ad primum congressum be-
nigne appellati in mediumque agmen recepti Senogalliam cum Valentino in-
grediuntur. Erat in urbe privata quaedam domus in adventum ducis parata; hic
Valentinus velut secretum quaerens in aversam aedium partem solus secessit,
ducibus, qui officii causa circumstabant in media suorum corona, relictis. Tum
Michelettus, carnifex potiusquam praefectus, atque alii, quibus datum62 erat
negotium, repente in hos manus iniciunt; nihil repugnantes – nam quid pauci
et inermes in conferto armatorum agmine impune conari poterant? –, tantum
ducis fidem implorant. Vitellotius ac Oliverottus Firmanus viri acerrimi cervi-
ce laqueo elisa confestim strangulantur; Paulus Ursinus – fuit hic Latini car-
dinalis filius – et Franciscus Gravinensium dux vir miti ingenio in paucos dies
adservantur, deinde in perusino agro sunt eodem, quo priores illi, supplicio u-
trique affecti. Captis Senogalliae ducibus, qui eos secuti fuerant, dispositis cir-
ca portas custodiis, illico sunt oppressi; inde barbari passim dimissi, qui co-
niuratorum ducum copias in Piceno hibernantes ex improviso adorirentur ar-

62 Variante marginale di iniunctum.


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PAPA BORGIA E GLI UMANISTI MERIDIONALI 81

misque et equis spoliarent. Oppressus est in hibernis ingens equitum numerus,


multi caesi et graviter vulnerati, pauci medio tumultu elapsi, et in his Fabius
romana indole insignis, qui cum paucis equitibus per avia loca aegre servatus
est; si qui barbarorum manus evaserant, ipsis locorum accolis praedae fuere:
scelus id quidem omnium immanissimum, ut uno saeviente tyranno innume-
rabiles oriantur. Quid feri hostes plus nocuissent? Nam qui eos63 debebant do-
mi fovere ac fortiter tueri, nomen italum respicientes cum barbaris crudelita-
te certarunt. Huic simile est illud facinus, ut miseris mortalibus saepe naufra-
gis a pelagi saevitia elapsis litorales accolae immanius saeviant, alienis nau-
fragiis viventes. Eodem die, quo haec in Piceno gesta sunt, Romae ex com-
posito plerique Ursinae factionis viri illustres, et in his Baptista Ursinus anti-
stes, a pontifice capti in Hadriani molem intruduntur; mox eorum domus ac
bona cuncta publicata, oppida quoque pene omnia, et in his quaedam muni-
tissima, pontificiis cessere armis. Nec multo post pontificis iussu Baptista car-
dinalis furtim necatus sua dignum vita exitium invenit, qui usque adeo solis ab
ortu ad occasum, interdum ad intempestam usque noctem, erat aleae plebeis-
que voluptatibus deditus, ut, ne rationem aleae omitteret, rerum ceterarum o-
blitus, rem Ursinam potissimum perdiderit. Nam duces rem foris strenue a-
gentes, domi prudentius, ut aequum erat, a cardinale omnia curari arbitraban-
tur; qua freti spe audentius Valentinum adiere et in Ursinorum exitio romana
militia a Vitelliis instaurari coepta non mediocrem fecit ruinam. Quattuor fue-
re fratres Tifernatium principes: Paulus, ut suo loco monstratum est, a Floren-
tinis fuit capitali supplicio affectus, qui Bartolomeo Liviano docente ex Vege-
tii doctrina militiam renovaret abolitam; Camillus in oppugnatione Circelli
oppidi in Samnitibus ictu saxi in vertice accepto periit; in interitu Vitellotii, qui
Caio Mario similis surgebat, quantum praesidii Italia amiserit, non facile dixe-
rim. Superest nunc antistes consilio bonus ac dextera strenuus, cuius opera Iu-
lius et alii pontifices saepe in magnis rebus usi sunt; Vitellus etiam Camilli fi-
lius, operosa indole iuvenis prudentiaque ac fortitudine singulari, maiorum
suorum ruinam egregie reparare in dies adnititur.

6
Morte di Alessandro VI

Libro IV (M, ff. 65v-66v)

Florebat tunc Alexander pontifex hominum exitio natus, ac duorum re-


gum discordia tacitus fruebatur, sperans ita utrunque crebris affligi posse cla-
dibus, ut necessario alter eorum pontificiis egeret opibus, et ita filium suum
Valentinum ducem altius evehi oportere. Ecce talia meditantem pontificem et

63 M ha quos.
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82 MAURO DE NICHILO

dira consilia volventem mors inopina idibus Augusti64 rapuit. Alexandri qui-
dem mors eo fuit omnibus bonis gratior, quo iustiore Dei iudicio missa palam
apparuit. Quippe cum in hortis amoenissimis apud Hadrianum cardinalem in-
ter suum Valentinum et aliquot optimates, quos veneno tollendos destinave-
rat, laute cenaret, Tisiphone ultrice dispensante feliciter pincerna erravit:
quod enim vinum letiferum conviviis miseris erat clam comparatum, ipsi e-
tiam pontifici et filio potandum dedit. Nec prius errorem pincernae animad-
vertit pontifex, quam sua torqueri viscera sensit; protinus exitiali errore co-
gnito mensam reliquit simulque filium admonuit, ut tuendae salutis curam su-
sciperet, quam praesentissimo expositam veneno consciret. Nec ita multo
post Alexander veneno prodigiose interiit, qui fatale reipublicae christianae
venenum extiterat. Res ipsa monet, ut epitaphium ab nostro Sincero in illum
conditum propter ipsius elegantiam huic loco adscribamus, idest huismodi:

Fortasse nescis cuius hic tumulus siet.


Adsta, viator, ni piget.
Titulum, quem Alexandri vides, haud illius
Magni est, sed huius qui modo
Libidinosa sanguinis captus siti, 5
Tot civitates inclytas,
Tot regna vertit, tot duces leto dedit,
Natos ut impleret suos.
Orbem rapinis, ferro et igne funditus
Vastavit, hausit, eruit. 10
Humana iura nec minus coelestia
Ipsosque sustulit deos,
Ut scilicet liceret (heu scelus!) patri
Natae sinum commingere,
Nec execrandis abstinere nuptiis, 15
Timore sublato semel.
Et tamen in urbe Romuli hic vel undecim
Praesedit annis Pontifex.
I, nunc, Nerones vel Caligulas nomina
turpes vel Heliogabalos! 20
Haec sat, viator; reliqua non sinit pudor.
Tu suspicare et ambula65.
Nec minus est memoratu dignum Ascanii cardinalis, viri ingeniosi, le-

64 Svista del Borgia; in realtà Alessandro VI morì il 18 di agosto.


65 SANNAZARO, Epigrammata II 29. Era stato da me già riprodotto in Il proble-
ma della data di morte di Giovanni Pontano, in M. DE NICHILO, I Viri illustres del
cod. Vat. lat. 3920, Roma 1997, (RRinedita, 13), pp. 165 e s. Il testo trascritto dal
Borgia registra alcune varianti rispetto al testo canonico dell’epigramma sannaza-
riano (v. 14 commingere]permingere; v. 21 haec]hoc). V. Appendice C (II 29).
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PAPA BORGIA E GLI UMANISTI MERIDIONALI 83

pidum in eius creatione dictum. Qui a paupere catenis onerato stipem sic
posceretur: «Da, domine amplissime, aliquid quo miserias levem mihi ex
manibus catalanorum praedonum elapso», apposite respondit: «Mendice
homo, tecum meliore quidem sorte auctum est quam nobiscum; tu enim e-
vasisti, nos incidimus in Catalanorum manus».

Misera fine del Valentino

Libro IV (M, ff. 67r-70v)

Ceterum, quoniam fortuna, ubi reflare coeperit, truculentiorem immit-


tit tempestatem, taetrior in illum [scil. Valentinum] procella a Venetia into-
nuit. Nam Bartolomeus Livianus tunc venetum stipendium merebat; hic, ut
erat impiger et novarum rerum avidus, audito Alexandri obitu, confestim ad
patres adiit dimissionem impetraturus […] ipse cum paucis equitibus cum-
que principibus Valentino inimicis ibidem exulantibus clam Venetiis profi-
ciscitur iniurias Ursinorum ulturus. In primis Ariminum adortus, Valentini
praesidio inde eiecto, Pandolfum Malatestam Ariminensium principem in
patriam restituit; sed Pandolfus suis viribus diffisus Ariminum Venetis pau-
lo post non sine magna compensatione tradidit. Deinde Livianus Bononiam
perrexit inque optatam civitatem Bentivolos suae factionis principes repo-
suit, nec multi dies intercessere, cum milites fortissimi ad novum magnani-
mumque ducem undique confluentes iustum exercitum constituerunt; eo
exercitu factus potentior Livianus, Pisauro suo principi reddito, Apenninum
transcendit. Deinceps eodem successu Uidonem in Urbinum, Ioannem Pau-
lum Baleonem uxoris suae fratrem in perusinam dominationem, Pandolfum
Petrucium in senensem principatum, in Camerinum ac Tuder suos principes
diu exules restituit, sed hispanum arcis Tudertis praefectum supplicio affe-
cit capitali. Et iam Livianus viribus et auctoritate terribilis Valentino apud
Nepe veneno laboranti imminebat, at ille exitium sibi fatale imminere in-
telligens, licet aegritudine gravaretur, furtim elabitur ac Romam confugit
hispanorum cardinalium studiis fretus, cumque maiorem copiarum partem
in urbem Leoninam, ubi sedes pontificis est, coegisset, ecce a tergo Livia-
nus portam urbis summa vi confregit; ea ingressus ante limina apostolorum
principis totum Valentini equitatum fundit et armis exuit; mox eorum du-
cem dura fortuna morboque afflictum ad Pii pontificis pedes in arcem con-
fugere compulit, quem cum ad poenam superba voce a pontifice reposceret,
pontifex, se in eum velle legitime severoque iure animadvertere pollicitus,
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84 MAURO DE NICHILO

Valentinum e tanto fortunae culmine repente deiectum in arcem Ostiensem


relegavit. Hunc exitum fortunae vanae alumnus habuit, qui nullum secundis
in rebus sibi amicum comparavit. […] Interea Valentinus dux ab Ostiensi e-
lapsus arce, Napolim ad Consalvum confugit nimis imprudenter, qui nihil
adverterit Neapoli Ursinorum et Columnensium ultrices manus se subitu-
rum, sed reflante fortuna prudentia quoque et consilium salutare fugit. Il-
lum etenim Hispanus simulator cum multos dies sub specie praefecturae
maritimae adversus Pisas elusisset, in gratiam Liviani in carcerem coniecit,
deinde ducente Prospero Columna in Hispaniam transmisit. Neque unquam
postea reges aut cernere aut compellare illum dignati sunt, sed Metinae
campi arce clausum diu, cauta custodia adhibita, compescuerunt, unde ille
postea nefario dolo sese eripuit. Nam simulata aegritudine, monachum con-
fitendi causa ad se venire impetravit, quem seorsum in cubiculum vocatum
iugulavit, eiusque habitum indutus monachumque mentitus deceptis arcis
custodibus effugit, atque per devia loca ad regem Navarrae affinem suum
tunc cum Hispanis belligerantem se recepit, quo in bello fortissime pugnans
mortem oppetiit. Et hoc fato Valentinus dux innumerabilia post scelera ni-
mis glorioso functus est, e carcere in carcerem frequenter ignominia comi-
tante incidendo; et qui in vexillo inscripserat «aut Caesar aut nihil», factus
iam nihil perpetuo silentio tumuletur.
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PAPA BORGIA E GLI UMANISTI MERIDIONALI 85

APPENDICE B

DAGLI EPIGRAMMATA DI GIROLAMO BORGIA66

In Alexandrum VI Pont. fulmine tactum Dionysii Aquosae


(B, f. 26v)

Quis neget esse deos? et quis sine vindice poena


Turpia committi crimina posse putet?
Sextus Alexander vitiis dum laxat habenas
Et vetitum praeceps in scelus omne ruit
Dumque ferox Italis immissam irritat Erinnym 5
Nec putat ultores criminis esse deos,
Esse aliquem sensit nutu qui temperat orbem
Quique impune diu non sinit ire nefas.
Tot scelerum impatiens telo deus ipse trisulco
Incestosque lares pontificemque ferit. 10

66 Gli Epigrammi del Borgia, oltre 600, sono raccolti nel cod. Barb. lat. 1903

(= B), su cui cfr.: W. L. GRANT, Neo-Latin Materials at Saint Louis, «Manuscripta»,


4 (1960), pp. 3-18: 8; S. MONTI, L’apografo corsiniano dell’Aegidius di Gioviano
Pontano, «Rendiconti della Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Na-
poli», n. ser., 44 (1969), pp. 243-258: 251; F. FOSSIER, Premières recherches sur les
manuscrits latins du Cardinal Marcello Cervini (1501-1555), «Mélanges de l’École
Française de Rome - Moyen Age - Temps Modernes», 91 (1979), pp. 381-456: 426;
I.D. ROWLAND, Two Notes About Agostino Chigi, «Journal of the Warburg and Cour-
tauld Institutes», 47 (1984), pp. 192-199: 195; EAD., Render Unto Caesar the Things
Which are Caesar’s: Humanism and the Arts in the Patronage of Agostino Chigi,
«Renaissance Quarterly», 39 (1986), pp. 673-730: 688 e s., 720; EAD., A Summer
Outing 1510: Religion and Economics in the Papal War with Ferrara, «Viator», 18
(1987), pp. 349-359: 350; A.M. VOCI, Marsilio Ficino ed Egidio da Viterbo, in Mar-
silio Ficino e il ritorno di Platone. Studi e documenti, a cura di G. C. GARFAGNINI,
II, Firenze 1986, pp. 477-508: 480. Ho dubbi sull’autografia del codice al contrario
di FOSSIER, p. 426. I carmi 1, 2 e 3 sono anche nel Vat. lat. 2875, ff. 15v, 16v, un pic-
colo codice di 34 fogli contenente una selezione di epigrammi (questi forse auto-
grafi) che il Borgia destinò come solatia al cardinale Marcello Cervini (= V).
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86 MAURO DE NICHILO

Quem nequiit ferrum, quem mors consumere et anni,


Non alio poterat quam Iovis igne rapi67.

In eundem
(B, f. 26v)

Dum petit ignavo cervicem fulgure Sexti


Iuppiter et blandum vulnus in hoste facit,
Vertitur ad reliquos post vana tonitrua divos:
«Terreo – ait – tali fulmine, non perimo.
Hoc ego maiori servo caput altile poenae. 5
Nam cito quae properat mors, sine morte venit»68.

67 Se ne interpreto correttamente l’inscriptio, l’epigramma dovrebbe attibuir-

si a Dionisio Aquosa. Di lui non si sa molto, ad eccezione che fu poeta e grande


ammiratore del Pontano, che gli dedicò il Tumulo I 33 e ne ricordò la morte nel-
l’Aegidius (il Summonte nelle rispettive principes intestò il tumulo a Giuniano
Maio e sostituì nel dialogo il nome dell’Aquosa con quello del Calenzio). Anche
il Borgia, a Napoli dagli ultimi anni del Quattrocento, conobbe e apprezzò l’A-
quosa, del quale trascrisse altri due epigrammi a f. 5v del cod. Vat. lat. 5175, a-
pografo di suo pugno dell’Urania e del Meteororum liber del Pontano, terminato
di trascrivere il 25 luglio del 1500. In B, f. 26r, precede l’epigramma In Lydiam
Dionysii Aquosae. Altri due carmi dell’Aquosa sono nel cod. Vat. lat. 2836, ff.
36v, 264rv. Gli unici accenni al personaggio si possono leggere nei saggi di S.
MONTI, L’apografo corsiniano dell’Aegidius di Gioviano Pontano, «Rendiconti
della Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli», 44 (1969), pp.
249-252, e di L. MONTI SABIA, Manipolazioni onomastiche del Summonte in testi
pontaniani, in Rinascimento meridionale e altri studi in onore di Mario Santoro,
Napoli 1987, pp. 294-301 e note relative. In realtà in V, f. 15v, dall’inscriptio del-
l’epigramma (cui manca il terzo distico) è scomparso ogni riferimento all’Aquo-
sa (come pure da quello In Lydiam che immediatamente precede). Sospendo al
momento ogni giudizio, necessitando il caso di un supplemento d’indagine. L’e-
pisodio del fulmine che avrebbe colpito il pontefice mentre indulgeva a rapporti
incestuosi, su cui è costruito anche l’epigramma borgiano che segue, è raccontato
con maggiore dovizia di particolari nel libro III dell’Historia (v. Appendice A 4,
ultimo capoverso).
68 Anche in V, f. 15v.
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PAPA BORGIA E GLI UMANISTI MERIDIONALI 87

In Pontifices
(B, f. 27r)

Vendit Alexander claves, altaria, Christum.


Vendere iure potest: emerat ille prius.
Fungitur officio pastoris Iulius: haedos
Pascit; Alexander paverat ante lupas69.

In Alexandrum Sextum Pont.


(B, f. 27r)

Cum video natos natamque gregesque nepotum,


Te merito possum dicere, Sexte, patrem.
Sed patrem patriae nequeo te dicere sanctum,
Omnia qui soleas distribuisse tuis.

Aliud
(B, f. 27v)

Dum nimis immensis opibus saturare nepotes


Niteris, ingenti gurgite, Sexte, necas.
Hic luxu immodico se ingurgitat, ille fatiscit
Mille libidinibus foedaque monstra parit.
Ne tibi qui superant pingues, quae plurima turba est, 5
Rumpantur luxu, consule rite tuis.
In tenues partire viros bona tanta, tremiscunt
Quorum frigoribus corpora et ora fame.
Hac ratione tuis alienisque ipse medendo,
A morte eripies millia multa virum. 10

69 Anche in V, f. 16v. Ma v. nota 59.


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88 MAURO DE NICHILO

Aliud
(B, f. 27bisv)

Es bonus et sapiens pater omnium et obsitus aevo


Ac geris in terris vimque vicemque Dei.
Cur o non imitaris eum, cuius vice magna
Fungeris, haud uni qui dare cuncta solet?
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PAPA BORGIA E GLI UMANISTI MERIDIONALI 89

APPENDICE C

DAGLI EPIGRAMMATA DI IACOPO SANNAZARO70

I 14

De Borgia Alexandri pontificis filio


(V, ff. 68rv, 106rv)

Qui modo prostratos iactarat cornibus ursos,


In latebras taurus concitus ecce fugit.
Nec latebras putat esse satis sibi; Tybride toto
Cingitur et notis vix bene fidit aquis.
Terruerat montes mugitibus, obvia nunc est 5
Et facilis cuivis praeda sine arte capi.
Sed tamen id magnum: nuper potuisse vel ursos
Sternere, nunc omnes posse timere feras.

70 Li trascrivo direttamente dall’autografo cod. Vat. lat. 3361 (= V), il testi-

mone più completo e autorevole, in attesa dell’edizione critica degli Epigrammi.


Comparsi nell’Aldina postuma del 1535 curata da Paolo Manuzio con la collabo-
razione di Antonio Diaz Garlon, Onorato Fascitelli e Gerolamo Seripando (IACOBI
SANNAZARII Opera omnia latine scripta nuper edita, in aedibus haeredum Aldi Ma-
nutii et Andreae Asulani soceri, Venetiis, mense Septembri 1535), censurati nelle
stampe posteriori al Concilio di Trento, gli epigrammi antiborgiani del Sannazaro
furono ripristinati tra Sei e Settecento nell’edizioni olandesi curate dal Broekhui-
zen (la più completa e corretta la seconda, già cit., del 1728). Di questa edizione
ho seguito la numerazione e la titolazione (assente molto spesso nell’autografo, e
in linea di massima coincidente con quella dell’Aldina). Su V e sugli Epigramma-
ta del Sannazaro cfr. ALTAMURA, La tradizione manoscritta cit, pp. 45 e ss.; L.
GUALDO ROSA, A proposito degli epigrammi latini del Sannazaro, «Vichiana», n.
ser., 4 (1975), pp. 81-91, poi anche in Acta Conventus Neo-Latini Amstelodamen-
sis, (Proceedings of the Second International Congress of Neo-Latin Studies, Am-
sterdam, 19-24 August 1973), ed. by P. TUYNMAN, G.C. KUIPER and E. KESSLER,
München 1979, pp. 453-76; L. MONTI SABIA, Storia di un fallimento poetico: il
«fragmentum» di una Piscatoria di Jacopo Sannazaro, «Vichiana», n. ser., 12
(1983), pp. 255-281; D. MARSH, Sannazaro’s Elegy on the Ruins of Cumae, «Bi-
bliothèque d’Humanisme et Renaissance», 50 (1988), pp. 681-690: 682; C. VECCE,
Multiplex hic anguis. Gli epigrammi di Sannazaro contro Poliziano, «Rinascimen-
to», s. II, 30 (1990), pp. 235-256.
Cap. 04 De Nichilo 49-98 13-09-2002 12:57 Pagina 90

90 MAURO DE NICHILO

Ne tibi, Roma, novae desint spectacula pompae,


Amphitheatrales reddit harena iocos71. 10

I 15
Ad eundem dum ab Ursinis premeretur
(V, ff. 68v-69v, 105r-106r)

O taure, praesens qui fugis periculum


(Nam te nec odio taediove tam bonas
Sprevisse sylvas, tam bonos putem lacus),
Dic, quis propinqua nubibus tibi iuga
Molestus invidet, iuga illa iam tuis 5
Sudata cornibus tuisque proeliis
Devicta? Quis saltus et amnium huberes
Cursus torosque marginum virentium?
Quis huda rivis prata? quis recondita
Nemora? quis umbras sibilantium arborum 10
Male advocatus abstulit tibi deus?
Non amplius videbis, ah miser miser!,
Amata regna, non videbis amplius
Tuos amores, non licebit, heu!, tibi
Posthac cubanti sub genistulis tuis 15
Mollive fulto niveum amaraco latus
Audire voces ruminantium gregum,
Meridianum non inire somnulum.
Quae nunc adibis tesqua? quae petes loca,
Miselle taure? quas subibis ilices? 20
Ubi myricae? ubi virentis arbuti
Iucunda sedes? ubi salicta et omnibus,
Eheu!, iuvenca praeferenda pascuis?
Iuvenca, solos quae relicta ad aggeres
Padi sonantis, heu malum sororibus 25
Omen!, dolentes inter orba populos,
Te te requirit, te reflagitans suum
Implet querelis nemus et usque mugiens
Modo huc, modo illuc furit amore perdita.
Omnia peragrat arva, lustrat omnia, 30
71 Un’altra copia dell’epigramma, verosimilmente anteriore, è in V al f. 106rv,
dove al v. 3 putat esse satis è variante di satis esse putat, e al v. 10 reddit di subdit.
È tradito nella redazione Vb anche nel cod. Vat. lat. 3353, f. 169r, nella sezione Ma-
ledicta degli epigrammi latini e volgari raccolti da Angelo Colocci (=V1).
Cap. 04 De Nichilo 49-98 13-09-2002 12:57 Pagina 91

PAPA BORGIA E GLI UMANISTI MERIDIONALI 91

Num qua bisulcae signa cernat ungulae.


Quaerit per alta montium cacumina,
Quaerit per ima vallium cubilia,
Memor locorum, non tamen sui memor.
Te mane primo, te rubente vespero 35
Luget, nec illam luna cum recurreret
Coelo nec atrae noctis alma sydera
Videre dormientem; abire flumina,
Abire solem, abire cernit omnia.
At ipsa moestam sola non abit domum, 40
Humi recumbens strata sub nudo aethere.
Hanc et puellae nemorum et ipse corniger
Sylvanus aspicit; hanc bubulcus intuens,
Miser bubulcus!, nec iuvare eam valens,
Tantum, quod unicum in malis refugium habet, 45
Suspirat, ingemit, deum invocat fidem,
Iratus ursis, quod coegerint procul
Abire sylvis albulum iuvenculum
Et tam venustam clamitare buculam72.

I 22
De pace post Alexandri Sexti mortem
(V, f. 70v)

Dic unde, Alecto, pax haec effulsit et unde


Tam subito reticent proelia? Sextus obit73.
72 Al v. 26 dolentes è variante interlineare di gementes, al v. 31 qua correzione
su rasura di quid, lezioni che si leggono ancora nel testo d’impianto dell’altra copia
del carme presente in V ai ff. 105r-106r. Il lungo epigramma, di contenuto e di tono
più elegiaco che satirico, fu l’unico di quelli indirizzati ai Borgia ad approdare alla
stampa quando il Sannazaro era ancora in vita: nella Veneziana, da attribuire forse al
De Sabio, del 1529, nella Veneziana dello Stagnino del 1531 e nell’Aldina del 1533.
È tramandato anche dal cod. Vat. lat. 2836, ff. 120rv, e da V1, ff. 169rv.
73 L’epigramma è qui riprodotto secondo il testo dell’Aldina del 1535; in V in

realtà il titolo recita De pace post Sixti mortem, e nel testo Sextus è Sixtus. L’epi-
gramma era stato composto evidentemente nel 1484 alla morte di Sisto IV e solo in
un secondo momento adattato per Alessandro VI; questo poté avvenire sia nel 1503,
alla morte del Borgia, sia più tardi in vista della pubblicazione, quando scrupoli re-
ligiosi indussero il Sannazaro a concentrare tutti gli epigrammi antipapapali contro
un unico bersaglio (cfr. GUALDO ROSA, A proposito degli epigrammi latini del San-
nazaro cit., pp. 90-93). Nella versione borgiana l’epigramma è anche in V1, f. 170r,
e nel Barb. lat. 1858, f. 183r (= B).
Cap. 04 De Nichilo 49-98 13-09-2002 12:57 Pagina 92

92 MAURO DE NICHILO

I 51
In Alexandrum VI Pont. Max.
(V, f. 75v)

Piscatorem hominum ne te non, Sexte, putemus?


Piscaris natum retibus ecce tuum74.

I 51bis
(V, f. 75v)

Cum te Roma patrem, patrem plebs omnis adoret,


Dic mihi cur natus te vocet unus avum?
Sed res nota palam: natae grandaevus adulter,
Rivalis genero, nato avus ac pater es75.

I 52

In eundem
(V, f. 76r)

Europen tyrio quondam sedisse iuvenco


Quis neget? Hispano Iulia vecta bove est.
Ille sed astrigeri partem vix occupat orbis,
Hic coelum atque deos sub ditione tenet.
Unde igitur, si par meritum, non par quoque fatum? 5
Romanam amplexu plus tenuisse fuit76.

74 Anche in V1, f. 171v, e in B., f. 183r.


75 L’epigramma manca nelle stampe antiche. In V segue senza titolo dopo I 51
(al v. 2 te è correzione interlineare di et). Già edito in ALTAMURA, La tradizione ma-
noscritta cit., p. 85.
76 Anche in B, f. 183r.
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PAPA BORGIA E GLI UMANISTI MERIDIONALI 93

I 56

Ad Marinum Caracciolum
(V, ff. 76v-77v)

O dulce ac lepidum, Marine, factum,


Dignum perpetuo ioco atque risu,
Dignum versiculis facetiisque,
Nec non et salibus, Marine, nostris.
Ille maximus Urbis imperator, 5
Caesar Borgia, Borgia ille Caesar,
Caesar patris ocellus et sororis,
Fratrum blanditiae, quies, voluptas,
Montis pupulus ille Vaticani,
Ille, inquam, dominae Urbis inquinator, 10
Caesar Borgia, Borgia ille Caesar,
Cinaedi patris impudica proles,
Moechus ille sororis atque adulter,
Fratrum pernicies, lues, sepulcrum,
Montis bellua tetra Vaticani, 15
Quingentas modo qui voravit urbes,
Imbutus scelere et malis rapinis,
Urbes sub ducibus suis quietas,
Quascunque aut Latium ferax virorum,
Aut Campania pinguis, aut per alta 20
Divisi iuga continent Sabini,
Hisque ingessit Ariminum, Pisaurum,
Urbinum Populoniamque magnam,
Camertes pariter Forumque Livi
Cornelique Forum Faventiamque 25
Et quantum Aemiliae est Hetruriaeque,
Quantum circuitu hinc et inde longo
Neptuni lavat aestuantis unda.
At nunc quis neget esse opus deorum?
Quis, inquam, hoc neget esse opus deorum? 30
Dum vecors animi impotente morbo
Quaerit plura, nec est potis misellus
Explere ingluviem periculosam,
Ecce ecce evomit. O Iovem facetum,
O pulcram Nemesin, o venusta fata! 35
Verum scilicet id, Marine, verum est
Quod dici solet, en fides probat nunc:
«Fortunam si avide vorare pergas,
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94 MAURO DE NICHILO

Eandem male concoquas necesse est».


Ut iure evomere hunc putemus ipsum, 40
Qui tantum miser hausit oppidorum.
Ast id omne quod hausit oppidorum,
Quod quinque assiduis voravit annis,
Imbutus scelere et malis rapinis,
Scis quot evomuit diebus? Uno. 45
O lucem niveam, o Iovem facetum,
O pulcram Nemesin, o venusta fata,
O dulce ac lepidum, Marine, factum!77

I 57

In Alexandrum VI Pont. Max.


(V, f. 77v)

Visuram se iterum Sixtum cum Roma putaret,


Pro Sixto Sextum vidit et ingemuit78.

I 58

De Caesare Borgia
(V, ff. 77v, 106r)

Aut nihil aut Caesar vult dici Borgia. Quidni,


Cum simul et Caesar possit et esse nihil?79

77 Pupulus al v. 9 è correzione di populus, al v. 37 en di et. Il carme è anche in


V1, ff. 171v-172v, che omette il v. 30 (come l’Aldina del 1535 e la stampa olande-
se del 1728), e scrive pergis per pergas al v. 38.
78 Già pubblicato in GUALDO ROSA, A proposito degli epigrammi latini cit., p.

91, nota 30. È presente anche in V1, f. 172v, e in B, f. 183r.


79 A f. 77v il pentametro è variante marginale di Caesar erat, poterit sic etiam

esse nihil. L’epigramma, in realtà, ha conosciuto tre redazione, come si ricostruisce


attraverso la sua replica a f. 106r, dove nel testo d’impianto suona: Aut nihil aut
Caesar vis dici Borgia. Quidni? / Caesar iam es, poteris sic etiam esse nihil; San-
nazaro corresse quindi vis in vult, iam es in erat, poteris in poterit, lezione corri-
spondente alla redazione d’impianto di f. 77v. Nella redazione finale il distico è an-
che in V1, f. 172v. Il secondo emistichio del pentametro ricorda MART. 2, 64, 10.
«Aut nihil aut Caesar» era il motto del Valentino.
Cap. 04 De Nichilo 49-98 13-09-2002 12:57 Pagina 95

PAPA BORGIA E GLI UMANISTI MERIDIONALI 95

I 58bis
(V, f. 106r)

Caesaris agnosco nomen, sed Caesaris acta


Non video. Caesar non es: es ergo nihil80.

I 59

Ad eundem
(V, f. 77v, 106r)

Omnia vincebas, sperabas omnia, Caesar.


Omnia deficiunt; incipis esse nihil81.

I 62

In annun iubileum Alexandri VI Pont. Max.


(V, f. 78v)

Pollicitus coelum romanus et astra sacerdos,


Per scelera et caedes ad Styga pandit iter82.

II 4
In Lucretiam de Alexandro Sexto
(V, f. 83r)

Ergo te semper cupiet, Lucretia, Sextus?


O fatum diri nominis! Hic pater est83.

80 L’epigramma è in realtà cancellato, e infatti manca nelle stampe. Sed è mo-


difica interlineare di sacra. Già in ALTAMURA, La tradizione manoscritta cit., p. 87.
81 Le due repliche di V sono identiche. Lo stesso testo anche in V1, f. 172v; il Reg.

lat. 453, f. 48v, registra invece la variante captabas captabas per vincebas sperabas.
82 Et, nell’esametro, è aggiunto nell’interlinea. Il distico è tradito anche da V1, f.

172v, e da B, f. 183r. È citato con qualche variante dal Borgia (vd. Appendice A 4).
83 È presente anche in B, f. 183v.
Cap. 04 De Nichilo 49-98 13-09-2002 12:57 Pagina 96

96 MAURO DE NICHILO

II 4bis
(V, f. 83r)
Et natum et natam Sextus generumque nurumque
Paedicat, lingit, irrumat et futuit84.

II 27
De Alexandro VI pontifice maximo
(V, f. 87r)
Bello, inimicitiis furtisque et caedibus haustam
Italiam cernis, Sexte, et obire potes? 85

II 28
De eodem
(V, f. 87r)
Dic, in amicitiam coeant et foedera iungant
Mortales. Dixit Sextus et occubuit86.

II 29
(V, f. 87rv)
Epitaphium eiusdem
Fortasse nescis cuius hic tumulus siet.
Adsta, viator, ni piget.
Titulum, quem Alexandri vides, haud illius
Magni est, sed huius qui modo
Libidinosa sanguinis captus siti 5
Tot civitates inclytas,
Tot regna vertit, tot duces letho dedit,
Natos ut impleret suos.
Orbem rapinis, ferro et igne funditus
Vastavit, hausit, eruit. 10
Humana iura nec minus coelestia
Ipsosque substulit deos,

84 In V segue senza titolo II 4; manca nelle stampe. Già in ALTAMURA, La tra-

dizione manoscritta cit., p. 85. Il secondo emistichio del pentametro è calco di


MART. 2, 47, 4.
85 È tradito anche da V1, f. 173v, e da B, f. 183v.
86 Altra copia in B, f. 183v. L’esametro è calco di VERG. Aen. 7, 546.
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PAPA BORGIA E GLI UMANISTI MERIDIONALI 97

Ut scilicet liceret (heu scelus!) patri


Natae sinum permingere,
Nec execrandis abstinere nuptiis, 15
Timore sublato semel.
Et tamen in urbe Romuli hic vel undecim
Praesedit annis Pontifex.
I, nunc, Nerones vel Caligulas nomina
Turpis vel Heliogabalos. 20
Hoc sat, viator; reliqua non sinit pudor.
Tu suspicare et ambula87.

II 30
De eodem
(V, f. 87v)
Mirum, si vomuit nigrum post fata cruorem
Borgia? Quem biberat, concoquere non potuit88.

II 31
De eodem
(V, f. 87v)
Nomen Alexandri ne te fortasse moretur,
Hospes? Abi. Iacet hic et scelus et vitium89.

87 Già edito in Poeti latini del Quattrocento, a cura di F. ARNALDI-L. GUALDO RO-
SA-L. MONTI SABIA, Milano-Napoli 1964, p. 1158 (dove la lezione impleat per imple-
ret al v. 8 discende dalla stampa olandese del 1728, che così correggeva l’errore im-
plet dell’Aldina; ma impleat è lezione attestata anche da B, ff. 183v-184r). Oltre che
da V e da B l’epigramma è tramandato da V1, f. 173v (che condivide con B e con l’Al-
dina l’errore praesidet per praesedit al v. 18), e adespoto dal Reg. lat. 453, f. 48v (che
scrive illum per illius al v. 3, tot regna tot claros duces per tot regna vertit tot duces al
v. 7, in sinu commingere [ALTAMURA, La tradizione manoscritta cit., p. 77, legge co-
niungere] per sinum permingere al v. 14; commingere è lezione anche del Borgia, per
cui v. nota 65). Sul f. 48 del cod. Reginense si leggono adespoti quattro carmi anti-
borgiani; il secondo e il terzo sono facilmente identificabili con gli epigrammi II 29 e
I 59 del Sannazaro, il primo e il quarto (altri due epitaphia) restano invece senza at-
tribuzione. L’Altamura tuttavia, che non fa altresì alcuna menzione del quarto (v. La
tradizione manoscritta cit., p. 48), riconosce anche il primo come sannazariano e lo
pubblica tra gli inediti a p. 87.
88 Anche in V1, f. 173v (che scrive per errore vomit), e in B, f. 184r. Il penta-

metro è ametrico nel secondo emistichio.


89 Ancora in V1, f. 174r, e in B, f. 184r.
Cap. 04 De Nichilo 49-98 13-09-2002 12:57 Pagina 98

98 MAURO DE NICHILO

II 31bis

In Pii Tertii Pont. laudem


(V, ff. 87v-88r)

Bella, dolos, caedes, incendia, furta, rapinas


Exegit Sexto deficiente Pius90.

II 70

In Borgiam
(V, f. 99v)

Borgia cur summa nihili sacra fecerit hora


Cumque sua dominos spreverit arce deos?
Parcite mirari, qui talia poscitis, ac me
Credite apollineo verius ore loqui.
Hoc quod vos coelum, quae numina dicitis, ille 5
Esse apinas longo tempore crediderat91.

90 Non compare nelle stampe. Già in ALTAMURA, La tradizione manoscritta cit.,


p. 86.
91 Al v. 1 Borgia cur è correzione di Cur Sextus, al v. 3 poscitis di quaeritis. In
realtà l’epigramma era indirizzato a Leone X, come si può ricostruire dal testo d’im-
pianto:

Cur Leo suprema nihili sacra fecerit hora


Cumque suo dominos spreverit orbe deos,
Si quis forte roget, «mirari desine» dicam,
Nec patiar magni nomen obire viri.
Nam, quod vos coelum, quae sidera dicitis, ille
Esse apinas longo tempore crediderat.

Le due redazioni (quella finale è anche in V1, f. 174v, e in B, f. 184v) erano già
state riprodotte in GUALDO ROSA, A proposito degli epigrammi latini cit., p. 92. U-
na redazione inesistente, che mescola il primo verso dell’epigramma per Leone X
con i restanti della versione per Alessandro VI, aveva invece pubblicato ALTAMURA,
La tradizione manoscritta cit., p. 86.
Cap. 05 Irace E. 99-140 13-09-2002 12:57 Pagina 99

ERMINIA IRACE

Il pontefice, la guerra e le ‘false notizie’.


L’età di Alessandro VI nella cronachistica umbra*

1. Le difficoltà dello scrivere storia tra Quattro e Cinquecento

Il 19 novembre 1508 l’umanista e cancelliere perugino Francesco Ma-


turanzio scrisse una lettera destinata all’amico Jacopo Antiquari che risie-
deva a Milano. Maturanzio vi chiariva i motivi del suo prolungato silenzio
dopo che, in varie occasioni, Antiquari gli aveva manifestato la propria in-
tenzione di scrivere una storia della presa di Milano da parte dei Francesi e
lo aveva ripetutamente invitato a prendere la penna in mano per redigere u-
na storia contemporanea della città di Perugia e dei «civium praeclara faci-
nora» – ossia gli scontri di fazione – che vi si erano svolti. Una serie di im-
pegni pubblici e privati, iniziava dunque col dire Maturanzio nell’epistola,
lo avevano distolto dal progetto relativo a una historia; ma soprattutto, e qui
il discorso entrava nel vivo:

Nec te fallit et arduum in primis esse historiam scribere et totum


prope hominem sibi deposcere. Adde quod Perusina historia si in
prisca revolvaris tempora, nec satis nota, nec facilis inventu est, nec
illa ipsa, quae recentiora sunt, sic tradita sunt, ut colligere promp-
tum sit, nec civiles dissensiones supra ducentesimum annum cep-
tae, quibus disciplina illa vetus et omne patrum decus corruit, sine
magno boni civis dolore et sine multis lacrymis scribi possem.
Multorum ad haec offenderent animi qui maior suorum perperam
facta revocata in memoriam et mandata litteris nollent. Ad quem-
cumque alium libenter delegamus hunc laborem, nostrae praeser-
tim tenuitatis nobis conscii, quos audere tam grandia et evolare al-
tius vel animi infirmitas vel doctrinae parvitas non sinit1.

* Ringrazio Carla Frova per aver letto e discusso con me questo contributo.
1 La lettera è edita in G.B. VERMIGLIOLI, Memorie di Jacopo Antiquari e de-

gli studi di amena letteratura esercitati in Perugia nel secolo decimoquinto. Con
un’appendice di monumenti, Perugia 1813, pp. 431-432. Per la biografia dei due
personaggi cfr. ID., Memorie per servire alla vita di Francesco Maturanzio orato-
re e poeta perugino, Perugia 1807; G. ZAPPACOSTA, Francesco Maturanzio umani-
sta perugino, Bergamo 1970; nonché la voce Antiquari Iacopo, a cura di E. BIGI,
in DBI, 3, Roma 1961, pp. 470-472. Nella corrispondenza inviata a Maturanzio e
Cap. 05 Irace E. 99-140 13-09-2002 12:57 Pagina 100

100 ERMINIA IRACE

Maturanzio avanzava due questioni: la prima di ordine retorico e stili-


stico, attinente alla necessità di seguire le precise regole che codificavano il
genere della storiografia umanistica; la seconda alludeva a problemi perso-
nali, si potrebbe dire al coraggio dello storico. Ai suoi occhi, non risultava
cosa facile né scrivere del passato («prisca tempora») né occuparsi dell’età
contemporanea («ipsa recentiora»), a motivo delle difficoltà circa la rico-
struzione dello svolgimento degli eventi. Inoltre – e questo era il punto sa-
liente della lettera – egli non poteva parlare delle contemporanee discordie
civili senza risalire indietro nel tempo, almeno di duecento anni, ripercor-
rendone doverosamente l’evoluzione2. Doverosamente poiché così impone-
va l’ufficio dello storico, che tuttavia si sarebbe trovato su questo punto a
collidere con l’orgoglio genealogico di quei concittadini – va da sé, nobili
e potenti – i cui antenati avevano avuto un qualche ruolo nel dipanarsi dei
fatti oggetto della narrazione. Al bivio tra il rispetto deontologico dello sto-
rico umanista e la tutela della propria tranquillità quotidiana Maturanzio a-
veva scelto di seguire la seconda strada (anche in altre lettere si era detto
timoroso di vivere in una città spaccata dai conflitti fazionari)3 e annuncia-
va di rinunciare alla scrittura della storia. A ben guardare, la dichiarazione
dell’incapacità di confrontarsi con le regole della historia costituiva l’e-
splicitazione di un diffuso topos letterario, mentre la rinuncia a scrivere e-
sprimeva una mezza verità: Maturanzio, in effetti, non scrisse mai una hi-
storia; tuttavia redasse, e forse alla data del 1508 lo aveva già fatto (lo ve-

ad altri corrispondenti (ad esempio al perugino Giovan Maria Vibi) Antiquari tornò
più volte sulla necessità di lasciare testimonianza con la scrittura degli avvenimen-
ti contemporanei e trattò, sia pure brevemente, dei criteri della historia umanistica:
Epistolae eruditissimi atque optimi viri Iacobi Antiquarii Perusini, Perusiae 1519,
I, epistole 23-27 (la raccolta fu edita postuma a cura di Vibi). Per i molteplici le-
gami che univano Antiquari al circuito degli umanisti italiani si veda altresì l’In-
troduzione a IACOPO AMMANNATI PICCOLOMINI, Lettere (1444-1479), a cura di P.
CHERUBINI, I, Roma 1997, in particolare pp. 5-7 e 72-74.
2 Se non si tratta di una cifra simbolica per indicare genericamente il passato

remoto, l’indicazione dei duecento anni rinvia all’inizio del XIV secolo, epoca del-
l’instaurazione a Perugia del Comune delle Arti, ossia l’ordinamento istituzionale
ancora formalmente vigente al tempo dello scrivente (sebbene la città nel 1424 a-
vesse concluso i capitoli di sottomissione con papa Martino V).
3 Nel 1488 Maturanzio aveva accettato di trasferirsi a Vicenza, dove era stato

il successore nell’insegnamento di Ognibene da Lonigo, perché spaventato dalle tur-


bolenze fazionarie perduranti a Perugia; era poi tornato in patria, probabilmente al-
la fine del 1497, ma in numerose lettere aveva confessato la sua preoccupazione per
la situazione politica locale: cfr. VERMIGLIOLI, Memorie per servire cit., ad esempio
pp. 39, 43-44, 124-125 (in quest’ultima epistola, inviata a Innocenzo VIII affinché
intervenisse con decisione a pacificare la città, dichiarò la propria estraneità dai par-
titi in lotta: «nullius umquam factionis fui»).
Cap. 05 Irace E. 99-140 13-09-2002 12:57 Pagina 101

IL PONTEFICE, LA GUERRA E LE FALSE NOTIZIE 101

dremo più avanti), una cronaca in volgare intorno alla storia recente della
sua patria cittadina. Ad ogni modo, attraverso la strategia del detto, del non
detto e del mezzo detto, la lettera maturanziana lasciava trasparire il disa-
gio dello scrivente posto a confronto con la questione della messa per i-
scritto della storia e in particolare della storia contemporanea. Un atteggia-
mento non troppo dissimile si rintraccia in altre due lettere, composte in-
torno al 1492 da un altro umanista, il segretario papale Sigismondo dei
Conti e indirizzate anch’esse ad Antiquari: una coincidenza, questa, forse
non casuale, giacché Antiquari rappresentò a lungo una figura centrale nel
fitto reticolo epistolare che tra Quattro e Cinquecento collegava ambienti u-
manisti diversi per appartenenza geografica e statuale quali i gruppi vene-
to, fiorentino ed anche romano4. Nella prima di tali lettere (forse di qual-
che anno precedente il 1492) Conti, alle prese con la stesura delle Histo-
riae sui temporis, manifestava il proprio timore circa le possibili reazioni
dei lettori e pregava pertanto Antiquari di esaminare attentamente la parte
del testo già completata e di passarla in seguito alla lettura di Giacomo
Gherardi, il Volterrano, e di Francesco Puteolano, essendo questi tre gli u-
nici di cui Sigismondo aveva totale fiducia. Nella seconda lettera (del 5 di-
cembre 1492) Conti dichiarava di essere alfine arrivato a raccontare della
morte di Innocenzo VIII – dunque al luglio dello stesso anno – e di spera-
re di portare avanti il racconto sempre che gli fosse riuscito di rispettare il
principio fondamentale dello scrivere di storia: «Historiam in obitum In-
nocentii perduxi; annectam in praesentia et futura, si mihi prima illa lege
uti licebit, ne quid falsi dicere audeam, ne quid veri non audeam». Le epi-
stole appena ricordate costituiscono altrettante testimonianze – relative al
circuito di rapporti interpersonali che legava l’area pontificia alla milanese
– del disagio via via crescente tra XV e XVI secolo percepito da quanti ri-
flettevano sulle specificità e sui limiti della pratica storiografica. Le regole
della scrittura umanistica della storia inducevano ad occuparsi con partico-
lare sollecitudine dell’età contemporanea, su imitazione degli scrittori clas-
sici; a scegliere per oggetti di analisi in specie le vicende belliche e politi-
che, quelle più di altre degne di essere tramandate al ricordo dei posteri; a
scrivere secondo le indicazioni canoniche riguardanti la costruzione del di-
scorso, la ricerca delle cause, la presentazione dei caratteri dei protagoni-
sti, diffusamente note e ricapitolate in trattati quali infine l’Actius di Pon-

4 Cfr. Notizie sulla vita e sulle opere di Sigismondo de’ Conti, premesse a SI-
GISMONDO DEI CONTI DA FOLIGNO, Le storie de’ suoi tempi dal 1475 al 1510. Ora la
prima volta pubblicate nel testo latino con la versione italiana a fronte, I, Roma-Fi-
renze 1883, pp. XXIX-XXX (le due lettere sono menzionate a p. XXIX, nota 45).
Circa la complessa vicenda dell’edizione del testo di Conti cfr. C. DIONISOTTI, Pre-
messa a Sigismondo dei Conti, ora in DIONISOTTI, Ricordi della scuola italiana, Ro-
ma 1998, pp. 251-262.
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102 ERMINIA IRACE

tano5. Ma le regole, proprio perché formulate per offrire elementi di co-


stante riflessione e confronto, potevano condurre alla redazione di opere
guidate da scelte apparentemente inaspettate sia in campo linguistico –
l’opzione tra il latino e i volgari – sia formale – l’historia, ovvero più tra-
dizionali vesti memorialistiche. D’altro canto ancora le regole, che riguar-
davano cosa dovesse intendersi per scrittura della storia, di che cosa fosse
meglio occuparsi e in che modi, fin da considerazioni elaborate ben prima
dell’inizio delle «calamità d’Italia» – ad esempio negli scritti di Guarino e
di Bartolomeo Facio – cooperarono alla maturazione di riflessioni intorno
a cosa fosse meglio scrivere e cosa meglio tacere intorno ai fatti narrati (e
cioè noti per testimonianza diretta o autorevole allo storico). Una serie di e-
lementi, di concatenazioni, di risvolti, andavano forse smussati o passati
sotto silenzio: fu l’anticipazione di un importante tema poi cinque e sei-
centesco; ne andavano di mezzo motivi di opportunità personale, certo, ma
altresì e forse soprattutto il problema era rappresentato dalla duplice figura
di molti umanisti, letterati impegnati a ‘dire la verità’ da un lato, professio-
nisti degli uffici, delle corti, della curia dall’altro, pertanto vicini ai princi-
pi e coinvolti spesso direttamente nelle ragioni della grande politica. A par-
tire da tale sostrato, ricco di dubbi, discussioni, posizioni comunque non
cristallizzate, scoppiò la crisi che, con la discesa di Carlo VIII e negli anni
successivi, si manifestò in tutte le pratiche della memoria scritta di area i-

5 Cfr. almeno F. GILBERT, Machiavelli e Guicciardini. Pensiero politico e sto-

riografia a Firenze nel Cinquecento, Torino 1970; G. COTRONEO, I trattatisti dell’ars


historica, Napoli 1971, in particolare pp. 87-120; M. MIGLIO, Storiografia umani-
stica del Quattrocento, Bologna 1975; E. COCHRANE, Historians and Historio-
graphy in the Italian Renaissance, Chicago-London 1981, in specie pp. 15-201; F.
TATEO, I miti della storiografia umanistica, Roma 1990; M. REGOLIOSI, Riflessioni
umanistiche sullo «scrivere storia», «Rinascimento», s. II, 31 (1991), pp. 3-27; La
storiografia umanistica, (Atti del Convegno Internazionale di Studi, Messina, 22-25
ottobre 1987), Messina 1992; P. MARGAROLI, Introduzione a MARIN SANUDO, I dia-
rii (1496-1533). Pagine scelte, Venezia 1997, pp. 1-27. Sul punto delle scelte lin-
guistiche e di genere di scrittura si vedano le osservazioni di G. COZZI, Marin Sa-
nudo il Giovane: dalla cronaca alla storia, in La storiografia veneziana fino al se-
colo XVI, a cura di A. PERTUSI, Firenze 1970, pp. 333-358, e R. FUBINI, Cultura u-
manistica e tradizione cittadina nella storiografia fiorentina del ’400, in La storio-
grafia umanistica cit., I, pp. 399-443. Ma su historia vs chronica e narrazione del
contemporaneo vs esposizione del passato cfr. altresì B. GUENÉE, Histoires, anna-
les, chroniques. Essai sur les genres historiques au Moyen Age, in ID., Politique et
histoire au Moyen Age. Recueil d’études sur l’histoire politique et l’historiographie
médiévales (1956-1980), Paris 1981, pp. 279-298. Infine, è da ricordare Il senso del-
la storia nella cultura medievale italiana (1100-1350), (Quattordicesimo Convegno
di studi del Centro italiano di studi di storia e arte di Pistoia, maggio 1993), Pistoia
1995.
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IL PONTEFICE, LA GUERRA E LE FALSE NOTIZIE 103

taliana, tanto nelle produzioni della maggiore storiografia quanto nella cro-
nachistica locale6.
Le ricerche, ormai numerose, dedicate al tema hanno articolato in tre
tappe la scansione di tale crisi. Inizialmente (anni 1494 e 1495) storici e
cronisti assistettero con sorpresa alla discesa del re di Francia e ai conse-
guenti turbamenti istituzionali della penisola. Ne derivò che, per lo più sen-
za comprendere pienamente la portata degli accadimenti, essi lavorarono
accumulando particolari su particolari, come se questi da soli fossero suffi-
cienti a rendere il clima politico di quei momenti: esempi di tale comporta-
mento si riscontrano negli scritti di Bernardino Corio, Sigismondo dei Con-
ti e dei cronisti napoletani. In seguito (dopo il 1499) con la seconda calata
dei Francesi e, nel 1501, con l’arrivo degli Spagnoli, cominciò ad esser
chiaro che la fase iniziata nel 1494 non rappresentava una mera parentesi
ma aveva aperto un nuovo ciclo nelle vicende degli stati italiani e nei loro
rapporti con le altre monarchie europee. Una caratteristica di questa secon-
da tappa fu la ricerca delle responsabilità politiche che avevano condotto al-
le «calamità d’Italia», le quali furono volta a volta scaricate sull’uno o sul-
l’altro dei protagonisti – il Moro, Piero dei Medici, Alessandro VI: rappre-
sentano tale tendenza il De bello italico di Bernardo Rucellai e più in ge-
nerale la memorialistica redatta a Firenze, la città toccata più da vicino dai
sommovimenti della «rivolutione» (la definizione fu coniata da Piero Pa-
renti). La terza e ultima tappa si inaugurò a partire dagli anni venti e trenta
del Cinquecento: fu l’età delle elaborazioni maggiori – Machiavelli, Gio-
vio, Guicciardini – nelle quali i canoni umanistici dello ‘scrivere storia’ fu-
rono posti al servizio della ricostruzione del contesto generale della politi-
ca internazionale che aveva provocato la cesura del 1494. Ma prima che
l’ultima tappa sancisse l’interpretazione ‘definitiva’ della svolta realizzata-
si tra i due secoli, una parte cospicua degli estensori della memorialistica
cittadina, nelle città capitali allo stesso modo che nelle aree provinciali, subì
con forza e lungamente l’impatto di quanto si andava verificando, venendo
colta completamente impreparata dalla portata di accadimenti che sovverti-

6 Oltre alle opere di Gilbert e di Cochrane citate alla nota precedente cfr. A. DENIS,
Charles VIII et les Italiens: Histoire et Myhte, Genève 1979; G. SOLDI RONDININI, Lu-
dovico il Moro nella storiografia coeva e Spunti per un’interpretazione della Storia di
Milano di Bernardino Corio, entrambi in EAD., Saggi di storia e storiografia visconteo-
sforzesche, Bologna 1984, pp. 159-203 e 205-220; M. DE NICHILO, Un plagio annun-
ciato: Girolamo Borgia e il «De bello italico» di Bernardo Rucellai, in La memoria e
la città. Scritture storiche tra Medioevo ed Età Moderna, a cura di C. BASTIA-M. BO-
LOGNANI, responsabile culturale F. PEZZAROSSA, Bologna 1995, pp. 331-360; P. MAR-
GAROLI, «Traitres Lombardi»: the expedition of Charles VIII in the Lombard sources up
to the mid-sixteenth century, in The French Descent into Renaissance Italy, 1494-95.
Antecedents and Effects, edited by D. ABULAFIA, Aldershot 1995, pp. 371-389.
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104 ERMINIA IRACE

vano collaudate letture della realtà. In taluni casi la contraddizione fu tale


da provocare allora una vera e propria paralisi interpretativa, mentre in altri
fu compiuta la scelta, quale via d’uscita, di riutilizzare, aggiornandoli e ar-
ricchendoli, tradizionali schemi e modelli di spiegazione, i quali derivava-
no la loro forza di esplicazione dal riecheggiare e talora citare in forma di-
retta stereotipi radicati nell’identità culturale degli autori-scriventi e della
comunità dei lettori cui essi si rivolgevano, reale o immaginaria che fosse.
Osserveremo un caso specifico: la produzione cronachistica in volgare rea-
lizzata nelle città dell’Umbria lungo gli anni del pontificato borgiano. Non
saranno presi in considerazione i testi compilati nel pieno del secolo XVI,
allorché la distanza temporale e l’ausilio di scritture storiografiche autore-
voli guidarono la riformulazione interpretativa degli eventi. Verranno inve-
ce esaminate le opere ‘coeve o scritte a immediato ridosso dei fatti narrati’
(come le avrebbe chiamate la storiografia ottocentesca). Attraverso queste
fonti sarà possibile esprimere notazioni circa i meccanismi di percezione e
di spiegazione dell’attualità in un’area segnata da una specifica transizione
politica, giacché essa stava diventando la provincia dello Stato ecclesiasti-
co; da cui il riferimento all’età borgiana in senso direi tecnico, dal momen-
to che il papa in quanto sovrano costituì l’ineludibile punto di riferimento
di tutta la realtà territoriale pontificia. E proprio nel pontefice, come vedre-
mo, fu individuato il responsabile unico, l’eroe negativo, che aveva condot-
to alla «mutatione de Italia».

2. Quattro cronisti come filo conduttore

Presentiamo a questo punto i testi oggetto della presente analisi e i lo-


ro autori. Sono state scelte quattro compilazioni, tutte disponibili in forma
di edizione (tra parentesi sono indicati gli estremi cronologici coperti da o-
gni testo): la Cronaca di Todi (1461-1536) di Gioan Fabrizio degli Atti, il
Diario di ser Tommaso di Silvestro da Orvieto (1482-1514), gli Annali di
ser Francesco Mugnoni da Trevi (1416-1503), infine la Cronaca della città
di Perugia dal 1492 al 1503 di Francesco Maturanzio7. Soffermiamoci in-
nanzitutto sui primi tre testi; essi furono scritti almeno in parte nel corso
dell’età borgiana: degli Atti iniziò la redazione del proprio manoscritto nel

7 Il testo redatto dall’Atti fu edito da F. MANCINI, «Studi di filologia italiana», 13

(1955), pp. 79-166 e ripubblicato in Le cronache di Todi (secoli XIII-XVI), a cura di


G. ITALIANI-C. LEONARDI-F. MANCINI-E. MENESTÒ-C. SANTINI-G. SCENTONI, rist. Spo-
leto 1991, pp. 173-214 (edizione alla quale si farà riferimento); il Diario di ser Tom-
maso fu pubblicato per cura di L. FUMI in Ephemerides Urbevetanae, RIS2, 15/6-10,
(1922-1929); Annali di ser Francesco Mugnoni da Trevi dall’anno 1416 al 1503, a cu-
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IL PONTEFICE, LA GUERRA E LE FALSE NOTIZIE 105

1495, recuperando notizie da altre fonti circa il periodo 1461-1494; Mu-


gnoni aveva cominciato la stesura intorno al 1467, moltiplicando le annota-
zioni a partire soprattutto dal 1474 – in corrispondenza con una serie di in-
carichi pubblici ricoperti per conto della sua città –, mentre l’orvietano
Tommaso inaugurò il suo lavoro appunto nel 1482, articolandolo in due ste-
sure, la prima in un gruppo di ‘quadernetti’, la finale in un codice in quar-
to che arrivò a comporsi di ben 707 carte scritte8. I tre cronisti appartene-
vano a strati differenti della società locale. Degli Atti era un nobile – la sua

ra di P. PIRRI, «Archivio per la storia ecclesiastica dell’Umbria», 5 (1921), pp. 149-


352 (si farà riferimento alle pagine dell’estratto monografico, edito a Perugia nel
1921); FRANCESCO MATURANZIO, Cronaca della città di Perugia dal 1492 al 1503, in
Cronache e storie inedite della città di Perugia, a cura di F. BONAINI-A. FABRETTI-F.
L. POLIDORI, «Archivio Storico Italiano», 16, 2 (1851), pp. 3-243. Cfr. F. MANCINI, In-
troduzione a La cronaca todina di Ioan Fabrizio degli Atti, in Le cronache di Todi cit.,
pp. 125-129, e M. GRONDONA, Appunti sulle cronache antiche di Todi, «Studi Medie-
vali», III serie, 23 (1982), pp. 387-439; su ser Tommaso (a parte la descrizione del ma-
noscritto fornita da Fumi come presentazione della succitata edizione) lo studio più re-
cente è E. PETRANGELI, Dalle stranezze al significato: schede per una interpretazione
antropologica del Diario di ser Tommaso di Silvestro, «Bollettino dell’Istituto Stori-
co-Artistico Orvietano», 42-43 (1986-1987), pp. 225-242, ma in quanto fonte di pri-
ma mano sull’ambiente orvietano all’epoca della realizzazione degli affreschi esegui-
ti da Luca Signorelli nel Duomo cittadino, alla cronaca hanno prestato attenzione a più
riprese gli storici dell’arte: ad esempio J.B. RIESS, La genesi degli affreschi del Signo-
relli per la Cappella Nova, in Il duomo di Orvieto, a cura di L. RICCETTI, Roma-Bari
1988, pp. 255-259. Al testo di Mugnoni non sono state dedicate ricerche specifiche,
mentre la cronaca maturanziana, la più importante delle quattro, è stata di recente e-
saminata da M. DONNINI, Un umanista, una città: Francesco Maturanzio e Perugia al
tempo della beata Colomba da Rieti, in Una santa, una città, (Atti del Convegno sto-
rico nel V centenario della venuta a Perugia di Colomba da Rieti, Perugia, novembre
1989), a cura di G. CASAGRANDE-E. MENESTÒ, Spoleto 1991, pp. 35-60, e V. I. COM-
PARATO, Il lessico del potere politico nella cronaca perugina di Francesco Maturan-
zio (1492-1503), «Il pensiero politico», 24 (1991), pp. 101-104. Esistono inoltre altre
cronache umbre che comprendono gli anni del pontificato borgiano (i testi perugini
del cosiddetto ‘Graziani’, che tuttavia giunge fino al 1493, di Francesco di Niccolò di
Nino e di Villano Villani, la compilazione spoletina attribuita a Severo Minervio); per
un inquadramento generale si veda A.I. GALLETTI, Le scritture della memoria storica:
esperienze perugine, in Cultura e società nell’Italia medievale. Studi per Paolo Brez-
zi, Roma 1988, pp. 367-392.
8 La parte iniziale del testo definitivo è lacunosa (mancano ad esempio le note

relative al 1492-1493): almeno un fascicolo è andato infatti perduto. All’altezza del


gennaio 1510 (c. 560v, p. 419 dell’edizione) lo scrivente inserì la trascrizione di u-
na cronaca medievale orvietana che gli era capitata alle mani, il Liber de novitati-
bus antiquissimis (1161-1313).
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famiglia guidava anzi una delle due fazioni che dominavano la vita politica
di Todi; nel 1495, allorché iniziò la redazione del suo manoscritto, egli ri-
copriva la carica di cancelliere del comune9. Francesco Mugnoni e Tom-
maso di Silvestro erano notai. Tuttavia, mentre Tommaso scrisse senza
muoversi da Orvieto, gli incarichi amministrativi itineranti che Mugnoni e-
sercitò nel corso degli anni come cancelliere e come podestà lo misero in
contatto con varie realtà territoriali toscane e pontificie10, contribuendo in
misura determinante alla crescita dell’interesse nei confronti della realtà
politica e alla prosecuzione della già avviata pratica di registrazione me-
morialistica.
Ho lasciato per ultima la presentazione della cronaca di Francesco Ma-
turanzio, la più importante tra quelle qui considerate: il testo, e il mano-
scritto, che ci sono oggi noti presentano infatti una serie di questioni relati-
ve alla cronologia compositiva dell’opera sulle quali merita conto soffer-
marsi, data la loro rilevanza all’interno del discorso che stiamo conducen-
do. La cronaca è conservata in un codice di mano di Maturanzio, custodito
presso la Biblioteca Comunale di Perugia (ms. I 109) 11. Il testo si presenta
mutilo della parte iniziale; di questa lacuna, un breve brano è ricostruibile
sulla base di una copia dell’opera eseguita in età moderna. Tale brano, do-
po aver raccontato delle opere di Colomba da Rieti, passa a riferire della
creazione di papa Alessandro «del quale parlavano scritture e profezie» (un

9 Il codice allestito da degli Atti reca a c. 1r il titolo Croniche de Iohanne Fa-


britio de meser Pietro de meser Honofrio Offreduttio de’ Atti da Tode cancellieri de
epsa republica. 1495, con gli stemmi della città di Todi e della famiglia degli Atti:
G. ITALIANI, I manoscritti delle cronache latine, in Le cronache di Todi cit., pp. 17-
20. Del testo vennero eseguite nel corso dei secoli successivi cinque copie.
10 Tra gli anni Sessanta e la fine del Quattrocento, Mugnoni fu giudice dei ma-

lefici ad Ascoli, giudice del capitano a Volterra e a Pistoia, cancelliere di Nocera


Umbra, podestà di Matelica, cancelliere di Trevi e poi di Cascia: Annali di ser Fran-
cesco cit., pp. 7-11. Per quanto riguarda invece Tommaso di Silvestro, egli fu anche
canonico della cattedrale di Orvieto. Secondo Luigi Fumi, l’editore del testo di
Tommaso, si deve a questo secondo incarico il costante interesse manifestato dal
cronista lungo tutta la cronaca nei riguardi dei decessi avvenuti in città, specie a se-
guito delle epidemie che costellarono gli anni tra Quattro e Cinquecento (nei fatti,
in alcuni punti la cronaca appare essere una sorta di obituario).
11 Il testo si presenta mutilo della parte iniziale: comincia attualmente a c. 19:

il contenuto di due carte (quindi in origine le cc. 17 e 18) è tràdito da una copia set-
tecentesca della cronaca (Perugia, Biblioteca Comunale Augusta, ms. 3217, cc. 2r-
3v). Secondo Ariodante Fabretti, l’ottocentesco editore della cronaca, il testo sareb-
be mutilo pure della parte finale, ma ciò potrebbe non essere vero, giacché la narra-
zione si arresta con la riconquista di Perugia da parte di Giampaolo Baglioni, subi-
to dopo la morte di papa Alessandro. Questo potrebbe essere il termine voluto, non
lacunoso, dell’opera. Per la citazione che segue cfr. MATURANZIO, Cronaca della
città di Perugia cit., pp. 3-4.
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punto importante, quello delle profezie, su cui avremo modo di tornare).


Siamo dunque nell’agosto 1492; da qui la narrazione si dipana senza inter-
ruzioni fino all’altezza dell’aprile 1500, allorché nel manoscritto originale
è collocata una cesura: un titoletto corrente («Qui incomincia la memoria
del novello Stato peruscino») e un prologo:

Sì de le cose occurse non n’ho fatto memoria ma honne narrato in


parte, commo de sopra insino a mo’ n’ho scripto, che certo credo
avere ommesse molte cose, e la cagione n’è stata che mentre inco-
minciarono le novità nella nostra città de Peroscia io era piccolino
e non aveva ingenio a farne menzione, ma seguendo tante novità in
Peroscia e in Italia, propuse nell’animo mio volere fare menzione e
lasciare memoria a quelli che dopo di noi verranno et incomincia-
re dal tempo che nel principio de questo ve scripse, cio[è] dal 1488,
perfino all’anno 1500, facendo memoria di tutte le cose occurse
quale ancora non erano cadute de la mia mente in tutto ma in par-
te, onde, quelle le quali aveva a memoria, ho scripte o notate per in-
sino a questo dì e anno del 1500. Onde, quelle che oramai siquita-
ranno descriverò a ponto como seranno, cioè de quelle che a mia
notizia verranno. Perciò incomincio un’altra volta a dechiarare il
mio tema e ad maiure evidentia e, acciocché meglio possiate inten-
dere e più siano satisfacti li animi vostre, farò uno mio trascurso e
evidentiale, lo quale prego non ve sia tedio12.

Il brano, che diede molto filo da torcere agli studiosi ottocenteschi del-
la cronaca13, fornisce numerose informazioni. In primo luogo, costituisce la

12 Ms. I 109, c. 113v: p. 98 dell’edizione. Il «trascurso e evidenziale» che vie-


ne annunciato consiste in un excursus storico sulle tensioni politiche municipali, che
serve da premessa per contestualizzare il successivo racconto della strage dei Ba-
glioni avvenuta nel 1500.
13 I quali si convinsero che la cronaca non fosse dell’umanista Maturanzio ma

di un altro, Francesco Matarazzo (che era il nome autentico, non latinizzato, del no-
stro). Appariva strano, infatti, che un dotto umanista avesse scritto una cronaca a-
doperando il volgare municipale e senza praticamente far riferimento al proprio ruo-
lo di testimone diretto di molti dei fatti narrati. Gli editori ottocenteschi (Bonaini,
Fabretti e Polidori) preferirono attribuire il testo a un Matarazzo omonimo dell’u-
manista ma diverso da lui, che sarebbe stato l’espressione della percezione ‘popola-
re’, cittadinesca, estranea insomma ai palazzi del potere, degli eventi accaduti tra
Quattro e Cinquecento. Cfr. E. IRACE, Medioevo risorgimentale. Ariodante Fabretti
storico dell’età dei comuni, «Annali della Facoltà di Lettere e filosofia dell’Univer-
sità degli studi di Perugia, 2, Studi storico-antropologici», 33 (1995-1996), pp. 107-
132. Correntemente ora si ritiene che l’umanista Maturanzio, autore-scrivente della
cronaca, faccia riferimento a se stesso in due soli passi (cfr. ms. I 109, cc. 124r e
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seconda introduzione dell’opera («incomincio un’altra volta a dechiarare il


mio tema»): significa che ne esisteva un’altra, posta quindi all’inizio del te-
sto, ossia nel blocco andato perduto. Il testo completo prendeva le mosse
dal 1488: questo anno e le altre due indicazioni cronologiche cui il prologo
fa riferimento, vale a dire la prima: «mentre incominciarono le novità nella
nostra città de Peroscia io era piccolino e non aveva ingenio a farne men-
zione», ossia la metà del XV secolo – Maturanzio era nato nel 1443 – e la
seconda: aprile 1500, epoca narrativa che il prologo interrompe, introdu-
cendo una scansione nella trama discorsiva, rappresentano altrettanti mo-
menti di rilievo nella vita politica della città di Perugia. Alla metà del Quat-
trocento, nell’assetto locale instaurato a seguito della dedizione della città a
Martino V (1424) cominciarono a manifestarsi crescenti tensioni, che e-
splosero lungo i decenni successivi nella forma di violenti conflitti tra le
due principali fazioni municipali – i baglioneschi e gli oddeschi – finché,
nel 1488, i secondi furono cacciati e la fazione baglionesca impose il pro-
prio regime su Perugia. Fino però al giugno 1500, allorché i fuoriusciti si
vendicarono facendo strage dei Baglioni tutti riuniti in occasione del matri-
monio tra uno dei loro, Astorre, e Lavinia Colonna (le cosiddette ‘nozze
rosse’)14. La cronaca, in altri termini, è articolata sulla base di eventi chia-
ve della storia locale – un elemento caratteristico del genere della memo-
rialistica municipale –, così come all’universo locale si riconducono gli av-
venimenti conclusivi della narrazione, quelli dell’anno 1503, cioè la morte
di papa Borgia seguita dalla riconquista del potere a Perugia ad opera di
Giampaolo Baglioni, fortunosamente scampato alla strage di tre anni prima.
Ma nel dire nel prologo tutto questo, Maturanzio aggiunse un particolare:
la prima parte del testo (che in origine, ripetiamo, andava dal 1488 al 1500)
era stata da lui redatta sulla base dei ricordi, trascegliendo gli eventi degni
di nota («facendo memoria di tutte le cose occurse quale ancora non erano
cadute de la mia mente»). Egli affermava di stare scrivendo nell’anno 1500,
epoca a partire dalla quale avrebbe narrato mano a mano che gli eventi si
sarebbero dipanati («Onde, quelle che oramai siquitaranno descriverò a
ponto como seranno, cioè de quelle che a mia notizia verranno»). Ora, a ben
esaminare il testo, la cronaca, soprattutto nella sua seconda parte, quella che
l’autore asserisce redatta giorno per giorno o quasi e che dunque dovrebbe
consistere in grezzo materiale annalistico, presenta viceversa la veste del

249r; pp. 107 e 200 dell’edizione), qualificandosi come «me ser Francesco Mata-
razzo» (fu anche per via dell’errata lettura di questi riferimenti, interpretati in en-
trambi i casi come «meser Francesco Matarazzo» che nel secolo XIX si corroborò
la convinzione che l’autore della cronaca non fosse l’umanista Maturanzio).
14 Cfr. C. BLACK, The Baglioni as Tyrants of Perugia, 1488-1540, «The English

Historical Review», 85 (1970), pp. 245-281.


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prodotto fortemente elaborato sotto il profilo letterario, come si riscontra,


per limitarci ad un solo esempio, nel lungo brano dedicato al racconto del-
le ‘nozze rosse’. La dichiarazione della redazione sincrona ai fatti (notizia
vs memoria) è contraddetta dalla forma stilistica e discorsiva: tale seconda
parte, almeno nella stesura che ora possediamo, non fu quindi scritta lì per
lì, ma qualche tempo dopo i fatti. Ma quanto tempo dopo? La stesura defi-
nitiva della cronaca nella sua interezza, la stesura oggi disponibile, fu com-
pilata sicuramente dopo la morte di papa Borgia: lo prova la notizia dell’e-
lezione del pontefice riportata all’inizio del testo, quell’inizio beninteso che
possiamo ricostruire. Abbiamo già citato brevemente questo passo, ma tor-
niamoci per esteso. Nel 1492, vi si dice, fu eletto papa Alessandro, «del
quale parlavano scritture e profezie e, mentre visse, tutta Italia gìa in ruina
et in guerra»: l’autore sta scrivendo dopo la scomparsa del pontefice e tut-
ta la cronaca – nelle due parti che la compongono – presenta una versione
dei complessi eventi tra Quattro e Cinquecento, visti sì dalla prospettiva lo-
cale, ma comunque con una distanza, sia pure breve, di confronto con quei
fatti. Se ne deduce che, probabilmente a partire da una bozza, un brogliac-
cio di appunti o simili, Maturanzio compose la stesura definitiva della cro-
naca dopo l’agosto-settembre del 1503 (rispettivamente: morte del papa e
rientro in città di Giampaolo Baglioni). Il che ha una sua logica, dal mo-
mento che tali ultimi eventi rappresentavano l’esito e fornivano di signifi-
cato locale e generale gli anni oggetto della narrazione. Ma forse si può es-
sere più precisi con l’ausilio di qualche particolare biografico15. Il 19 apri-
le 1503 Maturanzio era stato nominato cancelliere del comune perugino,
carica che mantenne fino all’aprile dell’anno dopo, allorché fu rimosso pro-
babilmente a causa di contrasti con il gruppo dirigente cittadino. Tra 1503
e 1504 Maturanzio ebbe in sostanza poco tempo libero, preso com’era tra
le cure della cancelleria e il contemporaneo insegnamento degli studia hu-
manitatis nel Gymnasio cittadino, l’istituzione preposta alla formazione del
ceto dirigente municipale. Diversa dovette presentarsi la situazione tra l’a-
prile del 1504 e l’ottobre 1506, quest’ultima essendo l’epoca in cui egli
venne reintegrato nell’ufficio di cancelliere (che mantenne fino alla morte,
nel 1518) per volontà del legato pontificio Antonio Ferrerio della Rovere.
Tra 1504 e 1506, certo deluso per essere stato estromesso dall’ufficio, egli
dovette per forza ripensare ai fatti, anche personali, di quegli ultimi anni co-
sì turbolenti. Se la stesura definitiva della cronaca fu allestita in quel fran-
gente, nella lettera inviata a Jacopo Antiquari nel 1508, che abbiamo citato
in apertura, quella in cui declinava l’invito a scrivere una historia munici-

15 Cfr., per quanto segue, VERMIGLIOLI, Memorie per servire cit., pp. 68-71, e

ZAPPACOSTA, Francesco Maturanzio cit., pp. 24-30.


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110 ERMINIA IRACE

pale, Maturanzio doveva avere ormai completato la propria fatica16. In ogni


caso, completata o no che fosse, Maturanzio tacque con Antiquari riguardo
alla cronaca – ma va ricordato che la comunicazione tra i due si svolse al-
l’interno del registro dell’epistolografia. Per di più, mantenne nel testo de-
finitivo il secondo prologo così come era stato forse concepito nella bozza
iniziale. Il cronista aveva riguardo di sottolineare, anche nella stesura defi-
nitiva, che tra le due sezioni del testo continuava a sussistere una profonda
differenza di impianto. La prima sezione (1488-1500) era stata scritta a me-
moria; la seconda (1500-1503) ‘a notizia’. Frequenti appaiono infatti nella
prima sezione i rimandi a ricordi personali («se ben io mi ricordo»)17; allo
stesso modo, nella seconda sezione, spesso ricorre la menzione di notizie
arrivate in città circa gli eventi di rilievo che si andavano verificando («fu
incominciato a dire», «fu levata una voce», «venne la novella»)18. Tornere-
mo su questo tipo di costruzione ‘a notizia’ del discorso, che fu una pratica
assai diffusa nella memorialistica tra Quattro e Cinquecento. Per il mo-
mento aggiungiamo un solo ultimo particolare: i ‘ricordi’ disseminati lun-
go la prima parte stavano forse a segnalare l’effettiva presenza del cronista
in città in quegli anni. Infatti, tra il 1492 e il 1498 Maturanzio risiedette e
insegnò a Vicenza; non potè di conseguenza essere, se non in occasione di
brevi ritorni in patria, testimone diretto di tutti i fatti occorsi, che dovette in
gran parte ricostruire sulla base del racconto di altri19.
In conclusione, pur disponendo a pieno grado della preparazione cul-

16 La parola «istoria» gli scappò dalla penna una sola volta nel manoscritto defi-
nitivo (ms. I 109, c. 236r), nel passo: «per dire appieno la mia istoria, scripse quanto
havete lecto et inteso di sopra». Ma subito lo scrivente si pentì e corresse: «per dire
appieno la mia opera, scripse quanto havete lecto et inteso di sopra». In un altro pun-
to, l’autore definisce il suo prodotto come «mio liberculetto» (p. 37 dell’edizione).
17 Ad esempio alle pp. 37, 62-63, 69, 78 dell’edizione.
18 Cfr. pp. 111, 123, 167 dell’edizione.
19 Il manoscritto che possediamo non appare aver avuto circolazione prima del-

la metà del Cinquecento: non ne esistono copie coeve, mentre risulta noto agli eru-
diti della seconda parte del XVI secolo. Nel testo, va detto, ricorrono continuamen-
te appelli a un pubblico di lettori e addirittura ascoltatori («Forse tu lettore et audi-
tore ti meraviglie del parlare mio troppo affectionato»; «commo oderete e contata
ve fia»; «commo io ve ho ditto»), che potrebbero tuttavia costituire un artificio let-
terario. Il cronista sembra aver scritto per sé e forse per una comunità ristretta di a-
mici, come lui esasperati dalle fazioni e dalla non sufficiente attenzione dei ponte-
fici nei riguardi della pacificazione del territorio ecclesiastico, un atteggiamento che
spiega gran parte dell’acredine riversata dall’autore sulla figura di papa Borgia. Per
voluto contrasto, più volte torna nel testo il rimpianto della prima metà del Quattro-
cento, periodo tratteggiato come di accordo in seno al ceto dominante municipale e
tra questo e la dirigenza pontificia.
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IL PONTEFICE, LA GUERRA E LE FALSE NOTIZIE 111

turale per scrivere una historia come da canoni umanistici, Maturanzio scel-
se volutamente di redigere una cronaca in volgare, apparentata peraltro in
alcuni punti al genere della novellistica20. Una scelta certo non scaturita da
motivi di prudenza politica (il testo riporta giudizi durissimi nei riguardi sia
dei Borgia sia del ceto dirigente perugino), ma forse esito obbligato delle
difficoltà che lo ‘scrivere storia’ umanistico comportava nei primi anni del-
le guerre d’Italia. Lo scrivente ebbe la consapevolezza che tra gli eventi mu-
nicipali, quelli del territorio pontificio e i fatti internazionali esisteva un
profondo intreccio; tuttavia – data la sua collocazione comunque periferica
e la mancanza di buone fonti di informazione – non era in grado di coglie-
re volta per volta le circostanze che legavano un evento all’altro. La strate-
gia discorsiva che egli scelse fu allora la giustapposizione in sequenza di
blocchi narrativi: un brano dedicato ai protagonisti internazionali delle vi-
cende (Francesi, Spagnoli), uno agli stati italiani (Milano, Napoli, Venezia,
Firenze), le mosse del pontefice – e, da un certo punto in poi, del Valentino
–, infine gli eventi locali: umbri in primo luogo, ma pure marchigiani, la-
ziali e ovviamente romagnoli. Il passaggio da un blocco all’altro fu effet-
tuato per il tramite di pericopi di collegamento, alcune delle quali, più ge-
neriche, servivano semplicemente a connettere tra loro brani posti in suc-
cessione («et ancora voglio sappiate», «et per non essere nel mio araccon-
tare troppo lungo e prolisso»), altre invece rivelavano l’attenzione posta
dallo scrivente al rispetto, per quanto possibile, della cronologia degli e-
venti e pertanto tradivano l’impostazione caratteristica dei quadri organiz-
zativi della cronachistica, che contemplava la coincidenza tra l’ordine del
discorso e l’ordo temporum: «et tornando al nostro proposito», «però in-
tendo alquanto tornare indrieto e recontarve alcun’altra cosa occursa in Ita-
lia in questo tempo», e così via. Questi tipi di sequenza traducevano nella
trama del narrato la molteplicità dei piani che si intersecavano, ovviando in
qualche modo alla mancata intelligenza delle cause generali e specifiche.
Quelle cause che sarebbero al contrario dovute figurare in primo piano se
la forma scelta fosse rientrata nel genere della storiografia umanistica.

3. Spiegare l’incomprensibile: le «calamità» e le «novelle»

Diversi per esperienze e formazione culturale, i quattro cronisti risul-


tavano accomunati dall’appartenenza a un’area ben circoscrivibile di per-

20 Come nel caso del racconto del comportamento immorale di Lucrezia Bor-
gia, definita «la maggiore puttana di Roma […] Onde so’ satisfatto d’averne ditta ta-
le gintilezza, benché l’abbia raccontata cum brevità, ma serà bona per metterla de le
Centonovelle» (p. 73 dell’edizione).
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112 ERMINIA IRACE

sonale amministrativo municipale formato da notai e cancellieri, aduso alle


pratiche di scrittura; un’area che, per quell’epoca, si è soliti individuare con
il riferimento alla formazione umanistica (ma l’unico cancelliere umanista
in questo caso fu Maturanzio)21; soprattutto un ambiente che era legato per
tradizione alla scrittura della storia cittadina. Numerosi e ricchi di spunti so-
no gli interventi recenti che hanno ricapitolato le caratteristiche della me-
morialistica cittadina nell’Italia tardomedievale22. La tipologia della crona-
ca municipale aveva nella città il suo oggetto principale e all’universo del-
la città e dei suoi conflitti riconduceva per via di tecnica narrativa il rac-
conto degli eventi che esulavano, eppure venivano a incontrarsi, con lo svol-
gimento della quotidianità locale. Tale impianto urbanocentrico costituiva
la traduzione testuale dell’orizzonte di attese e di percezioni che consenti-
va ai cronisti di spiegare gli accadimenti a se stessi e ai propri lettori. Era,
in altri schematici termini, un modo per interpretare quanto via via andava
svolgendosi, darsene ragione e, spesso, esortare all’intervento in una dire-
zione o nell’altra. Nell’Italia centrale del secondo Quattrocento, la crisi de-
gli ordinamenti comunali stava solo faticosamente evolvendosi in direzione
di assetti istituzionali di tipo statuale; in Umbria in particolare tali trasfor-
mazioni furono scandite da violenti scontri fazionari e intercittadini. Entro
questo quadro, la dimensione esplicativa del reale, il criterio unificatore dei
vari discorsi sulle città e la loro storia fu uno: il racconto delle lotte di fa-
zione. Scrivere una cronaca si identificava con lo scrivere delle «civiles dis-
sensiones», dei loro protagonisti e delle loro modalità. Si trattava, nella
realtà dei fatti, di discordie civili assai diverse da quelle che avevano se-
gnato le vicende cittadine del secolo XIV: le trecentesche risultando in-
scritte nelle dinamiche del potere e nei meccanismi della lotta politica che

21 Cfr. almeno E. GARIN, I cancellieri umanisti della repubblica fiorentina da


Coluccio Salutati a Bartolomeo Scala, ora in ID., La cultura filosofica del Rinasci-
mento italiano. Ricerche e documenti, Firenze 1992, pp. 3-27; Leonardo Bruni can-
celliere della Repubblica di Firenze, (Convegno di studi, Firenze, ottobre 1987), a
cura di P. VITI, Firenze 1990; A. BROWN, Bartolomeo Scala (1430-1497) Cancellie-
re di Firenze. L’umanista nello stato, tr. it. a cura di L. ROSSI, Firenze 1990.
22 G.M. ANSELMI, La storiografia delle corti padane, in La storiografia uma-

nistica cit., I, pp. 205-232; J. GRUBB, Corte e cronache: il principe e il pubblico, in


Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età mo-
derna, a cura di G. CHITTOLINI-A. MOLHO-P. SCHIERA, Bologna 1994, pp. 467-481;
F. RAGONE, Giovanni Villani e i suoi continuatori. La scrittura delle cronache a Fi-
renze nel Trecento, Roma 1998; A. MODIGLIANI, Signori e tiranni nella «Cronica»
dell’Anonimo Romano, «Rivista Storica Italiana», 110, 2 (1998), pp. 357-410; M.
ZABBIA, I notai e la cronachistica cittadina italiana nel Trecento, Roma 1999; G.
SEIBT, Anonimo Romano. Scrivere la storia alle soglie del Rinascimento, ed. italia-
na a cura di R. DELLE DONNE, Roma 2000.
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IL PONTEFICE, LA GUERRA E LE FALSE NOTIZIE 113

si svolgevano all’interno dell’universo urbano, le quattrocentesche derivan-


do i propri connotati dall’inserzione ormai matura di un protagonista ester-
no, lo Stato e le sue ramificazioni istituzionali e di patronage. Al contrario,
i cronisti del tardo Quattrocento intesero offrire una lettura delle fazioni dei
propri tempi tutta all’insegna della continuità e, si potrebbe dire, della suc-
cessione genealogica rispetto alle «dissensiones» del secolo precedente. La
durata attraverso il tempo e pertanto l’individuazione della lotta fazionaria
quale connotato fisiologico della vita urbana costituivano in tal modo le vie
che consentivano una descrizione dei fatti a un tempo forte e fondata sul-
l’ordine cronologico e dunque logico. Ma se le discordie civili rappresenta-
rono l’oggetto immediato dei racconti cronachistici, un altro e più vasto li-
vello di inquadramento della realtà fu occupato, lungo la seconda metà del
Quattrocento, dal timore dell’espansione ottomana e dallo scontro che pa-
reva profilarsi imminente tra la cristianità e il mondo islamico. Presenti nel-
le narrazioni memorialistiche perché costantemente evocate sullo sfondo, le
notizie che si rincorrevano circa il pericolo turco – le quali avevano in Ve-
nezia una delle principali casse di risonanza, ma che d’altro canto potevano
essere ricavate anche dalla lettura dei testi profetici – mobilitarono le co-
scienze fin nei luoghi più remoti della penisola, presentandosi come l’ag-
giornamento della tradizionale idea di crociata e nel contempo come il se-
gno da intepretarsi alla luce di visioni millenaristiche della storia. La capa-
cità di presa, già di per sé forte, di questi richiami era moltiplicata dalla in-
sistente menzione dello spettro turco che operava nell’attività dei predica-
tori itineranti, in specie nei decenni finali del secolo, e dai tentativi esperiti
dai pontefici, tra i quali anche lo stesso Alessandro VI, volti ad organizzare
una spedizione dei principi europei (tentativi che la storiografia ha varia-
mente giudicato). La costruzione del discorso cronachistico finiva pertanto
per organizzarsi su due piani, entrambi caratterizzati secondo uno schema
dualistico e oppositivo: un primo piano locale e ‘italiano’, urbanocentrico e
‘partitocentrico’ (le partes), che scandiva la quotidianità secondo i conflitti
tra una fazione e l’altra, tra una città e l’altra, tra uno stato e l’altro; il secon-
do che identificava la controparte all’interno della «grande partita tra Orien-
te e Occidente»23. Fu tale visione improntata al doppio dualismo che andò in
crisi a partire dal 1494. Ci si aspettava l’ennesima guerra entro l’‘equilibrio’
italiano, oppure si paventava la sempre più vicina invasione turca; passò in-
vece le Alpi il re di Francia.

23 L’espressione è di F. BRAUDEL, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di

Filippo II, II, Torino 1986, p. 845; cfr. pure P. PARTNER, Il dio degli eserciti. Islam e
cristianesimo: le guerre sante, Torino 1997, pp. 141-177. Sulla menzione dei Tur-
chi nella letteratura profetica posteriore al 1453 cfr. R. RUSCONI, Profezia e profeti
alla fine del Medioevo, Roma 1999, pp. 187-209.
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114 ERMINIA IRACE

Nei testi che abbiamo scelto come filo conduttore sono presenti tre ti-
pi di atteggiamento che esemplificano altrettante reazioni che connotarono
la storiografia e la cronachistica dell’Italia del tempo: l’incomprensione to-
tale, la presa di coscienza maturata soltanto a partire dal 1499, infine la let-
tura dei fatti nella chiave del profetismo di sciagure. Il primo atteggiamen-
to si riscontra nella cronaca todina di Gioan Fabrizio degli Atti, il quale per
la sua collocazione sociale e politica avrebbe avuto molte possibilità di le-
garsi a circuiti di informazione extralocali. Egli, al lavoro dal 1495 e per-
tanto in piena calata di Carlo VIII, iniziò trascrivendo nel proprio codice tre
testi – due cronache in latino, una cronaca podestarile trecentesca in volga-
re24 – che consentivano la ricostruzione per sommi capi della storia muni-
cipale a partire dalla fondazione della città e fino al 1322. La presentazione
generale dell’opera, posta a c. 2r del manoscritto25, rimandava alle motiva-
zioni che avevano guidato l’allestimento del codice, le quali andavano ri-
condotte alla preoccupazione dello scrivente nei confronti dei problemi in-
terni della sua patria e alla condizione di decadenza che essa al presente sta-
va vivendo. Arrivato, con la terza trascrizione, all’anno 1322 e non repe-
rendo altri testi per il periodo successivo, degli Atti inserì la cronaca di cui
egli stesso era l’autore e che prendeva le mosse dall’anno 146126. Come ab-
biamo accennato, la famiglia degli Atti era la capofila di una delle fazioni
cittadine; Gioan Fabrizio, tuttavia, non si riconosceva nel comportamento
politico dei propri parenti, che più volte stigmatizzò nel corso della propria

24 Si tratta della Quirini Coloni urbis Tuderis historia, dell’anonima Historia

Tudertine civitatis e di una Cronicha dal 1155 al 1322: questi testi sono descritti,
commentati e editi in Le cronache di Todi cit.
25 «Per universale intelligentia et per adcomodare più a la verità el mio scri-

vare de le cose occurse, de le quale in questo presente volume, farò mentione vul-
garmente de le moderne dopo le antique croniche, ricolte da me Iohanfabritio de
meser Pietro de meser Honofrio Ufredutio de Atti da Tode in varii lochi, dal fun-
damento de la magnifica ciptà de Tode fine al presente dì, in latino et vulgare, non
continuatamente, ma secondo ho trovata memoria digna de fede: a la quale refe-
rendome ho sequitato lo stile, quantunqua non senza dispiacere grande et lacrimo-
si occhi per la mia filiare karità, actendendo un tanto egregio et magnifico populo
de la mia Republica, de stato, de signoria, de nobilità, de virtù et séquito, quale se
allega, honorato, in tanta declinatione abducto sia. Né per questo mancharò exhor-
tare et astrengere sotto l’obligho patriote ciaschuno fidel suo ciptadino amare la
prefata sua Republica et diponare ogni altra passione et voluntà»: ibid., p. 132.
26 «Cronica de la ciptà de Tode, principiata MCCCCLX [ma di fatto le note ini-

ziano dal 1461], brevemente recitata imparte da homini degni de fede de loro etade
et da me scriptore imparte de nostra etade medeximamente scripta et composta et ad
più notitia adfirmata»: ibid., p. 173 (c. 49r del codice).
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IL PONTEFICE, LA GUERRA E LE FALSE NOTIZIE 115

cronaca, sottolineando continuamente, per converso, la necessità di ripristi-


nare la concordia e la pace all’interno di Todi quali necessarie premesse al
ritorno del rimpianto tempo andato e della lontana grandezza trascorsa.
L’occhio del cronista era dunque tutto incentrato sulle condizioni della
città; fu tale prospettiva esclusiva che, traducendosi in appiattimento, gli
impedì di vedere ogni evento o connessione che esulasse dal racconto degli
scontri fazionari locali. Le cinque carte dedicate agli anni borgiani furono
probabilmente redatte qualche tempo dopo i fatti27: brevi, schematiche, le
annotazioni si occupano della dimensione locale, limitandosi ad accennare
alle responsabilità avute dal pontefice nella chiamata del re francese («pa-
pa Alexandro spagnolo fece venire el re de Francia […] onde tucta la Yta-
lia fece mutatione»). La medesima impostazione caratterizza il racconto de-
gli anni posteriori al 1503; solamente a partire dal 1515 circa nel testo pren-
dono a insinuarsi particolari – quali le nascite mostruose, le anomalie cli-
matiche28 – che manifestano la condizione psicologica dello scrivente. Sol-
tanto a quel punto infatti degli Atti sembrò divenire consapevole del «con-
tinuo travaglio» e del «mal vivare» che dominavano «la Italia» e «le tere de
la Chiesa»; solo a quel punto egli cercò di allargare l’orizzonte della pro-
pria narrazione, troppo tardi ormai per ricomprendere nella nuova prospet-
tiva quanto si era verificato nella fase iniziale della «mutatione».
La comprensione degli eventi non immediata, bensì realizzata in corri-
spondenza della seconda calata dei francesi in Italia caratterizza la cronaca
dell’orvietano Tommaso di Silvestro. La spedizione di Carlo VIII fu regi-
strata dallo scrivente in tempo, si potrebbe dire, reale, sulla scorta delle vo-
ci che correvano di bocca in bocca («fu detto», «dissese», «se disse»)29 e
manifestando una prima reazione stupita («parve che fusse volontà di Dio»)
a fronte della velocità dell’impresa e della totale assenza di resistenza da
parte degli stati italiani. La dimora orvietana facilitò a ser Tommaso la com-
prensione delle ripercussioni locali alle mosse di Carlo VIII: rilievo viene
dato alla fuga del papa in Umbria, nel giugno 1495, e al successivo rientro

27 Si tratta delle cc. 57r-58r, cui segue una serie di carte lasciate in bianco, e
poi delle cc. 71r-72v (pp. 176-178 dell’edizione).
28 Cfr. p. 184 e seguenti dell’edizione; per le citazioni che seguono si vedano

le pp. 205, 206, 208.


29 TOMMASO DI SILVESTRO, Diario cit., ad esempio pp. 25, 26, 29 e 36 dell’edi-

zione. La citazione successiva, completa, suona: «Et parve che fusse volontà di Dio
che lo decto re de Francia havesse et optenesse tucta Ytalia et lo reame de Napole
quasi admodum senza colpo de spada, venendo la sua sacra corona da Francia ver-
so Ytalia et intrando Ytalia et segnoregiandola et non avendo alcuno appoghio et da
puoi andandose verso Napole et pigliandola. Fu cosa maravigliosa et credibile che
fusse volontà di Dio»: ibid., p. 33.
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116 ERMINIA IRACE

a Roma. Ma fu negli anni immediatamente successivi che la percezione,


grado a grado, della coincidenza di guerra, cattivi raccolti e diffusione del-
la sifilide convinsero il cronista del fatto che all’altezza del 1494 una sta-
gione inedita si era aperta entro la storia che anche lui, pur semplice spet-
tatore, stava vivendo. Fu soprattutto la sifilide, che lo aveva direttamente
toccato, a colpire l’attenzione di ser Tommaso, il quale, all’altezza dell’an-
no 1498, ricapitolò che l’inizio dell’epidemia e più in generale di tutto quel-
lo che al presente si andava svolgendo era da collocare «quello anno che
passaro li franciosi, cioè lo re de Francia, per lo Patrimonio et andò a Ro-
ma et a Napole, come già n’ò facta mentione»30. Alla costruzione di un bar-
lume di spiegazione di contesto il cronista giunse mettendo in fila gli spo-
stamenti degli eserciti e dei protagonisti delle vicende, vale a dire quel
pressoché continuo andirivieni sul territorio al quale più volte gli capitò di
assistere o di cui gli giungevano notizie31. Chiaritosi il quadro di riferi-
mento, la sua già notevole vocazione alla registrazione si sviluppò ulte-
riormente e il testo prese ad arricchirsi di un numero via via maggiore di
annotazioni riguardanti gli eventi bellici e politici della penisola. Tale at-
tenzione extralocale – vedremo più oltre quali fossero le fonti di informa-
zioni a disposizione del cronista – maturò tuttavia all’interno di un oriz-
zonte di sospensione e di attesa pessimistica del futuro. Di fronte al susse-
guirsi, senza che se ne intravedesse la fine, di fatti negativi veniva a smar-
rirsi il significato tradizionale della storia, la quale non si risolveva più nel-
la dimensione cittadina e, inoltre, si dimostrava aperta verso un futuro i-
gnoto, non prevedibile e pertanto strutturalmente pauroso. In particolare
nelle note del primo decennio del Cinquecento, ser Tommaso pose cura nel
descrivere eventi prodigiosi, quali l’apparizione di comete, di stelle parti-
colarmente luminose e di altri segni celesti o terreni – ai quali riservò an-
che alcuni disegni che intervallano la scrittura – e, insieme, attinse a una

30Ibid., p. 100.
31Così, nel 1508, lo scrivente procedette a fare nuovamente il punto della si-
tuazione, prendendo le mosse dalla diffusione della moda dei vestiti «alla francio-
sa»: «Et tutte queste cose sonno state facte da poi che incomenzaro ad passare li
franciosi et venire in Italia, et quando passò lo re di Francia verso Bolseno et andò
a Roma et da poi ad Napole, che fu del 1494 del mese di dicembre [in effetti, Car-
lo entrò a Roma il 31 dicembre 1494, per poi passare a Napoli nel febbraio 1495],
et da poi ritornò indirieto da Napole et venne pure ad Roma; et allora, in quel tem-
po, papa Alexandro papa sexto se partì de Roma et venne in Orvieto et andò in Pe-
roscia, et da puoi partendose da Peroscia alla passata del re de Francia che fece per
ritornare indrieto et andare in Francia, lo papa per non essere trovato in Roma re-
tornò qui in Orvieto, come già n’ò facta mentione qui nante nelli precedenti quin-
terni»: ibid., p. 361.
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IL PONTEFICE, LA GUERRA E LE FALSE NOTIZIE 117

serie di fogli volanti contenenti testi profetici che venivano alla sua cono-
scenza32. La cronaca orvietana appare, da questo punto in poi, dominata
dall’attenzione dello scrivente al dato anomalo, all’elemento prodigioso,
che tuttavia non costituiscono la traduzione di un atteggiamento forte di ri-
sposta nei confronti degli eventi, in grado di gestirne la portata, bensì rap-
presentano altrettanti momenti di smarrimento angosciato in relazione alle
‘novità’ che puntualmente venivano a presentarsi. Novità che se erano sta-
te inquadrate dal punto di vista politico nella percezione del cronista non
riuscivano a acquisire un senso di grado più generale.
Il ricorso agli avvertimenti profetici, assieme a un’interpretazione della
storia di tipo provvidenzialistico, è viceversa la chiave di lettura che domina
fin dall’inizio la cronaca di Francesco Mugnoni. Lo scrivente fu profonda-
mente influenzato dalle istanze di purificazione spirituale diffuse presso al-
cuni ambienti del francescanesimo, in specie nell’ambito dell’Osservanza,
con i quali egli era in rapporto e i cui esponenti vengono più volte ricordati
nel corso del testo, così come è ricorrente la menzione della predicazione dei
romiti itineranti33. Pur afferendo a filoni culturali differenti, le prediche dei
frati e dei romiti riprendevano temi classici del profetismo apocalittico che
sullo scorcio del XV secolo, come ha sottolineato Giovanni Miccoli, espri-
mevano, oltre che le inquietudini del tempo, il ripiegamento delle idee di
riforma primoquattrocentesche in un ambito ideale esclusivamente morale,
entro il quale (soprattutto nel caso dei romiti) ampio spazio assumeva la po-
lemica anticlericale, dunque l’attacco ai tradizionali vizi del clero quali l’a-
varizia, l’ipocrisia e il lusso34. Tale visione fortemente moralistica della storia
– che nell’area umbra esercitò un’influenza particolare per essere questa un
luogo di tradizionalmente intensa attività francescana – rappresentò il retro-

32 Lo spazio dedicato da ser Tommaso ai testi profetici è stato analizzato con


un taglio prevalentemente storico-antropologico da O. NICCOLI, Profeti e popolo
nell’Italia del Rinascimento, Roma-Bari 1987, pp. 24-44 e 130-138.
33 Nel 1487 il cronista racconta ampiamente della predicazione svolta a Trevi

da Bernardino da Feltre (MUGNONI, Annali cit., pp. 102-105); narra altresì di avere
come padre spirituale un frate minore del convento trevano (pp. 122-123); per i rap-
porti con i membri dell’Osservanza cfr. ad esempio p. 136.
34 Cfr. G. MICCOLI, La storia religiosa, in Storia d’Italia, 2, Dalla caduta del-

l’Impero romano al secolo XVIII, I, Torino 1974, p. 967, e inoltre R. RUSCONI, Pre-
dicatori e predicazione (secoli IX-XVIII), in Storia d’Italia - Annali, 4, Intellettuali e
potere, a cura di C. VIVANTI, Torino 1981, in specie pp. 985-987; per tutta la que-
stione relativa alla circolazione degli scritti profetici, ID., Profezia e profeti cit., ma
pure Les textes prophétiques et la prophétie en Occident (XIIe-XVIe siècles), a cura di
A. VAUCHEZ, Rome 1990. Si veda inoltre Il rinnovamento del Francescanesimo.
L’Osservanza, (Atti dell’XI Convegno Internazionale, Assisi, ottobre 1983), Assisi
1985. Ma in generale, ed anche per notare le differenze con i temi che caratterizza-
vano gli ambienti fiorentini, si veda C. VASOLI, L’attesa della nuova èra in ambienti
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118 ERMINIA IRACE

terra che guidò l’esperienza cronachistica di Francesco Mugnoni, inducendo-


lo ad approntare una batteria di giudizi assai duri già nei riguardi di Innocen-
zo VIII. Papa Cybo venne da lui descritto come personaggio simoniaco, tut-
to dedito ai piaceri della carne e pertanto indifferente ai compiti della sua mis-
sione, rappresentati (e qui riecheggiavano i modelli dualistici invalsi nella
scrittura cronachistica) in primo luogo dalla lotta contro il pericolo turco e,
entro lo Stato, dalla cura del governo delle periferie:

Ecco che avemo papa Inocentio octavo, che ha figlioli et nora. O


Dio, como soporti tanto male, che se dice ogni dì che in corte de
papa publichamente pratica infinite meretrice, che non soliva es-
ser cusì. Si non caste, saltem occulte, questo potrìa fare. Lassamo
stare le simonie che ogiedì regna in corte de quisto papa Inocen-
tio, che omne cosa è facta venale35.

L’indignazione del cronista risultò vieppiù crescente man mano che,


trascorrendo gli anni Ottanta del secolo, egli ebbe modo di ampliare la sua
conoscenza del territorio pontificio, a motivo degli incarichi pubblici affi-
datigli. Spostandosi di luogo in luogo, si convinse che i problemi locali e le
tensioni delle parti fossero integralmente da addebitare alla trascuratezza
del pontefice nei confronti degli obblighi di governo, e che tale trascuratez-
za fosse la conseguenza dell’immoralità personale di papa Innocenzo. Il
rapporto causa-effetto che in tal modo veniva ad instaurarsi tra il compor-
tamento immorale e l’inaffidabilità politica rappresentava un meccanismo
esplicativo funzionante in quanto riduceva la complessità delle situazioni a
uno schema semplice, padroneggiabile e applicabile di continuo. L’inter-
pretazione moralistica consentiva infatti la messa per iscritto delle vicende
lungo una trama che non si risolveva puramente nella narrazione annalisti-
ca: forniva un significato a quanto l’occhio del cronista verificava, ovvian-
do all’ignoranza delle strategie, buone o cattive, che guidavano da Roma
l’andamento degli eventi locali. La lettura ‘morale’, che Mugnoni utilizzò a
pieno regime ben prima della comparsa sulla scena di papa Borgia, su di lui
venne trasferita di peso fin dallo stesso 1494 (la precocità attesta che nel
cronista lo schema preesisteva allo svolgimento dei fatti)36, caricandosi di

e gruppi fiorentini del Quattrocento, in L’attesa dell’età nuova nella spiritualità del-
la fine del Medioevo, (Convegni del Centro di studi sulla spiritualità medievale, III,
Todi, ottobre 1960), Todi 1962, pp. 370-432.
35 MUGNONI, Annali cit., p. 114, ma cfr. pure pp. 106-107, 118, 120.
36 La prima stoccata compare in occasione del passaggio per l’Umbria (giugno

1494) di Lucrezia Borgia, che si recava a Pesaro dal consorte Giovanni Sforza, ac-
compagnata da Giulia Farnese, «femena de papa Alexandro et toltala al marito […]
siché cusì vanno le cose de quisto mundo. Sepe Deus tollerat quos in perpetuum
damnat»: ibid., p. 143.
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IL PONTEFICE, LA GUERRA E LE FALSE NOTIZIE 119

ulteriore livore nel prosieguo degli anni. La discesa di re Carlo fu così in-
terpretata come inevitabile volontà divina, a punizione dei peccati degli uo-
mini: una lettura, questa, assai diffusa in Italia, attestata ad esempio nelle o-
pere di Girolamo Priuli e di Bernardino Corio37. La spiegazione in chiave
soprannaturale dell’evento politico fu resa possibile grazie al ricorso siste-
matico ai testi profetici, tra i quali principalmente figuravano gli scritti at-
tribuiti a santa Brigida e al beato Tommasuccio, la cui fortuna tardoquat-
trocentesca molto dovette all’attività dei predicatori38. Ma anche in questo
caso, come nella cronaca di Tommaso di Silvestro, la venuta dei Francesi
costituiva soltanto l’inaugurazione della stagione successiva, connotata dal
cumularsi di eventi catastrofici, che non sembravano conoscere fine per l’e-
normità dei peccati umani e la continua pravità del pontefice, responsabile
nello spirituale e nel temporale. Riportiamo un esempio di questo tipo di
lettura, ricordando che i testi del beato Tommasuccio comparvero anche in
scritti di rango certo non locale come ad esempio le Historiae di Sigismon-
do dei Conti :

1496 et die VIII de septembre, in festo sancte Marie, stando io


Francisco cancellero di Nocea in nella cancellaria del palazo de
la rocha de Nocea cogitabundo, rememoravo lu beato Tomassuc-
cio in nella sua profitia dove dice

Starrà la gente queta


Et vederasse strugere
Et in omne parte surgere
Morte, guerra et fame.

Et cusì pensando quanto scrive et profetiza Tomassuccio et vedendo


in questo anno la crudele pianeta ch’è in questa infelice età [e qui se-
gue la descrizione degli sconvolgimenti del clima e delle contempo-
ranee epidemie], o Dio, que crudel pianeta corre ogia. Timo assay
quello dice beato Tomassuccio in fine della sua profizia, videlicet

Durarà questa grande rissa


Anni, mesi et tempi
Sinché el cunto adimpi
Et curso de novanta

Dubito che questo non duri insino al cento che finisce el curso de

37 Cfr. GILBERT, Machiavelli e Guicciardini cit., pp. 220-221.


38 In particolare sulla figura e sui testi (che permangono a tutt’oggi una que-
stione aperta) del beato Tommasuccio cfr. M. SENSI, Le Osservanze francescane nel-
l’Italia centrale, Roma 1985, pp. 97-135.
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120 ERMINIA IRACE

novanta [ossia fino all’anno 1500]. Or que farimo? Dio, per tua
infinita misericordia sucurice ad noi, non guardare alli demeriti
nostri. Discese in quisto tempo del mese de septembre 1496 che
el re de Napoli, cacciato dal re de Francia col favore del papa A-
lexandro, apostolico falzo et non captolico, de Dio vero vicario,
et con favore de’ vinitiani et del duca de Milano ha recuperato
Napoli […] Credesi per li intendenti in sino in quisto jurno che a-
bia a durare questa rissa insino al cento39.

La questione più generale in cui l’area pontificia si trovò coinvolta a


partire dalla venuta di re Carlo fu rappresentata dall’apertura pressoché
contemporanea di fronti bellici e di trattative diplomatiche che sovvertiva-
no il contesto invalso fino a quel momento, improntato alla politica delle le-
ghe e ai tradizionali rapporti intercittadini e interstatuali (un quadro per nul-
la pacifico ma profondamente introiettato e accettato come dimensione e-
splicativa della realtà quotidiana)40. Non solo il passaggio dei Francesi, ma
le tensioni fazionario-clientelari a Roma, le strategie borgiane nei riguardi
sia delle famiglie baronali romane sia del collegio cardinalizio – l’inseri-
mento in esso di una serie di prelati spagnoli minacciava di scardinare tra
l’altro anche il patronage locale –, sia infine in direzione del territorio del-
lo stato – culminate queste, infine, nell’impresa del Valentino in Romagna
– produssero una serie di contraccolpi immediati nelle città soggette. Le
tensioni romane si trasmisero in periferia per via delle reti di relazione che
univano la curia, la corte e la città di Roma alle rispettive clientele locali,
riverberandosi nella forma di nuovi scontri fazionari; i territori furono di
continuo toccati dal transito dei contingenti armati; i ceti dirigenti cittadini
vennero coinvolti nel servizio all’uno e all’altro degli eserciti che partivano
in spedizione. Introduciamo qualche esemplificazione, relativa al biennio
1494-1495:

In Cesena caciate forono via parte che avìa lu stato et dato lu sta-
to ad quilli che non l’avìano; chi s’è fugito et chi non; […] in Ro-
magna guerra et in terra de Roma guerra contra el papa Alexan-
dro […] Ecco quanto bene ce governa papa Alexandro sexto: Pe-

39 MUGNONI, Annali cit., pp. 161-162. Per le profezie di Tommasuccio in Con-

ti cfr. SIGISMONDO DEI CONTI, Le storie cit., II, p. 110.


40 Si veda R. FUBINI, Italia quattrocentesca. Politica e diplomazia nell’età di

Lorenzo il Magnifico, Milano 1994 e, per lo Stato ecclesiastico, B.G. ZENOBI, Le


«ben regolate città». Modelli politici nel governo delle periferie pontificie in età
moderna, Roma 1994 e S. CAROCCI, Governo papale e città nello Stato della Chie-
sa. Ricerche sul Quattrocento, in Principi e città alla fine del medioevo, a cura di S.
GENSINI, Roma-Pisa 1996, pp. 151-224.
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IL PONTEFICE, LA GUERRA E LE FALSE NOTIZIE 121

rosia sta et è restata in arme, pose campo ad Asisi, et asisani àn-


no morti tanti homini, come de sopra; tra Asisi et Perosia guerra
mortale; tra spellani, cioè quisti baglionischi, et tra fulignati guer-
ra mortale; tra usciti de Tode et quilli dentro guerra mortale […]
O Dio, que cosa stupenda è questa che tu soporti de tenere quisto
pontifice papa Alexandro in quella Sedia, che tanta guerra se fa in
questa provincia […] non se fanno prigioni, ma lu primo vinto è
morto, non se fa se non occidere l’uno l’altro41.
Il racconto dei risvolti locali era in qualche modo ancora formulabile
(tutti i cronisti, peraltro, sottolinearono l’incrudelimento delle guerre faziona-
rie rispetto al passato). Ma lo sbandamento era totale riguardo ai passaggi de-
gli armati42: «Passò el duca de Calabria et lu conte de Pitigliano […] et con
grande suspecto et in frecta et con paura […] et dicivano volere andare verso
Roma et infrontare contra quisti francesi» (dicembre 1494); oppure, in occa-
sione del transito sul territorio orvietano di Virginio Orsini, nel 1496: «Chi di-
civa che s’era adconcio col re di Francia et chi diciva che aspectava Camillo
Vitello». E ancora, nel 1502, riguardo ai contingenti assoldati dal Valentino:
«Dissese che la decta artiglaria andava ad Foligne, da Foligne a Cammerino,
et chi diciva ad Fiorenza. Finaliter quicquid erit in futurum, io ne farò men-
tione, Deo dante. Adesso non se può intendare dove deve andare lo campo:
chi diciva ad Fiorenza et chi ad Camerino». Allo stesso modo, continuo si pre-
sentava il flusso delle informazioni che, spesso sovrapponendosi tra loro, ten-
devano talora a smentirsi l’una con l’altra. Ad esempio nel caso della cattura
di Ludovico il Moro, nel 1500:
Recordo come venne la novella dello stato de Milano ad questi
giorni proxime passate, come lo duca de Milano era stato preso
dalli franciose et anque lo cardinale Ascanio fratello carnale del
decto duca de Milano dalle gente della Signoria de’Venetiani […]
Et anque se diciva che lo decto signore Lodovico, cioè duca de
Milano, se era attoscato se medesimo con uno anello nello quale
c’era una petra legata advenenata, et da puoi se diciva de no […]
Et anque se diciva come lo re de Francia s’era mosso de Francia
con uno grandissimo exercito et veniva verso Italia43.
Con il risultato, infine, di produrre registrazioni sconsolate44: «Da puoi
41 MUGNONI, Annali cit., pp. 145, 150, 154.
42 Per le citazioni che seguono cfr. ibid., p. 147; TOMMASO DI SILVESTRO, Dia-
rio cit., pp. 48 e 181.
43 Ibid., p. 129. La notizia, errata, della morte e addirittura del suicidio del Mo-

ro ebbe vasta diffusione nella memorialistica italiana.


44 Per quanto segue cfr. ibid., pp. 42 e 181; SIGISMONDO DEI CONTI DA FOLIGNO,

Le storie cit., II, p. 251.


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122 ERMINIA IRACE

non se disse più niente che cosa chiara fusse» [nei giorni che seguirono la
battaglia di Fornovo]; e in merito al Valentino in Romagna: «chi diciva una
cosa e chi un’altra» («incertibus omnibus quonam tenderet, trementibus ta-
men et paventibus populis», scrisse Sigismondo dei Conti riguardo alla
stessa impresa).
Gli eventi che caratterizzarono il pontificato borgiano segnarono la pre-
sa di coscienza della fine della centralità cittadina, di quell’ordinamento men-
tale prima ancora che istituzionale elaborato lungo i secoli comunali. La pe-
riferia pontificia (che solo con quei fatti si rese conto d’esser tale) fu proiet-
tata in una dimensione che la sovrastava per l’ampiezza degli orizzonti geo-
politici e forse pure per la diversità del modo di fare politica che sembrava ca-
ratterizzare il pontefice spagnolo: «Erat Alexander cuiusque rei tam egregius
simulator atque dissimulator ut ex eius verbis et vultu habitum animi nun-
quam deprehendere posses»45. In questa definizione, utilizzata da Sigismon-
do dei Conti dopo la strage di Senigallia, sembra quasi potersi cogliere l’av-
vento di un nuovo e ‘spagnolesco’ (come forse l’avrebbe chiamato Croce) pa-
radigma del comportamento politico. Un paradigma che Maturanzio, scri-
vendo qualche tempo dopo i fatti, tradusse: «Non se poteva sapere cum qua-
le possanza el papa avesse intelligenza e non se podde mai sapere e anco non
se cogniosce, perché ad ognuno mostrò voler essere in lega»; e più oltre, an-
cora con rimando all’abilità dissimulatoria: «Dicevano molti che el papa era
d’accordo cum la maestà de lo re de Ragona; molti dicevano che era d’ac-
cordo cum lo re di Francia, e non si poteva saper certo, né per favore che des-
se ad alcuno di loro, né per altre sperimento o opere». In questo panorama, la
via che fu battuta come uscita dallo sbandamento interpretativo che avrebbe
comportato la fine di ogni possibile messa per iscritto degli eventi, fu rappre-
sentata dal ricorso a tutte le fonti di informazione in grado di ragguagliare sul
dipanarsi dei fatti. Nei testi qui scelti come filo conduttore (non a caso scritti
da notai e cancellieri, costituzionalmente attenti a dar ragione delle proprie
fonti, come garanzia di veridicità del racconto), la narrazione è costruita tra-
mite l’utilizzazione costante e ininterrotta di formule quali «dicesi, dicevasi,
si seppe, venne nuova, venne novella, se disse molte novelle». Le formule di-

45 Ibid., p. 263 e, per le citazioni che seguono, MATURANZIO, Cronaca cit., pp.
12 e 18. Sul tema della simulazione, che Conti utilizza secondo un’accezione nega-
tiva, ma che nella trattatistica quattrocentesca sul principe aveva fatto la sua com-
parsa tra gli attributi necessari al buon esercizio di governo e alla conquista del con-
senso (specie nell’opera di Francesco Patrizi da Siena), cfr. F. GILBERT, Machiavel-
li e il suo tempo, Bologna 1977, pp. 171-208; M. PASTORE STOCCHI, Il pensiero po-
litico degli umanisti, in Storia delle idee politiche economiche e sociali, diretta da
L. FIRPO, III, Umanesimo e Rinascimento, Torino 1987, pp. 51-56; Q. SKINNER, Le
origini del pensiero politico moderno, I, Il Rinascimento, Bologna 1989, pp. 207-
244; M. SENELLART, Les arts de gouverner. Du regimen médiéval au concept de
gouvernement, Paris 1995, pp. 211-230.
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IL PONTEFICE, LA GUERRA E LE FALSE NOTIZIE 123

chiaravano che in quei punti specifici dei testi il racconto era costruito ado-
perando testimonianze orali da un lato, materiali scritti dall’altro, che veniva-
no sempre precisamente distinti46. «Fu ditto», mai poi «fu verificato per per-
sona che venne da Roma», scrive Mugnoni dando notizia della morte del du-
ca di Gandìa47; «vennero certe lectere da Fiorenza – inviate da Alberto Ma-
galotti, orvietano, commissario papale a Firenze – quale lectere fuoro lecte
qua in Orvieto», le quali annunciavano lo svolgimento della battaglia di For-
novo, racconta Tommaso di Silvestro. A Mugnoni, invece, lo scontro di For-
novo arrivò dapprima in forma di ‘novella’, subito registrata nella cronaca;
qualche giorno dopo, tuttavia, lo scrivente tornò sulla notizia trascrivendo u-
na «lista et informazione» che aveva compiuto ben cinque passaggi prima di
giungere fino a lui e che descriveva nei dettagli l’avvenimento. Le voci, le di-
cerie, riportate in forma anonima e collettiva («et vulgus multa dicit», scrisse
uno dei cronisti)48 lungo la trama dei testi si affiancano, si sovrappongono, ta-
lora verificate talora no, all’utilizzazione di quella messe di avvisi e fogli vo-
lanti, la cui produzione prese a intensificarsi proprio sul finire del Quattro-
cento, alla probabile ricezione dei poemetti in ottave dedicati alle guerre d’I-
talia ed alla trascrizione, laddove possibile, di lettere ufficiali che informava-
no i magistrati cittadini di eventi specifici49. Gli scriventi insomma compren-
sero la necessità di spiegare il locale con gli avvenimenti internazionali e cer-
carono informazioni laddove potevano reperirle. Mercanti, pellegrini, corrie-
ri, cavallari, amici impiegati nella curia romana vennero dichiarati latori e ta-

46 Seppure sia improprio parlare per quest’epoca di ‘opinione pubblica’, va no-

tato che: 1) la circolazione delle notizie presupponeva un ambito largo di discussio-


ne e ricezione, entro cui potevano collocarsi pure le strategie della propaganda; 2)
le cronache si prestavano tradizionalmente a funzionare da «collettori dei messaggi
politici», accogliendo tanto i messaggi promananti dalle istituzioni quanto le voci
che circolavano nella società: quest’ultima notazione è di M. ZABBIA, Tra istituzio-
ni di governo e opinione pubblica. Forme ed echi di comunicazione politica nella
cronachistica notarile italiana (secoli XII-XIV), in Pubblica opinione e intellettuali
dall’antichità all’Illuminismo, «Rivista Storica Italiana», 110 (1998), pp. 110-111
(sono ricordati i casi di Dino Compagni e dell’Anonimo Romano).
47 MUGNONI, Annali cit., p. 167; per le citazioni che seguono cfr. TOMMASO DI

SILVESTRO, Diario cit., pp. 41-42, e MUGNONI, Annali cit., pp. 150-152. La circola-
zione delle informazioni risulta essere stata abbastanza rapida: le lettere di Magalot-
ti arrivano a Orvieto il 14 luglio, mentre la battaglia era stata combattuta il giorno 6.
Naturalmente la diffusione diveniva più rapida nel caso di notizie fondamentali nel-
la vita interna dello Stato (morte e elezione dei pontefici) o se la fonte dei cronisti e-
ra pubblica (una lettera ufficiale inviata ai reggitori della città, ad esempio).
48 È ancora Mugnoni: ibid., p. 151.
49 Sulla circolazione dei fogli volanti e degli avvisi cfr. NICCOLI, Profeti e po-

polo cit.; P. SARDELLA, Nouvelles et spéculations à Venise au début du XVIe siècle,


Paris s.d. [ma 1948] (sui rapporti informazioni-attività commerciali); T. BULGAREL-
LI, Gli avvisi a stampa in Roma nel Cinquecento, Roma 1967 (per i decenni suc-
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lora fonti dirette delle notizie riportate – così come imponevano sia le tradi-
zioni della cronachistica notarile sia i precetti dello scrivere umanistico. E tut-
tavia, come ha scritto Ottavia Niccoli, la circolazione delle notizie, lungi dal-
l’essere priva di connotazioni, seguiva immancabilmente strade precise, vale
a dire quelle del potere politico e dei suoi strumenti di propaganda50. L’origi-
ne delle notizie, a motivo delle strette relazioni che saldavano la periferia al-
la capitale, era quasi sempre, direttamente o indirettamente, Roma, che era
peraltro uno dei grandi centri italiani di attività dei menanti. «Le false notizie
– e qui è d’obbligo ricordare le parole di Marc Bloch, che appunto intorno a
una guerra formulò il proprio ragionamento – le false notizie, in tutta la mol-
teplicità delle loro forme – semplici dicerie, imposture, leggende – hanno
riempito la vita dell’umanità. Come nascono? Da quali elementi traggono la
loro sostanza? Come si propagano, amplificandosi a misura che passano di
bocca in bocca o da uno scritto all’altro? Nessuna domanda più di queste me-
rita di appassionare chiunque ami riflettere sulla storia»51.

4. La ‘leggenda nera’

Sulla storia della formazione della ‘leggenda nera’ intorno a papa Bor-
gia condussero un’approfondita riflessione dapprima Pastor e in seguito So-

cessivi); G. MONACO, La stampa periodica nel Cinquecento, in La stampa in Italia


nel Cinquecento, (Atti del Convegno, Roma, ottobre 1989), II, Roma 1992, pp. 641-
651 (e bibliografia citata); ma cfr. altresì A. PETRUCCI, Introduzione a Libri editori e
pubblico nell’Europa moderna. Guida storica e critica, a cura dello stesso, Bari
1977, pp. IX-XXIX. Riguardo alla letteratura cavalleresca come fonte di eventi del-
la contemporaneità politica si veda R. ALHAIQUE PETTINELLI, Storia contemporanea
e tradizioni del genere nella letturatura cavalleresca del Cinquecento, in Storio-
grafia e poesia nella cultura medievale, Roma 1999, pp. 97-117. Sui rapporti tra
strategie politico-diplomatiche tardoquattrocentesche e circolazione delle informa-
zioni (ivi compresa la relativa manipolazione delle notizie e lo sfruttamento delle
‘voci’ anonime) cfr. I. LAZZARINI, L’informazione politico-diplomatica nell’età del-
la pace di Lodi: raccolta, selezione, trasmissione. Spunti di ricerca dal carteggio
Milano-Mantova nella prima età sforzesca (1450-1466), «Nuova Rivista Storica»,
83, 2 (1999), pp. 247-280. È importante, sebbene riguardi il periodo successivo, M.
INFELISE, Gli avvisi di Roma. Informazione e politica nel secolo XVII, in La corte di
Roma tra Cinque e Seicento ‘teatro’ della politica europea, a cura di G. SIGNOROT-
TO-M.A. VISCEGLIA, Roma 1998, pp. 189-203.
50 NICCOLI, Profeti e popolo cit., p. 55; cfr. RUSCONI, Profezia e profeti cit., pp.

131-132. E per altri esempi cfr. B. DOOLEY, De bonne main: les pourvoyeurs de nou-
velles á Rome au 17e siécle, «Annales», 6 (1999), pp. 1317-1344.
51 M. BLOCH, Riflessioni di uno storico sulle false notizie della guerra, cito dal-

l’edizione contenuta in ID., La guerra e le false notizie. Ricordi (1914-1915) e ri-


flessioni (1921), introduzione di M. AYMARD, Roma 1994, pp. 82-83.
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IL PONTEFICE, LA GUERRA E LE FALSE NOTIZIE 125

ranzo52, i quali appuntarono la propria attenzione sui libelli infamanti di-


vulgati tra Quattro e Cinquecento in tutta la penisola contro il pontefice e
trascritti o citati nella memorialistica del tempo, primo fra tutti il Liber no-
tarum scritto dal cerimoniere pontificio Giovanni Burcardo. Per Pastor e
Soranzo il problema da sciogliere era infatti rappresentato dall’opera di
Burcardo, il quale fu testimone diretto dei fatti e degli ambienti romani, ma
tacque o glissò su molti punti, senza contare che il suo testo, secondo il pa-
rere di molti studiosi, fu successivamente interpolato. A partire da tali que-
stioni, l’analisi filologica condotta dai due storici sfociò nella valorizzazio-
ne dei materiali scritti in circolazione al tempo, cui Burcardo e gli altri me-
morialisti coevi attinsero ampiamente. Secondo Soranzo la malevolenza
che Burcardo fece trasparire nel proprio testo, sia pure in modo prudente,
riguardo ai Borgia andava ricondotta ai di lui legami con alcuni cardinali ro-
mani, attraverso i quali, soprattutto dopo il 1499, egli sperava di ottenere u-
na promozione alla porpora. La lotta antibaronale condotta dal pontefice e
il rimescolamento della situazione a seguito della guerra fecero sfumare
questa attesa, che si tramutò in avversione contro il partito borgiano, tradu-
cendosi nel testo per il tramite della raccolta di voci e di altri materiali che
dipingevano l’immoralità privata e pubblica del pontefice e dei suoi fami-
liari. Dal canto suo, invece, Pastor sottolineò come la violenza degli attac-
chi ad Alessandro e ai suoi figli poggiasse sì su una base di comportamen-
ti non proprio ortodossi e di strategie politiche spesso clamorosamente er-
rate, ma che tali atti e calcoli furono trasformati nel bersaglio sul quale si
concentrò, martellante, la lotta condotta dagli avversari internazionali: i po-
tentati italiani e le monarchie europee. Sotto i Borgia, e certo a motivo del-
la loro «vergognosa condotta», la lotta politica si trasformò in odio aperto,
rivolto contro le persone e espresso «nei termini più intemperanti»53. La dif-
fusione a macchia d’olio dei libelli infamanti – e non soltanto quelli indi-
rizzati contro i Borgia – fu assicurata dal ricorso al nuovo strumento di co-
municazione, la stampa: si sarebbe quasi tentati di affermare che le storie
sociali del libro, che correntemente fanno iniziare dalla Riforma luterana la
stagione moderna delle forme di propaganda politica e religiosa, dovrebbe-
ro aggiungere un capitolo introduttivo ambientato nell’Italia delle guerre tra
Quattro e Cinquecento. Ad ogni modo, la produzione di materiali infaman-
ti trovò pronta ricezione in area italiana, fin nelle periferie remote, anzi for-
se lì in particolare, laddove cioè cronisti alla disperata ricerca di informa-
zioni sugli eventi che si andavano verificando adoperarono a piene mani tut-

52 Cfr. L. VON PASTOR, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, III, Roma
1912, pp. 460-478; G. SORANZO, Studi intorno a papa Alessandro VI (Borgia), Mi-
lano 1950, pp. 34-75.
53 Sono le espressioni di PASTOR, Storia dei papi cit., p. 461.
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126 ERMINIA IRACE

to quello che capitava loro a tiro: dalle profezie (utilizzate come fonti di fat-
ti ‘veri’)54 fino appunto ai veri e propri testi di propaganda: lettere, sonetti
(a stampa e manoscritti), avvisi, fogli volanti e, a partire da tutto questo, di-
cerie che si andavano ripetendo di bocca in bocca.
La produzione dei materiali scritti infamanti si articolò – torniamo al-
le tesi di Pastor e di Soranzo – lungo una cronologia scandita in tre tappe:
1497, 1501, 1503. Nel 1497 avvenne lo scioglimento del matrimonio tra
Lucrezia e Giovanni Sforza, il quale si sarebbe vendicato spargendo male-
volenze, tra le quali spiccava l’accusa di rapporti incestuosi che Lucrezia a-
vrebbe intrattenuto con i fratelli e con il padre. Le accuse sembravano tro-
vare conferma nei fatti realizzati in un breve torno di mesi, che riguardava-
no tutti la cerchia familiare del papa: era già avvenuta la misteriosa ucci-
sione del duca di Gandìa, seguì la rinuncia di Cesare al cardinalato. Faccia-
mo un salto di quattro anni. Era datata 15 novembre 1501 la lettera infa-
mante – trascritta anche da Burcardo, fu anzi il maggiore attacco al papa ri-
portato da Burcardo, che la dice arrivata a Roma, dove la lesse lo stesso
pontefice, dalla Germania – redatta da un anonimo che sosteneva di scrive-
re dagli accampamenti spagnoli di stanza a Taranto. Nell’anonimo Grego-
rovius e Soranzo individuarono uno dei Colonna riparati in quei mesi a Na-
poli55; costui si rivolgeva a Silvio Savelli, esule presso la corte imperiale, al
quale descriveva la situazione italiana. Alessandro VI era definito «proditor
generis humani», «novus Machometus», i suoi tempi erano da interpretare
come quelli dell’avvento dell’Anticristo. Si dichiarava che presso la sua
corte, oltre alla simonia e all’avidità, dominavano gli incesti e gli stupri
(«quot stupra, quot incestus, quot filiorum et filiarum sordes, quot per Petri
palatium meretricum, quot lenonum greges atque concursus, postribula et
lupanaria, maiori ubique verecundia contineri?»), sì da oltrepassare la per-
fidia degli Sciti e dei Cartaginesi, le atrocità di Caligola e di Nerone – no-
tiamo al momento solo per inciso tale rimando a precedenti del mondo an-

54 RUSCONI, Profezia e profeti cit., p. 165, sottolinea come, nell’Italia tra Quat-
tro e Cinquecento, l’attrazione nei confronti dei testi profetici rinvenibile presso
«l’intellettualità minore, legata al ceto mercantile-borghese e cittadino» prenda la
forma della «curiosità segnata da una forte impronta politica» piuttosto che dalle
«attese escatologico-apocalittiche».
55 SORANZO, Studi cit., p. 73, riprendendo una tesi di Gregorovius, sostenne che

la lettera fu scritta da Napoli perché a Napoli risiedevano alcuni esponenti dei Co-
lonna e perché nel testo, pur tra tanti attacchi, nulla si dice di Giulia Farnese (spo-
sata ad Orsino Orsini, e gli Orsini erano in quel momento alleati dei Colonna). L’in-
terpretazione è un po’ macchinosa, ma comunque si può pensare che la missiva, re-
datta nel Regno, passò per la Germania? prima di arrivare a Roma. La lettera è ri-
portata per intero in JOHANNIS BURCKARDI Liber notarum ab anno MCCCCLXXXIII
usque ad annum MDVI, a cura di E. CELANI, RIS2, 32/1, (1912), pp. 312-315, da cui
le citazioni che seguono.
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IL PONTEFICE, LA GUERRA E LE FALSE NOTIZIE 127

tico. Se ne inferiva che le devastazioni conosciute dal territorio italiano e in


particolare dallo Stato ecclesiastico andavano addebitate integralmente al
pontefice e a Cesare Borgia, corresponsabile in solido a motivo delle sue o-
perazioni dentro lo Stato. «Rodericus Borgia – era l’icastica conclusione –
omnium etatum detestabilissima vitiorum vorago et gurges altissimus». In-
fine, l’ultima tappa della battaglia condotta con manoscritti e stampe; iniziò
dopo la morte del pontefice (1503) e proseguì negli anni immediatamente
successivi, l’epoca di Giulio II, avversario dei borgiani. Gli attacchi si mol-
tiplicarono vieppiù, raggiunsero il massimo grado di accuse: la morte di A-
lessandro e di Cesare, attribuita al veleno, fu descritta come evento demo-
niaco; parallelamente si diffuse a tutti i livelli la diceria che il pontefice fos-
se un marrano.
Tutta la propaganda antiborgiana bollò costantemente il pontefice di si-
monia e di venalità, ripetendo accuse che molto presto avevano iniziato a
circolare e che attraverso quella propaganda trovarono forza di amplifica-
zione e di penetrazione nella società italiana. I materiali in circolazione e-
rano probabilmente di due tipi: uno promanante in qualche modo dagli am-
bienti degli avversari politici dichiarati dei Borgia; l’altro frutto dell’attività
dei menanti, che mettevano per iscritto voci recuperate nella città di Roma
e forse anche nella curia. Nei due casi, rispondenti a motivazioni tra loro di-
verse, il risultato finale era il medesimo: in primo piano figuravano il carat-
tere e il comportamento personale dei protagonisti delle vicende considera-
te di rilievo, valutati con giudizi taglienti e spesso pieni di sarcasmo56. Ma
se le origini delle ‘notizie’ contribuiscono in buona parte a spiegare i termi-
ni ingiuriosi e la piega moralistica di quelle forme di comunicazione scrit-
ta, va altresì notato che tale tipo di argomentazioni riuscì ad avere una faci-
le presa presso i destinatari colti e ‘popolari’ delle informazioni. La comu-
nità dei lettori e degli ascoltatori di questi messaggi – e viene bene il caso
che stiamo esaminando, relativo alla società provinciale pontificia – si pre-
sentava predisposta ad assorbire tipologie della comprensione della realtà
facenti capo a orientamenti morali e fattori soggettivi che risparmiavano so-
fisticati ragionamenti politici e diplomatici. Da un lato l’attacco all’immo-
ralità aveva costituito uno dei temi principali della predicazione tardoquat-
trocentesca di frati e romiti, che tanto successo ebbe nelle città italiane, i cui
disagi e inquietudini portava a esplicitazione sulle piazze. Dall’altro lato,
l’individuazione del ‘nemico’ contro il quale era necessario scagliarsi per
addossargli la responsabilità del malgoverno e del ‘mal vivere’ rappresen-
tava una componente integrante dello schema genealogico degli scontri fa-
zionari che abbiamo visto dominare nelle interpretazioni cronachistiche de-

56 INFELISE, Gli avvisi cit., sottolinea questi particolari per gli avvisi seicente-

schi e rileva come spesso le fonti delle notizie fossero gli ambienti curiali.
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128 ERMINIA IRACE

gli avvenimenti cittadini. Ancora, e in ultimo, si può rilevare che proprio en-
tro le letture cronachistiche delle vicende fazionarie, secondo le linee di una
tradizione ricostruibile almeno a partire dal XIII secolo, l’individuazione
dell’‘avversario’ aveva preso la via dell’attribuzione di specifici vizi socia-
li (l’invidia, l’orgoglio, l’avidità) frutto di inclinazioni soggettive, persona-
li, derivanti dall’influsso demoniaco. In questo senso, è suggestiva la tesi
formulata qualche anno fa da J.K. Hyde, il quale ha sottolineato come nel-
la cronachistica italiana bassomedievale l’applicazione della categoria dei
vizi capitali all’analisi dei fatti politici abbia rappresentato una delle strade
maestre per una spiegazione immanente degli eventi storici, che altrimenti
sarebbero rimasti fuori dal dominio della comprensibilità umana qualora la
loro interpretazione fosse affidata esclusivamente all’intervento divino57.
Nell’Italia tra Quattro e Cinquecento, l’individuazione del responsabile del-
la corruzione politica e morale (a tutti i livelli, come recitava la lettera del
1501) e la sua demonizzazione era una pratica che poteva contare su una
ricca tradizione. Ricorrervi significava non soltanto inscriversi naturalmen-
te in un retaggio culturale; permetteva altresì di ricostituire quell’unitarietà
dell’interpretazione della contemporaneità che pareva essersi perduta nel
1494.
Nei contenuti della propaganda e di conseguenza nella ricezione da
parte dei cronisti locali l’argomento principe fu dunque che l’immoralità
privata spiegava le strategie pubbliche, divenendo il meccanismo di una ge-
nerale spiegazione politica. L’assenza di separazione tra il dominio del pri-
vato e quello del pubblico, caratteristica dell’età premoderna e che proba-
bilmente connotò in modo particolare l’azione politica di papa Borgia – lo
ha notato Paolo Prodi in conclusione del convegno borgiano tenutosi a Pe-
rugia – facilitò l’utilizzazione e la divulgazione di questo topos anche pres-
so i memorialisti che non risentivano particolarmente di orientamenti apo-
calittico-spirituali. Facciamo un esempio, che è poi quello che maggior-
mente ha incontrato fortuna nella storiografia ottocentesca e per conse-
guenza risulta ben noto anche al presente: i rapporti incestuosi tra Lucrezia
e il padre. «Io lascio da parte queste cose, questo però è certo, che il papa
si permette cose smodate e intollerabili»58: così recitava un passo della re-
lazione presentata da un ambasciatore veneziano al Senato nel settembre
1497, relazione riportata da Sanudo. Nel 1497 – e se accettiamo la tesi Pa-
stor-Soranzo, ad opera di Giovanni Sforza – l’accusa di incesto era perfet-

57 J.K. HYDE, Contemporary Views on Faction and Civil Strife in Thirteenth-

and Fourteenth Century Italy, in Violence and Civil Desorder in Italian Cities,
1200-1500, ed. by L. MARTINES, Berkeley-Los Angeles-London 1972, pp. 274-276;
cfr. ora C. CASAGRANDE-S. VECCHIO, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Me-
dioevo, Torino 2000.
58 PASTOR, Storia dei papi cit., p. 377 (e nota 1 per la citazione successiva).
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IL PONTEFICE, LA GUERRA E LE FALSE NOTIZIE 129

tamente formulata e circolante: fu lo stesso Sforza ad affermare al Moro che


il pontefice «non ge l’ha tolta per altro se non per usare con lei» (il collo-
quio fu riportato da un ambasciatore ferrarese). I nostri cronisti umbri rece-
pirono la ‘voce’ dell’incesto in riferimento agli eventi di quell’anno, in spe-
cie Francesco Mugnoni da Trevi, il più pronto ad accogliere conferme del-
l’immoralità del pontefice; il cronista aggiunse pure che «publice se dice»
che Lucrezia fosse incinta del papa e che questo fosse il motivo dell’allon-
tanamento dello Sforza da Roma59. Ora, l’argomento dell’incesto non deri-
vava dalla categoria della lussuria come vizio capitale, anche se ne poté rap-
presentare un allargamento. Le definizioni medievali della lussuria, infatti,
formulate in origine all’interno del contesto monastico, si riferivano a com-
portamenti incontinenti, all’incapacità di conservare una vita casta, senza
per questo intendere per forza l’adozione di comportamenti estremi di de-
pravazione morale60. L’accusa di seguire «costumi oscenissimi», come li
chiamò Guicciardini, rimandava invece a due distinti modelli culturali di-
sponibili a fine Quattrocento. Il primo era lo schema definibile come clas-
sico-umanistico; il secondo lo possiamo provare a chiamare ereticale. Lo
schema classico-umanistico lo abbiamo notato nella lettera infamante del
1501 che paragonava il pontefice a Caligola e Nerone. Veniva costruito uno
stereotipo che equiparava papa Alessandro a exempla negativi dell’antica
romanità, noti attraverso sia i diffusi compendi tardomedievali sia grazie ai
riscoperti testi letterari della classicità; esempi pertanto comprensibili tanto
nell’universo dei colti quanto agli strati mercantil-cittadini. Rinvenire un
precedente o riecheggiare attraverso citazioni il passato classico costituì da
un lato un argomento della propaganda politica, anche quella più banale e
facile: «Sextus Tarquinius, Sextus Nero et iste Sextus, semper et a Sextis di-
ruta Roma fuit», suonavano dei Versus contra papam divulgati nel corso del
150261. Dall’altro versante, la citazione e il riecheggiamento furono moda-
lità più volte adoperate anche in sede storiografica al fine di inquadrare la
figura del pontefice, nell’ambito della ricostruzione di una congiuntura sto-
rica la cui contestualizzazione in un primo momento era sfuggita anche a-
gli osservatori attenti. La definizione di simulatore e dissimulatore applica-
ta a papa Borgia da Sigismondo dei Conti nel libro XIV delle Historiae sui
temporis – il libro nel quale l’autore capovolse in negativo i giudizi enun-
ciati nei confronti dei Borgia fino a quel momento – riprendeva certo i ter-
mini di un lessico politico diffuso, dal quale prese spunto lo stesso Ma-
chiavelli. Ma tale definizione riecheggiava apertamente un passo in cui Sal-
lustio aveva inteso riassumere il carattere di Catilina («Animus audax, sub-
dolus, varius, cuius rei lubet simulator ac dissimulator, alieni adpetens sui

59 MUGNONI, Annali cit., p. 166, maggio 1497.


60 CASAGRANDE-VECCHIO, I sette vizi cit., pp. 149-180.
61 Riportati nel Diario di TOMMASO DI SILVESTRO cit., p. 217.
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130 ERMINIA IRACE

profusus, ardens in cupiditatibus»)62. D’altro canto – alla fine di un’intera


stagione di riflessione storiografica – Guicciardini riutilizzò per il suo ri-
tratto di papa Borgia la descrizione che Livio aveva tratteggiato di Anniba-
le, la quale culminava asserendo che nell’uomo (Annibale, ma pure Ales-
sandro: entrambi peraltro accomunati dal fatto di aver mosso dalla Spagna
per venire in Italia) grandi qualità si erano unite a mostruosi vizi63. Nell’u-
tilizzazione storiografica dei modelli classici vi era ovviamente moltissimo
dell’attenzione umanistica alla delineazione del carattere dei protagonisti
della storia; la propaganda si muoveva su piani del tutto differenti, finaliz-
zati non alla riflessione bensì alla polemica nei confronti di un obiettivo da
centrare. Ma in entrambi i casi, pur così diversi, la citazione di esempi clas-
sici conduceva a inquadrare l’inedito e l’inaudito – l’apparentemente in-
spiegabile – nella storia madre di tutte le storie, quella romana, il cui senso
era stato dato dagli storici pagani e ripreso dalla tradizione cristiana. Allu-
dere ai precedenti diveniva in questo modo la via per conferire significato
alla complessità sfuggente del mondo contemporaneo.

5. Alessandro VI, il ‘papa marrano’

Nello schema umanistico l’allusione a exempla antichi finiva per defi-


nire il pontefice come incarnazione del male. Ma su questa conclusione
convergeva anche l’altro schema rinvenibile nei contenuti della propaganda
e delle notizie riportate negli avvisi, che era stato elaborato per gradi lungo
gli ultimi secoli medievali. In verità, questo secondo divenne uno schema
nel momento in cui fu applicato alla figura del pontefice, poiché si trattava
della confluenza di motivi aventi origini e campi di applicazione tra di loro
differenti. In primo luogo e probabilmente a monte di tutto era l’accusa di
immoralità (o non moralità) come carnalità, da intendersi in senso genera-
le, vale a dire come attaccamento eccessivo ai beni terreni: le ricchezze, cer-
tamente, ma pure la famiglia, i membri della famiglia. In questa accezione,
l’accusa di carnalità costituiva un tradizionale attacco indirizzato contro le
pratiche del nepotismo ecclesiastico64. Tra i numerosi pontefici imputati di
62 È Catilinae con. 5, 4, ricordato, in ultimo, in riferimento ai modelli machia-
velliani, in NICCOLÒ MACHIAVELLI, Il Principe, nuova edizione a cura di G. INGLE-
SE, Torino 1995, cap. XVII, 9, p. 110, nota 2. Merita ricordare che Alessandro VI fu
raffigurato come il massimo esempio contemporaneo dell’arte dell’inganno politico
nel cap. XVIII del Principe.
63 Questa ripresa liviana di Guicciardini è esaminata come esempio della tec-

nica narrativa della storiografia rinascimentale in P. BURKE, The Renaissance Sense


of the Past, London 19702, pp. 108 e 131-132. Il ritratto del pontefice è contenuto
nel libro I, cap. II della Storia d’Italia.
64 A titolo di esempio, tra i molti possibili, parla di «carnalità» in questo senso il
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nepotismo (o meglio, di un eccesso di nepotismo), l’indiziato sul quale si ap-


puntò un maggior numero di accuse, fin dai suoi contemporanei, fu, è noto,
proprio papa Borgia. Un buona parte dei giudizi formulati su di lui divenne-
ro più aspri, quando non mutarono del tutto, allorché – tra 1501 e 1502 – par-
ve divenire palese la sua volontà di costruire uno stato per il figlio Cesare.
La disponibilità a distruggere lo Stato ecclesiastico pur di consentire ai di-
segni del Valentino fu l’elemento su cui si giocò definitivamente, stando al-
meno al testo, il consenso che fino a quel momento aveva guidato la rifles-
sione memorialistica di Sigismondo dei Conti, il quale chiuse il libro XIV
con la seguente conclusione epigrammatica: «Haec memoratu digna gesta
sunt Alexandro Sexto Pontifice Maximo; qui, si filios non habuisset aut filiis
tantum non indulsisset, maius sui desiderium reliquisset»65. «Aveva figlioli
bastardi assaissimi e tutti li voleva benefiziare, come è consueto fare a li
suoi», scrisse Maturanzio ricapitolando i termini della questione che parti-
colarmente era riuscita scottante ai sudditi pontifici; ma gli esempi di tale ti-
po di invettive si potrebbero moltiplicare. Se questo era dunque un primo ti-
po di argomentazione, nei contenuti della propaganda antiborgiana la carna-
lità come attributo personale connaturato all’eccesso di pratiche nepotistiche
sfumava, fino a confondersi, nella dimensione dei più determinati compor-
tamenti immorali. Le concubine, quindi, le reiterate feste aperte alle donne
nel Palazzo apostolico fino, in un crescendo, alla relazione con Lucrezia. Qui
il modello era esile e tuttavia preciso al tempo stesso. Comportamenti di
questo genere avevano figurato infatti tra le accuse che erano state rivolte fin
dalla trattatistica del XIII secolo contro gli eretici, la demonizzazione dei
quali era passata appunto anche per l’attribuzione di licenze sessuali di ogni
tipo, quali l’incesto66. Nelle notizie infamanti l’attacco era privato del suo
contesto originario, per cui l’utilizzazione dell’argomento nella ricezione dei
cronisti locali si fece pura invettiva moralistica o talvolta quasi pettegolezzo.
E tuttavia non esercitò per questo un peso meno forte. Il rinvio per quanto
indistinto a una dimensione ereticale portava implicitamente con sé il rie-
cheggiamento della figura del ‘papa eretico’67: una questione che era stata
ben presente nei dibattiti quattrocenteschi sia sul fronte della riflessione

trattato di Landolfo Colonna, dedicato a Giovanni XXII, ricordato in ultimo in S.


CAROCCI, Il nepotismo nel medioevo, Roma 1999, p. 148.
65 SIGISMONDO DEI CONTI DA FOLIGNO, Le storie cit., II, p. 282. Per la citazio-

ne che segue: MATURANZIO, Cronaca cit., p. 4.


66 G.G. MERLO, Contro gli eretici, Bologna 1996, pp. 56-57, riporta e com-

menta, ad esempio, un passo del cistercense Cesario di Heisterbach.


67 R. MANSELLI, Il caso del papa eretico nelle correnti spirituali del secolo

XIV, ora in ID., Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo. Studi sul france-
scanesimo spirituale, sull’ecclesiologia e sull’escatologismo bassomedievali, intro-
duzione e cura di P. VIAN, Roma 1997, pp. 129-146.
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132 ERMINIA IRACE

teologica e giuridica del conciliarismo sia nelle posizioni intransigenti cir-


ca la decadenza della Chiesa sostenute dai fraticelli e in seguito probabil-
mente ancora rinvenibili nella predicazione dei romiti itineranti. Appunto
nella predicazione ‘irregolare’ del tardo XV secolo il martellante ribattere
sulle pratiche immorali invalse nel mondo ecclesiastico e nella corte ponti-
ficia (lussuria, simonia, frodi, rapine) adombrava l’estremo e involuto esito
della questione originaria, ben più complessa sotto il profilo dottrinale, del
‘papa eretico’. Nell’impianto apocalittico di tale tipo di predicazione l’evo-
cazione dell’eresia veniva così di fatto ad affiancarsi con il preannuncio del-
l’avvento dell’Anticristo cui sarebbe seguito, secondo un’interpretazione di
stampo gioachimita, la venuta del ‘pastor angelicus’ e la redenzione finale
del genere umano68.
Ma esisteva un terzo e ultimo filone che rinviava al nesso saldante l’im-
moralità all’eresia: si trattava della polemica antiebraica. L’assimilazione
degli ebrei agli eretici aveva conosciuto una stagione decisiva nel XIII se-
colo; in particolare nella riflessione canonistica, l’ebraismo era stato consi-
derato una species dell’eresia, sebbene di grado più lieve rispetto al vero e
proprio comportamento ereticale69. La predicazione francescana del pieno
e del tardo Quattrocento rinvigorì i termini della polemica, prendendo le
mosse proprio dalle trattazioni canonistiche della materia; l’azione dei pre-
dicatori ebbe tra l’altro proprio in Umbria uno dei luoghi di più intensa at-
tività, conducendo infine alla creazione dei Monti di pietà. Ma in generale,
nelle tematiche dei predicatori si moltiplicarono allora le condanne, oltre
che dell’attività usuraria, dei comportamenti percepiti come contro natura
che venivano attribuiti sia agli ebrei sia, man mano che il secolo volgeva al-
la fine, ai giudaizzanti. Uno di questi comportamenti, se non il principale,

68 VASOLI, L’attesa della nuova era cit., pp. 378-379, menziona passi delle cro-
nache romane e toscane che attestano l’effetto provocato dalla predicazione dei ro-
miti tra 1491 e 1496, ma gli esempi che si potrebbero ricordare sono tantissimi. Sul
tema dell’Anticristo cfr. R.K. EMMERSON, Antichrist in the Middle Age: A Study of
Medieval Apocalipticism, Art and Literature, Seattle 1981; in forma di rapida sinte-
si, B. MCGINN, L’Anticristo, Firenze 1996, pp. 238-272; soprattutto, si veda RU-
SCONI, Profezia e profeti cit., in specie pp. 89-140 e 265-294 (a proposito del ‘Papa
angelico’). La più importante raffigurazione dell’Anticristo eseguita in questo pe-
riodo fu l’affresco realizzato da Luca Signorelli nella Cappella Nova del Duomo di
Orvieto; ma l’‘uso politico’ della figura dell’Anticristo, identificato con papa Ales-
sandro VI, costituiva un tema presente pure negli scritti savonaroliani.
69 D. QUAGLIONI, Fra tolleranza e persecuzione. Gli ebrei nella letteratura giu-

ridica del tardo Medioevo, in Storia d’Italia - Annali, 11, Gli ebrei in Italia, a cura
di C. VIVANTI, I, Dall’alto Medioevo all’età dei ghetti, Torino 1996, pp. 652-657; cfr.
A. FOA, Ebrei in Europa: dalla peste nera all’emancipazione, XIV-XVIII secolo, Ro-
ma-Bari 1992, pp. 25-35.
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IL PONTEFICE, LA GUERRA E LE FALSE NOTIZIE 133

era rappresentato dalla coesistenza in uno stesso territorio di popolazione


cristiana ed ebraica, un dato di fatto che finiva per essere assimilato ad ogni
altro tipo di azione contro natura, quale la licenziosità dei costumi, che de-
rivava a sua volta dalla ‘carnalità’, attributo che pareva connotare l’essenza
stessa del popolo ebraico70. Il riferimento alla macchia rappresentata da
questa carnalità si rinviene, per fare un esempio, nel passo delle Historiae
di Sigismondo dei Conti che descrive l’epidemia di sifilide, causata secon-
do l’autore dall’arrivo in Italia degli ebrei spagnoli. Una lettura, questa, che
ebbe ampia diffusione e che, associando la sifilide alla lebbra e quest’ulti-
ma all’effetto della presenza ebraica tra i cristiani, individuava le proprie re-
mote origini in testi di autori classici quali Flavio Giuseppe o, come ricor-
dato da Conti, Tacito71:
Iudaeorum enim gens, quamvis porco abstineat, prae ceteris na-
tionibus obnoxia leprae est [la lebbra e per estensione tutte le e-
pidemie mortali], ob quam Cornelius Tacitus gravissimus auctor
eam Aegypto pulsam fuisse tradit. Sed maior Sacris Literis adhi-
benda est fides; turpioris autem intemperantiae esse indicio fuit,
quod a genitalibus membris incipiebat.
Il rinvio ‘ebraico’ scattò nella propaganda antiborgiana in coincidenza
col fatto che il pontefice – spagnolo – si dimostrò disposto ad accogliere gli
ebrei espulsi dalla penisola iberica, molti dei quali ripararono a Roma72.
L’antinepotismo tradizionale, le tematiche antiereticali e quelle apocalitti-
che, la polemica antiebraica rappresentarono quattro differenti fonti di ispi-

70 R. BONFIL, Gli ebrei in Italia nell’epoca del Rinascimento, Firenze 1991, pp.

25-30, dove sono commentati passi della predicazione di Bernardino da Siena, Gio-
vanni da Capestrano e Bernardino da Feltre. Ma sul ruolo della predicazione fran-
cescana nella divulgazione degli stereotipi antiebraici cfr., per quanto riguarda il ca-
so del territorio pontificio, le tesi non coincidenti di R. RUSCONI, «Predicò in piaz-
za»: politica e predicazione nell’Umbria del ’400, in Signorie in Umbria tra Me-
dioevo e Rinascimento: l’esperienza dei Trinci, (Atti del Congresso Storico Inter-
nazionale, Foligno, 1986), I, Perugia 1989, in specie pp. 134-141, e di A. TOAFF, The
Jews in Medieval Assisi, 1305-1487. A social and economic history of a small jewish
community in Italy, Firenze 1979, pp. 69-71. Cfr. altresì ID., Il vino e la carne. Una
comunità ebraica nel Medioevo, Bologna 1989, pp. 181-239.
71 SIGISMONDO DEI CONTI DA FOLIGNO, Le storie cit., II, p. 272. Per la connes-

sione ebrei-lebbrosi e per il passo di Flavio Giuseppe cfr. C. GINZBURG, Storia not-
turna. Una decifrazione del sabba, Torino 1989, pp. 10-13. E cfr. A. FOA, Il nuovo
e il vecchio: l’insorgere della sifilide (1494-1530), «Quaderni Storici», 19 (1984),
pp. 11-34.
72 Cfr. A. ESPOSITO, Gli Ebrei a Roma tra Quattro e Cinquecento, in Ebrei in

Italia, a cura di S. BOESCH GAJANO-M. LUZZATI, «Quaderni Storici», 54 (1983), pp.


815-846; A. PROSPERI, Incontri rituali: il papa e gli ebrei, in Gli ebrei in Italia cit.,
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134 ERMINIA IRACE

razione dei materiali utilizzati per dipingere al nero il ritratto del papa e dei
suoi familiari. Si trattava di materiali dalla varia provenienza, ognuno dei
quali dotato di rispettive autonomie argomentative; tutti stavano conoscen-
do una forte riattualizzazione sullo scorcio del Quattrocento e si trovarono
a convergere di fatto intorno alle accuse di eccessiva carnalità e di licenzio-
sità oltre ogni limite. Tale lettura faceva leva su richiami a una tradizione
stratificata e condivisa, che pertanto riusciva a trovare amplissima divulga-
zione, fino a divenire una fortuna interpretativa.
Il 30 dicembre 1501 si svolsero a Roma, nel Palazzo apostolico, i fe-
steggiamenti per il matrimonio di Lucrezia con Alfonso d’Este. Il racconto
particolareggiato (culminante in un’orgia collettiva) che ne scrisse Maturan-
zio, raccolto probabilmente a Roma, dove nel 1502 egli si recò come amba-
sciatore da parte della sua città, riprendeva assai da vicino la descrizione che
di un altro matrimonio di Lucrezia, quello avvenuto nel 1493 con lo Sforza,
aveva fornito il cronista romano Stefano Infessura. Ma se Infessura aveva
concluso stendendo una sorta di velo pietoso («Et multa alia dicta sunt quae
hic non scribo, quae aut non sunt vera vel, si sunt, incredibilia sunt»)73, Ma-
turanzio ne desunse una scatenata invettiva contro Alessandro74:

Questo fu quello che dette eterna fama al santo pastore; questa o-


pera sua fu clemente e degnia […] pure io me temerìa de farne al-
cuna memoria se io credesse che fusse bugia, ma perché la cosa
è tanto devulgata e acciò mio autore e testimonio è el populo non
solo romano ma italiano, però io ho scripto, advenga ad Dio che
la mia coscienzia me rimorda scrivere del summo pontifice tale
cose, pure, per dire appieno la mia opera, scripse quanto avete let-
to e inteso de sopra.

Nel 1502 furono divulgati dieci sonetti, che il cronista orvietano Tom-
maso di Silvestro trascrisse diligentemente senza fornire alcun tipo di com-
mento75. I sonetti celebravano le gesta e le figure dei congiurati della Ma-
gione; i «magnifici signori» vi venivano invitati a estirpare «de Ytalia que-

pp. 495-520; A. TOAFF, Alessandro VI, Inquisizione, ebrei e marrani. Un pontefice


a Roma dinanzi all’espulsione del 1492, in L’identità dissimulata. Giudaizzanti i-
berici nell’Europa cristiana dell’età moderna, a cura di P. C. IOLY ZORATTINI, Fi-
renze 2000, pp. 15-25.
73 Diario della città di Roma di Stefano Infessura scribasenato, nuova edizio-

ne a cura di O. TOMMASINI, Roma 1890, (Fonti per la Storia d’Italia, 5), pp. 287-288.
74 MATURANZIO, Cronaca cit., pp. 188-190. Notiamo che il racconto riportato

in Burcardo si limita a ricordare che i festeggiamenti, prolungatisi fino a notte inol-


trata, si svolsero all’interno del Palazzo apostolico: BURCKARDI Liber notarum cit.,
pp. 310-312.
75 TOMMASO DI SILVESTRO, Diario cit., pp. 213-217.
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IL PONTEFICE, LA GUERRA E LE FALSE NOTIZIE 135

sta secta falsa crudele e piena de onne vitio, a Dio e a tucto lo mondo omai
despecta» – vale a dire i sostenitori del Valentino – ma vi erano anche am-
moniti a guardarsi dal papa:

El barbaro se mostra liberale


A chi vol dar thesoro, a chi el cappello
A chi la metria e ‘l manto pastorale […]
Lo ingannare è sua arte naturale
Et tucti anchor ve mandirà al macello.

Un altro dei sonetti recitava:

Patre del cielo, el tuo popul cristiano


Te scrive et reccomanda la tua fede
Quale è meza smarrita po’ che vede
Ch’in custodia l’ha’ data a un marrano.
El tempio de San Pier facto è ruffiano
Una puctana el governa e possede
Tanto è per certo che qua giù se crede
Che Tu sia facto al papa capellano.
Et già non se può credere altramente
Fa parentati ingiusti e giusti scioglie
Vende la Chiesia. Et Tu Patre el consente?
Per servo te dà el figlio et puoi tel togle
Ad ciò el peccato steril non devente
Lassa la Chiesia tua et tolle mogle
E lui cede alle suoi voglie
Et per havere una puctana a lato
Venderà Te e la fede col papato.
Se hai potentia o stato
O Tu fa’ de costui crudel vendecta
O tucti noi christian Turco ci aspecta.

Tutti i principali contenuti della polemica antiborgiana erano riassunti


in queste certo non brillanti composizioni: la venalità, la simonia, le attitu-
dini simulatorie, l’immoralità nel privato e nel pubblico. Se si concludeva
evocando il pericolo turco, gli epiteti che icasticamente riassumevano la fi-
gura del pontefice erano rappresentati dai termini di barbaro e di marrano.
La categoria di ‘barbaro’ aveva conosciuto un ampio spettro di applicazio-
ne a partire dalla calata dei francesi, dopo che nel corso del Quattrocento
numerosi letterati vi avevano fatto ricorso per designare le culture europee
Cap. 05 Irace E. 99-140 13-09-2002 12:57 Pagina 136

136 ERMINIA IRACE

presso le quali non erano penetrati i valori dell’umanesimo. In particolare,


il tema aveva conosciuto fortuna presso i letterati napoletani della seconda
metà del secolo, che avevano per tale via voluto stigmatizzare il dominio a-
ragonese sul Regno e la corruzione dei costumi scaturita dai troppo stretti
scambi commerciali con i catalani, definiti a più riprese personaggi dai
comportamenti osceni76. «Catalano marrano» fu infatti un altro degli epite-
ti indirizzati contro Alessandro VI dagli scritti di propaganda e rimbalzati
da lì nel dettato di alcune cronache, quali ad esempio quella di Maturan-
zio77. Ma era appunto la qualifica di marrano ad essere la più dura, riferita
come fu al romano pontefice.
Nella Cronaca di Perugia di Francesco Maturanzio l’epiteto di marra-
no, rivolto al pontefice e ai suoi sostenitori, torna moltissime volte. Il ter-
mine, del quale non è fornita alcuna spiegazione, è utilizzato per alludere
alla radicale malvagità del papa, «del quale natura era volere vedere Italia
destrutta […] vedere la ruina de Italia»78. A partire da tale presupposto è co-
sì inquadrata e addossata ad Alessandro la venuta dei Francesi e poi degli
Spagnoli, gli scontri con i potentati italiani e tutte le lotte fazionarie inter-
ne allo Stato ecclesiastico. Per converso, il testo indugia nella celebrazione
di alcuni eroi in positivo, soprattutto i seguaci della fazione perugina dei
Baglioni sopravvissuti alla strage familiare del 1500. L’esaltazione di co-
storo, derisi da tutta la città e braccati dagli stragisti che ne volevano la mor-
te, culmina nel loro paragone con «li discipule de Cristo» svillaneggiati «da
li giuderi» dopo la cattura del Maestro. Il panegirico dei baglioneschi ha va-
lore non soltanto cittadino, ma statuale; costituisce uno dei punti del soste-
gno espresso dal cronista ai gruppi dirigenti delle città pontificie sul cui go-
verno pendeva la minaccia dei disegni politici dei Borgia. Uno dei brani
fondamentali del testo è, ovviamente, la descrizione dell’impresa del Va-
lentino («figliolo marano» del «marano pontefice») in Romagna; condotta
da un esercito il cui nerbo era costituito da «spagnioli marani vere inimici
de li Italiani» – a onor del vero, va aggiunto che anche i francesi di stanza
in Italia sono appellati «veri inimici del sangue italiano». Il racconto ha il
suo acme narrativo nella descrizione della presa da parte dell’esercito bor-
giano («li crudi marrani») della rocca di San Leo, cui seguì uno scontro tra

76F. TATEO, Il ritorno della barbarie, in ID., I miti della storiografia umanisti-
ca, Roma 1990, pp. 81-98. Cfr. anche A. BORST, Barbari, eretici e artisti nel Me-
dioevo, Roma-Bari 1988, pp. 15-28 (il capitolo Barbari: storia di un luogo comune
europeo).
77 Può essere un particolare interessante notare che TOAFF, Alessandro VI cit.,

p. 23, segnala la presenza tra i ‘familiari’ di papa Borgia di ebrei catalani (medici,
astronomi e banchieri). Ma cfr. pure A. FOA, Un vescovo marrano: il processo a Pe-
dro de Aranda (Roma 1498), «Quaderni Storici», 99 (dicembre 1998), pp. 533-551.
78 MATURANZIO, Cronaca cit., pp. 78-80 e, per le citazioni successive, pp. 125,

180, 182, 155, 160, 184, 206.


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IL PONTEFICE, LA GUERRA E LE FALSE NOTIZIE 137

gli uomini del Valentino e i soldati che militavano dalla parte dei congiura-
ti della Magione, i quali ultimi riportarono la vittoria. Il felice, dal punto di
vista del cronista, esito della battaglia è ricondotto all’intervento divino, che
in tal modo punì «le immense crudeltà che facevano [i borgiani] a quelli po-
puli […] e avevano martoregiati li cristiani de onne generazione de tor-
mento e martorio». Quando alcuni frati minori andarono pietosamente a
seppellire «quelli cani [i soldati del Valentino] trovorno che tutte erano cir-
cuncise al modo antico e per questo tutte li lasciarono stare». Era qui il pun-
to culminante delle ingiurie antiebraiche disseminate lungo il testo; le ten-
sioni e i conflitti aperti che avevano caratterizzato le relazioni tra i Borgia e
i signori che dominavano le città dello Stato erano letti alla luce della con-
trapposizione irriducibile tra ebrei e cristiani. In Maturanzio i personaggi
positivi della storia che egli racconta sono protagonisti della politica, loca-
le e statuale, seppure trasfigurati attraverso l’utilizzazione delle tecniche re-
toriche. L’ottica tutta terrena con cui il cronista ricostruì la trama degli av-
venimenti fece sì che al centro della sua attenzione fosse comunque la con-
giuntura politica che segnò le sorti dello Stato e della sua città tra Quattro
e Cinquecento. Ma nel discorso che stiamo conducendo assume particolare
rilievo il fatto che tra i personaggi descritti nella Cronaca spicca Morgante
Baglioni, una figura di ambito locale alla quale lo scrivente dedicò un lun-
go elogio post mortem. Un elogio che ascriveva al personaggio tutte le virtù
opposte ai vizi incarnati da papa Borgia: «Mai alcuno signiore ebbe tante
virtù»; «era laudato insino da’ suoi inemice»; «mai non podde in esso ava-
ritia et denare»; «costui non arìa voluto mai essere stato rechiesto de alcu-
na simonia – nel significato, traslato, di corruzione – e chi di ciò li avesse
parlato, suo capital nimico deventava»; e infine, con un inevitabile richia-
mo classico: «onde costui fu più iusto che non fu Numma Pompilio, che per
sua vera iustitia li Romani lo fecero loro re»79. Viceversa, nel cronista di
Trevi Francesco Mugnoni l’esito ultimo della ricezione della campagna dif-
famatoria antiborgiana andò oltre la comprensione del quadro politico,
giungendo a tratteggiare precisi modelli di perfezione spirituale. L’eroe po-
sitivo di Mugnoni fu anch’esso un antiBorgia, nel senso della personifica-
zione di caratteristiche del tutto opposte a quelle malvagie del papa: si trat-
tava del ministro generale dell’ordine francescano Egidio d’Amelia, che il
cronista vide nel corso di una solenne cerimonia avvenuta nel febbraio del
1502:

Homo de grande santità […] me pariva fusse uno altro sancto


Francisco; non saccio dire né scrivere quella santità mostrava qui-
sto homo, tanto me ce spicchiai. Quisto è quillo homo se crede sia

79 Ibid., pp. 197-200. È a questo punto che il cronista ricorda di aver scritto

(«per me ser Francesco Matarazzo») un elogio del defunto.


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138 ERMINIA IRACE

virgine et de grande santità. Ha reducti tucti li frati conventuali de


sancto Francisco ad vita et habitu como li frati de Sancta Maria
delli Angeli, et vivono in comune et omne cosa hanno missa in
comune et non vole che niuno frate abia in particulare. Severo in
iustitia, fa cose miravigliose contra chi non vole stare socto la sua
disciplina. Le monache de santa Chiara l’à ben gasticate de paro-
le et dove c’è bisognato facti l’à facti. ‘Alle poste in grande ab-
stinentia de vestire, de conversatione con seculari et de parlare
non possono ad seculari se non ce sonno due presenti, et allo di-
vino offitio ànno auto grande ordine, et multe più cose che dire
non posso che è troppo longo. Item è oppinione de multi che ser-
ragia presto cardinale et poi papa80.

In definitiva: simoniaco, venale, immorale, incestuoso, simulatore,


marrano; in ultimo, e non avrebbe potuto essere altrimenti, perché si trat-
tava del termine che riassumeva in una parola tutti i precedenti, il pontefi-
ce divenne creatura diabolica. Il racconto della morte del papa come even-
to demoniaco si formò subito, assai probabilmente proprio a Roma e forse
all’interno degli stessi ambienti curiali. Una testimonianza della precoce e
rapida diffusione di questa lettura ‘diabolica’ dentro e fuori la città di Ro-
ma si rinviene in una lettera che il marchese di Mantova Gian Francesco II
inviò alla moglie in data 22 settembre 1503 (un mese dopo il decesso)81:

Essendo infirmato, cominciò a parlare in forma che chi non in-


tendeva il suo proposito credeva ch’el vacillasse, anchor ch’el ra-
gionasse cum gran sentimento; le parole sue erano: ‘io venirò’,
‘l’è ragione’, ‘expecta anchor un poco’, e da quelli che intende-
vano il suo secreto è scoperto che dopo la morte de Innocentio, ri-
trovandosi in conclave, el patuì col diavolo comprando il papato
con l’anima sua e tra li altri pacti fu ch’el dovesse vivere in Sedia
dodeci anni, il che gli è stato atteso, cum quattro dì de giunta; gli
è anchor chi afferma haver visti sette diavoli nel punto del respi-
ro in sua camera. Morto ch’el fu, il corpo cominciò a boglire e la
bocca a spumare come farìa uno caldaro al focho […] e per ulti-
ma sua fama ogni giorno se gli trovano attacchati li più vitupero-
si epitaphii del mondo.

Fu, è da pensare, la veloce trasformazione del cadavere (si era nel me-

80MUGNONI, Annali cit., pp. 191-192.


81La lettera fu edita da F. GREGOROVIUS, Lucrezia Borgia. Secondo documenti
e carteggi del tempo, terza ristampa, Firenze 1885, pp. 428-429; cfr. PASTOR, Storia
dei papi cit., III, pp. 476-477.
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IL PONTEFICE, LA GUERRA E LE FALSE NOTIZIE 139

se di agosto) a fornire, se pure ce ne fosse stato bisogno, il primo elemento


di costruzione della ‘leggenda diabolica’, che divenne rapidamente autono-
ma e variamente decorata. Il patto con il demonio torna infatti nella versio-
ne che della morte fornì Maturanzio, il quale rielaborò le ‘voci’ che giun-
sero al suo orecchio con un taglio da novella noir, dando vita a una descri-
zione che, anch’essa, costituisce una delle più antiche attestazioni dell’av-
venuta formazione della lettura di papa Borgia come creatura demoniaca:82

De qual morte lui murisse non so bene perché molte dicevano lui
una collo suo duca essere avenenate, ma la verità non se sa. […]
Io non vorrìa alcuna cosa preterire, ma io temo e dubbito de de-
scrivere la morte del papa commo m’è stata narrata: pure, par-
cente Deo, io la descriverò. Commo el diavolo en forma de abba-
te andò al papa e manifestandose chi lui era lo rechiese che an-
dasse con lui perché era suo. Allora el papa replicò che non era
suo né voleva essere; ma el diavolo illo tunc li mostrava una scrit-
ta per mano propria del papa la quale el diavolo aveva ben con-
servata e quella, ad uso de buono procuratore, li fe’ ricogniosce-
re, primo et ante omnia, la quale contineva che sì per sua malizia
el faceva far papa, li prometteva l’anima sua; e el diavolo ancora
li aveva fatta scritta de mano propria farlo papa a certo tempo, ma
el papa non aveva ben letta e imaginata la scritta, che el tempo più
presto iunse che lui non crese; e in questo se redussero a contra-

82 MATURANZIO, Cronaca cit., pp. 222-223. Un precedente del patto col diavo-
lo contratto da un pontefice poteva essere costituito dalla stratificata leggenda fiori-
ta attorno alla figura di Silvestro II, che a fine Quattrocento era nota attraverso gli
scritti di Vincenzo di Beauvais, Martino Polono, Riccobaldo da Ferrara, Platina e
grazie alla cosiddetta Recensio al Liber Pontificalis. Ma la leggenda di Silvestro co-
nobbe pure una riattualizzazione tra 1493 e 1520, allorché il cardinale Bernardino
de Carbajal, titolare della chiesa di S. Croce in Gerusalemme, fece lì apporre un’i-
scrizione che ricordava, in termini assai ambigui, la figura di quel pontefice (termi-
ni che turbarono Montaigne, che la lesse nel 1581: l’iscrizione alludeva all’ascesa
al pontificato ottenuta «non satis rite» e menzionava un non meglio qualificato «Spi-
ritus» che avrebbe avvertito Silvestro delle circostanze della propria morte). Per tut-
ta la questione cfr. M. OLDONI, «A fantasia dicitur fantasma» (Gerberto e la sua sto-
ria, II), «Studi Medievali», s. III, 21 (1980), pp. 493-622: 493-511 (sull’epigrafe);
ID., Gerberto e la sua storia, ibid., 18, 2 (1977), pp. 629-704, e infine ibid., 24, 1
(1983), pp. 167-245. Tuttavia, la versione fornita da Maturanzio pare dipendere da
modelli letterari altri da quelli rinvenibili a proposito di Silvestro, forse da ascen-
denze novellistiche. In ogni caso, l’esistenza di contratti scritti nei casi di patti con
il demonio contava su una ricca tradizione: se ne vedano vari esempi in A. GRAF, Il
diavolo, Milano 1889 (nuova edizione a cura di C. PERRONE, introduzione di L. FIR-
PO, Roma 1980), pp. 158-170.
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140 ERMINIA IRACE

stare e litigare el tempo venuto o no, benché intra loro fusse la


scritta e patte chiare, pure ogniuno era ligista e canonista. Veden-
do el papa esse molestato da sì grande inimico e non trovare ac-
cordo, armosse d’arme forte: ciò fu del corpo de Cristo e de altre
reliquie sante, e per allora el diavolo se partì. Et per poco spazio
de tempo el papa amalò e murì, in modo che dopo la morte sua,
mentre stette in San Pietro, c’era rumore grandissimo la notte e,
dice, uno terribile e gran cane negro sempre andava la notte per
la chiesia e che le Murate non ve potevano né poddero più stare
in quello loco. Et levate che furno da dosso suo li reliqui non fu
più visto né el corpo né el cane e ognie cosa sparì via, si credere
dignium est.

Ma la descrizione dai toni più forti, che forse fu anche quella più au-
tentica perché riportata da un testimone diretto, si rinviene nel testo di Bur-
cardo, il quale, senza evocare la presenza demoniaca, diede un resoconto
freddo della rapida trasformazione del cadavere83:

Il suo viso era divenuto sempre più orrendo e scuro, al punto che
verso l’ora ventitreesima, quando l’ho visto, era del colore di un
panno scurissimo, o se si vuole di un negro. Il volto era gonfio, il
naso era gonfio, la bocca era spalancata, mentre la lingua, rad-
doppiata di dimensioni, riempiva tutto lo spazio fra le labbra: si
trattava di uno spettacolo talmente orribile che tutti hanno detto
di non aver mai visto nulla di simile.

Nessuna salma papale, ha scritto Agostino Paravicini Bagliani, era sta-


ta oggetto di una descrizione spinta fino a questo punto. Se era nelle circo-
stanze della morte che si poteva riconoscere un uomo, il corpo di Alessan-
dro VI confermava ed evocava ancora una volta e definitivamente quelle ca-
ratteristiche di carnalità estrema, di mondanità come manifestazione di lus-
suria che il personaggio aveva certo avuto, ma che erano divenute nella per-
cezione diffusa, e soprattutto nell’ottica visuale degli sbandati sudditi dello
Stato ecclesiastico, l’unico connotato della sua personalità, dunque del suo
pontificato.

83Riporto in passo in italiano così come nella traduzione fornita da A. PARAVI-


CINI BAGLIANI, Il corpo del papa, Torino 1994, p. 231. Le veloci e ripugnanti de-
composizioni dei cadaveri erano ritenute segni delle personalità lussuriose nella
trattatistica sui vizi capitali: CASAGRANDE-VECCHIO, I sette vizi cit., p. 154.
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SEBASTIANO VALERIO

Un’allegoria di Alessandro VI
nell’Eremita di Antonio Galateo

Basterebbe sfogliare velocemente le pagine che gli eruditi di Sei e Set-


tecento riservarono nelle loro compilazioni all’Eremita di Antonio Galateo
per avere un’idea ben precisa dello scandalo che ancora in quell’età poteva
suscitare la lettura del dialogo galateano che ricordava le immaginifiche vi-
cende occorse all’anima di un eremita salentino, condannato agli inferi do-
po una vita di pura e immacolata santità e perciò costretto a «conquistarsi»
il Paradiso, cercando di dimostrare come i santi si fossero macchiati, in vita,
di peccati più gravi di quelli per i quali egli veniva dannato. La temerarietà
dell’opera condizionò pesantemente l’accoglienza riservata al dialogo, sin
dal suo primo apparire, benché di tali polemiche solo qualche labile traccia
si colga negli scritti del Galateo, e sempre in maniera piuttosto mediata e
sommessa. In relazione ad esse è stata anzitutto letta l’epistola ad Antonio
de Caris, vescovo di Nardò. Datata al periodo tra il 1507 e il 1510, quindi a
circa dieci anni dopo il dialogo, la lettera accompagnava il dono di un Car-
men de Diva Cesarea, composto dal Galateo in omaggio al vescovo neriti-
no, quasi a riparazione dell’impudenza di altri scritti. Qui il Galateo si pre-
murava di evidenziare che non vi era alcuna irrisione della santità, nessuna
accusa rivolta ai principi della chiesa perché evidentemente proprio questo il
de Caris aveva rimproverato al letterato salentino in altre circostanze, come
chiarisce subito dopo il Galateo: «Nulli Ecclesiae principes notati; nulla de-
nique improbarum opinionum conficta sunt monstra: ut vel hinc potissimum
arguas, siquid in ceteris meis scriptis merito abs te est improbatum, id totum
ab ingeniosa quadam animi levitate mea nec non poetica, ut ita loquar, li-
centia, cui omnia prorsus licere voluit Horatius processisse»1.
Proprio questa considerazione finale richiama direttamente l’Eremita
nel passo in cui Galateo ribadisce gli stessi concetti, affermando: «Ego poe-
tam agebam, cui fas est idem nunc affirmare, nunc negare»2. Ora resta da
stabilire se in effetti la lettera al de Caris, ad anni di distanza dalla compo-

1 ANTONIO DE FERRARIIS GALATEO, Epistole, ed. A. ALTAMURA, Lecce 1959,

pp. 306-307.
2 ANTONIO GALATEO, Eremita, ed. S. GRANDE, trad. it. L. STAMPACCHIA, Lecce

1875, p. 129. È stata riproposta la medesima edizione, con pesanti mutilazioni, da


E. GARIN in Prosatori latini del Quattrocento, Milano-Napoli 1952. Sto attualmen-
te curando l’edizione critica di questo dialogo.
Cap. 06 Valerio 141-150 13-09-2002 12:58 Pagina 142

142 SEBASTIANO VALERIO

sizione del dialogo, ad esso esclusivamente intendesse riferirsi ovvero se


genericamente in essa Galateo gettasse uno sguardo prospettico alla propria
produzione letteraria. Senza alcun dubbio però in quelle righe Galateo allu-
deva anche al dialogo, perché se altrove aveva espresso dubbi sulla condot-
ta dei pontefici, solo lì in sostanza aveva osato ‘irridere’ la santità. Parreb-
be questo l’unico, pacato accenno a polemiche che invece dovettero essere
di ben altro spessore e che probabilmente condizionarono fortemente la
stessa diffusione manoscritta del dialogo e la sua mancata pubblicazione a
stampa. In un’altra lettera Antonio Galateo tornò a parlare di papi e di pa-
pato in maniera più esplicita, nell’epistola Beatissimo Pontifici Iulio II, in-
titolata de Constantini donatione. Antonio Altamura, nel pubblicare la let-
tera nel 1959, spinto dalla considerazione che nel 1510, anno a cui datava
l’epistola, le polemiche suscitate dal De falso credita et ementita Constan-
tini donatione3 del Valla, a suo avviso, erano pressoché sedate, si chiese: «a
quale scopo il Galateo avrebbe riaccesa una polemica non più attuale?»4. A
dire il vero oggi dubitiamo che quella polemica fosse del tutto inattuale
quando il Galateo5 scrisse questa lettera6, ma certo sappiamo che in essa la

3 LORENZO VALLA, De falso credita et ementita Constantini donatione, ed. W.


SETZ, Weimar 1976.
4 GALATEO, Epistole cit., p. 180. L’epistolario galateano è conservato nel cod.

Vat. lat. 7584, riconosciuto come originale già da Angelo Mai.


5 Per un inquadramento complessivo della figura di Antonio Galateo, cfr. la

voce Galateo Antonio di C. GRIGGIO, in Dizionario critico della letteratura italia-


na, II, Torino 19862, pp. 116-122 e la voce De Ferrariis Antonio di A. ROMANO, in
DBI, 33, Roma 1987, pp. 738-741. Si veda inoltre F. TATEO, Antonio Galateo, in Pu-
glia neo-latina, a cura di F. TATEO-M. DE NICHILO-P. SISTO, Bari 1994, pp. 19-105.
Per un inquadramento della tradizione galateana cfr. P. ANDRIOLI NEMOLA, Catalo-
go delle opere di Antonio de Ferrariis, Lecce 1982; A. IURILLI, L’opera di Antonio
Galateo nella tradizione manoscritta. Catalogo, Napoli 1990.
6 Mariangela Regoliosi ricorda che «La stragrande maggioranza dei circa tren-

ta codici del De donatione valliano appartengono al tardo ’400 o agli inizi del ’500
ed i possessori identificati si dividono in due gruppi, mossi da opposte motivazioni:
personaggi legati al mondo della Riforma protestante, che quindi leggono il Valla in
piena adesione di spirito e spesso radicalizzandone il pensiero – e non è un caso che
la stampa più importante sia stata realizzata nel 1518 da un riformatore luterano co-
me Ulrich von Hutten – oppure qualificati personaggi di Curia o di Chiesa, che si
avvicinano all’opera valliana per conoscere un nemico e controbatterlo a ragion ve-
duta» (M. REGOLIOSI, Tradizione contro verità: Cortesi, Sandei, Mansi e l’Orazio-
ne del Valla sulla «Donazione di Costantino», «Momus», 3-4 [1995], p. 50). L’in-
teresse per l’opera del Valla, a parere della Regoliosi, si riaccende in questo perio-
do, proprio a seguito del consolidamento dello Stato pontificio, voluto dai papi a
partire da Sisto IV. Sull’argomento si vedano pure i seguenti contributi: D. MAFFEI,
La donazione di Costantino nei giuristi medievali, Milano 1964; S.I. CAMPOREALE,
Cap. 06 Valerio 141-150 13-09-2002 12:58 Pagina 143

UN’ALLEGORIA DI ALESSANDRO VI 143

riaffermazione della legittimità del potere papale assume, inevitabilmente,


un senso ambiguo, specie se si pensa scaturita dalla penna di un personag-
gio, come il Galateo, la cui ortodossia religiosa era stata posta in dubbio,
come si è appena visto. La lettera accompagnava l’omaggio di una copia
greca della Donazione di Costantino, tratta da un esemplare antichissimo, a
sua volta proveniente dalla stessa cancelleria imperiale di Bisanzio, a dire
del Galateo, e conservato fino all’invasione turca del 1480 presso il ceno-
bio basiliano di S. Nicola di Casole ad Otranto 7.
Nel 1985 Carlo Vecce riconobbe il codice greco, vergato dal Galateo
stesso, in un manoscritto della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze
e fornì una nuova edizione dell’epistola galateana, anticipandone la data-
zione, ad un periodo antecedente al 15058. L’epistola, che cerca di confuta-
re in vari modi le tesi del Valla, si apre e si chiude con l’esaltazione della fi-
gura di Giulio II, un’esaltazione certo dovuta, retorica, è vero, ma non pri-
va di alcuni originali aspetti. Giulio II ha superato, per l’opera svolta, tutti
i suoi predecessori: «In hac re omnes alios Pontifices, procul dubio, vicisti,
quod ea, quae tua cura, prudentia et impensa non tibi ac tuis, ut plerique fa-
cere soliti sunt, sed Ecclesiae Christi quaesita sunt, immo potius restituta».
Veniva così confermato nella sostanza un giudizio poco lusinghiero sulla
condotta dei pontefici predecessori di Giulio II, che evidentemente, più che
alla chiesa di Cristo erano soliti pensare a sé e ai loro amici e parenti. L’in-
vito e l’augurio che Galateo formula in chiusura della breve lettera è che
Giulio «Ecclesiam romanam per totum orbem terrarum pristinae dignitati
restituat», ancora una considerazione amara sulla decadenza della chiesa

Lorenzo Valla e il «De falso credita donatione». Retorica, libertà ed ecclesiologia


nel ’400, «Memorie domenicane», 19 (1988), pp. 191-293; R. FUBINI, Contestazio-
ni quattrocentesche della donazione di Costantino, «Medioevo e Rinascimento», 5
(1991), pp. 16-91; M. REGOLIOSI, Tradizione e redazioni nel «De falso credita et e-
mentita Constantini donatione» di Lorenzo Valla, in Studi in memoria di Paola Me-
dioli Masotti, Napoli 1995, pp. 39-46.
7 Sulle vicende di S. Nicola di Casole, cfr. G. CAVALLO, Libri e lettori nel mon-

do bizantino, Bari 1982, pp. 157-178; O. MAZZOTTA, Monaci e libri greci nel Sa-
lento medievale, Novoli 1989; mentre sulla guerra otrantina del 1480 cfr. Gli Uma-
nisti e la guerra otrantina. Testi dei secoli XV e XVI, a cura di L. GUALDO ROSA-I.
NUOVO-D. DEFILIPPIS, Bari 1982.
8 L’Altamura avanzò il dubbio che il dono non fosse mai stato recapitato a Giu-

lio II, ma oggi Carlo Vecce ha riconosciuto nel codice 16, 40 della Biblioteca Me-
dicea Laurenziana di Firenze il manoscritto greco del Galateo. Cfr. C. VECCE, An-
tonio Galateo e la difesa della Donazione di Costantino, «Aevum», 59 (1985), pp.
353-360. I brani della lettera che citeremo in avanti, sono tratti da questa edizione.
Vi è infine da segnalare come già uno dei più antichi biografi galateani, G.B. Polli-
dori, avesse sostenuto che la lettera a Giulio II fosse datata al 1506.
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144 SEBASTIANO VALERIO

moderna, messa alla berlina in tante opere galateane ma anzitutto nell’Ere-


mita. Dietro la lode del pontificato di Giulio II e l’augurio a lui rivolto cam-
peggia ben in evidenza dunque l’aperta critica ai suoi predecessori e in pri-
mis al suo diretto predecessore, papa Alessandro VI, al quale le accuse di
nepotismo, di aver perpetrato ingiustizie, di avere mosso guerre sarebbero
state più che calzanti. Nell’epistola Galateo sostiene e ribadisce «nec me la-
tet nonnullos esse qui de Constantini donatione dubitent: mihi semper ea
pro certa et indubitata habita est». Il tono stesso di quest’ultima afferma-
zione, la necessità avvertita di un atto di esplicita sottomissione al potere
papale alimenta, nonostante tutto, il sospetto che l’epistola galateana, oltre
alla espressa difesa della autenticità della Donazione, celi anche un signifi-
cato intrinseco e più personale.
In un codice manoscritto conservato presso la Biblioteca Arcivescovile
di Brindisi9, intitolato Memorie dei Letterati salentini di Giovanni Battista
Lezzi10, erudito brindisino di fine Settecento, a proposito dell’Eremita si leg-
ge: «per quest’opera si vuole che Galateo fosse stato creduto un miscreden-
te e calunniato per ciò in Roma comecché mettesse in burla le cose della Re-
ligione e che per conciliarsi l’animo del Papa scrivesse una lettera a Giulio
II»11. L’atto di riparazione, a detta del Lezzi, non sarebbe dunque stata L’E-
sposizione del Pater Noster, opera volgare del 1507, come invece vollero
quasi tutti gli studiosi più antichi del Galateo12, ma piuttosto una lettera scrit-

9 G.B. LEZZI, Memorie dei letterati salentini, Cod. D 5, Brindisi, Bibl. Arci-

vesc. A. De Leo. Si tratta di un enorme zibaldone di appunti (1176 pagine), per lo


più pronti per le stampe, corredati da un fitto apparato di note, che riporta notizie
biografiche su almeno un centinaio di autori salentini, raccolte, per lo più, da o-
pere già edite. La voce riguardante Antonio De Ferrariis da Galatone, detto Gala-
teo, è alle pagine 317-330. Lo scritto, posto su colonne, contiene, nella colonna in-
terna appunti vari del Lezzi e in quella esterna la trascrizione della Vita Antonii Ga-
latei di Giovan Battista Pollidori ed è datato al 1787. Qui poche righe sono dedi-
cate all’Eremita. Poche pagine dopo, invece, seguono altri brevi appunti su Gala-
teo (pp. 437-438), in cui, appunto, sono conservate le notizie che più ci riguarda-
no.
10 Sul Lezzi (Casarano 1754-1832) si veda G. RIZZO, Gianbattista Lezzi e

Giambattista De Tommasi: due eruditi a confronto, in Settecento inedito tra Salen-


to e Napoli, Ravenna 1978, pp. 60-66; P. ANDRIOLI-NEMOLA, Galateo tra Soria e
Lezzi: un episodio di erudizione zibaldonesca nel Salento di fine Settecento, in Stu-
di in onore di M. Marti, «Annali dell’Università di Lecce, Fac. di Lettere e Filoso-
fia», 9-10 (1977-80), II, pp. 495-517. Sull’attività di copista galateano si cfr. pure A.
IURILLI, L’opera di Antonio Galateo cit., pp. 29, 90-95.
11 LEZZI, Memorie cit., p. 438.
12 Questa ipotesi fu a lungo sostenuta da studiosi e biografi del Galateo. Il pri-

mo fu Domenico de Angelis che ritenne che L’Esposizione del Pater Noster fosse
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UN’ALLEGORIA DI ALESSANDRO VI 145

ta a papa Giulio II. E l’unica lettera indirizzata dal Galateo a papa Giulio II
è appunto l’epistola di cui si è appena detto. Pensare che L’Esposizione del
Pater noster fosse l’atto di espiazione del Galateo per l’Eremita è in effetti
difficile, anche perché se l’Eremita è opera scomoda, opus intemperans o
dialogus caute legendus13, come venne definita nel ’700, certamente L’E-
sposizione non gli è da meno. Non sappiamo, invece, donde abbia desunto
questa notizia il Lezzi: fatto è che anche Giovan Battista Lezzi credette pos-
sibile che l’epistola indirizzata dal Galateo a papa Giulio II non fosse del tut-
to priva di secondi fini e che, evidentemente, la riaffermazione del proprio
credo nella legittimità del potere papale potesse rappresentare un atto ripa-
ratorio, rispetto a quanto contenuto nel dialogo. E a ben leggere l’epistola de
Constantini donatione, la lode di Giulio II avviene rovesciando alcune af-
fermazioni contenute proprio nell’Eremita. Nel dialogo il papa Pietro, fo-
mentatore di guerre, aveva creato le condizioni perché l’eremita dicesse: «at
mortales huc dicunt e terris iustitiam evolasse. Ego illam et hic pariter et il-
lic exstinctam arbitror»14, uno dei luoghi più ‘forti’ del dialogo, in cui il Pa-
radiso stesso veniva riconosciuto come regno dell’ingiustizia. Nella lettera a
Giulio II, Galateo pare tornare sui suoi passi, pur senza negare quanto so-
stenuto nel dialogo: «Ita pacata, ita festa, pace tranquilla et domi et foris sunt
omnia, ut omnes fateantur, te imperante, ex caelo iustitiam rediisse».
Gli anni in cui l’Eremita fu composto furono di travaglio profondo per
tutto il regno aragonese, e per l’intellettualità italiana tutta, chiamata ad un
drammatico confronto con una realtà storica che diveniva sempre meno de-
cifrabile dalla cultura umanistica e quando nel 1496 Galateo pose mano al
dialogo le vicende belliche, legate alla calata di Carlo VIII, non potevano
ancora dirsi del tutto concluse. Galateo non si sottrasse certo al confronto
con la realtà storica e impegnò tutta la sua cultura in esso, esprimendo in
maniera esplicita anche nell’Eremita la preoccupazione per le sorti dell’Ita-
lia. Una lunga galleria di personaggi affolla l’opera: ciò che però oggi ci in-
teressa è analizzare la figura di Pietro, quella del pontefice. Se l’eremita è
il protagonista indiscusso dell’opera, Pietro ne è l’antagonista: è sempre

stata scritta come atto di riparazione «per purgarsi da qualche cattiva opinione in cui
era caduto appresso di molti a cagion di questo dialogo» (DOMENICO DE ANGELIS, Le
vite dei letterati salentini, Firenze 1710, p. 44). La notizia fu quindi ripresa in GIO-
VANNI BATTISTA POLLIDORI, Vita Antonii Galatei, in Raccolta d’opuscoli scientifici e
filologici, Venezia 1733, IX, pp. 289-336.
13 Cfr. POLLIDORI, Vita cit., p. 316: «Opus intemperans, viris sanctis injuriosum,

Religioni, Pietati», mentre l’affermazione dialogus [...] caute legendus si legge sul
frontespizio del cod. D 2 della Bibl. Arcivesc. A. De Leo di Brindisi, opera di Ales-
sandro Tommaso Arcudi, datato al 1714 (cfr. A. IURILLI, L’opera di Antonio Gala-
teo cit., pp. 91-96).
14 Si noti il rovesciamento di questa frase nella lettera a papa Giulio II.
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146 SEBASTIANO VALERIO

presente, è il vero regista, chiama in scena di volta in volta i personaggi del


dialogo, di cui detta i tempi. Le accuse a lui rivolte sono durissime, senza
appello ma sulla sua figura convergono sia le accuse al personaggio evan-
gelico che quelle rivolte alla gerarchia ecclesiastica. Ed è forse qui il nodo
interpretativo più delicato: quante di queste accuse possono davvero essere
riferite al Pietro storico? E quale può essere il senso più intimo delle tante
accuse riferite al Pontefice? Esse, cioè, sono rivolte solo a denunciare la de-
cadenza morale della chiesa, ricordata in capo all’opera, riprendendo le pa-
role dell’Epistolario di Girolamo, tanto care al Galateo e tanto spesso ri-
correnti nei suoi scritti, oppure vi sono accuse più circostanziate?
Se nessuno ha mai potuto avanzare riserve sull’identificazione del per-
sonaggio dell’eremita con il Galateo, altrettanto si può dire della maschera
di Pietro, primo papa e simbolo del papato stesso. La questione, però, se ri-
ferire queste accuse al papato istituzionalmente inteso, ovvero al papa pro
tempore, Alessandro VI, mi pare che possa trovare pronta risposta in una
lettura sinottica dei giudizi su papa Borgia espressi dal letterato salentino,
anche perché le affermazioni contro Pietro portate nell’Eremita, a mio av-
viso, acquistano senso soprattutto se lette in riferimento a papa Alessan-
dro15. Secondo Eugenio Garin proprio in questo tratto risiederebbe l’origi-
nalità del dialogo, non tanto dunque nella sostanza di ciò che l’Eremita af-
fermava, quanto nei toni usati, nella metafora narrativa: «grave cosa, co-
munque, – scrive Garin – che per criticare Alessandro VI egli abbia parlato
di Pietro e Paolo, che egli abbia senza alcun ritegno ironizzato sui nomi più
venerabili della fede». D’altra parte la figura di Pietro apostolo torna spes-
so nell’opera galateana, sempre o quasi con accenti positivi, con sincero ap-
prezzamento. Pietro, accanto a Paolo, è colui che ha fondato col suo sacri-
ficio il regno dei cieli, la celeste patria, secondo un’espressione che ricorre
nell’epistola de neophytis a Belisario Acquaviva16, e che egli aveva utiliz-
zato anche nell’Eremita, riferita genericamente agli apostoli. Lo stesso tra-
dimento di Pietro, così duramente rappresentato nel dialogo17, viene tratta-

15 Cfr. E. GARIN, La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Milano 19942,

pp. 174-177. In particolare si veda quanto scrive a p. 175: «Sotto un velo molto tra-
sparente si combattono la Chiesa di Roma, il Pontefice (era Alessandro VI), gli or-
dini monastici, i sacerdoti e la critica investe anche certi aspetti dogmatici e taluni
modi di intendere la Scrittura».
16 Cfr. l’epistola XXXV Ad Belisarium Aquevivum, in GALATEO, Epistole cit.,

p. 224: «Desinant igitur lacessere Iudaeos, patres nostros, quorum dogmata sequi-
mur, Isaac, Iacob, Mosen, Christum et apostolos illius Petrum et Paulum, doctores
gentium, qui nos docuerunt legem sanctam et orthodoxam, qui sanguine suo, regem
caelorum et illam caelestem patriam nobis pepererunt».
17 GALATEO, Eremita cit., p. 25: «Hoc profecto meruit fides quum ter antequam

gallos cantaret, Christum, qui tibi famem de ventre expulerat negasti aut cum infir-
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to con indulgenza nell’Espositione del Pater Noster: «lo peccato di Pietro


non fo con malignità ma per timore che multe volte merita pietà non ché
perdono»18. Invece l’opera del Galateo è continuamente costellata di riferi-
menti poco lusinghieri alla figura di Alessandro VI, o meglio di Rodrigo
Borgia, perché Antonio de Ferrariis preferì quasi sempre chiamarlo con il
nome al secolo, forse proprio per distinguere quell’uomo dall’istituzione
che indegnamente rappresentava. A Pietro nell’Eremita vengono mosse im-
putazioni molto dure, nella sostanza e nei toni. Scrive Galateo: «Ferreae e-
rant quondam istae quas geris claves, nunc aureae sunt. Istae bella movent,
istae christianam rem publicam perturbant, istae, ut publica vox est, fidem
nostram penitus evertunt, istis orbis non sufficit in predam»19. Queste accu-
se non sono ovviamente riferibili a Pietro apostolo e anzi sembrano volere
indicare la fonte prima dei problemi della Chiesa di fine Quattrocento nel-
la corruzione del papato stesso, accusato da più parti di essere stato fomen-
tatore degli eserciti che invasero l’Italia: sono le chiavi di Pietro che turba-
no la cristianità. Anche in tal senso dunque la politica di Giulio II, indicato
nella lettera a lui rivolta quale pacificatore, giungeva a riparare una distor-
sione indotta da Alessandro VI, perché proprio a Ludovico il Moro e ad A-
lessandro VI il Galateo aveva attribuito la colpa della rovina d’Italia nel De
educatione, scritto del 1504 e dunque prossimo alla datazione proposta del-
l’epistola a Giulio II. Qui si legge: «Carolus cum exercitu suo, Italiam, nul-
la lacessitus iniuria, Roderico et Ludovico suadentibus, invasit»20. E im-
pressiona in Galateo, come anche all’indomani della caduta della dinastia
aragonese, rimanga vivo soprattutto il ricordo di questa vicenda piuttosto
che quello degli eventi che condussero alla rovina definitiva il regno di Na-
poli. Egli individuò proprio in quell’avvenimento, nella calata di Carlo VIII
e soprattutto, credo, nelle alleanze politiche che allora si crearono, la causa
più profonda dei mali della ‘sua’ Italia. Nel De educatione leggiamo: «A-
lexander, seu ille Rodericus, [...] Alphonsum, Ferdinandum ac tandem Fe-
dericum reges, nepotes Alphonsi qui illum et patruum eius summis honori-

mus in fide et incostans senex, pene fluctibus submersus es, aut cum e carcere au-
fugisti aut cum Antiochie inde Romae latitabas in speluncis ne morieris pro eo qui
pro te ut rerum dominus fieres mortus est; qui tibi, etiam fugienti apparuit dixitque
se Romam iturum ut iterum crucifigeretur. Hoc factum est, ut accusaret ingratitudi-
nem, ne dicam perfidiam tuam».
18 Ibid., p. 55. Ancora si legge a p. 25: «Grandis postea coenae factus est co-

mes pro baculo et pera, auratas sellas et locupletissima gazophilacia, mensas ubique
locorum paratas et inemptas dapes, vestes sine impensa habuisti. Omnes te amplec-
tantur, omnes venerantur, omnes adorant, omnes pedes tuos sanctissimos osculant,
ad tua nudati veniunt vestigia reges».
19 Ibid., p. 24
20 GALATEO, De educatione, ed. a cura di C. VECCE, Leuven 1993, p. 74.
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148 SEBASTIANO VALERIO

bus amplificaverant (oh! novum Hispaniae ingratitudinis exemplum!), pa-


trio et avito regno ad mendacitatem reppulit, tot bella machinari coepit, tot
inexplicabiles rerum conditiones, ut earum vix per multa saecula Italia o-
bliviscatur»21. Ancora una volta, insomma, al papa, a papa Alessandro VI,
si rimprovera di machinari tot bella. L’accusa torna ancora al termine del-
l’interessantissima Epistola ad Eleazarum, in cui la vicenda di due re che
con la complicità di un sacerdote rapiscono una bella donna, improvida me-
retricula, è scoperta metafora della situazione politica dell’Italia tardo-
quattrocentesca. La donna, dice Galateo, è l’«infelix Italia, levis, incostans,
in sui perniciem ingeniosa, exterorum amica et quae [...] nunc prostituta ia-
cet»22. E poi aggiunge: «Quis sacerdos? Alexander, seu potius Rodericus,
infausti et Italiae et Hispaniae nominis, qui tot malorum quae patimur exi-
tialia fecit semina, barbaris nationibus Italiam complevit». Questa Italia,
questa donna perversa e vogliosa della propria rovina somiglia molto all’E-
va, personaggio dell’Eremita, definita «levissima et ad credendum facilis et
novarum rerum cupida»23.
Nel dialogo, molto spesso, sono gli stessi beati chiamati in causa da
Pietro a scagliarsi contro il primo papa. Mosè, vero interprete della volontà
divina, invita l’eremita ad allontanarsi da Pietro, perché «longus esset ser-
mo disserere et huic Pontifici gravis; nam eorum quae diximus nihil pror-
sus intellegit ventri tantum serviens, non contemplationi»24. Straordinaria-
mente significativa è la risposta di Pietro: «Qui tua instituta sequuntur ser-
vis servorum serviunt, qui mea dominorum dominis dominantur»25. In que-
sti veri e propri giochi di parole si avverte, distorta, l’eco del titolo papale
di servus servorum Dei, e tornano alla memoria altri passi galateani, come
quello del De educatione nel quale Galateo scrive: «Roma quondam orbis
caput, nunc sentina facinorum, ignaviae servit, gulae, rapinis, libidini et
sceleribus omnibus. Illa est omnium malorum officina in qua servi servo-
rum dominantur et rerum potiuntur»26. I servi servorum che dominano e che
dunque divengono domini dominorum stanno a testimoniare una mutazione
genetica dello stesso potere papale che ha tradito quanto Pietro stesso co-
mandò, come riferisce nell’Esposizione Galateo: si è trasformato da servi-
zio da rendere umilmente agli uomini in nome di Cristo in privilegio da

21 Ibid., p. 56.
22 Epistola XXXIX, Ad Eleazarum, Caesarauguste commemorantem, in GA-
LATEO, Epistole cit., p. 257.
23 ID., Eremita, pp. 116-117.
24 Ibid., pp. 47-48.
25 Ibid., p. 48.
26 Alla decadenza di Roma, per Galateo, pur nelle sue mille affermazioni con-

traddittorie, pare accompagnarsi l’affermazione della «arx et spes altera», cioè Vene-
zia, definita con studiata contrapposizione «omnium bonarum artium officina» (Ad
Loisium Lauretanum, de laudibus Venatiarum, in GALATEO, Epistole cit., p. 74).
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sfruttare politicamente per propri personalissimi fini, come quelli che mos-
sero la politica di papa Rodrigo Borgia. Ciononostante mai nell’Eremita, e
nemmeno in altre sue opere, il Galateo mise in dubbio la legittimità (politi-
ca o teologica) del potere papale, come egli stesso affermò nel passo della
lettera a Giulio II con la quale abbiamo incominciato. Lì si ribadiva, anzi,
come Giulio II fosse la speranza di una palingenesi del papato. D’altro can-
to se il Galateo avesse inteso colpire la legittimità del primato di Pietro, a-
vrebbe potuto servirsi proprio delle considerazioni del Valla sulla Donazio-
ne di Costantino; e invece egli attaccò Valla, non solo nella citata epistola a
Giulio II, nella quale potevano prevalere ragioni d’opportunità, ma nello
stesso Eremita, quando, celandosi sotto la maschera dell’Eremita, invita s.
Matteo a parlare apertamente: «Ne time Mathee perversam grammaticorum
subtilitatem aut insani Vallae importunitatem: rerum natura perquirenda est
non verborum. Barbaries in moribus timenda est, non in vocabulis»27.
Credo perciò che si possa affermare che nell’Eremita le critiche alla
Chiesa si appuntino sulla specifica figura del papa. La decadenza della Chie-
sa ha ragioni ben precise e circostanziate: non sarebbe proprio dell’intelli-
genza politica del Galateo pensare ad una generica condanna morale. Come
pure impensabile sarebbe che il Galateo abbia taciuto, nell’opera più prossi-
ma temporalmente agli eventi, quelle considerazioni sulla condotta del pa-
pato negli anni dell’invasione francese, che ancora a dieci anni di distanza ri-
corrono nelle sue opere. La critica del Galateo è indirizzata, certo, alla de-
cadenza della Chiesa e del papato, ma è pur vero che egli ritenne che il mo-
mento di massima corruzione fosse corrisposto al pontificato di Alessandro
VI, il santo padre che «consente alla perditione de christiani», come scrisse
nell’Esposizione. Non vi è nulla di preriformista nell’Eremita, ma piuttosto
il vagheggiamento, tutto umanistico, del ritorno alla antica purezza della
Chiesa; nessuna accusa di illegittimità contro il papato, ma solo una coeren-
te e reiterata accusa di indegnità contro un papa, ultimo papa di una ormai
lunga serie di pontefici saliti al soglio di Pietro per curare i propri interessi.
Ciò non impedì, come si è visto, che sul letterato salentino piovessero accu-
se di irreligiosità da cui egli si dovette difendere in più di una circostanza.
Fu naturale, dopo la morte del Galateo (1517) e in un clima sempre più
condizionato dalla diffusione delle idee di riforma della Chiesa, rileggere

27 Il Valla più volte incappò nella critica del Galateo, come nell’epistola indi-

rizzata ad Ermolao Barbaro e come anche nell’epistola a Belisario Acquaviva (GA-


LATEO, Epistole cit., p. 33), dove il Valla viene attaccato con le stesse parole usate
nell’Eremita. Significativa è poi l’epistola XXVII al Leoniceno, (v. l’ed. di F. TA-
TEO, L’epistola di Antonio Galateo a Nicolò Leoniceno, in Filologia umanistica. Per
Gianvito Resta, a cura di V. FERA-G. FERRAÙ, III, Padova 1997, pp. 1765-1792), do-
ve Valla viene condannato per avere censurato nella Repastinatio niente meno che
Aristotele.
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150 SEBASTIANO VALERIO

l’Eremita come uno scritto precorritore della Riforma protestante, ora per
condannarlo, ora per esaltarlo. Poco è noto invece dell’immediata fortuna
del dialogo galateano e tutti da indagare rimangono i rapporti con Erasmo.
Garin notò come in effetti il ‘sorprendente’ Eremita del Galateo potesse es-
sere conosciuto da Erasmo da Rotterdam28. Un dato macroscopico acco-
muna, ad esempio, l’Eremita allo Iulius exclusus. In meno di venti anni,
vennero concepite due opere assolutamente simili. Tanto nel dialogo era-
smiano, quanto in quello galateano si presenta a Pietro un’anima destinata
all’Inferno che Pietro tenta di tenere fuori dal Paradiso. I temi affrontati so-
no spesso affini a cominciare, è ovvio, dalla grande attenzione posta alla de-
generazione della Chiesa e del Papato, benché l’Eremita mostri una ric-
chezza e una varietà tematica che non appartiene allo Iulius. Non intendo
con ciò spingermi ad ipotizzare rapporti diretti tra l’opera galateana e quel-
la erasmiana che non è possibile con certezza dimostrare. E se è vero e in-
negabile che ricorrono spesso i medesimi temi, è pur vero che non esistono
strette dipendenze testuali che possano renderci certi dell’esistenza di un
rapporto; così la condanna della ricchezza dei monaci, della dissolutezza
morale del clero, il rimpianto per la Chiesa delle origini si ritrovano sia nel-
lo Iulius che nell’Eremita, ma fanno parte di una topica assai diffusa, trop-
po diffusa. Né probabilmente di per sé può dimostrare nulla che anche nel-
lo Iulius exclusus il titolo papale servus servorum Dei venga distorto e co-
sì Giulio proclami: «Eris rex regum et dominus dominantium», una frase
che ricorda quella pronunciata dal Pietro galateano per esaltare i propri po-
teri. Ciò che invece sicuramente si può affermare è che l’Eremita si pone
nell’alveo di una produzione letteraria di grande spessore e che, abbia illu-
minato o no Erasmo, il messaggio che veniva da quest’angolo dell’Italia,
come amava definire la propria Puglia il Galateo, non fu una rielaborazio-
ne minore e periferica di questioni altrove nate e sviluppatesi, quanto piut-
tosto una delle più originali e spregiudicate espressioni dell’inquietudine e
del travaglio che accomunò gli intellettuali italiani alla fine del XV secolo,
età di cui Galateo fu, come già volle Benedetto Croce, uno degli interpreti
più sinceri, schietti e vivaci.

28 E. GARIN, Rinascite e rivoluzioni, Bari 1975, p. 226.


Cap. 07 Ferrau 151-194 13-09-2002 12:58 Pagina 151

GIACOMO FERRAÙ

Riflessioni teoriche e prassi storiografica


in Annio da Viterbo

Tra il 1495 e il 1498 il domenicano Annio da Viterbo metteva assieme


le celebri Antiquitates, un’opera di grande impegno e dimensioni, una com-
pagine di falsi antiquari, con relativo profuso commentario, ricostruzioni
storiografiche, note di cronologia e filologia1: uno zibaldone d’insolita strut-

1 I Commentaria super opera diversorum auctorum de Antiquitatibus loquen-


tium (Roma 1498), d’ora in avanti citati come Antiquitates, costituiscono un incu-
nabulo per tanti versi problematico e, comunque, assai scorretto: per un primo ap-
proccio al problema, cfr. N.G. BAFFIONI, Noterella anniana, «Studi urbinati», n.s., 1
(1977), pp. 61-73; ma anche M.G. BLASIO, Cum gratia et privilegio. Programmi e-
ditoriali e politica pontificia: Roma 1487-1525, Roma 1988, (RRinedita, 2), pp. 25-
28. Per il presente lavoro si adopera l’esemplare della Bibl. Ap. Vat. Stampe Barb.
B. B. B. V 24, dove una mano contemporanea ha numerato i fogli, segnato corposi
notabilia ed indici, corretto buona parte dei numerosi errori di stampa che costella-
no l’edizione. Quanto ai termini di composizione dell’opera, si osservi che al 1495
era datata la Lucubratiuncula alessandrina, in cui si offriva versione in parte diver-
sa dei frammenti e, comunque, si prospettava una costruzione assolutamente italica
e viterbese: tra quest’anno e il 1498 si deve situare se non la completa stesura, cer-
to la sistemazione in corpus dell’opera; e si vedano le osservazioni di E. FUMAGAL-
LI, Un falso tardoquattrocentesco: lo pseudo-Catone di Annio da Viterbo, in Vesti-
gia. Studi in onore di Giuseppe Billanovich, a cura di R. AVESANI-M. FERRARI-T.
FOFFANO-G. FRASSO-A. SOTTILI, Roma 1984, pp. 337-363, uno dei contributi più va-
lidi dedicati al Nanni, al cui proposito occorre forse precisare che il progetto di
stampa viterbese del 1494, documentato in FUMAGALLI, Un falso cit., pp. 347-348,
deve piuttosto riguardare quelle Storie viterbesi di cui è superstite solo l’epitome e-
dita in GIOVANNI NANNI, Viterbiae historiae epitoma, a cura di G. BAFFIONI, in An-
nio da Viterbo, documenti e ricerche, I, Roma 1981. Per la più significativa biblio-
grafia sulle Antiquitates, cfr. R. WEISS, Traccia per una biografia di Annio da Vi-
terbo, «Italia medioevale e umanistica», 5 (1962), pp. 425-441; R. FUBINI, Gli sto-
rici dei nascenti stati regionali italiani, in Il ruolo della Storia e degli storici nella
civiltà, (Atti del convegno di Macerata, 12-14 settembre 1979), Messina 1982, pp.
238-243 e pp. 264-273; W.E. STEPHENS, The Etruscans and the Ancient Theology in
Annius of Viterbo, in Umanesimo a Roma nel Quattrocento, a cura di P. BREZZI-M.
DE PANIZZA LORCH, Roma-New York 1984, pp. 309-322; CH. LIGOTA, Annius of Vi-
terbo and the Historical Method, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes»,
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152 GIACOMO FERRAÙ

tura che voleva porsi programmaticamente come puntuale contraltare a me-


todi e idee correnti nel campo della storiografia e antiquaria umanistiche.
A tale approdo il frate domenicano perveniva dopo il suo ritorno nella
natia Viterbo, preceduto da esperienze culturali di tutt’altra tipologia, in
ambienti dell’Italia settentrionale; esperienze più consone alla sua profes-
sione, caratterizzate da interessi specifici di teologo ed esegeta della Scrit-
tura, anche se con accentuazioni profetiche ed astrologiche2. Il ritorno alla
propria città e al convento di origine segnava un mutamento notevole degli
interessi anniani, in un itinerario che avrebbe ampliato la sua prospettiva
storiografica in tempi successivi, rivolgendosi dapprima al pubblico della
natia Viterbo e procedendo poi sino a coinvolgere ambiti curiali romani, il
pontefice regnante e tutta l’Europa.
Per altro, la sua storiografia, abbastanza tradizionale nella prima epito-
me di storia cittadina, si pone sempre più perentoriamente, attraverso il trat-
tatello epigrafico e le Lucubratiunculae, borgiana ed alessandrina3, come

50 (1987), pp. 44-56; R. FUBINI, L’ebraismo nei riflessi della cultura umanistica.
Leonardo Bruni, Giannozzo Manetti, Annio da Viterbo, «Medioevo e Rinascimen-
to», 2 (1988), pp. 296-324; V. DE CAPRIO, La tradizione e il trauma. Idee del Rina-
scimento romano, Manziana 1991, pp. 189-261; A. GRAFTON, Traditions of Inven-
tion and Inventions of Tradition in Renaissance Italy: Annius of Viterbo, in Defen-
ders of the Text. The Tradition of Scholarship in a Age of Science 1450-1800, Cam-
bridge-London 1991, pp. 76-103 e pp. 268-276.
2 Per gli interessi di Annio prima del suo ritorno a Viterbo soccorrono: E. FU-

MAGALLI, Aneddoti della vita di Annio da Viterbo O. P., I: Annio e la vittoria dei Ge-
novesi sugli Sforzeschi; II: Annio e la disputa dell’Immacolata Concezione, «Ar-
chivum Fratrum Praedicatorum», 50 (1980), pp. 166-199; ID., Dall’arrivo a Geno-
va alla morte di Galeazzo Maria Sforza, «Archivum Fratrum Praedicatorum», 52
(1982), pp. 197-218; e, per la discussione con Donato Acciaiuoli del 1464, a pro-
posito di problematiche morali, Giovani Rucellai e il suo Zibaldone. ‘Il Zibaldone
quaresimale’, a cura di A. PEROSA, London 1960, pp. 85-102 e pp. 125-135; per l’a-
spetto astrologico, infine, C. VASOLI, Profezia e astrologia in Annio da Viterbo, in
VASOLI, I miti e gli astri, Napoli 1977, pp. 17-49.
3 L’attività di Annio storico e antiquario in Viterbo segna una lunga prepara-

zione di quelle che saranno le Antiquitates in una traiettoria, tra il 1491 e il 1495,
che va dalla Epitome di storia Viterbese, ancora legata alle tradizioni delle crona-
che locali (su cui P. EGIDI, Relazioni delle cronache viterbesi del secolo XV tra di
loro e con le fonti, in Scritti vari di filologia a Ernesto Monaci, Roma 1901, pp.
37-59; ma utili osservazioni del Baffioni nelle note a NANNI, Viterbiae cit., pas-
sim), attraverso una proposizione ‘documentale’, che compie le prime prove di
falsi con l’edizione e l’esegesi degli pseudoritrovati epigrafici (in R. WEISS, An
Unknown Epigraphic Tract by Annius of Viterbo, in Italian Studies presented to E.
R. Vincent, a cura di C. P. BRAND-K. FOSTER-U. LIMENTANI, Cambridge 1962, pp.
101-120), e con la Lucubratiuncula borgiana (edita ed illustrata da O. A. DANIEL-
SON, Etruskische Inschriften in handschriftlicher Ueberlieferung, Upsala-Leipzig
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RIFLESSIONI TEORICHE E PRASSI STORIOGRAFICA IN ANNIO DA VITERBO 153

proposta alternativa al quotidiano della storiografia umanistica, nel metodo


e nella sostanza. Una caratterizzazione, questa, che assicurerà all’opera an-
niana un’insperata, e contrastata, udienza in direzione sia metodica che ‘sa-
pienziale’, di rivendicazione di una dimensione segreta della storia europea:
e ciò nonostante i patenti difetti di approssimazione filologica, senza tema
di ridicolo, e di sofisticata disonestà intellettuale, momenti che costituisco-
no due tra i filoni più evidenti della complessa costruzione. Tuttavia, la ca-
pacità di accesso a fonti disparate, l’abilità di prospettare le stesse in una
struttura, se non sempre coerente, certo culturalmente motivata, la valenza
affabulatrice ‘borgesiana’ che approda ad una biblioteca di Babele4 in cui si
perdono i fili di ogni logica e metodo, pur continuamente ostentati, la coe-
sistenza di una formazione fratesca con la prospettiva umanistica più ag-
giornata, sono tutti elementi che fanno delle Antiquitates un nodo culturale
laborioso, in grado di suscitare l’interesse di numerose generazioni di stu-
diosi e porsi in certi momenti come esemplare.
D’altro canto, se non mancano moderni contributi significativi al chia-
rimento dell’opera5, la complessità del labirinto disegnato da Annio auto-
rizza ulteriori tentativi di percorso. E, tra i percorsi possibili, non credo sia
stato affrontato adeguatamente quello, certo preliminare, della ricostruzio-
ne di una biblioteca anniana, delle suggestioni culturali sottese alla sua pa-
gina, al di là delle stesse fonti, classiche e cristiane, che forniscono il mate-
riale per la costruzione del progetto storiografico: in proposito occorre rile-
vare una prima acquisizione che proviene dall’ambiente di Viterbo, per cui
lo stesso cambiamento d’interessi che segue il ritorno in quella città è pure
un portato del clima di eccitato impegno della cultura locale nei confronti
della storia cittadina, di cui, nel tempo, era stata elaborata una dimensione
leggendaria destinata a tornare, con altra consapevolezza e ricchezza d’ap-

1928, pp. IX-XXI e pp. 1-50), sino alla Alexandrina lucubratiuncula, inedita e tra-
mandata dal codice della Biblioteca Estense di Modena Gamma Z. 3. 2 (Campo-
ri 2869), su cui importanti osservazioni in FUMAGALLI, Un falso cit., pp. 345-347,
opera in cui è la prima delineazione di una storia noachica, limitata, per altro, al-
la descrizione de origine Italiae e dedicata ad Alessandro Farnese, «princeps […]
Pharnesiae domus, quae ex Asia cum rege Turrheno adnavigans, Vetuloniam […]
incoluit». È un vanto per Annio «quia tot saeculis neglectam veritatem suscitave-
rim, […] quod meo Viterbo Italicae antiquitatis et originis principatum restitue-
rim» (ms., f. 1r).
4 Secondo un’osservazione del LIGOTA, Annius cit., p. 56, che, pertanto, an-

cora propone una qualche sospensione di giudizio sulla piena paternità anniana
dei falsi: ma sembra cogente la dimostrazione di FUMAGALLI, Un falso cit., pp.
343-345.
5 Si veda la bibliografia fornita alla nota 1, cui si aggiunga il recente V. DE CA-

PRIO, Il mito e la storia in Annio da Viterbo, in Presenze eterodosse nel Viterbese tra
Quattro e Cinquecento, a cura di V. DE CAPRIO-C. RANIERI, Roma 2000, pp. 77-103.
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154 GIACOMO FERRAÙ

porti, nella pagina del Nanni6. In altri termini, i ‘baroni’ Iasio Corito Erco-
le, le donne Elettra e Iside, i più tardi Paleologhi, sono tutti presenti presso
i cronisti locali sino alla vigilia della ‘riforma’ anniana, fanno parte di una
memoria comune cui il frate darà solo prospettiva e spessore con la stru-
mentazione resa disponibile dalla nuova offerta culturale classica, ma anche
allargando la leggenda a tutte le origini storiche dell’ecumene, secondo
connotati noachici. A questo proposito, se non esplicitamente dalle Anti-
quitates, certamente dalla Lucubratiuncula alessandrina si rileva come la
presenza di Noè in Italia è suggerita da una pagina di Martin Polono, Mar-
tinus chronographus, in cui venivano movimentati quei padri fondatori del-
la colonizzazione italica destinati a divenire gli attori principali del raccon-
to anniano7.
Se poi la dimensione cittadina, di medievalità cittadina, è senza meno
il punto di partenza di un intenso percorso storiografico, deve essere subito
rilevato che, a livello già di Lucubratiunculae, la prospettiva viene amplia-
ta tenendo conto di quanto l’antiquaria classicistica, ormai notevolissima
alla fine del secolo, poteva comportare in termini di arricchimento e signi-
ficazione culturale. Ma è un recupero prospettato in modi tali da non poter
essere neppure concepiti da un umanista ‘professionale’: l’approdo alla co-
struzione di una storia sacra e sapienziale deriva, infatti, da una formazione
culturale di tipo ‘ecclesiastico’ che aveva come libro peculiare la Historia
scholastica di Pietro Comestore: da questo modello Annio aveva appreso la
capacità di escussione minuziosa e ‘dialettica’ delle testimonianze, ma in

6 Utili confronti fra la tradizione cronachistica viterbese e l’approdo anniano

nelle note di Baffioni a NANNI, Viterbiae cit., pp. 165-238; ma, per un opportuno ri-
levamento generale dei dati culturali cittadini, si rimanda a M. MIGLIO, Cultura u-
manistica a Viterbo nella seconda metà del Quattrocento, in Atti della giornata di
studio per il V centenario della stampa a Viterbo, 12 novembre 1988, Viterbo 1991,
pp. 1-46.
7 La tradizione della colonizzazione noachica in Italia è abbastanza diffusa: si

vedano i testi segnalati in P. MATTIANGELI, Annio da Viterbo ispiratore di cicli pit-


torici, in Annio da Viterbo cit., II, p. 159 e più in generale utile D.C. ALLEN, The Le-
gend of Noah. Renaissance Rationalism in Art, Science and Letters, Urbana 1949.
Che Annio tra i filoni della leggenda da lui conosciuti tenesse presente, pur modifi-
candone profondamente i termini, Martin Polono risulta da quanto emerge dall’A-
lessandrina Lucubratiuncula, f. 4r: «Martinus chronographus et complures alii non
per somnium et opinionem asseruerunt Noam venisse in Thyberim romanum et eius
Thyberis regionem elegisse pro sua sede». Il riferimento è alle antichità italiche,
noachiche e latine, prospettate in MARTINI OPPAVIENSIS Chronicon, MGH, SS,
XXIII, Hannover 1872, pp. 399-400, dove è praticamente abbozzato quel disegno
della colonizzazione noachica, compreso il collegamento tra Giano e Noè, che sarà
ridefinito e precisato in Annio.
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RIFLESSIONI TEORICHE E PRASSI STORIOGRAFICA IN ANNIO DA VITERBO 155

direzione molto diversa da quella della contigua cultura filologica dei suoi
contemporanei8; un’istanza, quella anniana, tendente alla ricostruzione, non
del ‘certo’ di una tecnica filologica, ma del ‘vero’ di una significazione sa-
pienziale e sacerdotale.
Se si parte dal dato sicuro della formazione professionale si ricono-
scerà come naturale l’uso di auctores quali Giuseppe Flavio ‘latino’ e per-
sino Beroso, della cui presenza medievale non occorrerà più rintracciare le
vestigia presso frati antiquari inglesi, ma si potrà guardare alla più vicina
tradizione viterbese di un Goffredo, da Annio conosciuto e citato, per cui il
Pantheon dell’antico maestro viterbese presenta molti suggerimenti che tor-
nano nel suo successore: l’uso di una ‘bibliografia’ di storia ‘ecclesiastica’,
da Beroso a Giuseppe Flavio, a Pietro Comestore, il recepimento della sto-
ria noachica primitiva, la complessità e l’enciclopedismo della costruzione,
ma anche la dichiarazione, more pliniano, in apertura, delle fonti; e, anco-
ra, congruo risulta l’uso di s. Gerolamo ‘vocabulista’ che richiama la con-
ferma moderna dei maestri talmudisti e ‘caballarii’9. Sono tutte occorrenze
sicuramente riconducibili ad un archetipo culturale di tipo conventuale, se

8 Per il rilevante peso dell’esemplarità di Pietro Comestore nella storiografia


medievale osservazioni in B. GUENÉE, Histoire et culture historique dans l’Occident
médiéval, Paris 1980, pp. 305-319. Annio derivava dall’antico esemplare innanzi
tutto il modo di trattare historialiter problematiche di storia circumdiluviana, ma an-
che informazioni a proposito di personaggi noachici e cruces interpretative: ad e-
sempio in Antiquitates, O3v la commistione delle figlie degli uomini coi figli di Dio,
e il suo significato, PETRI COMESTORIS Historia scholastica, PL, 198, Turnhout
1966, p. 1081; Sem identificato con Melchisedech, Antiquitates, S6r e Historia
scholastica, p. 1094; Cam con Zoroastro, Antiquitates, S6v e Historia scholastica,
p. 1090. Inoltre dalla stessa fonte è derivato, come è noto, il titolo dell’opera dello
pseudo Metastene, FUMAGALLI, Un falso cit., p. 350.
9 Per la presenza di Beroso presso i frati antiquari inglesi, v. B. SMALLEY,

English Friars and Antiquity in the Early Fourteenth Century, Oxford 1960, pp.
233-234 e pp. 260-261. Per l’uso della scienza talmudistica, spesso allegata accan-
to alla più autorevole, ma episodicamente utilizzata, fonte etimologica, il De nomi-
nibus iudaicis di s. Gerolamo, e per l’identificazione dei maestri talmudisti citati da
Annio a conferma delle derivazioni ‘aramee’, si veda la messa a punto di M. PRO-
CACCIA, Talmudistae Caballarii e Annio, in Cultura umanistica a Viterbo cit., pp.
111-121. Sulla presenza di Giuseppe Flavio insiste giustamente FUBINI, L’ebraismo
cit., pp. 301-302, dove occorrerà ricordare solo che Giuseppe ‘latino’ era presenza
familiare ad una tipologia culturale monastica, anche perché veicolato da maestri
quali Pietro Comestore. Infine deve essere sottolineata la presenza di Goffredo da
Viterbo, un auctor in cui erano tante delle caratteristiche riprese da Annio, ad e-
sempio la tavola delle fonti in sede proemiale pliniano more (GOTIFREDI VITERBEN-
SIS Memoria seculorum, MGH, XXII, p. 95), ma anche la ‘bibliografia’ per la leg-
genda noachica, Beroso e simili, ibid.; quanto alle citazioni di Goffredo nelle Anti-
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non più specificamente domenicano per la latitudine del suo impianto eru-
dito: e certo Annio conosce e cita il capolavoro della tipologia storiografi-
ca dell’ordine, lo Speculum di Vincenzo di Beauvais10.
Se una tale opzione culturale agisce fortemente nell’opera di Annio, al
limite forse di consentire l’autorizzazione ad una pia fraus fratesca nell’uso
di falsi per coonestare un superiore vero sapienziale, essa poteva tuttavia di-
venire inattuale in un contesto tardoquattrocentesco, soprattutto quando, con
le Antiquitates, l’orizzonte di riferimento si allargava all’ambiente romano,
in cui si erano da non molto consumate almeno le esperienze della arruffata
e pur agguerrita filologia pomponiana e della più raffinata proposta del Bar-
baro, in rapporto documentabile, quest’ultimo, con lo stesso Annio11.
In effetti, molta parte della disponibilità antiquaria poteva essere as-
sunta nel quadro della tradizione culturale di partenza, ed anzi col vantag-
gio di dare spessore e credibilità e attualità alla ricostruzione storiografica,
solo con un’opportuna capacità di selezione e d’interpretazione applicata ad
autorevoli testimonianze della classicità, e non soltanto ai falsi: i quali ulti-
mi, poi, sono ovviamente ricostruiti con frammenti destrutturati e ricompo-
sti della tradizione. Ma era un progetto che dipendeva da due opzioni preli-
minari: la scelta all’interno del corpus della letteratura antica di momenti
dotati di una determinata significazione e testimonianza di civilizzazione

quitates, rilevabili le seguenti occorrenze: c1v «viculum […] quod Annales Gotifre-
di vocant castrum Chlorae»; g2v-3r sempre a proposito di antichità viterbesi; f6r a
proposito della distruzione di Ferento: «anno salutis MLXXIV, ut Gotifredi Anna-
les memoria servant». Per altri autori medievali e umanistici richiamati da Annio,
oltre al de Lyra, s. Tommaso e il Barbaro, per cui si veda infra, si riscontrano: Pao-
lo Diacono, Antiquitates, K4v a proposito dei ducati longobardi di Spoleto e Bene-
vento; Alberto Magno, Antiquitates, S2v; la testimonianza viterbese di Fazio degli
Uberti, S6r; il commento oraziano di Cristoforo Landino, a proposito dei fasci, An-
tiquitates, M8r; ma soprattutto Giovanni Tortelli, di cui si citano alcune voci: Roma
a M3v (ma si veda anche infra), la voce Olympus a V3r e Italia a X3v.
10 A proposito del nome di Franco, capostipite dei Francesi in Antiquitates,

Z7r, è ricordato «Vincentius […] diligentissimus hystoriarum scriptor». Per qualche


altro apporto si veda infra. Invece, forse anche per patriottismo d’ordine, aspra è la
polemica contro il commento biblico di Nicolò de Lyra, ‘delirans’, per cui FUBINI,
L’ebraismo cit., pp. 312-313.
11 Non soltanto Barbaro è citato a proposito del significato del nome Viterbo in

Antiquitates, e4v, «Hermolaus venetus Aquilegiae patriarcha, vir omni litteratura


excellens», ma si derivano spunti di castigazioni pliniane dal lavoro di Ermolao, per
cui sia lecito rinviare ad un mio contributo su La ‘filologia’ di Annio in stampa nel-
la miscellanea in onore di Francesco Tateo. Per converso Barbaro cita, senza nomi-
narlo, una testimonianza del viterbese nelle Castigationes: FUMAGALLI, Un falso
cit., p. 338.
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RIFLESSIONI TEORICHE E PRASSI STORIOGRAFICA IN ANNIO DA VITERBO 157

‘primitiva’; e, inoltre, una strumentazione ideologico-culturale che autoriz-


zasse un’interpretazione, spesso distorcente e afilologica, ma dotata in ogni
modo di una sua ratio. Una siffatta suggestione culturale risale ad un testo
fondamentale, e discusso nel Quattrocento, della tradizione cristiana, il pri-
mo libro delle Divinae institutiones di Lattanzio, in cui si recuperava tanta
parte della teologia dei Gentili in senso strenuamente evemeristico, tale da
approdare ad una lettura storica e terrena della mitologia, quale era espres-
sa soprattutto dai poeti, rilevandone la tara del linguaggio immaginifico, e
pertanto menzognero, e tuttavia portatore di un grado di informazione fat-
tuale che può essere adoperato per una ricostruzione storica veritiera12. Per
cui, non divinità, ma potenti re e benefattori nascondono i nomi di Saturno,
Giove, Ercole: un’autorevole suggestione per quella lettura continuamente
evemeristica che sarà prospettata nelle Antiquitates, ma anche lo stimolo
per l’opposizione, come si vedrà molto funzionale nel discorso anniano,
contro la cultura greca. Un filone quest’ultimo che sarà perseguito sulla li-
nea delle analoghe valutazioni di un Giuseppe Flavio o del greco Diodoro,
l’autore più presente e valido per la ricostruzione del passato e la confezio-
ne degli stessi falsi13.

12 In effetti il discorso prospettato da Annio trovava un opportuno aggancio nel-

la proposta del primo libro dell’opera lattanziana: a proposito della lettura evemeri-
stica del mito greco in Div. Inst., I, 11, 30-34; del rilievo che i nomi degli dei paga-
ni nascondono antichi re ed eroi, Div. Inst., I, 15, 1-4; e perfino per quel che riguar-
da la polemica con la Graecia mendax, Div. Inst., I, 15, 14.
13 Per Giuseppe Flavio, si veda quanto afferma nel Contra Apionem, I, 3, a pro-

posito della discordia degli storici greci tra di loro, ripreso in Antiquitates, B2r:
«scimus […] in quot locis Hellanicus de genealogiis et temporibus ab Agisilao di-
screpat, et in quantis Herodotum corrigit Agisilaus, et Ephorus Hellanicum in pluri-
bus ostendit esse mendacem, et Ephorum Tymeus, Tymeum posteri, Herodotum
cuncti». Ma l’esemplarità del Contra Apionem sta alla base di tanta parte della con-
cettualizzazione anniana, ad esempio per quel che riguarda la storia ‘ufficiale’ ba-
sata sugli archivi e la tradizione sacerdotale di Egizi e Caldei, in Contra Apionem,
I, 4-6. Quanto a Diodoro, che pure soccorre nella registrazione di tanta parte della
mitologia orientale, è noto come in Bibl., II, 29, aveva prospettato una partitura re-
lativa alla differenza antropologica del fare cultura tra i Greci e i Barbari, questi le-
gati alla saldezza della tradizione in una dimensione castale e sacerdotale, quelli se-
guaci di un metodo più libero e dialettico, basato sulla discussione e l’innovazione
e socialmente attento anche all’aspetto economico: sono concetti che più volte tor-
nano nelle Antiquitates, segnalando la labilità e inaffidabilità della proposta greca,
ad esempio, a proposito degli Etruschi in O2r-v: «omnis illa theologia, philosophia
et naturalis divinatio et magia […] in quibus, teste Diodoro Siculo in sexto libro [V,
40], usque ad aetatem suam erant admirabiles toti orbi, equidem susceptis fabulis et
disciplina Graecorum, corruptae sunt, adeo ut omnia fabulosa et erronea graecanica
norint, et nihil de origine, disciplinis, et splendore antiquitatum italicarum […] ne-
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158 GIACOMO FERRAÙ

Perché, occorre osservare, nella definizione dell’enciclopedia ideologi-


co-fattuale delle Antiquitates la selezione operata da Annio è veramente sa-
piente e oculatissima: innanzi tutto, si è detto, è presente la prima pentade
di Diodoro Siculo, quella che conservava una notizia di fatti e figure del mi-
to etnico, con un’accentuazione, in parallelo a quanto rilevabile da Lattan-
zio, di una certa polemica culturale antiellenica. Nel vasto mare della Bi-
blioteca diodorea Annio poteva trovare numerosi ed utili suggerimenti da u-
tilizzare nella sua costruzione, soprattutto per quel che riguarda la mitolo-
gia non ellenica e la storia orientale. Per le antichità italiche, le fonti ado-
perate sono soprattutto poetiche: con puntuale intelligenza veniva isolato un
nucleo di poetae docti appartenenti al revival etrusco e primitivistico d’età
augustea, Virgilio, Ovidio, Properzio (di cui si commenta, unico testo non
falso, un’elegia ‘romana’), con tutto il corteggio dell’erudizione varroniana
e tardoantica. Da tutti costoro, enucleando dai poeti la verità storica sotto il
velame, Annio derivava precipuamente le sue antichità etrusche.
Meno funzionale risultava, invece, al suo discorso la storiografia del
periodo: sia Livio sia Dionigi d’Alicarnasso sono opportunamente e diffu-
samente adoperati, ma con puntate polemiche anche dure nei loro confron-
ti, proprio perché essi risultano in ogni modo testimoni capitali della linea
storiografica corrente, inficiata dalla menzogna greca. Più utile Plinio, sia
come insuperabile magazzino di notizie non altrimenti attingibili, sia come
esemplare di una storiografia ‘diversa’, più integrale e attenta ai fatti etno-
antropologici14. Per Annio esso costituisce anche riferimento strutturale in
quel primo libro che offre, pliniano more, un articolato sommario di tutta
l’opera e uno specchio delle fonti relative a ciascuna sezione. Infine occor-
re rilevare la massiccia presenza dei geografi classici, Strabone e Tolomeo:
in una struttura in cui la toponomastica è, come si vedrà, il più certo veico-
lo della documentazione storica, il riferimento ai due auctores è continuo e
anzi lo spazio geografico ecumenico della diffusa vicenda è quello delle ta-
vole tolemaiche.
Tuttavia, se la latitudine dell’uso delle testimonianze classiche è dav-
vero notevole, occorrerà osservare innanzi tutto come la conoscenza dei
Greci sia mutuata integralmente da tramiti versori, dalle traduzioni umani-
stiche acriticamente accolte, tanto che su errori di traduzione si costruisce

sciant»; e ciò riguarda lo stesso Aristotele, che «cum aliis semper altercans, incer-
tos discipulos reddit et animos nostros per omnem vitam errare compellit».
14 Significativamente, il modello pliniano veniva postulato anche da una diver-

sa storiografia impegnata nella descrizione di realtà storiche primitive, quella di un


Pietro Martire: G. FERRAÙ, La prima ricezione del ‘mondo nuovo’ nella cultura del-
l’Umanesimo, in Acta conventus neo-latini Abulensis, Tempe Ar. 2000, p. 36.
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RIFLESSIONI TEORICHE E PRASSI STORIOGRAFICA IN ANNIO DA VITERBO 159

talvolta la notizia accolta nei falsi. Inoltre, l’accesso agli auctores è quasi e-
sclusivamente veicolato sulle prime edizioni a stampa, per cui il sistema di
citazione, laddove il controllo è possibile, rinvia senza meno a qualche fon-
te incunabulistica: la profusione della notizia antiquaria, spesso ammirata
dai moderni, è, quindi, un portato della nuova possibilità di accesso alle
stampe, non una personale agguerrita competenza. Dall’uso delle stampe
deriva anche una comoda disinvoltura nell’adoperare singole lezioni, spes-
so di fantasia anniana, giustificate da una tradizione di diffidenza nei con-
fronti della correttezza del nuovo medium15, ma senza un vero criterio mi-
nimamente filologico. Nell’evidenziare la centralità dell’uso del nuovo
mezzo di diffusione, dovranno essere smorzati gli entusiasmi per la forma-
zione classica del domenicano e rilevata l’approssimazione, quando non
l’evidente disonestà intellettuale, con cui Annio si pone dinnanzi ai suoi
auctores: un atteggiamento che lo differenzia radicalmente dall’esperienza
filologica del nostro migliore umanesimo, anche se per tanti aspetti ne è
contiguo, approdando ad una sua strana filologia, non priva di fascino e ca-
pace di inserire le proprie fantasie anche nella posteriore tradizione16.
Con i frammenti di una notitia antiquitatis diffusa, e secondo i para-
metri culturali ‘monastici’ che si sono rilevati, Annio costruisce un labirin-
to che non ha nulla da invidiare a quello celebre di Porsenna: le Antiquita-
tes sono, infatti, una congerie d’opere di diversa tipologia e ‘committenza’,
anche se, come si vedrà, strettamente finalizzate ad un’unica prospettiva. Vi
sono, innanzi tutto, i falsi: si tratta di pseudo frammenti di auctores, in lati-
no17, sminuzzati in unità discrete ma complete che ricordano le pericopi

15 Per l’uso del Diodoro nella versione poggiana, seguita anche negli errori pe-

culiari, si veda quanto risulta in GRAFTON, Traditions cit., pp. 88-89 e p. 273. Per il
motivo della diffidenza nei confronti della correttezza testuale delle edizioni a stam-
pa, abbastanza diffusa nell’Umanesimo, si veda il materiale segnalato in PAULI COR-
TESII De hominibus doctis, a cura di G. FERRAÙ, Palermo 1979, p. 36, e, per una pun-
tualizzazione della problematica, V. FERA, Problemi e percorsi della ricezione uma-
nistica, in Lo spazio letterario di Roma antica, a cura di G. CAVALLO-P. FEDELI-A.
GIARDINA, III, La ricezione del testo, Roma 1990, pp. 532-534.
16 Per esempio, la sostituzione di Lucumonius al tradito Lycomedius di Proper-

zio, IV, 2, 51, che è passato presso lo Scaligero e quindi nelle moderne edizioni di
un Lachmann: FUMAGALLI, Un falso cit., p. 331; sulla filologia di Annio sia lecito
ancora il rinvio al mio contributo specifico che apparirà nella miscellanea Tateo.
17 Come è noto si tratta di una serie di frammenti che però non hanno nulla di

frammentario, anzi prospettano un discorso sempre compiuto, in se stessi e nella lo-


ro sequenza, se si eccettuano due casi: il frammento di Mirsilo in Antiquitates, A7v
che si conclude in maniera tronca: «ac Tursenas si […]», e che potrebbe essere uno
degli innumerevoli svarioni della stampa, mentre intenzionale è la mimica del fram-
mento del Decretum Desiderii di Antiquitates, e7v: «hucusque integre legitur. Quae
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160 GIACOMO FERRAÙ

della Scrittura. Ciascuna di esse è accompagnata ai margini, ma spesso con


estensione a parecchie pagine, da un lussureggiante commento che costi-
tuisce, nella struttura dell’opera, il vero testo, essendo il frammento falso
soltanto un pretesto costruito in maniera evidente con i materiali suggeriti

sequuntur in fracturis ita se habent: in prima fractura ‘cives non gravabis novis exac-
tionibus’; in secunda: ‘ex Papia venient’; in tertia: ‘Viterbenses’». L’origine dei
frammenti, escluso l’ultimo che è un falso epigrafico, è duplice: quasi tutti proven-
gono «ex collectionibus vetustis magistri Guilielmi Mantuani» (B1v), di cui si offre
pure la datazione, «collecta anno salutis MCCCXV»; si tratta, come specificato in
Antiquitates, f4r, di «Philonem, Xenophontem, Sempronium, Fabium Pictorem,
fragmenta Catonis et Itinerarii Antonini, Methastenem, Archilocum et Myrsilum». Il
più importante di tutti, Beroso, è invece un dono di frati armeni da lui conosciuti a
Genova: «frater autem Mathias, olim provincialis Armeniae ordinis nostri, quem exi-
stens prior Genuae illum comi hospitio excepi et a cuius socio magistro Georgio si-
militer Armeno hanc Berosi deflorationem dono habui», Antiquitates, P6v. Se non vi
è, e non vi poteva essere, giustificazione filologica di testi offerti in traduzione lati-
na, a proposito di Metastene si insinua l’attività di un traduttore ignoto e non sempre
accurato: «quisquis ille fuerit qui librum traduxit, existimo melius dixisset de censu-
ra quam iudicio», Antiquitates, E6r. Quanto ai nomi degli autori, è noto essere stati
ricavati da citazione di storici veramente tramandati: Mirsilo da Dionigi d’Alicar-
nasso, I, 23; Catone Sempronio e Fabio Pittore dalla stessa fonte, I, 15; Archiloco da
un fraintendimento di Eusebio, De temporibus e Metastene da cattiva lettura della Hi-
storia scolastica, p. 1453: FUMAGALLI, Un falso cit., p. 350; Manetone e Beroso so-
no ampiamente presenti in Giuseppe Flavio (se ne vedano le ‘schede’ del Contra A-
pionem, rispettivamente I, 14 e 19) e dalla stessa fonte poteva essere suggerito il no-
me di Filone. Mentre l’elegia properziana di Vertumno risulta l’unico testo non fal-
so, si costruisce un Itinerarium Antonini alternativo (Antiquitates, N3v: «patet […]
vulgatos codices non esse totos Antonini Itinerarium, sed eius magnam corruptionem
a posteris per additionem et diminutionem privato studio procuratam»); e un Se-
nofonte alternativo (Antiquitates, H8v: «quis fuerit iste Xenophon, nondum comper-
tum habeo; existimo tamen fuisse filium Griphonis, qui post Archilocum floruit»).
C’è da osservare che nessuno degli pseudoautori è riconducibile al personaggio sto-
rico di tale nome: ad esempio Catone anniano vive dopo l’età di Cesare, se nei fram-
menti è citato Menecrate, un comandante di flotta attivo nelle guerre civili (il cui no-
me è ricavato da Appiano, per cui si veda infra): difatti nella scheda introduttiva si
afferma quisquis fuerit iste Cato, Antiquitates, B1v. Del resto è possibile cogliere An-
nio in una specie di lapsus freudiano, quando, nel commento a Sempronio, Antiqui-
tates, K7v nota: «ipse non ex toto sequitur Augustum, Plinium et alios, qui per re-
giones diviserunt Italiam», dove non si vede come un autore presente in Dionigi d’A-
licarnasso, che Annio sa essere dell’età di Augusto, possa precedere Plinio (ma il to-
pos della differenziazione dai precedenti regionarii è comunque pliniano, N. H., III,
46). I falsi riportati sono una scelta nel vasto pelago delle possibilità di falsificazio-
ne e forse altri Annio avrebbe voluto presentare, se nel commento a Filone, Antiqui-
tates, H6r, a proposito di fatti di Arbace e Ciro si dice: «retulit supradictus Cthesia
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RIFLESSIONI TEORICHE E PRASSI STORIOGRAFICA IN ANNIO DA VITERBO 161

e citati nella chiosa: in questa direzione l’operazione anniana è abbastanza


ingenua e offre al lettore la chiave della genesi dei falsi18. I nomi degli pseu-
doautori sono essi stessi ricavati dall’autentica tradizione; in altri termini
Annio intende inventare le fonti originarie della storiografia esistente, quan-
do sono da essa citate19. Accanto ai falsi e al commentario, sono poi le ope-
re ‘originali’ di Annio: una ricostruzione della storia etrusca su cui occorrerà
tornare, una riconsiderazione di pseudoepigrafi che riprende materiali del
precedente trattatello epigrafico, le Institutiones Etruscae, uno zibaldone di
problemi diretto soprattutto ad un pubblico viterbese, le quaranta Quaestio-
nes Anniae, risposte a presunti quesiti posti dal cugino Tommaso Nanni e, da
ultimo, una storia dei primi regnanti iberici dedicata ai mecenati dell’edizio-
ne, i sovrani spagnoli Ferdinando e Isabella.
Se il materiale è diversissimo, il metodo e l’argomento sono invece
sempre eguali: ciò che è postulato nel commento, a chiarimento del falso,
viene ripreso nelle Quaestiones e nella Chronographia da altre angolature,
di certo perché è utile una selva lussureggiante di notizie e argomentazioni

Gnidius, ut fragmentum eius indicat», dunque era previsto un altro pseudoautore, e


Ctesia era in grande reputazione presso Annio, in base alla testimonianza di Diodo-
ro, I, 22, secondo cui avrebbe attinto agli annali ufficiali persiani. Ma un falso può
sempre soccorrere alla bisogna: al di fuori dei falsi commentati se ne riporta ancora
un altro, per ribattere la testimonianza di Lattanzio a proposito di Faula in Div. Inst.
I, 20, 5, «quam Herculis scortum fuisse Verrius scribit». Annio, che vuol salvare la
reputazione delle sue compatriote, annota ad Antiquitates, h4r: «Lactantius […] di-
cit eam fuisse scortum Herculis, et producit Verrium. Tamen in fragmento Verrii,
quod magister Guilielmus Mantuanus collegit, non utitur Verrius vocabulo ‘scortum’,
sed ‘premium’. Sic enim iacent eius verba: ‘Accam Larentiam Faustuli Thusci uxo-
rem, quod heredem instituerit Romulum, sacris parentalibus donaverunt; Tuscam
item adolescentulam Faulam, quia virium Alcei premium ad lacum Cyminium Fa-
numque Volturnae fuit, in deam retulerunt’. Haec Verrius».
18 In fondo, scopo della costruzione di Annio è quello di risalire ai più genuini

auctores, fonti degli storici conservati, presso i quali, invece, ha operato l’inquina-
mento della menzogna greca. Nel commentare i falsi, poi, allegando le autorità che
confermano le singole notizie, si procede costantemente con una cadenza binaria:
«Mirsilo e Dionigi affermano…», «Fabio Pittore e Plinio affermano…», dove la se-
conda è la vera fonte su cui si ricostruisce la notizia offerta dallo pseudotesto. Qual-
che volta il gioco sembra farsi persino impudente come quando ad Antiquitates, A1r
affermava l’utilità del falso reperto, «quamvis, qui Dionisium in primo libro legit,
etiam Myrsilum videatur legere». Una tale strategia testuale è valida anche in senso
polemico, quando ci si stacca dall’antigrafo effettivo reale per contrapporre un’in-
novazione significativa del progetto da costruire: in tale direzione Annio risulta in
fondo abbastanza scoperto e assolutamente controllabile sul retroterra delle fonti au-
tentiche, come ha dimostrato per Catone FUMAGALLI, Un falso cit., pp. 345-349.
19 Per l’origine di nomi degli pseudoautori si veda quanto detto supra.
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162 GIACOMO FERRAÙ

che servano a nascondere i paralogismi e i giochi di prestigio nelle citazio-


ni testuali che governano spesso la costruzione del Nanni. Da parte di alcu-
ni si è spesso valutato positivamente il metodo anniano, almeno per quel
che riguarda le famose cinque regole che hanno avuto posteriormente, in
certi ambienti, una cordiale ricezione: la cosa è spiegabile se si pensa che al
gusto cinquecentesco della speculazione de historia conscribenda la posi-
zione che emergeva dalle Antiquitates doveva essere più congeniale della li-
nea umanistica, attenta piuttosto ad una storia soprattutto ‘retorica’. Tutta-
via manca ancora una valutazione del metodo di Annio iuxta propria prin-
cipia, e non proiettato in una prospettiva di ricezione20. D’altro canto, la
metodologia storica anniana non è limitata a quanto emerge dalle cinque re-
gole, ché anzi esse sono la manifestazione più ottusa (e più legata a para-
metri di semplice buon senso) di una proposizione critica che investe tutta
la tradizione umanistica dell’esemplarità liviana per tentare di riformarne
profondamente gli intenti e le prospettive.
Tra tutte le partiture delle Antiquitates il pezzo certamente più significa-
tivo a livello di ricostruzione storica è la Etrusca et Italica emendatissima
chronographia: si tratta di una digestione per aetates di una lista ‘consolare’
dei Larthes di Viterbo, sulla cui formazione occorrerà tornare. A questa An-
nio premette una pagina di interesse metodologico che enuclea una riflessio-
ne a proposito sia delle res gestae che della historia rerum gestarum: «omnis
historia integra est et certissima redditur, quae suis substantialibus partibus
constat, quas tres esse manifestum est, narrationem, chorographiam et chro-
nographiam». E motiva filosoficamente: «omne enim individuum, ut Peri-
pathetici tradunt, constat sua substantia et duobus substantialibus principiis
individuantibus, quae vocant hic et nunc, idest proprius locus et tempus»21. Si
tratta di una proposizione che riprende certamente formulazioni di cultura
monastica: e si vedano le «tres maxime circumstantie gestorum, idest per-
sone, loca et tempora» di Ugo di S. Vittore, uno dei pochi approdi di meto-
dologia storica offerti dal Medioevo22. Probabilmente una stessa origine

20 Secondo la linea del pur interessante contributo di W. GOEZ, Die Anfänge der

historischen Methoden-Reflexion in der italienischen Renaissance und ihre Aufnah-


me in der Geschichtsschreibung der deutschen Humanismus, «Archiv für Kulturge-
schichte», 56 (1974), pp. 25-48, che riconosce nelle regole anniane un primo im-
portante contributo di metodologia storica.
21 Il testo della Chronographia in Antiquitates, &1r-4r; la citazione a &1v.
22 Di sicuro un testo che Annio conosceva è pubblicato e illustrato da W.M.

GREEN, Hugo of St. Victor, ‘De tribus maximis circumstantiis gestorum’, «Specu-
lum», 18 (1943), pp. 484-493, da manoscritti nordeuropei, ma per la sua circolazio-
ne in Italia, in ambienti dallo storico viterbese frequentati, ed in più trasmesso as-
sieme alla Historia scholastica, v. E. PELLEGRIN, La bibliothèque des Visconti et des
Sforza ducs de Milan au XV siècle, Paris 1955, p. 228.
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RIFLESSIONI TEORICHE E PRASSI STORIOGRAFICA IN ANNIO DA VITERBO 163

monastica, e precisamente dal confratello Vincenzo di Beauvais, ha nella


pagina di Annio quell’ombra dell’antica formulazione aristotelica che ri-
servava alla Storia la registrazione dell’individuale: «cumque narratio re-
rum gestarum singularum sit substantia individua historiae, quae res indivi-
duas narrat, utique necessario consequens est, ut duobus principiis demon-
stretur, loco et tempore. Non enim integra et certa historia redditur, si so-
lum dicatur ‘Magnus Alexander superavit Darium monarcham’, sed adi-
ciendum est quibus locis et temporibus exercitum eius fudit»23.
Se la corografia aveva avuto ampia trattazione nel commentario ai fal-
si, Annio prospetta ora una tavola dei regnanti etruschi divisa secondo le
età, da Noè a Nerone. Di certo, una valutazione delle Antiquitates dovrà in-
vestire, non soltanto le dichiarazioni di metodo, ma i risultati concreti del-
la ricostruzione anniana: occorrerà, comunque, in prima istanza rilevare la
dimensione ‘filosofica’ della speculazione, che delinea una ‘scienza’ le cui
scienze ausiliarie non sono la retorica o la filologia, ma la dialettica, la teo-
logia, la glottologia, in una prospettiva chiaramente enunciata già dalla pre-
fazione, secondo cui la nuova attività di antichista era contigua alla prima
formazione di teologo, essendo entrambi i campi del sapere interessati spe-
cialmente della verità. Se ciò è vero, la narrazione storica non si giova di u-
na dimensione retorica: «ornatum vero et elegantiam non profiteor, sed so-
lam et nudam veritatem. Quare, cuilibet cedo in copia et ornatu dicendi. At
in inventa veritate illis solis palmam concedo, et eos censores sequar, qui
contra me produxerint […] potiores auctores et certiora argumenta»24. È u-
na chiara presa di posizione contro la storiografia umanistica che coinvolge
lo stesso massimo modello, quello liviano: certamente pesa sullo storico an-
tico la colpa di non aver sufficientemente valorizzato l’apporto etrusco, tut-
tavia ciò apre un discorso che colpisce direttamente il tipo di proposta di
scrittura storica di un auctor «negligens et verbosus in historia, […] quan-

23 Antiquitates, &1r; quanto al passo di Vincenzo di Beauvais in cui è riferito


il concetto aristotelico intorno alla storia, esso è in Speculum naturale, Douai 1624,
13, cui penserei come fonte di Annio, piuttosto che ad un accesso diretto alla Poeti-
ca aristotelica, per altro possibile in quell’estremo scorcio del Quattrocento.
24 Antiquitates, a3r; per la dialettica come ausiliare della storia si veda Anti-

quitates, B1r, dove è allegato «invincibile a cognatis […] argumentum», oppure


M3v, dove la dialettica è accostata alla geografia, come discipline entrambe neces-
sarie alla comprensione storica. Per il metodo glottologico: C5r, dove l’origo nomi-
num si definisce come «validissimum in historia argumentum». Tuttavia la storia di
Annio rimane un’opera fortemente ideologizzata, dove le scelte sono ferreamente
effettuate in vista di una costruzione e di un assunto predeterminati, come egli stes-
so dice in certo modo, ad Antiquitates, B2v: «aspiciamus igitur autores Graecos ut,
si quid consonum italico fulgori invenerimus, ut nostrum ab eis eripiamus. Ubi ve-
ro contraria scribunt, non perdiscamus, idest non credamus».
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quam alias eloquentissimus. Nam aliud est eloqui, aliud recte narrare histo-
rias et origines»25. Un rifiuto di un certo tipo di scrittura storica che investe
ancor più duramente la proposta greca, in termini derivati dall’antica pole-
mica di un Giuseppe Flavio e di un Lattanzio: «et ideo, ut mendacia facilius
[Graeci] seminarent, studuerunt ornatui verborum. Nihil enim magis proficit
ad decipiendum, quam delectabilis fabula et lenocinium ornatus»26.
Di contro alla labilità della tipologia storiografica dominante, quindi,
Annio tenta di individuare regole certe e più sicuri sussidi, proponendo un
modello alternativo nel metodo e nei contenuti. Nascono da quest’esigenza
le celebri cinque regole: la prima vieta di seguire un autore, anche se pre-
stigioso, in tutte le sue affermazioni; la seconda prescrive che occorre dar
piuttosto credito «ipsi genti atque vicinis, quam remotis et externis»; la ter-
za indica negli annali delle quattro monarchie la via sicura dell’impianto
cronologico e fattuale; la quarta, poi, afferma che «si duo sunt pares patria
et antiquitate, afferenti probatiora creditur»; infine, in quinto luogo, «quod
absque certo auctore vel ratione dicitur, eadem facilitate contemnitur qua
profertur»27. Si tratta, come si vede, di regole dettate dal buon senso, ma i-
spirate a criteri divergenti, tra libertà critica (la prima, la quarta e la quinta)
e principio di auctoritas (la terza). Quest’ultima, poi, ha un preciso signifi-
cato e, nel complesso delle Antiquitates, più vasta applicazione: poiché pres-
so Annio, in parallelo con l’opposizione di storia retorica e storia erudita, vi
è quella tra storia laica e storia sacerdotale. A proposito del falso Metastene,
correggendo un supposto errore del suo antigrafo, Pietro Comestore, si dice:

corruptissime tamen inveni hunc in aliquibus Megasthenem pro


Metasthene, quia primus fuit Graecus et historicus, hic vero Per-
sa et chronographus; et ille laicus, hic vero sacerdos, quia non
scripsit nisi publica et probata fide, quod erat proprium sacerdo-

25 Antiquitates, c2v. Ciò non toglie che Livio possa essere accolto a sua volta,
non soltanto come collettore di notizie, ma anche come maestro di metodo; a lui, in-
fatti, risale il principio nomen est argumento, uno dei capisaldi della costruzione an-
niana: Antiquitates, D2v, «notandum quod in historia invincibile argumentum est,
ubi nomen ducum limitibus geminatur, ut, quia superum et inferum mare, quibus
limitatur Italia, dicuntur Turrenum, consequens est ut tota Italia fuerit colonia et
potentatus Turrenorum, ut valido argumento Livius probavit in quinto [33, 7] ab ur-
be condita». O, ancora, Antiquitates, D1v, dove Livio, VII, 6, 6, suggerisce il valo-
re della tradizione come possibile metodo di decisione nella ricostruzione storica:
«standum est autem famae, ubi vetustas derogat certam fidem».
26 Antiquitates, O2r, che riprende la polemica ideologica di Flavio Giuseppe,

per cui vedi supra, ma anche di Lattanzio, Div. Inst., I, 14.


27 Le regole, a proposito del commento al primo falso, Mirsilo, in Antiquitates,

A3r-v.
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RIFLESSIONI TEORICHE E PRASSI STORIOGRAFICA IN ANNIO DA VITERBO 165

tis officium. […] Et idcirco omnes Graeci autores de temporibus


ferme ut verbosi reiciuntur, quia non erant sacerdotes nec proba-
ta fide scribebant, sed […] quisque per opiniones, ut cuique vi-
sum est, scripsit. Unde nec mirum si inter se pugnant et dissen-
tiunt et intestino bello, non philosophiam modo, sed etiam totam
historiam confodiunt et obtruncant28.
Dunque, vi è una storia veridica che è officio sacerdotale e che si ap-
poggia bibliothecis aut archivis, secondo quanto veicolato dall’esattissimo
Beroso, entro linee di ferrea ufficialità che impongono le regulae temporum
suggerite dal testo di Metastene:
prima regula est ista: suscipiendi sunt absque repugnantia omnes
qui publica et probata fide scripserunt. […] Secunda regula est
ista: gesta et annales quatuor monarchiarum non possunt negari
et reici ab aliquo, quia solum publica fide notabantur et in bi-
bliothecis aut archivis servabantur. […] Tertia regula: qui solo au-
ditu vel per opiniones scribunt privati, hii non sunt in temporibus
recipiendi, nisi ubi a publica fide non dissentiunt29.
Una prospettiva, per altro, in cui è in nuce la negazione stessa della li-
bera e ‘privata’ ricerca dell’atto storiografico, una divaricazione radicale, e
forse scritturale, dalla linea privilegiata che, dalla grande storiografia greca,
conduceva, senza significative soluzioni di continuità, e comunque con una
forte accentuazione nell’ultimo periodo di rimodellizzazione classicistica,
all’esperienza della scrittura storica dell’Umanesimo. Quanto alla giusta
petizione di principio relativa all’uso di archivi e biblioteche, si osservi che
per Annio si tratta di luoghi dove si custodisce una verità tradizionale pre-
determinata, e, in fin dei conti, di autorevoli strumenti di autentificazione
dei falsi, in una prospettiva, quella della storiografia sacerdotale, che rinvia
ancora una volta a una formazione nell’ambito di cultura conventuale di cui
si diceva prima. Dagli interventi di Annio de historia conscribenda emer-
gono, dunque, una serie d’opzioni radicalmente diverse da quelle dei suoi
contemporanei: questi avevano appuntato la loro riflessione verso l’indivi-

28 Antiquitates, E6r: da notare che, mentre il titolo del falso è derivato da un er-

rore di Pietro Comestore, la necessità di duplicare e distinguere un Megastene da un


Metastene è dovuta al fatto che Megastene era figura nota come storico dell’India,
almeno dal Contra Apionem I, 20, mentre l’autore del Liber Iudiciorum (al posto di
Indicorum secondo l’errore della Historia scholastica), poteva utilmente essere ac-
colto, con piccola variazione onomastica, come cronografo «de iudicio temporum»,
che per Annio equivale a «de censura temporum».
29 Le ulteriori regulae relative alla cronologia in Antiquitates, E6r-v.
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166 GIACOMO FERRAÙ

duazione di un ‘periodo storico’, di una struttura che l’esperienza retorica


rendesse narrazione coerente e ordinata (e ordo è parola chiave della spe-
culazione di un Trapezunzio o un Pontano); Annio invece offre una serie di
regole che riguardano i contenuti, il modo di vagliare le notizie e di co-
struire non un ordo retorico ma una griglia cronologica: un metodo che cer-
to trovava radici nella cultura monastica, e per molti aspetti si collocava su
un fronte arretrato rispetto alle formulazioni del tempo30.
Tuttavia, per una valutazione che tenga conto dei dati reali del pro-
blema, non può non essere rilevato che tali regole nascono, in fin dei con-
ti, come un codice su cui modellare dei falsi: da qui l’accento su proble-
matiche di cronologia e genealogia, di contro ad una struttura narrativa, più
difficile da ricostruire in maniera accettabile. Viene, quindi, perseguita u-
na proposta storiografica che ha come momento fondante il principio d’au-
torità, di una storia monarchica e sacerdotale in qualche modo ne varietur,
per cui la misura della validità di una ricostruzione è data dalla maggiore
o minore vicinanza al canone delle quattro monarchie, gestito per altro da
casta sacerdotale. E che si tratti di ‘storia ecclesiastica’, come si è detto un
arretramento di fronte rispetto ai risultati della coeva storiografia etico po-
litica, impegnata nella comprensione della vicenda più immediata, lo dice
la struttura ‘eusebiana’ (dell’Eusebio cronografo) e la sottolineatura del-
l’inconoscibiltà del processo storico, se non, biblicamente, per generazio-
ni, «quia origo haberi non potest nisi per genealogias»31; lo dice ancora
l’articolazione stessa del ragionamento costruito su un’esperienza che ha
frequentato e si è informata in scuole di dialettica e teologia, con gli argu-
menta a coniugatis o a nomine che tentano di dare al discorso un’oggetti-
vità ‘invincibile’32, anche se le premesse dei sillogismi risulteranno radi-

30 Per il posto centrale della cronografia in tanta parte della storiografia me-
dievale, GUENÉE, Histoire cit., pp. 147-165.
31 Antiquitates, O5r. Che la linea progettata da Annio sia una linea di cronolo-

gia e genealogia in cui la direttrice narrativa di tipo liviano è piuttosto presupposta


per alcuni falsi, emerge da molti luoghi delle Antiquitates, ad esempio K3r, dove si
dice: «neque opus est de originibus urbium tempora et fortunas assignare, quia haec
ad historiam pertinent, quam illi [gli pseudoautori] praecognitam a lectoribus pre-
supponunt». Del resto in Antiquitates, i3r, così erano caratterizzate le fonti della
nuova proposta storiografica: «plus quam sacra est Etrusca historia et commentaria
nostra, quae, non solum titularibus argumentis [le iscrizioni], sed praeter ea etiam
praecipuis auctoribus, prescriptis limitibus, nominibus et locis adhuc perseveranti-
bus et historicis eiuscemodi innumeris argumentis constant».
32 Per l’argomento ‘a nomine’, si veda supra, nota 25; per quello ‘a coniuga-

tis’, Antiquitates, c5r, anche questo definito invincibile, con rinvio ai Topica di Ci-
cerone, III, 12. La stessa struttura del periodo anniano non è di tipologia storiogra-
fica, ma piuttosto filosofica: si vedano i numerosi necessario consequens est e si-
mili, ad esempio in Antiquitates, C6v.
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RIFLESSIONI TEORICHE E PRASSI STORIOGRAFICA IN ANNIO DA VITERBO 167

calmente viziate da una filologia approssimativa e spesso volutamente di-


sonesta.
E, a proposito degli argumenta, quello a nomine è la via prevalente del-
la ricostruzione storica: nella prospettiva millenaria della vicenda conside-
rata da Annio, l’unica possibilità di lunga durata è costituita dal permanere
dei nomi, pur nelle varie metamorfosi; per cui, riprendendo uno spunto li-
viano, a proposito della denominazione dei mari intorno all’Italia, segnale,
appunto, presso l’antico storico della preponderanza etrusca, il Nanni ri-
corda la colonizzazione noachica estesa a tutta l’Europa a Tanai ad Gadi-
ram e sottolinea come tale antichissima e ‘primordiale’ attività abbia la-
sciato «locis ac gentibus vocabula, ex quibus quaedam mutata sunt a poste-
ris, alia permanent»33. E anche nel caso di una successiva mutazione vi so-
no dei mezzi linguistici che consentono di ricostruire l’origine, per cui nel-
le Antiquitates si prospettano pagine dedicate alla enunciazione di sia pur
elementari regole glottologiche, derivate, non soltanto dalla tradizione
grammaticale occidentale, ma soprattutto dalle tecniche dei Talmudisti, in
grado di ricondurre la secolare evoluzione all’antichissima origine aramea
e ‘scitica’ dell’impositio nominum34.

33 Antiquitates, Q6r.
34 Nelle Antiquitates la dimensione linguistica e grammaticale in servizio del-
la ricostruzione antiquaria è uno dei filoni più corposi: sulla scorta di Donato e Pri-
sciano (per cui, DE CAPRIO, La tradizione cit., pp. 198-199) Annio offre vere e pro-
prie regole glottologiche soprattutto per quel che riguarda la formazione dei nomi
composti, la cui scomposizione in unità significative di temi aramaici, secondo
spunti derivati da s. Gerolamo nel De nominibus hebraicis, ma, soprattutto, dalle
tecniche dei talmudisti contemporanei, è via privilegiata per la comprensione del
passato. In tal senso si veda quanto detto in Antiquitates, D3r: «notandum item quod
nomina localia et gentilia et interdum communia, dum veniunt in compositione,
semper sincopantur, aut per sineresim ultima syllaba primae dictionis abicitur, nisi
fiat hiatus, quia tunc etiam prima syllaba secundae dictionis subtrahitur gratia eufo-
niae». Da questi principii nasce il metodo combinatorio delle derivazioni anniane,
da competenze geronimiane ed ebraiche (per cui utile bilancio in PROCACCIA, Tal-
mudistae Caballarii cit., pp. 111-121, dove, tra l’altro è prospettata una persuasiva
identificazione di quel rabbi Samuele che è il principale interlocutore di Annio); i-
noltre, la priorità temporale esclude possibili derivazioni latine o greche, nel caso,
ad esempio, di Arezzo e Fiesole, Antiquitates, B5r: «qui latine putant dicta fallun-
tur nimis. […] Haec enim nomina, ante latinam linguam ab Etruscis indita, sunt a-
rameae originis», o C5r, a proposito degli Orobici, che possono derivare da etimo-
logia greca, «graece enim oros mons et bios victus et vivens dicuntur», o aramaica,
«oros etiam apud Arameos […] est mons et bit filius vel filia. Hinc Orobii, filii mon-
tium». Ma in tali casi è decisiva la priorità temporale, «quod, ubi est nomen barba-
rum, ibi origo prorsus fuit barbara, etiam si id nomen postea effluxerit in linguam
latinam vel graecam». Se con la tecnica della sineresi non si raggiungono i risulta-
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168 GIACOMO FERRAÙ

Proprio questa possibilità rende particolarmente utile e autorevole


l’argomento a nomine: «et ideo argumentum a nominibus vetustis gentium
et locorum est validius quocunque auctore, quia auctores quandoque fal-
luntur et fallunt, non autem nomen impositum»35. E, del resto, nella pro-
spettiva di Lattanzio, il toponimo è specchio immediato di una impositio
regia, e, pertanto, diretta testimonianza dell’attività di un re o di un ever-
gete. Anche l’argomento a nomine potrebbe, per altro, essere uno spunto
metodologico valido, se non fosse che ogni movimento può essere effet-
tuato nei due sensi, dall’ecista al luogo, ma anche dal luogo si può risalire
ad un nome di ecista; e, in tal senso, l’argomento assume un alto tasso di
aporeticità, diviene ancora una volta un tassello delle regole adatte a co-
struire una falsa prospettiva: da qui l’orgia di nomi e di interpretazioni che
utilizzano l’aramaico come il volgare, per cui, alla fine, nella lista dei re-
gnanti etruschi i nomi ricavati avventurosamente da toponimi sono preva-
lenti. Se si deve dare un giudizio conclusivo sulla tensione precettistica di
Annio, non si può non rilevarne col Guenée36 la circoscrivibilità entro ca-
noni ben conosciuti alla cultura medievale: il che non vuol essere un giu-
dizio di per sé negativo, anche se deve essere evidenziata, ancora una vol-
ta, la validità della prospettiva umanistica nel progresso della disciplina,

ti, vi sono dei fenomeni che possono essere ricostruiti dall’esperienza del volgare:
l’aferesi ipocoristica, ad esempio, Antiquitates, I6r da Titanim la città di Tanim,
«truncata prima syllaba, […] quia ubi grammatice scribitur Philippus, Nicolaus,
[…] vulgo, truncata prima syllaba, pronunciamus Lippus, Colaus»; o per l’alter-
nanza nelle fonti Roma / Ruma, Antiquitates, L3r, «Etrusca olim lingua, et aetate
mea, non habet o integrum, sed inter o et u, et magis appropinquat u in compluri-
bus». Ma l’esperienza grammaticale di Annio attinge anche problematiche di un
successivo livello, ad esempio i problemi di semantica di s. Tommaso, Antiquitates,
g3v «in prima parte quaestionibus, quas de divinis nominibus facit, docet quod ali-
quando aliud est a quo nomen imponitur, et aliud ad quod significandum imponitur,
sicut lapis a ledendo pede imponitur, et significat substantiam duram». O la specu-
lazione dei modisti, a proposito della ricchezza semantica del nome di Viterbo, An-
tiquitates, c4r-v «nam, quaecunque eandem propriam derivationem et originem no-
minis habent eandem rem significant, licet possint differre in modo significandi, te-
ste auctore modorum significandi et speculativis, non vulgaribus, grammaticis». Il
riferimento può essere al modus significandi nominis di BOEZIO DI DACIA, Tractatus
modi significandi, a cura di J. PINBORG-H. ROOS-S.S. JENSEN, Copenaghen 1969, p.
262, o MARTINO DI DACIA, Tractatus de modis significandi, Copenaghen 1961, p.
161. Sulla problematica in generale, v. J. ROSIERS, La grammaire spèculative des
Modistes, Lille 1983, e M.G. AMBROSINI, Grammatica speculativa: Boezio di Dacia
e Tommaso di Erfurt, Palermo 1984.
35 Antiquitates, Q6r.
36 GUENÉE, Histoire cit., p. 181, che discute le regole e la valutazione del Goetz.
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RIFLESSIONI TEORICHE E PRASSI STORIOGRAFICA IN ANNIO DA VITERBO 169

proprio in direzione della costruzione di un ‘periodo storico’ che ponesse


in primo piano problematiche etico-politiche e concatenazione di nessi
causali, anche a costo di rompere quella mirabile costruzione cronografica
che era stata uno dei vanti della storiografia prodotta nella stagione prece-
dente.
Ma, a parte ogni valutazione teoretica, è poi sul piano della ricostru-
zione storiografica che alla fine le Antiquitates dovranno essere valutate: o-
ra, se è pacifico che tutta la ricostruzione si basa su una documentazione
falsa, non ci si può, tuttavia, limitare a questa sbrigativa, anche se giusta,
considerazione e occorrerà piuttosto rivisitare la pratica storiografica di An-
nio che, accanto ai falsi, utilizza e discute testimonianze autentiche; ché an-
zi il rammarico di chi considera l’attività del frate può essere quello che tan-
ti tesori d’intelligenza non si siano applicati alla sistemazione del materia-
le offerto dalla tradizione, nell’intento di offrire una precoce, e forse mira-
bile, ricostruzione delle antichità etrusche che sarebbe stata opera storio-
grafica di importanza certamente notevole.
Tra le varie sezioni delle Antiquitates il catalogo dei re etruschi è cer-
tamente il luogo in cui si compendia e conclude la fatica storiografica di
Annio: si tratta sostanzialmente di una lista commentata di nomi di Larthes,
disposti in una griglia cronologica di derivazione eusebiana, da Noè sino al
periodo imperiale; un compito assai difficile, data la scarsità di testimo-
nianze, ma che il frate affronta con la baldanza e la decisione che lo con-
traddistinguevano. Il primo problema è quello di definire questa figura di re
etrusco nel nome e nelle funzioni: Annio parte da un dato offerto dal com-
mento serviano all’Eneide, X, 202, che afferma essere la confederazione
delle città etrusche organizzata in dodici popoli, rappresentati ciascuno da
un lucumone, mentre un tredicesimo presiedeva il collegio. Il dato serviano
veniva dilatato mediante il ricorso all’onomastica: in Livio erano menzio-
nati Lars Tolumnio e Lars Porsenna37, e da qui Annio argomenta: «teste
enim Servio […] hoc existimo fuisse proprium Etrusci regis regum epithe-
ton»38; l’interpretazione viene poi verificata con una ricerca sul versante a-
rameo e scitico, vale a dire presso la lingua primordiale. Tuttavia le fonti
classiche avevano testimoniato esplicitamente con Dionigi d’Alicarnasso
che Lars era stato nome proprio: a questo punto scatta l’argomento della
Graecia mendax che si traduce nella consueta invettiva, «deridendus est i-
gitur in hac parte Dionisius Halicarnasseus, aut certe danda est venia igno-
rationi morum gentis Etruscae ac eius nominum. Asserit enim Porsenam

37 Rispettivamente, Ab urbe condita, II, 9, 1, e IV, 17, 2.


38 Antiquitates, T4v. Ma, per la valenza sacra delle istituzioni etrusche e per i
referenti ‘moderni’ si veda quanto detto infra.
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170 GIACOMO FERRAÙ

fuisse regis cognomen, Larth vero nomen proprium, cum econtra Larth sit
dignitatis cognomentum commune»39.
In effetti, la presenza dell’onomastica come uno dei fili di Arianna
nel seguire la costruzione anniana si basa su due principi che sono dei ve-
ri e propri paralogismi: il primo consiste nel ridurre, a seconda delle cir-
costanze, un nome proprio a nome comune, come si è visto per Lars e, per
converso, un nome comune a nome proprio; il secondo è quello dei no-
mina aequivoca: la vita dello storico è infatti resa difficile dalla presenza
di omonimi di varia età, più Giovi, più Ercoli, e così via. Ma, ciò che può
essere un ostacolo per lo storico è invece una fortuna per il falsario; così
Annio si muove a suo agio tra gli equivoci, sfuggendo alle attestazioni
delle fonti coll’espediente di reduplicare i personaggi e distribuire quindi
i fatti secondo schemi a lui opportuni40. Se il signore sovrano dell’Etruria
è il Lars, la sua sede è senza dubbio Etruria, la futura Viterbo, intesa co-
me città capitale, non come regione. Il discorso che porta alla identifica-
zione di Etruria con Viterbo viene ripreso lungo tutto l’arco dell’opera,
ma sostanzialmente si basa su due passi di Livio e Plinio che testimonie-
rebbero il vero significato del toponimo: peccato che entrambi siano cita-

39 Il riferimento a Dionigi d’Alicarnasso, V, 21.


40 Per stabilire questi due importanti principii Annio allega uno pseudoautore
ad hoc, un Senofonte che avrebbe dedicato un’opera specifica al chiarimento de ae-
quivocis, in cui si stabilisce che «Saturni dicuntur familiarum nobilium reges, qui
urbes condiderunt senissimi. Primogeniti eorum Ioves et Iunones. Hercules, vero,
nepotes eorum fortissimi. Patres Saturnorum Celi, uxores Rheae et Celorum Vestae.
Quot ergo Saturni, tot Celi, Vestae, Rheae, Iunones, Ioves, Hercules. Idem quoque,
qui unis populis est Hercules, alteris est Iuppiter» (Antiquitates, H8v). Dove il testo
citato, più che un chiarimento, offre la fondazione di un universo storiografico di ae-
quivoca in cui Annio può muoversi agevolmente per la costruzione dei falsi. So-
stanzialmente è un modo per sfuggire all’altrimenti cogente tradizione mitologica
ellenica, creando due livelli, uno recenziore, inquinato dalla menzogna greca, in cui
agisce un Eracle arcipirata e un Saturno iuniore ‘Aptera’: «malum ortum est a Grae-
cis, qui omnium gesta suis tribuunt, quos eisdem nominibus nuncuparunt; quorum
levitas, instructa dicendi facultate ac copia, incredibile est quantas mendaciorum ne-
bulas excitaverit» (Antiquitates, I4v). Vi è poi un livello più antico in cui agiscono
gli evergeti ianigeni, Libio, detto Hercol, e vari Saturni, Saba, colonizzatore del La-
zio e perfino il Saturno egizio Cam e così via; in effetti, una pluralità di personaggi
dallo stesso nome era testimoniata da autorevoli fonti classiche, ad esempio, per Er-
cole (e proprio alla distinzione dei personaggi di tal nome è dedicato largo excursus
a V6r-v), Cicerone, De nat. deorum, II, 16, 43. Ma è dallo sterminato mare mitolo-
gico della Bibliotheca di Diodoro Siculo che Annio deriva particolarmente la mate-
ria, ad esempio per ‘Aptera’ e la pluralità degli Ercoli, V, 64, cui si aggiunga per Er-
cole Libio I, 17-20.
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RIFLESSIONI TEORICHE E PRASSI STORIOGRAFICA IN ANNIO DA VITERBO 171

ti in lezioni di comodo. Ad esempio Livio, I, 30, 7, direbbe «erat vicina


Etruria, proximi Etruriae Veientes» da cui si argomenta che, essendo i
Veienti essi stessi Etruschi, non possono essere vicini alla loro regione,
per cui Etruria deve significare la città capitale, la futura Viterbo. Solo
che la lezione Etruriae non è altrimenti riscontrabile nella tradizione di
Livio41. Quanto a Plinio, questi, nel capitolo quinto del terzo libro, direb-
be secondo Annio «Volturreni, cognomine Etrusci», identificando così
due delle parti della tetrapoli che diventerà Viterbo: ma ancora una volta
si tratta di una lezione inventata, contro il vulgato «Volaterrani cognomi-
ne Etrusci»42.
Partendo da queste minime, ma significative, scorrettezze, che, co-
munque, inficiano alla base le premesse dei pur rigorosi sillogismi, il Nan-
ni ricostruisce la storia antica della prima capitale del secolo aureo in una
vicenda assai complessa che mette in campo una serie fittissima di testimo-
nianze, vere o false, bene o male interpretate e che approda alla tavola dei
regnanti etruschi. Nell’affrontare il compito Annio si trova di fronte alla ne-
cessità di riempire di una serie continua di nomi lo smisurato spazio crono-
logico che va da Noè a Nerone, un lavoro immane in cui convergono tutti i
risultati del lavoro precedente. Si inizia, appunto, da Noè, il cui significato
ideologico forte sarà chiarito più avanti e si procede con Comero Gallo, che
è il biblico Gomar, figlio di Jafet; segue Ochus Veius, ricostruito sul topo-
nimo Veioco, e nient’altro43. Regna quindi Camese, misterioso personaggio

41 Valga per tutti la testimonianza dell’edizione liviana adoperata, Historiae

Romanae decades, Romae, C. Sweynheym e A. Pannartz, 1469, f. 9r, dove la lezio-


ne è quella comune proximi Etruscorum Veientes: la lezione anniana, in ogni caso,
non figura ad un rapido controllo della tradizione.
42 Dei numerosi luoghi dedicati al problema, basti il rinvio a quello conclusi-

vo, Antiquitates, h2r: la lezione che figura nella edizione del Perotti, adoperata da
Annio è, appunto, Volaterrani, non corretta dal Barbaro: HERMOLAI BARBARI Casti-
gationes Plinianae et in Pomponium Melam, a cura di G. POZZI, Padova 1973, I, p.
108. Le edizioni moderne hanno piuttosto Volcentani.
43 Occorre osservare anzitutto che la lista dei re etruschi è fermamente inqua-

drata in un reticolato cronologico di origine, non ovviamente berosiana, ma euse-


biana, uno spazio temporale predefinito, quindi, che deve essere adeguatamente co-
perto da una serie di regnanti: da qui la necessità di formare una lista più ricca di
quanto era possibile costruire con l’onomastica tramandata dai classici, ricorrendo
ad epigrafi e pseudoepigrafi e, soprattutto, a derivazioni da toponimi. E che il pri-
mum cogente sia un percorso cronologico, lo afferma con chiarezza lo stesso Annio,
quando discutendo della cronologia delle imprese di Enea, Antiquitates, &2v, affer-
ma: «et quanvis de annis Aeneae quidam varient, ut plurimum tamen probatiores
supputant annos sex a captivitate Troiae usque ad eius interitum. Cui est argumento
invincibili, quia, si plures aut pauciores tribuantur, discordaret a publica et probata
fide temporum monarchiae Assyriorum», che poi è in realtà il reticolato proposto da
Eusebio. Da qui la necessità di computare Noè-Giano, Comero, figlio di Iafet, se-
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172 GIACOMO FERRAÙ

indigeno delle fonti romane in relazione con Giano44, ma in Annio Cam e-


senus (che vale in aramaico infamis: e si sa che il terzo figlio di Noè non e-
ra un tipo raccomandabile): la sua attività volta al delinquere costringe Noè,
che intanto era andato a colonizzare la Spagna, a tornare per cacciarlo. A
Noè-Giano succede Crane, detto Razena45; seguono Aruns, derivato da to-
ponimo, e il celebre aruspice Tagete, quindi Sicano e Enachio Luchio46, O-
siride-Apis, su suggestioni diodoree, e Lestrigon47. La stirpe noachica con-
tinua con Ercole Libio e i suoi figli, Tusso (da Festo) e Alteus (da Erodo-
to)48. Segue la vicenda di Espero ed Italo Atlante, Morgete, Corito, Iasio
e Dardano, di cui sono piene le storie, anche viterbesi49. Dopo le vicende

condo Gen. X, 2; e quindi Ochus Veius in base toponimica, a quo vestigium manet
mons Veiocus. In realtà, la minuta mappatura del territorio viterbese, in dimensione
anche diacronica, derivata dall’escussione di antichi documenti di possesso del con-
vento di S. Maria di Gradi, consente ad Annio una ricchezza di apporti onomastici
utilissima alla costituzione della lista.
44 Camese è personaggio misterioso che esercita per qualche tempo la correg-

genza con Giano: Macrobio, Sat., I, 7, 19, «cum Camese aeque indigena terram
hanc partecipata potentia possidebant, ut regio Camesena, oppidum Ianiculum vo-
citarentur. Post ad Ianum solum regnum redactum est». In base a questa scarna te-
stimonianza Annio costruisce un fantasioso racconto, con Cam che si stabilisce in I-
talia mentre Giano è occupato a colonizzare la Spagna, e ricomincia a propagare gli
errori e gli abomini che avevano causato il diluvio. Giano è costretto, quindi, a ri-
tornare e a cacciare il figlio, che passa in Sicilia (si veda il toponimo Camarina), e
in Africa, dove sarà il Saturno egizio, insigni empietate imbutus, ma padre del giu-
sto Osiride, secondo quanto si poteva leggere in Diodoro, III, 71, e Annio riprende-
va, con Beroso, ad Antiquitates, R5r-v.
45 Crano, modellato su Crane, la ninfa di Fasti, VI, 107, ma per Annio figlia di

Giano e regina del Lazio; quanto a Rasenna, si veda Dionigi d’Alicarnasso, I, 30.
46 Arunte è da toponimo, secondo la lettura anniana (per cui, Antiquitates, D5v)

di Plinio, N. H., III, 52 «memoriam servant eius coloniae»; Tagete è il celebre in-
dovino, più volte citato dalla tradizione classica (Ovidio, Met., XV, 558, Cicerone,
De div., 2, 23, 50 e Lucano, I, 637). Sicano è da toponimo, la Valle Sicana di Viter-
bo, e lo stesso per Enachio, dal toponimo Katenakios.
47 Tutta la vicenda della lotta di Osiride, identificato con Api, contro i giganti

è presa da Diodoro, I, 17-18; Lestrigon è invece creazione di Annio dai Lestrigoni,


per avere la possibilità dell’inserimento di un regime tirannico che Ercole avrebbe
poi eliminato (ma come nome di regnante figura presso Silio Italico, XIV, 125); da
Beroso, Antiquitates, V1v, si apprende che Osiride aveva lasciato a reggere l’Italia
«Lestrigonem gigantem, sibi ex filio Neptuno nepotem».
48 La presenza di Ercole Libio è centrale nella mitologia viterbese e Annio de-

dica spazio cospicuo a questa figura di evergete, accuratamente distinto da Eracle


tebano (Antiquitates, V6rv). Quanto ai figli, l’uno è preso da Festo-Paolo Diacono:
SEXTI POMPEI FESTI De verborum significatione, cum Epitome Pauli Diaconi, a cu-
ra di W.M. LINDSAY, Leipzig 1913, p. 487, e l’altro da Erodoto, I, 7, 2.
49 Delle vicende di Espero, Atlante, Morgete, Corito, Iaso e Dardano sono, co-
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RIFLESSIONI TEORICHE E PRASSI STORIOGRAFICA IN ANNIO DA VITERBO 173

sanguinose di odio fraterno, e dopo un breve periodo di reggenza del fan-


ciullo Coriban, si cambia dinastia col meonio Torebo, di sangue anche lui,
comunque, ianigeno, che prende dal suo nuovo regno il nome di Tirreno:
a lui succede il fratello Tarconte50.
Con il nuovo periodo della storia etrusca mutano i riferimenti cultura-
li: i nomi dei Larthes allora deriveranno soprattutto dalla tradizione poetica
augustea e, al solito, dalla toponomastica. Così, se Abante è ricavato da o-
nomastica virgiliana, Olanus sarebbe stato il fondatore di Milano51. Seguo-
no Vibenno, che sarebbe un antenato del Celio Vibenna attivo nell’età di
Romolo, e Osco, l’eponimo degli Osci52. Tarconte secondo è poi il Lars
che, teste Solino, aveva imprigionato Caco; Tiberinus è tratto da Virgilio-
Servio: padre di Ocno, sarebbe stato ucciso da Glauco, figlio di Minosse53.
Segue Mezentio, le cui vicende sono note; a lui subentra Tarconte terzo, il
comandante degli aiuti etruschi ad Enea. Intanto Ocno raggiunge la mag-
giore età e sale al potere54. La serie successiva dei Larthes consente all’in-
ventiva di Annio di dare il meglio di sé: Pipino deriva da toponimo, e anche
Nicio; Piseo deriva da Plinio, Tusco iunior da iscrizione, Annius dalla fa-

me dice lo stesso Annio, pieni i codici, a partire dalla sua Epitome, pp. 96-104, e re-
lativa annotazione. Notizie potevano comunque derivare da Servio, per Atlante Ita-
lo, la chiosa ad Aen., VIII, 134; per Corito, a III, 167 (ma anche Lattanzio, Div. In-
st., XXIII, 3); si aggiunga per Italo e Morgete, Dionigi d’Alicarnasso, I, 12.
50 Notizie sulle vicende di Iaso Coribante e Cibele e sul trasferimento in Asia

Annio trovava spunti in Diodoro, V, 49 (ma Coribante era segnalato come re del
Lazio già da Martin Polono, Chronicon, 400); si coglie inoltre l’occasione per met-
tere d’accordo la tradizione indigena e quella meonica dell’origine etrusca (per cui
si veda anche Dionigi d’Alicarnasso, I, 28): infatti, dopo l’assassinio di Iaso e la
fuga di Dardano in Frigia, dove avrebbe fondato una gloriosa città, Cibele, essen-
do Coribante ancora troppo giovane, avrebbe raggiunto il cognato in Asia e con-
vinto Torebo, figlio di re Atu, a venire a reggere gli Etruschi, proprio perché an-
ch’egli di origine ianigena. Torebo poi si sarebbe chiamato Tirreno in omaggio al
suo nuovo popolo.
51 Con Torebo-Tirreno comincia da parte degli Etruschi una colonizzazione per

tutta la penisola: affidata al successore, secondo Strabone, V, 219, il primo Tarconte.


Viene quindi Abante, di derivazione virgiliana, il torvus Abas di Aen., X, 170 (dove
torvus è per Annio nome proprio); e Olano, da toponomastica, il fondatore di Milano.
52 Per Veibeno si veda infra, nota 56; Osco è l’eponimo degli Osci, su cui An-

tiquitates, Z3v «a venenoso et terrifico serpente dictus, quem ad hanc aetatem Etru-
sci Oscorzonem dicimus». Il collegamento degli Osci col serpente deriva dalla chio-
sa di Servio ad Aen., VII, 730.
53 Il secondo Tarconte è colui che avrebbe imprigionato Caco nel Labirinto, co-

me risulta da Solino, Coll., I, 7, mentre di Tiberino e della sua lotta con Glauco nar-
ra le vicende Servio nella nota ad Aen., VIII, 330.
54 I nomi dei tre Lartes seguenti sono di celebre derivazione virgiliana: notis-

simo Mezenzio, le cui vicende sono ampiamente narrate nei libri VII-X dell’Enei-
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174 GIACOMO FERRAÙ

miglia Annia, nel cui futuro sarebbe stato destino imperiale; Felsino e Bon
sono gli ecisti etruschi di Bologna, Atreus dell’Adriatico; Marsia è re etru-
sco secondo la tradizione, Etalo viene da Ethalia55. Tornano per Celio Vi-
benna le fonti classiche; quanto al suo successore, Galerito, deriva da due
loci properziani, l’uno che descrive il rozzo lucumone primitivo galeritus,
cioè col capo coperto dal galero, con il consueto passaggio dall’aggettivo o
nome comune al nome proprio, personaggio identificato poi con il lucumo-
ne accorso in aiuto di Romolo contro i Sabini di un’altra elegia ‘romana’56.
Lukius e Cibicius provengono poi da pseudoepigrafi, Lucumone di Chiusi
da Livio, Rhetus è l’eroe fondatore dei Reti e Yellus è derivato da toponimi
e iscrizioni57.
L’ultimo periodo di indipendenza etrusca vede regnare Porsenna, To-
lumnio, Eques Tuscus e Livius Fidenas, secondo Annio tutti etruschi58. Infi-
ne Elbius, ancora da toponimo, viene sconfitto dai Romani e l’Etruria perde
la sua indipendenza, ma non i suoi Larthes; i nomi dei quali sono ricostrui-
ti da una iscrizione autentica, ma con un gioco di prestigio stupefacente59.

de; il terzo Tarconte è il condottiero degli ausiliari etruschi ad Enea, Aen., VIII, 506;
Ocno-Bianoro è il fondatore di Mantova, Aen., X, 198, e Buc., IX, 60, con relativo
commentario serviano.
55 Pipino si ricava da pseudoiscrizioni, ma anche da onomastica attuale (le ter-

me Pipiniane), non senza un ricordo liviano, IX, 41, 10; Piseo da Plinio, N. H., VII,
201; Nicio e Etalo dalle fondazioni etrusche di Nicea, in Corsica ed Etalia, l’isola
d’Elba, entrambe in Diodoro, V, 13; Tuscus iunior da una pseudoepigrafe di Tosca-
nella, a Tusco Larthe adaucta; Annius è il fondatore della gens Annia (orgoglio gen-
tilizio corroborato dalla genealogia degli Antonini: Historia Augusta, Antoninus
Pius, I, 7, e VI, 10); Felsino, Bon e Atrio sono tre nomi di ecisti, rispettivamente di
Bologna e dell’Adriatico; quanto a Marsia, è il re etrusco colonizzatore dei Marsi in
Plinio, N. H., III, 108.
56 Per Cele Vibenna, si veda Varrone, De lingua latina, V, 46; Galerito è rica-

vato da Properzio, IV, 1, 29, per cui, infra.


57 Antiquitates, &2v: «Cibicius adhuc inscriptus servatur in sacrario cinerum

augustalis Surrenae»; Lukio è attestato da pseudoiscrizione, ma è anche in Festo,


Lindsay, 105, da cui prendono nome i Luceres. Lucumone di Chiusi è colui che in
Livio, V, 33, 3, ha causato l’invasione dei Galli; Reto, come eponimo dei Reti, è trat-
to da Plinio, N. H., III, 133; quanto al nome di Yello, infine, «servant eius inscrip-
tiones in sacrario cinerum Ry Yelli», Antiquitates, &2r.
58 Lars Porsenna e Lars Tolumnio dalla cui menzione liviana è ricavato il titolo di

Lars, per cui si veda supra, nota 37; Eques Tuscus è l’eponimo degli Equi, testimoniato
da iscrizione, in thermis Pauli Benigni; Livius Fidenas è in Macrobio, Sat., I, 11, 37-39.
59 Il nome di Elbio è ricavato da toponimo in Tolomeo, III, 1, 49 (secondo la

lezione testimoniata da BARBARO, Castigationes cit., III, p. 1220); quanto ai suoi im-
mediati successori, Annio, Antiquitates, E2r, dice: «in Surrenae thermis canale in-
gens plumbeum Cecynnae invenit Paulus Benignus ita latinis litteris excisum TURR.
TITIANI V. C. idest ‘Turreni Titiani Volturreni Cecynnae’. Ita Cecynnae epithetum
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RIFLESSIONI TEORICHE E PRASSI STORIOGRAFICA IN ANNIO DA VITERBO 175

Con Cecina l’Etruria rinunzia anche ad una produzione culturale autonoma:


accetta il latino, declinato però stilo molli et dissoluto. Tuttavia vi sono anco-
ra dei principi etruschi, Menippo, Menodoro, ricavato da Appiano e male col-
legato con l’Etruria60, attribuito come padre a Mecenate: atavis edite regibus.
Ancora in età imperiale vi sono principi etruschi: Seiano, che avrebbe potuto
essere imperatore, «si Nortia Tusco favisset», Scevino, che aveva congiurato
contro Nerone, e infine Otone che aveva effettivamente raggiunto l’impero,
ma che, da buon ferentinate, era stato avverso a Viterbo61.
Il risultato di un così complesso lavoro è una struttura di latitudine mil-
lenaria, in cui confluiscono apporti classici e scritturali, bene o male inter-
pretati, accanto ad una presenza di onomastica locale, come testimonianza
d’antichi antroponimi regi, secondo una tabula geografica in cui coesistono
il presente, la testimonianza d’archivio per il Medioevo, la tradizione clas-
sica di Plinio, Strabone o Tolomeo, tre momenti collegati da una tensione
evolutiva ricostruibile con metodo grammaticale62; e ancora l’uso disinvol-

paternum avitum et proavitum antecedunt more latino». In proposito si veda FUMA-


GALLI, Un falso cit., p. 357: «di fronte ad una simile lettura del testo si deve dire che
il dilettantismo di Annio non conosceva confini». Si aggiunga che il nome Cecina
attribuito a personaggio etrusco era già in Plinio, N. H., X, 71, dove, però, figurava
un Cecina Volaterrano: Annio ritornava al problema nella Quaestio annia 27, Anti-
quitates, h5r, dove proponeva una correzione, al solito postulando un errore di stam-
pa, in Volturrenus, proprio in base alla sua strana lettura dell’iscrizione: «fuit Vol-
turrenus, pronepos Turreni».
60 Del tutto fantasiosa la filiazione Menippo (di invenzione anniana), Menodo-

ro (ricavato da Appiano, Bell. civ., V, 81, 342, e malamente collegato con l’Etruria),
Mecenate che conclude la serie dei Larthes, ormai soltanto personaggi di prestigio,
sin dentro l’età imperiale romana.
61 La volontà di completare la lista dei capi etruschi fa accogliere nel numero

personaggi che non avevano goduto di una buona stampa. Di fatto, per Seiano il ri-
ferimento è alla decima satira di Giovenale in cui, ai vv. 65-77, emergeva la possi-
bilità di accedere all’impero e, soprattutto, una devozione alla dea nazionale etrusca
Nortia. La vicenda di Scevino è testimonata da Tacito, Annales, XV, 49-55; infine
l’origine etrusca di Ottone è in Svetonio, Otho, L, 1. Non è possibile dire perché An-
nio ha voluto arrivare faticosamente con la lista al tempo di Nerone, e nulla è di-
chiarato esplicitamente in proposito: se è possibile prospettare una congettura, oc-
correrà osservare come il discorso sia condotto proprio al tempo in cui a Roma si
sarebbe insediato il primo pontefice massimo cristiano, nei cui confronti Annio evi-
denzierà una vera translatio imperii dai Larthes, per cui si veda infra.
62 L’importanza di Tolomeo ai fini del suo discorso era rilevata dallo stesso An-

nio, Antiquitates, K1r, dove è detto che, chi vuol capire Sempronio, «habeat ante se
pictam imaginem Italiae, praecipue quam Ptolomaeus describit». Poi la lezione del-
la geografia antica viene focalizzata attorno a Viterbo per ricercare più approfondi-
tamente le orme degli antichi eroi, non soltanto nella corografia contemporanea, ma
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176 GIACOMO FERRAÙ

to di fonti epigrafiche, vere e false63; e infine la capacità immaginativa, e


l’improntitudine, che consentono di colmare quegli inevitabili vuoti per cui
non soccorre documentazione. Ne deriva una costruzione che punta sostan-
zialmente a fornire una tavola onomastico-genealogica (la storia non può
essere conosciuta se non per genealogias), in cui, tuttavia, è pure rilevabile
una sobria linea narrativa derivata, non soltanto da testimonianze propria-
mente storiografiche, ma soprattutto da una tradizione poetica evemeristi-
camente interpretata anche col sussidio dell’antica erudizione ed esegesi.
Un principio di metodo e una selezioni di fonti (in cui, per altro, la docu-
mentazione falsa è prevalente), che potevano essere legittimi, se non finis-
sero con l’approdo ad una radicale falsificazione, in un ambito che piega i
dati storici ad una convivenza con l’invenzione, sostenuta da una griglia in-
terpretativa predeterminata64: eppure, proprio per quel che concerne l’etru-
scologia, Annio aveva saputo radunare tutte le testimonianze significative,
era riuscito a movimentarle in una prospettiva di primitivismo, attenta a
specifiche caratteristiche di quella lontana età; aveva saputo, ad esempio,

anche in quella emergente da una ricerca storica e documentale per i toponimi non
più esistenti: Antiquitates, i1r, «quaerendum esset in contractibus vetustis si ea re-
gio aliquo prisco Arameo et Etrusco vocabulo tunc diceretur, quia nomina antiqui-
tatis prisca locorum sunt argumenta infallibilia originis ipsorum, ut omnes historici
asserunt». E difatti, immediatemente dopo, a proposito di Musarna si legge: «quam
adhuc Musarnam appellant et cuius ruinae visuntur, et de qua contractus nostri con-
ventus aiunt agellum nostrum esse in civitate Musarna». Per altro uso di documen-
tazione medievale, Antiquitates, y2v e h6v; a T5v la ricostruzione del toponimo Hor-
chia («nostrum est, donatione facta inter vivos ab archypresbitero eiusdem ecclesiae
[S. Petri] pro conventu Sanctae Mariae ad Gradus viterbensis, ut donationem in no-
stris archiviis servant contractus depositi») fa sì che tale forma assuma il nome del-
la dea etrusca attestata come Nortia in Livio, VII, 3 ,7, e Giovenale, X, 74.
63 I falsi epigrafici risultano la prima proposizione della costruzione anniana, a

livello del trattatello edito in WEISS, An Unknown cit., pp. 107-120, e si è visto il lo-
ro contributo alla compilazione della lista dei Larthes. Un uso altrettanto disinvolto
è quello delle epigrafi autentiche, come nel caso di quella relativa a Cecina. Ma un
altro caso interessante in Antiquitates, F4v, dove, per testimoniare il culto di Vertun-
no nel Vico Tusco è riportata la famosa iscrizione dell’arco degli argentieri, CIL, VI,
1035, ad Annio nota anche attraverso la voce Roma del Tortelli (GIOVANNI TORTELLI,
Roma antica, a cura di L. CAPODURO, Roma 1999, [RRinedita, 20], p. 71). Alla fine
l’epigrafe recita, secondo la lezione delle Antiquitates: «Imperatori Caesar. L. Septi-
mio Severo […] et imperatori Caesar. M. Aurelio Antonio Pio Felici […] et Iuliae
Aug. matri […] argentarii et negociantes Boarii huius loci devoti eorum numini». Do-
ve il numen, con sprezzo della reciprocazione sui et eius, è il dio Vertunno, e non il nu-
men degli imperatori, ed eorum è riferito agli argentieri e negozianti del Vico Tusco.
64 Una selezione e un metodo di lettura secondo una precisa scelta ideologica,

si è visto più sopra abbastanza ingenuamente confessata da Annio, Antiquitates, B2v.


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RIFLESSIONI TEORICHE E PRASSI STORIOGRAFICA IN ANNIO DA VITERBO 177

offrire una lettura innovativa, non tanto del Virgilio delle antichità italiche,
quanto di Ovidio e del Properzio delle elegie romane65.
Ma anche in questi casi l’opzione ideologica intesa a riconoscere le po-
stille di una continuità noachica viterbese, estesa poi al Lazio, alla peniso-

65 Che Annio volesse narrare una storia ‘primitiva’ risulta da quanto dice Bero-

so, Antiquitates, Q6r, «nostra caldaica et primordiali scythica historia». In effetti il pri-
mitivismo, spesso legato alla prospettiva dell’età dell’oro, è un luogo culturale di lun-
ga durata. Nel disegno di Annio confluiscono due tipologie: la prima è quella classi-
ca, derivata dalla lettura della grande erudizione latina antica e tardoantica, ma so-
prattutto dalla poesia di Virgilio, Ovidio e Properzio, non senza un apporto mirato del
capolavoro etnologico della Germania di Tacito (e una edizione di Venezia del 1481,
contenente i due testi capitali dell’uso anniano, la traduzione di Diodoro fatta da Pog-
gio e, appunto, l’opera di Tacito con postille del Nanni è segnalata in Viterbo dalla
MATTIANGELI, Annio cit., p. 280). L’altra tipologia è quella biblica, rilevabile da ele-
menti desunti dal Genesi e passata attraverso i Padri della Chiesa alla grande sistema-
zione del Comestore (e, per la prospettiva di tutto il problema, si vedano i fondamen-
tali contributi di A.O. LOVEJOY-G. BOAS, Primitivism and Related Ideas in Antiquity,
Princeton 1935, e G. BOAS, Essays on Primitivism and Related Ideas in the Middle A-
ges, New York 1978). Il primitivismo di Annio si situa alla confluenza delle due tra-
dizioni che si compongono nella identificazione di Noè con Giano, Ogige e Vertunno,
approdando a un sincretismo che nei vari momenti sottolinea l’una o l’altra linea: e si
veda il primitivismo ‘romano’ dei frammenti di Sempronio e Fabio Pittore e quello
‘giganteo’ dei primi frammenti di Beroso. Un primitivismo il cui interesse risultava
enfatizzato, soprattutto in ambito romano e curiale, dalla sua verifica nell’antropolo-
gia delle terre nuovamente scoperte, cui lo stesso Annio fa due volte riferimento per
corroborare la storicità del mito dei cannibali (Antiquitates, O3r: «neque hoc fabu-
la est, cum aetate nostra in insulis Cananeiis, quarum quasdam nunc subegit glorio-
sus rex Hispaniae Ferdinandus, homines captos castrent et in greges more pecudum
ad convivia servent»); e di quello delle Amazzoni (Antiquitates, S2r: «Amazones,
quae ad hanc aetatem perseverant, ut narrant Hispani nautae, qui occeanum Africum
circumquirunt»). Un primitivismo di paesaggio, la solitudo Italiae, dove, prima che le
città, erano pascua bobus, e un’età in cui «patiens [….] terra deorum esset, et huma-
nis numina mixta locis», ma che sa farsi anche ragionamento storico sulle fonti; e si
prenda l’intervento sulla figura del lucumone, quando, dinnanzi ad una testimonianza
di Festo-Paolo Diacono, Lindsay, 103, per cui «lucumones vero dicti quidam homines
ob insaniam, quod, loca ad quae venissent, festa [infesta Lindsay] facerent», Antiqui-
tates, e6r, si cavava d’impaccio postulando il consueto errore di stampa: «nisi forte
mendosus sit codex, ut corruptor ob insaniam scripserit, ubi ob fana scripsit Festus».
Ma sul problema Annio tornava nella quattordicesima questione anniana, Antiquita-
tes, g4rv, dove riprendeva la stessa testimonianza del lessicografo, dandone, però una
diversa lettura, non banale errore di tradizione ma precisa attestazione di un momen-
to di ritualità dei primitivi che «utebantur […] saltatione in religionibus». E coonesta
l’interpretazione con la nota di Servio a Buc., V, 73, «nullam partem corporis maiores
nostri voluerunt esse, quae non sentiret religionem», e soprattutto con l’opportuno e
funzionale esempio biblico di David che, danzando innanzi all’arca, fuerit scurra et
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la e all’intera Europa, risulta assolutamente cogente: esemplare in proposi-


to la lettura di Ovidio, Fasti, VI, 101-131, in cui è raccontata la vicenda del-
la ninfa Crane. Nata nella foresta di Alerna, era seguace di Diana; Giano se
ne incapriccia e la viola; ma la ricompensa: «ius pro concubitu nostro tibi
cardinis esto. / […] Sic fatus, spinam qua striges pellere posset / a foribus
noxas (haec erat alba) dedit». L’interpretazione che ne offre Annio è certa-
mente attenta alle valenze etniche del discorso: tuttavia egli parte dal prin-
cipio che ai poeti è concesso mentire per abbellire la realtà storica, la qua-
le, tuttavia, è possibile riconoscere e ricostruire sotto il velame poetico.
Dunque Crane non può essere una ninfa stuprata dal castissimo Giano, ma
sua figlia, che egli costituisce regina del Lazio, capostipite di una serie di
reguli sulla riva destra del Tevere vassalli dei Larthes etruschi: e il signifi-
cato di Alerna, interpretato secondo derivazione aramaica, è appunto esal-
tata regina; inoltre, il conferimento dello ius cardinis e dell’aleba (il termi-
ne originario da cui deriva alba, interpretato come fascio littorio segno di
potere) significa la sua investitura di governatrice sui selvaggi abitanti del
Lazio, le striges che con le verghe può contenere entro le leggi66.
Che Annio sia particolarmente interessato al rinascimento etrusco di età
augustea è testimoniato dal fatto che, accanto ai falsi, egli accolga nell’opera
la celebre elegia properziana sul dio etrusco Vertumno, identificato nelle An-
tiquitates con Giano-Noè. Ne deriva un’esegesi alternativa, ben diversa dai
precedenti di un Volsco o di un Mancinelli, in cui le varie figure che il dio può
assumere sono interpretate come simboli delle sue capacità di civilizzatore in
agibilia67: rinviando ad altra sede un discorso più esaustivo a proposito del
commentario properziano, occorre, tuttavia, almeno considerare l’atteggia-
mento di Annio nei confronti dell’unica vera informazione storica presente
nell’elegia, l’aiuto decisivo offerto a Romolo dagli Etruschi contro i Sabini.
A questo proposito l’esegesi addensa un apporto di testi, poetici, storiogra-
insanus habitus. Un’attenzione al problema di una società primitiva che è uno dei fi-
loni più presenti alla pagina di Annio e che trova spesso l’opportuna giustificazione
nell’uso delle fonti, movimentate ed acutamente rapportate.
66 Il testo ovidiano è discusso due volte nelle Antiquitates, M7v, e S1r. Si se-

gnala che striges è lezione anniana, contro tristes, probabilmente modellata sul pro-
sieguo del discorso dei Fasti, vv. 133-139.
67 L’elegia è commentata in Antiquitates, F1r-6v, ma la tecnica esegetica di un

testo autentico ha sollecitato delle riflessioni a parte, nel contributo Nota sulla ‘filo-
logia’ di Annio, che comparirà negli studi in onore di Francesco Tateo. Qui basti ra-
pidamente considerare la dimensione propriamente storica della notizia dell’aiuto e-
trusco a Romolo presentata dai vv. 49-54. Ciò che è interessante è la ricostruzione
di una vicenda con l’uso, sostanzialmente, di testi poetici: il già ricordato Properzio,
cui si aggiunga IV, I, 29, «prima galeritus posuit praetoria Lygmon», e i Fasti di O-
vidio, I, 271, per la militia sulphurata, al cui chiarimento è adoperato Plinio, Epi-
stulae, VIII, 20, confutando quanto asserito in Dionigi d’Alicarnasso, II, 42, secon-
do cui Lucumone sarebbe morto in difesa di Romolo.
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fici e documentali, in grado di dimostrare la validità di un’interpretazione


storica ed evemeristica. Properzio qui sicuramente allude ad un episodio
noto alla tradizione classica, ad esempio presso Dionigi d’Alicarnasso, di
un Lucumone morto per difendere Roma: ma questa notizia è manifesta-
mente causata dalla menzogna greca, tendente a svalutare l’apporto etrusco;
quanto a Livio lividus, egli ha del tutto trascurato l’episodio.
Sono invece proprio i poeti che consentono una ricostruzione degli av-
venimenti, poiché «turpe est poetam fingere, quod ad veram historiam non
refertur. Est autem vera historia»: e Annio ricostruisce l’episodio dove il
Lucumone, di cui può dare, come si è visto, il nome di Galerito, ha, con a-
bile mossa strategica, preso alle spalle e sconfitto i Sabini. E, per coonesta-
re tale interpretazione, si mette in parallelo un passo dei Fasti I, 259-72, do-
ve Giano racconta un suo intervento in favore di Romolo: egli voleva aiu-
tare i Romani sconfitti, ma temeva l’ira di Giunone favorevole ai Sabini; si
era però avvalso della sua prerogativa di aprire e chiudere le cose e aveva
quindi aperto un flusso di acque sulfuree alle spalle dei nemici che ne era-
no stati dispersi. Una bella favola, che però va letta in relazione alla testi-
monianza properziana per ricavare una vera storia: Giano, cioè gli Etruschi
‘ianigeni’, comandati, come si evince da Properzio, da Galerito, avevano at-
teso il passaggio dei Sabini che inseguivano Romolo e li avevano presi alle
spalle. E si favoleggia di acque sulfuree perché la milizia etrusca si eserci-
tava e prendeva gli ordini presso il lago Vadimone, testimoniato da Plinio il
Giovane nella lettera a Gallo come sacro e dotato, appunto, di acque sulfu-
ree68. Una verità taciuta dal livido Livio che in questo caso, anche se altri-
menti eloquentissimo, ha meritato le censure di quel galantuomo di Caligo-
la69; una verità recuperata con un’agguerrita e complessa lettura di una plu-
68 La vicenda narrata nel commento a Fabio Pittore, Antiquitates, M7r-v: «est au-

tem vera historia quod Thusca militia initiabatur ad lacum Vadymonis Etruriae. […] Pli-
nius nepos in epistula ad Gallum dicit lacum Vadymonis esse sulphureum et nullam ibi
navim, quia sacer est. […] Unde veritas historiae est: […] ad sulphureum lacum inicia-
ta milicia Galeriti tenebat pro Romulo Quirinalem collem; […] cumque Sabini fugien-
tem Romulum persequerentur, mox Galeritus sulphuratus, e Quirinali illapso, in locum
ubi est Ianus a tergo Sabinos cedens, coegit Metium Curtium ducem […] in paludem se-
se coniicere». Cui segue una lettura puntigliosamente evemeristica dei versi ovidiani.
69 L’episodio dell’aiuto etrusco a Romolo, taciuto da Livio, è un luogo che ri-

torna più volte nell’opera di Annio ed offre sempre l’occasione per puntualizzare
l’esigenza di un storiografia erudita, sino ad approdare in Antiquitates, N7r, ad un
vero excursus de malignitate Livii assolutamente inconsueto nella cultura dell’U-
manesimo: «dicam et ipse opinionem meam: Suetonius Tranquillus, in Vita Caii
Calligulae [xxxv], scribit paululum abfuisse quin ab omnibus bibliothecis statuas et
scripta Livii deleret, quod illum, ut verbosum et negligentem in historia, carpebat.
Est autem negligens is qui supprimit quae referenda sunt, et verbosus qui absque
probatione contradicit afferenti rationes et auctores. Et his duobus peccavit Livius
in multis, ut patet, […] quod profecto invidissimi hominis est officium et negligentis
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ralità di testimonianze poetiche capace di penetrare sotto il velo dello spe-


cifico della poesia.
Ma questa capacità, per tanti versi ammirevole, di muoversi nella con-
siderazione dei testi con grande spregiudicatezza è un portato della forma-
zione monastica, abituata alle sottigliezze della esegesi biblica e ad una let-
tura continuamente attenta ad un altro e più profondo significato della pagi-
na scritta, un’esegesi, quindi, che parte da presupposti, non filologici, ma de-
cisamente ideologici, miranti a coartare l’interpretazione entro le coordinate
funzionali alla dimostrazione di una tesi. In tale direzione Annio opera una
decodificazione del mito insieme fattuale e culturale, nel momento in cui
dalla pagina poetica ricostruisce riti, usi, istituzioni, riesce a dare alle fonti
un ricco e complesso spessore semantico da cui emerge una fisonomia di un
mondo primitivo altrimenti non bene attingibile dalla strumentazione storio-
grafica. Il difetto di fondo consiste, invece, nell’insistenza, non sul momen-
to culturale, ma su quello fattuale, con l’approdo conseguente a percorsi che
non possono non essere fantasiosi e perfino ingenui. Per cui, se è vero che la
stessa formazione anniana consente di strutturare il ragionamento entro ‘ar-
gumenta’ logicamente ineccepibili, è poi la scarsa filologia che sta alla base
dei postulati a convertire il ragionamento in paralogismi che si rincorrono in
un gioco di specchi, danno forza l’uno all’altro, cercano di mascherare la so-
stanziale fallacia dietro un fittissimo sbarramento di citazioni e auctoritates,
inedite interpretazioni, anche acute, e falsi patenti.
È proprio dall’esperienza di Annio che emerge, ancora una volta, come
alla ricostruzione storica poco si adattassero gli strumenti della dialettica e
della teologia e che piuttosto la via privilegiata era quella del perseguimen-
to di un ordo capace di produrre un discorso coerente, retto da una consa-
pevolezza delle cause sempre più agguerrita, sostenuto dalla capacità di let-
tura filologica, che vuol dire iuxta propria principia e quindi storicizzata,
della documentazione: da qui la diffidenza e l’irrisione per le trovate di An-
nio da parte della linea più accreditata del Cinquecento, e si pensi ad un E-
rasmo. Ma vi è un’altra linea che deve essere rilevata a proposito della for-
tuna delle Antiquitates, quella di una cultura europea cui poteva essere as-
sai gradita la nobilitazione delle singole esperienze statuali, una cultura, i-
noltre, che perseguiva un eccitato sincretismo e una ricerca di verità più ve-
re e nascoste di quelle che aveva rivelato la nuova filologia, che ricercava
tali verità in direzioni ermetiche o cabalistiche70: una proposta che solo la

veritatem in historia, […] cum vero constet Livium non ignorasse quae Varro et Fa-
bius Pictor et alii referunt; constat equidem illum non ignoratione scientiae sed mali-
gnitate naturae in historia neglexisse dicenda et verbose dixisse subticenda». È ovvio
poi, secondo il costume di Annio, che lo storico romano viene adoperato in maniera
palese e occulta, come fonte di notizie e maestro di spunti metodici.
70 E si veda quanto emerge dal volume Presenze eterodosse cit., anche per ul-

teriore bibliografia.
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RIFLESSIONI TEORICHE E PRASSI STORIOGRAFICA IN ANNIO DA VITERBO 181

forte mano della Riforma, e della Controriforma, avrebbe ricondotto a pa-


rametri più confacenti alla dimensione di un cristianesimo ‘biblico’, ma che
intanto trovava un ambiente favorevole nella Roma di Alessandro VI; una
cultura, per altro, cui potevano partecipare uomini egregi e principi della
Chiesa come Egidio da Viterbo, che è in certo senso il più vicino ed impor-
tante allievo di Annio71.
Vale, quindi, la pena di dedicare qualche osservazione alla ricostru-
zione storica anniana del mitico passato etrusco che, per essere una storia
primitiva, ha precisi riferimenti e incidenze nel presente. In realtà, la
traiettoria che dalle prime opere viterbesi porta alle Antiquitates segna un
progressivo adeguamento dell’attività del Nanni alle attese di un pubbli-
co sempre più vasto: se l’Epitome guarda a Viterbo, l’orizzonte della Lu-
cubratiuncula alessandrina si allarga alla ricostruzione della problemati-
ca italica; quanto alle Antiquitates la prospettiva, pur non dimenticando
Viterbo, è ormai chiaramente europea, com’è specificamente affermato in
sede di prefazione: «haec ego in his meis scriptis pro patria et Italia, im-
mo et Europa tota profiteor». Le ragioni di tale ampliamento di interessi
mi sembrano essere state opportunamente chiarite72, e, del resto, la stessa

71 Valga il rinvio, anche per ulteriore bibliografia, a J. W. O’ MALLEY, Giles of Vi-


terbo on Church and Reform, Leiden 1968 e, da ultimo, a G. SAVARESE, Egidio da Vi-
terbo e i miti antichi, in Presenze eterodosse cit., pp. 141-157; e, comunque, dovreb-
be essere considerato il rapporto con la Historia XX saeculorum che da Annio mutua
parecchi miti, ad esempio quello della sacralità della riva sinistra del Tevere, Roma,
Biblioteca Angelica, ms. Lat. 351, f. 5v, dove si parla di regalità: «Iano tunc in Ethru-
ria rege […] in Ianiculo et Vaticano sancto monte»; o quello della hebraica veritas, i-
bid., f. 9v: «hebraea veritas Hebraeos confutat». Per altri influssi anniani in ambiente
religioso, a proposito di Giorgio Veneto minorita, A. BIONDI, Melchior Cano e la sto-
ria come ‘locus theologicus’, «Bollettino di studi valdesi», 92 (1971), p. 59.
72 Dal FUBINI, L’ebraismo cit., p. 303, che collega l’approdo europeo di An-

nio alle condizioni di una penisola non più locus conclusus. Quanto alla fortuna
europea della prospettiva delle Antiquitates, come rilevamento della formazione
delle nazioni, basti il rinvio ai due importanti contributi di A. BIONDI, Annio da Vi-
terbo e un aspetto dell’orientalismo di Guillaume Postel, «Bollettino della società
di studi valdesi», 103 (1972), pp. 49-67, e A. GRAFTON, Falsari e critici. Creati-
vità e finzione nella tradizione letteraria occidentale, Torino 1996, pp. 106-132.
Stranamente, il nome di Annio non figura nelle più autorevoli ricostruzioni dell’i-
dea di Europa, ad esempio D. HAY, Europe. The Emergence of an Idea, Edimburg
1957, o il più corposo C. CURCIO, Europa. Storia di un’idea, Firenze 1958. Vi è
poi una curiosa, ulteriore, scheda della fortuna di Annio: G. BILLANOVICH, Il Pe-
trarca e i retori latini minori, «Italia medioevale e umanistica», 5 (1962), pp. 153-
161, narra la vicenda di un Severianus auctus, in cui il testo dell’antico retore era
implementato di tutta una descrizione della cultura a Milano e Novara nell’età de-
gli imperatori Graziano e Valentiniano. Ma, come rileva il Billanovich, si tratta di
una Novara e di una Milano ‘di cartapesta’, opera di falsario cinquecentesco, in-
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funzione mecenatesca, che consente la pubblicazione di un’opera altri-


menti eccessivamente costosa, si situa al di fuori, ormai, dell’ambito pe-
ninsulare. Ma, per elaborare una costruzione storica che interessa tutti gli
Europani, Annio deve innanzi tutto destrutturare il sistema vigente di una
tradizione autorevole e consolidata che trovava nell’esperienza ellenica il
momento fondante, i fontes da cui derivavano i rivuli della successiva ci-
vilizzazione, e nella tradizione biblica la base forte della struttura cultu-
rale cristiana. Con entrambe Annio entra in polemica: evidente contro la
Grecia, autorizzata da una tradizione già del periodo classico73; non me-
no ferma per quanto riguarda l’ebraismo, ma più sotterranea e meno e-
splicita, anche perché interferibile con la tradizione portante della sua
stessa professione religiosa.
Il rapporto con la tradizione greca è stato oggetto di specifico interes-
se74, per cui occorrerà in questa sede ricordare solamente i termini nella mi-
sura funzionale al prosieguo del discorso, focalizzando l’attenzione sull’ap-
porto berosiano che costituisce, non soltanto il tentativo più corposo, ma an-
che quello decisivo, in cui sembrano addensarsi i fili di una tessitura varie-
gata e tuttavia mirata ad una precisa ricostruzione alternativa della storia. Ta-
le proposta innovativa trovava già una sua ragione preliminare nella diffe-
renza di due possibili culture di riferimento radicalmente divergenti: la cal-
daica e l’ellenica. In proposito Annio poteva rinvenire autorevoli suggestio-
ni, non soltanto nella tradizione giudaico-cristiana di un Giuseppe Flavio o
di un Lattanzio, ma nello stesso greco Diodoro Siculo, la cui pagina aveva
veicolato il profilo di una antropologia della cultura preliminare ad ogni va-
lutazione delle fonti ai fini della ricostruzione storica, poiché «ea differen-

torno all’Alciato. A proposito delle origini di Novara, appunto si dice riguardo ad


Ercole Libico: «ut nonnullorum narrant insomnia, Novariae conditor» (BILLANO-
VICH, Il Petrarca cit., p. 154), che è un falso che dialoga, per confutarlo, con un al-
tro falso, e precisamente Antiquitates, C4v, «Novaria, ante ab Herculis Egyptii
[…] cognomine Aria, egyptio vocabulo Leonina, sed a Lyguribus instaurata, No-
varia dicta est».
73 Le auctoritates sono anzitutto Plinio nelle sue partiture antielleniche, ad e-

sempio III, 122 «pudet a Graecis Italiae rationem mutuari», nella scheda relativa al
Po; o ancora, N. H., XXIX, 1, quando riporta i disdegni catoniani contro gli Elleni
corruttori; poi le affermazioni, che si sono sopra considerate, di Giuseppe Flavio;
ancora Giovenale, nelle sue numerose caratterizzazioni dell’intellettuale greculo po-
vero e corrotto, ad esempio III, 58-60; ma soprattutto Diodoro, II, 29, il testo più
presente ad Annio, proprio perché in esso è direttamente affrontato il problema del-
le differenze tra cultura greca e cultura caldaica. Tutta la tradizione confluiva nel-
l’autorevole voce cristiana di Lattanzio, dal cui capitolo I, 14 delle Divinae Institu-
tiones numerose sono le mutuazioni nelle Antiquitates.
74 Da parte, innanzi tutto, di F.N. TIGERSTEDT, Ioannes Annius and Graecia

mendax, in Classical Medieval and Renaissance Studies in Honor of Berthold Louis


Ullman, II, Roma 1964, pp. 293-310.
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RIFLESSIONI TEORICHE E PRASSI STORIOGRAFICA IN ANNIO DA VITERBO 183

tia fuerit inter priscos Graecos et Caldeos, quod Graeci fabulas nugasque et
errores seminaverunt, Caldei autem firmam et solidam veramque doctrinam
tribuerunt: testis est […] Diodorus»75. Cui segue una diffusa citazione del-
la celebre partitura in cui lo storico antico segnala la differenza tra il modo
di fare cultura, sacerdotale e tradizionale per gli Orientali, laico e sociale
per i Greci, ovviamente quest’ultimo, per la sua labilità e venalità connota-
bile come disvalore. Del resto, anche Strabone aveva sottolineato che i Gre-
ci sono recentiores, e quindi in prospettiva anniana deteriores, rispetto ai
barbari, «quoniam apud priscos barbaros veritas rerum erat»76. E, in parti-
colare, i Greci avevano confuso le cose nelle loro narrazioni storiografiche,
come ben sapeva Giuseppe che aveva polemicamente rivendicato il prima-
to della storia orientale, e come potevano confermare Diodoro e Lattanzio,
rilevando anche i motivi economici delle innovazioni: «quia de rebus maxi-
mis semper altercant, questus et lucri gratia»77.
Si confermava, quindi, la profezia catoniana sull’azione nefasta delle
lettere greche: «nam omnis illa theologia, philosophia et naturalis divinatio
et magia, quas disciplinas […] Ianus tradidit et in quibus Thusci, teste Dio-
doro Siculo in sexto libro [V, 40], usque ad aetatem suam erant admirabi-
les toti orbi […] corruptae sunt». Alla certezza della cultura ianigena su-
bentra l’incertezza dialettica della prospettiva greca, cui non sfugge lo stes-
so Aristotele, che sostituisce alla scienza conoscitiva ed operativa «fabulas
et nugaces disciplinas», di quegli Elleni che «dum omnia norunt, nihil in-
telligunt»78. Alla prospettiva ellenica Annio oppone la possibilità di una cul-
tura capace di conoscere veramente le cose, una opzione che trovava certo
precedenti nell’ultimo Quattrocento nelle tensioni intese a rilevare le po-
stille, all’interno della tradizione, di una prisca theologia, di una antichissi-
ma sapienza che fosse medicina alle incertezze di una età in cui si comin-
ciava a sentire la crisi di valori di un pur glorioso umanesimo filologico e
‘laico’. Coerentemente in Annio la scienza antichissima e nuova non può
essere se non quella teologia e magia operativa propria della cultura noa-
chica, di nobilissima tradizione perché infusa in Adamo al momento della
creazione e discesa, anche come trasmissione storica, dal protoplasto a E-
noch, a Lamech, a Noè79: una scienza la cui operatività è subito evidenzia-

75 Antiquitates, O2rv, una pagina del commento al primo frammento di Bero-


so per tanti versi conclusiva del problema.
76 Il riferimento è alla Geografia di Strabone, VII, 7, 1.
77 Antiquitates, O2r.
78 Antiquitates, O2rv.
79 Nella prospettiva di Annio, più esplicita in Antiquitates, O3r, Adamo non

soltanto ha ricevuto la magia operativa e la scienza naturale infuse («Theologia, phi-


losophia et naturalis divinatio et magia»), ma è stato anche l’iniziatore della tradi-
zione storiografica sacerdotale: «Adam scripsit primus ex revelatione de mundi at-
que sui creatione et texuit historiam gestorum usque ad Enoch, cui prosequendam
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184 GIACOMO FERRAÙ

ta dalla prima vicenda noachica nella versione berosiana, laddove il pa-


triarca prevede il diluvio, non per comunicazione divina, ma ex astris80.
Scampato al diluvio, Noè diviene semen mundi: la fisonomia del patriarca
biblico si incrocia e confonde con quella dell’antico Giano della bibbia pa-
gana dei Fasti. Ad una terra giovane di una umanità novella il civilizzatore
riporta l’antica cultura gigantea81, magica ed immediatamente operativa nel
mondo e conoscitiva della divinità.
reliquit historiam. Enoch, autem, prosequendam reliquit Lamech prophetae patri
Noae, et Lamech filio eidem Noae. Noa vero reliquit post diluvium Caldeis, a qui-
bus Habraam et residui veritatem rerum gestarum scripserunt». Una prospettiva, di-
rei, ‘laica’, in cui la stessa storia sacra è un derivato dai Caldei e Mosè e Beroso so-
no sullo stesso piano di testimoni descripti: «non est igitur mirum si Moyses et Be-
rosus conveniunt, qui ex eodem fonte historiae combiberunt». Un’ulteriore tessera
questa di quel tentativo di criptodesacralizzazione nei confronti della storia ebraica
di cui si dirà più avanti. Del resto, in altro luogo berosiano, Antiquitates, P2r, erano
rapportate la tradizione mosaica e caldea per rilevare la maggiore valenza ecumeni-
ca della seconda: «tot duces describit Moyses, quot linguae fuerunt, Caldei vero tot
duces, quot regnorum et gentium conditores». Puntuali osservazioni sul rapporto
Noè-Abramo in FUBINI, L’ebraismo cit., pp. 295-296 e p. 300, dove appunto si sot-
tolinea la maggior valenza ecumenica e sacrale del primo e si fa riferimento al ‘noa-
chismo’ talmudistico e alla prospettiva eusebiana: «in parole più povere, nelle Anti-
quitates anniane la Bibbia perde le sua centralità».
80 Antiquitates, O4r: «is, timens quam ex astris futuram prospectabat cladem

[…] navim instar archae coopertam fabricari cepit». Forse è il caso di prospettare
qualche osservazione di lettura della complessa struttura anniana nel rapporto tra te-
sto e chiosa: come è noto, si tratta di una serie di frammenti attribuiti a falsi autori
e del relativo, profuso commentario che è la parte riconosciuta a se stesso dall’au-
tore. Ora, questa situazione è utilizzata nella fictio complessiva dell’invenzione del-
la storia alternativa, per cui si movimenta una certa dialettica tra le due sezioni, in
cui qualche volta la chiosa può differenziare e distinguere le proprie posizioni dal
testo (e si veda più avanti, Antiquitates, V2r, e V3v, dove Beroso attribuisce alla ma-
gia l’apertura del mar Rosso da parte di Mosè e Annio lo scusa perché danda venia
est gentilitati). Tuttavia, se vi è la possibilità di una tale dialettica, nel complesso
della costruzione le due posizioni non risultano differenziate: in particolare, per quel
che riguarda la previsione meramente astrologica del diluvio, non si riscontra alcu-
na reazione della chiosa che possa richiamare, contro l’autore pagano, alla provvi-
denza divina.
81 Perché Noè è un gigante e padre di giganti: la curiosa vicenda culturale eu-

ropea relativa ai giganti è ben ricostruita da W. E. STEPHENS, De Historia Gigantum:


Theological Anthropology before Rabelais, «Traditio», 40 (1984), pp. 43-99, poi in
ID., Giants in Those Days. Folklore, Ancient History and Nationalism, London-Lin-
coln 1989. Tale vicenda, che trovava il segno di contraddizione nella presenza di gi-
ganti dopo il diluvio, viene risolta in modo paradossale da Annio, per cui, anche se
non esplicitamente enunciato, non i giganti si sono estinti, ma la stessa stirpe degli
umani. Quanto alla possibilità di salvati al di fuori dell’Arca, secondo tradizioni tal-
mudiste sul monte Sion, essa è assolutamente negata da Annio che polemizza più
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RIFLESSIONI TEORICHE E PRASSI STORIOGRAFICA IN ANNIO DA VITERBO 185

Dalle fonti medievali che avevano tramandato notizia della colonizza-


zione noachica, e si pensi ad un Martin Polono, già risultano in rapporto le
due figure dei civilizzatori, pagano e biblico, in una prospettiva di succes-
sione nel governo della colonizzazione peninsulare. In Annio si procede ad
una innovazione: non figure distinte quelle dei due primi coloni della peni-
sola, ma diverse nominazioni dello stesso personaggio riferite a diverse fun-
zioni. In tale direzione la proposta sincretistica diviene il punto focale in cui
convergono, non soltanto i caratteri di Noè e Giano, ma tutte le figure e fun-
zioni che le varie mitologie avevano attribuito ai propri eroi fondatori. Un
nodo estremamente denso, anche perché rappresentativo di una linea antro-
pologica sacrale e universale che veicola tutte le simbologie di un primiti-
vismo costruito secondo le linee di certe costanti, il diluvio, l’età dell’oro,
i segni forti e comuni delle mitologie relative alle origini di molte civiliz-
zazioni, e che, inoltre, tornavano utili nella nuova prospettiva sapienziale, e-
cumenica e teleologicamente ordinata verso la sacra civilizzazione della ri-
va sinistra del Tevere. Nell’ambito di questo sincretismo, che privilegia i ca-
ratteri propri ora dell’uno ora dell’altro momento, può essere iscritta tutta
la storia della vicenda umana, a partire dalla prima attività noachica:

tunc senissimus omnium pater Noa, iam antea edoctos theolo-


giam et sacros ritus, cepit etiam eos erudire humanam sapientiam,
et quidem multa naturalium rerum secreta mandavit litteris. […]
Docuit item illos astrorum cursus et distinxit annum ad cursum
solis, et xii menses ad motum lunae, qua scientia praedicebat illis
ab initio quid in anno et cardinibus eius futurum contingeret, ob
quae illum existimaverunt divinae naturae esse participem; […]
illum venerant, simulque cognominant Celum, Solem, Chaos,
Semen mundi patremque deorum maiorum et minorum, Animam
mundi moventem coelos et mixta vegetabiliaque et animalia et
hominem, deum pacis, iusticiae, sanctimoniae82.

Si prospetta, dunque, una criptodivinizzazione di questa doppia figura

volte in proposito coi talmudisti: «patet Talmudistas esse falsiloquos et mendaces».


Di certo la soluzione di Annio è fortemente aporetica: presumibilmente gli faceva
comodo un’aura alternativa gigantea intorno alla complessa costruzione della vi-
cenda noachica. Si osservi, infine, che nel sincretismo di Annio veniva assai oppor-
tuna la caratterizzazione che di Giano aveva dato Ovidio in Fasti, I, 103-120, pro-
prio nei termini di anima mundi: «Quicquid ubique vides caelum, mare, nubila, ter-
ras / omnia sunt nostra clausa patentque manu». In questi termini, nella figura noa-
chica delle Antiquitates, l’esemplarità ovidiana è decisiva, di contro ad una tradi-
zione biblica che certo non autorizzava le aperture di divinizzazione di un perso-
naggio umano.
82 Antiquitates, P6v-Q1v.
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di eroe culturale che circola in tutta l’opera nella misura consentita da una
ineludibile opzione cristiana, in una pagina di cui occorre rilevare lo spes-
sore mitico-filosofico83. Ma dei sono anche i suoi successori, «unde et pa-
ter deorum maiorum, scilicet filiorum, et minorum, scilicet nepotum et pro-
nepotum, dictus fuit, quia omnes fuerunt principes regnorum et coloniarum,
excellentissimi iudices et duces»84. Una colonizzazione aurea perché paci-
fica, superata presto in Oriente dall’attività guerresca di Nino, mentre è du-
rata più a lungo in Europa; e in certa misura dura ancora, dal momento che
la suprema magistratura stabilita da Giano-Noè per gli Etruschi ha le carat-
teristiche temporali e sacrali, come si vedrà, dell’attuale pontificato. La co-
lonizzazione noachica costruisce la struttura di una società primitiva che si
caratterizza per un alto grado di sapienzialità, accanto ad una semplicità e-
conomicistica, di uomini che abitano in caverne e carri, in piccoli nuclei ur-
bani, e usano vino e farro per scopi rituali85. Malgrado tale sobrietà della vi-
ta la competenza culturale è, per altro, altissima, per cui in Europa gli Iberi-
ci hanno conosciuto le lettere duemila anni prima di Augusto e gli antichi
Francesi hanno in Sarron un principe interessato alla pubblica istruzione e
mostrano un gusto raffinato e civile per la poesia dei bardi86.
Nella prospettiva di Annio la nobile Europa si forma, non nel travaglio
delle invasioni barbariche medievali, ma già al tempo della prima coloniz-
zazione noachica Tubal per la Spagna, Tuyscon per la Germania, il dotto
Samothes per la Francia costruivano la civilizzazione: «fuere litterae, phi-

83 Si veda in proposito almeno ALLEN, The Legend of Noah cit., e P.D. WALKER,

Spiritual and Demonic Magic from Ficino to Campanella, Notre Dame 1975, e, per
il più specifico ambiente romano, CH.L. STINGER, The Renaissance in Rome, Bloo-
mington 1985.
84 Antiquitates, O6v.
85 Annio torna più volte sulla vita semplice degli uomini dell’età dell’oro: An-

tiquitates, A1v, dove si dice che «principio Ianum invenisse vinum et far ad religio-
nem et sacrificia, magis quam ad usum». O, ancora, il frammento di Fabio Pittore a
L4v-5r, che offre un vero profilo dell’età dell’oro; infine a Q5v, dove si dice che
«moris fuisse antiquis, ut urbes non magnas, sed parvas et locis munitas conderent,
non quidem lapidibus, sed, ut ait Berosus, solum […] veis et cavernis; veias appel-
lant currus et cavos truncos arborum». Ma tutta la pagina è interessante per la deli-
neazione conclusiva dell’antropologia dei primitivi: «Ianus docuit humiles urbes ad
coetum et communionem politicam, non ad pompam et damnationis [forte domina-
tionis] libidinem».
86 Antiquitates, R5v-6r: «asserebant Hispani se habuisse litteras, leges et car-

mina iam ante sex milia annorum ibericorum, qui efficiunt duo milia solarium. […]
Igitur ante Cadmum fuere litterae, philosophia, carmina, theologia et leges Hispa-
nis, Gallis, Germanis et Italis per multa saecula et aetates»; quanto a Sarron, «ut
contineret ferociam hominum, […] publica litterarum studia instituit», Antiquitates,
S6r. Infine, per la funzione della poesia dei bardi, ovviamente, da un re Bardo, An-
tiquitates, T2v, su suggestioni di Diodoro Siculo, V, 31.
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losophia, carmina, theologia et leges Hispanis, Gallis, Germanis et Italis;


[…] dicti tres duces formabant Hispaniam, Galliam, Germaniam»87. In ma-
niera singolare, dai frammenti dell’orientale Beroso, nella sequenza co-
struita da Annio, risulta evidente che non precipuo è l’interesse per le colo-
nizzazioni asiatiche ed africane, mentre la vicenda si configura piuttosto co-
me una vera e propria storia della formazione della nobile Europa88, che ri-
porta allo stato originario di questa prima formazione tutte quelle caratteri-
stiche tipiche che distinguevano le varie parti dell’Occidente del tardo quin-
dicesimo secolo89. Certo, Annio riconosce che non si può fare storia del-
l’Europa come istituzione e pertanto il quadro di riferimento cronografico
deve essere dato sempre ricorrendo alla cronologia della monarchia assira,
«pro Europa, vero, in qua nulla erat monarchia, [Berosus] exponit origines
Italiae Hispaniae Germaniae per Sarmatas usque Tanaim et Pontum». Tut-
tavia, la coscienza di appartenere ad un’unica tradizione è evidentissima nel
prosieguo del discorso, quando le tre parti d’Europa sono sempre conside-
rate assieme90; se ne rileva la precocità culturale e la stessa stretta parente-
la dei quattro frammenti europani91.
87 Antiquitates, R6v.
88 La cui considerazione viene, di fatto, sempre più focalizzata; anche se, neces-
sariamente su basi eusebiane, l’inquadratura cronologica è data dalla lista dei re assi-
ri. Anzi è possibile cogliere qualche nota di esplicito fastidio per la storia fuori dai con-
fini d’Europa: ad esempio Antiquitates, S6v, dove, dopo aver narrato un episodio pur
importante, la fine di Cam-Zoroastro per mano di Nino (e, per l’identificazione dei
due personaggi si veda Historia scholastica, p. 1090), si commenta «sed hoc ad Eu-
ropanos nihil attinet. Potius de Thuscis Europanis audiamus Berosum dicentem».
89 Per esempio la preoccupazione spagnola per la purezza di sangue, più volte

affermata: Antiquitates, R5v: «quales, autem, Hispanorum caracteres? […] quales et


Sagi et Thusci; nam et Sagae Thusci et Hispani origine sunt apudque utrosque prae-
cipue Sagum nomen mansit». O, anche, la dimensione culturale e scolastica dei fu-
turi Francesi: le scuole, Antiquitates, S6r; i druidi, T2r; i bardi, T2v: quanto alle
virtù militari dei Germani, S6v, e T2r.
90 Antiquitates, R6r, per i tre ‘Saturni’ civilizzatori, Tubal, Samotes e Tuy-

scon, «tempore quo dicti tres duces formabant Hispaniam, Galliam, Germaniam»,
contro la funzione corruttrice di Cam-Saturno africano; ma ancora il motivo è in-
sistito a R2r ed R5r. Ad Antiquitates, R5v si rivendica la nobiltà europea delle ori-
gini noachiche contro la falsa e recenziore derivazione greca; polemica ripresa a
T6r, dove si sottolinea la provenienza europea degli asiani Eneti: «quos ab Europa
genitos, non Europae genitores probavimus». Si è già notato come, in via prelimi-
nare, Annio si scusasse di non poter procedere ad un discorso unitario sull’Europa,
nel momento in cui, tuttavia, ne affermava la coscienza della sua comunità.
91 Per la cultura primitiva dei Galli, degli Iberi e, in termini di più accentuato

primitivismo, dei Germani, si veda quanto emerge dal discorso precedente; la pa-
rentela delle stirpi europee tra di loro, e con i sacri ianigeni Etruschi, è più volte po-
stulata, e si veda quanto detto supra, a proposito degli Iberi Sagi al pari degli Etru-
schi e, per i Galli, Antiquitates, T2v, nostros consanguineos Gallos.
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Ma l’acculturazione noachica si focalizza su un glorioso sacro pezzo di


terra sulla riva sinistra del Tevere; qui Cam infamis aveva cominciato a
reimportare la corruzione antidiluviana, per cui Giano è costretto ad inter-
venire personalmente, cacciare il figlio indegno e fondare una cultura pri-
vilegiata, che più a lungo e più sacralmente conserverà i valori originari:
«perseveravit […] in eis [Etruscis] quae a Iano tradita fuit philosophia et in-
terpretatio fulgurum et effectuum naturalium atque theologia usque ad ae-
tatem Diodori Siculi. […] Retinuerunt […] linguam, deos, litteras»92, vale
a dire tutte le caratteristiche di una civiltà capace di imporsi anche quando
militarmente conquistata. Una vicenda storica sacra, anche se imperiale,
perché nata senza violenza: «sub Iano ceptum est imperium Thuscorum in
tota Italia aureo saeculo et innoxio, non armorum violentia, […] sed suc-
cessiva coloniarum missione atque propagatione»93. Una storia sacra perché
generata direttamente da Noè-Giano nel tempo in cui, come era detto nei
Fasti, la terra conosceva la presenza degli dei misti agli uomini. Una rico-
struzione di una etruscologia che punta fortemente all’istanza istituzionale
stabilita dal fondatore, individuando la suprema autorità in quel consiglio
dei dodici lucumoni presieduti dal Lars e insediato nel sacro Fanum Vol-
turnae nella futura quadriurbe di Viterbo.
A documentare ancora una volta le radici contemporanee della rico-
struzione anniana valga la riconsiderazione delle prerogative del magistra-
to supremo, figura, secondo l’ordine di Melchisedech, di re e sacerdote, ra-
dice di una tradizione che, attraverso la funzione dell’antico Imperatore ro-
mano era trascorsa nel tempo sino agli attuali pontefici: e del Lars erano
stati successori «Caesar olim, nunc pontifex Romae, quae est publica regia
regum et pontificum». Quanto al Lars, «hunc dictatorem, sive in principatu
maximum, lingua scythica Larthem vocabant, ut nunc papam: […] et hoc
existimo fuisse proprium Etrusci regis regum epitheton. Unde, ut uno vo-
cabulo communi papam et proprio titulo maximum pontificem exprimimus
Dei monarcham in toto orbe, pari modo Etruscum monarcham regum Lu-
cumonum uno communi vocabulo vocabant prisca lingua Larth, idest maxi-
mum omnium»94. Un insistito parallelismo tra gli antichi signori e i moder-

92 Il riferimento è all’importante pagina conclusiva dei frammenti, Antiquita-


tes, Z8r-v, in cui si delinea un processo di decadenza, «cum ille Turrhenus ingenuus
status et concordia cepit enervari dissensionibus XII populorum, quibus et delitiae
et loci opulentia magno decidendi ab imperio et paulatim cedendi locum, Romanis
adiumento et fomento fuerunt». Decadenza che, tuttavia, non toccava l’esemplarità
culturale e la dimensione sacrale da cui gli stessi Romani continuavano ad appren-
dere e che sarebbe in certo modo destinata a ritornare col ripristino di governati ‘sa-
cri’ nel Patrimonio, «a pontifice maximo Noa […] iterato ad pontificem maximum
et Sedem Apostolicam».
93 Antiquitates, B5r.
94 La descrizione delle istituzioni politiche etrusche e la suprema istanza del
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ni rettori del Patrimonio che non è certamente senza significato e, proba-


bilmente, non senza valenze pratiche di proposizione ad un possibile ac-
cesso mecenatesco.
Ma, se Viterbo risulta ancora punto nodale della civilizzazione noachi-
ca, nelle Antiquitates il discorso è, tuttavia, più complesso e la prospettiva
più ampia. Per venir fuori dalle dimensioni meramente italiche della Lucu-
bratiuncula Annio è disponibile, per una volta, a discutere la stessa testi-
monianza capitale della sua proposizione: così Beroso è storico quanto mai
fededegno, ma può sbagliare; in specifico quando afferma che Giano-Noè
aveva proposto la propria divinizzazione solo alla regione scitica e all’Ita-
lia95. Annio corregge quest’affermazione, poiché l’attività del fondatore si
è espletata in tutto il mondo, Asia, Africa ed Europa. Con questa puntualiz-
zazione, che supera la posizione italica rilevabile a livello di Lucubratiun-
cula, egli allarga il discorso e la stessa significazione noachica a tutto l’or-
be, ma, di fatto, nella successiva considerazione, precipuamente all’Europa,
attribuendo a quella prima colonizzazione un significato sacrale e centrale
nella storia della civiltà che, in fin dei conti, finiva col porre in primo pia-
no una linea noachica, relegando in un ambito ristretto e ‘provinciale’ quel-
la linea abramitica che tuttavia, veicolata dalla Scrittura, era in certa misu-
ra intangibile. Occorrerà, forse, tornare sulla questione del rapporto di An-
nio con l’ebraismo, per tanti aspetti egregiamente chiarita ma che, data
l’importanza capitale del tema nella struttura delle Antiquitates, merita an-
cora qualche riflessione. Vi è, infatti, un primo livello di rapporti con la tra-
dizione ebraica che riguarda la possibilità di fruire di certe competenze tec-
niche: in tale direzione l’apporto etimologico dei Talmudisti è fondamenta-
le, tanto da essere all’origine delle novità più rilevanti, sino ad una pseudo-
filologia in grado di correggere ed integrare i vuoti culturali dell’antico Var-

Lars in Antiquitates, T4v, dove è in certo modo postulata una analogicità istituzio-
nale con gli imperatori romani e, soprattutto, con i pontefici cristiani.
95 La critica a Beroso emerge ad Antiquitates, F6v («Berosus falsum scribere

videtur, dicens quod solum haec duo regna, Italicum et Scythicum, venerantur
Noam cognomine Ianum») e si riferisce a quanto affermato nel frammento di Bero-
so a Q1r: «solum haec duo regna, Armenum quidem, quia ibi cepit, Italicum vero,
quia ibi finivit, […] illum venerantur», e ciò anche se nel prosieguo Beroso stesso
racconta i numerosi viaggi e colonizzazioni dell’ecumene di Noè-Giano. La discra-
sia tra i due passi si spiega col fatto che i frammenti erano già stati in qualche mi-
sura pubblicizzati quando Annio lavorava ancora in prospettiva italica (come emer-
ge da FUMAGALLI, Un falso cit., pp. 345-349), per cui, quando il materiale era con-
fluito nella grande opera finale, un’accorta regia di montaggio delle varie sezioni
sceglieva la via di una critica interna della chiosa nei confronti di specifici tratti del
testo, tra l’altro funzionale alla distinzione tra i due momenti che portava ad una sor-
ta di oggettivazione ed autenticazione della parte documentaria.
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rone96; e ciò è cosa nota e rilevabile quasi ad ogni pagina, ché anzi sono
menzionate sedute di studio con talmudisti locali nella settimana di Pasqua
del periodo viterbese: data interessante, se è vero che proprio quel tempo
doveva segnare la formazione di una più complessa ricostruzione anniana
del passato97.
Tuttavia, se lo strumento della ‘filologia’ ebraica è valido, sono i conte-
nuti della tradizione talmudistica che divengono oggetto di polemica diretta,
con puntate anche in direzione della stessa storiografia mosaica, un ramo mi-
nore e meno ecumenico della tradizione continuata dai Caldei98. In questa
traiettoria l’operazione prospettata da Annio è certo più complessa del nor-
male rapporto della cultura cristiana quattrocentesca col contiguo mondo i-
sraelitico, cui si può fare risalire, comunque, la distinzione tra un’ebraicità
scritturale e il moderno giudaismo, che avrebbe perso di vista gli stessi va-
lori dell’antica Legge99. Pur nella cautela imposta dalla materia, dal conte-
96 Si vedano Antiquitates, c1r-4r, dove Annio affronta addirittura problemi se-

mantici che l’antica erudizione varroniana aveva lasciato insoluti: «auctor est Varro,
de lingua Latina [VII, 45]: obscurae originis nomina sunt Diva, Volturna, Palatua,
Flora, Furina, Falucer, Pomona Pomonusque pater»; e li risolve con l’aiuto della e-
timologia aramaica, per cui, ad esempio, Flora «derivatur a Falor [dolore nell’acce-
zione ‘aramaica’], ut aiunt Talmudistae: a quo Falora, et per sincopam Floram: est
dea merentium».
97 Antiquitates, i4v: «in octavis Pascae ferme quinque iam annis superioribus

cum Rabi Samuele et duobus aliis Talmudistis conferebam». E per il significato di


quegli anni, in cui si formava la prospettiva anniana, importanti osservazioni in FU-
MAGALLI, Un falso cit., pp. 345-349.
98 Nella prospettiva di diversificazione fra linea noachica e abramitica più vol-

te occorrono puntate polemiche contro i falsiloqui Talmudistae, ad esempio, Anti-


quitates, O4v, «falsiloqui et mendaces»; O6v, «fabulosos simul et ereticos»; P1r,
«fabulis et erroribus Talmudistarum»; S5v, dove «redarguuntur quoque de publico
mendacio corruptores sacrarum litterarum Talmudistae», perché negano la longeva
operatività di Noè ben oltre il tempo di Nembroth. Si noti che la polemica cristiana
contro le formulazioni ebraiche a proposito della cronologia relativa alla vita dei Pa-
triarchi rispetto al diluvio è tradizione di lunga durata, risalente almeno a Gerolamo,
Quaest. Hebr. in Gen., V, 25, e Agostino, De civitate Dei, XV, 11. Va infine segna-
lato che la storiografia mosaica è comunque adoperata per i tempi antidiluviani, so-
prattutto nei capitoli 9-10 del Genesi, quelli che meno incidevano ideologicamente
sulla novità della proposta anniana: Antiquitates, G3v, «mosaica chronographia u-
temur ante diluvium, quoniam Caldeam reperire non potuimus».
99 Sul problema più generale soccorre il rinvio a G. FIORAVANTI, Aspetti della po-

lemica antigiudaica nell’Italia del Quattrocento, in Associazione italiana per lo stu-


dio del Giudaismo, (Atti del convegno tenuto a Idice il 4 e 5 novembre1981), Roma
1983, pp. 35-57. Il falso più interessato a problemi scritturali è il commento a Filone,
de temporibus (su cui importanti osservazioni in FUBINI, L’ebraismo cit., pp. 312-314,
con ulteriore bibliografia), dove, Antiquitates, H3r, a proposito di problemi storici re-
lativi al regno di Nabucodonosor, emerge una forte critica della cultura dei moderni I-
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RIFLESSIONI TEORICHE E PRASSI STORIOGRAFICA IN ANNIO DA VITERBO 191

sto anniano risulta evidente una situazione per cui la prospettiva biblica dei
libri storici è certamente analoga a quella espressa da un Beroso, per la co-
munanza delle fonti, ma è in certa misura di derivazione secondaria rispet-
to ad una linea noachica rappresentata dai Caldei e direttamente verificabi-
le nella storia etrusca. A ben considerare, la presenza scritturale assume u-
na parte abbastanza limitata nella ricostruzione del frate viterbese, comun-
que spesso mediata da qualche sistemazione ‘professionale’, e si pensi ad
una Historia scolastica. Va, tuttavia, rilevato che sarebbe stato impossibile
per un intellettuale della tipologia di Annio affrontare una polemica espli-
cita e radicale con la tradizione ebraica, come aveva potuto, invece, fare nei
confronti della tradizione greca, senza il rischio di intaccare gli stessi fon-
damenti della sua formazione. In ogni caso, nello spazio ristretto che gli è
consentito, Annio fa di tutto per divaricare il momento noachico e quello a-
bramitico: Noè è infatti un gigante e portatore di cultura gigantea, trasmes-
sa a tutta l’ecumene e in particolare ai cananiti, i quali hanno creato la pri-
ma tradizione scolastica postdiluviana100.
Inoltre, la storia sacra penetra nell’opera anniana con civetterie ‘lai-
che’: in un frammento di Beroso, ad esempio, dove si narra la storia del pas-
saggio del Mar Rosso si afferma che il Faraone «cum Hebreis de magica
pugnavit et ab eis submersus fuit», senza che il commento reagisca, salvo a
ricordarsene due carte più tardi, assolutamente a sproposito, cercando di at-
tenuare la cosa: «sed, quod est grave in Beroso, magum Moisem appellat,
qui divina virtute vicit. Sed venia danda est gentilitati»101. In realtà, com’e-
ra stata proposta una storia alternativa alla linea classica, linea sacerdotale

sraeliti: «perdiderunt enim omnem sapientiam quam sui habuerunt», per cui è da di-
stinguere tra i «veteres Iudaeos» e i «modernos Iudaeos, quibus etiam ipsa lux Veteris
Testamenti ferme obscuratur»; salvo poi, poco più avanti, ad utilizzare la competenza
etimologica dei talmudisti, «dicunt autem Talmudistae». Ma certo il frammento filo-
niano è luogo privilegiato della presenza scritturale, l’unico in cui si fa esplicito osse-
quio alla verità biblica a proposito della eternità del mondo sostenuta dai Caldei e in-
vece negata da Mosè, il quale non ha, tuttavia, provato il suo assunto, ma, nella fatti-
specie «est […] omni humana opinione certior fides». Nei frammenti ‘storici’, e rela-
tivo commento, la posizione di Annio è, però, notevolmente più ‘laica’.
100 In effetti, tutta la mitologia anniana si diversifica da quanto emerge dai li-

bri storici della Bibbia: i giganti, ad esempio, sono visti con connotati non sempre
negativi, dato che lo stesso Noè è un gigante; inoltre, la terra Canaan risulta luogo
privilegiato di antica civilizzazione, se Giosuè vi trova Chyriat Sepher, «idest civi-
tas litterarum. [...] Illa urbs antiquitus id nomen accepit, quod ibi primum litterae et
memoriae Assyriorum et Phenicum libris mandatae fuerunt et Priscorum fuit Acha-
demia antiqua»: Antiquitates, I6v. Ma si veda anche O2v-3r, per la caratterizzazio-
ne della cultura adamitica e la sua trasmissione ai Caldei tramite laterculos coctiles
inscriptos.
101 Antiquitates, Y2r e Y3v.
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192 GIACOMO FERRAÙ

e ‘teologica’ contro linea laica e retorica, così si ripropone una nuova sa-
cralità direttamente trasmessa da Noè agli Etruschi e all’Europa tutta, una
scienza perfetta e conoscitiva che attinge a rami più alti di quelli abramiti-
ci dell’antica saggezza e che, in certo modo, dalla linea noachico-ianigena
alla potestà sacrale dei pontefici romani e alla comune civiltà europea pro-
cede rendendo non indispensabile l’apporto culturale e sacrale ebraico: e
occorre appena rilevare come Annio sottolinei più volte l’eguale nobiltà, ma
soprattutto la compatta caratterizzazione etnica ianigena del contesto euro-
peo.
Una prospettiva che torna centrale nella storia iberica antichissima a
conclusione dell’opera. Già nella dedica a Ferdinando e Isabella Annio a-
veva inquadrato l’interpretazione dell’attività dei nuovi regnanti entro
coordinate ianigene ed erculee: «hii enim soli tenebras a luce diviserunt;
tyrannos Hispaniarum et Geriones, tanquam semen herculeum, magna vi
atque fortitudine substulerunt; latrocinantes deleverunt; impios hereticos
tota Hispania pepulerunt; Mauros, crucis inimicos, illo potentissimo re-
gno Betico spoliaverunt». Su questa linea la successiva ricostruzione sto-
rica, che intendeva colmare le lacune antiquarie della prestigiosa proposta
storiografica dell’Arevalo, si configurava come una ulteriore rivendicazio-
ne di origini ianigene, di cui si può misurare la sacralità e la lunga durata,
dal momento che gli Iberi erano «Scythae Caspii», e i Goti «quum […] in
Hispanias penetraverint et ad hanc aetatem regnaverint, […] consequens
necessario est ut posteri Gothi non variaverunt priscam originem Hispani-
cae gentis»102. E, nel prosieguo del discorso, non mancano le puntate in-
tese a stabilire la recenziorità della tradizione ebraica rispetto alla linea ia-
nigena dei regni iberici103, mentre si marca piuttosto la vicinanza di san-
gue con l’Italia104.
Dalla complessa costruzione anniana deriva in fin dei conti una nuova
storia della nobile e pura Europa che forse comincia già a puntare in linea
preferenziale alla vicenda spagnola, investendo, ad esempio, di caratteri
‘romani’ quella Roma iberica che è Valenza, da cui non a caso provengono
gli eroi Borgia, il primo, Callisto, difensore strenuo dei valori europani con-
tro gli assalti Turchi, il secondo, Alessandro, che riporta alla luce l’antico
auspicio noachico propiziando le scoperte etrusche, «futurae sub eo ponti-
fice felicissimo propagationis imperii Christiani et sedis apostolicae illu-
102 Si cita da Antiquitates, a2r e k1v.
103 Ad esempio ad Antiquitates, k1v, dove si nota la recenziorità di Abramo ri-
spetto a Tubal, in un contesto in cui si ricorda l’antica colonizzazione iberica di Noè;
o, ancora, k2r, benedizione delle genti in nome di Cristo contro il Dio di Israele, de-
rivando da affermazioni di s. Paolo, Galati, 3, 8-9; k4d, dove le vicende di Deuca-
lione e Mosè sono messe in parallelo: «sub Sphero e Sycoro nati sunt duo salvato-
res, alter a diluvio ereptor, alter a servitute».
104 Antiquitates, k4v: Luso «multas duxit ex amicis Italiae colonias».
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RIFLESSIONI TEORICHE E PRASSI STORIOGRAFICA IN ANNIO DA VITERBO 193

strationis divinum portentum»105. Un’affermazione che supera la contin-


genza dell’encomio, nel momento in cui, come si è visto, è l’istituzione
pontificia che riprende la sacralità e universalità lucumonia. Proprio a que-
sta strenua ricostruzione etrusca, sacra ed europana, con possibili esiti pon-
tifici, saranno dovute la fortuna e la carriera curiale di Annio; una ricostru-
zione complessa, diseguale, ricca e stimolante a volte, a volte ingenua e per-
sino irritante per chiara incompetenza. Resta, in ogni modo, da rilevare la
potente capacità immaginativa con cui il frate viterbese ha perseguito, sen-
za dimenticare la vicenda della piccola patria, una significazione univer-
sale, costruendo una vera Biblioteca di Babele a difesa della sua storia al-
ternativa.

105 In Antiquitates, Z3r.


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MARIANGELA VILALLONGA

Rapporti tra umanesimo catalano e umanesimo romano

L’umanesimo catalano è, in gran parte, debitore dell’umanesimo ro-


mano. La causa di questo debito è da ricercare nelle figure dei papi valen-
zani Callisto III e Alessandro VI, e in particolare di quest’ultimo, che fece
da mecenate ad alcuni umanisti catalani. Gli undici anni di papato di Ro-
drigo Borgia (1492-1503) rappresentarono il culmine dell’accumulazione
di potere cominciata timidamente nel 1456, quando il valenzano fu nomi-
nato vicecancelliere della curia romana, carica che occupò per trentacinque
anni e che mantenne sotto il pontificato di cinque papi. Rodrigo Borgia, co-
me suo zio Callisto III, si circondò di catalani nella sua corte romana. Uno
di essi fu il barcellonese Jeroni Pau1, il più importante degli umanisti cata-
lani del XV secolo. A Roma Pau si introdusse nei circoli umanistici. Paolo
Pompilio2 fu il suo grande amico. Però mantenne uno stretto contatto con
molti altri umanisti, fra cui qualche suo collega della curia vaticana. Da Ro-
ma Pau passava informazioni a Pere Miquel Carbonell3, notaio e archivista
installato a Barcellona. In questo modo si introdusse in Catalogna l’umane-
simo romano. I rapporti romani fra i due umanisti Jeroni Pau e Paolo Pom-
pilio sono noti grazie alla conservazione delle loro opere da parte di Car-
bonell, a Barcellona. Il rapporto di Jeroni Pau con Paolo Pompilio ed Ales-

1 Cfr. M. VILALLONGA (a cura di), Jeroni Pau. Obres, Barcelona 1986; EAD., Je-
roni Pau en el umbral de un mundo nuevo: Quinto Centenario de su muerte, in Ac-
ta Conventus Neo-Latini Abulensis, (Proceedings of the Tenth International Con-
gress of Neo-Latin Studies, Avila, 4-9 August 1997), general editor R. SCHNUR,
Tempe (Arizona) 2000, pp. 647-657.
2 Cfr. W. BRACKE in questo stesso volume ed anche ID., «Contentiosa disputa-

tio magnopere ingenium exacuit», in Roma e lo Studium Urbis. Spazio urbano e cul-
tura dal Quattro al Seicento, (Atti del Convegno, Roma, 7-10 giugno 1989), Roma
1992, pp. 156-168; ID., Pietro Paolo Pompilio grammatico e poeta, Messina 1993;
M. CHIABÒ, Paolo Pompilio professore dello «Studium Urbis», in Un pontificato ed
una città. Sisto IV (1471-1484), (Atti del Convegno, Roma, 3-7 dicembre 1984), a
cura di M. MIGLIO-F. NIUTTA-D. QUAGLIONI-C. RANIERI, Roma-Città del Vaticano
1986, (Littera Antiqua, 3), pp. 503-514.
3 Cfr. M. VILALLONGA, Dos opuscles de Pere Miquel Carbonell, Barcelona

1988; EAD., La literatura llatina a Catalunya al segle XV, Barcelona 1993, pp. 63-
72; EAD., Pere Miquel Carbonell, un pont entre Itàlia i la Catalunya del segle XV,
«Revista de Catalunya», 85 (1994), pp. 39-59.
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196 MARIANGELA VILALLONGA

sandro VI sarà oggetto di studio nelle pagine che seguono, a partire dai da-
ti biografici di Pau di cui sono a conoscenza. Mi soffermerò dunque su que-
gli aspetti della biografia di Jeroni Pau che lo collocano nel circolo del car-
dinale valenzano e su quelli che riflettono l’amicizia con Paolo Pompilio.
Da una parte, attraverso le parole che Pau scrisse nelle dediche e negli
epiloghi delle opere da lui dedicate ad Alessandro VI e in quei testi che han-
no come protagonista il valenzano, potremo conoscere il Rodrigo Borgia di
cui Pau ci fece il ritratto. Dall’altra, attraverso le opere di Pompilio e Pau,
potremo conoscere la portata della loro amicizia. Jeroni Pau era figlio di un
giureconsulto consigliere dei re Alfonso IV e Giovanni II e nipote del me-
dico di famiglia della moglie di Alfonso IV. Nacque a Barcellona intorno al
1458 e morì nella stessa città nel 1497. Studiò in alcune università italiane,
sicuramente a Bologna, Perugia, Firenze e Siena, ma ci è documentato sol-
tanto il suo soggiorno all’Università di Pisa negli anni 1475-14764. È sem-
pre chiamato doctor utriusque iuris. Come Rodrigo Borgia, il suo protetto-
re, fu anche alunno del giurista Andrea Barbazza. Pau fu canonico di Bar-
cellona ed anche di Vic. Nella sua attività più propriamente letteraria col-
tivò la poesia, il saggio storico, gli studi geografici e grammaticali, la giu-
risprudenza. Nel 1475 Jeroni Pau viveva già a Roma, dove rimase dicias-
sette anni, sempre accanto al cardinale Borgia, di cui fu, in un primo tem-
po, familiaris continuusque commensalis e infine ricoprì la carica di litte-
rarum apostolicarum vicecorrector alla curia. Sappiamo che quello stesso
anno Pau scrisse l’opera De fluminibus et montibus Hispaniarum. Dal pun-
to di vista cronologico, questa è la prima opera di Pau. Questo componi-
mento segue il modello di Boccaccio e, secondo l’autore, fu scritto nei mo-
menti d’ozio che gli concedeva lo studio del dirittto. L’opera dovette cono-
scere piú di una copia manoscritta in quel periodo, perché sappiamo che Pe-
re Miquel Carbonell ne inviò una a suo figlio Francesc e che lo stesso Pau
la inviò da Roma a Teseu Benet Ferran Valentí, che studiava a Bologna, du-
rante l’estate del 1475, affinché la facesse copiare e la consegnasse poi al
poeta Francesco del Pozzo. Ma fu stampata solo nel 1491 a Roma, senza in-
dicazione di stampa. Pau dedicò già quest’opera al suo mecenate, come ri-
sulta dalle prime parole del testo5:

Al reverendissimo signore Rodrigo, vescovo portuense, car-


4 Cfr. M. VILALLONGA, Gli umanisti catalani del XV secolo nei centri universi-

tari della Toscana, «Studi Italiani di Filologia Classica», III ser., 10/1-2 (1992), pp.
1131-1143.
5 Cfr. VILALLONGA, Jeroni cit., I, pp. 206-209. Il testo latino dice: «Ad Reve-

rendissimum Dominum Rodericum Episcopum Portuensem Cardinalem Valentinum


Sanctae Romanae Ecclesiae Vicecancellarium. Scripseram, Pater amplissime, quo-
rundam poetarum hortatu libellum hunc de Hispaniae nostrae fluuiis et montibus,
quorum apud ueteres mentio habetur. Eum celsitudini tuae dicatum non prius ausus
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RAPPORTI TRA UMANESIMO CATALANO E UMANESIMO ROMANO 197

dinale valenzano, vicecancelliere della Santa Chiesa Romana. A-


vevo scritto, padre nobilissimo, secondo il consiglio di alcuni
poeti, questo libretto sui fiumi e i monti della nostra Spagna, di
quelli che menzionano gli antichi. Questo piccolo libro, dedicato
alla tua ammirevole persona, non osai presentarlo pubblicamente
prima di darlo a te affinché lo correggessi, a te, di cui nessuno i-
gnora che per l’intelligenza e l’esperienza delle cose non sei in-
feriore a nessuno della tua categoria. Vi si aggiunge notizia di
luoghi e regioni, dei quali molto esperto recentemente ti ha reso
l’importantissima delegazione nella nostra provincia. Infatti, visi-
tando gran parte della nostra Spagna, per fortuna hai lasciato im-
mensi ricordi della tua considerazione e della tua gloria alla no-
stra Hesperia. Spero che un giorno saranno consegnate al tuo no-
me cose piú importanti. Ora, però, per quanto riguarda alcune no-
te relative alla cosmografia e al risorgimento dell’antichità, rac-
colte nei momenti di ozio concessi dallo studio del diritto, sarà
sufficiente mostrarle in maniera gradevole.

Dalla dedica si può dedurre che Pau considerava Rodrigo Borgia un


profondo conoscitore del suo paese natale e degli autori antichi, giacché,
prima di mostrare pubblicamente il suo volume sulla geografia ispanica,
chiede al cardinale che glielo corregga. Se teniamo presente che nel testo di
Pau confluiscono il suo buon latino e la sua straordinaria erudizione, in li-
nea con l’umanesimo più esigente, dovremo concludere che Rodrigo Bor-
gia non doveva essere inferiore a Pau né come latinista né come erudito, pur
riconoscendo che Pau nella redazione della sua dedica encomiastica a un
personaggio importante che è, per giunta, il suo mecenate ricorre agli ste-
reotipi abituali. La data di composizione di detto opuscolo, l’anno 1475, lo
colloca all’avanguardia in questo tipo d’opera in terre ispaniche. L’edizio-
ne del 1491 conferma la sua importanza e la sua diffusione. Nello stesso in-
cunabolo del 1491, dopo l’opera citata, troviamo un altro opuscolo di Pau
con il titolo De priscis Hispaniae episcopatibus et eorum terminis, in cui si
raccolgono le divisioni territoriali dei vescovati della penisola iberica. An-
che tale testo, che serve da complemento al De fluminibus, è diretto al car-

sum manifestum praebere, quam tibi quem nemo ignorat et ingenio et rerum expe-
rientia nemini tui ordinis cedere, emendandum tribuissem. Accedit locorum regio-
numque notitia, quorum te nuper amplissima prouinciae nostrae legatio peritissi-
mum reddidit. Magnam enim Hispaniae partem feliciter peragrando, immensa tuae
dignationis et gloriae monumenta nostrae Hesperiae reliquisti. Spero dabuntur tuo
nomini aliquando maiora. Nunc autem aliquid ad Cosmographiam et suscitationem
antiquitatis pertinens, per vacationem a studio iuris collectum, haud iniocunde de-
gustasse sufficiat».
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198 MARIANGELA VILALLONGA

dinale Borgia. Ne estraggo queste parole di chiusura6: «A te, molto reve-


rendo padre, offro, tornando dalla nostra Spagna, questo piccolo dono mol-
to esiguo, perché so che ti dedichi con molta passione allo studio delle co-
se antiche e specialmente di quelle che mostrano l’origine della tua dignità.
E almeno mi piacerà aver contribuito con ciò, che ti sarà gradito, se non per
questa molteplice e strana varietà di nomi, almeno per questa nostra e non
del tutto disprezzabile curiosità». La curiosità degli eruditi, la curiosità de-
gli umanisti è condivisa dal valenzano, studioso, secondo Jeroni Pau, del-
l’antichità. Agli occhi di Pau, Rodrigo Borgia appariva come un uomo del
suo tempo, dedito allo studio degli antichi, buon conoscitore dell’antichità.
Ammettiamo pure che Rodrigo Borgia non lo fosse, ammettiamo che le pa-
role a lui dedicate da Pau siano pura e semplice retorica, un elogio fra i tan-
ti che Pau utilizzava per compiacere le orecchie del valenzano: però, se e-
rano proprio queste le lodi che Rodrigo Borgia voleva sentire nel 1475 e an-
che nel 1491, ciò dimostra fino a che punto riconoscesse l’importanza del-
l’antichità nel nuovo mondo in cui stavano vivendo, dimostra fino a che
punto apprezzasse gli studia humanitatis e chi li coltivava. Continuiamo
con la biografia di Pau. Come abbiamo visto, Pau dovette dunque far parte
della familia del cardinale valenzano, forse fino a quando gli studi gli per-
misero di ottenere la sua prima carica nella curia, anche in questo caso agli
ordini del cardinale vicecancelliere Rodrigo Borgia. La carica di abbreuia-
tor de prima uisione gli fu concessa nel 1479, secondo quanto appare nella
bolla di nomina firmata da Sisto IV. Insieme a Pau sono nominati anche
Jaume Casanovas e ‘Joannis Lopis’, come correttore si nomina Giovanni
Borgia, che successivamente sarebbe diventato vescovo di Monreale, in Si-
cilia; fra gli abbreviatores de parco maiore si trova il giureconsulto Niccolò
da Castello, e fra quelli de parco minori Ludovico Podocatharo, che sareb-
be diventato cardinale ed ebbe nella sua familia l’umanista dell’Accademia
Pomponiana Tommaso ‘Fedra’ Inghirami.
Andiamo avanti di qualche anno. Nel 1482 Pau aveva già al suo attivo
versi in lode del cardinale valenzano. Si tratta di un’elegia che inviò a Pere
Miquel Carbonell, l’archivista barcellonese copista e diffusore delle opere
di Pau. Il carme segue la linea del panegirico classico, ampolloso e pieno di
stereotipi. Dalla sua lettura si desume che il suo autore aveva molta fami-
liarità con il futuro Alessandro VI, di cui conosceva molto bene la vita e le

6 Ibid., pp. 258-265. Il testo latino dice: «Hos tibi Reverendissime Pater exi-

guum admodum munusculum ex nostra Hispania rediens offero, cum sciam te anti-
quarum rerum cognitioni deditissimum, et earum maxime, quae originem dignitatis
tuae aperiunt. Et hoc saltem me effecisse iuuabit quod, etsi non multiplici ac pere-
grina varietate nominum, nostra tamen nec omnino aspernanda curiositate redebis».
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RAPPORTI TRA UMANESIMO CATALANO E UMANESIMO ROMANO 199

opere che portò a termine soprattutto nel campo architettonico. Così vedia-
mo che parla del castello di Subiaco e del palazzo Borgia di Roma, magni-
ficamente lodati da Pau. Il carme è pieno di reminiscenze classiche spe-
cialmente di Marziale, ma non vi mancano né Ovidio né Virgilio. All’inizio
di questo carme X, Rodrigo Borgia è paragonato a personaggi del mondo
classico: i Curi, Catone, Cicerone sono nominati direttamente, ma lo è an-
che Augusto attraverso una citazione da Svetonio, quando racconta che
l’imperatore voleva lasciare una Roma tutta di marmo. Rodrigo Borgia, co-
me i principi del Rinascimento, è trattato da Pau come un eroe dell’antichità
classica. Grazie alle sue grandi opere dovrà arrivare all’immortalità, tutto a
maggior onore e gloria del cardinale. Proprio l’elogio delle opere architet-
toniche portate a termine dal cardinale Borgia è motivo di alcuni versi del
carme. Quelle del Pau si aggiungono così alla lista delle lodi che meritò il
Palazzo della Cancelleria Vecchia. Ricorda anche la costruzione borgiana di
Subiaco. Però, subito dopo, il carme si addentra nella fama e nelle virtù del
cardinale valenzano, in un frammento pieno di iperboli e degli stereotipi
della poesia panegirica. Una volta di più, vediamo come si realizza, nell’o-
pera di un umanista, l’armonizzazione di cristianesimo e paganesimo, così
come sibille e profeti appaiono insieme negli appartamenti borgiani del Va-
ticano. Verso la fine della composizione, Pau vaticina il papato di Rodrigo
Borgia ed esprime il desiderio di poter vedere quei giorni anelati, promet-
tendo, allo stesso tempo, poemi lirici e poemi epici per cantare le gesta del
futuro papa. Mancano ancora dieci anni perché il secondo papa Borgia ar-
rivi ad occupare la massima carica della Chiesa e, secondo Pau, questo è il
desiderio del mondo cristiano. Ecco gli ultimi versi dell’elegia7:

Dio ti riserva per cose piú grandi, perché la sacra tiara conviene
solo al tuo capo. Oh! Che mi sia permesso vedere i giorni desi-
derati! Chi ti onorerà, Roma, una volta cambiato il nome? Allora
la mia Musa ti canterà con un poema lirico, allora canterà le gran-
di gesta con verso eroico. Se non lo sai, questo desidera Roma e

7 Cfr. l’edizione dell’elegia ed il commento in VILALLONGA, Jeroni cit., II, pp.

116-125. Il testo latino del carme X, 45-68 dice: «Sunt haec magna quidem, Deus
ad maiora reservat / namque decet tantum sacra tyara caput. / O utinam optatos li-
ceat mihi cernere soles! / Quis te mutato nomine, Roma, colet? / Tum mea te lyrico
cantabit carmine musa, / tunc canet heroo grandia gesta pede. / Si nescis, hoc Roma
cupit totusque precatur / orbis, nec mirum, te duce, tutus erit, / te duce, non oriens
Turca ditione premetur, / nec suberit tristi Graetia clara iugo. / Tu Solymas veteres
sacraria prisca tonantis / restitues, nostra relligione coli. / Tu Iopen Gazamque simul
Beritumque superbam / contundes, cedet Syria tota tibi. / [...] Nec dubites parcas Pe-
tri transcendere metas, / solvet enim legem Claviger ipse tibi. / Vive igitur felix,
praesul telluris Iberae, / Vive decus Latii, gloria magna patrum / exsuperesque, pre-
cor, plures uel Nestoris annos / nil melius, nam te maximus orbis habet».
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200 MARIANGELA VILALLONGA

questo chiede tutto il mondo, e non sorprende, sotto la tua guida


si sentirà sicura, sotto la tua guida l’Oriente non sarà oppresso dal
dominio turco, nemmeno l’illustre Grecia resterà sotto il triste
giogo. Tu ristabilirai l’antica Gerusalemme, i primitivi sacrari di
Dio, perché sia venerata dalla nostra religione. Tu annienterai Jo-
pe e Gaza ed anche la superba Beirut, l’intera Siria si sottomet-
terà a te. [...] E non esitare a superare i piccoli confini di Pietro;
in effetti, proprio colui che possiede le chiavi consegnerà a te la
legge. E tuttavia vivi felice, vescovo della terra iberica, vivi, ono-
re del Lazio, gloria dei Padri Santi, e che tu viva, chiedo, addirit-
tura piú anni di Nestore, ottima cosa perché cosí il mondo ti go-
drà il massimo del tempo.

Continuando il percorso biografico di Pau, arriviamo al 1483 e ad una


iscrizione che Pau compose in lode, una volta di più, del cardinale valenza-
no per essere stato il promotore della costruzione della torre del castello di
Subiaco. Rodrigo Borgia ostentò, a partire dal 1471, la dignità di abate
commendatario di Subiaco, che comprendeva il governo di ventidue paesi
e il controllo delle strade della regione degli Abruzzi. Rodrigo si occupò di
ampliare la fortificazione del castello nell’attuale Rocca Abbaziale e di co-
struire una torre quadrangolare nella parte rivolta ad est, ancora oggi chia-
mata volgarmente Torre Borgiana. Il testo di Pau parla della magnanimità
del cardinale e delle spese derivate dalle opere di restauro e di costruzione
della nuova torre e il motivo per il quale si realizzarono: proteggere il po-
polo e i monaci di Subiaco e le frontiere della Chiesa romana8. Suppongo
che risalga al 1484 la redazione del carme XI che Pau scrisse Ad arcem seu
castellum Nepesinensem in laudem praefati Reverendissimi Domini Cardi-
nalis Vicecancellarii. Il castello di Nepi fu, come è noto, l’altra residenza
favorita di Rodrigo Borgia, nei dintorni di Roma. Il cardinale ordinò all’ar-
chitetto Antonio di Sangallo che disegnasse, intorno al nucleo antico, un
nuovo recinto fortificato, che rendesse inespugnabile il paese. Il carme co-
mincia con l’enumerazione, quasi un catalogo, di tutte le opere architetto-
niche che il cardinale fece erigere a Roma e nel resto d’Italia. E termina con
questo distico encomiastico sulla figura del valenzano9: «Quanto fu giusta
la sua preoccupazione! Inoltre, si è fatto carico di tutte le spese, ha detto che
ciò conveniva alla famiglia Borgia. Così, dunque, siate felici figli sotto un
principe così grande, il quale, pur essendo signore, vuole essere padre». Il

8Ho trascritto e studiato le due iscrizioni in VILALLONGA, Jeroni cit., I, pp. 49-53.
9Cfr. VILALLONGA, Jeroni cit., II, pp. 126-129. Il testo latino del carme XI, 11-
14 dice: «Quam pia cura fuit, sumptus quoque praebuit omnes, / Borgiacam dixit
ista decere domum, / Felices igitur tanto sub Principe nati, / qui cum sit dominus,
uult tamen esse pater».
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RAPPORTI TRA UMANESIMO CATALANO E UMANESIMO ROMANO 201

1485 è l’anno della presentazione delle bolle che attribuiscono a Pau un ca-
nonicato e, a parte altri dati significativi per lo studio della sua opera che
non è pertinente menzionare qui, è interessante per una notizia sull’umani-
sta Paolo Pompilio riguardante Pau. Così, ora come ora, possiamo dire che
già in quei momenti confluiscono gli itinerari biografici di questi due uo-
mini, un catalano e un romano, umanisti della Roma quattrocentesca, attra-
verso i quali conosciamo un po’ più a fondo l’ambiente della corte di Ro-
drigo Borgia. Di Pompilio vorrei ricordare che nacque nel 1455 e morì ver-
so la metà del 1491, che fece parte dell’Accademia Pomponiana ed esercitò
come professore nell’Università di Roma, allora sotto il patrocinio papale.
Sono evidenti i nessi che collegano Pompilio con gli spagnoli della cor-
te del cardinale Rodrigo Borgia residenti a Roma. Fu addirittura maestro di
Cesare Borgia. L’ammirazione e la buona conoscenza di quanto si riferisce
all’Hispania e più concretamente alla famiglia Borgia si manifestano nel
contenuto delle opere di Pompilio, come vedremo più avanti nel parlare del-
la sua produzione letteraria. Ora mi interessa mettere in evidenza il suo rap-
porto con Jeroni Pau. Sono senza dubbio molti i legami e le circostanze che
uniscono i due uomini. Per cominciare, sono quasi coetanei, vivono e lavo-
rano a Roma, sono universitari, intellettuali, poeti in latino, grandi conosci-
tori degli autori classici e con un grande interesse per la grammatica e la re-
torica, per la storia della lingua, per il passaggio dal latino alle lingue volga-
ri, per la filologia in generale. Sono due umanisti, in definitiva, che frequen-
tano gli stessi circoli letterari, due uomini di gusti affini che si muovono per
la Roma della seconda metà del XV secolo. La loro reciproca amicizia sfo-
ciò in una collaborazione letteraria e produsse una serie di opere che altri-
menti non sarebbero forse state redatte. In queste opere sono frequenti le ci-
tazioni e gli elogi dell’amico che le aveva ispirate, la qual cosa ci permette
di conoscere con maggior profondità il loro rapporto. Mi soffermerò, in pri-
mo luogo, su alcuni commenti di Paolo Pompilio relativi a Jeroni Pau, con-
tenuti in una delle sue opere, quella intitolata Notationum libri quinque, di
cui conserviamo i capitoli contenuti nel cod. Vat. lat. 2222.
In due di tali capitoli Jeroni Pau è il protagonista; il suo ruolo è quel-
lo di un erudito a cui si chiede l’opinione su temi tanto diversi come l’i-
dentificazione di un cadavere intatto ritrovato sulla via Appia10, o l’esi-
stenza di una o due lingue nel Lazio antico. Il primo intervento risale al
1485 ed è inserito nel capitolo 20 del libro I dell’opera citata di Pompilio.
Il secondo non ha data e si ritrova nel capitolo 3 del libro II. Non so quan-
ti capitoli avesse il libro, ma a causa della loro prossimità nell’opera, è pro-

10 Cfr. G. MERCATI, Paolo Pompilio e la scoperta del cadavere intatto sull’Ap-


pia nel 1485, in MERCATI, Opere minori raccolte in occasione del settantesimo na-
talizio soto gli auspici di S. S. Pio XI (1917-1936), IV, Città del Vaticano 1937, pp.
268-286.
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202 MARIANGELA VILALLONGA

babile che si possano far risalire allo stesso 1485 o poco dopo. La disser-
tazione di Pau sulla lingua latina, a quanto spiega Pompilio, ha luogo a ca-
sa del cardinale Rodrigo Borgia, in una riunione in cui Pau spicca per in-
telligenza ed erudizione. Purtroppo, Pompilio omette il nome degli altri
partecipanti perché nec fas est huiusmodi ignavos homines nominare. Gli
scrupoli intellettuali di Pompilio ci hanno privato di un’informazione che
avrebbe potuto esserci utile. Non è l’unica occasione in cui Pau è lodato
dal suo amico romano. Nel 1486 Pau sale di un altro gradino nella curia
vaticana, è nominato cioè litterarum apostolicarum vicecorrector. Tutta-
via, fino al 1491 non torneremo ad avere notizie romane di Pau. Questo fu
l’anno della pubblicazione della sua opera Barcino, stampata nella tipo-
grafia di Pere Miquel, a Barcellona, a spese di Joan Peiró, luogotenente del
protonotaio della città di Barcellona, buon amico di Carbonell e dello stes-
so Pau. Sebbene conosciamo l’anno di pubblicazione dell’opera, non sap-
piamo quale fu l’anno della sua redazione. L’opera è dedicata all’amico
Paolo Pompilio, che morì lo stesso anno della pubblicazione. In quest’o-
pera Pau ci fa sapere che Pompilio era il suo migliore amico, come pos-
siamo vedere nella dedica11:

Seneca dice che alcuni uomini sono ladri del tempo degli amici:
invece tu, Pompilio, fai il contrario, perché cerchi in tutti i modi
possibili che non venga né rubato dagli amici né sopraffatto dal-
le occupazioni. Chiedi una cosa o l’altra affinché l’impiego di
tempo procuri qualche beneficio letterario a quelli che ami. [...]
Qualche tempo fa, mediante una lettera con una richiesta molto
gradita, interrompesti le mie pesanti attività giuridiche. Perché
desideri che io ti riferisca per iscritto quanto ho letto negli auto-
ri antichi e fededegni sulla mia città, il suo territorio e la sua im-
portanza, i suoi abitanti e la sua posizione, e sulle sue gesta ec-
cellenti ed esemplari, aggiungendovi succintamente la sua storia

11Cfr. VILALLONGA, Jeroni cit., I, pp. 290-347. Il testo latino dice: «Amicorum
quosdam fures esse temporis ait Seneca. Tu contra, Pompili, facis; curas enim et in-
stigas ne surripiantur amicis neue negotiis obruantur. Rogas unum aut aliud, quo
temporum mora fructum aliquem litterarum his, quos diligis, pariat; [...] Interrupi-
sti nuper per epistolam negotiosas legum actiones, gratissimo rogatu. Cupis enim ut
quae de urbe mea eiusque agro et principatu, incolis et situ, deque eorum rebus prae-
clare magnificeque gestis apud priscos auctores et fide dignos legi, ad te scriberem;
addita perstrictim usque ad nostra tempora historia. Quod libens feci, id te expo-
scente, ut de eruditione taceam, amicorum optimo, placuitque mihi a nostra quan-
quam labori et vigiliis obnoxia, tamen, ut iurisprudentes volunt, non minus quam
tua, vera atque sacra philosophia ad mitiora et cunctis iucunda studia tui gratia et
materiae divertere, placidiorique exercitio patrium solum ceu praesens mente pauli-
sper collustrare».
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RAPPORTI TRA UMANESIMO CATALANO E UMANESIMO ROMANO 203

fino ai nostri giorni. L’ho fatto volentieri perché eri tu a chieder-


melo – prescindendo dalla tue conoscenze – tu, il migliore degli
amici, e mi fece piacere allontanarmi dalla nostra, non meno che
tua, seppure soggetta a fatiche e veglie, pur sempre vera e sacra
filosofia – come vogliono gli esperti in giurisprudenza –, per de-
dicarmi a studi piú leggeri e gradevoli a tutti, come ringrazia-
mento a te e alla materia stessa, e, per dare, con una piú tran-
quilla occupazione, una visione del mio suolo patrio come se
fosse presente nella mia mente.

E l’amico romano appare anche nell’epilogo di quest’opera di Pau12:

Ti ho spiegato brevemente, o Pompilio, alcune cose relative alla


città in cui venni alla luce. [...] Ora desidero che tu, a tua volta, ti
senta obbligato a fare lo stesso che hai chiesto a me, e così come
io ho scritto superficialmente sulla mia città, ti prego con insi-
stenza affinché anche tu narri, e certo con un’opera più perfetta,
le eccellenze della tua, anzi, della nostra comune città. Per me
sarà sufficiente aver pagato, sia pure non abbastanza, quello che
dovevo e all’amico e alla patria.

Ma Pompilio non ebbe il tempo di scrivere l’opera richiestagli dall’a-


mico barcellonese, perché morì di pleurite quello stesso anno. Se dobbiamo
prestar fede a Carbonell, biografo di Pau, questi tornò a Barcellona nel
1492, per una malattia. È un altro dei punti oscuri della biografia di Pau.
Sorprende davvero che, dopo aver vissuto diciassette anni a Roma, sempre
agli ordini di Rodrigo Borgia e in stretto rapporto con lui, Pau se ne vada a
Barcellona proprio quando il cardinale valenzano arriva a quei ‘giorni desi-
derati’ dal nostro autore nell’elegia a Rodrigo Borgia, cioè quando il valen-
zano occupa il soglio di Pietro. Delle due ipotesi presentate a suo tempo
(nel 1939) dallo studioso italiano Antonio Era13, mi sembra che, in primo
luogo, dobbiamo accantonare quella basata su una possibile esclusione di
Pau dalla corte pontificia per essere un testimone molesto del passato del
nuovo papa; se così fosse, sarebbero stati molto piú numerosi gli emargina-
ti nel 1492. Oggi questa ipotesi non mi sembra accettabile, perché il passa-

12 Il testo latino dice: «Haec perstrinximus, Pompili, de urbe in qua editi in lu-
cem sumus. [...] Te nunc invicem accingi cupio ad id quale ipse me rogasti utque
nos strictim de urbe nostra conscripsimus, tu quoque excelsas tuae vel potius com-
munis urbis res insto sed clariori opere absolvas, mihi sufficiat amico simul et pa-
triae quod debebam uel tenuiter exsolvisse».
13 Cfr. A. ERA, Il giureconsulto catalano Gironi Pau e la sua «Practica Cancella-

riae Apostolicae», in Studi in onore di Carlo Calisse, III, Milano 1939, pp. 369-402.
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204 MARIANGELA VILALLONGA

to di Alessandro VI era di dominio pubblico nella Roma dell’epoca. L’altra


ipotesi potrebbe avvicinarsi di più alla realtà: il fatto che Pau, per motivi che
non arriviamo a chiarire, non avesse ottenuto i benefici che si aspettava dal
nuovo pontefice. L’erudito catalano Josep M. Casas Homs14 azzardava una
nuova ipotesi nel 1971, e cioè che Pau sarebbe stato in ostilità con i tede-
schi perché patrocinava la tesi secondo cui tutti i popoli cristiani avrebbero
dovuto avere un capo politico unico, con la possibilità che questi diventas-
se più potente dell’imperatore. È, naturalmente, un’ipotesi discutibile. Mal-
grado ciò, secondo Carbonell, l’amico barcellonese di Pau, il motivo è chia-
ro: malattia. È ovvio che può trattarsi di una scusa per nascondere qualche
causa più grave che né l’uno né l’altro vuole che si conosca, ma, in realtà,
è l’unica testimonianza che abbiamo e ad essa dobbiamo attenerci. È sem-
pre Carbonell che ci informa dell’attività intellettuale di Pau al suo ritorno
a Barcellona e negli ultimi anni della sua vita, cioè dal 1492 al 1497. Se-
condo Carbonell, fu Jeroni Pau l’ispiratore della sua grande opera storica
Chroniques d’Espanya, e il correttore dei primi capitoli fino alla sua mor-
te, il 22 marzo 1497. Ricordiamo che anche Pere Garcia15, che era stato bi-
bliotecario della Vaticana, nominato da Alessandro VI, tornò a Barcellona
un anno dopo Pau, nel 1493. Si è pensato anche a una possibile caduta in
disgrazia del vescovo barcellonese, però il suo viaggio a Barcellona dimo-
stra il contrario. Sarebbe una buona ipotesi prendere in considerazione la
possibilità che Pau e Garcia fossero stati inviati espressamente a Barcello-
na da Alessandro VI, per garantire la continuità del lavoro cominciato a Ro-
ma: fare da ponte fra l’umanesimo italiano e la penisola iberica. Pau tra-
smise a Carbonell le idee rinnovatrici dell’umanesimo. Garcia fu incarica-
to della costruzione di edifici ecclesiastici. L’uno nelle lettere, l’altro nel-
l’architettura modernizzarono il paese. Ci rimane, però, un altro dato inter-
medio per segnalare un momento importante nella produzione letteraria di
Jeroni Pau. L’anno 1493 appare a Roma la prima edizione dell’opera che
sarebbe stata, con il passar degli anni, l’opera più edita e conosciuta fra
quelle di Pau: Practica Cancellariae Apostolicae. Tuttavia non fu Pau ad
occuparsi di preparare l’edizione, ma Francesco Borgia; e non fu l’autore a
correggerla, ma l’ecclesiastico barcellonese Antoni Arnau Pla, dottore in
ambedue i diritti, come Pau, e residente nella curia vaticana. Ciò dimostra
che, con certezza, Pau non era a Roma nel 1493 e dunque, o era malato, co-
me dice Carbonell, o se ne era andato forse perché insoddisfatto della cari-
ca che ricopriva. E, d’altra parte, ci indica pure che non era caduto in di-
sgrazia, almeno non tanto come poteva sembrare, dato che, altrimenti, non

14Cfr. J.M. CASAS HOMS, «Barcino» de Jeroni Pau. Història de Barcelona fins
al segle XV, Barcelona 1971.
15 Cfr. M. MIGLIO, Xàtiva, Roma, Barcellona: Pietro Garcia, «RR roma nel ri-

nascimento, Bibliografia e note», 1999, pp. 257-260.


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RAPPORTI TRA UMANESIMO CATALANO E UMANESIMO ROMANO 205

si sarebbe mai pubblicata la sua opera, che doveva essere di grande utilità
per i giuristi della curia romana. Troviamo riferimenti a Rodrigo Borgia an-
che nella Practica, in cui vediamo il fervore e l’obbedienza che Pau mani-
festa verso il cardinale, cui si riferisce sempre con reuerendissimus domi-
nus meus vicecancellarius. Torniamo al rapporto fra Pau e Pompilio. Dove
è più evidente l’amicizia intensa tra i due umanisti e la loro appartenenza
alla corte umanistica borgiana è, senza dubbio, nel manoscritto della Bi-
blioteca Vaticana menzionato in precedenza. Descriverò a grandi linee il
contenuto del manoscritto. Il volume presenta una prima parte stampata che
occupa le pagine 1-45 e una parte manoscritta che si può leggere nelle pa-
gine 46-135. Le opere a stampa, per ordine di apparizione nel volume, so-
no le seguenti: Vita Senecae, Sylua Alphonsina e Panegyris de Triumpho
Granatensi di Paolo Pompilio. Cominciano poi le opere manoscritte, in
quest’ordine: Dialogus de uero et probabili amore, De bonis artibus, Odys-
sea, Phasma e Panegyricum carmen ad Carvaialem di Paolo Pompilio. Se-
gue una biografia dell’umanista romano. E subito dopo Barcino di Jeroni
Pau, seguita da quattro capitoli delle Notationes di Pompilio, il carme Epi-
taphium Clarae Paulinae e il De fluminibus et montibus Hispaniarum li-
bellus di Jeroni Pau, ed infine Symbolum Nicenum di Paolo Pompilio. Gran
parte, dunque, della produzione dei due amici è raccolta in questo codice
vaticano. Se analizziamo l’identità dei personaggi a cui sono dedicate le o-
pere enumerate, vedremo che la presenza spagnola è evidente. Nelle opere
di Pompilio contenute nel codice vaticano ci sono correzioni a margine fat-
te dall’autore, a quanto risulta in una nota manoscritta dell’umanista roma-
no. Il destinatario della prima delle opere del codice, la Vita Senecae di
Pompilio, è ‘Joannis Lopis’, però gli elogi dell’umanista romano sono di-
retti anche a Rodrigo Borgia, alle cui dipendenze stava Llopis l’anno 1490,
quando si pubblicò l’opera. Ricordiamo che questo ‘Lopis’ era uno degli
abbreuiatores nominati contemporaneamente a Pau. D’altra parte, era stato
Pomponio Leto a suggerirne la redazione a Pompilio, a quanto riferisce lo
stesso autore. La Vita Senecae, oltre a una biografia di Seneca e di Lucano,
contiene un De Hispaniarum uiris illustribus, che sospetto essere stato i-
spirato da Jeroni Pau, a quanto ho detto altrove16. Sono convinta che que-
st’opera di Pompilio arrivò a Barcellona attraverso Jeroni Pau. Nel mano-
scritto 123 della Biblioteca Universitaria di Barcellona, Pere Miquel Car-
bonell copiò la Vita Senecae dalla pagina 47r alla pagina 68r. Il contenuto
di tale codice, scritto nella magnifica e mai abbastanza lodata grafia uma-
nistica del calligrafo Carbonell, è una miscellanea, secondo il sistema ri-
corrente nell’attività del notaio e archivista barcellonese17. La copia di Car-

16 Cfr. VILALLONGA, Jeroni cit., II, pp. 10-39.


17 Cfr. M. VILALLONGA, Humanistas italianos en los manuscritos de Pere Mi-
quel Carbonell, in Humanismo y pervivencia del mundo clásico. Homenaje al pro-
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206 MARIANGELA VILALLONGA

bonell corrisponde al testo dell’opera di Pompilio secondo l’incunabolo del


1490 pubblicato a Roma18. Però contiene anche annotazioni a margine carat-
teristiche di Carbonell, sia che si tratti di note relative a personaggi che ap-
paiono nel testo e che gli interessa mettere in evidenza, sia che si tratti di no-
te che incidono sul contenuto del testo, sia che, infine, si tratti di note su que-
stioni fonetiche o morfologiche relative ad alcune parole usate da Pompilio
che Carbonell considera degne di qualche tipo di spiegazione, per lo più de-
stinata a una migliore comprensione del testo. L’ultima annotazione del testo
fa riferimento all’anno della copia: «Huius vitam Senecae scribere coepi
XXIX Iunii anno salutis MD Quarto, et XV Iulii eiusdem anni ad finem op-
tatum perduxi. Deo gratias». Sebbene la copia sia del 1504, certamente Car-
bonell ne disponeva dal 1492, anno del ritorno di Pau a Barcellona. E anche
se erano già passati sette anni dalla morte di Pau, la sua eredità continuava
ben viva e il suo nome continuava ad essere associato a quello di Paolo Pom-
pilio, perché nella pagina 68, proprio alla fine dell’opera, e dopo il telos di ri-
gore, Carbonell copiò due epigrammi di Pau, il XIX, Loquitur codex, e il XV,
Ad Barcinonem urbem. Alcuni dati su Carbonell, prima di continuare. Pere
Miquel Carbonell, nato a Barcellona l’anno 1434 ed ivi morto l’anno 1517, è
un esempio di umanista che, senza muoversi dalla sua città, fa da ponte fra
l’umanesimo italiano, soprattutto romano, e l’umanesimo catalano. Produsse
un’abbondante opera letteraria in latino e in catalano, in prosa e in versi. Però,
altrettanto se non piú importante della sua produzione, è la diffusione dell’u-
manesimo della quale fu artefice. I suoi memoriali sono costellati di copie di
opere di umanisti italiani: da Petrarca a Bruni, passando per Filelfo, Facio o
Geraldini. Jeroni Pau, da Roma, si occupava di fargli pervenire tutto ciò che
gli sembrava interessante. Come nel caso dell’opera di Pompilio. Torniamo al
codice vaticano. La seconda opera di Pompilio che vi appare è la Sylua
Alphonsina, un lungo carme in lode del primo papa Borgia, stampato a Ro-
ma nel 1490, che offre, secondo l’intestazione della composizione, una «te-
stimonianza della vita di Callisto III, vissuta pietosamente e con la massima
integrità in ogni momento della sua esistenza»19. L’opera successiva, il Pa-
negyris de Triumpho Granatensi, è preceduta da una prefazione dedicata a
Bernardino Carvajal, vescovo di Badajoz e ambasciatore del re Ferdinando, e
piú tardi cardinale; fu pubblicata sempre nel 1490 e corretta dallo stesso au-
tore in quell’anno. Dopo le lodi tipiche di questo tipo di composizione, Pom-
pilio fa le seguenti considerazioni20:

fesor Luís Gil, a cura di J.M. MAESTRE-J. PASCUAL-L. CHARLO, II, 3, Cádiz 1997,
pp. 1217-1224.
18 Cfr. l’edizione moderna di questa opera in P. FAIDER, Pompilius. Vita Sene-

cae, Gand 1921.


19 Cfr. W. BRACKE in questo stesso volume.
20 Il testo latino dice: «Daemum quod Hieronimus Paulus Barcinonensis iuris

peritus et vir librati iudicii de te dicere solet: moribus es et doctrina agendisque re-
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RAPPORTI TRA UMANESIMO CATALANO E UMANESIMO ROMANO 207

Infine aggiunge che Jeroni Pau barcellonese, giurisperito e


uomo di giudizi accertati, suole dire di te: sei per costumi, scien-
za ed azioni il piú grande senza eccezioni. Inoltre afferma che è
stato per un dono divino alla felicità della Spagna che tu sia nato
proprio in questi tempi per portare a termine gli affari dei suoi
principi. Per tutto ciò è ben meritato che gli stessi ti proteggano e
si siano proposti di onorarti in molti modi. Io, certamente, già da
tempo desidero un vincolo più prossimo alla mia considerazione
per la maestà del re e dell’ottima regina, e credo che finora non ci
sia stato nessun tema tanto adeguato come la concelebrazione del
presente trionfo.

Il lungo poema epico dedicato al trionfo su Granada è evidentemente


offerto ad optimos Hispaniarum Principes Ferdinandum ed Helisabet, vic-
toriosissimos coniuges e permette a Pompilio di inserirsi nella lista di uma-
nisti curiali, autori di composizioni che difendono il consolidamento degli
interessi dell’élite ispanica della curia vaticana fautrice della crociata dei Re
Cattolici21. L’opera seguente del codice vaticano, il Dialogus de vero et pro-
babili amore, è dedicata a Pomponio Leto, a cui Pompilio chiede che la leg-
ga e vi riconosca molte fonti tratte dalle sue opere e chiede che l’approvi.
Fu scritta a Bassanello l’estate del 1487. In uno dei passaggi dell’opera,
Pompilio racconta lo svolgimento di un dibattito tra i membri dell’Accade-
mia Pomponiana Antonio Volsco e Papinio Cavalcanti, i due prelati spa-
gnoli Pere de Roca, arcivescovo di Salerno dal 1471 al 1482, e Francisco de
Toledo, vescovo di Coria dal 1475 al 1479. Tale dibattito ebbe luogo nella
casa di un amicissimus di Pompilio, come lui stesso lo definisce, un maior-
chino chiamato Esperandeu Espanyol22, a quanto sembra precettore di Ce-
sare Borgia, nella località di Anguillara, l’estate del 1476, mentre Sisto IV

bus omni exceptione maior. Asseverat etiam is munere diuino ad felicitatem Hispa-
niae factum, ut ipse ad eius principum negocia hoc maxime tempore gerenda natus
sis. Quibus omnibus ex rebus merito te iidem fovent sibique multis modis ornandum
proposuerunt. Ego verum cum propiorem observantiae meae nexum in tantam Regis
Reginaeque optimae maiestatem iampridem cuperem, nullam hactenus materiam in-
tervenisse tam idoneam existimo quam praesentis Triumphi concelebrationem».
21 Paola Farenga parla degli «intelletttuali organici agli interessi dei sovrani

spagnoli» nel suo capitolo Circostanze e modi della diffusione della Historia Baeti-
ca, in CARLO VERARDI, Historia Baetica. La caduta di Granata nel 1492, a cura di
M. CHIABÒ-P. FARENGA-M. MIGLIO-A. MORELLI, Roma 1993, (RRanastatica, 6), p.
XXIII.
22 Su questo personaggio cfr. J.N. HILLGARTH, Readers and Books in Majorca

(1229-1550), Paris 1991, I, pp. 241-242, e M. VILALLONGA, Una mostra de la poe-


sia llatina quatrecentista als països catalans, in Llengua i Literatura de l’Edat
Mitjana al Renaixement, «Estudi General», 11 (1991), pp. 51-63 (55-56).
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208 MARIANGELA VILALLONGA

vi stava passando un periodo di riposo a causa della peste che aveva invaso
Roma. Pere de Roca è anche uno dei destinatari delle epistole di Jeroni Pau.
Espanyol, a sua volta, era corrispondente dell’umanista maiorchino Arnau
Descós, amico di Pau. Arnau Descós23 scrisse una lunga epistola apologeti-
ca di Ramon Llull, che era introdotta da alcuni distici contro Pompilio24
perché aveva disprezzato il pensiero di Llull. Una volta di più, dunque, il
circolo di amicizie di Pau e Pompilio si chiude con gli stessi personaggi. Le
altre opere di Pompilio nel codice vaticano sono dedicate a personaggi i-
spanici della corte dei Borgia. E, in aggiunta, Pompilio scrisse un De sylla-
bis et accentibus dedicato al protonotaio apostolico Cesare Borgia. È dun-
que evidente che Paolo Pompilio, ancora più insistentemente di Pau, scrive
sui Borgia, scrive sotto la protezione dei Borgia e scrive per i Borgia e per
la loro corte di origine ispanica. È un chiaro esempio del fascino che l’ori-
gine straniera dei Borgia esercitò sugli italiani, in questo caso un romano,
della seconda metà del Quattrocento; è un chiaro esempio del potere eser-
citato dai Borgia e dalla loro corte arrivata dall’Hispania nella Roma papa-
le e umanistica del XV secolo25. La stessa seduzione subì un altro uomo,
Annio da Viterbo, che volle stabilire le origini antiche dell’Hispania ed eb-
be molta influenza non solo su Alessandro VI, ma anche sulla maggior par-
te della storiografia ispanica del XVI secolo26. Ma questo è un altro argo-
mento di studio, tanto interessante come quello che abbiamo appena tratta-
to. Attraverso l’opera di due uomini, Jeroni Pau e Paolo Pompilio, un cata-
lano e un romano, abbiamo passeggiato per la Roma su cui signoreggiava
l’onnipotente cancelliere Rodrigo Borgia. Abbiamo potuto renderci conto
della buona predisposizione del futuro papa Alessandro VI per tutto ciò che
rappresentavano gli umanisti, i cultori degli studia humanitatis; abbiamo
colto l’opinione che di Rodrigo Borgia avevano alcuni umanisti. Abbiamo
potuto constatare come la curia romana si andava sempre più riempiendo di
filologi, di uomini di lettere. Condotto dalle circostanze favorevoli al rin-

23 Su Descós cfr. HILLGARTH, Readers cit.; e M. VILALLONGA, La literatura


llatina a Mallorca al segle XV: Arnau Descós, in Homenatge a Miquel Dolç. Ac-
tes del XIIè Simposi de la Secció Catalana de la SEEC, Palma de Mallorca 1997,
pp. 513-518.
24 I distici sono trascritti in VILALLONGA, Una mostra cit., p. 54.
25 Cfr. M. BATLLORI, La família Borja. Obra Completa, IV, València 1993; ID.,

De l’Humanisme i del Renaixement. Obra Completa, V, València 1994; ID., De


València a Roma. Cartes triades dels Borja, Barcelona 1998. Cfr. anche L’Europa
renaixentista. Simposi Internacional sobre els Borja, Gandia 1998.
26 Cfr. M. VILALLONGA, Francesc Tarafa, una actitud quatrecentista al segle X-

VI, «Revista de Catalunya», 103 (1996), pp. 49-64; EAD., El Renaixement i l’huma-
nisme (segles XIV-XVI), in M. VILALLONGA (a cura di), Llatí II. Llengua i cultura l-
latines en el món medieval i modern, Barcelona 1998, in particolare pp. 66-70.
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RAPPORTI TRA UMANESIMO CATALANO E UMANESIMO ROMANO 209

novamento dell’umanesimo o portato dai suoi propri interessi, proclivi alle


nuove idee dell’umanesimo, Alessandro VI si lascia trascinare, penso vo-
lentieri, per il cammino dei tempi nuovi27. Non invano, né per caso, il pri-
mo edificio dedicato esclusivamente ad aule per l’Università di Roma fu
fatto costruire da Alessandro VI; e neppure è un caso che Alessandro VI
conceda il permesso per la creazione dell’Università di Valenza con la bol-
la del 23 gennaio 1500, confermata da Ferdinando II il 16 febbraio 1502.
Alessandro VI si lasciò elogiare dagli umanisti, volle lasciare monumenti
duraturi attraverso le lettere, la pittura, l’architettura: nell’insieme, una pro-
va della sua inclinazione favorevole all’umanesimo.

27 Cfr. M. CARBONELL I BUADES, Roderic de Borja, client i promotor d’obres


d’art, in M. MENOTTI, Els Borja, a cura di M. BATLLORI-X. COMPANY, València
1992, pp. 389-487; ID., Roderic de Borja, un exemple de mecenatge renaixentista,
«Afers», 17 (1994), pp. 109-132.
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ANGELO MAZZOCCO

Il rapporto tra gli umanisti italiani e gli umanisti spagnoli


al tempo di Alessandro VI: il caso di Antonio de Nebrija

Già nella prima metà del Quattrocento la Spagna espresse grandi uma-
nisti, quali Juan de Mena (1411-1456), Alonso de Cartagena (Alonso
García de Santa María, 1384-1456), e il marchese de Santillana (Iñigo Ló-
pez de Mendoza, 1398-1458), ma fu solo nella seconda metà del secolo
quindicesimo e in particolare negli ultimi decenni del Quattrocento e all’i-
nizio del Cinquecento, il periodo che coincide grossomodo con il pontifi-
cato di Alessandro VI (1492-1503), che l’umanesimo spagnolo raggiunse
piena maturazione e riuscì ad avere un forte impatto sulla cultura spagnola.
Quasi tutti gli umanisti di questo periodo, scrittori come Rodrigo Sánchez
de Arévalo (1404-1470), Joan Margarit (1421-1484), Alfonso de Palencia
(1423-1490), Juan de Lucena (c. 1430-1506?), Gauberte Fabricio de Vagad
(affermatosi nella seconda metà del Quattrocento), Antonio de Nebrija
(1441/44-1522), Gonzalo García de Santa María (1447-1521), e Fernando
Alonso de Herrera (1460-1527) vissero e studiarono in Italia1. Alcuni di lo-
ro conobbero personalmente importanti esponenti dell’umanesimo italiano
e furono perfino coinvolti nelle loro controversie; quindi potettero appro-
priarsi dei precetti e delle modalità del progetto culturale umanistico, pre-
cetti e modalità che, al ritorno in Spagna, trapiantarono nella cultura del lo-
ro paese. L’umanesimo spagnolo del tardo Quattrocento e primo Cinque-
cento fu promosso pure da molti letterati italiani (Lucio Marineo Siculo
[1444-1533] e Pietro Martire d’Anghiera [1457-1526], per citare solo i più
famosi), che insegnarono nelle illustri Università di Salamanca e Alcalá o si
stabilirono alla corte dei Re Cattolici. Lo scopo di questo contributo è in-
dagare il rapporto tra gli umanisti italiani e quelli spagnoli al tempo di A-

1 Il soggiorno italiano degli umanisti spagnoli fu facilitato dallo stretto rappor-


to politico-religioso tra l’Italia e la Spagna che permise a molti giovani studiosi i-
berici di studiare e lavorare in ambienti italo-spagnoli (la corte aragonese di Napo-
li, il Collegio di Spagna a Bologna, la Curia durante i pontificati di Callisto III
[1455-1458] e Alessandro VI [1492-1503]), che erano impregnati di un forte fer-
mento umanistico. Cfr. A.G. MORENO, España y la Italia de los humanistas: Pri-
meros ecos, Madrid 1994, pp. 296-314.
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212 ANGELO MAZZOCCO

lessandro VI, dando particolare rilievo ad Antonio de Nebrija, il letterato


spagnolo che più subì l’impatto degli umanisti italiani e che più li uguagliò,
influenzando così profondamente l’umanesimo spagnolo. Nebrija dominò
il mondo culturale spagnolo per un quarantennio (1481-1522), dandogli u-
na concreta identità nazionale.
Gli umanisti spagnoli al tempo di Alessandro VI ebbero un grande in-
teresse per tutti gli esponenti principali dell’umanesimo italiano del primo
Quattrocento, quali Leonardo Bruni (c.1370-1444), Guarino Veronese
(1374-1460), Poggio Bracciolini (1380-1459), Biondo Flavio (1392-1463),
e Lorenzo Valla (1407-1457). Tra questi, però, sembra che abbiano privile-
giato Bruni e Valla, in particolare il secondo, il quale emerse come un vero
simbolo della cultura umanistica italiana. Comunque l’interesse degli stu-
diosi spagnoli di questo periodo non si limitò alla cultura italiana del primo
Quattrocento, ma si estese pure agli umanisti contemporanei, quali Loren-
zo de’ Medici (1449-1492), Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494),
Angelo Poliziano (1454-1494), Ermolao Barbaro (1453-1493), e Filippo
Beroaldo il Vecchio (1453-1505), con una predilezione particolare per Po-
liziano. Lo scopo principale dell’umanesimo spagnolo del tardo Quattro-
cento e primo Cinquecento fu il recupero della cultura classica nelle sue va-
rie forme e dimensioni, e lo strumento essenziale per questo recupero fu il
latino. Infatti, il latino e l’eloquenza della Roma antica vennero a costituire
il nucleo fondante della cultura umanistica spagnola. Come tale il restauro
del puro latino classico costituì la prima grande sfida dell’umanesimo spa-
gnolo. Questo recupero fu realizzato, come era successo anche in Italia, at-
traverso un’attenta indagine dell’uso linguistico degli scrittori antichi e l’as-
soluto rifiuto degli strumenti grammaticali medioevali.
Il recupero del latino classico insieme all’acquisizione di una sempre
più vasta e concreta conoscenza della cultura antica in generale portano al-
la critica di testi classici e patristici. Come avevano già fatto gli umanisti i-
taliani, quelli spagnoli miravano al restauro del testo nelle sue precise di-
mensioni storiche. Bisognava epurare il testo dagli errori, ristabilendo la
sua chiarezza ed integrità. Di qui i commentari di vasta portata, simili alle
opere filologiche di Ermolao Barbaro. Di qui le varie interpretazioni ed an-
notazioni sul tipo dei Miscellanea del Poliziano. Come avvenne in Italia, la
critica testuale dell’umanesimo spagnolo non si limitò alle humanae litte-
rae, ma coinvolse anche opere giuridiche, scientifiche e teologiche2. La fi-

2 Sull’attività filologica degli umanisti spagnoli e sull’umanesimo spagnolo in

generale si vedano J. ALCINA ROVIRA, Poliziano y los elogios de las letras en España
(1500-1540), «Humanistica Lovaniensia», 25 (1976), pp. 198-222; A. COROLEU,
L’area spagnola, in Umanesimo e culture nazionali europee, a cura di F. TATEO, Pa-
lermo 1999, pp. 249-290; O. DI CAMILLO, El humanismo castellano del siglo XV,
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IL RAPPORTO TRA GLI UMANISTI 213

lologia spagnola fu particolarmente attiva nel campo della teologia. Gli u-


manisti spagnoli sostennero, come aveva già fatto Valla, che l’eloquenza e
la filologia erano fondamentali per lo studio del messaggio religioso e che
perciò la ‘verità’ della rivelazione scritturale era percepibile solo se il testo
biblico veniva studiato secondo le regole degli studia humanitatis. Frutto di
questa nuova percezione dell’esegesi biblica fu la Biblia Poliglota, opera
monumentale, che costituisce uno degli esempi più illustri della tradizione
biblico-filologica europea. Sebbene condivida lo spirito filologico delle Ad-
notationes in Novum Testamentum del Valla, la Poliglota si distingue dal-
l’opera valliana per il suo trilinguismo e per la sua complessiva indagine fi-
lologica dell’opera scritturale. Infatti, mentre Valla si limita al Nuovo Te-
stamento e, non conoscendo la lingua ebraica, utilizza solo il latino e il gre-
co, i redattori della Poliglota si occupano sia del Nuovo che del Vecchio Te-
stamento e utilizzano il latino, il greco e pure l’ebraico3.
Com’era avvenuto in Italia, l’impegno dell’umanesimo spagnolo va dal
recupero degli autori antichi all’appropriazione e valutazione degli stessi.
Ma se, come abbiamo già visto sopra, l’umanesimo spagnolo si conforma a
quello italiano in quanto al sistema del recupero della civiltà classica, cioè
in quanto agli strumenti tecnico-filologici utilizzati, se ne differenzia però
in quanto alla sua appropriazione e valutazione. In contrasto con gli uma-
nisti italiani, i quali vedono la Roma antica come fonte di un nobile patri-
monio culturale, gli umanisti spagnoli la vedono come modello di una gran-
de civiltà, la cui conoscenza può arricchire di molto la cultura spagnola con-
temporanea. Perciò la valutazione della civiltà classica degli umanisti spa-
gnoli è meno emotiva di quella degli umanisti italiani. Per esempio, il loro
recupero del latino è privo del profondo senso di Romanitas del Valla. Re-
cupero del puro latino classico non vuol dire rinascita dell’egemonia cultu-
rale della Roma imperiale, come era stato per il Valla, ma acquisizione di u-
no strumento efficace atto a ricostruire la ricca ed utile cultura antica. Es-
sendo pervase da un certo senso sciovinistico ed essendo prodotte da realtà
storiche diverse, le divergenti interpretazioni della civiltà classica da parte
degli umanisti italiani e spagnoli spesso portano a rapporti astiosi tra i due
gruppi e alla denigrazione delle loro rispettive culture.

Valencia 1976; J.N.H. LAWRENCE, Humanism in the Iberian Peninsula, in The Im-
pact of Humanism in Western Europe, a cura di A. GOODMAN-A. MACKAI, London-
New York 1990, pp. 220-258; MORENO, España y la Italia cit.; F. RICO, El sueño del
humanismo: de Petrarca a Erasmo, Madrid 1993 [trad. it.: Il sogno dell’Umanesi-
mo. Da Petrarca ad Erasmo, Torino 1998]; P.E. RUSSELL, Arms versus Letters:
Towards a Definition of Spanish Fifteenth-Century Humanism, in Aspects of the Re-
naissance: a Symposium, a cura di A.R. LEWIS, Austin 1967, pp. 47-58; D. YN-
DURÁIN, Humanismo y Renacimiento en España, Madrid 1994.
3 Sulla Biblia Poliglota cfr. M. BATAILLON, Erasmo y España, Città del Messi-

co-Buenos Aires 1966, pp. 22-43.


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214 ANGELO MAZZOCCO

Avendo concluso che la Roma classica era la fonte del loro patrimonio
culturale, gli umanisti italiani si ripropongono di ricostruirne e riviverne la
grandezza. Nella canzone Spirto gentil, Francesco Petrarca (1304-1374) in-
cita lo sconosciuto e nobile personaggio romano a restituire alla Roma con-
temporanea la maestà dell’età antica: «e la richiami al suo antiquo viaggio»
(RVF, LIII 6). Similmente nel trattato De republica optime administranda
si augura che la magistratura classica descritta nell’opera serva come spec-
chio per Francesco da Carrara a cui è dedicata: «Ut hoc velut in speculo te-
te intuens»4. Nell’introduzione della Roma triumphans (forse l’opera più
importante sulla renovatio Romae prodotta dall’umanesimo italiano), Bion-
do ribadisce che il suo scopo è dare una descrizione della Roma classica al
massimo della sua magnificenza, affinché il sano vivere e le numerose virtù
dell’antichità servano da stimolo ed esempio per i suoi contemporanei5.
D’altronde Bruni attribuisce la grandezza della Firenze contemporanea al
suo legame genetico con l’antica Roma repubblicana. Tale legame aveva re-
so possibile la conquista di città importanti, l’accumulo di molte ricchezze
e la rinascita degli studia humanitatis6. Firenze, secondo Bruni, si era tra-
sformata in fons et origo degli studia humanitatis in Italia: «Denique studia
ipsa humanitatis [...] a civitate nostra profecta per Italiam coaluerunt»7.
L’intenso recupero ed appropriazione della cultura classica ad opera degli
umanisti italiani porta (per lo meno nei grandi centri umanistici della peni-
sola) ad una profonda classicizzazione della cultura italiana. Infatti, il pen-
siero umanistico è pervaso di un forte senso secolare. Per esempio, nella
Laudatio Florentinae urbis, Bruni nota che quanto è stato realizzato a Fi-
renze è frutto del genio dei fiorentini e non della Divina Provvidenza8. Un
forte spirito secolare si riscontra pure nelle opere letterarie come le Stanze
per la giostra del Magnifico Giuliano del Poliziano, un poema impregnato
di immagini e sentimenti classici. In quanto alla lingua e all’eloquenza, gli
umanisti italiani, tranne qualche eccezione (Biondo e Valla, per esempio),
si attengono alla terminologia e allo stile aulico di Cicerone. Mentre riclas-
sicizzano la cultura contemporanea, gli umanisti italiani sviluppano un
profondo disprezzo per il Medioevo; per loro l’età di mezzo era solo bar-
barie perché priva della cultura e dello spirito civile antichi, e barbari erano

4De republica optime administranda, in Opera omnia, Basilea 1554, I, p. 421.


5De Roma triumphante libri decem ..., Basilea 1531, p. 2.
6 Laudatio Florentinae urbis, in H. BARON, From Petrarch to Leonardo Bruni.

Studies in Humanistic and Political Literature, Chicago 1968, pp. 232-263; per il
primo libro delle Historiae Florentini populi, cfr. l’edizione a cura di E. SANTINI,
RIS2, 29/3, (1934).
7 Oratio in funere Nannis Strozae, in G. D. MANSI, Stephani Baluzii Tutelensis

miscellanea novo ordine digesta, Lucca 1764, p. 4.


8 Laudatio Florentinae urbis cit., p. 258.
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IL RAPPORTO TRA GLI UMANISTI 215

i responsabili del crollo della Roma classica: i Visigoti, i Vandali, gli Unni,
i Longobardi.
La renovatio Romae compiuta dagli umanisti italiani era sostenuta da
un profondo patriottismo che faceva dell’Italia la sola erede della cultura ro-
mana antica. A loro parere la civiltà latina poteva e doveva raggiungere la
sua più splendida e schietta rinascita solo in Italia. E infatti l’umanesimo i-
taliano stabilisce un forte nesso tra la Roma antica e l’Italia contemporanea.
Lo splendore della civiltà classica era tornato a vivere nelle città dell’Italia
del tempo. Come nel passato, l’Italia era di nuovo l’epicentro culturale del-
l’Europa9. D’altronde gli altri popoli europei erano considerati essenzial-
mente incolti, rivelando la rozzezza dei loro barbari antenati, quali i Visi-
goti della Spagna. Come tale i popoli stranieri erano privi delle bonae litte-
rae e di una buona conoscenza del latino10. Gli umanisti italiani furono par-
ticolarmente severi nella loro valutazione della Spagna e della cultura spa-
gnola11. Bruni situava la Spagna «in extremo mundi angulo», cioè al mar-
gine dell’Europa12, mentre Lucio Marineo faceva presente ai suoi colleghi
spagnoli che solamente gli italiani o gli spagnoli formatisi in Italia erano in
grado di scrivere un perfetto latino13. Inoltre, il giovane umanista spagnolo
Cristóbal de Escobar scriveva dalla Sicilia, dove attendeva all’insegnamen-
to delle humanae litterae, che gli studiosi spagnoli erano generalmente ca-
ratterizzati come barbari dai loro colleghi siciliani; «aunque bárbaro[s], co-
me suelen llamar aquí a los españoles»14. In genere quando gli umanisti i-
taliani criticavano il latino degli spagnoli, la loro critica non si limitava al-
l’aspetto linguistico, ma coinvolgeva l’intera gamma degli studia humani-
tatis. In altre parole, la loro critica si riferiva alla mancanza di quella peri-

9 In un memorabile brano dell’Italia illustrata, Biondo scrive che gli umanisti


italiani erano coinvolti in una diffusa ed efficace riscoperta della ricca e splendida
cultura classica romana e che studiosi di tutta l’Europa si recavano in Italia per con-
dividere l’appena ricostituito sapere classico: cfr. BIONDO FLAVIO, Italia illustrata,
Basilea 1531, pp. 346-348.
10 Valla censura il latino degli stranieri che dimoravano nella Curia romana:

«Ego certe et natus et altus Rome atque in romana, ut vocant, Curia, qui congrue lo-
queretur cognovi neminem» (Apologus II, in M. TAVONI, Latino, grammatica, vol-
gare. Storia di una questione umanistica, Padova 1984, p. 268).
11 MORENO, España y la Italia cit., pp. 304-312.
12 LEONARDI BRUNI ARRETINI Epistolarum libri VIII, rec. LAURENTIUS MEHUS,

Firenze 1741, II, p. 84.


13 E. RUMMEL, Marineo Siculo. A Protagonist of Humanism in Spain, «Re-

naissance Quarterly», 50, 3 (1997), p. 706, e MORENO, España y la Italia cit., pp.
308-309.
14 Citato in F.G. OLMEDO, Nebrija (1441-1522), debelador de la barbarie, co-

mendador eclesiastico, pedagogo, poeta, Madrid 1942, p. 88.


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216 ANGELO MAZZOCCO

zia filologica e culturale che tanto brillava nelle opere di un Lorenzo Valla
o di un Angelo Poliziano.
Il primato culturale reclamato dall’umanesimo italiano con il suo im-
plicito secolarismo, il suo forte senso di Romanitas, il suo disprezzo per
l’età di mezzo, e la sua pretesa di superiorità filologica e culturale suscita
una reazione antitaliana tra i dotti spagnoli, non accettando che gli Italiani
menassero vanto che la cultura classica romana fosse loro esclusivo patri-
monio e che pertanto solo l’Italia potesse godere dell’enorme prestigio che
da essa derivava. Gli Spagnoli rifiutavano di essere definiti barbari, anche
perché tale giudizio era condiviso da altri popoli europei15. Reagiscono per-
tanto, a loro volta, alle accuse degli umanisti italiani, criticando l’uso e la
valutazione che l’umanesimo italiano faceva della civiltà classica e svalu-
tando il ruolo culturale e politico della stessa Roma antica. Infatti, proprio
mentre emulano la perizia filologica dell’umanesimo italiano e fanno largo
uso delle tante opere classiche da quello recuperate, gli umanisti spagnoli
contestano agli Italiani il loro secolarismo, che sfiorava a volte il paganesi-
mo, e l’uso eccessivo del latino ciceroniano; perciò condannano opere co-
me le Stanze del Poliziano, il cui esasperato classicismo le rendeva peraltro
moralmente nocive, e rifiutano il forte sentimento secolare implicito nell’o-
pera storica di un Bruni e patrocinano invece una storiografia la cui forza
motrice è la Divina Provvidenza. Per esempio, nella Compendiosa historia
hispánica di Rodrigo Sánchez de Arévalo, la lotta per la conquista di Gra-
nada è ispirata dalla volontà divina. I guerrieri che avevano compiuto quel-
la nobile impresa erano stati guidati e sostenuti dalla Divina Provvidenza16.
Il fattore religioso costituisce una componente fondamentale della cultura
spagnola del tardo Quattrocento e primo Cinquecento e, come ha osservato
Cesare Vasoli, i temi umanistici che gli Spagnoli adottarono dall’umanesi-
mo italiano «assunsero in Spagna una coloritura e un significato del tutto
particolare, radicandosi nel solido sostrato di una religiosità intensa e seve-
ra»17. In quanto al latino, l’umanesimo italiano, secondo gli Spagnoli, era
schiavo di un ciceronianismo eccessivo che rendeva l’uso di questa lingua
incompatibile con la realtà linguistica contemporanea. Lo scrittore moder-
no doveva far sì uso del latino dell’età di Cicerone, ma doveva anche fon-
dere il latino di questo periodo con quello dei Padri della chiesa e di altri

15L. GIL, Panorama social del humanismo español (1500-1800), Madrid 1981,
pp 15-30.
16 R.B. TATE, Ensayos sobre la historiografía peninsular del siglo XV, Madrid

1970, pp. 93-103.


17 C. VASOLI, Aspetti dei rapporti culturali tra Italia e Spagna nell’età del Ri-

nascimento, «Annuario dell’Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contem-


poranea», 29-30 (1977-1978), p. 463.
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IL RAPPORTO TRA GLI UMANISTI 217

grandi scrittori cristiani. Secondo i precettori spagnoli, il contatto con la let-


teratura religiosa non solo ampliava lo spettro linguistico dello studente, ma
lo rendeva miglior cristiano e cittadino perché lo metteva a contatto con u-
na letteratura moralmente proficua ed eticamente sana18.
Il dissenso tra gli umanisti italiani e spagnoli è particolarmente profon-
do nella valutazione della Roma classica. L’insistenza da parte dei primi
sullo stretto nesso tra la Roma antica e l’Italia contemporanea sprona gli
Spagnoli a minimizzare e svalutare l’importanza della politica e della cul-
tura antiche. Per Gauberte Fabricio de Vagad la civiltà classica serviva a so-
stenere la supremazia culturale dell’Italia19. D’altronde Arévalo caratteriz-
zava gli antichi romani come conquistatori e corruttori di un semplice, ma
sano, laborioso e virile popolo iberico. Arévalo fa di Viriato, il guerriero i-
berico che si oppose all’invasione romana, un vero eroe nazionale. I Roma-
ni, aggiunge Arévalo, spinti da superbia ed ambizione illimitate riuscirono
con molta difficoltà a sottomettere gli ostinati Ispani, ma poi furono essi
stessi soggiogati dai valorosi Visigoti20. Sia come sia, gli umanisti spagno-
li erano ben consapevoli del fatto che la Roma classica godé di una splen-
dida civiltà e che perciò il nesso tra la Roma classica e l’Italia contempora-
nea reclamato dagli umanisti italiani dava alla penisola un prestigio straor-
dinario. Di conseguenza era necessario che gli Spagnoli si procurassero un
passato nobile ed illustre con cui competere con il retaggio romano degli
Italiani. Tranne per quelli di origine italiana, come Lucio Marineo21, e per

18 OLMEDO, Nebrija cit., pp. 148-166.


19 TATE, Ensayos cit., p. 24.
20 Ibid., pp. 96-98, 103-104, 293. La svalutazione della Roma classica intesa

a contrabilanciare il primato culturale preteso dagli Italiani diventa un topos im-


portante per gli umanisti stranieri, specialmente per coloro che, come Arévalo, vis-
sero in Italia. Per esempio, in La Défense et illustration de la Langue française
(1549), mentre contesta la rozzezza del francese attribuitagli dagli umanisti italia-
ni, Joachim Du Bellay nota che tale nozione è insostenibile, soprattutto perché è
rintracciabile negli antichi Romani, i quali, essendo estremamente superbi ed avi-
di di gloria, svilirono tutti i popoli che conquistarono, in particolare i Galli: «En-
core moins doit avoir lieu de ce que les Romains nous ont appelés barbares, vu leur
ambition et insatiable faim de glorie, qui tâchaient non seulement á subjuguer, mais
á rendre toutes autres nations viles et abjectes auprés d’eux: principalement les
Gaulois, dont ils ont reçu plus de honte et dommage que des autres»: Les Regrets
précédé de les Antiquités de Rome et suivi de la Défense et Illustration de la Lan-
gue française, Paris 1975, p. 205. Su queste riserve sulla cultura italiana negli u-
manisti transalpini, cfr. A. MAZZOCCO, The Italian Connection in Juan de Valdés’
Diálogo de la lengua, «Historiographia Linguistica», 29, 3 (1977), pp. 267-271 e
274-276.
21 Per Lucio Marineo, la Roma antica costituisce la fonte dell’intera cultura

spagnola, incluse la lingua e le leggi, e i Castigliani sono i discendenti degli antichi


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218 ANGELO MAZZOCCO

alcuni catalani, come Joan Margarit (sembra che l’umanesimo catalano sia
stato più filoitalico di quello delle altre regioni spagnole)22, gli umanisti
spagnoli, quali Arévalo, ritrovano questo passato non nell’ambito della sto-
ria romana, ma in quello dell’età pre-romana. Tramite l’utilizzo di miti ben
fondati e la manipolazione di alcuni fatti storici, i letterati spagnoli riesco-
no a creare un passato pre-romano di dimensioni epiche, sostenendo che la
Spagna pre-romana aveva espresso una civiltà più gloriosa e più colta di
quella della Roma antica23. L’enfasi sulla Spagna pre-romana porta ad una
minimizzazione del retaggio romano spagnolo. Per esempio, le rovine ro-
mane che tanto influenzarono la rinascita della civiltà classica tra gli uma-
nisti italiani (si pensi ad un Petrarca, ad un Biondo, o ad un Andrea Fulvio)
furono trascurate quasi del tutto dagli umanisti spagnoli della seconda metà
del Quattrocento24. Quando infatti si occupano della civiltà romana, il loro
interesse è diretto allo studio e all’esaltazione dei più illustri personaggi la-
tini di origine spagnola: l’imperatore Traiano, i due Seneca, i poeti Lucano,
Marziale e Silio Italico, il geografo Pomponio Mela, l’agronomo Columel-
la, e in particolare il retore Quintiliano25.
Gli umanisti spagnoli affermano inoltre che il prestigio e la gloria del-
la Spagna trovano riscontro non solo nell’età pre-romana, ma anche in quel-
la post-romana del regno visigotico. I Visigoti avevano devastato l’Italia e

castellani romani. In altre parole «quicquid in Hispania memorabile vidimus, Ro-


manorum esse minime dubitamus»: LUCIO MARINEO, De rebus Hispaniae memora-
bilibus, in Hispaniae illustratae [...] scriptores varii, a cura di A. SCHOTT, Frankfurt
1603-1605, I, pp. 318, 320, 331.
22 Nel suo Paralipomenon Hispaniae del 1484 (una ricostruzione della Spagna

antica che trova la sua ispirazione e il suo modello nelle opere antiquarie dell’uma-
nesimo italiano come la Roma triumphans di Biondo), Joan Margarit dimostra un
profondo interesse per le rovine romane. Infatti, Margarit ammira la magnificenza
della Roma antica e fa della civiltà romana una componente importante della storia
e della cultura spagnola. Come altri, anche Margarit trova necessario ricostruire la
storia del periodo pre-romano, ma, conformandosi al rigore scientifico della storio-
grafia umanistica italiana, la sua opera è priva delle fantasticherie che si riscontrano
in un Arévalo. Margarit registra solamente fatti ed episodi verificabili nelle fonti
classiche. Come ha osservato magistralmente Robert Tate: «Margarit había respon-
dido de manera más sensibile que ninguno de sus contemporáneos a las influencias
del humanismo italiano y, como resultado, que había dado el primer paso en la hi-
storiografía renacentista de la Península» (TATE, Ensayos cit., p. 150). Su Margarit
cfr. A. MAZZOCCO, Linee di sviluppo dell’antiquaria del Rinascimento, in Poesia e
poetica delle rovine romane, a cura di V. DE CAPRIO, Roma 1987, pp. 67-68.
23 TATE, Ensayos cit., pp. 13-32, 96-98, 289-294.
24 BATAILLON, Erasmo y España cit., p. 26.
25 Cfr. MORENO, España y la Italia cit., pp. 133-136.
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IL RAPPORTO TRA GLI UMANISTI 219

liberarato la Spagna dal giogo romano; pagani, si erano subito convertiti al


cristianesimo, dando alla penisola iberica unità politica e religiosa. Erano
pertanto da ammirare per la loro prodezza, per il loro alto livello di cultura,
paragonabile a quello dei Romani, e per aver determinato la linea reale spa-
gnola. Difatti sia i re di León che quelli di Castilla erano diretti discenden-
ti dei re visigotici26. Perciò, a differenza degli umanisti italiani, i quali ve-
dono le invasioni barbariche, inclusa quella dei Visigoti, come l’inizio e la
causa di una profonda decadenza che doveva travolgere l’Europa intera per
circa un millennio, gli Spagnoli vedono l’arrivo dei Visigoti come l’inizio
di un importante periodo storico in cui la penisola iberica aveva goduto di
unità politica e religiosa e i popoli iberici avevano conquistato una vera co-
scienza ispanica. La stima per i Visigoti e la loro cultura porta gli umanisti
spagnoli ad apprezzare il volgare spagnolo (= il castigliano), la cui origine,
come avevano appreso dagli umanisti italiani, era rintracciabile proprio nel-
l’età visigotica, sostenendo altresì che lo spirito degli antichi visigoti stava
rivivendo nei Re Cattolici e che esso era responsabile dell’espansione spa-
gnola in Italia e nelle altre parti del Mediterraneo come pure della recon-
quista di Granada (gennaio 1492). Gli Spagnoli erano particolarmente or-
gogliosi del loro dominio sulla penisola italiana. Vagad rileva che l’Italia, la
quale era stata un tempo caput mundi, aveva ammirato Alfonso il Magna-
nimo di Aragona, accordandogli numerosi onori e riconoscimenti; ma an-
che il suo successore, benché bastardo, aveva portato molta gloria ed onore
alla Spagna, dimostrando che persino gli spagnoli bastardi erano atti a go-
vernare e regnare con successo27. Dall’Aragona, cioè dalla Spagna, erano
giunti non solo re, ma anche due papi, Callisto III e Alessandro VI, i cui
pontificati avevano accresciuto di molto il prestigio e l’onore del loro pae-
se di origine28. Vagad sostiene anche che il predominio spagnolo in Italia e
la grande influenza che gli Spagnoli esercitavano nella Curia romana furo-
no alla base delle acerrime accuse e delle tante distorsioni di cui il ‘mondo’

26 TATE, Ensayos cit., pp. 55-104.


27 «Mas fasta en la Ytalia que solia cabeça ser del universo hovo enviado un rey
don Alfonso de tan immortal memoria [...] que de antes no sabían los príncipes de
Ytalia del recebir tan magníficamente los ambaxadores, ni menos del mesurado fe-
stejar de estrangeros quanto después han desprendido del sereníssimo festejador so-
berano y magnánimo rey don Alfonso. Y si dezís, mas fue bastardo el successor que
dexó, respondoos: que ahun esso fue mayor gloria y favor de la Hespaña [...] que
ahun fasta los bastardos de aquella son para regir y reynar» (citato in TATE, Ensayos
cit., p. 276). Il ‘bastardo’ a cui si riferisce Vagad è Ferrante d’Aragona, re di Napo-
li dal 1458 al 1494.
28 «De nuestra Borja salieron, que de ahí se llaman Borjas [...] ahun esso es

mayor gloria de nuestro Aragón que fasta de sus criados faze papas de Roma»: TA-
TE, Ensayos cit., p. 276.
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220 ANGELO MAZZOCCO

spagnolo fu oggetto presso gli Italiani: «Los mismos ytalianos que siempre
por invidia nos fueron tan enemigos que dissimularon quanto podieron, mas
escondieron a mas no poder las excellencias de nuestra Hespaña»29. L’e-
spansione nel Mediterraneo e nella penisola iberica stessa insieme alla con-
quista dell’appena scoperto Nuovo Mondo convinsero gli Spagnoli che la
Spagna era l’unica nazione europea degna di essere considerata una poten-
za imperiale. Reclamarono, perciò, una translatio imperii, contraddicendo
così la convinzione di una Spagna relegata ai margini dell’Europa (in «ex-
tremo mundi angulo», secondo Bruni)30, che gli Italiani avevano del loro
paese.
Come si è osservato sopra, Nebrija è la figura più importante e più rap-
presentativa dell’umanesimo spagnolo al tempo di Alessandro VI, perciò,
per meglio valutare il rapporto tra gli umanisti italiani e spagnoli in questo
periodo, è necessario soffermarsi sui momenti più salienti della sua vita e
della sua opera. Nebrija si mosse nell’intero dominio della filologia umani-
stica, dalla grammatica alla storia, dallo studio della lingua greca alla lessi-
cografia, dall’interpretazione della Sacra Scrittura a quella della giurispru-
denza, contribuendo in modo particolare al recupero e all’insegnamento del
latino, all’analisi filologica di opere classiche e cristiano-scritturali, alla
normalizzazione e politicizzazione della lingua castigliana, e alla ricostru-
zione della storia ispanica, sia antica che moderna. Fu un umanista di stam-
po valliano e fu al Valla che lo paragonarono i suoi contemporanei. Rife-
rendosi al ruolo di Nebrija nell’umanesimo spagnolo, Lucio Marineo rileva
che il suo contributo alla cultura spagnola era stato tanto importante quan-
to quello di Valla alla cultura italiana: «Al cual, finalmente, debe España
quanto Italia a Laurencio Valla, que también fué el primero que allá alum-
bró»31. Come quasi tutti gli umanisti spagnoli della sua generazione Nebrija
visse e studiò in Italia. Come ci informa egli stesso, all’età di diciannove an-
ni, nel 1460 circa, dopo cinque anni di studio all’Università di Salamanca,
essendosi reso conto che questa difettava di una solida cultura umanistica,
decise di trasferirsi in Italia, per abbeverarsi alla fonte degli studia humani-
tatis, che avrebbe poi, al ritorno, trasmesso ai suoi conterranei: «venir a la

29 Ibid., p. 293.
30 V. supra.
31 Citato in OLMEDO, Nebrija cit., p. 125. Lo stampo valliano di Nebrija è sta-

to riconosciuto anche dagli studiosi moderni. Per esempio, Marcel Bataillon osser-
va: «Desde Menéndez y Pelayo, se le [a Nebrija] define como el introductor en E-
spaña del ‘método racional y filosófico de Lorenzo Valla’. Es preciso ir más lejos,
y buscar en él al heredero de las audacias de Lorenzo Valla en materia de filología
sagrada, y quizá también de su actitud crítica frente a las tradiciones de la Iglesia»
(BATAILLON, Erasmo y España cit., p. 25).
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IL RAPPORTO TRA GLI UMANISTI 221

fuente [Italia], de donde hartase a mi primero, después a todos mis españo-


les»32. Perciò il suo viaggio in Italia non fu dovuto a ragioni utilitaristiche,
com’era il caso di tanti altri Spagnoli, ma al desiderio di conoscere a fondo
la cultura umanistica italiana, che rientrato in Spagna gli sarebbe servita per
liberare il suo paese dalla barbarie culturale che tutto lo infestava. Questa
missione civilizzatrice sarebbe stata realizzata reintroducendo sul suolo
spagnolo gli scrittori latini che vi erano stati esiliati da molti secoli33. In I-
talia Nebrija si stabilì nel Collegio di Spagna a Bologna dove rimase fino al
1470. Sembra che durante la sua permanenza in Italia abbia perfezionato la
sua conoscenza del latino e del greco e sia riuscito ad assorbire la ricca e-
rudizione dell’umanesimo italiano, visitando le scuole più celebri e fre-
quentando i maestri più rinomati34. Per Nebrija barbarie voleva dire in par-
ticolare imbarbarimento del latino classico. Perciò, per liberare la Spagna
dalla barbarie era necessario recuperare l’eleganza e la purezza dell’antica
lingua latina. Nebrija esplica la sua attività grammaticale secondo criteri
storico-razionali. Tale razionalismo porta al rifiuto totale di ogni sofistiche-
ria medievale35 e al recupero della parola nella sua realtà storica, cioè al re-
cupero del significato esatto e dell’uso corretto del termine linguistico. Di
conseguenza, Nebrija si occupa di precetti teorici ma anche di esempi sto-
rico-letterari che convalidino la componente teorica della sua ars gramma-
tica. Infatti, per l’umanista spagnolo ars grammatica voleva dire «sciencia
de bien hablar y bien escribir, cogida del uso y autoridad de los muy en-

32 ANTONIO DE NEBRIJA, Dictionarium ex hispaniensi in latinum sermonem, Sa-


lamanca c. 1494, f. aiiv. Questa osservazione da parte di Nebrija corrobora il giudi-
zio di Biondo che nel Quattrocento l’Italia funzionava come un importante centro di
studi classici per i giovani studiosi europei. V. supra, nota 9.
33 «Dexando aquellos cinco años que en Salamanca oí [...] maestros cada uno

en su arte muy señalados [...] sospeché [...] que aquellos varones, aunque no en el
saber, en dezir sabían poco. Así que en edad de diez y nueve años io fué a Italia, non
por la causa que otros van, o para ganar rentas de iglesia, o para traer fórmulas del
derecho civil y canónico, o para trocar mercaderías; mas para que, por la ley de la
tornada, después de luengo tiempo restituiese en la posesión de su tierra perdida los
autores del latín, que estaban ia, muchos siglos había, desterrados de España [...]
nunca dexé de pensar alguna manera por donde pudiese desbaratar la barbaria, por
todas las partes de España, tan ancha y luengamente derramada» (NEBRIJA, Dictio-
narium cit., ff. aii-aiii).
34 Per la biografia di Nebrija v. l’ancora utile P. LEMUS Y RUBIO, El Maestro E-

lio Antonio de Lebrixa, 1441-1522, «Revue Hispanique», 22 (1910), 459-508.


35 «Y que ia casi de todo el punto desarraigue de toda España, los doctrinales,

los pedros elias, e otros nombres aun mas duros, los galteros, los ebrardos, pastra-
nas e otros [...] no merecedores de ser nombrados» (NEBRIJA, Dictionarium cit., f.
ai).
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222 ANGELO MAZZOCCO

señados varones»36. L’importanza degli autori antichi nel recupero del lati-
no classico induce Nebrija ad una valutazione della lingua e degli scrittori
antichi. Parafrasando, a quanto pare, il De lingue latine differentiis di Gua-
rino Veronese37, Nebrija afferma che il latino aveva avuto un’infanzia, una
giovinezza ed una vecchiaia. Il latino aveva raggiunto il suo fulgore lingui-
stico durante il periodo della giovinezza, cioè il periodo che va da Cicero-
ne a Quintiliano, ed aveva incominciato a degenerare nell’età di Adriano,
raggiungendo la completa corruzione dopo Isidoro di Siviglia. Nebrija so-
stiene che solo gli autori dell’età aurea (Cicerone, Ovidio, Virgilio, Livio,
Quintiliano) meritavano di essere imitati; quelli che si erano affermati do-
po l’età di Adriano, e in particolare coloro che erano venuti dopo Isidoro,
dovevano invece essere respinti del tutto: «Qui sequuntur, quod ad latini
sermonis rationem attinet, nec digni quidem sunt quorum meminisse de-
beamus»38. Però sembra, in conformità al profondo sentimento religioso
della cultura spagnola contemporanea39, che Nebrija faccia un’eccezione
per gli autori cristiani, l’uso dei quali, a suo parere, avrebbe inculcato negli
studenti il sapere sano e pio della dottrina cristiana, evitando così il perico-
lo di una paganizzazione culturale, ed avrebbe arricchito il loro latino di u-
na certa naturalezza e di una sobria eleganza, redendolo così idoneo ad e-
sprimere contenuti religiosi40. Nebrija si oppone al purismo di coloro, qua-
li gli zelanti classicisti italiani, che volevano fare del linguaggio di Cicero-
ne e di Virgilio lo strumento linguistico di ogni aspetto del discorso con-
temporaneo, inclusi la storia e i misteri del cristianesimo41.

36 Citato in OLMEDO, Nebrija cit., p. 86.


37 È molto probabile che Nebrija abbia conosciuto il trattato di Guarino. Qual-
che anno fa si è scoperto nella Biblioteca del Monastero del Escorial una traduzio-
ne in castigliano dei brani più salienti del trattato di Guarino, che risale al periodo
di Nebrija (E. WEBBER, A Spanish Linguistic Treatise of the Fifteenth Century,
«Romance Philology» 16 [1962], pp. 32-40). Il che vuol dire che i concetti di Gua-
rino circolavano negli ambienti umanistici spagnoli (MORENO, España y la Italia
cit., pp. 113-114). Per uno studio del trattato di Guarino v. A. MAZZOCCO, Lingui-
stic Theories in Dante and the Humanists. Studies of Language and Intellectual Hi-
story in Late Medieval and Early Renaissance Italy, Leiden-New York 1993, pp.
51-57.
38 Cit. in ALCINA ROVIRA, Poliziano y los elogios cit., p. 203.
39 V. supra.
40 Come ha osservato Eugenio Asensio, la religiosità costituisce una delle com-

ponenti fondamentali della dottrina di Nebrija. Il suo forte senso religioso fa sì che
egli privilegi l’esegesi di autori ed opere d’indole cristiana. E. ASENSIO-J. ALCINA
ROVIRA, «Paraenesis ad litteras». Juan Maldonado y el humanismo español en
tiempos de Carlos V, Madrid 1980, pp. 11-13.
41 «Pero nosotros no buscamos y no debemos buscar solamente la pureza del
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IL RAPPORTO TRA GLI UMANISTI 223

Frutto di questa intensa ricerca scientifica furono le Introductiones la-


tinae (1481) che divennero subito un best seller ed ebbero un vasto nume-
ro di edizioni, inclusa una bilingue (latino e spagnolo) dedicata alla regina
Isabella (c. 1488). Nebrija riesaminò e perfezionò la sua opera grammati-
cale durante tutta la sua lunga carriera accademica, trasformandola da sem-
plice manuale pedagogico (la prima edizione mette insieme gli elementi
grammaticali essenziali più un piccolo vocabolario) ad una voluminosa o-
pera enciclopedica sulla lingua e la letteratura latine, in cui il dato lettera-
rio serve a convalidare quello linguistico. Nebrija rinforzò l’ars grammati-
ca delle Introductiones con due utili dizionari (latino-spagnolo [1492] e
spagnolo-latino [c. 1494]), al fine di determinare il significato preciso di o-
gni parola42. Le Introductiones di Nebrija hanno parecchio in comune con
le Elegantiae linguae latinae di Valla, l’opera che, secondo gli studiosi mo-
derni delle Introductiones43, servì come modello e stimolo per l’umanista
spagnolo. Entrambe le opere attribuiscono al latino un ruolo fondamentale
nel recupero della cultura antica, entrambe ricostruiscono il latino classico
tramite criteri storico-razionali, ed entrambe sono nutrite di uno spirito bat-
tagliero, perciò furono entrambe oggetto di acerrima polemica44. Le due o-
pere, però, si differenziano in quanto alla loro interpretazione del ruolo sto-
rico del latino. Per Nebrija il latino è un importante strumento linguistico
che rende possibile il recupero della civiltà classica. Per Valla il latino è non
solo un utile ed importante strumento linguistico, ma anche un elemento di
gloria e prestigio per la Roma contemporanea: il latino era stato ed era an-

latín, sino el conocimiento de muchas otras cosas que aumentan el caudal de ideas
y de palabras». Perciò bisogna opporsi a coloro che «se empeñan en encerrar todo
el mundo y toda la historia y todos los misterios y grandeza de nuestra religión en
la lengua de Tulio o de Marón»: cit. in OLMEDO, Nebrija cit., pp. 151-152.
42 Sulle Introductiones latinae di Nebrija v. gli ottimi studi di F. RICO, Nebrija

frente a los bárbaros, Salamanca 1978, pp. 29-51 e C. CODOÑER, Las «Introductio-
nes latinae» de Nebrija: tradición e innovación, in Nebrija y la introducción del Re-
nacimiento en España, (Actas de la III Academia Literaria Renacentista), a cura di
V. GARCÍA DE LA CONCHA, Salamanca 1983, pp. 105-122.
43 Cfr., per esempio, RICO, Nebrija frente a los bárbaros cit., pp. 45, 49-50, 55.
44 Moreno nota che Nebrija «no tiñe su obra con el mismo tono polémico que

invade los cerca de quinientos capítulos de las Elegantiae» (España y la Italia cit.,
p. 83). Tale asserzione è insostenibile anche perchè Nebrija stesso afferma ripetuta-
mente che la sua attività di grammatico era contestata con veemenza. Si veda, per
esempio, il seguente commento: «Nullum est adhuc opus a me editum [...] quod non
ex ipsa rerum novitate invidiam atque odium ab imperita multitudine in auctorem
suum conflauerit», ANTONIO DE NEBRIJA, De vi ac potestate litterarum, a cura di A.
QUILIS-P. USÁBEL, Madrid 1987, p. 33.
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224 ANGELO MAZZOCCO

cora l’unica lingua del popolo romano. Il così detto volgare romano in uso
nella Roma del suo tempo non era altro che una corruzione del latino clas-
sico. Come tale questa entità linguistica andava ricostituita nel suo antico
splendore. Perciò un dizionario volgare (romano)-latino, analogo al dizio-
nario spagnolo-latino che Nebrija aveva realizzato per il pubblico spagno-
lo, era inconcepibile nel contesto dell’attività grammaticale di Valla. Data
l’importanza del latino classico per la Roma contemporanea, Valla procede
ad una ricostruzione linguistica che è più elegante e più pura di quella di
Nebrija. Infatti, sebbene l’umanista romano faccia uso di termini cristiani
(«virgines» invece di «sanctimoniales», Gesù invece di Giove, Maria inve-
ce di Minerva, ecc.), il suo latino è essenzialmente una ricostruzione fede-
le di quello dell’età aurea romana45.
L’immersione nell’ars grammatica latina aveva convinto Nebrija che il
grammaticus, cioè lo specialista della lingua latina, era in grado di analiz-
zare e interpretare ogni aspetto del sapere umano, da argomenti politici a
quelli religiosi, dal diritto civile e canonico alla medicina, e dagli studia hu-
manitatis alla Sacra Scrittura46; la straordinaria abilità scientifica del gram-
maticus era dovuta al suo sapere enciclopedico e ad un forte acume criti-
co47. Tale nozione del grammaticus porta Nebrija ad una prolifica attività fi-
lologica che comprende opere di argomento scientifico, giuridico, letterario
e biblico. L’umanista spagnolo diede un notevole contributo in particolare
nel campo della giurisprudenza (Lexicon iuris civilis e Annotationes in li-
bros pandectarum)48, ma la sua perizia filologica si estrinsecò nella manie-

45 Quanto al rapporto tra il volgare romano e il latino classico in Valla cfr. A.

MAZZOCCO, Linguistic Theories cit., pp. 69-81. Sulle Elegantiae cfr. V. DE CAPRIO,
La rinascita della cultura di Roma: la tradizione latina nelle «Eleganze» di Loren-
zo Valla, in Umanesimo a Roma nel Quattrocento, a cura di P. BREZZI-M. DE PA-
NIZZA LORCH, Roma 1984, pp. 163-190.
46 «El conocimiento dela lengua en que esta, no sola mente fundata nuestra re-

ligion y republica christiana, mas aun el derecho civil y canonico [...] la medicina
[...] el conocimiento de todas las artes que dizen de humanidad por que son proprias
del ombre en quanto ombre». Dalla conoscenza della lingua latina dipende pure «el
estudio de la Sacra Escriptura»: ANTONIO DE NEBRIJA, Introducciones latinas, con-
trapuesto el romance al latín (c.1488), a cura di M. A. ESPARZA-V. CALVO, Münster
1996, p. 5.
47 Sul concetto di grammaticus in Nebrija e sul suo rapporto con la nozione di

grammaticus in Poliziano, cfr. ALCINA ROVIRA, Poliziano y los elogios cit., pp. 201-
202.
48 Si veda A. GARCÍA Y GARCÍA, Nebrija y el mundo del derecho, in Antonio de

Nebrija. Edad Media y Renacimiento, a cura di C. CODOÑER-J. A. GONZÁLES IGLE-


SIAS, Salamanca 1984, pp. 121-128, e ID., Introducción, in ANTONIO DE NEBRIJA, An-
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IL RAPPORTO TRA GLI UMANISTI 225

ra più efficace nell’esegesi biblica. Frutto di questa esegesi fu la Tertia


quinquagena (1507), in cui Nebrija emenda ed interpreta cinquanta passi
controversi della Sacra Scrittura. La Tertia quinquagena, come le Introduc-
tiones, risente di un forte influsso valliano49: le Adnotationes in Novum Te-
stamentum del Valla sono indubbiamente alla base della sua ideazione e ste-
sura. Ma nella Tertia quinquagena, la tecnica filologica che Nebrija mutua
da Valla è raffinata dall’ancora più perfetta filologia degli umanisti italiani
contemporanei: Ermolao Barbaro, Filippo Beroaldo, e in particolare Ange-
lo Poliziano, «nostro saeculo vir omnium eruditissimum», secondo Nebrija.
Il quale era convinto, come lo fu anche Valla, che la Bibbia poteva servire
come documento fondamentale della rivelazione divina solo se fosse stata
presentata in un testo sicuro e corretto e che tale integrità era recuparabile
solo se il testo biblico veniva studiato secondo i criteri della nuova filologia
umanistica. Nebrija, perciò, propone una simbiosi tra teologia e filologia, in
cui la filologia deve servire ad emendare e ad accertare termini e passi pro-
blematici del testo biblico. Dato lo stretto rapporto tra teologia e filologia,
Nebrija sostiene che l’esegesi biblica deve essere praticata dal grammati-
cus, perché solo il grammaticus con il suo ricco corredo culturale e con la

notationes in libros pandectarum, a cura di A. GARCÍA Y GARCÍA, Salamanca 1996,


pp. 7-20.
49 Jerry Bentley sostiene che probabilmente Nebrija non conosceva le Adnota-

tiones di Valla quando scrisse la Quinquagena: «Whether Nebrija knew Valla’s work
on the New Testament when he composed the Tertia quinquagena remains an open
question». Infatti Nebrija, aggiunge Bentley, aveva incominciato a scrivere la Tertia
quinquagena prima che Erasmo publicasse le Adnotationes di Valla (1505). Il fatto
che Nebrija ignorasse le Adnotationes valliane al tempo in cui lavorava sulla Tertia
quinquagena rende la sua solida esegesi biblica ancora più eccezionale (cfr. J. BEN-
TLEY, Humanists and Holy Writ. New Testament Scholarship in the Renaissance,
Princeton 1983, pp. 84 e 85). Altri studiosi – cfr. A. MORENO, España y la Italia cit.,
p. 64 –, condividono il giudizio di Bentley. Che Nebrija, una delle figure dell’uma-
nesimo europeo più interessata alla filologia biblica (già nella terza edizione delle
Introductiones [1495] faceva presente alla Regina Isabella che da allora in poi si sa-
rebbe dedicato esclusivamente alla esegesi scritturale), non abbia conosciuto le Ad-
notationes di Valla, una delle opere più polemiche dell’umanesimo italiano (si pen-
si allo scontro tra Poggio e Valla), è inammissibile. Tra l’altro le Adnotationes furo-
no oggetto di intense discussioni in Italia durante la permanenza di Nebrija a Bolo-
gna (1460-1470 c.) e continuarono ad interessare gli umanisti italiani del tardo
Quattrocento con cui Nebrija e il suo fedele allievo, Arias Barbosa, mantennero
sempre un buon rapporto. Perciò, come ritiene Bataillon, non c’è dubbio che Nebrija
conosceva l’opera dell’umanista italiano: «Es seguro che no ignoraba [Nebrija] la o-
bra crítica [le Adnotationes] de Lorenzo Valla» (Erasmo y España cit., p. 34). Su
questo cfr. pure RICO, Nebrija frente a los bárbaros cit., pp. 62-67 e 70-71.
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226 ANGELO MAZZOCCO

sua feconda perizia filologica è in grado di distinguere tra la verità rivelata


e le fantasticherie metafisiche e tra il termine corretto e quello errato. Per-
ciò nella Apologia (1507), scritta in difesa della Quinquagena, ai teologi
spagnoli che contestavano la sua esegesi biblica, sostenendo che la Sacra
Scrittura non aveva bisogno di correzioni, ma qualora ne avesse, tali corre-
zioni dovevano essere eseguite dai dottori e maestri della teologia e non da
un semplice grammatico come Nebrija, il quale era per di più inesperto del-
la Sacra Scrittura50, Nebrija ribatte che la Sacra Scrittura aveva invece bi-
sogno di numerose correzioni e che il grammatico era lo studioso più ido-
neo ad eseguirle. La Sacra Scrittura va emendata, aggiunge, perché gli an-
tichi codici biblici sono stati adulterati attraverso i secoli dai numerosi com-
mentatori del testo scritturale51, e va inoltre considerato che essa contiene
molti nomi di animali e piante come pure di metalli, vesti e luoghi che era-
no comprensibili nell’antichità, ma che, per varie ragioni (alcune delle co-
se denominate nel testo biblico non erano più in uso, altre avevano assunto
funzioni o forme diverse, altre ancora erano state cancellate dal passar del
tempo), non lo erano più nell’età moderna52. Il grammatico poteva e dove-
va rimediare alle numerose deficienze del testo biblico, correggendo ciò che
era sintatticamente e ortograficamente scorretto, aggiungendo ciò che man-
cava, e accertando il significato di passi e termini difficili. Nell’emendare il
testo biblico il grammatico doveva servirsi dei codici più antichi, perché
l’integrità del testo biblico è legata all’antichità del codice che lo tramanda.
Infatti, chi può dubitare che il codice di san Girolamo sia molto più atten-
dibile dei codici degli esegeti medievali, i quali vissero in un periodo in cui
non si conosceva né il latino né il greco53? Un testo biblico ben emendato
ed interpretato facilita la comprensione delle numerose similitudini della
Sacra Scrittura e chiarisce «lo que es o no es de fe, lo que nos está manda-

50 «Me acusaban de impío ante el Inquisidor General, diciendo que no sabien-


do yo Sagrada Escritura, me atrevía, con solo la Grámatica a hablar de lo que no co-
nocía [...] Aunque hubiese que corregir, dicen, los códices sagrados no sería lícito
que los corrigiera, no ya un gramático como yo, pero ni aun los doctores y maestros
de Teología»: NEBRIJA, Apologia, in OLMEDO, Nebrija cit., pp. 128 e 132.
51 «Son muy raros los códices antiguos que ofrecen un texto que non esté más

o menos adulterado, porque andando en manos de hombres ignorantes, es imposi-


ble que a la larga no sufran algunas modificaciones: el uno añade, el otro quita, el
otro tacha o pone una palabra por otra»: ibid., p. 131.
52 Ibid., pp. 108-109, 133.
53 «¿A quiénes debemos dar más crédito [...] A San Jerónimo, que conocía per-

fectamente las tres lenguas, o a Nicolao, Hugo, Papías, Mamotreto y a los demás au-
tores que vivieron en tiempos en que las letras griegas y latinas estaban olvidadas?»:
ibid., p. 133.
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IL RAPPORTO TRA GLI UMANISTI 227

to y lo que nos está prohibito»54. Nella Tertia quinquagena e nella Apolo-


gia Nebrija rivela un forte orgoglio professionale ed una eccellente perizia
filologica paragonabili a quelli dei più illustri umanisti italiani, incluso il
Valla. Ma la sua critica scritturale, sebbene piuttosto agguerrita, è lontana
dalla temerariètà del Valla. Nebrija non esita criticare i contemporanei co-
me pure gli esegeti medievali, incluso san Tommaso, però dimostra una cer-
ta condiscendenza verso l’esegesi biblica patristica. D’altronde Valla conte-
sta sia gli esegeti contemporanei e medievali che quelli patristici, quali
sant’Agostino e san Girolamo: sant’Agostino aveva frainteso l’origine del
termine Logos, mentre san Girolamo aveva commesso errori nelle sue tra-
duzioni dei testi biblici55.
Forse l’opera più importante ed originale di Nebrija è la Gramática de
la lengua castellana. La traiettoria che porta Nebrija alla normalizzazione
del volgare castigliano è paragonabile in molti aspetti al modus operandi
che porta gli umanisti fiorentini (Bruni e Alberti, per esempio) alla difesa
del loro volgare56. Bruni si trasforma da fervido classicista e denigratore del
volgare fiorentino nel primo dialogo Ad Petrum Paulum Histrum, scritto al-
l’inizio del Quattrocento, in sostenitore dell’efficacia linguistica del volga-
re fiorentino nella Vita di Dante, pubblicata nel 1436. La trasformazione di
Bruni si deve ad una più esatta valutazione del linguaggio dantesco; un’a-
naloga trasformazione si avverte pure in Leon Battista Alberti (1404-1472),
il quale difende l’efficacia come pure l’utilità del volgare fiorentino. Un’o-
biettiva indagine dello stato socio-linguistico della Firenze del suo tempo a-
veva convinto Alberti che il volgare era più utile del latino: «Scrivendo in
modo che ciascuno m’intenda [cioè in volgare], prima cerco giovare a mol-
ti che piacere a pochi, ché sai quanto siano pochissimi a questi dì e’ littera-
ti»57. Una lettura attenta delle opere linguistiche di Nebrija rivela che anche

54 Ibid., p. 130.
55 Sulle Adnotationes di Valla cfr. C.S. CELENZA, Renaissance Humanism and
the New Testament: Lorenzo Valla’s Annotations to the Vulgate, «The Journal of
Medieval and Renaissance Studies», 24 (1994), pp. 33-52, e J. MONFASANI, The
Theology of Lorenzo Valla, in Humanism and Early Modern Philosophy, a cura di
J. KRAY-M. W. F. STONE, London-New York 2000, pp. 1-23. Per la Tertia quinqua-
gena e l’Apologia di Nebrija cfr. BATAILLON, Erasmo y España cit., pp. 24-34, e
RICO, Nebrija frente a los bárbaros cit., pp. 62-72.
56 Sul rapporto tra la Gramática di Nebrija e l’umanesimo fiorentino del Quat-

trocento cfr. A. MAZZOCCO, Los fundamentos italianos de la «Gramática de la len-


gua castellana» de Nebrija, in Actas del congreso internacional de historiografía
lingüística. Nebrija V Centenario, 1492-1992, a cura di R. ESCAVY-J.M. HERNANDEZ
TERRÉS, Murcia 1994, I, pp. 367-376.
57 Proemio al libro III della «Famiglia», in TAVONI, Latino, grammatica, vol-

gare cit., p. 224. Per una valutazione del volgare fiorentino di Bruni e Alberti e del-
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228 ANGELO MAZZOCCO

l’umanista spagnolo si era trasformato da paladino inflessibile del latino


classico a strenuo difensore del volgare castigliano e che anche in lui tale
trasformazione fu dovuta ad una valutazione più concreta del potenziale lin-
guistico del castigliano ed al bisogno di soddisfare le esigenze linguistiche
della Spagna del suo tempo. Nel prologo all’edizione bilingue delle Intro-
ductiones (c. 1488), Nebrija scrive che inizialmente aveva dubitato di poter
rendere la versione latina in castigliano, «por ser nuestra lengua tan pobre
de palabras», ma che dopo aver incominciato il lavoro si era reso conto del-
le capacità linguistiche del castigliano e che, pertanto, si rammaricava di
non aver proceduto allo stesso modo nelle altre edizioni delle Introductio-
nes58. Tale consapevolezza avrà contribuito senz’altro alla composizione
della Gramática de la lengua castellana, ma l’impulso gli sarà venuto an-
che dalla realtà linguistica della Spagna contemporanea. Infatti, nella Spa-
gna di Nebrija, ancora più che nella Firenze di Bruni e Alberti, la lingua do-
minante era il volgare e non il latino. I dotti spagnoli di questo periodo par-
lavano in castigliano, scrivevano in castigliano, e traducevano perfino i clas-
sici latini in questa lingua59. Sia negli umanisti fiorentini che in Nebrija l’in-
teresse per il volgare è dovuto a ragioni linguistiche ma anche politiche, per
cui negli uni come nell’altro al fattore linguistico-grammaticale va aggiun-
to quello linguistico-politico. Gli umanisti fiorentini si auguravano che il lo-
ro volgare diventasse la lingua ufficiale dell’Italia, perché al primato politi-
co e culturale Firenze potesse aggiungere anche quello della lingua60. Il fat-
tore linguistico-politico ha un ruolo importante anche in Nebrija, ma in lui
la politica linguistica mira ad un orizzonte molto più vasto di quello dei fio-
rentini. Il volgare fiorentino doveva limitare la sua influenza alla penisola i-
taliana, mentre il castigliano di Nebrija, come vedremo più tardi, doveva
imporsi in Spagna come pure in altre nazioni straniere.
La Gramática de la lengua castellana vide la luce nel 1492. Per Ne-
brija e i suoi contemporanei il 1492 fu un annus mirabilis. Fu infatti l’anno

l’umanesimo quattrocentesco fiorentino in generale v. MAZZOCCO, Linguistic Theo-


ries cit., pp. 30-38, 82-105.
58 «Quiero agora confessar mi error, que luego enel comienço no me pareció

materia en que yo pudiesse ganar mucha honra, por ser nuestra lengua tan pobre de
palabras: que por uentura no podria representar todo lo que contiene el artificio del
latin. Mas despues que començe a poner en hilo el mandamiento de Vuestra Alteza,
contentome tanto aquel discurso, que ya me pesaua auer publicado por dos uezes u-
na mesma obra en diuerso stilo» (NEBRIJA, Introducciones cit., p. 6).
59 Sul predominio del volgare castigliano nella cultura spagnola del Quattro-

cento cfr. J.N.H. LAWRENCE, On Fifteenth-Century Spanish Vernacular Humanism,


in Medieval and Renaissance Studies in Honour of Robert Brian Tate, a cura di I.
MICHAEL-R.A. CARDWELL, Oxford 1986, pp. 63-79.
60 MAZZOCCO, Linguistic Theories cit., pp. 92-103.
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IL RAPPORTO TRA GLI UMANISTI 229

in cui gli Spagnoli erano riusciti a unificare il loro paese e a liberarlo della
‘peste’ di Maometto e dall’empia influenza ebraica, conquistando il regno
di Granada e bandendo gli ebrei; fu l’anno in cui si era realizzata la scoperta
del Nuovo Mondo e fu pure l’anno in cui uno spagnolo, Rodrigo Borgia, e-
ra assurto al soglio pontificio col nome di papa Alessandro VI. A ragione in
quegli anni tutta la Spagna era stata percorsa da un forte senso nazionalisti-
co e trionfalistico, nazionalismo e trionfalismo che sono riflessi nella
Gramática de la lengua castellana di Nebrija, secondo il quale i Re Catto-
lici avevano trasformato la Spagna da un agglomerato di stati, spesso in
guerra tra di loro, in una compatta e stabile entità politica dotata della stes-
sa religione e motivata dagli stessi obiettivi politici e militari61. Nebrija a-
vrebbe fatto altrettanto nel campo linguistico; la sua Gramática avrebbe
normalizzato («reduzir en artificio») e stabilizzato sulla scia dell’ars gram-
matica del greco e del latino antichi un volgare castigliano estremamente
plasmabile e, perciò, suscettibile di profonde trasformazioni linguistiche.
La sua Gramática sarebbe servita come efficace strumento linguistico per
gli storici spagnoli ed avrebbe facilitato l’apprendimento del latino; sareb-
be stata, inoltre, particolarmente utile al nascente impero dei Re Cattolici,
un impero che già includeva importanti regioni e stati (Navarra, Granada, I-
talia) e che nel futuro avrebbe senz’altro compreso molti altri popoli62. Nel
contesto di questo nascente impero, la Gramática del Nebrija sarebbe ser-
vita ad insegnare le leggi che i conquistatori spagnoli avrebbero imposto ai
popoli conquistati («las leies quel el vencidor pone al vencido») e la lingua
castigliana stessa, la cui conoscenza era necessaria non solo ai popoli sot-
tomessi alla Spagna, ma anche a quelle nazioni che per varie ragioni avreb-
bero intrattenuto rapporti diplomatici con la monarchia spagnola63.
Alla base di questo ragionamento sul rapporto tra lingua castigliana e
il nascente impero dei Re Cattolici c’è la nozione che la fortuna della lin-
gua è legata strettamente a quella dello stato: «siempre la lengua fue com-
pañera del imperio»64. Nebrija afferma che tale legame si era manifestato in
tutti i grandi popoli antichi: l’ebraico, il greco, il romano, ecc. Il legame tra
lingua e stato sostenuto da Nebrija è stato oggetto di molto interesse tra gli
studiosi dell’umanista spagnolo. In un articolo scritto parecchi anni fa65, le
cui conclusioni sono state accolte anche da altri, Eugenio Asensio sostiene
che l’espressione usata da Nebrija «siempre la lengua fue compañera del

61Gramática de la lengua castellana, a cura di A. QUILIS, Madrid 1989, p. 112.


62Ibid., pp. 112-113.
63 Ibid., pp. 113-114.
64 Ibid., p. 109.
65 La lengua compañera del imperio. Historia de una idea de Nebrija en E-

spaña y Portugal, «Revista de Filología Española», 43 (1960), pp. 399-413.


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230 ANGELO MAZZOCCO

imperio» riecheggia l’»ibi namque romanum imperium est ubicumque ro-


mana lingua dominatur» del Valla66. Brillante in ogni altro aspetto, lo stu-
dio di Asensio sbaglia in relazione a questo particolare rapporto istituito tra
l’umanista spagnolo e quello italiano. Il fatto è che il brano di Valla citato
da Asensio non ha niente a che fare con il legame tra lingua e stato formu-
lato da Nebrija. Per Valla il latino era privo di ogni connotazione politica,
un puro strumento culturale capace di ricostruire lo splendore della civiltà
antica. Come tale il latino continuava ad essere una forza culturale fonda-
mentale, anche se gli era venuto a mancare l’appoggio politico dell’impero
romano, che era scomparso per sempre: «amisimus regnum atque domina-
tum; tametsi non nostra sed temporum culpa; verum tamen per hunc splen-
didiorem dominatum [del latino] in magna adhuc orbis parte regnamus»67.
Il legame tra lingua e stato sostenuto da Nebrija va riscontrato non in Val-
la, ma negli umanisti fiorentini, in particolare in Cristoforo Landino (1424-
1498) e Lorenzo de’ Medici. Per esempio, in un linguaggio concettualmen-
te simile a quello di Nebrija, Lorenzo nota che la fortuna del latino fu do-
vuta esclusivamente all’egemonia dell’impero romano: «Questa tale dignità
d’essere prezzata per successo prospero della fortuna è molto appropriata
alla lingua latina, perché la propagazione dell’imperio romano non l’ha fat-
ta solamente comune per tutto il mondo, ma quasi necessaria»68.
Nebrija si occupò anche di storia. Tra le sue opere storiche vanno se-
gnalate la Muestra de la historia de las antigüedades de España (1499), u-
na ricostruzione della Spagna antica, e le Rerum a Ferdinando et Elisabe
Hispaniarum regibus gestarum Decades II (c. 1521), un rifacimento della

66 Elegantiarum libri, in Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. GARIN,


Milano-Napoli 1952, p. 596.
67 Ibid.
68 Comento ad alcuni sonetti d’amore, in Scritti scelti di Lorenzo de’ Medici, a

cura di E. BIGI, Torino 1965, p. 308. Su lingua e stato in Nebrija e il suo rapporto
con Valla, Landino e Lorenzo cfr. MAZZOCCO, Los fundamentos italianos cit., pp.
368-369, 374-375. Quanto al legame tra latino e impero romano in Landino e Lo-
renzo v. ID., Linguistic Theories cit., pp. 94-105. Nell’ambiente della Firenze del
Quattrocento Nebrija trovò pure il modello per le norme grammaticali della sua o-
pera. Sembra che nel formulare la sua Gramática l’umanista spagnolo abbia tenuto
presente i criteri delle Regole della lingua fiorentina, una breve grammatica sul vol-
gare fiorentino attribuita ad Alberti, ma la sua è molto più dettagliata e completa di
quella fiorentina. Infatti la Gramática di Nebrija è la prima vera grammatica di una
lingua moderna prodotta dal Rinascimento europeo. Sull’aspetto grammaticale del-
la Gramática v. A QUILIS, Estudio, in NEBRIJA, Gramática de la lengua castellana
cit., pp. 9-97. Per il rapporto tra le Regole della lingua fiorentina e la Gramática di
Nebrija v. MAZZOCCO, Los fundamentos italianos cit., pp. 370-371, 374.
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IL RAPPORTO TRA GLI UMANISTI 231

Crónica de los Reyes Católicos di Ferdinando Pulgar. In campo storiogra-


fico Nebrija eredita il rigore scientifico degli umanisti italiani e il naziona-
lismo ad oltranza di Arévalo e Vagad. Perciò, come abbiamo già osservato
al riguardo dell’umanesimo spagnolo in generale, la sua opera storica si
conforma a quella degli umanisti italiani in quanto al metodo, ma si diffe-
renzia da essa in quanto all’appropriazione e alla valutazione della Roma
classica. Seguendo l’esempio degli umanisti italiani, Nebrija nella Muestra
scarta gli autori cristiani e si limita esclusivamente a quelli classici; le fon-
ti letterarie classiche sono sottoposte ad un’efficace critica testuale e sono
collazionate con pertinenti documenti archeologici69; come Biondo, infatti,
Nebrija fa largo uso di fonti archeologiche (rovine, iscrizioni, monete)70,
anche se in lui l’elemento archeologico è privo dell’emozione e del valore
culturale attribuitogli dal Biondo. Per Biondo le vestigia della Roma classi-
ca sono non solo importanti strumenti filologici attraverso cui chiarire e ri-
costruire il dato storico, ma anche prove della magnificenza antica, la cui
presenza deve servire come stimolo per il recupero della civiltà classica.
Dall’umanesimo italiano, in particolare dalla scuola fiorentina di Bruni e
Poggio, Nebrija deriva sia il metodo di narrazione che le norme stilistiche
e linguistiche da utilizzare nella sua opera storica. Nelle Decades, seguen-
do il modus operandi della storiografia umanistica fiorentina, sottopone il
materiale storico ad una radicale selezione, minimizzando o, addirittura, e-
liminando tutto ciò che potrebbe macchiare la reputazione dei Re Cattolici
e amplificando invece ciò che potrebbe giovarle. La narrazione è rivestita,
come lo è anche nella storiografia fiorentina, di uno stile aulico tipico degli
storici antichi (Livio, Cesare, Vegezio) e fa uso frequente di una terminolo-
gia che spesso pecca di una esagerata aderenza al vocabolario della storio-
grafia classica (praefectus limitaneorum per adelantado e Dux Arevacorum
per il Duque de Arévalo, per esempio). Tale purismo in uno studioso come
Nebrija, il quale, come abbiamo notato sopra, aveva sostenuto una simbio-
si tra il latino degli scrittori dell’età aurea e quello degli autori cristiani, è
in un certo senso incomprensibile71.

69 Tale metodologia è affermata da Nebrija stesso: «Erat enim facile vulgus in-
certum erroris conuincere, cum [...] haberem codices pervetustos et litterarum mo-
numenta lapidibus ac numismatis impressa quae meis observationibus astipularen-
tur»: De vi ac potestate litterarum cit., p. 33.
70 Cfr. MAZZOCCO, Los fundamentos italianos cit., p. 373.
71 Cfr. supra. Gregorio Hinojo Andrés attribuisce l’esagerata aderenza alla ter-

minologia classica di Nebrija al fatto che per gli umanisti «la lengua latina debe
continuar como una lengua viva, útil y suficiente, y que el material ofrecido por la
antigüedad es adecuado para cumplir o desarrolar todas las funciones de comunica-
ción, aunque a veces precise de alguna transformación. En esta actitud y creencia
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232 ANGELO MAZZOCCO

È probabile che con questo purismo Nebrija voglia uguagliare ed an-


che gareggiare con il classicismo della storiografia umanistica italiana, che
era così apprezzata nei paesi d’Oltralpe, inclusa la Spagna, e che aveva pro-
curato tanto prestigio ai suoi sostenitori, quali Bruni e Lucio Marineo. Sia
come sia, la stretta aderenza da parte di Nebrija allo stile e alla terminolo-
gia antica diminuisce l’efficacia storica della sua opera. Come era chiaro
già a Biondo, che con Valla capì per primo tra gli umanisti italiani che l’ec-
cessiva aderenza ai canoni retorici classici poteva nuocere al messaggio sto-
rico, il mondo moderno era cambiato radicalmente rispetto a quello antico.
L’Italia aveva subìto vari e profondi mutamenti nelle procedure ammini-
strative, nella finalità e nel carattere della religione, in ambito militare, nei
nomi geografici, e nei costumi sociali. Perciò lo stile aulico e la terminolo-
gia degli storici antichi non erano più pertinenti alla storiografia contempo-
ranea. Lo storico moderno doveva aggiornare stile e lessico per rispondere
alle nuove esigenze linguistiche della società contemporanea. Tale aggior-
namento però non voleva dire rifiuto del latino classico, ma ricorso ad uno
stile narrativo più basso, e latinizzazione dei termini volgari, nei casi in cui
non ci fossero equivalenti latini (bombarda per cannone e feudatarius per
feudatario, per esempio)72. Se nella sua opera storica Nebrija si conforma
agli umanisti italiani in quanto al metodo, segue invece gli storici spagnoli
in quanto allo scopo e all’ideologia del messaggio storico. Difatti, la sua
Muestra fu concepita, come lo furono altre opere spagnole di questo tipo,
con lo scopo di ricostruire un antico passato spagnolo che fosse tanto lumi-
noso quanto l’eredità romana pretesa dagli umanisti italiani. In contrasto
con Lucio Marineo, la Muestra doveva dimostrare che le virtù e le istitu-
zioni della Spagna contemporanea, compresa la dinastia reale, erano ricon-
ducibili non alla colonizzazione romana, come voleva infatti Marineo, ma
a straordinari popoli e civiltà che Nebrija individua essenzialmente nell’e-
poca ‘arcana’ della Spagna pre-romana. Per Nebrija, come anche per Aré-
valo, i Romani erano stati degli oppressori, oppressione tuttora sentita da-
gli Spagnoli. Perciò, rimproverando un gruppo di studenti per il loro latino
difettoso, si chiede «si por desprecio a los romanos, a quienes estuvisteis

hay que buscar la causa profunda de este interés»: Obras históricas de Nebrija. E-
studio filológico, Salamanca 1991, p. 55. Tale asserzione da parte di Hinojo Andrés
è insostenibile specialmente se si tiene presente che Nebrija aveva optato per una
simbiosi tra latino classico e latino cristiano e che Valla, il difensore più acerrimo
del purismo latino e colui che più aveva sostenuto l’uso e l’efficacia del latino clas-
sico, riconosce il valore di un aggiornamento terminologico e lo sperimenta nella
narrazione della sua opera storica.
72 FLAVIO BIONDO, Historiarum ab inclinatione Romanorum Decades, Basilea

1531, pp. 393-396. Su quest’aspetto della dottrina di Biondo, cfr. MAZZOCCO, Lin-
guistic Theories cit., pp. 43-46.
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IL RAPPORTO TRA GLI UMANISTI 233

sometidos tanto tiempo, queréis corromper su lengua»73. L’enfasi sul pas-


sato leggendario e la necessità di ricostruire un retaggio eccezionale porta-
no Nebrija ad utilizzare dati storici non attendibili a giustificazione della
sua tesi storica. Sebbene, da raffinato filologo qual era, eviti le fantastiche-
rie di un Arévalo o di un Vagad, Nebrija fa tuttavia largo uso dell’opera a-
pocrifa di Annio da Viterbo.
Con i suoi contemporanei Nebrija condivide pure il trionfalismo con il
relativo corollario della translatio imperii, che prevalse nella Spagna del tar-
do Quattrocento e primo Cinquecento. Già nella Gramática de la lengua ca-
stellana Nebrija aveva parlato di un nascente impero spagnolo; nelle Decades
è ormai un fait accompli. Chi non si rende conto – esulta Nebrija – che, seb-
bene il titolo di impero appartenga alla Germania, la vera potenza è nelle ma-
ni dei sovrani spagnoli («rem tamen ipsam esse penes Hispanos Principes»),
che dominano sulla maggior parte dell’Italia e del Mediterraneo, e seguendo
con le loro navi il corso del sole hanno già raggiunto le coste delle Indie? Non
soddisfatti di tante conquiste ed avendo già esplorato la maggior parte del
Nuovo Mondo, sono sul punto di dominare l’intero pianeta74. Di particolare
importanza per uno studio sul rapporto tra gli umanisti italiani e quelli spa-
gnoli, come il nostro, è il prologo o Divinatio (1509) delle Decades, in cui
Nebrija ringrazia re Ferdinando per averlo nominato (21 marzo 1509) croni-
sta regio. Osserva che sarebbe stato più logico per il re scegliere uno dei più
famosi umanisti italiani, Poliziano, Pico della Mirandola, Ermolao Barbaro,
Antonio Flaminio, o Aldo Romano, ma che la sua scelta non era poi tanto da
disprezzare: pur essendo studioso di secondo rango («Qui si non sumus ex
prima classe, possumus tamen in secunda censeri»), aveva tuttavia una buo-
na padronanza del latino, che aveva imparato a Bologna, alma mater di tutte
le discipline liberali75. In un certo senso il suo patrimonio culturale era para-
gonabile a quello dei suoi illustri antenati classici, Columella, Canio, Silio,
Hena, i due Seneca, Lucano, e gli altri poeti cordovani, che secondo Cicero-
ne parlavano con un accento strano e poco raffinato («quamvis scribat Cice-
ro pingue quiddam illos et peregrinum sonare»)76. Oltre ad avere una buona

73 Citato in OLMEDO, Nebrija cit., p. 74.


74 ANTONIO DE NEBRIJA, Exhortatio ad lectorem, in Aelii Antonii Nebrissensis,
ex grammatico et rhetore historiographi regii, Rerum a Ferdinando et Elisabe Hi-
spaniarum felicissimis Regibus gestarum Decades duae, a cura di SANCHO DE NE-
BRIJA, Granada 1545. Per un’analisi dell’opera storica di Nebrija v. R. TATE, Nebrija,
the Historian, «Bulletin of Hispanic Studies», 34 (1957), pp. 125-146 (ristampato
in Ensayos cit., pp. 183-211) e HINOJO ANDRÉS, Obras históricas de Nebrija cit., pp.
15-111.
75 NEBRIJA, Divinatio, in HINOJO ANDRÉS, Obras históricas de Nebrija cit., p.

131.
76 Ibid.
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234 ANGELO MAZZOCCO

padronanza del latino, Nebrija aveva anche una buona conoscenza della so-
cietà spagnola ed era sincero patriota ed orgoglioso sostenitore della monar-
chia. Perciò era in grado di fornire una narrazione dei fatti storici della Spa-
gna dei Re Cattolici più rappresentativa della realtà storica spagnola e indub-
biamente più fedele agli ideali monarchici di quanto avessero potuto fare gli
umanisti italiani, che vanagloriosi al massimo invidiavano la gloria del popo-
lo spagnolo e, irritati dal dominio spagnolo in Italia, bollavano gli Spagnoli
come barbari e selvaggi: «Invident nobis laudem, indignantur quod illis im-
peritemus [...] nosque Barbaros opicosque vocantes infami appellatione foe-
dant»77. Per di più gli umanisti italiani non avevano il minimo rispetto per il
sistema monarchico spagnolo, perché essendo guidati da un falso senso di li-
bertà («simulatae cuiusdam libertatis amore») odiavano persino il nome di re
e disprezzavano il regime monarchico78. Gli Italiani avrebbero voluto sotto-
mettere gli Spagnoli con la loro cultura, ma di questo modo di pensare si po-
teva dire di loro ciò che Catone, scrivendo a suo figlio, diceva dei Greci:
«quando questo popolo ci insegnerà le lettere, ogni cosa corromperà»79.
Tranne forse le Introductiones, la Divinatio è il documento più studia-
to tra le numerose opere di Nebrija. Tra le varie interpretazioni dello scrit-
to vanno segnalate quelle di Felix Olmedo e Jeremy Lawrence, due delle
più rappresentative. Per Olmedo la Divinatio è una dichiarazione rivendi-
cativa in cui Nebrija emerge come «el Aníbal vendigador de la Dido e-
spañola»80, mentre per Lawrence è un’espressione diffamatoria in cui un
Nebrija sicuro di sé inveisce contro la corruzione e la codardia degli Italia-
ni81. Sebbene non ci sia dubbio che rivendicazione e disprezzo informano
in certa misura il messaggio della Divinatio, la chiave di volta di quest’o-
pera è però un senso di inferiorità nei confronti della grande filologia del-
l’umanesimo italiano. L’inferiorità di Nebrija è implicita in quel suo auto-
definirsi scrittore di secondo rango, autodefinizione che però viene subito
mitigata dal riferimento alla sua permanenza a Bologna. Nebrija sembra vo-
ler dire che è vero che non era nato e non si era formato in uno dei grandi
centri umanistici italiani, che avevano tanto arricchito la perizia filologica
di un Pico della Mirandola o di un Ermalo Barbaro, ma era pure vero che
aveva studiato ed aveva imparato il latino a Bologna. Perciò, se non proprio
scrittore di prima categoria, era tuttavia dotato di una solida preparazione
filologica, in grado pertanto di scrivere una buona opera storica. La mitiga-

77Ibid., p. 128.
78Ibid.
79 «Quodque M. Cato ad filium de Graecis scribit, possumus et nos de Italis di-

cere, quandocunque gens ista nobis literas dabit, omnia corrumpet»: ibid.
80 OLMEDO, Nebrija cit., p. 191.
81 LAWRENCE, Humanism in the Iberian Peninsula cit., p. 242.
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IL RAPPORTO TRA GLI UMANISTI 235

zione implicita nel riferimento a Bologna viene corroborata dal richiamo a-


gli antichi scrittori iberici, che pur essendo censurati per il loro latino im-
perfetto, come lo erano anche gli scrittori spagnoli contemporanei, e pur es-
sendo, per la maggior parte, scrittori di secondo rango, come ribadisce Ne-
brija stesso82, erano tuttavia riusciti ad emergere nell’antica Roma, diven-
tando veri astri del mondo culturale romano. Nebrija avrebbe fatto altret-
tanto nel contesto della cultura spagnola contemporanea.
Definire la cultura spagnola contemporanea nei confronti della cultura
umanistica italiana e sorpassare quest’ultima nei suoi punti più salienti fu
uno degli obiettivi principali di Nebrija durante la sua lunga carriera acca-
demica. Come tale, l’umanista spagnolo si preoccupò sempre di rimediare
a deficienze filologiche che potessero nuocere alla reputazione della cultu-
ra spagnola e cercò di contro di esaltare il rigore scientifico che potesse ren-
derla pari alla cultura umanistica italiana. Perciò ammonisce gli studenti
dell’Università di Salamanca di perfezionare la pronuncia e la grammatica
del latino, affinché gli stranieri (cioè gli Italiani) non si beffino di loro: «No
permitamos che se rían de nosotros los extranjeros»83. Allo stesso modo,
Nebrija esalta la Thalichristia di Alvar Gómez de Ciudad Real non solo per-
ché, secondo lui, era un’opera di grande valore teologico e letterario, ma an-
che perché Alvar Gómez aveva realizzato ciò che Pico della Mirandola non
era mai riuscito a portar a termine: «Aquí tienes, lector amigo, [...] la Tha-
lichristia [...] aquí tienes el Virgilio cristiano, aquí tienes el poema de la
Teología, que [...] pedía con ansias un conde italiano, Juan Pico de la
Mirándula, y que nos ha dado, por fin, un caballero español, Alvaro Gó-
mez»84. L’inferiorità di Nebrija era alimentata in gran parte dal disprezzo
per la cultura spagnola mostrato dagli umanisti italiani. Come abbiamo vi-
sto sopra, stimolati dal ricco e splendido retaggio romano che essi attribui-
vano esclusivamente all’Italia, gli umanisti italiani disprezzavano la Spagna
e la cultura spagnola, provocando così a loro volta gli spagnoli a denigrare
l’Italia e gli Italiani. Tale critica si riscontra anche nella Divinatio di Nebrija
che dell’Italia discredita ciò che gli umanisti italiani consideravano l’essen-
za del loro prestigio e della loro missione civilizzatrice: il patrimonio cul-
turale. Facendo sua l’osservazione espressa da Catone sui Greci, Nebrija as-
serisce che la cultura italiana contemporanea aveva poco merito, anzi era
causa di corruzione, perché prodotta da un popolo corrotto ed avvilito85.

82 NEBRIJA, Introducciones cit., pp. 4-5.


83 Cfr. OLMEDO, Nebrija cit., p. 74.
84 Ibid., p. 59. Contrariamente all’opinione di Nebrija, la Thalichristia è in

realtà un’opera di poco valore estetico e letterario: cfr. ASENSIO-ALCINA ROVIRA,


«Paraenesis ad litteras» cit., p. 12.
85 La nozione di corruzione implicita nell’osservazione di Catone viene sfrut-

tata anche dagli umanisti italiani nella loro valutazione del rapporto tra Roma e Gre-
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236 ANGELO MAZZOCCO

L’umanista spagnolo dà maggior peso alle sue argomentazioni sulla infe-


riorità degli Italiani, svilendo il loro ruolo nel settore militare e politico, il
tallone d’Achille dell’Italia rinascimentale. Infatti, echeggiando Vagad86,
Nebrija sostiene che il forte disprezzo dei dotti italiani per la Spagna e la
cultura spagnola era dovuto al loro risentimento per il dominio degli Spa-
gnoli sulla maggior parte dell’Italia. Essendo schiavi di una falsa libertà –
incalza Nebrija –, in ovvio spregio della famosa libertas fiorentina, gli Ita-
liani erano incapaci di percepire che tale dominio era dovuto ad una ferrea
disciplina militare e ad un efficace e nobile sistema monarchico, la cui
realtà andava apprezzata e difesa ad ogni costo.
Il rapporto di Nebrija con gli umanisti italiani è un rapporto a doppio
taglio. Da una parte l’umanista spagnolo è sedotto dalla brillante cultura i-
taliana del Quattrocento, dall’altra è offeso dal primato culturale preteso da-
gli umanisti italiani. Risolve allora il dilemma ricercando splendide e nobi-
li civiltà nella Spagna pre-romana e svilendo gli Italiani in ambito sia poli-
tico-militare che culturale. Ma esprime queste censure proprio mentre a-
dotta la metodologia dell’umanesimo italiano e fa della cultura umanistica
italiana la pietra di paragone della sua e della cultura spagnola in generale.
Le contraddizioni manifestate da Nebrija si riscontrano in quasi tutti gli u-
manisti spagnoli87. L’umanesimo spagnolo del tardo Quattrocento e primo
Cinquecento ammirava e vituperava allo stesso tempo la cultura umanistica
italiana. Come tale il rapporto tra gli umanisti italiani e spagnoli di questo
periodo va studiato e valutato alla luce di queste contraddizioni.

cia. Per esempio, mentre discute della conquista della Macedonia da parte di Paolo
Emilio, Biondo osserva che tale conquista aveva apportato molta gloria al popolo
romano, ma aveva anche dato l’avvio alla degenerazione del suo spirito austero e
ferreo, degenerazione che avrebbe portato alla decadenza e al collasso della Roma
antica: cfr. De Roma triumphante cit., p. 208. È probabile che Nebrija abbia presente
queste osservazioni degli umanisti italiani quando formula le sue critiche nei con-
fronti dell’Italia.
86 Cfr. supra.
87 Dovremmo aggiungere che tali contraddizioni si riscontrano pure negli u-

manisti di altri paesi europei, si pensi ad un Conradus Celtis (1459-1508) in Ger-


mania e ad un Guillaume Budé (1467-1540) in Francia.
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FRANCO MARTIGNONE

Le ‘orazioni d’obbedienza’ ad Alessandro VI:


immagine e propaganda

Devo proprio ringraziare gli organizzatori del Convegno, in particolare


l’amico Massimo Miglio, perché mi hanno dato l’opportunità di affrontare u-
na tematica che mi è cara da tempo – forse da troppo tempo in verità! – : le
‘orazioni di obbedienza’ ai pontefici. Ed ho anche il vantaggio di parlare qui
dopo aver ascoltato i contributi di Paola Farenga, Concetta Bianca, Laura
Fortini e Anna Modigliani nel convegno romano del dicembre scorso. Ho
avuto però la sfortuna di essere stato costretto a rinviare il mio arrivo, cosa
di cui mi scuso ancora, e quindi di non aver assistito alle sedute preceden-
ti. Oltre a ciò, cosa ancor più grave, devo confessare di non essere per nien-
te un esperto di Umanesimo, per cui vi chiedo scusa in anticipo per la po-
chezza di quanto vi dirò!
Ho adempiuto almeno, con queste parole iniziali che contengono an-
che una breve narratio, ai doveri della retorica, che non permette di pre-
scindere dalla excusatio e dalla captatio benevolentiae! Se dovessi proce-
dere seguendo lo schema abituale delle orazioni d’obbedienza dovrei pas-
sare ora alla narratio vera e propria, poi alla propositio, indi alla partitio o
divisio, per procedere poi nelle confirmationes ed, eventualmente, nella
confutatio, per giungere alla conclusio, che contiene sempre la clausola del-
l’obbedienza e precede la simbolica deosculatio pedum del vicario di Cri-
sto da parte degli ambasciatori. A questo punto il pontefice (nel nostro ca-
so il presidente della seduta!) mi risponderebbe, personalmente o per boc-
ca di un alto prelato e qualche volta in versi, per sottolineare il suo com-
piacimento e la sua attenzione nei confronti di fedeli così pronti all’osse-
quio della fede e alla difesa della Christiana Respublica, riservando anche
qualche cenno laudatorio alle mie alte e colte parole! Alla fine della ceri-
monia avrei il privilegio di reggere le frange del piviale del pontefice nel
corteo conclusivo! Tuttavia non mi pare il caso di insistere in questo paral-
lelo, anzi trasgredirò in pieno le regole del buon dire congressuale e partirò
da un’auto-citazione – in un mix di vecchio e di nuovo – dovuta non a pre-
sunzione, ma a un tentativo di funzionalità, poiché in passato, forse per l’età
più verde, godevo di migliori capacità di sintesi: «Una delle fonti di un
qualche interesse per la conoscenza della figura di un pontefice e, soprat-
tutto, della sua immagine pubblica alla fine del medioevo può essere costi-
tuita dalle ‘orazioni di obbedienza’. Di esse, sino ad oggi, si è colto preva-
lentemente l’aspetto letterario (in chiave umanistica-oratoria o di letteratu-
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238 FRANCO MARTIGNONE

ra encomiastica e d’occasione), a cominciare»1 dalla raccolta Clarorum ho-


minum orationes, stampata a Colonia nel 1559, e da quella, più tarda, del
«Lünig, che ristampò alcune di queste orazioni nel 1713» a Lipsia nel I to-
mo del volume Orationes procerum Europae «con l’intento di mettere a di-
sposizione di chi si applicava alla retorica una buona antologia d’esempi.
Molto più episodicamente queste fonti sono state studiate anche in chiave
storica, per i contenuti e le eventuali notizie che se ne possono trarre. Co-
stituiscono tuttavia, dal punto di vista storico, una fonte ‘atipica’ e piuttosto
complessa che, pur se riconducibile in linea di principio ad un ‘genere let-
terario’ con caratteristiche proprie pressoché sistematiche, soprattutto sotto
l’aspetto formale, evidenzia notevoli disparità di contenuti e di stimoli al-
l’interesse: sotto il profilo strettamente storico l’esame di un’orazione
d’obbedienza può dare buoni risultati come lasciare delusi. Migliori risul-
tati può ottenere con maggiore probabilità chi si occupi dei problemi con-
nessi con lo studio delle tecniche propagandistiche, della ricaduta emotiva
delle notizie relative a fatti storici rilevanti e, più in generale, delle connes-
sioni tra storia della cultura e storia della mentalità. L’esito dello studio è
condizionato da una notevole quantità di ‘varianti’, che vanno dal momen-
to politico alla cultura e alla persona dell’oratore, dal pontefice a cui ci si
rivolge all’importanza del potentato che presta l’obbedienza, dalla qualità
della prosa latina al tipo di tematiche svolte. Elementi accessori – ma da
non trascurare – di valutazione di una orazione d’obbedienza sono costitui-
ti dalla diffusione a mezzo stampa che essa conobbe, dall’importanza del-
l’ambasceria nell’ambito della quale venne recitata e dalla solennità del
concistoro che per essa venne radunato. In generale si può dire che quasi
sempre gli elementi che si possono trarre da una orazione d’obbedienza at-
tengono all’ambito della propaganda politica e si connettono soprattutto
con l’immagine esterna che ogni singolo Stato o personaggio della politica
internazionale intende accreditare di sé. In casi più fortunati possono esse-
re evidenziati i fini perseguiti in politica estera, nel breve e nel lungo perio-
do, il tono dei rapporti con la Santa Sede, il livello di gradimento che l’ele-
zione del nuovo pontefice ha suscitato nella Cristianità.
La presentazione dell’obbedienza ad un pontefice appena eletto corri-
sponde allo stabilimento di rapporti diplomatici ufficiali e viene connotata
da caratteri di grande solennità, sia da parte dello Stato che invia la sua am-
basceria, sia da parte della Santa Sede. I concistori, che sono riuniti – con
la partecipazione di tutto il ‘corpo diplomatico’ presente al momento in Ro-

1
F. MARTIGNONE, L’orazione di Ladislao Vetesy per l’obbedienza di Mattia
d’Ungheria a Sisto IV, «Atti e Memorie della Società savonese di Storia patria», (V
Convegno storico savonese ‘L’età dei Della Rovere’, Savona, 7-10 novembre 1985),
25 (1989), parte II, pp. 205-250 (in part. pp. 205-207).
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LE ‘ORAZIONI D’OBBEDIENZA’ AD ALESSANDRO VI 239

ma – per la recita dell’orazione, diventano un’ottima cassa di risonanza al


livello più alto della politica internazionale, palcoscenico ideale per l’eser-
cizio dell’arte della diplomazia: le orazioni di obbedienza finiscono così per
assumere il carattere di veri e propri ‘programmi’ di politica estera di ogni
singolo Stato. Naturalmente alla fine del medioevo non è possibile la pre-
senza simultanea di tutte le ambascerie dei diversi Stati per la presentazio-
ne delle obbedienze: esistono obbiettive difficoltà che la diplomazia odier-
na non conosce, come le distanze geografiche, le condizioni climatiche, la
situazione politica internazionale (stato di pace o di guerra), la congiuntura
politica all’interno di ogni singolo Stato (ribellioni, difficoltà per i governi
etc.). Qualche volta sono le stesse relazioni diplomatiche con la Santa Se-
de, non buone, a far ritardare l’invio dell’ambasceria di un particolare Sta-
to, specialmente quando il pontefice eletto risulta essere persona non parti-
colarmente gradita per suoi precedenti atteggiamenti politici o perché ap-
partenente a nazione o a famiglia politicamente avversaria. Mediamente co-
munque in un paio d’anni dall’insediamento del pontefice si portano a
compimento questi atti ufficiali, come accade, ad esempio, per Innocenzo
VIII e Alessandro VI»2. Fin qui l’auto-citazione.
Le orazioni di obbedienza ci sono giunte in un grandissimo numero di
copie e, per giunta, in stampe di più stampatori ed anche in edizioni diver-
se di uno stesso stampatore, cosa che ci obbliga a porci l’interrogativo di
quale ‘mercato’ godevano e dell’eventuale esistenza di una ‘committenza’
diversificata. Le troviamo prevalentemente raccolte in miscellanee temati-
che, con legature qualche volta del Cinquecento, ma più spesso del Sette-
cento, sparse un po’ in tutte le biblioteche d’Europa e degli Stati Uniti d’A-
merica. Come è del tutto normale nel caso degli incunaboli, di esse quasi
mai conosciamo la data certa di pubblicazione: i catalogatori si sono dovu-
ti servire dei lassi temporali di attività degli stampatori e del criterio della
datazione interna, e tutte le volte che potevano hanno fatto riferimento alle
informazioni contenute nel Liber notarum di Giovanni Burckard3 per stabi-
lire il terminus post quem, che corrisponde quasi sempre alla data in cui l’o-
razione è stata recitata in pubblico concistoro. A questo dobbiamo aggiun-
gere che si tratta naturalmente di fascicoli, qualche volta di pochissime car-
te, di edizioni povere e quasi sempre non emendate, come ha giustamente
lamentato Concetta Bianca, veri e propri instant books dell’epoca, come li
ha efficacemente definiti Paola Farenga, anche se qualche volta l’esiguità
del numero delle carte ci fa pensare di più a un volantino o a un opuscolo.

2 Ibid.
3 JOHANNISBURCKARDI Liber notarum ab anno MCCCCLXXXIII usque ad an-
num MDVI, ed. a cura di F. CELANI, RIS2, 32, (1907-1911).
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240 FRANCO MARTIGNONE

Entrambe le relatrici del convegno romano che ho appena citate hanno in-
cluso, fra i motivi di stampa, la propaganda, oltre naturalmente al dono, al
modello letterario e ai contenuti (Bianca), segnalando anche (Farenga) l’e-
sistenza di stampatori specializzati, operanti in Roma, come Stephan
Plannck, Eucharius Silber e Andreas Fritag, cui mi sento di aggiungere, per
l’epoca di Innocenzo VIII, Bartholomaeus Guldinbeck. Non mancano, an-
che se sono poche, stampe in altre città, come Firenze, Milano, Parma, Pa-
via, Venezia: in questi casi è piuttosto facile pensare ad una stampa più tar-
da – e le date di pubblicazione, certe o supposte, ci autorizzano a dirlo – in
chiave di modello letterario o legata all’ambito geografico e politico del-
l’oratore. Dunque tutte le orazioni d’obbedienza – tranne la prima di cui
parleremo dopo – vedono la loro prima edizione, ed anche la maggior par-
te delle successive, a Roma, e vengono stampate a tambur battente, come ha
giustamente affermato Concetta Bianca facendo riferimento alla dedica
contenuta nell’orazione di Benvenuto di Sangiorgio ad Alessandro VI per
conto del marchese Bonifacio di Monferrato. Leggiamo i passi più interes-
santi di questa dedica:

Reverendo iurisconsulto domino Iohanni Antonio de Sancto


Georgio, episcopo Alexandrino, sanctissimi domini nostri papae
referendario, sacri palatii apostolici causarum auditori etc.

Orationem his studiis quibus tua eruditione invigilavi et consue-


tudini meae repugnantem iussu tamen prius illustrissimi principis
Bonifacii Marchionis Montisferati pro oboedientia praestanda in
summo pontificatu Alexandri VI pontifici maximi per me habitam
hodieque veloci manu et e fragmentis quibusdam meis in unum
congestam ad te mitto qui illam pro eo quod apud pontificem ge-
ris officio requisisti; gratum fuit admodum quam prius tuas in
manus inciderit. Tum officii tui iure […] Romae, tertiodecimo ka-
lendas Marcii anno MCCCCXCIII.
E.R.D.V. filius Benvenutus de Sancto Georgio Eques Iherosoli-
mitanus illustrissimi domini marchionis Montisferrati orator4.

Come appare subito evidente, a Benvenuto di Sangiorgio preme una re-


visione del suo lavoro, ma non certo solo per fini estetico-letterari, anche se
così dice, bensì per motivi di opportunità politico-diplomatica e per essere
certo di essere adeguato al compito che sta per intraprendere, dico sta per
intraprendere perché la data della dedica è del 17 febbraio 1493, giusto una
settimana prima che l’autore reciti la sua orazione davanti al pontefice in so-

4 BENVENUTUS DE SANCTO GEORGIO, Oratio ad Alexandrum VI pro Bonifacio

de Monteferrato, Stephan Plannck, Roma, dopo il 17 II 1493.


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LE ‘ORAZIONI D’OBBEDIENZA’ AD ALESSANDRO VI 241

lenne concistoro. Anzi se vogliamo essere precisi non è nemmeno l’autore


dell’orazione a prendere l’iniziativa, ma quello che penso sia lo zio, cioè
Gian Antonio di Sangiorgio (che sarebbe stato creato cardinale di lì a po-
chi mesi e di cui abbiamo ammirato nell’esposizione di documenti e mano-
scritti alessandrini organizzata a latere del convegno romano un bellissimo
dono ad Alessandro VI, l’esemplare di dedica dei Commentaria super De-
cretum Gratiani stupendamente miniato), vescovo di Alessandria, referen-
dario del pontefice e auditore delle cause nel palazzo apostolico, che chie-
de a Benvenuto di vedere l’orazione prima della recita in pubblico. Natu-
ralmente Benvenuto spera che l’Oratio vada bene, anzi pensa proprio di sì,
tanto che la fa stampare addirittura, ripromettendosi di farla circolare a ce-
rimonia avvenuta! Del resto avviene così anche oggi con quasi tutti i di-
scorsi ufficiali delle alte autorità dello Stato o di altre istituzioni: gli invita-
ti alla cerimonia trovano sulla poltrona il testo stampato del discorso, che
probabilmente tuttavia è stato inviato con buon anticipo alle persone di al-
to rango istituzionale, per motivi di opportunità e delicatezza.
Non mi sento certo di affermare che questa fosse la prassi per tutte le
orazioni di obbedienza, ma certo la cosa lascia pensare che la preoccupa-
zione politica fosse una componente importante nella stampa di questi te-
sti. Del resto gli ambasciatori ricevevano naturalmente istruzioni molto det-
tagliate e vincolanti sugli argomenti da sottoporre all’attenzione del ponte-
fice, non solo durante l’udienza privata che spesso seguiva la recita dell’o-
razione, ma anche nei vari passi dell’orazione stessa: Valeria Polonio5 ha
trovato preziose indicazioni in questo senso in relazione all’ambasceria in-
viata dalla Repubblica di Genova per la salita al soglio di Niccolò V6. Tut-
tavia non posso ignorare una praefatio che ci spinge di più a valutare gli a-
spetti umanistico-letterari: «Orationem a me Romae in publico consistorio
habitam ad Alexandrum sextum pontificem maximun, crebrae amicorum
interpellationes efflagitabant, eorum praesertim qui non interfuerunt»7. Co-
sì si esprime Giason del Maino nella premessa alla stampa pavese di Anto-
nio Carcano della sua orazione di obbedienza ad Alessandro VI recitata per
conto del duca di Milano in solenne concistoro il 5 dicembre 1492, se Gio-
vanni Burckard, come è presumibile, ci dice il vero circa la data della ceri-
monia. Si dovrebbe trattare della terza, in ordine di tempo, delle diverse
stampe dell’orazione (gli altri stampatori sono il Plannck e il Fritag a Ro-
ma ed un ignoto a Pavia) e la data di stampa è indicata, con dubbio, nel-

5 V. POLONIO, Genova e la Santa Sede, relazione tenuta alle Giornate di studio

«Papato, Stati regionali e Lunigiana nell’età di Niccolò V», La Spezia-Sarzana-Pon-


tremoli-Bagnone, 25-28 maggio 2000, (Atti in corso di stampa).
6 Non mi risulta che l’orazione d’obbedienza sia stata stampata.
7 JASON DE MAINO, Oratio pro Mediolanensium Principe coram Alexandro VI,

Roma, Stephan Plannck , dopo il 13 XII 1492.


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242 FRANCO MARTIGNONE

l’IGI al 13 gennaio 1493, un mese esatto dopo il terminus post quem attri-
buito alle stampe del Plannck e del Fritag (13 dicembre 1492), non coinci-
dente in questo caso con la data di recita dell’orazione annotata dal
Burckard, perché evidentemente i catalogatori hanno altri più certi elemen-
ti su cui fondarsi rispetto alle indicazioni del cronista pontificio. Dunque ci
sono stampe che sono motivate anche sul piano essenzialmente umanistico-
letterario, come del resto è confermato dalla qualità estetica e dalla com-
plessità dell’orazione, degna del suo autore.
Anche la specificità dei contenuti, accompagnata naturalmente dalla va-
lidità estetica, può essere a volte causa di stampa, o meglio di ristampa, co-
me accadde nel caso dell’orazione d’obbedienza di Laszlo Vetesy8 a Sisto IV
per conto di Mattia Corvino: stampata a Roma nel 1475 da Johann Schure-
ner e fortemente caratterizzata come oratio inflammatoria contro i Turchi,
venne ristampata dal Plannck nel 1480, penso per la grande attualità che le
veniva dalle vicende dell’assedio turco di Rodi. Sempre in relazione al pro-
blema dei Turchi un’altra orazione d’obbedienza a Sisto IV conobbe un gran
successo editoriale, quella di Bernardo Giustiniani9 per conto della Repub-
blica di Venezia: penso che si tratti della prima orazione d’obbedienza stam-
pata subito dopo la recita e conobbe quattro edizioni – presumibilmente in
un breve arco temporale attorno al 1471 – quelle romane di Stephan Plannck
e di Johann Gensberg, quella patavina di Lorenzo Canozi e quella venezia-
na, più importante per formato e più accurata, di Nicolas Jenson. Venne poi
ristampata nel 1492 ancora a Venezia da Bernardino Benagli insieme ad al-
tri scritti del Giustiniani. L’orazione, indiscutibilmente pregevole sotto il
profilo estetico-letterario – ne ho completata l’edizione e la traduzione e
penso di pubblicarla nell’ambito di un lavoro sui Cavalieri di Rodi – fece e-
poca e la sua connotazione anti-turca è così forte che fece passare in secon-
do piano il fatto che si trattasse di un’orazione d’obbedienza a un pontefice,
al punto che i cataloghi la riportano sotto il titolo Iustinianus Bernardus, O-
ratio exhortatoria contra Turcos! Motivo per cui era sfuggita al mio primo
giro di ricerche relative alle orazioni d’obbedienza. Aggiungo solo che, co-
me molti sanno, questa orazione e quella del Vetesy possono essere consi-
derate le antesignane di una vasta produzione letteraria destinata alla stam-
pa che ha caratterizzato l’ultimo quarto del Quattrocento in relazione al pro-
blema costituito dai Turchi per la Cristianità.
Dagli esempi presi in esame sin qui non possiamo che dedurre che o-
gni stampa abbia una sua specifica motivazione, cosa del resto abbastanza
logica: un nuovo medium come la stampa non può che trovare molti ambi-

8V. nota 1.
9BERNARDUS IUSTINIANUS, Oratio exhortatoria contra Turcos, Venezia, Nico-
las Jenson, dopo il 2 XII 1471.
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LE ‘ORAZIONI D’OBBEDIENZA’ AD ALESSANDRO VI 243

ti di applicazione alla fine del Quattrocento, in un clima culturale e politi-


co decisamente internazionale nell’ottica della Christiana Respublica, ed
è comunque una moda negli ultimi decenni del Quattrocento servirsi della
stampa per la diffusione di tutte le opere oratorie, soprattutto per le ora-
zioni a carattere religioso in occasione delle diverse festività o dottrinali,
per quelle celebrative di matrimoni o di vittorie militari, per quelle funera-
rie ed anche per quelle politiche indirizzate a monarchi e principi, ma po-
che di queste conoscono il numero di edizioni e la diffusione delle orazio-
ni d’obbedienza. Due ultimi argomenti ci fanno propendere, a proposito
delle orazioni d’obbedienza, per una prevalenza – nella quantità delle edi-
zioni – della motivazione politico-propagandistica: gran parte delle stam-
pe non contengono alcuna dedica, il che esclude la funzione del ‘dono’, ma
anche quella letterario-umanistica, perché le dediche sono una parte inte-
grante, e qualche volta importante, dell’opera; in secondo luogo la presen-
za capillare di questi testi nelle più diverse biblioteche d’Italia e d’Europa
ci fa pensare agli esiti di una diffusione non sempre spontanea ma, alme-
no qualche volta, organizzata: solo eccezionalmente un’orazione d’obbe-
dienza conosce una sola edizione, normalmente le edizioni vanno da due a
quattro e se facciamo riferimento alle 300 copie indicate da Anna Modi-
gliani per ogni stampa ci troviamo di fronte a un numero di esemplari che
va dai 600 ai 1200, grandi numeri per l’epoca, non giustificabili pensando
ad un naturale assorbimento del mercato! E poi penso che la stampa delle
orazioni d’obbedienza possa in ogni caso aver costituito un validissimo
strumento in quel lungo processo di auto-affermazione del papato così
chiaramente delineato da Alberto Tenenti nel recente convegno romano e
già così rilevante nella seconda metà del Quattrocento, dopo la caduta di
Costantinopoli, a fronte della persistenza del problema turco e in assenza
di un ruolo propulsivo da parte dell’Impero: Roma, anzi la Santa Sede, ri-
diventa il vero centro politico della Cristianità e la Christiana Res-publica
torna ad essere qualcosa di più di un puro concetto e Roma ne è il centro
del diritto, come ha sottolineato Gabriella Airaldi nel convegno romano cui
faccio sempre riferimento. Né del resto dimentichiamo che da Niccolò V
in poi l’umanesimo, e soprattutto l’umanesimo di corte, conosce uno svi-
luppo sempre maggiore e l’umanista diventa uno strumento indispensabi-
le non solo nell’ambito strettamente culturale, ma soprattutto in quello del-
la politica, della diplomazia e della propaganda, in quanto depositario del-
l’ars dicendi e quindi tramite indispensabile per la veicolazione delle idee.
Ogni realtà politica avverte con chiarezza l’assoluta esigenza di servirsi di
oratori adeguati in una circostanza di capitale importanza come quella del-
la recita delle orazioni di obbedienza, consapevole anche della conseguen-
za indiretta in crescita d’immagine derivante dal fatto di aver contribuito
alla produzione di un valido fatto letterario e di essere o il mecenate o la
patria di un uomo che è assurto ai fastigi della gloria per le parole che ha
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244 FRANCO MARTIGNONE

pronunciato davanti al pontefice: e chi umanista non fosse deve ingegnar-


si a preparare un discorso all’altezza della situazione! In questo senso so-
no chiare le parole di Bartolomeo Senarega10, autore della Historia Ia-
nuensis ab anno 1478 per totum 1514, che a proposito dell’orazione d’ob-
bedienza della Repubblica di Genova ad Alessandro VI tenuta da Giacomo
Spinola ci dice: «orationem habuit latinam et gravem et ab omnibus com-
mendatam Iacobum, quae impressa Romae per multorum manus devoluta
est, non sine patriae et viri laude». Sostanzialmente quindi anche la diffu-
sione di un’orazione legata a motivi estetico-letterari finisce con l’avere
degli esiti in propaganda politica forse ancora più sottili ed efficaci!
Mi sento dunque di pensare che le mie ipotesi di una dozzina d’anni
fa conservino ancora una accettabile validità: «La mancata compresenza di
tutti i membri della Christiana Respublica non toglie valore alla recita del-
le singole orazioni: ad essa si ovvia affidando i testi alla stampa, in modo
da permettere una diffusione, per i tempi, vasta, semplice e sufficiente-
mente rapida. Sia la Chiesa sia i singoli Stati colgono al volo l’importan-
za della stampa e ne avviano immediatamente l’utilizzazione come me-
dium a fini politici: le orazioni vengono stampate in tempi brevi, quasi
sempre a Roma», forse «a spese delle singole ambascerie» – ce lo fa capi-
re il sopra citato Giacomo Spinola, autore della orazione d’obbedienza ad
Alessandro VI per conto della Repubblica di Genova, nella dedica a Lu-
dovico il Moro, signore di Genova: «Gratulatoriam orationem pridie habi-
tam […] radendam impresentia et omni ex parte dilacerandam video […].
Verum prece nonnullorum patrum et concivium meorum voto coactus, eam
edendam et imprimendam statui»11 –. La stampa avviene «per mezzo di
stampatori ‘specializzati’ come Stephan Plannck, Bartolomaeus Guldin-
beck, Eucharius Silber. La loro diffusione viene probabilmente curata, a li-
vello europeo e nelle sedi che maggiormente interessano, dai dignitari re-
sidenti, dall’alto clero, dai grandi commercianti e, in maniera indiretta, da-
gli uomini di cultura, ma niente di sicuro possiamo dire in proposito. A di-
stanza di tempo dalla recita, quando le orazioni hanno perduto la loro at-
tualità e la loro funzione pratica, esse sono state probabilmente accorpate
in raccolte con fini didascalico-oratori, così come le troviamo oggi – nella
prevalenza dei casi – conservate nelle biblioteche».
La prima parziale raccolta di queste orazioni in un’unica opera riguar-
da proprio il pontificato del nostro Alessandro VI ed è frutto, come sapete,

10Arch. di Stato di Genova, ms. n. 70, Bartolomeo Senarega, Historia Ianuen-


sis ab anno 1478 per totum 1514.
11 JACOBUS DE SPINOLA, Oratio gratulatoria ad Alexandrum VI nomine Ge-

nuensium habita, Roma, Eucharius Silber, dopo il 12 XII 1492.


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LE ‘ORAZIONI D’OBBEDIENZA’ AD ALESSANDRO VI 245

della fatica di Girolamo Porcari12 che, nel suo Commentarius de creatione


et coronatione Alexandri VI, stampato a Roma nel 1493 da Eucharius Sil-
ber, ne riporta un buon numero, ma naturalmente in modo sintetico, propo-
nendo testi un po’ sommari che tuttavia forse in generale devono essere più
vicini a quanto effettivamente gli oratori avevano avuto il tempo di decla-
mare di quanto non lo siano i testi delle edizioni singole complete: un po’
come accade oggi per le relazioni nei convegni di studio! Il Porcari è pre-
zioso anche perché riporta le risposte del pontefice, che molto raramente
sono pubblicate in calce alle orazioni nelle edizioni singole. A mio parere,
e conforto, è piuttosto significativo che il primo impiego di queste orazioni
sia avvenuto proprio in chiave politica! In chiave propriamente storica la
prima utilizzazione delle orazioni di obbedienza penso che possa essere
considerata quella di Guillaume Caoursin, che, nella sua Historia Rhodio-
rum13, stampata a Ulm nel 1496 da Johann Reger, ripubblica la propria o-
razione d’obbedienza ad Innocenzo VIII per conto dei Cavalieri di Rodi, e
quella dell’Arcivescovo di Rodi Marco Montano14 ad Alessandro VI, anche
questa naturalmente per l’ordine gerosolimitano.
La più antica delle orazioni di obbedienza che sia stata stampata è quel-
la tenuta da Enea Silvio Piccolomini15, naturalmente non ancora pontefice,
per l’obbedienza dell’imperatore Federico III a Callisto III: stampata a Ma-
gonza – a sentire l’Audiffredi – nell’anno stesso della recita, il 1455, di-
venne molto famosa e fu ristampata a Roma dal Plannck tra il 1488 e il
1490 per evidenti motivi letterari. Complessivamente ad oggi ho rintraccia-
to 35 orazioni di obbedienza a stampa: oltre a quella a Callisto III, 3 a Si-
sto IV, 14 a Innocenzo VIII e 17 ad Alessandro VI, per un numero di edi-
zioni singole quattrocentesche che supera l’ottantina. Devo anche dire che
ormai le ho trascritte quasi tutte e molte anche tradotte e forse prima o poi
troverò il coraggio di pubblicare l’intero corpus in chiave di fonti storiche.
Anche nel Cinquecento continua la moda della stampa di queste orazioni,
ma per mia fortuna ciò esula dalle mie pertinenze scientifiche! Tralascian-
do ogni dettaglio sul quadro in cui si svolgono le recite di queste orazioni,
nell’ambito di una liturgia e di un cerimoniale accuratissimi propri delle
proiezioni esterne di un potere autocratico come quello pontificio, voglio
solo ricordare che i beneficiari delle operazioni propagandistiche, che ve-

12 HIERONIMUS PORCIUS, Commentarius de creatione et coronatione Alexandri


VI, Roma, Eucharius Silber, 18 sept. 1493.
13 GUILLELMUS CAOURSIN, Historia Rhodiorum, Ulm, Johann Reger, 24 X 1496.
14 MARCUS MONTANUS, Oratio pro Rhodiorum oboedientia, Roma, Eucharius

Silber, dopo il 10 III 1493.


15 PIUS PP. II, Oratio de oboedientia Friderici III, Roma, Stephan Plannck,

1488-1490.
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dono nella stampa delle orazioni un prolungamento a tempo indefinito de-


gli effetti, sono sia la Santa Sede che si accredita come unico potere uni-
versale, sia le singole realtà politiche, che si presentano come campioni del-
la difesa della fede e costruiscono in questa chiave la loro immagine ester-
na nell’ambito della Christiana Respublica, escogitando e rivendicando o-
gni tipo di meriti.
Devo ancora però ricordare che non sono solo umanisti ‘di professio-
ne’ gli autori delle orazioni d’obbedienza, sono anche uomini di chiesa e,
soprattutto, un gran numero di avvocati, persone tuttavia di cultura che di
solito erano consapevoli della moda oratoria dell’epoca e che comunque,
per la loro funzione o professione, erano ben abituati a parlare in pubbli-
co. Non sempre erano personaggi di altissimo rango – lo possiamo sapere
spesso dalle informazioni del Burckard (che in cuor mio non smetto mai
di ringraziare anche se non piace molto, se non ho capito male, a Maria
Consiglia De Matteis), che precisa la gerarchia all’interno dell’ambasceria
– il che vuol dire che ogni potenza si preoccupava di comporre l’amba-
sceria tenendo in gran conto anche la necessità di avere un buon oratore
fra gli ambasciatori, pur se anche altre considerazioni avevano peso nella
scelta dell’oratore, come una sua eventuale parentela con qualche perso-
naggio di spicco della curia romana, per i preziosi suggerimenti che ne po-
tevano venire. Se poi l’oratore era parente o amico proprio del pontefice si
raggiungeva il massimo dell’opportunità! In un caso entrambe queste cir-
costanze si sommano: nella persona dell’avvocato Ettore Fieschi, oratore
della solenne ambasceria (ben 12 i componenti!) inviata dalla Repubblica
di Genova per prestare obbedienza ad Innocenzo VIII, il genovese Gian
Battista Cibo16. Ettore era fratello di Urbano Fieschi (invidus pater, vir
perversus lo definisce quella boccaccia del Burckard17, non così la pensa
il Pastor), vescovo di Frejus e referendario domestico del pontefice; oltre
a ciò Ettore era stato anche compagno di gioventù del papa, cosa che pro-
babilmente, unitamente alle sue capacità professionali, gli aveva fruttato di
recente la nomina ad avvocato concistoriale! Nessuno più di lui dunque
poteva essere adatto a tenere l’orazione, anche se forse il latino lo cono-
sceva e lo scriveva meglio il cancelliere Antonio Gallo, anche lui membro
dell’ambasceria: le ragioni della politica hanno sempre vinto su quelle del-
la cultura!
Ho detto all’inizio che le orazioni d’obbedienza possono essere defini-
te come un vero e proprio genere letterario: dicendo questo non mi riferivo

16 F. MARTIGNONE, Diplomazia e politica della Repubblica di Genova nella


«Oratio de oboedientia» ad Innocenzo VIII, in Atti del III Convegno Internaziona-
le di Studi Colombiani, (Genova, 7 - 8 ottobre 1977), Genova 1979, pp. 101-150.
17 BURCKARDI Liber notarum cit., I, p. 113.
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LE ‘ORAZIONI D’OBBEDIENZA’ AD ALESSANDRO VI 247

tanto all’organizzazione del discorso – dalla excusatio alla conclusio – co-


mune a un po’ tutti i generi oratori, quanto piuttosto ai contenuti, che di-
ventano col passare del tempo pressoché obbligatori, e nel rispondere alle
caratteristiche delle orationes gratulatoriae – così anche, a volte, sono de-
finite le orazioni d’obbedienza – assumono connotazioni specifiche. Nel ri-
cordare che non possiamo affermare che tutte le orazioni soggiacciano a
questi criteri organizzativo-contenutistici – qualche volta ciò non avviene
per le intenzioni dell’oratore o per il suo background culturale – cercherò
di esemplificare ciò che normalmente ci si può aspettare di trovare in un’o-
razione d’obbedienza. I punti focali d’interesse sono due, il pontefice da u-
na parte e la nazione (e l’eventuale sovrano) dall’altra, entrambi tuttavia
strettamente collocati nel quadro della Christiana Respublica, intesa come
universo religioso-politico, di cui il papa è monarca indiscusso. Si debbono
tessere le lodi delle due diverse entità, amalgamandole al meglio nella vi-
sione dei compiti di ciascuno nella difesa e nell’affermazione della fede cri-
stiana. Ogni oratore fa appello ad ogni spunto possibile della sua cultura in
senso lato e finisce col condurre inevitabilmente l’orazione sul terreno a lui
più congeniale: gli umanisti fanno affidamento sui classici latini e, qualche
volta, greci, con attenzione forse più ai filosofi che ai letterati; gli avvocati
sulle maggiori fonti del diritto, canonico e civile; i religiosi sulla Bibbia e
sui Padri della Chiesa. Nessuno tuttavia si esime dalle citazioni bibliche e
dottrinali e spesso assistiamo a dei mix di tutte le componenti che abbiamo
elencato, che sostanzialmente corrispondono al patrimonio culturale comu-
ne più diffuso nell’epoca. La storia naturalmente – sia quella lontana in
chiave di esempi e di paralleli, sia quella più recente in chiave di alta rie-
vocazione di fastigi o di drammatica rappresentazione dei pericoli ancora
incombenti – la fa da padrona, con una specialissima e praticamente inelu-
dibile attenzione all’incubo rappresentato dalla potenza turca, con pressan-
ti richieste di crociata nel nome dell’unità di tutti i principi e popoli cristia-
ni. Anche la mitologia trova spazio, come l’astrologia e la numerologia, e,
naturalmente, l’etimologia, l’ossessione di tutto il medioevo!
Torniamo ai due punti nodali, papa e nazione, e vediamo come gli ar-
gomenti vengono di solito articolati, partendo dalle lodi della realtà politi-
ca per cui si presta l’obbedienza: essenzialmente si fa riferimento ai meriti
che possono essere invocati – dalla nazione in generale e dal principe e dai
suoi antenati o predecessori in particolare – nei confronti della fede e della
sua difesa. Prendiamo un esempio abbastanza semplice, quello di Genova
nell’orazione di Ettore Fieschi ad Innocenzo VIII, così possiamo evitare il
problema di estenderci sulle lodi del principe, che di solito sono più con-
venzionali e presentano minori spunti di interesse, ripercorrendo, a volte,
lunghi lassi temporali e numerosi avvenimenti.
I Genovesi agli occhi della Cristianità possono vantare questi meriti:
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1) sono stati tra i primi popoli in Italia che hanno celebrato pubblicamente
il sacrificio dell’Eucarestia;
2) non hanno mai dato ricetto ad alcuna eresia;
3) non hanno mai permesso agli Ebrei di soggiornare nella loro città;
4) non hanno mai preso le armi contro la Chiesa romana;
5) per la diffusione della fede cristiana hanno partecipato alla conquista di
Gerusalemme, alla conquista e alla difesa di Rodi, alla cacciata dei Tur-
chi da Otranto; hanno convertito alla fede cristiana Greci, Sciti, Armeni,
Cappadoci;
6) sono stati alleati di molti pontefici, li hanno ospitati se cacciati, li hanno
aiutati a risalire sul trono;
7) genovesi sono stati parecchi pontefici e innumerevoli cardinali.

Ecco dunque cosa i Genovesi possono dichiarare, senza tema di essere


smentiti – ho qualche dubbio sul discorso relativo agli Ebrei – all’intera
Cristianità: non sono cose nuove, alcune sono già rivendicate da Jacopo da
Varagine alla fine del Duecento e, cosa che forse è ancora più importante,
continueranno ad essere invocate sino a tutto il Seicento. Mito, tradizione,
realtà storica, mediate dalla cultura, convivono nella costruzione di una im-
magine che dura nel tempo e diventa una sorta di insegna araldica verbale,
un epigrafe di continuo aggiornata!
Naturalmente quando si tratta di un regno vengono posti con gran cu-
ra in risalto anche i meriti del sovrano e dei suoi predecessori, in lunghe e-
lencazioni di fatti storici: rilevanti in questo senso sono le orazioni di Por-
toghesi, Spagnoli e Francesi, oltre a quella, già citata, di Laszlo Vetesy a Si-
sto IV per conto di Mattia Corvino. Non mancano poi riferimenti anche a-
gli aspetti più precisamente territoriali, in una chiave che oggi definiremmo
geo-economica, e sottolineature dell’importanza della posizione geografica
sotto un punto di vista strategico-militare, come fa Giovanni Antonio Ma-
nili18, che declama l’orazione per l’obbedienza ad Alessandro VI della città
di Bertinoro, che ci viene presentata come la ‘chiave’ della Romagna.
Per rimanere nell’ambito di quanto attiene a chi presenta l’obbedienza,
aggiungerò che un passaggio obbligato è costituito dalla rappresentazione
con tinte colorite della gioia suscitata in tutti cittadini dalla notizia dell’ele-
zione del nuovo pontefice: suono di campane, accensione di falò, proces-
sioni, cerimonie religiose, in un crescendo iperbolico, in cui il supremo fa-
stigio penso sia stato raggiunto da Benvenuto di Sangiorgio che fa dire a
Bonifacio marchese di Monferrato: «Ora congeda, o Signore, in pace il tuo
servo, perché i miei occhi hanno visto che alla navicella di Pietro è toccato

18 JOHANNES ANTONIUS MANILIUS, Oratio pro Britonoriensibus ad Alexandrum

VI, Roma, Stephan Plannck, agosto 1492.


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un tale nocchiero»19! Non si può dire che l’adulazione sia assente, ed è for-
se proprio per questo che il nostro Benvenuto di Sangiorgio, che ha dovuto
sottoporre a vaglio la sue parole prima di pronunciarle, ha ritenuto oppor-
tuno nella stampa, dopo la dedica, premettere alla orazione stessa una ora-
tio ad lectorem in cui dà consigli di moderazione e chiarezza a chi deve par-
lare davanti al pontefice e ai cardinali, per essere capito e amato da tutti, an-
che dai semplici e da Dio, bandendo Gnatone dal teatro della retorica: di-
sperato tentativo di credibilità! Lasciamo in pace Benvenuto di Sangiorgio,
che per altro ha composto un’ottima orazione ed è perfettamente in linea
con tutti gli artifici oratori dell’epoca, e torniamo ancora ai doveri formali
di chi porge l’obbedienza, precisando in conclusione che l’oratore non può
esimersi, subito prima della formula sacrale del riconoscimento del ponte-
fice e dell’obbedienza, di dichiarare che tutti i beni e le forze di chi gli ha
affidato questo compito sono a disposizione del pontefice, che ne disporrà
come vorrà.
Veniamo ora alle lodi del pontefice, che si articolano di solito in tre parti:

1) lodi del pontificato;


2) lodi della persona del pontefice;
3) aspettative della Cristianità dalla nuova elezione.

Gli argomenti che attengono alla prima parte – le lodi del pontificato –
si incentrano sull’istituzione in quanto tale, dalle origini ai tempi correnti,
e sulla funzione di vicario di Cristo e di supremo depositario del potere ter-
reno del pontefice, tematiche queste ultime molto preziose per il rafforza-
mento in chiave teocratica del potere del papa e per contrastare le mai so-
pite teorie conciliariste. Contengono spesso anche dissertazioni sulla fun-
zione di Roma caput mundi e sui meriti dei pontefici precedenti, vicini o
lontani nel tempo, e danno occasione agli oratori di fare sfoggio delle loro
conoscenze in ambito religioso, giuridico e storico. Le lodi della persona
del pontefice sono, come è comprensibile, spesso la parte più importante
dell’orazione e partono innanzitutto dalle doti in termini di fede, ma poi
toccano le lodi della patria, quelle della famiglia, quelle delle vicende pre-
cedenti della vita del pontefice – riferite soprattutto all’ambito religioso –,
le qualità morali, intellettuali e di cultura, per giungere fino alle doti esteti-
che vere e proprie. Punto obbligato è anche il riferimento al nome che il
neo-eletto ha scelto come pontefice e, qualche volta, persino all’ordinale di
questo nome. È proprio in questa parte dell’orazione, in genere, che gli o-
ratori fanno sfoggio al massimo delle loro capacità e della loro inventiva,

19 V. nota 4.
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costruendo con cura i periodi in una gradatio così serrata che qualche vol-
ta ci fa venire il fiatone, seminando citazioni e figure retoriche a ogni piè
sospinto, non riuscendo mai ad accontentarsi dei superlativi! (Vi confesso
che, nella prima lettura di certe orazioni di obbedienza, giunto al punto del-
le lodi del pontefice la mia sensazione era quella di trovarmi in bicicletta su
per un passo dolomitico – non sono un ciclista! – e mi chiedevo: «ma come
farà, più avanti, a dir di più»? Con questo tuttavia non voglio nascondere di
aver spesso apprezzato molto l’ingegnosità e l’estro, oltre alla cultura, de-
gli autori!)
Meno affannosa, di solito, risulta la lettura della parte riferita alle a-
spettative della Cristianità in seguito all’elezione del nuovo pontefice. Non
mancano certo le iperboli e i superlativi si sprecano, ma il periodare è più
disteso e l’intenzione di essere ben capito da parte dell’oratore appare più
evidente: è proprio questo il punto in cui possono essere avanzate proposte
di politica estera, naturalmente presentandole sotto la luce degli interessi
supremi della Cristianità. È il punto dove normalmente si invoca la crocia-
ta contro il Turco e la pace e la concordia per i principi cristiani, ma dove,
anche, l’oratore delinea quello che di massima può essere considerato il
programma di politica estera della realtà politica che rappresenta. A volte
può anche accadere che qui si abbandoni il tono encomiastico e ci si per-
metta, naturalmente sempre nell’ambito del rispetto, di stimolare il pontefi-
ce a compiere i suoi doveri di supremo pastore e di nocchiero della navi-
cella di san Pietro: lo fa Laszlo Vetesy, lamentando che il suo sovrano è sta-
to lasciato solo a reggere il peso delle offensive turche e, per di più, deve
combattere anche contro l’ostilità del re di Polonia. Il nostro oratore non ri-
sparmia a Sisto IV ed ai cardinali i toni polemici: «oppure pensate forse che
non vi riguardino per nulla i danni e i pericoli dei vostri fedelissimi alleati,
dei vostri fidatissimi amici e del popolo ungarico che ha ottimamente me-
ritato della Repubblica Cristiana? Senza dubbio siete vittime di una falsa o-
pinione se così pensate. Infatti non dovrei forse considerare salvezza del-
l’Italia e garanzia per gli Italici anche la ricchezza e la fedeltà, l’autorità e
la benevolenza degli amici, in primo luogo degli Ungheresi che, chiara-
mente, più di tutti i Cristiani si sforzano di spezzare con ogni mezzo l’im-
mensa potenza dell’empia gente dei Turchi»20? E l’oratore continua facen-
do riferimento alla determinazione dei Romani nella tutela del proprio no-
me e nel sostegno agli alleati, citando la distruzione di Corinto etc. In ge-
nerale però dobbiamo dire che gli oratori fanno a gara nel dimostrare la lo-
ro erudizione, le loro abilità retoriche e la loro efficacia nell’escogitare for-
me di laudatio sempre più sofisticate: non è soltanto il desiderio di figura-

20 MARTIGNONE, L’orazione di Ladislao Vetesy cit., p. 238.


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re al meglio nella più alta arena oratoria, ma probabilmente la consuetudi-


ne di affidare alla stampa le orazioni contribuisce notevolmente ad istituire
una sorta di agone permanente, molto più stimolante della notizia orale e
del manoscritto, per la circoscritta persistenza nel tempo offerta dalla prima
e per la limitata diffusione quantitativa caratteristica del secondo. Esistono
altresì anche orazioni, piuttosto poche a dire il vero, di minor impegno, in
cui gli oratori si limitano ad adempiere ad un dovere formale, cavandosela
in maniera piuttosto sbrigativa e bisogna ricordare inoltre che qualche reli-
gioso si astiene dagli eccessi laudatori della persona del pontefice in nome
della propria condizione.
Ancora due brevi cenni di carattere generale, prima di passare alla fi-
gura di Alessandro VI: i cardinali sono sempre associati al pontefice nelle
invocazioni, ma non ricevono che l’attenzione di qualche aggettivo lauda-
torio o di poche locuzioni; alla fine dell’orazione, dopo aver prestato l’ob-
bedienza ed aver messo a disposizione del pontefice ogni risorsa, si chiede
la conferma dei privilegi concessi a chi si rappresenta dai pontefici prece-
denti e, se possibile, l’aumento di questi.
Ho detto di aver identificato 17 orazioni relative ad Alessandro VI: mi
limiterò ad elencarle in nota21 e mi soffermerò invece su come la figura di
questo pontefice viene rappresentata, cogliendo, per dir così, fior da fiore e
procedendo con citazioni in maniera asistematica, in modo da lasciare che
gli oratori della fine del Quattrocento trovino attraverso la mia voce un ca-
nale di comunicazione diretto. Potremmo cominciare dicendo che non ci
sono parole per elogiare Alessandro VI, lo dice il giureconsulto Pietro Ca-
ra per conto del duca di Savoia, anche se in realtà di parole ne trova ecco-
me: «Quae enim maior foelicitas Christianis populis contigere potest quam
principem et universalis Ecclesiae regem nancisci iustum in primis atque
fortem, tum magnificum, pium, clementem, liberalem, sanctum, multarum
maximarumque usu callentem, qui sciat, qui possit, qui velit Reipublicae
Christianae decus atque dignitatem sustinere, ornare, augere, amplificare?
Is Tu unus Alexander, divina sorte, divinis consiliis veluti e coelo missus
saeculo nostro apparuisti. Quo duce, quo pastore, quo pontifice laeta omnia
Christianis principibus et populis sunt speranda. Nemo est enim qui nesciat
in Te uno summum esse ingenium, summum consilium, summam animi
magnitudinem, summam aequitatem, summam religionem, summam rerum

21 Repubblica di Bologna, Repubblica di Firenze, Repubblica di Genova, Re-

pubblica di Lucca, Repubblica di Siena, Repubblica di Venezia, Marchesato del


Monferrato, Marchesato di Mantova, Ducato di Savoia, Ducato di Milano, Ducato
di Ferrara, Città di Bertinoro, Regno di Napoli, Ducato di Lituania, Re del Porto-
gallo, Sovrani di Spagna, Cavalieri di Rodi.
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252 FRANCO MARTIGNONE

omnium experientiam et demum Te illum esse in quo virtutes omnes suum


collocasse domicilium videantur […]. Non nam ad cibum, ad potum, ad ti-
tillantem prurientemque corporis voluptatem nati sumus, verum (ut soles
dicere) ad decus, ad dignitatem, ad labores, ad iustitiam, ad aerumnas etiam
pro iustitia perferendas […] et Te tandem verum Alexandrum Magnum
pontificem maximum, terrarum mundique regem et Christi vicarium omnes
salutent et adorent»22 (arriva a cambiare il nome del pontefice!!!). Qualche
parola dunque è necessario spenderla perché – come dice Rutilio Zenone
dopo aver definito Alessandro «universi generis humani novum et mirabi-
le sidus, lumine incredibili micans ardentissimae religionis dulcissimaeque
sanctimoniae tuae» e averlo lodato a lungo per conto di Ferdinando di Na-
poli –: «Cumulus namque amplissimus laudum tuarum, Beate Pater, eius-
modi est ut vix illae quidem oratione cuiusque perstringi possint»23! Anche
a Nicola Tigrini (per la Repubblica di Lucca) le parole non mancano: «Quid
innumerabiles virtutes tuae cuncto orbi notae? Quid maxima doctrina cum
longa rerum experientia coniuncta? Quid religio a teneris annis imbuta ad
hanc usque perfectissimam aetatem continuata? Quid naturalis bonitas et li-
beralitas polliceri aliud debent aut possunt? Quam cum supremae dignitatis
cumulo ea omnia suprema cumulataque in religionis Christianae capite fu-
tura? Quid istud Alexandri divinitus impositum nomen et animi tui magni-
tudini conveniens, nonne victoriam adversus omnes Catholicae fidei hostes
promittere videtur? Nam quanto superat Alexander Maximus Magnum,
quantoque maius est Romanorum esse principem quam Macedonum, et
quanto excellentius est Dei omnipotentis vicarium quam hominum regem
esse, quantoque dignior est pontificalis a Deo potestas quacumque terrena
dignitate, tanto magis sperandum, immo credendum, Christianorum impe-
rium religionemque ipsam non solum firmam solidamve futuram, sed om-
nes Orientis populos sub Alexandri Maximi pontificis ductu atque auspicio
ad sacratissimam sanctissimamque fidem nostram redituros»24. Se il Cara
ha cambiato il nome del pontefice in Alessandro Magno, il Tigrini fa di più,
lo cambia in Alessandro Massimo, anticipando l’aggettivo rispetto al so-
stantivo nella locuzione pontifex maximus!!! E continua il nostro: «Quid i-
ste tuus divinus et maiestate plenus aspectus? Quid vultus et facies venera-
bilis? Nonne omnes qui intuentur ad quaeque maxima capescenda incitare
videtur? Si enim Caium Iulium Caesarem Hispaniae questorem (unde Tibi

22 PETRUS CARA, Oratio ad Alexandrum VI, Roma, Stephan Plannck, dopo il 21

V 1493.
23 RUTILIUS ZENO, Oratio pro Ferdinando Italo Rege ad Alexandrum VI, Roma,

Stephan Plannck, dopo il 21 XII 1492.


24 NICOLAUS TIGRINUS, Oratio pro Lucensibus ad Alexandrum VI, Roma, An-

dreas Fritag, dopo il 25 X 1492.


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LE ‘ORAZIONI D’OBBEDIENZA’ AD ALESSANDRO VI 253

origo est, Beatissime Pater!) sola Alexandri Magni vel statua vel inanis pic-
tura apud Gades conspecta ad eius magnifica gesta imitanda commovere
potuit, quid non effictam, sed veram vivamque Alexandri Maximi effigiem
effecturam credimus»? Ci si arrampica davvero sugli specchi!
Con queste ultime parole siamo entrati nel campo delle lodi dell’a-
spettto, affrontato anche da altri oratori: «Visa pulcherrima tui corporis
maiestate totaque eius harmonia equaliter referenti harmoniae caelesti»
(Giovanni Manili)25; «Accessit formae ellegantia, quae virtuti suffragium
addit: lata frons, regium supercilium, facies liberalis et tota maiestatis ple-
na, ingenuus et heroicus totius corporis decor, ut appareat naturam quoque
formae dignitatem indulxisse» (Giason del Maino)26. Potrei continuare con
le citazioni ma, se da una parte tutto sommato una citazione fuori dal con-
testo dell’insieme dell’orazione non rende giustizia a chi l’ha scritta, per
quanto chi si serve della citazione cerchi di non tradire l’intento dell’auto-
re, dall’altra mi pare di aver ormai parlato abbastanza, anche se non ho di-
chiarato che mi mancavano le parole, come fece il già lodato Cara!
Lasciatemi solo ancora dire che il riferimento ad Alessandro Magno è
un topos per quasi tutti gli oratori e segnalare che il Tigrini riesce a trova-
re un segno del destino anche nell’ordinale – VI – di Alessandro: «Senarius
numerus qui Alexandri nomini additur et in musicis, arithmetica et sacris
litteris perfectionem tenet»27, lanciandosi in una dotta argomentazione. A-
vrei forse dovuto prendere in esame con più cura l’orazione di Giason del
Maino, che è senz’altro una delle migliori, se non la migliore, ma penso sia
meglio rinviare l’operazione all’edizione dell’orazione stessa. Se sommia-
mo le lodi presenti nei diversi testi viene fuori purtroppo un’immagine ste-
reotipa di un pontefice dotato di ogni possibile virtù, inviato da Dio per sal-
vare la Cristianità dai nemici della Fede e per pacificarla, che già dalla più
giovane età ha cominciato a porre le basi per assumere sulle sue spalle il pe-
sante fardello che ora porta, chiamato a questo supremo compito dall’una-
nime volontà dei cardinali nel segreto del conclave, affermazione che ri-
corre in quasi tutte le orazioni. Sappiamo bene che non è andata così e co-
sì possiamo immaginare che molte delle doti attribuite ad Alessandro non
esistessero affatto, tuttavia penso di poter segnalare almeno un paio di ele-
menti abbastanza costanti, anche se non si tratta certo di novità eclatanti: la
profonda connotazione di uomo d’azione accompagnata da una grande e-
sperienza dei pubblici maneggi e il possesso di una viva intelligenza ac-
compagnata da una prodigiosa memoria, doti raramente congiunte in un’u-
nica persona, come ci dice Giason del Maino28.

25 V. nota 18.
26 V. nota 7.
27 V. nota 24.
28 V. nota 7.
Cap. 10 Martignone 237-254 13-09-2002 13:00 Pagina 254

254 FRANCO MARTIGNONE

Temo con ciò di aver contribuito poco o nulla a gettare nuova luce sul-
la figura del pontefice, ma almeno un pochino sulle orazioni d’obbedienza
ai pontefici.
Cap. 11 Haywood 255-274 13-09-2002 13:24 Pagina 255

ERIC HAYWOOD

Disdegno umanista?
Alessandro VI di fronte all’Irlanda

Quando doveva prendere decisioni importanti, Alessandro VI, a quan-


to pare, era sempre ‘titubante’ e ‘pauroso’1. Nel 1494 Enrico VII d’Inghil-
terra lo sollecitò perché facesse canonizzare Enrico VI, ‘martire’ della
Guerra delle Due Rose, ma il papa si mostrò esitante e raccomandò all’ar-
civescovo di Canterbury e al vescovo di Durham, ai quali aveva affidato l’e-
same della causa, di procedere con la massima cautela:

mature, graviter, et accurate procedere intendentes [...] committi-


mus et mandamus, quatenus, [...] diligenter, solerter, prudenter,
caute, et mature inquiratis, testes legitimos recipiatis, et praestito
prius per eos debito juramento, diligenter examinare curetis de lo-
co, tempore, mense, die, nominibus, cognominibus, causa scien-
tiae, aliisque circumstantiis in talibus necessariis et requisitis fide-
liter inquirentes2.

La creazione di un santo, è chiaro, non è una questione da liquidare in


pochi istanti, ma non lo è neanche la condanna di un rito che dura da secoli,
eppure in quello stesso anno Alessandro, seguendo il suggerimento di un
semplice monaco olandese, fece distruggere il Purgatorio di s. Patrizio, quel
‘pozzo’ in un’isola del Lough Derg, nell’odierna contea di Donegal in Irlan-
da, che, secondo la tradizione, comunicava coll’altro mondo e che il santo ir-
landese avrebbe scavato per convincere coloro che provava a convertire alla
verità delle fede cristiana. La leggenda del pozzo (che in italiano ha dato l’e-
spressione ‘pozzo di s. Patrizio’) ci è raccontata da Jacopo da Voragine:

Il beato Patrizio predicava in Irlanda ma si accorgeva che ben po-


chi erano i frutti della sua predicazione: si mise allora a pregare
Iddio perché si manifestasse con un segno tale da spaventare la
popolazione e indurla a penitenza. Dio gli ordinò di tracciare col

1 Enciclopedia Italiana, II, 1949, p. 343 (ad vocem «Alessandro VI»). Lo stes-

so ha sostenuto il prof. R. De Maio nel corso della sua brillante relazione su Ales-
sandro VI e Savonarola presentata alla sessione romana di questi Incontri di Studio.
2 Alexandri VI papae commissio ad inquirendum de vita, moribus, et miraculis

regis Henrici sexti, in D. WILKINS, Concilia Magnae Britanniae et Hiberniae, III,


rist. Bruxelles 1964, (Londra 1737), p. 640.
Cap. 11 Haywood 255-274 13-09-2002 13:24 Pagina 256

256 ERIC HAYWOOD

bastone un gran cerchio sulla terra. Ed ecco che la terra si aprì se-
guendo quel tracciato ed apparve un grande e profondissimo poz-
zo: seppe poi Patrizio per rivelazione divina che quel pozzo era
una specie di Purgatorio e chi voleva discendervi non avrebbe a-
vuto a soffrire altra penitenza dopo la morte3.

Meta di pellegrinaggio tra le più importanti d’Europa, a coloro che vi


penetravano, per sperimentare le pene dell’aldilà, il Purgatorio di s. Patrizio
prometteva, dunque, eterna salvezza. L’avevano visitato in tanti – alcuni la-
sciando interessanti resoconti di quanto avevano visto e fatto – e dopo più
di tre secoli (esisteva non dai tempi di s. Patrizio, cioè dal V secolo, ma dal
XII secolo), la sua attrattiva non accennava a diminuire4. Però (o perciò?)
quando fu riferito ad Alessandro che chi cercava di accedervi doveva subi-
re i soprusi di preti simoniaci, il papa comandò seduta stante che il pozzo
fosse distrutto «funditus», il che, grazie allo zelo del monaco che aveva
sporto la denuncia, fu fatto senza indugio. Così almeno viene riferito da
un’appendice alla vita di s. Patrizio – ricavata (dice l’autore, senza precisa-
re meglio) «ex quodam vetusto codice» – che si può leggere negli Acta
sanctorum dei Bollandisti:

Anno Domini MCCCCXCIV, Alexandro VI Praesidente Roma-


nae Ecclesiae, Maximiliano vero regnante in regno Romano, Ka-
rolo Francorum Rege intrante regnum Neapolitanum, sub Archi-
duce Philippo Regis Maximiliani filio, et praesidente Ecclesiae
Trajectensi Davide de Burgundia, erat quidam monachus sive Ca-
nonicus Regularis in partibus Hollandiae, monasterio Eymsteede;
devotus Deo, regulae suae et statutorum capituli sui de Winde-
shem diligentissimus observator. Hic cum diu fuisset in Ordine,
et prae ceteris sui conventus Fratribus se mortificationi, orationi,
et similibus exercitiis propensius mancipasset; quo spiritu nesci-
tur ductus, petiit opportune et importune licentiam sibi dari a Su-
perioribus arctiorem Ordinem intrandi, aut tamquam pauper
mendicus per provincias peregrinandi.
Obtento tandem desiderio, diversas mendicando Christianorum
patrias et regiones ingressus est, venitque tandem in regnum Hi-
berniae, ut videret et etiam intraret Purgatorium S. Patricii, de quo

3 JACOPO DA VARAGINE, Leggenda aurea, traduzione di C. LISI, I, Firenze 1990,

p. 231.
4 Sul Purgatorio di s. Patrizio cfr. L. FRATI, Tradizioni storiche del Purgatorio

di San Patrizio, «Giornale storico della letteratura italiana», 17 (1891), pp. 46-79, e
The Medieval Pilgrimage to St. Patrick’s Purgatory. Lough Derg and the European
Tradition, a cura di M. HAREN-Y. DE PONTFARCY, Clogher 1988.
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multa narrantur. Perveniens autem ad locum et monasterium, ubi


dicebatur illius introitus esse, locutus est cum Praesidente loci il-
lius, reserans illi desiderium suum. Qui misit illum ad Diocesa-
num, dicens sibi illicitum esse quemlibet introducere sine assen-
su Pontificis sui. Adiit Episcopum: et, quoniam pauper erat et si-
ne pecunia, vix a ministris admissus est: provolutusque genibus
Episcopi petiit sibi licentiam dari intrandi purgatorium S. Patricii.
Episcopus vero petiit summam quamdam pecuniae, quam ab in-
trantibus jure sibi deberi dicebat. Cui Frater respondit, se paupe-
rem esse, nec habere pecunias; quas etiamsi haberet, propter le-
pram simoniae ob id obtinendum tribuere non auderet. Post mul-
tas tandem preces devicit Episcopum, et litteras quasdam admis-
sionis exhibuit, mittens eum ad Principem territorii illius, ut et il-
lius licentiam obtineret. Qui etiam nummos expetiit; quos cum
extorquere a non habente non posset, finaliter tamen, etsi diffi-
culter, admisit eum. Rediens igitur ad Priorem loci Purgatorii, lit-
teras Episcopi et Principis illi obtulit; quibus lectis Prior ait ad il-
lum: Oportet Frater ut et monasterio nostro solitam stipem im-
pendas certam illi summam denuntians. Cui Frater respondit, se
pecunias non habere, qui mendicus esset; sed nec dare pro hujus-
modi sibi licere, quia simoniacum esset: sed se petere propter
Deum ad locum famosissimum pro salute animae suae introduci.
Praecepit igitur Prior Sacristae suo, ut illum ad locum introduce-
ret. Frater vero Confessione facta et sacrosancto Dominico Cor-
pore sumpto, prout alios quondam fecisse ante introitum laci il-
lius legerat in codicibus, a Sacrista per funem in lacum quemdam
profundum demissus est. Deinde, cum ibidem jam esset, porrexit
illi per funem modicum panis, et vasculum aquae, quo reficeret,
contra daemones praeliaturus.
Sedit igitur in lacu per totam noctem tremens et horrens; sed et i-
gnitas preces Domino offerens, per singula pene momenta dae-
mones adventuros horrescens. Cumque a vesperi sedisset usque
ad mane, sole jam orto, venit Sacrista ad orificium laci, advocans
illum, et funem pro extractione illius submittens. At Frater ille ad-
miratus est valde, eo quod nihil vidisset, audisset, vel pertulisset
incommodi aut afflictionis; et varia revolvit in animo super his,
quae legerat et audierat de hoc Purgatorio: nesciebat enim quod
antiquum miraculum, jam fide firmata, cessaverat; verumtamen
incolae loci, ob quaestum et nummos, purgationem peccatorum
inibi adhuc fieri advenientibus asserebant. Perscrutatis igitur om-
nibus, et illusionem hanc simplicium aboleri cupiens Frater su-
pradictus, Hiberniam exiens Romam petiit; et, cum Summo Pon-
tifici appropinquare non posset, Poenitentiario ejus, viro satis ho-
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nesto et ecclesiastico, cuncta quae acciderant enumeravit; petens


ut haec Domino Papae significaret. Ad quod ille se spontaneum
obtulit, accepta firmissima fide sive juramento a Fratre, quod
haec se ita haberent. Accessit igitur Poenitentiarius ad Summum
Pontificem, et cuncta illi manifestavit: qui graviter tulit taliter
simplices decipi, et praecepit Poenitentiario, ut litteras mitteret si-
gillo Apostolico munitas ad Episcopum, Principem et Priorem lo-
ci illius: praecipiens illis, ut locum illum, in quo quondam introi-
tus fuerat ad Purgatorium, quod S. Patricii dicitur, funditus ever-
terent, et eversum esse suis litteris et sigillis, per eumdem suarum
litterarum portitorem certificarent. Remissus est ergo supradictus
Frater a Papa ad Hiberniam Apostolica deferens scripta: quibus
visis Princeps Provinciae, una cum Episcopo et Priore, locum il-
lum fallaciae destruxerunt, et destructum per sua scripta, nuntio
praedicto eadem referente ad curiam Summo Pontifici notificave-
runt5.
Come si spiega il paradosso di un papa che «pecuniae omnes vias no-
vit» (per citare un cronista contemporaneo)6, eppure diede prova di tanta ri-
pugnanza per la «lepra simoniae», che «non fece mai altro, non pensò mai
ad altro che ad ingannare uomini» (per dirla col Machiavelli)7, eppure di-
mostrò tanta sollecitudine per i «simplices» truffati dalla Chiesa, che rac-
comandava ai suoi ministri di comportarsi «mature, graviter, accurate, dili-
genter, solerter, prudenter, caute et fideliter», eppure era capace di agire con
tanta risolutezza? C’è chi, nemico dichiarato (in pieno periodo risorgimen-
tale) dell’«agonizzante papismo», ha voluto vedervi una tipica prova dell’i-
pocrisia della Chiesa, così come nella storia del Purgatorio di s. Patrizio ha
creduto di notare i segni della caratteristica pecoraggine dei cattolici, e in
particolare dei cattolici irlandesi:

L’Irlanda fu il suolo ubertoso ove la teorica del Purgatorio pro-


dusse la piú larga messe, e valse a trascinare nella trappola del
Romanesimo quel popolo di Mamelucchi. Un cotale Santo Patri-
zio, spedito in quell’isola onde ridurla alla religione di Cristo, se-
condo le mire del Vescovo Celestino, invece di predicare la verità
del Vangelo si fece apostolo di menzogne. Per vincere la ritrosia
di quei pecoroni d’Ibernia ad abbracciare il nuovo rito, quel
sant’uomo si avvalse dell’inganno e della fraude. Gl’Irlandesi o-
5Acta sanctorum martii, II, Venezia 1735, p. 590.
6SIGISMONDO DE’ CONTI DA FOLIGNO, Le storie de’ suoi tempi dal 1475 al 1510,
II, Roma-Firenze 1883, p. 270.
7 NICCOLÒ MACHIAVELLI, De principatibus, a cura di G. INGLESE, Roma 1994,

p. 265 (cap. XVIII).


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stinavansi a non voler credere ai tormenti della vita avvenire: Pa-


trizio un giorno fruga e rifruga col bastone la terra, (presso il fiu-
me Dorget vicino al Lago Earn, nella contea Dungal, provincia
d’Ulster) ed apre una profonda voragine che predica comunica-
zione col mondo futuro. Un certo milite per nome Egneo si prof-
fre a verificare la veridicità dell’asserto, e fatte le sollennità rituali
si fece discendere in quel pozzo miracoloso. La mattina dopo il
seguente giorno riappare a quell’orrida buca, ove l’attendevano
l’Abate Patrizio ed i santi monaci, ansiosi di conoscere qual’esi-
to avrebbesi avuto il fantastico pellegrinaggio.
Dopo i ringraziamenti e le cerimonie di costume in simili casi
straordinari, Egneo raccontò, come appena disceso nel pozzo udì
urli demoniaci, e vide ceffi patibolari che lo sforzavano a tronca-
re indietro; ma incolleriti alla insistenza di lui a voler procedere
più innanzi, l’afferrarono e lo scagliarono in una fornace ardente
per fargli assaporare i tormenti che colà soffrivansi. Allora egli
schiamazzò ed urlò come un lunatico, invocando il nome di Cri-
sto Gesù, e fu salvo miracolosamente da quella tortura. Indi a po-
co condotto in un luogo di tenebre densissime vide i più squisiti
dolori, ed avvicinatosi ad una casa aperta osservò che il pavi-
mento di essa consisteva in alquante voragini piene, ondegginati
di piombo bollente, ove le anime dei defunti stavano tuffate per e-
spiare le colpe commesse vivendo. Varcata poscia una fiumana di
fuoco e di zolfo per un ponte che la traversava cavalcioni, trovò
all’altra riva un prato amenissimo d’erbe e di fiori, ove disposta
ad incantevole panorama sedeva una magnifica città colle mura a-
damantine e colle porte di perle. Sugli spaldi di essa difilarono in
bella ordinanza legioni di angioli e coorti di beati, che dopo es-
sersi secolui congratulati del saggio di fede vivissima addimo-
strato, lo invitarono [...] a rifare i suoi passi per meglio assapora-
re le angustie della vita!!!
Cotale novella, degna piuttosto delle mille ed una notte anziché
della severa storia, fu reputata in Irlanda una veridica narrazione,
quasi parte del Vangelo, fino all’anno 1494; e costituiva il cespi-
te principale di cui usufruivano i monaci di quell’opulento ceno-
bio. Però nell’anno sudetto un canonico Olandese, invidioso dei
ricchi emolumenti che gocciolavano nello scrigno di quei santi
monaci, sotto aspetto di pietà, si fece discendere nel santo pozzo;
e tornato alla luce riferì al santissimo Alessandro VI di non do-
versi più tollerare quella pia fraude, perché ne veniva disdoro al-
la Chiesa universale, ed esclusivo il guadagno ai custodi di quel
luogo. Il virtuosissimo vicario di Dio, per misericordia delle bor-
se dei preti di Olanda, non si fece ripetere due volte il saggio con-
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siglio, e coll’animo indignato ordinò si riempisse di terra la im-


boccatura dell’altro mondo8.

A prescindere da qualsiasi spirito di parte – ma, sia detto per inciso,


l’opera da cui è tratto il brano testè citato (opera intitolata Il purgatorio e la
supremazia del papa e scritta da un tale Giuseppe Larcan, che «non [vuo-
le] nè [può] sottometter[si] al Papa di Roma, verme superbo che merita ab-
bominio ed anatema»)9 è degna di essere letta, non solo per la sua curiosa
stravaganza, ma anche per la squisita erudizione dell’autore, impudente
Jacques Le Goff avant la lettre –, tanto scetticismo a proposito della storia
del Purgatorio di s. Patrizio sembra ampiamente giustificato, se, oltre al-
l’improbabile condotta del «virtuosissimo vicario di Dio», si considera che
in realtà il pellegrinaggio irlandese non fu mai interrotto e che continua
tutt’oggi – pur non offrendo più visioni (e, a dire il vero, le visioni ‘cessa-
rono’ proprio sul finire del ‘400) – a richiamare migliaia di pellegrini ogni
anno (per la maggior parte, ormai, irlandesi), a dispetto di ben tre altre
‘chiusure’ avvenute nel 1632, nel 1704 e nel 1727. Solo alcuni anni dopo la
presunta distruzione alessandrina (e più precisamente nel 1517) lo visitò
perfino un nunzio pontificio – l’umanista Francesco Chiericati (nunzio
presso la corte di Enrico VIII d’Inghilterra), il quale, approfittando di una
temporanea assenza del sovrano da Londra, si recò in Irlanda apposta per
soddisfare la curiosità, sua e della sua protetrice, Isabella d’Este (cui aveva
promesso di riferire «quanto [aveva] trovato de le fabule, che se dice de l’i-
sola de Hibernia et del Pozzo de s. Patrizio») a proposito del Purgatorio, an-
che se all’ultimo momento fu preso dalla paura e preferì non penetrarvi,
giudicando tuttavia di aver sofferto ugualmente le pene dell’inferno («la
maior penitentia la fu mia a doversi expectare quasi per dieci giorni, ne li
quali ne manchò gran parte da la victuaglia»), ma ritornando ad ogni modo
contento a Londra, perché, da buon turista italiano (plus ça change ...!), a-
veva potuto pescare e gustare dell’ottimo salmone («El bon Epo ne acceptò
gratissimamente et mi fece haver piacer assai de pescare. Ivi per un dinaro
si ha un salmone, che pesava cinquanta libra, che in Italia valaria molto et
saria in gran existimatione»)10. Meno pauroso e più incredulo del Chierica-
ti, lo avrebbe invece visitato – assicurandogli ciò rinnovata fama – l’ante-
nato (leggendario) di Isabella d’Este, Ruggiero, il quale, quasi contempora-
8 G.R. LARCAN, Il Purgatorio e la supremazia del Papa, Messina 1865, pp.

305-308. Il «milite Egneo», le cui avventure sono qui descritte, sarebbe il cavaliere
Owein, il primo pellegrino nella storia del Purgatorio di s. Patrizio di cui si sia a co-
noscenza; il suo pellegrinaggio, descritto nel Tractatus de Purgatorio Sancti Patri-
cii (cfr. infra nota 27) sarebbe in realtà avvenuto nel XII secolo.
9 Ibid., p. 575.
10 La lettera di Francesco Chiericati a Isabella d’Este è citata in B. MORSOLIN,

Francesco Chiericati, Vescovo di Vicenza, Vicenza 1873, pp. 87-92.


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neamente al nunzio pontificio (per modo di dire – è del 1516 la prima edi-
zione dell’Orlando furioso),

vide Ibernia fabulosa, dove


il santo vecchiarel fece la cava,
in che tanta mercé par che si truove
che l’uom vi purga ogni sua colpa prava11.

Nonostante tutto ciò, la chiusura del Purgatorio di s. Patrizio, per ordi-


ne di Alessandro VI – ma nel 1497, invece che nel 1494, perché così dice
una fonte (irlandese) contemporanea – viene considerata oggi come un da-
to di fatto. Nella Enciclopedia Cattolica, per esempio, si legge che

la leggenda patriziana, considerata una delle fonti dell’Inferno


dantesco, di seicento anni posteriore a S. Patrizio, è dovuta al mo-
naco inglese Enrico di Saltrey; narra che il santo volendo dissi-
pare l’incredulità di taluni irlandesi circa le pene di oltretomba
ebbe dal Signore mostrata una caverna che immetteva negli infe-
ri: chi vi si fosse trattenuto un giorno e una notte con fede avreb-
be ottenuto il perdono dei peccati e, perseverando nel bene, l’e-
terna salvezza. La caverna, murata nel 1497 per ordine di Ales-
sandro VI, si trova in un’isola del Lough Derg12.

Lo stesso afferma la New Catholic Encyclopaedia: «Alexander’s order


(1497) to close the cave was carried out to the letter»13. Vi fa anche riferi-
mento Jacques Le Goff, pur con più cautela, dicendo semplicemente, ne La
nascita del Purgatorio, che «le pape Alexandre VI condanna [le pélerinage]
en 1497»14; e lo storico più esperto in materia, dal punto di vista irlandese,
giudica l’episodio «wholly verisimilitudinous» («del tutto verosimile»), an-
che se sostiene di essere alquanto sorpreso dalla premura con cui gli irlan-
desi obbedirono al papa (laddove avrebbe dovuto sorprenderlo di più, for-
se, la fretta con cui il papa si lasciò convincere dal frate olandese)15. Che gli
irlandesi obbedirono al papa, facendo ‘distruggere’, nel 1497, il Purgatorio

11 Orlando furioso, 10, 92, 1-4.


12 Enciclopedia Cattolica, IX, Città del Vaticano 1952, p. 969 (ad vocem «Pa-
trizio»).
13 «L’ordine di Alessandro (1497) di chiudere la caverna fu eseguito alla lette-

ra»: New Catholic Encyclopaedia, XI, Washington D.C. 1967, p. 1039 (ad vocem
«Purgatory, St. Patrick’s»).
14 J. LE GOFF, La naissance du Purgatoire, Paris 1981, p. 268.
15 M. HAREN, The Close of the Medieval Pilgrimage: the Papal Suppression

and its Aftermath, in The Medieval Pilgrimage cit., pp. 190-201 (p. 190).
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di s. Patrizio, lo si desume dalla fonte irlandese sopraccennata, vale a dire


dagli Annali d’Ulster, che costituiscono, allo stato attuale delle ricerche,
l’unica testimonianza concreta che l’evento sia effettivamente avvenuto16.
Di altre prove (a parte il racconto degli Acta, che non è da escludere sia il
frutto della fantasia di qualche falsario) per ora non disponiamo. Mancano
in particolare delle prove di provenienza romana, malgrado i tentativi fatti
da chi scrive e da altri studiosi per reperire, negli archivi vaticani, almeno
le tre bolle («litterae sigillo apostolico munitae») fatte recapitare – a fidar-
si degli Acta – dal sommo pontefice, per mezzo del monaco olandese, alle
persone senza il cui mercanteggiato assenso non era possibile (se non si a-
veva la cocciutaggine di un frate olandese) avvicinarsi al Purgatorio di s.
Patrizio: il principe (gaelico) nel cui territorio era situato, il vescovo (di
Clogher) dalla cui diocesi dipendeva e il priore dei frati agostiniani che ne
erano i guardiani. Naturalmente, il fatto che non si sia riuscito finora a rin-
tracciare tali prove non significa che non esistono. Anzi, visto lo stato poco
avanzato dello spoglio dei regesti relativi agli anni del pontificato di Rodri-
go Borgia (nonché di altri fondi pertinenti a quel periodo), non è da scarta-
re l’ipotesi che siano nascoste da qualche parte. Va notato però che, secon-
do un libro recentissimo, in cui sono elencate tutte le bolle papali riguar-
danti gli agostiniani emanate tre il 1492 e il 1572 – e ricordiamo che il Pur-
gatorio di s. Patrizio era sotto la tutela di un convento di Agostiniani –, l’u-
nica bolla in cui Alessandro VI dimostri di preoccuparsi dei fatti agostinia-
ni d’Irlanda è quella, del 1493, che tratta non del comportamento poco de-
coroso dei frati di Lough Derg – si badi però che, poco dopo, il priore ge-
nerale degli Agostiniani avrebbe ordinato agli Agostiniani d’Irlanda «ut [...]
debeant reformare conventus eorum ad communem vitam, et ub abiciant su-
perflue, quod si non fecerint reservavimus nobis eorum punitionem»17 –,
bensì dei malanni di un frate monoculare della regione di Galway:

18 Martii 1493 – «Apostolicae Sedis copiosa benignitas». Thad-


daeo Occellady [O’Kelly], Ordinis Eremitarum Sancti Augustini
professori. Cum eodem, qui defectum in oculo sinistro patitur, di-
spensat ut ad omnes sacros ordines promoveri valeat, ut ministe-
rium sacrum exercere possit in conventu de Dinnor [Dunmore],
Ordinis Eremitarum Sancti Augustini, in quo ipse professionem
emiserat. Examinatio Romae, ubi ipse de consensu suorum supe-
riorum ad praesens morabatur, facta fuerat a Marino, episcopo de
Glaudères, ad hoc delegato ab Ascanio Maria, diacono cardinali

16 Ibid.,
p. 195.
17
F.X. MARTIN-A. DE MEIJER, Irish Material in the Augustinian Archives, Ro-
me, 1354-1624, «Archivium Hibernicum», 19 (1956), pp. 61-134 (p. 108).
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S. Viti et S. R. E. vice-cancellario. Datum Romae, apud Sanctum


Petrum, anno incarnationis Dominicae millesimo quadringentesi-
mo nonagesimo secundo, XIV Kalendas Aprilis, anno primo18.

Se rientravano nelle preoccupazioni papali le pene transitorie di una


singola persona, non potevano non rientrarvi quelle eterne di tante. È stra-
no quindi che sussista solo la prova relativa a un fatto di portata particolare
ma manchino quelle relative a un fatto di interesse più generale, e sembre-
rebbe logico dedurne che Alessandro VI non ebbe mai, in realtà, l’occasio-
ne di interessarsi del Purgatorio di s. Patrizio. A rendere plausibile un ordi-
ne di chiusura del Purgatorio irlandese da parte di Alessandro, però, vi è il
fatto che esso sarebbe coinciso con il periodo in cui, più che in qualsiasi al-
tro momento del suo pontificato, il papa poté e dové rivolgere la sua atten-
zione (prima che lo assillassero pensieri, diciamo, più concreti – personali
e familiari), oltre che a questioni attinenti ad un rinnovamento ecclesiastico
e all’evangelizzazione di terre lontane, a questioni di pertinenza, per l’ap-
punto, ‘britannica’. È il periodo immediatamente successivo all’emanazio-
ne (nel 1493) delle celebri bolle che dividevano il ‘nuovo mondo’ tra Spa-
gnoli e Portoghesi, all’affaire Savonarola, quando Alessandro si vide suo
malgrado costretto a considerare il problema della corruzione della Chiesa;
ed è il periodo in cui fu assassinato il suo figlio prediletto, il duca di Gandìa,
dopodiché deliberò di far fronte sul serio a quel problema, decretando la
creazione di una commissione per la riforma universale della chiesa (rifor-
ma, come ben si sa, poi abortita). È il periodo anche della fondazione, per
bolla papale (del 1495), dell’università di Aberdeen in Scozia, che doveva
supplire al difetto di educazione della popolazione e del clero di quelle par-
ti (prova, se prova ci voleva, che il papa non trascurava le estremità atlanti-
che dell’ecumene cristiana)19; ma soprattutto – per ciò che ci riguarda – è il
periodo della tentata riforma, per volontà di Enrico VII, della chiesa d’In-
ghilterra e della chiesa d’Irlanda. Enrico VII, capostipite della dinastia dei
Tudor, era salito al trono nel 1485, dopo la sua vittoria nella battaglia di Bo-
sworth, che metteva fine alla Guerra delle Due Rose, la guerra civile (o me-
glio, baronale) che per più di trent’anni aveva diviso il paese. Ancora debo-
le e non legittima, la nuova dinastia dovette far fronte a numerosi tentativi
di spodestarla e Enrico VII dedicò perciò tutte le sue energie a rafforzarne
il potere, militarmente, economicamente, politicamente ed ideologicamen-
te. Cercò inoltre di consolidare il dominio della corona sulla chiesa, se-

18 Bullarum Ordinis Sancti Augustini. Regesta. IV. 1492-1572, a cura di C. A-


LONSO, O.S.A., Roma 1999, p. 15.
19 Sulla fondazione dell’Università di Aberdeen cfr. P. DE ROO, Materials for a

History of Pope Alexander VI, his Relatives and his Times, IV, Bruges 1924, p. 456.
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guendo una politica di stretto controllo delle provvisioni vescovili, esaltan-


do l’autorità del primate della Chiesa d’Inghilterra, l’arcivescovo di Can-
terbury (che era sempre stato una creatura del sovrano) e coltivando con as-
siduità, per meritarne l’amicizia, la santa sede20. Le sue iniziative riscosse-
ro in generale grande successo; solo in Irlanda, specialmente durante i pri-
mi anni del suo regno, incontrarono resistenza.
L’Irlanda, che gli Inglesi cercavano da più di tre secoli di colonizzare
(e di cui si consideravano i signori legittimi), era per la maggior parte in
mano a principi indipendenti – gaelici o vetero-inglesi (cioè discendenti de-
gli invasori normanni dell’isola) –, i quali avevano naturalmente approfitta-
to della Guerra delle Due Rose per lanciare un’ulteriore sfida all’autorità
dei re d’Inghilterra e accrescere la propria indipendenza. L’Irlanda inoltre
era servita da trampolino di lancio per le campagne dei due impostori che,
poco dopo la sua ascesa al potere, avevano messo in crisi la monarchia Tu-
dor, Lambert Simnel, sedicente Edoardo conte di Warwick, che fu incoro-
nato re d’Inghilterra nella cattedrale di Dublino, dall’arcivescovo di Dubli-
no, il 24 maggio 1487, e Perkin Warbeck, sedicente Riccardo duca di York,
che fu proclamato re d’Inghilterra a Cork nel 1491 e che in Irlanda tornò
nel 1495 a cercare sussidi per la sua spedizione contro Enrico VII21. Per far
fronte a questi pericoli (che minacciavano di vanificare i suoi disegni di
consolidamento del potere regio) Enrico progettò di privare l’Irlanda della
sua autonomia (di diritto essa non era assoggettata all’Inghilterra, ma sol-
tanto ai re d’Inghilterra in quanto anche lords d’Irlanda), convocando da un
lato, nel 1494 a Drogheda, il cosiddetto Parlamento di Poynings – «parla-
mento ossequioso»22 – che avrebbe dovuto (ma non vi riuscì) sottomettere
giurisdizionalmente l’Irlanda all’Inghilterra, e dall’altro rivolgendo una
supplica ad Alessandro VI perché facesse riformare (cioè, in sostanza, di-
ventare più obbediente all’autorità regia) la chiesa irlandese. Il papa decise
di accontentarlo e perciò, nel novembre 1496, fu emanata una bolla che ne
affidava la riforma (la quale – precisiamolo subito – avrebbe avuto tanto
successo quanto la riforma generale della chiesa del 1497) a quattro vesco-
vi inglesi:

20 Su Enrico VII e i Tudor cfr. R. O’DAY, The Longman Companion to the Tu-

dor Age, London 1995, e J.A.F. THOMSON, The Transformation of Medieval En-
gland, 1370-1529, London 1995.
21 Su questo periodo della storia irlandese cfr. A. COSGROVE, Late Medieval I-

reland, Dublin 1981; S. ELLIS, Tudor Ireland. Crown, Community and the Conflict
of Cultures, 1470-1603, London 1985, e A New History of Ireland, II: Medieval I-
reland, 1169-1534, a cura di A. COSGROVE, Oxford 1993.
22 W.E. WILKIE, The Cardinal Protectors of England. Rome and the Tudors

before the Reformation, Cambridge 1974, p. 65.


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Alexander episcopus, servus servorum Dei, venerabilibus fratri-


bus, archiepiscopo Cantuariensi, et Dunelmensi, ac Bathoniensi
et Wellensi, necnon Londoniensi episcopis, salutem, et apostoli-
cam benedictionem. [...] Sane pro parte charissimi in Christo filii
nostri Henrici, Angliae regis illustris, nobis nuper exhibita petitio
continebat, quod in insula Hiberniae, praesertim in certa illius
parte, quae est sylvestris, expedit de necessitate pro directione, ac
bono et felici regimine ecclesiarum metropolitanarum, et cathe-
dralium dictae insulae, ac cleri et populi illarum de aliquo oppor-
tuno remedio provideri: quare pro parte dicti regis nobis fuit
maxima cum instantia humiliter supplicatum, ut in praemissis op-
portune providere de benignitate apostolica dignaremur. Nos igi-
tur [...] fraternitati vestrae [...] ad convocandum universos archie-
piscopos et episcopos, ac clerum et populum dictae insulae ad a-
liquem locum ad id aptum et idoneum; in qua quidem convoca-
tione per ipsos archiepiscopos, episcopos, sive praelatos de rebus,
statum ac bonum, prosperum, et salubre regimen ecclesiarum, ac
cleri, et populi praedictorum concernentibus, agatur et tractetur
[...] plenam et liberam auctoritate apostolica, tenore praesentium
concedimus facultatem23.

Soddisfacendo alla richiesta di Enrico VII, Alessandro non faceva che


confermare un diritto che, fin dal lontano 1156, quando con la bolla Lau-
dabiliter papa Adriano IV (primo ed unico papa inglese) aveva investito i re
d’Inghilterra del dominio dell’Irlanda, il soglio pontificio aveva sempre ri-
conosciuto, cioè il diritto di possesso dell’Irlanda da parte della corona in-
glese24. Questo diritto non era venuto meno con l’arrivo al potere della nuo-
va dinastia, anzi era stato riconfermato in modo esplicito, grazie appunto al-
l’entusiasmo con cui Enrico VII aveva saputo coltivare il papato, da Inno-
cenzio VIII, il quale, nel 1487, aveva bollato non solo «crimen laesae maje-
statis» ma anche «dignitatis pontificalis opprobrium» l’aiuto dato dagli Ir-
landesi a Lambert Simnel e l’anno successivo, con esplicito riferimento ai
sudditi irlandesi (laici e chierici) del sovrano inglese, aveva minacciato di
scomunicare tutti coloro che gli si ribellassero contro:

23 Bulla papae Alexandri VI pro praelatis Hiberniae convocandis, in WILKINS,


Concilia cit., pp. 644-645. Nel 1497 Alessandro avrebbe anche fatto riformare i con-
venti di Knockfergus e di Athskettin in Irlanda (cfr. DE ROO, Materials cit., III, p.
153).
24 Sulla bolla Laudabiliter cfr. M.-T. FLANAGAN, Irish Society, Anglo-Norman

Settlers, Angevin Kingship. Interactions in Ireland in the Late Twelfth Century,


Oxford 1989.
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auctoritate apostolica, tenore praesentium declaramus, Hiberniae,


et aliorum locorum et dominiorum dicto regi subjectorum, extra
dictum regnum consistentium, incolas seculares, qui hujuscemo-
di novos tumultus, occasione dicti juris succedendi in eisdem re-
gno et dominiis, vel alias movere, et excitare non verebuntur,
cujuscunque dignitatis, status, gradus, ordinis, conditionis, vel
praeeminentiae sint, vel fuerint, in dictis monitione, requisitione,
inhibitione, et literis inclusos esse, et illos ex eis, qui monitioni,
requisitioni, et inhibitioni praedictis non paruerint, excommuni-
cationis et anathematis sententiam praedictam incurrere debere
[...]; ac easdem monitionem, requisitionem, et inhibitionem ad
personas ecclesiasticas, etiam cujusvis ordinis religiosas, exemp-
tas et non exemptas, in praefatis regno Hiberniae, et aliis domi-
niis ipsius regis constitutas [...] extendimus et [...] monemus, re-
quirimus, et inhibemus eisdem, ne novos tumultus hujuscemodi
suscitare, movere, seu jam motos fovere, nutrire, et manutenere,
seu quempiam ad illos incitare 25.

Tale minaccia sarebbe poi stata ribadita dallo stesso Alessandro. Non
vi è dubbio, quindi, che, se Enrico avesse voluto, per completare la sua
riforma della chiesa irlandese o per consolidare il proprio potere di fronte a
baroni e principi ribelli, liberarsi del Purgatorio di s. Patrizio (il quale, oltre
a suscitare, come abbiamo visto, la cupidigia di poco reverendi sacerdoti,
fomentava discordia, a quanto pare, tra famiglie principesche rivali, che re-
clamavano, ciascuna per suo conto, il privilegio di esserne i custodi), e se
avesse pregato Alessandro di farlo distruggere «funditus», il pontefice non
avrebbe esitato ad accantonarlo.
Se accettiamo l’ipotesi che il pontefice fece distruggere il Purgatorio di
s. Patrizio per compiacere il re, dobbiamo riconoscere però che il suo inter-
vento negli affari d’Irlanda sarà stato motivato non solo da considerazioni
di ‘politica estera’ (per modo di dire) ma anche, e forse soprattutto, da con-
siderazioni di ‘politica interna’. In primo luogo avrà cercato – incoraggiato
in questo, probabilmente, dall’arcivescovo di Armagh, il fiorentino Antonio
del Palatio Spinelli, che fu primate della chiesa irlandese per più di trent’an-
ni (dal 1479 al 1513), durante i quali si mostrò sempre molto leale al soglio
pontificio (come del resto alla corona inglese) – di porre un freno all’inve-
terata insubordinazione degli Irlandesi, i quali avevano per costume di au-
toinvestirsi delle cariche ecclesiastiche, a dispetto degli ordini emanati da
Roma, e quando tali ordini minacciavano di pregiudicare i loro interessi, di

25 Innocentii VIII bulla contra Hibernicos praelatos, qui Lambertum Symnell

praetensum de jure de facto in regem coronarunt et Innocentii VIII bulla contra re-
belles domini regis, in WILKINS, Concilia cit., pp. 623-624.
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«correre a Roma» (è stato chiamato Rome-running questo loro sintomatico


atto di insubordinazione) per contestarne la validità, fiduciosi che la lonta-
nanza del loro paese rendesse incontrovertibili le loro pretese. Tra coloro
che, sul finire del ’400, si consideravano legittimamente ammessi al godi-
mento d’un beneficio ma non ne erano stati ufficialmente investiti dalla
Chiesa vi era, tra l’altro, il vescovo di Clogher, cioè quello stesso «ponti-
fex», che al monaco olandese «petiit summam quamdam pecuniae, quam ab
intrantibus jure sibi deberi dicebat. Cui Frater respondit, se pauperem esse,
nec habere pecunias; quas etiamsi haberet, propter lepram simoniae ob id
obtinendum tribuere non auderet»26. Ad Alessandro la chiusura del Purga-
torio di s. Patrizio sarà quindi sembrata un ottimo pretesto per far capire a-
gli Irlandesi che Roma non avrebbe più tollerato la loro indisciplina e che
di pontefici, in verità, non ce ne potevano essere più di uno.
Sarà stato quello – c’è da scommettere – il nocciolo della questione.
L’esistenza del Purgatorio di s. Patrizio era legata in modo indissolubile al-
l’esistenza del Purgatorio vero e proprio – Jacques Le Goff ha definito «ac-
te de naissance littéraire» della dottrina del Purgatorio il Tractatus de Pur-
gatorio Sancti Patricii, l’opera del monaco inglese Enrico di Saltrey, scrit-
ta nel dodicesimo secolo e presto diventata un best seller, che per prima a-
veva reso note le visioni che nel Purgatorio di s. Patrizio si offrivano ai pel-
legrini – e l’esistenza del Purgatorio vero e proprio era legata ormai in mo-
do indissolubile alla supremazia del papa27. «Nato» (per riprendere l’e-
spressione di Le Goff) tra XII e XIII secolo, nel momento di massima fio-
ritura delle dottrine catare e valdesi, per manifestare e consolidare di fron-
te a queste eresie il sistema penitenziale romano facente capo al sommo
pontefice, il Purgatorio si era radicato nella dottrina cattolica in periodi di
accresciuta riflessione in seno alla Chiesa, allorquando essa anelava ad una
migliore definizione di se stessa per potersi riconciliare con le chiese rivali
(o piuttosto forse per potersi meglio difendere contro di esse) – cioè duran-
te il concilio di Lione del 1274, convocato per riunire cattolici e ortodossi
dopo il ritorno a Costantinopoli dei Bizantini (cacciati dai crociati nel
1204), che consacrò ufficialmente l’esistenza del Purgatorio, e durante il
concilio di Ferrara-Firenze del 1438-39, convocato nella speranza di creare
un fronte unito, riproponendo la fusione delle due chiese, tra cristiani occi-

26 Su Antonio del Palatio Spinelli e il Rome-running cfr. A. GWYNN, The Me-

dieval Province of Armagh 1470-1545, Dundalk 1946.


27 LE GOFF, La naissance cit., pp. 246 e 266. Le idee qui avanzate a proposito

del rapporto tra Purgatorio di s. Patrizio e Purgatorio ‘vero e proprio’ sono delle i-
potesi che andranno ulteriormente verificate; sono desunte dal libro di Le Goff non-
ché dalla voce Purgatoire nel Dictionnaire de théologie catholique, XIII, Paris
1936, pp. 1163-1361, e da A. PIOLANTI, Il dogma del Purgatorio, «Euntes docete»,
6 (1953), pp. 287-311.
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dentali e cristiani orientali contro l’avanzata dei Turchi (come poi sarebbe
avvenuto durante il concilio di Trento, per tentare di porre riparo al diffon-
dersi delle idee protestanti) – ed era diventato, specie col consolidarsi della
monarchia papale dopo i lunghi anni di prostrazione causata dalla cosid-
detta cattività avignonese, dal grande scisma e dal periodo conciliare ad es-
so succeduto, un’arma indispensabile per garantire l’autorità (e la ricchez-
za) di Roma e la plenitudo potestatis del pontefice. «L’Eglise – scrive Le
Goff –, au sens ecclésiastique, clérical, tire grand pouvoir du nouveau sy-
stème de l’au-delà. Elle administre ou contrôle des prières, des aumônes,
des messes, des offrandes de toutes sortes accomplies par les vivants en fa-
veur de leurs morts, et elle en bénéficie. Elle développe, grâce au Purgatoi-
re, le système des indulgences, source de grands profits, de puissance et
d’argent»28. L’identificazione di Roma e Purgatorio era diventata tale, che i
nemici della Chiesa (sia politici che religiosi) considerarono raccolti in
quell’unica dottrina tutti gli abusi del ‘papismo’. Non molto prima dell’av-
vento di Alessandro VI, Masuccio Salernitano, facendo suo, nel Novellino,
l’anti-clericalismo (di ispirazione politica) dei re di Napoli, tradizionali an-
tagonisti delle mire espansionistiche dei vicari di Dio, aveva esclamato:
«che Idio possa presto destruere il purgatorio»29. E non molto dopo la
scomparsa di Alessandro il Purgatorio, com’è ben noto, sarebbe diventato,
insieme alle indulgenze (quei lasciapassare oltremondani che spalancavano
le porte del Purgatorio per semplice fiat papale e che la Chiesa smerciava in
modo svergognato), la causa immediata della riforma protestante, portando
i riformati, di lì a non molto, a negare la sua esistenza («impium et diaboli-
cum figmentum est papisticum purgatorium», dice la Confessione d’Erlau
del 1562)30.
Il Purgatorio era diventato a tal punto ‘papistico’, ai tempi di Alessan-
dro VI, che solo al papa ne doveva spettare il controllo, perché, sulla terra,
solo il papa, in ultima istanza, poteva essere arbitro dell’eterna salvezza dei
fedeli; e l’unica via per arrivare all’aldilà dovendo essere la via maestra,
cioè quella romana, l’esistenza di un’altra via, cioè quella irlandese, non e-
ra più da tollerare. Presentava infatti (siamo naturalmente sempre nel regno
della congettura) un duplice rischio per il papato. Se da un lato permetteva
a un altro pontifex di erigersi a giudice del destino oltremondano di anime
cristiane, anche senza il concorso di Roma, dall’altro – il che era, senza
dubbio, più grave – minacciava di far crollare, nel caso si spargesse con
troppa insistenza la voce (mercé l’indiscrezione di frati olandesi oltremodo
zelanti) che le visioni nel Purgatorio di s. Patrizio erano cessate – «anti-

28 LE GOFF, La naissance cit., p. 335.


29 MASUCCIO SALERNITANO, Il Novellino, Bari 1979, p. 20 (novella II, esordio).
30 Dictionnaire de Théologie Catholique cit., p. 1271.
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quum miraculum [...] cessaverat», dicono gli Acta sanctorum – e che il Pur-
gatorio vero e proprio altro non era, quindi, che una favola (come sostene-
vano del resto alcune persone all’interno della Chiesa e avrebbero procla-
mato ad alta voce i nemici del Cattolicesimo), l’intero edificio eretto da Ro-
ma per salvaguardare la supremazia (e la ricchezza) del papa.
A Roma il Purgatorio di s. Patrizio doveva inoltre sembrare fin troppo le-
gato a un periodo di infamia per la Chiesa che, con l’avvenuta restaurazione
della supremazia papale, era meglio dimenticare, come era meglio dimenti-
care, ora che regnava un papa spagnolo, l’ultima volta che alla tiara era stato
elevato uno Spagnolo. Era stato durante la cosiddetta cattività avignonese, in-
fatti, che il pellegrinaggio irlandese aveva goduto di maggiore fama (grazie
alla campagna pubblicitaria – come si direbbe oggi – lanciata in proposito
presso la curia di Avignone dall’arcivescovo di Armagh, Richard Fitz-
Ralph)31, e tra coloro che più lo avevano favorito, a quanto pare, vi era stato
l’antipapa catalano Benedetto XIII, che fu uno dei principali artefici del gran-
de scisma e che (forse) «recitò un sermone sul Purgatorio di S. Patrizio che
fu stampato»32. Purtroppo nulla sappiamo (per ora) di questo sermone o del-
le circostanze in cui fu pubblicato – né, a dire la verità, possiamo affermare
con certezza che si tratti effettivamente di un sermone di Benedetto XIII de
Luna, che fu antipapa dal 1394 al 1424, e non di Benedetto XIII Orsini, che
fu papa dal 1724 al 1730 – ma ciò non ci impedisce di prospettare l’ipotesi di
un certo disagio da parte della Chiesa, ai tempi di Alessandro, nei confronti
di s. Patrizio, confermata dalle incertezze (cui si fa allusione negli Acta sanc-
torum) di chi in Italia compilava i primi breviari e messali a stampa, sull’op-
portunità o meno di includervi il santo irlandese:

quod Officium primum ab Regularibus Canonicis sumptum esse,


et quidem quale Purgatorii Patriciani curatores composuerant in
Hibernia, patet ex lectionibus propriis anno demum MDXXII in
Breviarium Romanum, admissis dicam an intrusis? Nam quae ante
id tempus excusae habemus Breviaria anni scilicet MCCCCLXXIX
et MCCCCXC; item Missalia anni MCCCCLXXXIV MDVIII;
etsi Patricii nomen in Kalendario praeferant, nihil tamen de ipso
habent inter Officia Martii, ne simplicem quidem commemora-
tionem33.

31 Sul Fitz-Ralph cfr. K. WALSH, A Fourteenth-Century Scholar and Primate.

Richard FitzRalph in Oxford, Avignon and Armagh, Oxford 1981.


32 G. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastico, LVI, Venezia

1852, p. 92 (ad vocem «Purgatorio»).


33 Acta sanctorum cit., p. 588. La presenza o meno di s. Patrizio in breviari e

messali è un’altra questione che andrà ulteriormente approfondita.


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Oltre a ciò, il periodo avignonese aveva fornito uno degli esempi più
noti di strumentalizzazione politica del Purgatorio di s. Patrizio (ma ve ne
saranno stati certamente degli altri). Nel 1397 vi si era recato in pellegri-
naggio il nobiluomo catalano Ramon de Perellós, intimo di Benedetto XIII
e del re d’Aragona da poco scomparso, Giovanni I (1387-96) – nonché u-
nico pellegrino dell’area spagnola ad aver lasciato una testimonianza scrit-
ta della sua visita34. A spingerlo a compiere il viaggio, oltre alla curiosità e
alla speranza di una personale redenzione, era stato il desiderio (fortunata-
mente esaudito!) di incontrarvi Giovanni I, perché costui potesse scagio-
narlo dall’imputazione di tradimento rovesciatagli addosso dai suoi nemici,
e allo stesso tempo confermare che chiunque si diceva papa, con l’eccezio-
ne di Benedetto XIII (di cui il re d’Aragona era stato accanito difensore e
grazie a cui – si sosteneva – si trovava adesso sulla via della salvazione), e-
ra un impostore. È ovvio quale risonanza dovette avere tale notizia per i fe-
deli dell’antipapa spagnolo. Altresì evidente è l’effetto che avrebbe potuto
produrre a Roma, ai tempi di Alessandro VI, una simile notizia divulgata
dagli antagonisti dei Borgia, o dai nemici dei Tudor (qualcuno dei preten-
dente al trono) a Londra. Perciò dovette sembrare poco prudente, sia al si-
moniaco Alessandro VI che al parvenu Enrico VII, i quali avevano già suf-
ficientemente da temere le minacce di chi per via naturale ne contestava il
diritto di regnare, permettere che i loro avversari potessero liberamente ac-
cedere all’aldilà, per poi riportarne chissà quali ‘prove’ della loro indegnità.
Per impedire che ciò si verificasse bisognava distruggere funditus quel poz-
zo che con l’aldiltà – a quanto si diceva – consentiva di comunicare.
Sulle incertezze di Alessandro e della chiesa nei confronti di s. Patrizio
e dell’Irlanda avranno anche pesato – di questo possiamo essere sicuri –
considerazioni di natura non strettamente ecclesiastica o teologica, ma per-
tinenti piuttosto all’universo culturale in cui vivevano gli Italiani (e gli In-
glesi) di quel periodo, vale a dire all’Umanesimo. Verso la metà del ‘400 –
come ho avuto occasione di mostrare altrove – si verificò in Italia un cam-
biamento nel modo in cui l’Irlanda veniva giudicata e immaginata, cambia-
mento dovuto alla riscoperta, da parte degli umanisti, delle opere dei geo-
grafi antichi35. Prima, l’Irlanda era stata vista come una specie di paradiso
terrestre, dall’irresistibile fascino e popolato da gente «dolce». Era così che
l’aveva descritta, in particolare, il poeta ed esule fiorentino Fazio degli U-
berti, il quale, nel suo Dittamondo, a malapena era riuscito a contenere il
desiderio che là lo trascinava:

34 D.M. CARPENTER, The Pilgrim from Catalonia/Aragon: Ramon de Perellós,

1397, in The Medieval Pilgrimage cit., pp. 99-119.


35 A questo proposito cfr. il mio «La divisa dal mondo ultima Irlanda» ossia la

riscoperta umanistica dell’Irlanda, «Giornale storico della letteratura italiana», 176


(1999), pp. 363-387.
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Ibernia ora qui ci aspetta e chiama


e, benché ‘l navicar lá sia con rischio
la ragion fu qui vinta da la brama. [...]
Questa gente, benché mostri selvaggia
e, per li monti, la contrada acerba,
non di meno ella è dolce a chi l’assaggia. [...]
Quivi par sempre, come in primavera,
un’aire temperata che gli appaghi,
con chiare fonti e con belle rivera36.

Dopo, per contro, sarebbe diventata – perché così volevano gli antichi
(«Cultores [Iuvernae] inconditi sunt et omnium virtutum ignari [...], pieta-
tis admodum expertes» diceva, per esempio, la Corografia di Pomponio
Mela)37, e per gli umanisti, come ben sappiamo, era più importante ade-
guarsi ai modelli antichi che non fidarsi dell’osservazione personale – una
terra di barbari priva di qualsiasi interesse e da cui tenersi distanti quanto
più possibile. «Hybernia nunc nobis absolvenda esset» – scriveva, nel suo
De Europa, il primo grande geografo umanista (e futuro papa) Enea Silvio
Piccolomini, le cui vedute in proposito erano destinate ad avere larga riso-
nanza –, «sed quoniam nihil dignum memoria per hoc tempus, de quo scrip-
tio est, gestum accepimus, ad res Hispanicas festinamus»38.
Di non darsi pensiero per l’Irlanda ma di affrettarsi a considerare i ca-
si di Spagna sembra un consiglio ideato appositamente per aiutare un papa
spagnolo invischiato in questioni irlandesi. Naturalmente sarebbe azzarda-
to, senza ulteriori prove, attribuire all’influenza di Pio II l’atteggiamento di
Alessandro VI e dei suoi curiali nei confronti dell’Irlanda, ma non è da e-
scludere che, rispetto a quel paese, circolassero in curia una certa indiffe-
renza e un certo disdegno di ascendenza umanistica, spiegabili col fatto che
un gran numero di coloro che vi ricoprivano cariche importanti, e in parti-
colare di coloro che erano addetti alle relazioni con la corte di Enrico VII
(che ospitava anch’essa gran copia di intellettuali, per così dire, d’avan-
guardia, la maggior parte italiani), si era formato alla scuola degli umanisti
ed era dedito al culto dell’antichità39. Si potrebbero citare molti nomi in

36 FAZIO DEGLI UBERTI, Il Dittamondo, a cura di G. CORSI, I, Bari 1952, p. 329


(lib. VI, cap. XXVI, vv. 31-45).
37 MEL. Chor. 3, 53.
38 AENEAE SYLVII PII II PONTIFICI MAXIMI In Europam sui temporis varias con-

tinentem historias, in Opera quae extant omnia, Basilea [1551], cap. XLVI («De
Scotia et mirandis apud Orcades arboribus suos fructus in aves mutantibus. Item de
Hibernia»).
39 Sull’Umanesimo inglese e i suoi rapporti con quello italiano cfr. il mio L’a-

rea britannica, in Umanesimo e culture nazionali europee, a cura di F. TATEO, Pa-


lermo 1999, pp. 127-192.
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272 ERIC HAYWOOD

proposito, ma basterà ricordare quello di John Morton (1420-1500), che fu


arcivescovo di Canterbury dal 1486, lord cancelliere d’Inghilterra dal 1487,
rettore dell’università di Oxford dal 1495, dell’università di Cambridge dal
1499, e che dal 1490 al 1492 ebbe come paggio Thomas More, sulla cui U-
topia esercitò – si dice – una fortissima influenza40; oppure quello di A-
driano Castellesi (1461?-1521), uno degli intimi di Alessandro VI, nel cui
giardino ebbe luogo la ‘ultima cena’ del pontefice (che lo aveva nominato
collettore e nunzio in Inghilterra «con la facoltà di correggere e riformare il
clero secolare e regolare») e le cui benemerenze nei riguardi dell’Inghilter-
ra gli valsero il conferimento della cittadinanza inglese nel 1492 (fece inol-
tre costruire il palazzo detto oggi Torlonia, nell’attuale via della Concilia-
zione a Roma, che poi donò alla corona inglese)41; o ancora quello dell’u-
manista urbinate Polidoro Vergili (1470?-1555), che nel 1501 fu mandato
come sottocollettore del Castellesi in Inghilterra, dove sarebbe rimasto per
il resto della sua vita, ricoprendo numerosi benefici ecclesiastici e diven-
tando regio storiografo dei Tudor42. In particolare, però, va ricordato il no-
me di Francesco Todeschini Piccolomini, il nipote di Pio II e futuro Pio III,
che per tutti gli anni del pontificato di Alessandro VI fu cardinale-protetto-
re d’Inghilterra presso la curia romana (e il primo cardinale-protettore ne-
gli annali della Chiesa ad essere ufficialmente riconosciuto dal soglio pon-
tificio). Di «eccezionale qualità» (hervorragende Eigenschaft), «nobile ca-
rattere» (adler Charakter), «onorevoli convinzioni» (lautere Gesinnung-
sart)43 e molto stimato dagli altri principi della Chiesa – venne tra l’altro
nominato dal pontefice a far parte della commissione del 1497 per la rifor-
ma della Chiesa – il Todeschini Piccolomini dedicò tutta la vita ad onorare
la memoria dell’amatissimo suo zio, cui era debitore del successo della sua
carriera e che lo aveva così profondamente marcato. C’è da scommettere
quindi che, se diede prova, nel promuovere le idee dello zio e farne cono-
scere gli scritti, di tanto zelo quanto esibì nel favorire gli interessi del re
d’Inghilterra (un suo biografo lo ha definito «energico propugnatore in se-
no al concistoro della politica di Enrico VII mirante al controllo delle prov-
visioni vescovili in Irlanda»)44, doveva circolare come moneta corrente a
Roma l’opinione che l’Irlanda non era per niente «digna memoria». Del re-

40 Su Morton cfr. Contemporaries of Erasmus, a cura di P.G. BIETENHOLZ-T. B.

DEUTSCHER, II, Toronto 1986, p. 465.


41 Sul Castellesi cfr. DBI, 21, Roma 1978, pp. 665-671 (p. 665).
42 Sul Vergili cfr. D. HAY, Polydore Vergil. Renaissance Historian and Man of

Letters, Oxford 1952.


43 A.A. STRNAD, Francesco Todeschini-Piccolomini, Politik und Mäzenatentum

im Quattrocento, «Römische Historische Mitteilungen», 8-9 (1964-66), pp. 101-425


(p. 381).
44 WILKIE, The Cardinal Protectors cit., p. 68.
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DISDEGNO UMANISTA? 273

sto, perfino nei documenti ufficiali della Chiesa di quel periodo si trovano
tracce di siffatta opinione.
Di lì a non molto sarebbe diventato un luogo comune della storiogra-
fia e della cosmografia umanistica, per merito anzitutto della Anglica hi-
storia di Polidoro Vergili – scritta su commissione di Enrico VII, modella-
ta in certa misura sul De Europa di Pio II, e contenente la prima descrizio-
ne ‘moderna’ dell’Irlanda, – che vi erano in realtà due Irlande, l’una abita-
ta da gente civile (perché colonizzata dagli Inglesi) e l’altra da gente sylve-
stris (quindi da colonizzare):

In omni Hybernia duo sunt hominum genera [...] Unum mite et


urbanum: ad hos, ut magis tractabiles ac divites, navigant fre-
quenter vicinitatum continentis mercatores negotiandi causa, sed
Angli in primis commeant, quorum mores illi facile imbibunt lin-
guamque ex assiduo commercio maiore ex parte intelligunt, et
omnes parent regi Anglo. Alterum genus ferum, incultum, stul-
tum, asperum, qui a neglectiore cultu rusticisque moribus Sylve-
stres appellantur, habentque quamplures regulos, qui inter se con-
tinenter belligerant, qua de causa reliquos Hybernos ferocia prae-
cedunt, ac novarum rerum longum cupidissimi, secundum rapinas
et latrocinia, nihil tumultibus magis amant45.

Il marchio del ‘selvaggio’ (sylvestris) con cui Vergili contrassegnava


l’Irlanda e che sembra esprimere tutto il disdegno degli umanisti (e dei co-
lonizzatori) di fronte all’Irlanda, era destinato a lunga vita, ma già all’ini-
zio del pontificato di Alessandro VI (e forse molto prima – lo troviamo, di-
fatti, anche nella Topographia hibernica di Giraldus Cambrensis, il mona-
co cambro-normanno che, nel dodicesimo secolo, aveva accompagnato in
Irlanda il conquistatore Enrico II: «est autem gens hec gens sylvestris, gens
inhospita»)46 era entrato a far parte del linguaggio della burocrazia eccle-
siastica, se è vero che la bolla (citata precedentemente) in cui il pontefice
ordina che sia riformata la chiesa irlandese fa esplicito riferimento a quella
parte dell’Irlanda «quae est sylvestris».
Visto, perciò, che l’atteggiamento di Alessandro VI e dei suoi ministri

45 POLIDORI VERGILII URBINATIS Anglicae historiae libri vigintiseptem, Basilea

1570, p. 594. Sulla descrizione vergiliana dell’Irlanda cfr. il mio Brutti irlandesi? La
prima descrizione umanistica dell’Irlanda, in Disarmonia, bruttezza e bizzarria nel
Rinascimento, (Atti del VII Convegno internazionale di studi umanistici, Chiancia-
no-Pienza, 17-20 luglio 1995), a cura di L. SECCHI TARUGI, Firenze 1998, pp. 173-
187.
46 GIRALDUS CAMBRENSIS, In Topographia Hibernie, a cura di J. O’MEARA,

«Proceedings of the Royal Irish Academy», 52c (1949), pp. 113-178 (p. 163).
Cap. 11 Haywood 255-274 13-09-2002 13:24 Pagina 274

274 ERIC HAYWOOD

nei confronti degli Irlandesi era sicuramente improntato a un certo ‘disde-


gno umanista’, la chiusura del Purgatorio di s. Patrizio, così come raccon-
tata negli Acta sanctorum, non può, tutto sommato, destare stupore. Era un
provvedimento ‘necessario’, dato che lo suggerivano anche, come abbiamo
visto, non solo considerazioni di politica estera ma anche e soprattutto con-
siderazioni di politica interna. Dovette quindi suscitare non poca soddisfa-
zione a Roma l’arrivo di un frate olandese, desideroso e capace di far reca-
pitare ai «pecoroni d’Ibernia» l’ordine papale «ut locum illum, in quo quon-
dam introitus fuerat ad Purgatorium, quod S. Patricii dicitur, funditus ever-
terent».
Cap. 12 Canfora 275-284 13-09-2002 13:24 Pagina 275

DAVIDE CANFORA

Il carme Supra casum Hispani regis


di Pietro Martire d’Anghiera
dedicato al pontefice Alessandro VI

L’umanista Pietro Martire di Anghiera (1457-1526) lasciò l’Italia per


trasferirsi stabilmente in Spagna nella seconda metà degli anni ’80 del
Quattrocento1. Qui trovò ben presto accoglienza nel seguito dei regnanti
Ferdinando II d’Aragona e Isabella di Castiglia e fu nominato, nel 1492,
gentiluomo di camera della regina. In Spagna, dove era giunto grazie al-
l’interessamento dell’ambasciatore iberico presso la Santa Sede, Don Iñigo
López de Mendoza, conte di Tendilla, l’umanista diede alla luce la parte più

1 La bibliografia relativa a Pietro Martire di Anghiera è ovviamente cospicua. In

primo luogo segnalo qui alcuni studi di carattere generale: I. CIAMPI, Pietro Martire
d’Anghiera, «Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti», 30 (1875), pp. 39-79 e
717-744; J.-H. MARIEJOL, Un lettré italien à la cour d’Espagne (1488-1526): Pierre
Martyr d’Anghiera. Sa vie et ses oeuvres, Paris 1887; Pietro Martire d’Anghiera nel-
la storia e nella cultura, (Atti del II Convegno Internazionale di Studi Americanisti-
ci, Genova-Arona, 16-19 ottobre 1978), Genova 1980 (ricordo, tra l’altro, i seguenti
interventi: E. LUNARDI, Contributi alla biografia di Pietro Martire d’Anghiera, pp. 3-
62; G. PONTE, Pietro Martire d’Anghiera scrittore, pp. 151-174; F. DELLA CORTE, I
carmina di Pietro Martire d’Anghiera, pp. 187-194); L’umanista aronese Pietro
Martire d’Anghiera, primo storico del «nuovo mondo», (Atti del Convegno, Arona,
28 ottobre 1990), a cura di A.L. STOPPA-R. CICALA, Novara 1992. Notizie su Pietro
Martire sono inoltre presenti in: G.R. CARDONA, I viaggi e le scoperte (in Letteratu-
ra italiana, diretta da A. ASOR ROSA, V, Torino 1986, pp. 687-720); F. TATEO, Storio-
grafi e trattatisti, filosofi, scienziati, artisti, viaggiatori (in Storia della Letteratura
italiana, diretta da E. MALATO, IV, Roma 1996, pp. 1083-1093). Numerose ricerche
sull’umanista di Anghiera si devono a Francesco Della Corte: oltre al già citato sag-
gio compreso nel volume Pietro Martire d’Anghiera nella storia e nella cultura, ri-
cordo qui Pietro Martire d’Anghiera e il Cantalicio ‘praeceptores publici’ a Rieti (F.
DELLA CORTE, Opuscula, X, Genova 1987, pp. 251-260), Un poeta alla corte d’Isa-
bella (ID., Opuscula, XI, Genova 1988, pp. 247-257) e Umanisti italiani giudicati in
Spagna (ID., Opuscula, XIII, Genova 1992, pp. 231-236). Da ultimo sul carme Supra
casum Hispani regis – oltre all’edizione curata da Ursula Hecht, su cui torneremo –
segnalo J.L. GOTOR, Il carme ‘de casu regis’ di Pedro Martire d’Anghiera e la tragi-
commedia ‘Fernandus servatus’ di Marcellino Verardi, in La rinascita della tragedia
nell’Italia dell’Umanesimo, (Atti del IV Convegno di Studio del Centro di Studi sul
Teatro Medioevale-Rinascimentale, Viterbo, 15-17 giugno 1979), Viterbo 1980, pp.
185-203.
Cap. 12 Canfora 275-284 13-09-2002 13:24 Pagina 276

276 DAVIDE CANFORA

cospicua della sua ricca e varia produzione2. Quelli precedenti alla parten-
za dall’Italia, in ogni caso, non erano stati anni improduttivi o di semplice
apprendistato umanistico, bensì avevano rappresentato per Pietro Martire
un periodo di primi esperimenti letterari e, soprattutto, di vivaci scambi cul-
turali con l’ambiente dell’Umanesimo romano. Tra le sue frequentazioni ri-
cordiamo Pomponio Leto e Platina. Il nome di Pietro Martire, oltre che ad
alcuni scritti nati a seguito di missioni affidategli dai sovrani (è il caso del-
la Legatio Babylonica, composta dopo un viaggio in Egitto), è soprattutto
legato alle Decades de orbe novo, serie di lettere composte a partire dal
1493 intorno alla scoperta dell’America: il nesso tra l’attività strettamente
letteraria di Pietro Martire e il suo impegno all’interno della corte è, in que-
sto caso, testimoniato dal fatto che, a partire dal 1518, l’umanista autore di
quell’opera celebrativa dell’impresa compiuta da Colombo e patrocinata da
Isabella e da Ferdinando fu altresì introdotto come autorevole componente
del Consiglio delle Indie. Nella produzione di Pietro Martire si segnala i-
noltre l’Opus epistolarum, ampia raccolta di lettere di argomento vario,
scritte nel corso del lungo soggiorno spagnolo: si tratta di un’opera che, co-
me ebbero a notare già i primi editori, rappresenta una insostituibile testi-
monianza storica, non solo letteraria, dell’età a cavallo tra la fine del XV e
il principio del XVI secolo3.

2 Si può dire che, con la sua vicenda di umanista ‘naturalizzato’ spagnolo, Pie-

tro Martire rappresentò uno dei tramiti più importanti attraverso cui l’Umanesimo i-
taliano approdò nella penisola iberica tra la fine del Quattrocento e il principio del
Cinquecento: l’Anghiera fu, tra l’altro, uno degli autori più letti e apprezzati nel-
l’ambito dell’Umanesimo spagnolo (A. COROLEU, L’area spagnola, in Umanesimo
e culture nazionali europee. Testimonianze letterarie dei secoli XV-XVI, a cura e con
prefazione di F. TATEO, Palermo 1999, p. 259). Pietro Martire, peraltro, rappresenta
un caso indubbiamente singolare, in quanto non solo esercitò la propria influenza di
maestro italiano sulla nascente cultura umanistica di Spagna: la sua produzione
composta in Spagna venne a sua volta presa a modello in Italia, come dimostra il ca-
so della tragicommedia Fernandus servatus di Marcellino Verardi, direttamente i-
spirata dal carme Supra casum Hispani regis dell’Anghiera (GOTOR, Il carme ‘de
casu regis’ cit., pp. 187 e s.).
3 L’editio princeps delle Decades complete fu stampata nel 1530 ad Alcalà,

quattro anni dopo la morte dell’autore, «apud Michaelem de Eguia». La prima de-
cade era stata invece edita, probabilmente senza l’autorizzazione dell’autore, già nel
1511 a Siviglia per cura di Antonio de Nebrija, il quale diede poi alle stampe le pri-
me tre decadi nel 1516 ad Alcalà, preoccupandosi in quest’ultimo caso «di fare qual-
che correzione al latino dell’Anghiera» (R. CICALA-V.S. ROSSI, Per una bibliografia
dell’umanista Pietro Martire d’Anghiera, in L’umanista Aronese cit., p. 180). La
prima decade è oggi disponibile in edizione moderna: PIERRE MARTYR D’ANGHIERA,
La première Décade du Nouveau Monde (De orbe noro Decas prima), introd., tex-
te latin, trad. et notes par B. GAUVIN, Paris 2000. Sui rapporti tra Pietro Martire e il
Nebrija, rinvio a A.M. MIGNONE, Tre umanisti a corte: Pietro Martire, Lucio Mari-
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IL CARME SUPRA CASUM HISPANI REGIS 277

Qui si parlerà del carme in esametri latini Supra casum Hispani regis,
dedicato al pontefice Alessandro VI. Il carme si data al principio del 1493,
quando Pietro Martire era in Spagna già da cinque anni. Il 7 dicembre del
1492 il re Ferdinando fu vittima a Barcellona di un grave attentato, a se-
guito del quale rischiò di rimanere ucciso: il gesto fu compiuto da un oscu-
ro contadino catalano, esasperato dalle misere condizioni di vita sue e del
suo ceto. Il fatto venne descritto a caldo dall’umanista in alcune lettere
comprese nell’Opus epistolarum4. Quando apparve chiaro che la salvezza
del sovrano non era più in pericolo, solo allora nacque il poema, noto an-
che con il titolo, presente in parte della tradizione a stampa, di Pluto furens.
Dell’opera sopravvivono, che io sappia, quattro testimoni: tre copie a
stampa (l’incunabolo del 1497, l’edizione del 1511 e quella del 1520) ed
una manoscritta (conservata nel codice della Bibl. Ap. Vat. Barb. lat.
1705). Sulla base delle due cinquecentine il testo è stato recentemente edi-
to a cura di Ursula Hecht5. Il manoscritto Vaticano – non considerato, così
come l’incunabolo, nell’edizione Hecht e fin qui, per quel che mi risulta,

neo e Antonio de Nebrija, in Pietro Martire nella storia e nella cultura cit., pp. 287-
292. Per quanto riguarda l’Opus epistolarum, l’editio princeps di esso è contempo-
ranea a quella delle Decades complete: Alcalà, 1530, «apud Michaelem de Eguia».
L’opera fu poi ristampata ad Amsterdam nel 1670 «apud Danielem Elzevirium» (O-
pus epistolarum PETRI MARTYRIS ANGLERII Mediolanensis protonotarii apostolici,
prioris archiepiscopatus Granatensis atque a Consiliis rerum Indicarum Hispanicis,
tanta cura excussum, ut praeter styli venustatem quoque fungi possit vice luminis
Historiae superiorum temporum, cui accesserunt Epistolae Ferdinandi de Pulgar
coaetanei, Latinae pariter atque Hispanicae, cum tractatu Hispanico De viris Ca-
stellae illustribus, editio postrema, Amstelodami, typis Elzevirianis, veneunt Pari-
siis, apud Fredericum Leonard typographum regium MDCLXX). Nel frontespizio
dell’edizione di Amsterdam dell’Opus epistolarum – da cui sono tratte le citazioni
delle lettere di Pietro Martire presenti in queste pagine – si noti l’espressione «tan-
ta cura excussum, ut praeter styli venustatem quoque fungi possit vice luminis Hi-
storiae superiorum temporum»: l’editore seicentesco non mancò dunque di mettere
in luce il valore storiografico della raccolta epistolare di Pietro Martire. Segnalo in-
fine che una copia manoscritta dell’Opus epistolarum è conservata nel cod. Barb.
lat. 2117: essa è, molto probabilmente, una copia tratta dall’editio princeps del
1530.
4 La prima lettera sull’argomento, intitolata De vulnere regis nostri e scritta il

giorno 8 novembre del 1492, fu indirizzata al conte di Tendilla e corrisponde a: O-


pus epistolarum cit., l. V, ep. 125, p. 69. Seguirono, nel maggio e giugno del 1493,
due lettere, rispettivamente al cavaliere Giovanni Borromeo e ad Ascanio Sforza, in
cui Pietro Martire riferisce dell’episodio ormai con la certezza che il re Ferdinando
era scampato all’attentato e diffondendosi in alcune considerazioni di tono morali-
stico intorno alla fragilità della condizione degli uomini, anche dei più potenti (ibid.,
l. VI, epp. 130-131, pp. 72-73).
5 U. HECHT, Der ‘Pluto furens’ des Petrus Martyr Anglerius. Dichtung als

Dokumentation, Frankfurt am Main 1992 (il testo del carme alle pp. 117-163).
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278 DAVIDE CANFORA

inesplorato – presenta alcuni nuovi dati relativi alla tradizione del testo del
poema, che trovano solo in parte riscontro nell’incunabolo del 14976. Si
deve preliminarmente precisare che, a quel che pare, le due cinquecentine
non furono pubblicate sotto il diretto controllo dell’autore7. Nelle stampe
del 1511 e del 1520 i versi del carme sono preceduti da due brevi scritti
prefatori: la dedica di Pietro Martire al pontefice Alessandro VI e un rias-
sunto del testo che si presenta sotto forma di «argumentum et praefatio ad
lectorem»; a tutto ciò è premessa, nell’edizione del 1520, un’epistola al let-
tore dell’umanista spagnolo Alphonsus Ordonius, colui il quale curò l’ini-
ziativa della pubblicazione in quell’anno. Segue il poema, intitolato nel
modo seguente: «Petri Martyris Anglerii Mediolanensis protonotarii regii
senatoris Pluto furens»; tra il titolo e il carme, il cui inizio è indicato dalla
precisazione «exordium», le cinquecentine (ed anche l’incunabolo) pro-
pongono un distico elegiaco chiaramente modellato sull’incipit del poema
epico virgiliano ed esso pure indicato come «argumentum»: «Fortunae ra-
biem, Plutonis fulmina, regum / divorum laudes et pia gesta cano»8. Nel
manoscritto (e nell’incunabolo) la situazione appare alquanto diversa. Il
poema è preceduto dalla sola epistola di dedica composta da Pietro Marti-
re per Alessandro VI. Il titolo dell’opera si presenta nella forma seguente:
«Petri Martyris de Angleria Mediolanensi Supra casum Hispani regis ad A-
lexandrum VI pontificem maximum carmen». Inoltre, nel testo della lette-
ra dedicatoria e in quello del carme ci sono, rispetto alle versioni date alle
stampe nel secondo decennio del ‘500, alcune varianti non prive di impor-
tanza.
In primo luogo, la lettera di dedica contenuta nel manoscritto si pre-
senta, confrontata con il testo delle cinquecentine, con una diversa dispo-
sizione delle parole esordiali9. Essa reca inoltre, nella parte finale, due fra-
si in più, che sono rivolte direttamente al pontefice. Dopo avere infatti di-

6 Debbo le informazioni relative a questo incunabolo alla cortesia della dotto-

ressa Elena Sánchez de Madriaga, che qui ringrazio.


7 HECHT, Der ‘Pluto furens’ cit., pp. 103-107.
8 Ibid., pp. 117-125. Ma per il distico posto all’esordio del Pluto furens nelle

cinquecentine, cfr. anche l’incipit dei Fasti di Ovidio.


9 Nelle edizioni del 1511 e del 1520: «Generis humani custos et praesidium, pro

Hispano imperio ante pedes tuae Sanctitatis obsequium praestiturus isthuc se contu-
lit Diecus Lopes de Haro, quem ob eius virtutes suo generi respondentes et singula-
rem in me benivolentiam hoc quinquennio, quo me tenuit Hispania, mirifice semper
observavi et colui» (HECHT, Der ‘Pluto furens’ cit., p. 119); nel manoscritto e nel-
l’incunabolo: «Didacum Lopez de Aro, generis humani custos et presidium, qui pro
Hispano imperio ante pedes tuae Sanctitatis obsequium prestiturus istuc se contulit,
ob eius virtutes, suo generi respondentes, et singularem in me benivolentiam hoc
quinquennio, quo me tenuit Hispania, mirifice semper observavi et colui» (cito qui
dal f. 1r del ms.).
Cap. 12 Canfora 275-284 13-09-2002 13:24 Pagina 279

IL CARME SUPRA CASUM HISPANI REGIS 279

chiarato di accogliere con entusiasmo la richiesta dell’inviato straordinario


presso la Santa Sede, il diplomatico Diego López de Haro, il quale aveva
esortato Pietro Martire ad offrire al nuovo pontefice il carme scritto in oc-
casione dell’attentato a re Ferdinando, l’umanista di Anghiera immagina,
nell’epistola dedicatoria, di essere trattenuto dalle vivaci proteste del «li-
bellus», indignatosi per la facilità con cui il suo autore si accingeva a ren-
dere pubblico un testo non ancora sufficientemente limato. «Quom hinc o-
pusculum, hinc orator oppugnaret, – aggiunge a questo punto Pietro Mar-
tire, rivolgendosi ad Alessandro VI, secondo la versione dell’epistola de-
dicatoria che si legge nel manoscritto Barberini e nell’incunabolo – orato-
ris praeceptis auxilium ferens tua potestas accurrit. Ea me fluctuantem ac
dubium in utram partem vela flecterem adiussa oratoris impulit». Poi il te-
sto della lettera torna a coincidere con la versione presente nelle due cin-
quecentine. L’umanista osserva che sarebbe in realtà stato ben lieto di as-
secondare, almeno in parte, le esigenze di prudenza manifestategli dal «li-
bellus» e avrebbe continuato volentieri a limare il carme almeno «aliquot
menses», se non «in decimum aut nonum annum» (come prescriveva Ora-
zio): tuttavia, la certezza che l’autorità del pontefice, cui l’opera era dedi-
cata, avrebbe – più che l’eleganza e l’eloquenza dell’opera stessa – tutela-
to la fama del poema presso i posteri, aveva persuaso l’autore a congedare
subito il «libellus» e ad offrirlo al «deus in terris». Le parole dell’epistola
dedicatoria assenti nelle cinquecentine potrebbero rappresentare, rispetto
al testo del manoscritto Barberini e dell’incunabolo, una banale caduta
meccanica, comune ad entrambe le edizioni, che comunque appaiono – val
la pena di ricordarlo – indipendenti l’una dall’altra dal punto di vista del-
la storia della tradizione10. Le frasi non presenti nelle due stampe, pur di-
rettamente riferite al pontefice, non sembrano infatti contenere alcun ele-
mento rilevante (riferimenti a eventi politici, eccesso di ‘imprudenza’ ov-
vero di adulazione da parte di Pietro Martire) che possa avere indotto l’au-
tore – o l’editore – a cassarle in un tempo successivo. Interessante appare,
semmai, il problema – cui il «libellus» fa riferimento nella sua immagina-
ria prosopopea – delle «res nostrae fidei», da Pietro Martire incautamente
mescolate nel carme con i «poetica figmenta»11. Siamo qui di fronte al ten-
tativo, da parte dell’umanista, di rivendicare la propria libertà ad esercita-
re licenze poetiche apparentemente poco ortodosse dal punto di vista cri-
stiano (anzitutto l’avere associato ai re cattolici le immagini della mitolo-
gia pagana) attraverso la simulazione di una sorta di autocensura preventi-

10 HECHT, Der ‘Pluto furens’ cit., pp. 107-109.


11 Ilriferimento alle «res nostrae fidei» mescolate ai «poetica figmenta» appa-
re sia nelle edizioni a stampa (HECHT, Der ‘Pluto furens’ cit., pp. 119-121), sia nel
manoscritto (f. 1v).
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280 DAVIDE CANFORA

va: il «libellus» rimprovera infatti l’autore per l’audacia di avere parlato di


argomenti legati alla religione in un carme denso di riferimenti mitologici
pagani; l’autore ritiene tuttavia di poter essere senz’altro perdonato per il
fatto che il carme è dedicato al pontefice in persona. La questione – che,
come è stato notato, ricorda la rivendicazione della libertà del poeta ri-
spetto al teologo e allo storico già presente nelle Genealogie di Boccac-
cio12 e testimonia dunque della articolata preparazione umanistica di Pie-
tro Martire – rappresenta un indizio evidente del clima intransigentemente
cattolico che regnava presso la corte di Ferdinando e Isabella, i sovrani
che, giova ricordarlo, organizzarono la tristemente nota cacciata degli E-
brei dalla Spagna.
Varianti alquanto significative si riscontrano, come si è detto, anche tra
il testo del carme presente nel manoscritto e nell’incunabolo e quello dato
alle stampe nel 1511 e nel 1520. Si tratta di varianti che, se non mutano il
senso complessivo del poema, quasi certamente non sono semplici varianti
di tradizione. Cito qui, a titolo di esempio, i primi quattro versi dell’opera.
Essi si presentano nelle cinquecentine secondo la seguente forma:

Sidera, quae versant crebra vertigine mundum


praecipitique trahunt nostra haec mortalia flexu:
quis mansura diu voto sperabit in uno,
quandoquidem in tanto clauserunt lumina rege?13

Il manoscritto Barb. lat. 1705 e l’incunabolo recano invece il seguente


esordio del carme:

Sidera quis vario flexu vertentia mundum


praecipitemque gradum numquam sistentia lege
et numquam inter se concordi pace quieta
permansura diu voto sperabit in uno?

Un altro caso di variante non solamente formale presente nel mano-


scritto e nell’incunabolo – che cito qui a titolo di esempio – corrisponde al
v. 24 delle cinquecentine: il secondo emistichio di questo verso appare in
queste ultime nella forma «haec nisi causa suprema»; nel manoscritto e nel-
l’incunabolo si legge invece «is nisi spiritus ardens». Si segnalano altresì
casi – cui farò solo cenno in questa sede, per ragioni di brevità – in cui le
cinquecentine recano un passo in forma abbreviata (come al v. 140, cui cor-

12 HECHT, Der ‘Pluto furens’ cit., pp. 66-67.


13 Ibid., p. 125.
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IL CARME SUPRA CASUM HISPANI REGIS 281

rispondono nel manoscritto e nell’incunabolo tre esametri) ovvero casi in


cui sono il manoscritto e l’incunabolo a rivelarsi più sintetici (i vv. 122-125
delle stampe si riducono nel codice a due soli esametri). Altri luoghi anco-
ra sono forse meno significativi, perché più legati a problemi strettamente
formali. Cito, sempre a titolo di esempio: «nec leni» del v. 12 diventa «leni
nec» nel codice e nell’incunabolo; «vero simile» diventa «recto simile».
È legittimo a questo punto chiedersi se le varianti non formali riscon-
trabili nel testo del manoscritto Vaticano – e che per lo più si trovano anche
nell’incunabolo – rispetto al testo delle cinquecentine debbano considerar-
si varianti dovute agli editori ovvero varianti d’autore e, in tal caso, quale
sia la versione che corrisponde alla volontà dell’autore. A interventi d’au-
tore sul testo del carme Supra casum Hispani regis ha fatto riferimento Jo-
sé Luis Gotor. Si tratta di quanto segue. L’incunabolo non reca alcuni versi
di esortazione al re dei Francesi alla concordia ed alla restituzione del Ros-
siglione e della Cerdagna agli Spagnoli. L’assenza di questi versi si potreb-
be spiegare abbastanza bene, ha osservato Gotor, in una copia divulgata dal-
l’autore dopo il 19 gennaio 1493, data della firma della pace di Barcellona
tra Francia e Spagna: per esempio, nella copia che Diego López de Haro
portò a Roma nel giugno del 1493. Prima del 19 gennaio 1493, al contra-
rio, la presenza di quei versi è invece più comprensibile14. È qui opportuno
ricordare che le edizioni delle opere di Pietro Martire non sempre videro la
luce sotto il controllo dell’autore. Le Decades, ad esempio, non solo furo-
no dapprincipio pubblicate in modo parziale e senza la sua autorizzazione15,
ma furono in parte ‘emendate’ per iniziativa dell’umanista Antonio de Ne-
brija. I rimproveri di superficialità nel curare la divulgazione delle sue ope-
re – rimproveri che il «libellus» muove a Pietro Martire nella prefazione del
carme dedicato ad Alessandro VI –, a parte gli evidenti elementi topici, te-
stimoniano indirettamente la tendenza a una certa riluttanza, da parte del-
l’umanista di Anghiera, a sorvegliare la diffusione della propria produzione
letteraria. Non si può escludere che le cinquecentine del carme Supra ca-
sum Hispani regis abbiano avuto sorte in parte analoga alle Decades. Si no-
ti che la prima delle due cinquecentine (Alcalà 1511) apparve nello stesso
luogo, nello stesso anno e presso lo stesso editore che fece uscire la editio
princeps, parziale e non ‘sorvegliata’ dall’autore, delle Decades (la secon-
da edizione, apparsa sempre ad Alcalà nel 1516, fu ancora parziale e, come
si diceva, corretta dal Nebrija). Nel colofone dell’edizione di Alcalà si leg-
ge: «impressum Hispali cum summa diligencia per Jacobum Corumberger
Alemannum anno millesimo quingentesimo undecimo, mense vero Aprili»;
nel colofone della stampa di Valencia del 1520, invece: «castigatum tersum

14 GOTOR, Il carme ‘de casu regis’ cit., p. 190.


15 Cfr. nota 3.
Cap. 12 Canfora 275-284 13-09-2002 13:24 Pagina 282

282 DAVIDE CANFORA

et ad unguem emaculatum hoc opus (scil.: i Poemata di Pietro Martire) ex-


cussit Valentiae Joannes Vignaus Nonas Februarias anno a Christi Natali vi-
gesimo supra quingentesimum millennium»16. Alla luce di tutto ciò è forse
lecito prospettare l’ipotesi che le varianti del manoscritto Barberini Latino
(e, in parte, dell’incunabolo) rappresentino la versione del carme composta
originariamente da Pietro Martire e che le cinquecentine siano portatrici di
ritocchi, di diverso tenore, ora formali, ora sostanziali, operati dai curatori
di quelle stampe.
Oltre che dai versi finali del componimento, nei quali è presente un ri-
ferimento alquanto generico al papa, il cui compito è di «claudere Tarta-
ream portam atque aperire beatam»17, il legame tra il carme di Pietro Mar-
tire sull’attentato contro il re Ferdinando e il pontefice Alessandro VI è da-
to, come si è visto, dall’epistola dedicatoria del poema. Si tratta di un’epi-
stola che presenta i tratti più tipici della captatio benevolentiae18: il papa
viene additato come «generis humani custos et praesidium», detentore di
una somma «auctoritas» derivante dallo scettro che è tra le sue mani e dal
trono su cui siede, «deus in terris» e «beatissimus pater». Sono evidente-
mente formule tradizionali di adulazione, che ricorrono non diverse anche
in altre prefazioni dedicate da umanisti al pontefice. A parte alcune ovvie
differenze derivanti dalle circostanze di composizione, le parole introdut-
tive che, per esempio, precedono l’Oratio de virtutibus domini nostri Iesu
Christi nobis in eius passione ostensis ad Alexandrum VI Pontificem Maxi-
mum di Lippo Aurelio Brandolini ripropongono, a distanza di quattro anni
circa dall’epistola di Pietro Martire, elogi del tutto analoghi. Ad Alessan-
dro VI, «poene in terris Deus», Brandolini si sforza, «animo cupido», di
dedicare un prodotto, sia pure indegno e imperfetto, del proprio ingegno:
allo stesso modo Pietro Martire congedava «ingenio cupido» il proprio «li-
bellus» dedicato al pontefice, pur sapendo che esso non corrispondeva in
alcun modo alla dignità e all’eleganza che avrebbe dovuto avere un’opera
offerta al vicario di Cristo in terra. Il pontefice, tuttavia, non sarà affatto –
di questo sono egualmente convinti Anghiera e Brandolini – un giudice se-
vero del dono ricevuto, bensì riuscirà con la propria autorevolezza a oscu-
rarne i difetti letterari19. Se si mette da parte l’ufficialità dell’epistola de-
dicatoria di Pietro Martire, tuttavia, i toni usati dall’umanista nel rivolger-
si ad Alessandro VI nel 1492 (toni conformi alla linea politica del «do ut
des», adottata dalla corte spagnola nei confronti dell’appena eletto papa
Borgia)20 appaiono del tutto incongrui rispetto al giudizio che del nuovo
16 HECHT, Der ‘Pluto furens’ cit., pp. 105-106.
17 Ibid.,p. 163.
18 Ibid., pp. 60-74.
19 L’Oratio di Brandolini fu stampata a Roma da Johann Besicken nel 1496, e-

dizione cui ho fatto riferimento in queste pagine.


20 GOTOR, Il carme ‘de casu regis’ cit., p. 188.
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IL CARME SUPRA CASUM HISPANI REGIS 283

papa circolava presso quella corte sin dal momento della sua nomina al so-
glio pontificio. Alcune lettere dello stesso Pietro Martire sono illuminanti in
proposito. Scrivendo a Franciscus Pratensis Oriolanus, «Alexandri pontificis
familiaris», l’autore delle Decades de orbe novo ostenta, in modo neppure
troppo cauto, notevoli perplessità intorno alla persona del papa: «Hinc nam-
que spes lenit, inde timor urget. Pollet ingenio vir iste, magnique animi argu-
menta prae se tulit multa. Quae duo salutem aut, veluti gladius in manu fu-
rentis, turbines parere solent. Si esse cupidus desierit, si ambitiosus, si filio-
rum, quos sine rubore ostentat, oblitus Ecclesiam augustam se converterit, fe-
licem fore sedem Apostolicam iudicabo. Ast si cum maiore potentia filialem
caecitatem adauxerit, in praeceps omnia ruent, concutietur Italia, Christianus
orbis tremiscet, multa subvertentur. Novimus namque hominem alta semper
agitantem vesanoque amore, ut filios ad summum evehat, rapi. Dubius igitur
inter spem et metum vivo, nec quid velim intelligo». Alessandro VI – prose-
gue Pietro Martire – si è costruito la scala che lo ha portato al pontificato «non
litteris, non continentia, non charitatis fervore», bensì, come qualcuno «ad au-
rem susurro» gli ha riferito, compiendo «nescio quae turpia, sacrilega, nefan-
da», «auro et argento pollicitisque grandibus». Ma una scala del genere è sta-
ta innalzata, conclude l’umanista, per scalzare Cristo dal suo trono, non af-
finché fosse venerato e glorificato21. I commenti di Pietro Martire all’elezio-
ne di Alessandro VI si fanno ancora più vivaci se si legge la lettera indirizza-
ta pochi giorni dopo al conte di Tendilla: non più, dunque, a un «familiaris»
del pontefice, bensì ad un uomo di fiducia della corte di Ferdinando e Isabel-
la. Scrive l’Anghiera riferendosi all’annuncio dell’elezione di Alessandro VI:
«Nullus est ob hanc rem in regibus animi motus ad laetitiam, nulla frontis se-
renitas: tempestatem potius in orbe christiano, quam tranquillos portus, prae-
sagire videntur, magisque quod sacrilegos se habere filios turpiter glorietur
[...] direptionem Petraeae tiarae adfore suspicantur. Cardinalis ille tantum pa-
trimonia filiis ingentesque titulos omni nixu quaeritabat: quid fore sperandum
est in summa licentia? [...] Si forte paternam naturae vim Christiana charitas
superaverit, pontem Christianis omnibus sublicio aut lapideo fortiorem ad su-
peros stabiliet [...]. Deus faxit, ut ad meliorem eum partem direxisse inge-
nium, quo maxime pollet, audiamus»22.
Si noti, in queste parole, il riferimento al notevole «ingenium» del pon-
tefice, presente anche nella già citata epistola a Franciscus Pratensis Orio-
lanus e nella prefazione dell’Oratio di Brandolini (nonché ricorrente, in for-
ma analoga, in molte descrizioni del papa risalenti a quel tempo)23. Allo

21 La lettera a Franciscus Pratensis Oriolanus, datata 19 settembre 1492, è in

Opus epistolarum cit., l. V, ep. 117, p. 66.


22 Questa epistola si data al 24 settembre 1492: ibid, l. V, ep. 118, p. 66.
23 Ricordo qui la notizia dell’elezione di Alessandro VI riferita al principio del-

la Storia d’Italia di Guicciardini (I 2): «In Alessandro sesto (così volle essere chia-
Cap. 12 Canfora 275-284 13-09-2002 13:24 Pagina 284

284 DAVIDE CANFORA

stesso conte di Tendilla è indirizzata da Pietro Martire, in data 10 novem-


bre 1503, una lettera in cui si narra della morte di Alessandro VI e si fa ri-
ferimento alla reazione della corte spagnola di fronte alla notizia della
scomparsa del pontefice. L’Anghiera per prima cosa descrive i modi della
morte, «ut ab Urbe accipitur»: il duca Valentino aveva invitato a cena, in-
sieme con il papa, due cardinali dei quali intendeva liberarsi avvelenando-
li. Senonché Dio, «qui est iustus iudex, in artificem insidias vertit»: il vele-
no, a causa della sprovvedutezza di un cameriere, era finito nelle coppe del
duca e del pontefice. La lettera di Pietro Martire si conclude con le seguen-
ti parole: «Qualis autem Alexander VI hic pontifex Maximus vixerit, non
deerunt qui vobis velint enarrare [...]. Regina haec nostra Catholica, quae
hic agit, absente adhuc marito, huius pontificis mortem non videbitur tulis-
se moleste. Cum vero suffectum eius loco cardinalem Senensem Pii II ne-
potem, qui et ipse Pius III appellari voluit, emisit argumenta laetitiae»24.
L’insofferenza degli Italiani nei confronti degli Spagnoli nel corso del
Seicento aveva tratto origine già dalle crudeltà degli Aragonesi e anche dal-
le «nefandezze» dei Borgia, come ebbe a scrivere Gabriele Pepe, il quale ri-
cordava in proposito l’epistola de educatione del Galateo, in cui la Spagna
era vista come «la rovina d’Italia»25. Lo ‘spagnolismo’ di Alessandro VI,
tuttavia, fu in primo luogo nepotismo: al di là delle formali dediche poeti-
che e dell’abile opera dei diplomatici, l’atteggiamento dei regnanti di Spa-
gna nei confronti del pontefice spagnolo, come con chiarezza si ricava dal-
la testimonianza di Pietro Martire nell’epistolario, fu sin dal principio di
diffidenza, se non apertamente negativo, al punto che la morte di papa Bor-
gia e la successione – destinata peraltro a breve durata – di Pio III furono
salutate dalla regina con espliciti «argumenta laetitiae».

chiamato il nuovo pontefice) fu solerzia e sagacità singolare, consiglio eccellente,


efficacia a persuadere maravigliosa, e a tutte le faccende gravi sollecitudine e de-
strezza incredibile; ma erano queste virtù avanzate di grande intervallo da’ vizi: co-
stumi oscenissimi, non sincerità non vergogna non verità non fede non religione, a-
varizia insanabile, ambizione immoderata, crudeltà più che barbara e ardentissima
cupidità di esaltare in qualunque modo i figliuoli, i quali erano molti».
24 Opus epistolarum cit., l. XVI, ep. 265, pp. 152-153.
25 G. PEPE, La politica dei Borgia, Napoli 1945, pp. 25-27.
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GRAZIA DISTASO

Il mito umanistico del tiranno


in una riscrittura tardo romantica
(I Borgia di Pietro Cossa)

Non è certo casuale che la memoria di Alessandro VI e dell’operato non


solo suo ma della sua famiglia – mi riferisco a Lucrezia e al Valentino –, sia
venuta a depositarsi, oltre che nella riflessione storiografica, nella scrittura
dei diari e nelle ben più tarde rivisitazioni romanzesche su Lucrezia, da Gre-
gorovius sino alla Bellonci1, senza tuttavia raggiungere con altrettanta faci-
lità il piano della scena. Un’eccezione di rilievo, nel panorama ormai ro-
mantico, è costituita dal dramma in tre atti in prosa dedicato a Lucrezia
Borgia da Victor Hugo nel 18332, una fantasiosa e rutilante presentazione
della moglie di Alfonso d’Este che, fra notturni e feste in maschera vene-
ziani e cupi intrighi della corte ferrarese a base di spie, porte segrete e ve-
leni, riscatta la sua fama di donna bella e nefasta attraverso l’amore per il
figlio Gennaro, capitano di ventura nato da una sua relazione incestuosa con
il fratello duca di Gandìa. A distanza di un anno questo dramma, uno fra i
più goffi e melodrammatici intrecci vittorughiani, catturava la fervida fan-
tasia del librettista Felice Romani, anch’egli proteso, nell’omonimo melo-
dramma rappresentato al teatro S. Carlo con la musica di Gaetano Donizet-
ti, verso l’immagine di una Lucrezia «traditrice, venefica, impura», riscat-
tata dall’amore materno. Trionfava in realtà, nell’uno e nell’altro, in Hugo
e in Romani, nella struttura del dramma che contiene in sé il melodramma
e poi del melodramma vero e proprio, lo schema romantico dell’antitesi,
che aveva buon gioco a ritrovare in Lucrezia, come scriveva nell’Avverti-
mento all’opera Felice Romani, la «difformità morale purificata dalla ma-
ternità»3. È evidente che proprio su questo personaggio della famiglia do-
vesse e potesse in ogni modo far leva l’immaginario, come sempre attratto
dalla figura femminile, e in questo caso dall’alone di pruriginoso e fosco
mistero di cui la leggenda aveva circondato Lucrezia. Quanto al Valentino,
a guardar bene, proprio la profonda fusione che la storiografia aveva opera-
to dei destini del figlio e del padre – un padre papa, poi, e come tale non fa-
cilmente proponibile come dramatis persona, per quanto singolare e di-

1 M. BELLONCI, Lucrezia Borgia, rist. Milano 1983 (Milano1939).


2 Cfr. V. HUGO, Lucrezia Borgia, trad. ital. di U. CARBONETTI, Milano 1908.
3 F. ROMANI, Avvertimento a Lucrezia Borgia, melodramma diviso in prologo

e due atti da rappresentarsi nel Real Teatro S. Carlo, Napoli 1848.


Cap. 13 Distaso 285-296 13-09-2002 13:25 Pagina 286

286 GRAZIA DISTASO

scusso come Alessandro VI –, con l’ideale congiunzione delle due figure,


pressoché inscindibili nell’unità di intenti e di posizioni che sembrava a-
verle accomunate4, era uno dei probabili motivi che faceva apparire assai
poco mossa, e quindi insoddisfacente sul piano degli esiti teatrali, la vicen-
da di Cesare Borgia, racchiudendola in fondo nei limiti di un episodio non
certo edificante ma neanche poi tanto eccezionale di quella Roma/Babilo-
nia del Rinascimento di cui l’Aretino si era fatto interprete con la Cortigia-
na in riferimento al pontificato di Clemente VII. Se di un’assenza può es-
sere allora utile tentare una spiegazione, possono essere state queste le ra-
gioni – accanto a non improbabili motivi di pruderie controriformistica –
che, fra Cinque e Seicento, determinarono un vuoto che successivamente
neanche la drammaturgia alfieriana, con le due figure del padre/tiranno e
del figlio tradizionalmente antitetiche e divergenti, avrebbe potuto colmare.
A una linea drammaturgica propriamente morale, da tragedia umanistica (la
tragedia dei «dubiae certamina vitae», con l’alta materia «de miseriis et rui-
nis insignium et excellentum» di cui parla Albertino Mussato)5, sembra ri-
ferirsi il personaggio del tiranno che, a partire dagli anni Sessanta dell’Ot-
tocento, il versatile letterato romano Pietro Cossa6 consegnava alla vigoro-
sa recitazione dei grandi attori dell’epoca, da Ernesto Rossi a Ermete No-
velli, a Gustavo Salvini ed Ermete Zacconi7. Ed è singolare che, mentre il
teatro del tempo assumeva in quegli anni con le opere di Ferrari, Torelli e
Giacosa, quei caratteri borghesi che avrebbero costituito le basi del suo rin-
novamento, il Cossa – egli stesso borghese e bisognoso di un solido rac-
cordo con il reale – sentisse l’esigenza di inserire anche nella tradizione del
dramma tardo ottocentesco, non destinato alla semplice lettura ma popolar-
mente aperto agli esiti di una larga rappresentabilità, l’impegnativo perso-

4 Un carattere di rivendicazione politica riveste la «commedia del duca Valenti-

no e del papa Alessandro VI», recitata ad Urbino nel febbraio del 1504, che è una sor-
ta di cronaca-spettacolo di ciò che, ad opera dei Borgia, si era verificato nello stato
di Urbino fra il 1501 e il 1503. Cfr. F. CRUCIANI, Alessandro VI, in CRUCIANI, Teatro
nel Rinascimento. Roma 1450-1550, Roma 1983, p. 246 (per una ricostruzione del
quadro culturale romano all’epoca di Alessandro VI si vedano le pp. 241- 302).
5 Cfr. E. RAIMONDI, Una tragedia del Trecento, in RAIMONDI, Metafora e sto-

ria. Studi su Dante e Petrarca, Torino 1970, pp. 147-162.


6 Per le notizie bio-bibliografiche cfr. G. PETROCCHI, voce Cossa, Pietro, in

DBI, 30, Roma 1984, pp. 98-100; si vedano, inoltre, G. PULLINI, Cossa P., in En-
ciclopedia dello spettacolo, III, coll. 1547-1549, e C. APOLLONIO, P. Cossa, in La
letteratura italiana. I minori, Milano 1962, IV, pp. 2837-2850.
7 Cfr., per una visione d’insieme dei problemi dello spettacolo e della recitazio-

ne dalla metà alla fine dell’ Ottocento, R. ALONGE, Teatro e spettacolo nel secondo Ot-
tocento, Roma-Bari 1988, e G. PULLINI, Teatro italiano dell’Ottocento, Milano 1981.
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IL MITO UMANISTICO DEL TIRANNO 287

naggio del tiranno – tiranni di epoca romana o del Rinascimento8 – mu-


tuandolo dalla tipologia del teatro umanistico-rinascimentale più che dai
grandiosi e in fondo ormai poco proponibili conflitti fra virtù e tirannide del
teatro alfieriano; teatro, peraltro, di cui rimaneva una vasta eco nella sua o-
pera pur nel rifiuto delle unità classicistiche e nella sostanziale adesione a
una sorta di «romanticismo realistico»9, fra Hugo e il nascente naturalismo,
che proclama l’incidenza di voci e di affetti provenienti, dice il Cossa, dal
«lirismo del cuore»10. Al Cossa, noto soprattutto per il dramma Nerone
(1871), cui arrise una straordinaria risonanza in Italia e in tutta Europa, e
autore e persino cantante in parti di solista di libretti d’opera (una curiosità
che attesta la sua conoscenza dell’opera di Romani-Donizetti è data dalla
notizia che impersonò il duca Alfonso nella Lucrezia Borgia), si deve la ri-
visitazione della vicenda borgiana in un dramma in cinque atti, rappresen-
tato nel dicembre 1878 al teatro Gerbino di Torino dalla compagnia Bellot-
ti-Bon e stampato sempre a Torino nel 1881; una sorta di affresco che, nel-
la variegata sequenza dei quadri che lo compongono, consente di cogliere
il colore di un’epoca più che offrire la dinamica di un’azione teatrale com-
piutamente realizzata.
L’epoca scelta per il dramma copre un arco temporale che nei cinque at-
ti riguarda il cruciale anno 1497 concludendosi con l’omicidio, il 14 giugno
di quell’anno, del duca di Gandìa; l’Epilogo riguarda l’anno della morte di
Alessandro e della fine della potenza borgiana, il 1503. Una scelta singolare
che, mentre pone il dramma storico del Cossa in naturale sintonia con le tra-
gedie storiche romantiche, insegue soprattutto un’ideale cronologia che di-
lata la consueta deflagrazione tragica per incentrarla, anziché sul momento
– di per se stesso culminante sul piano della catastrofe – della rivalità fra fra-
telli, il Valentino e il duca di Gandìa, e quindi dell’uccisione di quest’ultimo,
secondo lo schema tragico di rivalità e morte del Don Garzia alfieriano, sul
momento invece della definitiva caduta della grandezza terrena; così come
nel Nerone, più che un tragico conflitto di passioni, Cossa aveva ricostruito
e immaginato la vita del tiranno all’apice della potenza e poi nel precipizio
della caduta. Nel suo dramma borgiano, come nella Lucrezia di Romani, si

8 Del tentativo cossiano di «risuscitare in teatro i tempi romani» parla C. TRE-


VISANI, in Gli autori drammatici contemporanei, I, Roma 1885, p. 125. Sui Borgia,
in particolare, cfr. pp. 152-170.
9 S. D’AMICO, Storia del teatro drammatico, Milano 1940, p. 158. Il D’Amico

sottolinea, fra l’altro, come il Cossa si sia assunto il compito di borghesizzare la tra-
gedia in versi.
10 P. COSSA, Prologo del Nerone, in Il teatro italiano, V, La tragedia dell’Otto-

cento, a cura di E. FACCIOLI, II, Torino 1981, p. 394 (si veda, del Faccioli, la nota
bio-bibliografica su Cossa che precede il dramma).
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288 GRAZIA DISTASO

assisteva a un inveramento nella psicologia tutta romantica della purifica-


zione. Lì Lucrezia, dinanzi al figlio che sta per morire avvelenato per un tra-
gico errore, esprime la sua insoddisfatta e dolorosa tensione spirituale: «Ei
potea placarmi Iddio. / Me parea far pura ancor. / Ogni luce in lui mi è spen-
ta» (fine atto II); qui Vannozza Catanei, l’antica amante del papa, da cui so-
no nati Lucrezia, Jofrè, Cesare e Giovanni, ormai dedita – le testimonianze
storiche l’hanno concordemente tramandato – a una vita di grande onestà e
purezza di costumi, manifesta la sofferta aspirazione a un ribaltamento del
giudizio umano nell’eternità del divino: «s’avvicina convulsa – ad Alessan-
dro VI, anch’egli morto per avvelenamento –, lo contempla, leva le mani al
cielo, ed esclama: ‘Stai dinanzi al giudizio dell’Eterno, / O anima immorta-
le! Io piango...e prego’»11. Il dramma si apre con la curiosa ripresa di un par-
ticolare dell’opera del Gregorovius dedicata a Lucrezia Borgia12, che è sce-
neggiata per un buon tratto nella prima parte dell’opera cossiana e che, a sua
volta, riprende in molti punti minuziose osservazioni del Liber notarum del
cerimoniere del papa, il Burckard o Burcardo, anch’egli personaggio del
dramma di Cossa. Nel testo del Gregorovius ci si riferisce alla venuta da Na-
poli, il 20 maggio 1496, di Don Jofrè principe di Squillace con la giovanis-
sima moglie Donna Sancia, figlia illegittima del duca di Calabria, e all’ac-
coglienza loro riservata in Vaticano con solenni funzioni religiose «nel cor-
so delle quali – scrive il Gregorovius – si vedevano le due principesse [Lu-
crezia e Donna Sancia] e le loro dame di corte sfacciatamente sedute sugli
stalli de’ canonici: e per tal modo, come il Burckard nota, erano pel popolo
motivo di pubblico scandalo»13. Senza legare il fatto alla venuta della nobi-
le coppia, ma a una funzione celebrata in San Pietro in un giorno festivo del
1497, il Cossa nella scena d’apertura fingeva che il Burcardo, nella sua qua-
lità di cerimoniere papale, fosse stato scherzosamente investito da Lucrezia
del compito di esprimere un giudizio sul comportamento tenuto da lei e da
Sancia in San Pietro, e che poi, dinanzi alle sue imbarazzate esitazioni, Giu-
lia Farnese, la concubina del papa, come veniva definita, si vedesse costret-
ta a rimettere la singolare controversia nelle mani del fratello, quell’Ales-
sandro che era stato nominato cardinale sin dal settembre 1492. Lo schivo e
malvisto cerimoniere, con il suo diario («non mi piace / quel tuo cerimonie-

11 Epilogo, scena ultima, in P. COSSA, I Borgia, dramma in versi in cinque atti

ed un epilogo, Torino 1881. Da questa edizione verranno tratte tutte le citazioni del
dramma (che fu riproposto col sottotitolo dramma storico in cinque atti nella colla-
na «Fiore di ogni letteratura», Milano 1923).
12 F. GREGOROVIUS, Lucrezia Borgia (La leggenda e la storia), Milano 1932.
13 Ibid., p. 84. Quanto alle notazioni del Burcardo cui si riferisce Gregorovius

cfr. JOHANNIS BURCKARDI Liber notarum ab anno 1483 usque ad annum 1506, a cu-
ra di E. CELANI, RIS2, 32/2, (1912).
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IL MITO UMANISTICO DEL TIRANNO 289

re», dirà Valentino al padre, I V), costituisce in realtà la voce straniante che
giudica, ed è con questa duplice connotazione che appare come personaggio
di un dramma che è, innanzitutto, l’affresco della corruzione e della deca-
denza del papato, un affresco tanto più fosco quanto più leggera e vacua è
l’intonazione delle battute che si susseguono sulla scena per i primi tre atti.
L’interesse del Cossa va in effetti verso le epoche e le società che offrono lo
spettacolo della dissolutezza, della brutalità, del delitto, come la Roma anti-
ca dei Neroni o delle Messaline, o la Roma borgiana del Rinascimento, con
un’evidente propensione verso il minuto, l’aneddotico, i particolari di costu-
mi, le singolarità dei personaggi, visti nella loro vita privata; sicché, la con-
clusione è del Croce, amorevole interprete delle virtù e dei limiti dell’opera
cossiana, «cercò più volentieri Svetonio che Livio, più i diari del Burcardo
che le storie del Machiavelli o del Varchi»14, in ossequio a un concetto di sto-
ria mosso e graffiante. Non meraviglia perciò trovare, in questa sorta di ca-
leidoscopio15 che è per molti aspetti il dramma borgiano del Cossa, veloci
cenni ai più disparati fatti storici, dall’incoronazione di Massimiliano a Mi-
lano alla scoperta dell’America («Da quei paesi – dice Alessandro Farnese,
in riferimento ai re di Spagna e ai loro patti con il Vaticano – asporteranno
l’oro, / v’ apporteran la fede», I I), dalla sconfitta degli eserciti della lega al-
la predicazione del Savonarola, o al farsi e disfarsi delle varie alleanze, da
quella con il Moro a quella con gli Aragonesi; oppure filtrano – a volte con
alterazioni della cronologia storica – eventi culturali di rilievo che riguarda-
no la presenza a Roma di Copernico o la morte di Pomponio Leto16 o anco-
ra l’Orfeo del Poliziano, presentato da Aurelio Brandolini, poeta di corte che
ha asservito la sua musa al mecenatismo papale, come «una recente e famo-
sa tragedia» che egli invano cerca di rendere accetta allo spensierato entou-
rage di Alessandro («Non vogliamo tragedie», I I). E non mancava l’eco dei
pettegolezzi che circolavano a Roma sulla relazione fra Alessandro e Giulia
o sulla vivacità di donna Sancia, contesa fra il duca di Gandìa, il Valentino e
il cardinale Ippolito d’Este, o sul fatto che il Pinturicchio, l’intelligente pit-
tore integrato nella corte borgiana ma anche lui, a tratti, critico e impietoso
commentatore delle vicende della munifica famiglia tiestea («Son famiglia /
tiestèa questi Borgia!», III V) avesse raffigurato una Madonna col volto di
Giulia Farnese nei famosi affreschi dell’appartamento papale17. Anche un

14 B. CROCE, Pietro Cossa, in CROCE, La letteratura della Nuova Italia. Saggi

critici, II, Bari 1921, pp. 145-166 (la citazione è a p. 153).


15 Cfr. Borgia, in Dizionario letterario Bompiani – Opere, I, Milano 1947, p. 452.
16 In realtà Copernico tenne lezioni di astronomia e di matematica nell’Uni-

versità di Roma non nel 1497, epoca in cui è ambientato il dramma, ma nel 1500
(cfr. CRUCIANI, Alessandro VI cit., p. 243); Pomponio Leto, poi, morì nel 1498.
17 Cfr. L. VON PASTOR, Le pitture del Pinturicchio nell’appartamento Borgia,

in PASTOR, Storia dei Papi dalla fine del Medioevo, III, Roma 1959, p. 628.
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grande evento storico quale la discesa di Carlo VIII giungeva riflesso attra-
verso l’episodio, che il Cossa riprendeva direttamente dal Liber notarum,
dell’incontro avvenuto nel giardino segreto del Vaticano fra Alessandro VI e
Carlo VIII, quando il papa aveva finto di non vedere la genuflessione fatta
dal re per ben tre volte; un fatto minuziosamente annotato nel diario burcar-
diano sotto la data 16 gennaio 149518. Nel dramma a richiamare l’episodio
è lo stesso Alessandro, rivendicando addirittura i suoi sentimenti di italianità
(«Piero Capponi vendicò Firenze, / io vendicai l’Italia», II IV). Ed è certo sin-
golare che il Cossa, che aveva combattuto nella prima guerra d’indipenden-
za e militato nella Repubblica romana e che, adolescente, era stato espulso
dal Collegio romano perché «accusato di eresia e di italianità troppo spin-
ta»19, attribuisse proprio ad un papa spagnolo questi sentimenti, capovol-
gendo con decisione l’ormai consueto topos, risalente alla storiografia sette-
centesca, che vedeva il Borgia come fiancheggiatore dell’invasione di Carlo
VIII20; il fatto è che dietro il Cossa c’erano non solo Burcardo e Gregoro-
vius, ma anche il grande storico della Civiltà del Rinascimento in Italia, ap-
parsa in traduzione italiana nel 1876 e certamente ben nota al laico dram-
maturgo dalla formazione romantico-risorgimentale, che nelle linee del libro
trovava tracciato il suo ideale di secolarizzazione dello stato spregiudicata-
mente impersonato da Cesare Borgia col sostegno di Alessandro21. Nella fi-
gura del Valentino il Cossa coglieva dunque il singolare comportamento del
tiranno, ai limiti quasi della credibilità; ma poneva in rilievo anche la lucida
consapevolezza che sosteneva Cesare nella vigorosa distinzione fra la Chie-
sa e lo stato borgiano («Son diversa / cosa la Chiesa e i Borgia, ed io com-
batto / per i Borgia», Epilogo, scena V), nella contrapposizione fra l’età vi-
gliacca e il sogno – definito magnanimo – di «redentore / feroce d’una gen-
te» (IV V), nella centrale riflessione infine, chiaramente ispirata al Machia-
velli, sulle milizie mercenarie e sull’ inettitudine dei principi di una Italia as-
servita allo straniero, con i propositi di riscatto nazionale pur pronunciati a
suggello dell’imminente assassinio del fratello: «Pur ch’io / arrivi là dove
l’ardir mi spinge, / sia buona ogni arte» (IV IV). Un monologo ad effetto è

18 BURCKARDI Liber notarum cit., p. 605. Di questo incontro non si parla nel li-

bro di Gregorovius.
19 PETROCCHI, Cossa, Pietro cit., p. 98.
20 Sulla «demonizzazione del personaggio nel clima ‘civile’ del Settecento» si

è soffermato F. TATEO nella relazione La memoria storica di Alessandro VI, letta al


Convegno Da València a Roma a través de los Borja, (Valencia, 23-26 febbraio
2000), di prossima pubblicazione.
21 Dall’interpretazione che il Burckhardt offre del pontificato di Alessandro VI

prende le mosse Tateo nella relazione sopra citata.


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IL MITO UMANISTICO DEL TIRANNO 291

questo di Cesare in IV IV, nel corso del quale l’endecasillabo cossiano natu-
ralmente prosastico aveva modo di innalzarsi con uno scatto lirico che cul-
minava in una vibrante e retorica apostrofe al Tevere:

(va verso il parapetto del bastione e si ferma.


Chiaro di luna nascente)

Il Tevere! La tua
gloria dov’è, fiume divino? Un tempo
lavacro ai forti, l’onda tua portava
superbamente i lauri che i tuoi figli
ti gittavano in seno: ora il tuo fango
scintilla a stento al raggio della luna
che sorge là dietro quel colle, e scorri
tardo come il pensier d’un idiota,
tu che ispirasti gl’inni e fosti onore
degli antichi trionfi!

(pausa)

Ahi! tutto passa,


e le larve succedono alle larve,
in questo funerale che si chiama
vita del mondo…

Nei primi tre atti del dramma l’identificazione fra Alessandro e il Va-
lentino è pressoché perfetta e la stilizzazione tipologica è quella, di matri-
ce machiavelliana ma non dimentica degli «orridi affetti» del despota al-
fieriano, del tiranno dominato da una smisurata brama di potere, oggetto di
«invidia paurosa», ma anche perennemente destinato a vivere in una soli-
tudine che si nutre di sospetto e di diffidenza, all’insegna di una stravolta
visione dell’esistere: «Non sa che nel tenere il principato / il più sciocco e
dannoso dei consigli / [è Alessandro che parla riferendosi all’operato del
duca di Gandìa, ma potrebbe benissimo essere il Valentino] viene sempre
dal core, e che bisogna, / quand’egli parla, ripudiar gli orecchi […] / Ma
cosa fatta più non si corregge» (II IV). Anche al livello della disposizione
dei personaggi, a parte le figure che sono di contorno risultando tuttavia
necessarie alla caratterizzazione del costume e dell’epoca, una netta con-
trapposizione, per blocchi antitetici, va posta in questi primi tre atti fra il
binomio Alessandro / Valentino e il blocco costituito da Vannozza, dal du-
ca di Gandìa, il figlio prediletto da Vannozza, e per certi aspetti da Lucre-
zia, sospesa fra la leggerezza delle feste di corte, il ricordo dell’infanzia fe-
lice e pura accanto alla madre, la tormentata decisione del nuovo matri-
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292 GRAZIA DISTASO

monio imposto dalla ragion di stato. La diversità fra il Valentino e il duca


di Gandìa viene esplicitamente sottolineata da Vannozza, sofferta voce cri-
tica del dramma: sublimata dall’amore materno22 e dal mai soffocato ane-
lito a una purezza del cuore e a un’autenticità religiosa al di là delle istitu-
zioni terrene, ella è antagonista sulla scena di papa Alessandro, oltre che
giudice severo della pagana Roma dei Borgia, in cui – esclama – «siede a
banco / sull’avello di Pietro un mercatante!» (III VI). La percezione teatra-
le del Cossa si rivela, a guardar bene, nell’aver intuito l’importanza, a un
certo momento del dramma, di un movimento interno capace di smuovere
la graniticità dei due blocchi di carattere contrapposti, cogliendo con sot-
tile analisi proprio l’incrinarsi e poi il definitivo spezzarsi di quella tipolo-
gia unitariamente coesa del tiranno di cui si parlava a proposito di Cesare
ed Alessandro, esercitata naturalmente nei diversi ambiti della religione e
della politica, considerandosi l’uno una sorta di Dio in terra, risultando av-
vezzo, l’altro, al dominio pragmatico di una implacabile forza. I dramma-
tici eventi del 1497, con la morte violenta del duca di Gandìa , il pensoso
Giovanni adelchianamente convinto della vanità dello «spietato Nume che
s’appella / Necessità di regno» (IV I), segnavano, agli occhi del Cossa, la
conquista di una progressione tragica che coincideva con gli esiti profon-
di di una crisi interiore di Alessandro, riportato a una desolata solitudine
nutrita di echi biblici e di rinvii alla concitata situazione del Saul alfieria-
no, di ammissioni di empietà («son forse un empio?», V II) e insieme di
mai sopite aspirazioni di grandezza («E il genio di Colombo darà gloria /
al mio pontificato, e novi mondi / al dominio di Roma», ibid.), nella con-
traddizione finalmente avvertita dalla coscienza – sollecitata e messa in
moto dal drammatico evento – tra l’apparenza di una felicità che appartie-
ne al potente solo nell’immaginazione e nel formulario stereotipato del
suddito («Vostra beatitudine», V I) e la realtà dell’inferno scavato nell’a-
nima da una smisurata e non immaginabile ambizione, come Alessandro
rivela nel suo monologo dell’atto quinto (II):

Colui
mi deride: ò nell’anima l’inferno,
e mi chiama beato! Ahi! la natura
si vendica del Dio fatto dall’uomo,
ella soltanto diva ed immortale!

22 Per questa sublimazione dell’amore materno, come per il gusto melodramma-


tico (all’interno però di uno stato d’animo fondamentalmente borghese e realistico), L.
Tonelli ha rilevato significative consonanze con la Lucrèce Borgia di Hugo. Cfr. TO-
NELLI, Il teatro italiano dalle origini ai giorni nostri, Milano 1924, pp. 384-386.
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IL MITO UMANISTICO DEL TIRANNO 293

(lunga pausa)

A te che vivi ignaro della nostra


ambizione, o povero di mente,
cui nel giorno supremo la speranza
apre la ricca eredità dei cieli,
a te beatitudine! Splendore
di tomba è il resto: asconde lacrimosi
spettacoli.

È evidente come anche la struttura drammaturgica, con i due monolo-


ghi portanti affidati l’uno al Valentino l’altro ad Alessandro, accompagni il
configurarsi, ormai, delle due antitetiche prospettive e disposizioni dei per-
sonaggi. Con una curiosa alterazione della cronologia storica il nuovo ma-
trimonio di Lucrezia con Alfonso d’Aragona, figlio naturale di Alfonso II,
fortemente voluto dai disegni politici di Alessandro, viene festeggiato – nel-
l’atto terzo – con un fastoso convito nei giardini del Vaticano, fra canti e
moresche spagnole, anziché il 21 luglio del 149823, data effettiva del suo
svolgimento, nel giugno del 1497, poiché il Cossa ha voluto porre subito
dopo le nozze – l’«osceno tripudio» di cui parla Vannozza – il succedersi di
«un’altra scena più nefanda» (V IV), la morte appunto del duca di Gandìa,
forse a voler sottolineare la contiguità sulla scena della corte fra scelus e
simbologia del potere e della festa. Il grido di morte che come fredda lama
penetra nel cuore di Sancia e poi la maledizione scagliata da Vannozza con-
tro Cesare, novello Caino, chiudono con il rinvio al dominio di disumane
sensazioni acustiche il decisivo atto quarto, nell’evento di una morte che ap-
pare come un dramma martirologico consumato all’ombra del potere; il po-
tere di Cesare ben presto identificato, all’epoca, come mandante del delitto
forse per gelosia di donna Sancia e certamente per ambizione politica. Le
voci, puntualmente registrate dal Burcardo, erano state poi avvalorate dalla
tradizione storiografica, dal Ranke, che nella sua opera dedicata alla storia
del Papato fra Cinque e Seicento, apparsa in traduzione italiana a Napoli nel
1862 e forse nota al Cossa, scriveva che Cesare «aveva fatto assassinare e
gettar nel Tevere suo fratello che gli era un ostacolo»24, sino al Burckhardt
23 Su queste nozze, di tono minore rispetto alle prime del 1493 con Giovanni

Sforza, e alle terze, del 1502, con Alfonso d’Este, cfr. CRUCIANI, Alessandro VI cit., p.
256. Quanto ai festeggiamenti indetti a Roma per le nozze di Lucrezia con Alfonso
d’Este, cfr. G. GERMANO, Gli spectacula lucretiana e il loro sfondo storico, in GIOVAN
BATTISTA CANTALICIO, Bucolica, a cura di L. MONTI SABIA - Spectacula lucretiana, a
cura di G. GERMANO, Messina 1996, pp. 115-159; CRUCIANI, Alessandro VI cit., pp.
286-298.
24 L. RANKE, Istoria del Papato nel XVI e XVII sec., trad. di E. ROCCO, I, Na-

poli 1862, p. 72. Cfr., inoltre, G. PEPE, La politica dei Borgia, Napoli 1944.
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294 GRAZIA DISTASO

che parlava del modo «affatto spaventevole»25 con cui il Valentino era giun-
to ad isolare il padre togliendo di mezzo quanti potessero fargli ombra.
L’avvicinamento ideale, nel segno di questo comune dramma, fra due per-
sonaggi sinora contrapposti, come Alessandro e Vannozza, è soprattutto la
proiezione esterna della stessa metamorfosi che è nell’animo di Alessandro;
sicché nell’isolamento del Valentino e nella emblematica sostituzione, mor-
to il duca di Gandìa, accanto a Vannozza di Alessandro, si configura allusi-
vamente la nuova disponibilità del pontefice verso una vagheggiata riforma
della Curia; un’aspirazione che papa Alessandro – si è detto da più parti –
dové realmente sentire, nello sconvolgimento provocato da un delitto inter-
pretato come ammonimento divino, anche se poi lasciò presto cadere sino
al completo e definitivo svanire di ogni proposito26. Non così, però, l’Ales-
sandro del dramma cossiano. In un linguaggio che mescola echi scritturali,
reminiscenze leopardiane («tu bacia / la man che ti percote», V IV)27, sug-
gestive riprese tassiane28, punte retoriche e battute alquanto grottesche («Tu
pria desisti dai malvagi fatti, / e poi t’udrà il Signore», ibid.), rivelatrici del
borghese buon senso cossiano, si ricompone l’antico dissidio fra Alessan-
dro e Vannozza, nel segno del riconoscimento – ed è naturale che sia un an-
ticlericale e massone come Cossa a farlo – delle ragioni più autenticamen-
te spirituali opposte a ogni fasto e grandezza delle istituzioni terrene, nel
proposito di totale espiazione che solo con l’abbandono del trono pontifi-
cio, scandalosamente comprato, può giungere in realtà a trovare la sua de-
finitiva realizzazione. Un proposito forte, questo della rinuncia, prospettato
da una Vannozza che a qualche critico è parsa assumere, iperbolicamente, i
connotati di santa Caterina da Siena29. Ma se è poi certo che da simili pen-
sieri Alessandro VI nella sua realtà storica non fu nemmeno sfiorato, im-
porta qui considerare come dietro la drasticità e poi l’immediata caduta, nel
dramma, di questo disegno di Vannozza per il furioso sopraggiungere del
Valentino con la terribile frase rivolta al padre «Nulla puoi, / io tutto» (V V),

25 J. BURCKHARDT, La civiltà del Rinascimento in Italia, introd. di E. GARIN, Fi-

renze 1968, p. 109.


26 Cfr. l’ampia voce Alessandro VI, papa, curata da G.B. PICOTTI, in DBI, 2,

Roma 1960, pp. 196-205 (per la problematica sopra accennata, cfr. p. 201).
27 Cfr. Amore e morte, v. 112: «la man che flagellando si colora».
28 «In erme / lontane solitudini t’è dato / soltanto aver la pace ed il perdono /

del cielo», dice Vannozza ad Alessandro (V IV), recuperando i vv. 1-4 della Geru-
salemme Liberata XIV 10, in cui Ugone, apparso in sogno a Goffredo, fra richiami
al Somnium Scipionis e a Dante invitava l’amico a considerare dall’alto dei cieli
«quanto è vil la cagion ch’a la virtude / umana è colà giù premio e contrasto! / in
che picciolo cerchio e fra che nude / solitudini è stretto il vostro fasto!».
29 Cfr. TREVISANI, Gli autori drammatici cit., p. 162.
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IL MITO UMANISTICO DEL TIRANNO 295

il Cossa intendesse far risaltare l’ormai drammatica solitudine del pontefi-


ce, suo malgrado posto, dice il Burckhardt, «sotto il dominio del proprio fi-
glio»30, «obieto e subieto» di lui, come scrive il Sanudo nei Diarii 31. «Fu
delitto, / ma necessario. Ed or Cesare, o nulla», è l’implacabile commento
di Cesare, a chiusura dell’atto V, sull’uccisione del fratello, fra lo sveni-
mento di Vannozza e la strana presenza finalmente sulla scena, dopo essere
stato tante volte evocato nei discorsi dei vari personaggi, di Michelangelo,
il grande artista che incarna il sogno rinascimentale dell’arte, a cui lo stes-
so Alessandro – con una curiosa alterazione della verità storica – giungeva
a commissionare in quel doloroso momento il gruppo scultoreo della
Pietà32: «Scolpite la deserta / Vergine sull’esangue Redentore» (V VI). Nel-
l’Epilogo, tutt’altro che un espediente per concludere, la scansione del tem-
po è affidata alla voce di Alessandro, che dopo sette anni ha incaricato il
Burcardo di condurre in Vaticano Vannozza per un nuovo incontro («Io la
vedrò! Vannozza! / Passarono sett’anni», scena IV); perché se l’antico Ales-
sandro VI respingeva con violenza quegli incontri, il mutato Alessandro o-
ra li ricerca dopo la solitaria macerazione di un tempo trascorso nell’inte-
riorità della coscienza ma pur sempre continuando, necessariamente, a con-
vivere con l’orrore e con i compromessi del potere. Anche il giorno, diciot-
to agosto, è scandito con precisione dalla voce del Burcardo: «Che giorno
è questo? Il dieciotto d’agosto» (scena III), l’ultimo giorno, il giorno del
giudizio, possiamo aggiungere. Ma è anche il giorno in cui Cesare Borgia,
il trionfatore che continua a vivere dell’ossessiva e monotona specularità
dei rituali del potere, stretto fra il terrore di essere travolto dalla «gran rui-
na» dei suoi nuovi alleati francesi e il sospetto di nascosti pugnali dei ne-
mici interni («Uccidere bisogna / per non essere uccisi», scena V), ha deci-
so di incamerare nuovi beni e di prevenire la possibilità di congiure interne
avvelenando com’ è suo costume i cardinali raccolti nella sala del banchet-
to (ricordiamo l’asciutto racconto guicciardiniano della Storia d’Italia VI
IV): a somministrare il veleno dovrà essere, questa volta, il padre. Ma Ales-
sandro, servo fedele «alle sue grandi mire ambiziose», non può soddisfare
l’orribile richiesta di Cesare: «perché celarlo? Da gran tempo / strani terro-
ri m’agitano il sonno» (scena V). Nel più prosaico verso cossiano continua
ad insinuarsi prepotente l’eco delle parole di Saul, il vecchio re della tradi-
zione biblica tornato ad animare le disperate visioni di Alessandro. Basti

30 BURCKHARDT, La civiltà del Rinascimento cit., p. 109.


31 Cfr. MARINO SANUTO, I Diarii, a cura di G. BERCHET, II, Venezia 1879, col.
826.
32 L’opera, eseguita da Michelangelo fra il 1499 e il 1500, fu commissionata –

com’è noto – all’artista dal cardinale francese Jean de Bolhères, legato di Carlo VIII
presso Alessandro VI.
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296 GRAZIA DISTASO

soltanto, qui, l’accenno alla scena d’apertura dell’atto II del Saul alfieriano:
«E che? celarmi / l’orror vorresti del mio stato? Ah, s’io / padre non fossi,
come il son, pur troppo! / di cari figli […] Precipitoso / già mi sarei fra g’i-
nimici ferri / scagliato io, da gran tempo: avrei già tronca / così la vita or-
ribile, ch’io vivo» (vv. 27-34), con quel da gran tempo a metà emistichio,
amplificato dal Cossa nella risonanza di fine verso, attraverso il motivo del-
l’angoscia del breve sonno e del terrore apportato dai sogni33. È la notte del-
l’abisso, dice Alessandro, che si spalanca dinanzi ai suoi occhi, atterriti dal-
la prospettiva del giudizio di Dio che Cesare non può accettare o compren-
dere. Ma forse un altro richiamo, più laico, potrebbe aver ragione della sua
follia: «Usa clemenza, / figlio mio!» (scena V). Nel vecchio pontefice, a te-
stimonianza della morte del tiranno di un tempo, quello che lui stesso era
stato, e come monito rivolto al tiranno che gli sta dinanzi, tornava a risuo-
nare, adesso, il richiamo alla virtù per eccellenza del principe umanista, ap-
punto la Clemenza. Ma il Valentino, vera facies ormai dell’immane furor ti-
rannico che di lì a poco avrebbe sconvolto la scena tragica rinascimentale e
barocca, parlava un’altra lingua, perso dietro il sogno della «potenzia e
virtù sua»34, che la sorte ben presto si sarebbe incaricata di calpestare e tra-
volgere: «Papa Borgia, la tua lingua / dice stoltezze» (ibid.). E a papa Bor-
gia, allora, non restava che bere il veleno, per libera scelta35, non per tragi-
co errore, come nella casualità degli eventi storici sembra sia invece avve-
nuto. Unica via di scampo per uscire, alfierianamente, dalla soggezione di
un allucinato torpore e per ritrovare la propria libertà interiore, il suicidio
abbracciato quasi per caso, con un’improvvisa folgorazione, sembra anche
poter configurare quel rito in largo senso classico e laico di espiazione che
le ragioni artistiche di un dramma sospeso fra teatro verista ante litteram e
teatro dell’anima36 additavano con romantico slancio al Cossa per la raffi-
gurazione di quel misterioso punctum che è la morte. In essa di solito si ri-
flette, ma non di rado può anche sovvertirsi – come forse in questo caso –
l’umano e fisso giudizio della storia: e Alessandro cerca nella morte la re-
denzione.

33 VITTORIO ALFIERI, Saul, II I, vv. 45-46: «angoscia il breve sonno; i sogni /


terror».
34 NICCOLÒ MACHIAVELLI, Il Principe, VII, De principatibus novis qui alienis

armis et fortuna acquiruntur.


35 Epilogo, scena VI: «Ecco solenne / il Pontefice sorge […] Per l’inferno! / E-

gli beve il veleno».


36 Cfr. M. APOLLONIO, Storia del teatro italiano, II, Firenze 1954, pp. 728-729.
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PAOLA CASCIANO

Le postille di Egidio da Viterbo


alla traduzione dell’Iliade di Lorenzo Valla

L’esperienza di vita eremitica di Egidio da Viterbo si concentra preva-


lentemente tra il 1499 e il 15061, interessando l’arco cronologico che va da-
gli ultimi anni del pontificato di Alessandro VI fino al momento in cui Giu-
lio II gli affidò – quasi costringendolo ad accettare2 – la direzione generale
dell’ordine agostiniano. Una scelta non priva di significato, alla quale pro-
babilmente non fu estraneo il turbamento per gli intrighi e la corruzione che,
come egli stesso scriveva qualche anno più tardi, dilagavano in Roma e, so-
prattutto, nella Curia: sacerdoti ignoranti, rozzi, avidi, viziosi, in alcuni casi
perfino usurai e lenoni; e il pontefice, che avrebbe dovuto restituire l’ordine,
esempio di lussuria e di cupidigia. Mai la situazione di Roma era stata più a-
bietta; nelle vie dominava la violenza, non si era al sicuro neanche nella pro-
pria casa, «nihil ius, nihil fas; aurum, vis et Venus imperabant»3. Tra l’inizio

1 Lo troviamo sul monte Posillipo, presso gli osservanti di San Giovanni a Car-

bonara, tra la primavera del 1499 e il giugno 1501; presso gli osservanti della con-
gregazione leccetana durante l’estate del 1502; nell’isola Martana sul lago di Bol-
sena nei mesi di luglio, agosto e settembre del 1503; ancora a Lecceto nell’ottobre
e novembre del medesimo anno; nuovamente sull’isola Martana durante i mesi di
giugno e luglio del 1504. Da qui si trasferì in un romitorio sul monte Cimino dove
restò, sia pure con qualche interruzione, fino al 1506. Solo sporadiche e brevi le so-
ste a Roma; cfr. F.X. MARTIN, Friar, Reformer, and Renaissance Scholar. Life and
Work of Giles of Viterbo. 1469-1532, Villanova 1992, pp. 45-47; EGIDIO DA VITER-
BO, Lettere familiari, 1494-1506, a cura di A.M.VOCI ROTH, I, Roma 1990, pp. 51-
53. Quelli del romitaggio furono periodi di riposo, e soprattutto di meditazione, al-
ternati a spostamenti legati all’intensa attività di predicatore, che lo portò nelle più
svariate località della penisola.
2 Per le resistenze di Egidio cfr. J.W. O’MALLEY, Giles of Viterbo on Church

and Reform. A Study in Renaissance Thought, Roma 1968, p. 133.


3 Nella Historia XX saeculorum, composta tra il 1513 e il 1518 e dedicata a Leo-

ne X, dopo essersi soffermato a descrivere le virtutes di Alessandro VI, Egidio soggiun-


geva con amarezza che le qualità del defunto pontefice erano state però spazzate via dai
suoi vizi. E dipingeva a fosche tinte la situazione di Roma : «Invasere omnia tenebre:
nox intempesta omnia occupavit [...], nunquam in civitatibus sacre ditionis seditio im-
manior, nunquam direptio crebior, nunquam cedes cruentior, nunquam in viis grassato-
rum vis liberior, nunquam peregrinorum iter periculosius, nunquam in urbe plus malo-
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298 PAOLA CASCIANO

dell’estate del 1503 e il luglio dell’anno successivo Egidio dimorò quasi


ininterrottamente nell’isola Martana, sul lago di Bolsena4. Il suo ideale con-
templativo travalica i confini della tradizione eremitica dell’ordine agosti-
niano e si fonde con quello umanistico, che ha nel Petrarca del De vita so-
litaria il suo precursore: accanto alla meditazione e alla preghiera, ampio
spazio è riservato agli studi, in un locus amoenus, all’ombra di querce e fag-
gi, circondato da pochi amici fidati5. Sull’isola egli compose le tre ecloghe
latine, di ispirazione virgiliana6 e lesse e glossò l’Iliade nella traduzione la-
tina di Lorenzo Valla7.
Presso la biblioteca Casanatense di Roma è conservato, con la segna-
tura 1227/a-b, un volume che riunisce l’edizione aldina ‘Venetiis 1503’
dell’ Adversus calumniatorem Platonis del Bessarione, e la stampa ‘Brixiae
1497’ della traduzione dell’Iliade di Lorenzo Valla8. Il libro entrò nella Ca-

rum fuit, nunquam: delatorum copia, sicariorum licentia, latronum vel numerus vel au-
datia maior, ut portis urbis prodire fas non esset, urbem ipsam incolere non liceret: pro
eodem tunc habitum maiestatem ledere, hostem habere, auri aut formosi aliquid domi
cohibere; non domi, non in curriculo, non in turri tuti: nihil ius, nihil fas; aurum, vis et
Venus imperabat»; cfr. M. CREIGTHON, A History of the Papacy during the Period of the
Reformation, V, London 1894, p. 284. La critica di Egidio, è noto, non avvenne solo a
posteriori; ad esempio nel giugno 1503, dal romitaggio dell’isola Martana, vivo Ales-
sandro VI, così scriveva all’amico Antonio Zoccoli, che si trovava a Roma: «Musset
quantumvis ista Babilon tua in alienis explorandis sedulior quam in suis facinoribus di-
gnoscendis [...] Dies divinus iudicabit omnia, dies ille omnium teterrimus, quo insa-
niens ista civitas insaniam quandoque recognoscat suam. Utinam camerarius meus a fe-
ce istarum rerum sese eripiat et [...] ab aliorum se peste recipiat»; cfr. EGIDIO DA VITER-
BO, Lettere familiari cit., I, p. 194 e s. Nell’opera Scechina Egidio dà una interpretazione
del Sacco di Roma del 1527 come punizione divina, il corrispettivo storico del diluvio bi-
blico: Roma era stata punita per il suo traviamento morale e religioso; cfr. V. DE CAPRIO,
La tradizione e il trauma. Idee del Rinascimento romano, Manziana 1991, pp. 287 e s.
4 Cfr. nota 1.
5 Cfr. A.M. VOCI, Idea di contemplazione ed eremitismo in Egidio da Viterbo,

in Egidio da Viterbo, O. S. A e il suo tempo, (Atti del V Convegno dell’Istituto Sto-


rico Agostiniano, Roma-Viterbo, 20-23 ottobre 1982), Roma 1983, pp. 107-116.
6 Le ecloghe sono state pubblicate da M. DERAMAIX, La genèse du ‘De Partu

Virginis’ de Jacopo Sannazaro et trois églogues inédites de Gilles de Viterbo, «Mé-


langes de l’École Française de Rome», 102 (1990/1), pp. 222-272; sull’edizione
cfr. L. MUNZI, Per il testo delle ecloghe di Egidio di Viterbo, «Res publica littera-
rum», in corso di stampa.
7 Cfr. MARTIN, Friar, Reformer cit., pp. 45 e s., 159 e s.
8 Nella stampa l’intera traduzione è attribuita al Valla, il quale in realtà dopo a-

vervi lavorato tra il 1439 e il 1443 la lasciò interrotta al l. XVI. L’ impresa fu porta-
ta a termine da Francesco Griffolini; cfr. LAURENTII VALLE Epistole, edd. O. BESO-
MI-M. REGOLIOSI, Patavii 1984, pp. 173 e s.
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LE POSTILLE DI EGIDIO DA VITERBO 299

sanatense nel 1736, come risulta dalla data tracciata sulla carta di guardia
dalla mano di Giovanni Battista Audiffredi (1714-1794), durante la cui pre-
fettura la biblioteca acquistò un gran numero di manoscritti e di libri a stam-
pa da alcuni conventi che versavano in difficoltà economiche, tra cui quel-
lo dei padri Minori Osservanti di Viterbo9. Il volume, già nella sua attuale
composizione – come sembra provare la legatura originale, in marocchino
marrone, risalente all’inizio del XVI sec.10–, appartenne a Egidio da Viter-
bo. Il suo nome, autografo, vi compare infatti complessivamente sette vol-
te: quattro nella stampa dell’opera del Bessarione, tre nel margine inferiore
della prima e dell’ultima carta dell’Iliade11, sulla quale si legge anche una
nota, ugualmente autografa, nella quale Egidio registrò dove e quando ave-
va ultimato la lettura: «in insula Pharnesia. 1504. Iunio ardenti»12.
9 Cfr. Biblioteca Casanatense, Ideazione e presentazione di C. PIETRANGELI, Roma

1993, p. 15. L’Audiffredi, dopo la data, scrisse: «Censeo notas quas vides autografas fra-
tris Aegidii Viterbiensis eremitae fuisse. Celebris cardinalis Aegidii Viterbiensis dicti or-
dinis ad calcem habes eiusdem manu scriptam in margine “in insula Pharnesia1504”».
10 Cfr. Legature antiche e di pregio. Secc. XIV-XVIII, Catalogo a cura di P. QUILI-

CI, Roma 1995, I, p. 114: «Legatura veneta degli ultimi anni del XV sec., in marocchi-
no marrone su assi di legno, impressa a secco. I piatti sono ornati da due cornici ret-
tangolari concentriche, sottolineate da fasce di filetti, quella esterna a rabeschi vegeta-
li di tipo aldino, quella interna a cordami intrecciati. Lo specchio presenta un semina-
to di crocette, tracce di fermagli a punta metallica. Dorso a quattro cordoni completa-
mente rifatto. Taglio rustico. Restaurata nel 1961; della legatura originaria è conserva-
ta solo la pelle dei piatti, con il rilievo piuttosto appiattito». Dal momento che una del-
le stampe vide la luce nel 1503, la data della legatura andrà posticipata all’inizio del se-
colo XVI.
11 Le carte dell’Adversus calumniatorem Platonis presentano due numerazioni

– una a stampa, l’altra a matita – che non coincidono tra di loro, in quanto la prima
trascura la tabula che inaugura l’opera. Le carte dell’Iliade hanno invece solo la nu-
merazione a matita. A quest’ultima quindi faccio riferimento, qui e in seguito. L’o-
pera del Bessarione occupa le cc. 1-121, la traduzione valliana le cc. 124-211. Pre-
mettendo che l’oscillazione nell’uso del dittongo è nell’originale, il nome di Egidio
compare nel marg. sup. della c. 3r (fratris Aegidii Viterbiensis eremite), nel marg.
sup. e in quello inf. della c. 10r (fratris Aegidii Viterbiensis eremite / fratris Egidii Vi-
terbiensis Augustiniani), nel marg. inf. della c. 121v (fratris Egidii Viterbiensis Au-
gustiniani), nel marg. inf. delle cc. 124r (fratris Egidii Viterbiensis eremite) e 211r
(fratris Aegidii Viterbiensis / Φ ΑΓ ΒΙ). Nell’ultimo caso Egidio, come in altri libri,
ha scritto le iniziali del proprio nome in caratteri greci; cfr. J. WHITTAKER, Giles of
Viterbo as Classical Scholar, in Egidio da Viterbo cit., p. 92.
12 Non è chiaro dove esattamente si trovasse, perché nell’epistolario, quando fa

riferimento all’isola Martana, scrive semplicemente insula, o anche Vulsinia insula


(cfr. EGIDIO DA VITERBO, Lettere familiari cit, I, pp. 213, 232, passim). Con l’e-
spressione in insula Pharnesia potrebbe alludere a un’altra isola del lago di Bolse-
na di proprietà dei Farnese, l’isola Bisentina; o anche, più probabilmente, a Isola
Farnese, un piccolo centro situato tra Roma e Viterbo, dove forse sostò durante un
viaggio da o verso Roma; cfr. MARTIN, Friar, Reformer cit., p. 57, nota 51 [Tav. 1].
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300 PAOLA CASCIANO

Entrambe le stampe furono accuratamente lette e studiate dal proprie-


tario. Le annotazioni al testo dell’Iliade furono tracciate con due penne di-
verse e in due inchiostri differenti: nero l’uno, bruno-rossiccio l’altro; an-
che la scrittura – sempre sicuramente quella di Egidio – presenta ductus e
moduli diversi. Nei margini dell’incunabolo si leggono parole-chiave, os-
servazioni, alcuni rari rinvii a testi classici, ma anche veterotestamentari e
cabalistici; singole parole così come frasi intere del testo risultano sottoli-
neate; parentesi graffe laterali raggruppano concettualmente più righe13; so-
no presenti disegni di croci, di fiori, e di figure che hanno attinenza con il
testo14. Egidio ha glossato l’opera in modo sistematico15: nel margine e-
sterno, oltre ai notabilia, ha tracciato le chiose al testo, sempre estrema-
mente sintetiche16; in quello inferiore ha riepilogato le chiose più significa-
tive; nel superiore ha segnalato gli episodi salienti di ciascuna pagina; in
quello interno ha registrato unicamente l’ingresso ‘in scena’ dei vari perso-
naggi, e l’inizio e la fine dei dialoghi. Inoltre per due volte ha distinto mar-
ginalmente il testo di ciascun libro con numeri progressivi17, nell’intento di
stabilire punti di riferimento interni, che consentissero il recupero agevole
di un passo18. Una annotazione autografa all’inizio dell’opera, che segnala
la duplice numerazione («nigri numeri novi, ruffi veteres»)19, insieme a

13 J. WHITTAKER, Greek Manuscripts from the Library of Giles of Viterbo at the

Biblioteca Angelica in Rome, «Scriptorium», 31 (1977), p. 214, individua nella pa-


rentesi «a version of the design which he [scil. Egidio] chose for his coat-of-arms
when he became cardinal in 1517».
14 Un esempio: c. 210r = Il. XXIV 527 s.: Achille per lenire il dolore di Pria-

mo, che si era recato nella sua tenda per chiedere la restituzione del corpo di Etto-
re, fece ricorso al mito consolatorio dei due dolia piantati sulla soglia di Giove, pie-
ni di doni – l’uno di mali, l’altro di beni – che il dio elargisce agli uomini. Egidio in
marg. annota «dolia duo. Mala, bona: mista» e disegna un dolium [Tav. 2].
15 Per altre stampe glossate da Egidio, cfr. V. CILENTO, Glosse di Egidio da Vi-

terbo alla traduzione ficiniana delle Enneadi in un incunabolo del 1492, in Studi di
Bibliografia e di Storia in onore di Tammaro De Marinis, Verona 1964, pp. 281-295;
F. SECRET, Un Hérodote annoté par Egidio da Viterbo, «Augustiniana», 29 (1979),
pp. 194-196.
16 Le eccezioni sono rare; annotazioni più lunghe si leggono alle cc. 130v,

136v.
17 Una numerazione si trova nel margine esterno, l’altra in quello interno.
18 In entrambi i casi la numerazione (progressiva per uno: 1, 2, 3...) non si ri-

ferisce alle righe del testo, ma allo sviluppo del racconto omerico. Nel senso che il
nuovo numero compare allorché interviene un cambio di situazione: comparsa di un
personaggio, inizio di un dialogo o di un combattimento, ecc.
19 La nota è seguita da un altro appunto – tracciato con un inchiostro differen-

te – non del tutto comprensibile: «exteriores: parvi sunt Homeri; interiores: antiqui
et magni». Sembrerebbe che Egidio alluda ancora ai numeri, in quanto il formato di
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LE POSTILLE DI EGIDIO DA VITERBO 301

quanto si è rilevato precedentemente circa le penne, le grafie e gli inchiostri


differenti, suggerisce due letture del testo20. Egidio non si accosta al testo
nella veste del filologo21. Nei margini dell’incunabolo nessuna allusione a
codici, pochi – come ho premesso – i riferimenti agli auctores, nessun giu-

quelli tracciati nel margine esterno è più piccolo di quello dei numeri apposti sul
margine interno. Difficile da comprendere resta, a mio avviso, la presenza di Ho-
meri: se i numeri interni vengono qualificati come antiqui e magni, per gli esterni
ci si aspetterebbe, insieme a parvi, un aggettivo (ad esempio: novi) che li caratte-
rizzasse in contrapposizione a antiqui. A meno che – tenuto conto che l’appunto fu
tracciato come promemoria personale, e pertanto in forma molto sintetica – Egidio
non abbia inteso dire che i numeri esterni erano stati apposti nel corso di una se-
conda lettura, più cursoria, che definisce parvi Homeri («i numeri esterni sono del
piccolo Omero», cioè ‘della lettura affrettata di Omero’); gli interni, antiqui e ma-
gni, durante una lettura precedente e più attenta. Ma è solo un’ipotesi [Tav. 3].
20 Non è sempre possibile distinguere le note che appartengono alla prima lettura

– che, se vale quanto detto per i numeri, furono tracciate in un inchiostro ruffo – da
quelle della seconda lettura – scritte in inchiostro nigro –, in quanto in molti casi il
tempo ha uniformato i colori, rendendo vano il tentativo di distinzione di Egidio. In
ogni caso esse qualitativamente si equivalgono; nel senso che il tipo di interesse che
sottintendono è il medesimo.
21 Nel 1504 Egidio aveva trentacinque anni (era nato nel 1469; cfr. G. ERNST, E-

gidio da Viterbo, in DBI, 42, Roma 1993, p. 341); tenuto conto della sua padronan-
za della lingua greca acquisita negli anni giovanili, dell’ampiezza degli interessi e
delle letture, della presenza di citazioni omeriche (anche in greco) in scritti anteriori
a tale data, si può supporre che egli avesse già letto i poemi omerici, e che li avesse
letti in originale. Infatti, ad esempio, nel commento platonico alle Sententiae di Pier
Lombardo, iniziato nei primi anni del 1500 e lasciato incompiuto nel 1512, Egidio
cita più volte i poemi omerici e, in almeno due casi – una volta per l’Odissea, l’altra
per l’Iliade – ne cita il testo greco (cfr. EGIDIO MASSA, I fondamenti metafisici della
«Dignitas hominis», Torino 1954, pp. 62, 94. Per i numerosi riferimenti omerici nel
commento, cfr. D. J. NODES, Homeric Allegory in Egidio of Viterbo’s Reflections on
the Human Soul, «Studi Umanistici Piceni», 18 (1998), pp. 91-100). Presenti i ri-
chiami omerici anche in lettere anteriori al 1504: nel luglio 1497 Egidio fa esplicito
riferimento a Il. X 830-832; nel 1502 cita Il. III 8 in una traduzione poetica latina:
«procedunt tacitum spirantes robur Achivi» (cfr. EGIDIO DA VITERBO, Lettere familia-
ri cit., I, pp. 91, 169. Non ho svolto una ricerca specifica per individuare la prove-
nienza dell’esametro; sono però in grado di dire che sicuramente non appartiene al-
la traduzione del Poliziano, che rese il verso omerico così: «Martis anhelabant furias,
tacitique ruebant»; cfr. ANGELO AMBROGINI POLIZIANO, Prose volgari inedite e poe-
sie latine e greche edite e inedite, raccolte e illustrate da I. DEL LUNGO, Firenze 1867,
p. 460 = POLIZIANO, Opera omnia, ristampa anastatica a cura di I. MAIER, II, Torino
1970, p. 462). Inoltre nel 1508 e nel 1509 Egidio cita in greco Il. I 231 e IX 69 non-
ché Od. IX 29-30 (Cfr. GILES OF VITERBO OSA, Letters as Augustinian General.
1506-1517, C. O’REILLY ed., Romae 1992, pp. 235, 241, 261). Nell’incunabolo egli
annota solo tre parole in greco: in due casi non è possibile ricavare indizi sulla sua
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302 PAOLA CASCIANO

dizio sulla traduzione o riferimento a altre versioni22, completamente as-


senti i cenni di carattere storico; anche l’interesse al racconto in sé, allo
svolgimento dei fatti, risulta fugace 23. Un distico, che Egidio tracciò a
grandi lettere, dopo il colophon, al termine della lettura, ci mette sulla buo-
na strada per la comprensione del suo approccio al testo omerico:

Respuet insanam sophiam sophiamque piorum


hauriet hec prudens si quis, Homere, legat24.

La insana sophia e la sophia piorum sono entrambe presenti nell’Ilia-


de; stà al lettore prudens respingere la prima e assorbire la seconda25. Al-
l’idealizzazione di Omero in quanto fonte di conoscenza universale (che,
già in atto nei primi decenni del Quattrocento26, giunse a compimento nel-
la seconda metà del secolo – allorché gli eruditi concordemente lo riconob-
bero come il poeta onniscente, padre di tutto il sapere27 – e che ebbe come
centro Firenze, la patria delle traduzioni28), egli congiunge quindi una cen-
sura ai poemi omerici che, come si vedrà, riproduce quella platonica29. Ri-
cordo preliminarmente che Egidio – il quale si era già dedicato per un bien-

conoscenza dell’originale greco (c. 211r πα′ θος, 



relativo a Il. XXIV 719 ss., il pian-

to di Andromaca sul corpo di Ettore; c. 148r ω οιζυρο′ι dicent, relativo a Il. VI 460,
l’addio di Ettore ad Andromaca, che sembra un commento personale); più interes-
sante è il terzo ( c. 147v: ταµία, relativo a Il. VI 382), in quanto il termine è presen-
te nel testo originale; nella traduzione del Valla è reso con preposita familie.
22 Anche se all’inizio del Cinquecento l’unica traduzione latina completa del-

l’Iliade restava quella in questione, iniziata dal Valla e portata a termine dal Griffo-
lini, nella seconda metà del Quattrocento avevano visto la luce alcune traduzioni
parziali, prosastiche e esametriche; cfr. R. FABBRI, Sulle traduzioni latine umanisti-
che di Omero, in Posthomerica I. Traduzioni omeriche dall’Antichità al Rinasci-
mento, a cura di F. MONTANARI-S. PITTALUGA, Genova 1997, pp. 99-124.
23 Ben diverso lo spessore filologico delle annotazioni apposte dal Poliziano al-

la propria traduzione dei libri II-V dell’Iliade, conservate nei mss. Vat. lat. 3298 e
3617, e pubblicate da A. LEVINE RUBINSTEIN, The Notes to Poliziano’s «Iliad», «I-
talia Medioevale e Umanistica», 25 (1982), pp. 205-239.
24 c. 211r [Tav. 1].
25 Il distico sembra alludere a due diversi metodi di approccio al testo omeri-

co: quello che si ferma al senso letterale e quello che ne ricerca il senso allegorico-
mistico.
26 Cfr. FABBRI, Sulle traduzioni cit., p. 105.
27 Cfr. I. MAIER, Ange Politiene. La formation d’un poète humaniste (1469-

1480), Genève 1966, p. 91.


28 Così la definisce G. VOIGT, Il risorgimento dell’antichità classica ovvero il

primo secolo dell’umanesimo, tr. D. VALBUSA, II, Firenze 1896, p. 158.


29 Cfr. pp. 296 e s.
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LE POSTILLE DI EGIDIO DA VITERBO 303

nio allo studio entusiastico di Platone durante il soggiorno a Capodistria30 –


allorché tra la seconda metà del 1496 e i primi sei mesi del 1497 dimorò a
Firenze, elaborò sul solco di Marsilio Ficino, che gli fu maestro31, il con-
cetto di theologia platonica, cioè della congruenza della filosofia platonica
con il cristianesimo32; e, coerentemente, si accostò al neoplatonismo nella
prospettiva di pia philosophia, appunto nel senso della sua possibile conci-
liazione con i principi della religione cristiana33. Egidio nelle glosse cita e-
splicitamente Platone due volte soltanto:
– la prima congiuntamente a Virgilio, che costituisce, accanto alla Sa-
cra Scrittura e a Platone stesso, la terza fonte principale dell’intera opera del
cardinale viterbese34: nelle scene ilidiache di battaglia è frequente il tema di
una nebbia divina, che gli dei versano sugli occhi degli uomini o che vicer-
versa dissolvono, a seconda che mirino a ottundere o ad acuire la loro ca-
pacità di vedere e di comprendere. Esso compare per la prima volta in Il. V
127, dove è Pallade che la rimuove dagli occhi di Diomede. Egidio, a com-
mento del passo, nel marg. inf. di c. 140v, annota: «en nubes illa, qua dii
nos latent. A Virgilio in secundo et a Platone in Alcibiade decantata»35. In-
fatti, puntualmente, in Verg. Aen. II 604-606, Enea racconta a Didone come
Venere, quando Troia era ormai in fiamme, avesse dissipato la nebbia che

30 Cfr. WHITTAKER, Giles of Viterbo cit., p. 96; MARTIN, Friar, Reformer cit.,
p. 14.
31 Cfr. A.M. VOCI, Marsilio Ficino ed Egidio da Viterbo, in Marsilio Ficino e

il ritorno di Platone. Studi e documenti, a cura di G.C. GARFAGNINI, Firenze 1986,


II, p. 478.
32 Così scriveva nell’estate del 1499: «Quo factum est ut divina providentia

missum Marsilium Ficinum arbitremur, qui misticam Platonis theologiam nostris


sacris institutis in primis consentaneam [...] declararet»; cfr. EGIDIO DA VITERBO,
Lettere familiari cit., I, pp. 103 e s.
33 Un quadro generale del movimento in C. VASOLI, Il ‘ritorno’ quattrocente-

sco della ‘sapientia’ platonica, “Studi umanistici piceni”, 15 (1995), pp. 227-239;
E. GARIN, Marsilio Ficino e il ritorno di Platone, in Marsilio Ficino cit., I, pp. 3-13.
34 Cfr. G. SAVARESE, La cultura a Roma tra Umanesimo ed Ermetismo, Anzio

1993, p. 85: «Egidio sentiva in quelle tre voci di tempi e culture diversi, Scrittura,
Platone e Virgilio, una profonda unità, nella quale proprio al poeta latino era se mai
assegnata la funzione di anello di congiunzione tra parola divina e verbo platonico».
Per la assoluta predominanza della figura di Virgilio nel magistero letterario di Egi-
dio e di tutta la cultura romana del primo Cinquecento cfr. ID., Egidio da Viterbo e
Virgilio, in Un’idea di Roma. Società, arte e cultura tra Umanesimo e Rinascimen-
to, Roma 1993, pp. 121-142.
35 La nota ha una rilevanza anche da un punto di vista grafico: le parole furo-

no disposte a triangolo, sovrastate da un fiore, ulteriormente evidenziate da una ma-


nina indicativa [Tav. 4].
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304 PAOLA CASCIANO

ottundeva la sua vista mortale. E in Plat. Alc. 2, 150d, si fa riferimento pro-


prio al passo ilidiaco in questione36. Successivamente, quando nel testo o-
merico compare il motivo della nebbia, Egidio lo evidenzia con sottolinea-
ture e segni di richiamo, senza citare gli auctores;
– la seconda a proposito di Il. XI 630, dove Ecamede, la concubina di Ne-
store, prepara il ciceone, un miscuglio medicamentoso a base di cipolle, mie-
le biondo e farina d’orzo impastato con vino e cosparso di formaggio di capra
e farina bianca. Egidio, nel marg. di c.168r, annota gli ingredienti: «caepe,
mel, farina, caseum, fermentum» soggiungendo «Plato haec ridet». Anche in
questo caso la citazione è corretta. Infatti in Plat. Ion. IX 538 C, discutendo
con Ione se i competenti di singole arti o scienze siano in condizione di giudi-
care meglio di un rapsodo la correttezza delle affermazioni di Omero, a pro-
posito del ciceone Socrate domanda: «se Omero descrive bene questo o pure
no, chi può saperlo meglio, chi conosce la medicina o chi conosce la rapso-
dia?»37.
Se Platone, come dicevo, è citato esplicitamente solo due volte, la sua
presenza in filigrana si avverte però costantemente: Platone considera O-
mero il più divino e sapiente dei poeti38, ma afferma anche che, proprio in
quanto massimo poeta, vanno censurate tutte le parti non educative dei suoi
poemi: i Guardiani debbono essere educati al rispetto della divinità e dei
governanti, al coraggio e alla temperanza; pertanto dalla loro educazione
‘musicale’ andranno escluse quelle favole mitiche, che deformano l’imma-
gine degli dei e degli eroi presentandoli mentre si fanno guerra, si insidia-
no reciprocamente, sono spergiuri e menzogneri, si abbandonano al pianto,
al riso, ai lamenti e alla passione amorosa; nonché quelle che dipingono e-
roi intemperanti e avidi. Le favole poetiche debbono rappresentare la divi-
nità come essa è realmente, cioè buona39. Egidio – per il quale Platone è di-
vus e pius, quasi un santo oracolo40 – legge l’Iliade, condividendo anche i

36  σπερ τω ~ ∆ιoµήδει ϕησὶν τὴν ’Aθηνα ~ν ‘´Oµηρος απò


’ ~ν o’ ϕθαλµω
τω ~ν
∼ ’ '
αϕελειν τὴν αχλύν, «óϕρ’ ε γ ιγνώσκοι ηµὲν θεòν ηδὲ καὶ άνδρα».
’ ’ ’ ’ ’
37 ταυ~τα ειτε
’´ o’ ρθω ~ς λέγει ‘´Oµηρος ειτε
’´ µή, πóτερον ’ιατρικη~ς ε’ στι δια−
~ ~
γνωναι καλως ή ’ ρ‘ αψω δικης;~
38 Cfr. ad. es. Plat. ' Ion. 530c; Leg. VI 776e, 777a.
39 Cfr. Plat. Rep. II 377d-III 393d.
40 Come scrive E. MASSA, Egidio da Viterbo e la metodologia del sapere nel

Cinquecento, in Pensée humaniste et tradition chrétienne aux XVe et XVIe siècles,


ed. H. BÉDAIRA, Parigi 1950, p. 199, per Egidio la sapientia divina si esprime stori-
camente attraverso due rivelazioni: una è diretta, immediata ed esplicita, e appartie-
ne al Cristianesimo; l’altra è virtuale, mediata e indiretta: ne sono depositari Pita-
gora, Platone, i Neoplatonici e prisci theologi, nella cui mente essa opera attraverso
illuminazioni e intuizioni qualitative.
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LE POSTILLE DI EGIDIO DA VITERBO 305

punti della censura platonica, che certamente conosceva41; tuttavia la sensi-


bilità rigorosa e ascetica lo inducono a condanne più radicali42. Ma nel
complesso è possibile affermare che egli sottopone il testo omerico a un
processo, per così dire, di neoplatonizzazione spinta43, cercando e rinve-
nendo verità cristiane in un autore non cristiano.
Come ho anticipato, le annotazioni di Egidio sono estremamente es-
senziali. La maggior parte di esse è costituita dalla ripetizione, quasi ad lit-
teram, di frasi estrapolate dal testo, che così isolate, e quindi decontestua-
lizzate, finiscono con l’acquistare vita autonoma e si presentano come in-
segnamenti morali, come proposte sapienziali universalmente valide; effet-
to accresciuto dall’abitudine di Egidio di usare prevalentemente il presente
indicativo o l’infinito storico, mentre nell’Iliade – lo ricordo – per la parte
narrativa è usato il passato, e il presente compare solo nei dialoghi. Al fine
di fornirne un primo specimen44, il più possibile rappresentativo, ho rag-
gruppato le note secondo la loro tipologia. Ho fatto precedere il testo dal-
l’indicazione, nell’ordine, della carta dell’incunabolo in cui si legge la no-
ta, e del libro e dei versi dell’Iliade cui la nota si riferisce. Per uniformare
la grafia ho abolito i dittonghi, che Egidio prevalentemente trascura.

1. Potenza degli dei e invito al rispetto e al timore della religione


e della divinità:

c.124r = I 11: religionis contemptus cau[s]sa malorum est45


c.124r = I 24: religionem non sperni
c.125r = I 178: dii robur tibi dederunt, non tu
c.125v = I 216: deo quoque affectibus parere
c.125v = I 218: dii obtemperantes exaudiunt
c.134r = III 65: corporis bona a deo sunt: non vituperare
c.135v = III 309: dii prenorunt
c.136v = III 455: religio timetur
c.137v = IV 61: deus imperans omnibus

41 Cfr. VOCI, Marsilio Ficino cit., pp. 477 e s. Il ms. Ang. gr. 101, che traman-
da tra l’altro la Respublica di Platone, proviene dalla biblioteca di Egidio e presen-
ta nei margini interventi autografi; cfr. WHITTAKER, Greek Manuscripts cit., pp. 228-
31.
42 Cfr. nota 46 e s.
43 L’immagine è di SAVARESE, La cultura a Roma cit., p. 73.
44 Mi riprometto la pubblicazione completa delle note in un prossimo futuro.
45 Nella protasi dell’Iliade viene esposto in breve il tema del componimento:

l’offesa arrecata da Agamennone al sacerdote Crise. Egidio tracciò a lettere di gran-


di dimensioni la frase nel margine superiore [Tav. 3].
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306 PAOLA CASCIANO

c.138r = IV 63: pater deum hominumque


c.138r = IV 161: deus ulciscitur: licet sero
c.138r = IV 249: deum manum porrigentem expectatis
c.140v = V 130: cum diis ne pugna
c.141r = V 178: ira deorum dura
c.142v = V 407: in deos certans non longevus
c.142v = V 441: homo in deum: cave
c.143v = V 606: contra deum ne temerarie
V 819: deos non invadere
c.150v = VII 288: dei dona: corporis et animi
c.153v = VIII 287: dii dent victoriam
c.153v = VIII 335: deus dat vires
c.154v = VIII 427: contra Iovem non
c.182r = XV 491: virtus a deo erepta vel data
c.189v = XVII 201: superbo minatur deus
c.190r = XVII 321:gloriari in deo
c.191r = XVII 499: vis et robur a deo
c.191r = XVII 514: vis et prudentia a deo / dii potestatem habent
c.195r = XIX 9: mors deorum voluntate
c.198r = XX 242: deus virtutem dat, deus virtutem auget vel minuit
c.198v = XX 367: diis pugnare nec verbo nec ferro
c.209v = XXIV 425: dii sunt memores

2. Insegnamenti morali, precetti sapienziali

c.125r = I 126: data non repetenda


c.125v = I 205: superbia mortem dabit
c.126v = I 335: iussi non ledunt
c.128r = II 586: patienter fer
c.146v = VI 190: virtus omnia vincit
c.149r = VII 115: prudens sis et metire vires
c.150v = VII 197: conscia virtus non curat opinionem
c.151r = VII 408: mortuis parcendum
c.157v = IX 256: iras frena, benivolentiam et mediocritatem cole
c.160v = IX 706: cibo et somno vires vigent, animi etiam
c.170r = XII 172: fortes: mori quam cedere
c.173r = XIII 237: virtus unita pollet, etiam infirmorum
c.175v = XIII 730: pollens uno, non omnibus pollens: pare ergo
c.176r = XIII 769: consilio alius pollens / prudentia non omnibus
c.182r = XV 496: mori pro patria
c.186r = XVI 457: exequie: honos defunctorum
c.189r = XVII 19: gloriari superbe
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LE POSTILLE DI EGIDIO DA VITERBO 307

c.193r = XVIII 108: ira turbat ut fumus etiam sapientes


XVIII 129: amicorum charitas
XVIII 179: iram accendit iniuria
c.193v = XVIII 265: animus superbus timetur
XVIII 295: tace, propheta prudens
c.194r = XVIII 309: fortuna communis est omnibus
c.200r = XXI 110 : mors omnes superat
c.202v = XXII 110: mori pro patria / mori in bello pulchrum
c.202v = XXII 123: hosti non credendum
c.203v = XXII 261: hostis non paciscitur / hostis non saturatur
c.207r = XXIII 590: animus promptus, consilium imbecillum iuveni
c.207r = XXIII 605: maiori cedere non imponere
c.207r = XXIII 671: gnarus omnium non reperitur

3. Comportamenti negativi degli dei e lesivi della loro dignità 46

c.124r = I 8 : Deus causa mali


c.124v = I 44: Deus iratus delabitur
c.127r = I 410: Iuppiter oratur ut sternat
c.127v = I 521: deus odio Iunoni
c.127v = I 539: Iuno irata
c.127v = I 567: deus dea iniciat manus
c.127v = I 574 : immortales pro mortalibus litigant
c.128r = II 14: mentitur deus ille
c.130r = II 375: deus dat mala
c.136r = III 365: o Iuppiter, nemo te malignior
c.136v = IV 13: Iuno effrenis non cohibet
c.137v = IV 93: dea fallit ad ruinam
c.145r = V 832-909: dii maligni
c.145r = V 832= insanus, malignus ventosus Mars a Minerva dicitur
c.145r = V 859: Mars vociferatur voce decem milium
c.145r = V 874: deos odio grassari: pugnant inter se
c.145r = V 875: Minerva vesana, pernitiosa, scelesta
c.145r = V 888: deus torve respicit
c.145r = V 891: Mars malignus, dicit Iuppiter
c.145r = V 892: Iuno perversa

46 In alcuni casi Egidio non si limita a rilevare l’atteggiamento negativo degli

dei, ma esprime una aperta condanna; ad es.: c. 163v = X 497: Diomede uccise, Pal-
ladis beneficio, il tredicesimo nemico; Egidio annota: Palladis homicidio.
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308 PAOLA CASCIANO

c.174r = XIII 435: Neptunus oculis allucinatis


c.177v = XIV 162: luxuria: Iuno blandiens compta maritum adit47
c.177v = XIV 200: mentitur dea
c.177v = XIV 216: luxuria prudentes delinit
c.178r = XIV 267: Charitem do nuptui: luxuria
c.178r = XIV 315: luxuria nunquam ardentior deo
c.178r = XIV 335: luxuriae turpitudo. Palam, fabula fiam
c.178v = XIV 336: Iuppiter luxurians: dormit
c.187v = XVI 691: Deus perniciem persuadet
c.193v = XVIII 292: deus iratus
c.197v = XX 67: dii contra se armantur
c.200v = XXI 274: miseretur nemo deorum
c.200v = XXI 276: mendax dea

47 In Il. XIV 159-351 è trattato l’episodio famoso in cui Giunone, per poter

intervenire liberamente nella lotta a sostegno degli Achei, progettò di sedurre Gio-
ve in modo da indurlo al sonno. Pertanto, entrata nel talamo e chiusa la porta con
un chiavistello segreto, che nessun dio poteva aprire, lavò e cosparse d’un olio
profumato il bel corpo, pettinò le splendide trecce, indossò una veste ricamata me-
ravigliosamente, applicò ai lobi orecchini a tre pietre da cui riluceva una grazia in-
cantevole, pose sulla testa un velo splendente come il sole, e calzò ai piedi sanda-
li belli. Uscita quindi dal talamo e convocata in disparte Venere, con una menzo-
gna si fece consegnare il cinto d’amore, nel quale erano raccolte tutte le arti del-
la seduzione. Così agghindata – assicuratasi l’aiuto del Sonno con la promessa di
concedergli la più giovane delle Cariti – raggiunse Giove, che al vederla fu preso
d’amore e che, per descriverle l’intensità del suo desiderio e per convincerla a gia-
cere con lui sulla cima dell’Ida, elencò tutte le dee e le donne famose con le qua-
li aveva intrattenuto relazioni amorose, anteponendola infine a tutte le altre per
bellezza e capacità di seduzione. Alle rimostranze di Giunone, la quale faceva no-
tare che sarebbe stato per lei vergognoso se qualcuno degli dei li avesse scorti,
Giove addensò all’intorno una fitta nebbia dorata, mentre la terra sotto di loro pro-
duceva, a mo’ di soffice e folto tappeto, erba odorosa, loto rugiadoso, croco e gia-
cinto. Dopo aver giaciuto con lei, il dio si addormentò lasciando gli Achei in balìa
degli dei ostili. Nel monologo di Giove la critica ha ravvisato uno dei numerosi
spunti burleschi del l. XIV (cfr. OMERO, Iliade. Traduzione di G. CERRI, commen-
to di A. GOSTOLI, con un saggio di W. SCHDEWALDT, testo greco a fronte, Milano
1996, p. 761); ma Egidio ignora la dimensione ludica, e condanna drasticamente
i due dei come ‘lussuriosi’. Di luxuria sono anche accusati, ad es., Agamennone
(c. 124v = I 12: luxuriam fatetur), Elena (c. 134v = III 161 ss.: luxuriosam pudet
et penitet; c. 147v = VI 345 ss.: luxurie penitet; c. 151r = VII 351: Helenam red-
di: luxuriosa procul), Paride (c. 148v = VI 506: luxuria Paridis), Antea (c. 146r =
VI160: luxuria femine).
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LE POSTILLE DI EGIDIO DA VITERBO 309

c.201r = XXI 389: deus ridet deum


c.201r = XXI 409: Mars prostratus a Minerva gloriabunda
c.203r = XXII 227: dee fraus

4. Comportamenti riprovevoli di condottieri e di eroi

c.124r = I 28: sacrum et sacra spernit rex


c.125v = I 225 ss.: contumelie: <Agamennon> vino madens, ocio gaudens,
rapina potens, devorator plebis
c.125v = I 247: ira Agamennonis: insanire incipit
c.126v = I 343: imprudens rex
c.129r = I 101: mentitur rex
c.129v = II 226 aurum et femine regi exprobrantur
c.129v = II 230: rex expilator
c.139v = III 467: <Elephenori> cupiditas mortis causa
c.162v = X 379: <Dolon> aurum spondet
c.165r = XI 124: <Antimachus> auro corruptus
c.183v = XVI 7: Patroclus flet ut puella
c.191r = XVII 538: <Patrocli > anima ultione leta
c.194r = XVIII 336: <Achilles> iratus vovet cadavera
c.200r = XXI 121:<Achilles> iactat et insultat

5. Origine divina del potere e ruolo dei capi

c.125v = I 187: regi nemo opponit se pari fronte


c.126r = I 279: rex:dignatio a deo
c.129v = II 197: regibus dignitas a deo/ reges deo amici /
c.129v = rex unus, quem deus facit
c.138r = IV 235 ss.: regis clara precepta omnes monentis instituentisque
c.138v = IV 322: ducum officium animos hortari
c.138v = IV 362: princeps satiafacit leso
c.156r = IX 98: deus dat sceptrum
c.161r = X 130: regi parebunt omnes, si primus in labore

6. Osservazioni sugli aspetti retorici del poema omerico

Come ho anticipato, Egidio annota sempre nel margine interno dell’in-


cunabolo l’inizio e la fine di dialoghi, nonché i nomi degli interlocutori. Nel
caso di veri e propri discorsi pronunciati dagli eroi omerici (in particolare
Nestore e Ulisse) in pubblico, o anche in privato, per convincere, redargui-
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310 PAOLA CASCIANO

re, ammonire una persona o un gruppo di persone, spesso egli esprime an-
che un giudizio sull’orazione. Sebbene l’interesse oratorio sia fuori di dub-
bio, l’impressione complessiva è che Egidio, predicatore instancabile e di
successo48, si accosti a queste porzioni di testo non tanto come a modelli e-
semplari49 quanto piuttosto con l’atteggiamento dell’oratore di esperienza,
che valuta i discorsi di suoi antichi colleghi, e esprime eventuali apprezza-
menti, ben consapevole della difficoltà del parlare publicamente, e di come
la buona oratoria possa incidere sulle scelte e sui comportamenti altrui50.
Anche in questo caso mi limito a qualche esempio:

c.125v = I 248: Nestor: sapiens, eloquens; facundia melle dulcior; senectus


gravis sapientia et annis51
c.129r= II 180: eloquentia52
c.130r= II 370: Nestoria eloquentia summa
c.134v= III 200: prudentia et consilium Ulixis eloquentiaque
c.135r= III 217, 222: Ulixes oraturus defixis oculis/more nivium eloquentia
c.155v= IX 31: Oratio fortis viri / Diomedes orat magnifice
c.157r= IX 225: Ulixis oratio mira Achilli
c.157v= IX 307: Achillis irati et constantis oratio
c.170v= XII 171: oratio temeraria
c.195v= XIX 80: dicere in concione difficile53.

48 Probabilmente Egidio iniziò la sua attività di predicatore intorno al 1493. Nel-


l’orazione pronunciata in apertura del Concilio Laterano V, nell’aprile del 1512, egli
afferma infatti che la sua attività in questo campo era ventennale; cfr. C. O’REILLY,
‘Without Councils we cannot be saved’. Giles of Viterbo addresses the Fifth Lateran
Council, «Augustiniana», 27 (1977), p. 174. Sull’orazione cfr. anche J. W. O’MALLEY,
Rome and the Renaissance, London 1981, pp. 1-11, già pubblicato come Giles of Vi-
terbo: a Reformer’s Thought on Renaissance Rome, «Renaissance Quarterly», 20
(1967), pp. 1-11.
49 L’interesse per Omero come modello di eloquenza era predominante nella pri-

ma metà del Quattrocento (cfr. LEVINE RUBINSTEIN, The Notes cit., p. 207), come ben
prova la scelta di Leonardo Bruni, nel terzo decennio del secolo, di tradurre le tre o-
razioni del l. IX dell’Iliade (cfr. FABBRI, Sulle traduzioni umanistiche cit., pp. 104 e
s.).
50 Un’analisi delle caratteristiche dell’oratoria di Egidio in MARTIN, Friar,

Reformer cit., pp. 53 e s.


51 Egidio così annota in margine al discorso di Nestore, intervenuto a placare

Achille e Agamennone, che erano quasi allo scontro fisico.


52 La nota si riferisce all’esortazione di Atena a Ulisse: «suavi eloquentia dis-

suade singulis».
53 La frase, che si legge sia nel marg. esterno che in quello inferiore, nel testo ome-

rico è pronunciata da Agamennone, il quale prima di iniziare il discorso chiede di essere


ascoltato in silenzio, in modo da poter esprimere compiutamente il proprio pensiero, in
quanto anche per un oratore esperto «dicere in magna concione perdifficile est».
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LE POSTILLE DI EGIDIO DA VITERBO 311

Inoltre nell’incunabolo sono presenti sei brevi annotazioni in lingua e-


braica54, costituite anche da un’unica parola: cinque sono tracciate nell’alfa-
beto ebraico (cc. 130v, 136v, 164v, 177v, 208r), una traslitterata in quello la-
tino (148v). La grafia, come mi viene suggerito, risulta ancora incerta nel
tratteggio e la morfologia delle lettere non è sempre corretta55. Egidio aveva
intrapreso lo studio dell’ebraico probabilmente negli anni padovani, o nel
1497, durante il soggiorno fiorentino. Il salto qualitativo avvenne però in se-
guito all’incontro con Elijah Levita, allorché questi, trasferitosi dalla Ger-
mania a Padova e successivamente a Venezia, giunse a Roma dove chiese ed
ottenne la protezione dell’Agostiniano, il quale nel 1517, divenuto cardina-
le, lo accolse con la famiglia nella propria residenza cardinalizia, situata ad
angolo tra via della Scrofa e via dei Portoghesi; ebbe inizio così un sodali-
zio tra i due destinato a durare fino al Sacco del 152756. Lo studio della lin-
gua ebraica, della cabala, dei commentari rabbinici, occupò un posto di gran-
de rilevanza nella vita intellettuale di Egidio. Egli infatti – è noto – sulla stra-
da tracciata da Pico della Mirandola, era convinto che per comprendere pie-
namente i testi dell’Antico Testamento, per penetrarne il significato mistico
e allegorico, l’esegeta cristiano dovesse possedere due requisiti fondamenta-
li: la perfetta padronanza dell’aramaico e dell’ebraico (grammatica, sintassi,
vocabolario), la lingua in cui Dio parlò agli uomini; una profonda cono-
scenza degli arcana – vale a dire dei testi cabalistici –, nonché delle tecni-
che esegetiche della cabala: le dottrine cristiane andavano interpretate attra-
verso le categorie cabalistiche57. Mi soffermo su una sola delle annotazioni,
che ritengo particolarmente interessante, in quanto esplicativa del metodo e-
segetico di Egidio. Ricordo preliminarmente che uno dei concetti fonda-
mentali dei testi cabalistici è quello che concerne le Sephirot, cioè le dieci
emanazioni divine, le dieci sfere della manifestazione divina, nelle quali Dio
emerge dalla sua vita nascosta, che si susseguono e procedono l’una dall’al-

54 Come per gli autori classici, anche in questo caso i riferimenti espliciti non
sono numerosi; tuttavia, come appare evidente dalle sottolineature e dai segni di ri-
chiamo, Egidio presta grande attenzione a quegli elementi che hanno un corrispet-
tivo nella simbologia cabalistica; ad es. i numeri, i carri (la Merkava, il cocchio re-
gale e trono di Dio), alle colombe, alle piante; cfr. G. SCHOLEM, La Kabbalah e il
suo simbolismo, Torino 1990; E.R. WOLFSON, Along the Path. Studies in Kabbali-
stic Myth, Symbolism, and Hermeneutics, New York 1995.
55 I miei ringraziamenti vanno a Lucio Milano e a Micaela Procaccia.
56 Cfr. MARTIN, Friar, Reformer cit., pp. 162-168.
57 Per questo motivo Girolamo, che pure meritava la riconoscenza di tutti i teo-

logi per aver emendato il testo latino collazionandolo sull’originale, si era fermato
al senso letterale della Scrittura, senza raggiungerne il significato profondo, senza
penetrare l’hebraica veritas; cfr. F. SECRET, Pico della Mirandola e gli inizi della
cabala cristiana, «Convivium» 1 (1957), pp. 46 e s.
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312 PAOLA CASCIANO

tra. Il mondo delle Sephirot è considerato come un organismo mistico, e le


più importanti immagini di organismo usate al riguardo sono quelle dell’al-
bero e del corpo umano. I cabalisti usano più o meno le stesse determinazio-
ni e la stessa terminologia per indicare la serie delle dieci Sephirot: la prima
sephira è Cheter ‘la corona’ della divinità (la cima dell’albero, o la testa del-
l’uomo in un simbolismo anatomico); la seconda è Hocma, ‘la saggezza’; la
terza è Bina, ‘l’intelligenza’; e così via via fino alla decima, che è Scechina,
‘il regno’o ‘la presenza di Dio’58.
Torniamo all’annotazione di Egidio. La c. 130v dell’incunabolo casa-
natense contiene la traduzione di Hom. Il. II 308-320: erano trascorsi nove
anni dall’inizio della guerra e i soldati achei, ormai stanchi, tumultuavano e-
sigendo di tornare in patria. Allora Ulisse, nell’esortarli ad avere pazienza,
rammentò il prodigio accaduto quando, in procinto di salpare verso Troia,
sacrificavano agli dei: un serpente sbucato di sotto l’altare si era drizzato ver-
so un platano vicino, sul cui ramo più alto, tra le fronde, erano nascosti otto
passerotti con la loro madre. Il drago aveva divorato i piccoli e poi la madre,
che volava intorno gemendo. Calcante così aveva spiegato il prodigio: «no-
ve anni dovremo combattere, ma al decimo conquisteremo Troia». Nel mar-
gine superiore della c. 130v Egidio scrisse, parte in latino parte in ebraico59,
una nota ormai non del tutto leggibile: «draco vorans: Cheter: < ... >: vorans
filios: nona mater: Hocma: mater honorificata: < ... >» mentre nel margine
inferiore annotò: «passeres octo: quere hec psalmo 103 ubi arbor, frondes,
rami, passeres, draco». Nel salmo 103, che è un inno alla creazione, effetti-
vamente si legge:

v. 17: et caedri libani quas plantavit


illic passeres nidificabunt
v. 26: draco iste quem formasti
ad inludendum ei.

Ma questa rispondenza non chiarisce il parallelismo istituito da Egidio


tra il passo omerico e il salmo, nel quale – tra l’altro – non si fa riferimen-
to al numero dei passeri. Sulla giusta via ci porta una passo di Scechina, l’o-

58 Cfr. G. SCHOLEM, Le grandi correnti della mistica ebraica, Torino 1993, pp.

219-226. Un quadro generale del grande interesse che alcuni ambienti umanistici
d’Italia e di Germania, allo scadere del XV sec., nutrirono per il misticismo cabali-
stico, in K.S. DE LEÓN-JONES, Giordano Bruno and the Kabbalah. Prophets, Magi-
cians, and Rabbis, New Haven-London 1997, pp. 29-52.
59 Per la traslitterazione dei termini ebraici Cheter e Hocma mi sono attenuta a

quella adottata in EGIDIO DA VITERBO, ‘Scechina’ e ‘Libellus de litteris hebraicis’. I-


nediti a cura di F. SECRET, II, Roma 1959, pp. 319 e s., ad indicem [Tav. 5].
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LE POSTILLE DI EGIDIO DA VITERBO 313

pera a cui Egidio lavorò per molti anni e che dedicò a Clemente VII60: nel
capitolo quinto, l’ultima delle Sephirot, che è la voce narrante, espone al-
l’imperatore Carlo V – considerato il nuovo David, Salomone e Ciro, e a cui
spettava quindi il compito di promuovere la riforma della Chiesa, nonché
quello di sconfiggere i Turchi – la teoria delle emanazioni divine: «Cheter:
sephira prima Patris: [...] in eius vero sinu est filius, sephira secunda, in qua
sunt plane omnia: ubi velut in nido: in abietis archane [...] vertice colloca-
to: nos octo divini Homeri passeres nidificamus». Quindi, secondo l’esege-
si di Egidio, nel passo ilidiaco (così come nella profezia del salmo 103, do-
ve si fa riferimento a un cedro del Libano e ai passeri che vi avrebbero ni-
dificato) sono adombrate le dieci Sephirot: otto nei passeri; una – la nona,
Hocma – nella madre; una – la decima, Cheter – nell’albero stesso. Per pro-
vare l’affinità dei due testi, egli così procede nella Scechina: i cabalisti, gli
aramaei theologi, intrepretano gli aves di Isaia (31 c), «sicut aves [...] vo-
lantes: proteget Dominus Ierusalem», come le sante Sephirot. Il vocabolo
che si legge nel testo originale di Isaia è ‘Zipur’ – il medesimo che si trova
nel salmo 103 –, che scritto senza vocali diventa ZPR e si legge Zapar. Per-
tanto, argomenta Egidio, «Zade in S littera transit [...]: si secunda littera
praeponatur primae: facit PSR: Passar: passer eisdem constans litteris»61.
Stabilita l’equivalenza Zipur / Passer e, di conseguenza, quella tra i passe-
res del salmo 103 e del passo omerico, resta ancora ad Egidio da chiarire il

60 È un’opera assai complessa, perché in essa Egidio rinunciò a qualsiasi for-

ma organizzativa del pensiero discorsivo, ma che testimonia l’imponente sforzo


concordista dell’autore, il quale nel tentativo di unificare dottrine diverse ripercorse
l’intera letteratura cabalistica inserendola in un quadro cristiano.
61 EGIDIO DA VITERBO, Scechina cit., I, p. 230: «Solus enim sibi vendicat aeter-

nitatem: qui Apostolo teste [1 Tim. 6] solus habet immortalitatem: est autem is Che-
ter: sephira prima Patris: et quae in eo sunt: in eius vero sinu est filius: sephira se-
cunda: in qua sunt plane omnia: ubi velut in nido: in abietis archanae: ut ibidem di-
citur, vertice collocato: nos octo divini Homeri passeres nidificamus primae: dein
Angeli: postremae animae mortalium: de quibus Isaias [31 c]: Sicut aves, inquit, vo-
lantes: proteget Ierusalem Dominus: ubi idem est vocabulum Zipurim: quod in ver-
su psalmi: quod passeres nidificabunt: quin multis psalmis prophetisque: pro passe-
ribus aves accipi vult: ubicumque enim passeres leges apud veteres: hanc vocem in-
tellige: septies eo nomine usa sum in psalmis [8, 10, 81, 103, 123, 148]: ut transmi-
gra in montes, ut passer: passer invenit sibi domum et hirundo nidum: passer etiam
in tecto solitarius: et id quod diximus, passeres nidificabunt: anima quoque nostra
sicut passer erepta dicitur: duobus aliis locis interpres, aut oblitus sui: aut certe va-
riae orationis amator: aves transtulit: cum et communi apelatione pro avibus: qui-
busdam in locis capi par sit: sed passeris speciei praeter genus iccirco convenit:
quod eaedem in Zipur et passere litterae sint: radix enim nominis est ZPR legitur
Zapar: Zade in S litteram transit: ut patrisse et Sabaoth: si secunda littera praepona-
tur primae: facit PSR: Passar: passer eisdem constans litteris».
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314 PAOLA CASCIANO

numero otto. Sempre nella Scechina, egli così prosegue: il vocabolo Zipur
è presente sette volte nei Salmi; compare un’ ottava volta nel Deuteronomio
22. 6, la nuova legge. Quindi, conclude Egidio, David e la vetus Lex co-
nobbero sette sephirot; l’ottava venne elargita nel Deuteronomio, la nova
Lex62. Per questo il divinus Omero, che ebbe contezza sia della vetus che
della nova Lex, nell’Iliade, sotto il manto poetico, fa riferimento a otto pas-
seri. Grazie all’equazione Zipur / Passer, stabilita sulla base della punti-
gliosa ricerca di corrispondenze del cabalista, Egidio realizza quindi un per-
fetto sincretismo tra Scrittura e testo ilidiaco. Il dato di questa esegesi che
a me sembra particolarmente interessante è che Egidio, non solo quando
glossa l’Iliade ma anche successivamente, mentre compone la Scechina –
quando quindi presumibilmente ha il tempo per riflettere con tutta calma –
sembra considerare del tutto ininfluente il fatto che il termine passer è pre-
sente nella traduzione latina del Valla mentre il divinus, il divus Omero u-
sa, ovviamente, il termine greco νεσσóς.
Una considerazione conclusiva: due avvenimenti, tra quelli che carat-
terizzarono i primi tre lustri del Cinquecento, appaiono di particolare rile-
vanza:
1) il sempre crescente malcontento determinato dalla politica pontificia de-
gli ultimi settant’anni, che sfocerà nella Riforma del 1517;
2) l’affermarsi di un nuovo modo di approccio ai classici e, più generica-
mente, alla problematica dell’Antico. Accanto al persistere della grande fi-
lologia di fine Quattrocento, caratterizzata da un estremo rigore – che fa ca-

62 Ibid., p. 234 e s.: «Dixi in beato patris sinu quiescere sapientiam: nos octo

divinos, ut passeres, in ea collocatos: veluti foelici nido cubare: id quod ex eo con-


firmant Aramaei: quod eodem psalmo [103, 4] scriptum est: ubi de nidificantibus
nobis agebatur: omnia, inquit, in sapientia fecisti: hoc est cum aeterna generatione
[...] iam ostendi: in sinu Patris esse sapientiam: atque in illa nos octo constitutas:
cum quae in Deo sunt: Deus sint: solus is habere immortalitatem: cum iis quae in
ipso sita sunt: quod si in eo sapientia, et nos octo in illa sumus: in illo omnes sumus
et iuxta: cum illo sempiternae sumus. Verum et adhuc nodus superest: si octo nos
primi nidificantes passeres: sublimem incolimus sapientiae nidum: Zipur passeris
nomen: quamobrem apud David non octies: sed septies invenitur? Iam causa et dif-
fusius reddita est et saepius: septem enim aedificii sephirot et Mosi concessae sunt:
et Legi veteri: octava gloriae novae Legis et Messiae: nemo supra datas vires potest:
ex quo fit: ut David septem non ascenderit: suo tam numero quam Lege contentus.
At Moses: cuius libris ego adiici procuravi: quod non surrexit propheta in Israel ut
Moses: qui cum Deo sit facie ad faciem locutus [Deut. 34d]: quod non potuit aper-
ta oratione: occulta insinuavit. Hic eodem libro Legis extremo: septem locis quibus
David [Deut. 22a] Zipur nomen posuit, adiecit octavum [...]. Cepit David passeres
septem [...]: Moses prophetarum maximus: ut potuit: octavam ostendit».
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LE POSTILLE DI EGIDIO DA VITERBO 315

po al Poliziano —, si fa infatti strada la lettura platonico-sapienziale degli


auctores e, con un prevaricamento dell’asse cronologico e culturale greco
romano, l’esegesi dei testi antichi e della Scrittura in chiave ermetico-caba-
listica (l’archana litterarum et numerorum sapientia), e egittologica63.
Egidio da Viterbo è un personaggio emblematico di questo inizio di se-
colo, di cui condivise le tensioni a prezzo di forti contraddizioni. Pur es-
sendo organico alla Chiesa, deplorò l’operato del pontefice e i costumi del-
la Curia – come traspare dal giudizio, che ho riportato in apertura, espres-
so sul pontificato di Alessandro VI64 –, e lo fece con argomenti uguali, nel-
la sostanza, a quelli usati nei medesimi anni non solo da Erasmo da Rotter-
dam in scritti a lungo guardati con sospettoso cipiglio, quali l’Elogio della
follia o i Sileni di Alcibiade, ma anche da altri umanisti d’oltralpe, come
Hulric von Hutten e Melantone, che finirono con lo schierarsi a fianco di
Lutero. Benché cardinale, egli fu a Roma – con il tacito consenso, o addi-
rittura con il sostegno entusiastico del pontefice Clemente VII – tra i mas-
simi, se non il massimo esponente della cabala cristiana, del metodo esege-
tico che applicava al cristianesimo le categorie del misticismo ebraico, poi
dichiarato fuori legge nel corso del Concilio tridentino.

63 Basta pensare a Pico, Marsilio Ficino, Valeriano dei Hieroglyphica.


64 Egidio espresse il proprio dissenso anche nella prima redazione di un di-
scorso pronunciato in una circostanza di grande rilevanza; cfr. P. CASCIANO, ‘Fru-
galitatem exigit pietas, non poenam’. Egidio da Viterbo e il Quinto Concilio Late-
ranense, in Presenze eterodosse nel Viterbese tra Quattro e Cinquecento, (Atti del
Convegno Internazionale, Viterbo, 2-3 dicembre 1996), a cura di V. DE CAPRIO-C.
RANIERI, Roma 2000, pp. 123-140.
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316 PAOLA CASCIANO

TAV. 1 - Roma, Biblioteca Casanatense, 1227b, c. 211r


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LE POSTILLE DI EGIDIO DA VITERBO 317

TAV. 2 - Roma, Biblioteca Casanatense, 1227b, c. 210r


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318 PAOLA CASCIANO

TAV. 3 - Roma, Biblioteca Casanatense, 1227b, c. 124r


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LE POSTILLE DI EGIDIO DA VITERBO 319

TAV. 4 - Roma, Biblioteca Casanatense, 1227b, c. 140v


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320 PAOLA CASCIANO

TAV. 5 - Roma, Biblioteca Casanatense, 1227b, c. 130v


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FRANCESCA NIUTTA

Il Romanae historiae compendium di Pomponio Leto


dedicato a Francesco Borgia

1. Una princeps postuma

È il 7 maggio 1497 quando Pomponio, quasi settuagenario, invia al-


l’ex-scolaro Marcantonio Sabellico, che gode a Venezia della posizione di
storiografo della Repubblica, il manoscritto dei Caesares. Di una consuetu-
dine di scambi dei rispettivi scritti fra maestro e allievo resta testimonianza
nell’epistolario di Sabellico, che in passato aveva mandato a Pomponio il
Genethliacon di Venezia pregandolo di dargli, «ut soles», il suo giudizio sul
componimento1. Stavolta Pomponio, stando alla lettera conservata da Sa-
bellico, non chiede un giudizio sul proprio lavoro, ma esorta l’amico a cor-
reggerlo come se ne fosse stato lui stesso l’autore2: «corrige igitur, emenda,
subeasque officium non lectoris sed auctoris». Insieme si rallegra con Sa-
bellico perché ha dato l’ultima mano alle Enneades (che usciranno a stam-
pa il 31 marzo 1498)3, e lo fa partecipe del ritrovamento nel tempio di Ve-
sta di alcune iscrizioni4. La lettera di Pomponio, datata Nonis Mai, senza
anno, presuppone le Enneades pronte per la pubblicazione ma non ancora
uscite, ed è quindi precedente al 31 marzo 1498; il riferimento al rinveni-
mento recente delle iscrizioni nel tempio di Vesta consente di porla nel
14975. Il ritrovamento, che contribuiva all’identificazione del tempio, do-

1 MARCO ANTONIO SABELLICO, Opera, Venetiis 1502, f. 7r: «Pergratum postea

feceris si ad me, amice, ut soles, iudicium scripseris. Nam quum plaerique sint quo-
rum possim sententiae et iudicio acquiescere, cuius auctoritate sim libentius quam
tuae acquieturus est nemo».
2 Ibid., f. 46v. Sabellico riporta questo passo anche nella Pomponii vita acclu-

sa al Compendium.
3 Ibid.: «Legi litteras tuas eo avidius, quod intellexi frugiferis Enneadibus vi-

giliarum tuarum extremam dedisse manum». Le Enneades ab orbe condito ad in-


clinationem imperii Romani furono stampate a Venezia da Bernardino Vitali e Mat-
teo Veneto (BMC V 547; IGI 8489).
4 «Mitto epigrammata quaedam reperta in pronao templi Vestae sub Palatio con-

tra forum Romanum» (ma la lettera conservata da Sabellico non riporta le iscrizioni).
5 La data 1497 è fornita da fra Giocondo di Verona, che includeva nella sillo-

ge epigrafica del codice Cicogna 1632 (già 2704) del Museo Correr (P.O. KRISTEL-
LER, Iter Italicum, I, London-Leiden 1967, p. 282) le otto iscrizioni appena ritrova-
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322 FRANCESCA NIUTTA

vette grandemente emozionare Pomponio, che nella revisione finale dei


Caesares aggiunse il testo di una di esse6. Ma su questo si tornerà più a-
vanti.
Sabellico legge avidamente i Caesares, si entusiasma sia per il conte-
nuto che per la castissima oratio, riconosce che gli sono riusciti di utilità
nell’ultima parte delle Enneades («nec res minori fuit usui quam voluptati,
quod tute facile iudicabis quum ea quae sunt in calce nostrarum Enneadum
quandoque legeris»)7, e annuncia a Pomponio l’invio di tre copie dell’ope-
ra appena uscita a stampa. Quanto alla pubblicazione dei Caesares, sareb-
be stato pronto a portarli immediatamente in tipografia, ma ha rinviato a
causa di certe offensiunculae, di cui non precisa la natura8, incerto sui tagli
da apportare, dubitando di tradire la volontà dell’autore con i suoi interventi
editoriali9. Quindi all’uscita delle Enneades i Caesares devono ancora an-
dare in tipografia. Le esitazioni di Sabellico durarono a lungo. C’è anche
un’altra lettera – non è chiaro se precedente o successiva – in cui egli an-
nuncia che i Caesares sono sul punto di giungere in officina10. Solo dopo la

te nelle rovine del tempio di Vesta: CIL VI.1, 2131-2145. È probabile che fosse sta-
to lo stesso Pomponio a comunicarle a Giocondo: cfr. ibid. VI.1, p. XLIV.
6 È al f. [14]v della prima edizione (Venezia, B. Vitali, 23 aprile 1499) del Ro-

manae historiae compendium; cfr. CIL VI.1, 2141.


7 Le Enneades arrivano infatti alla morte di Arcadio, abbracciando un periodo

incluso nel Compendium; l’utilizzazione del Compendium è mostrata dalla menzio-


ne (f. CCCCXLIVv) dei fuggevoli regni, dopo la morte di Gordiano III, degli im-
peratori Marco e Severo Ostiliano, che compaiono nel Compendium, il quale attin-
ge da Zonara, unica fonte che ne parli (v. anche infra).
8 F. TATEO, Coccio Marcantonio, in DBI, 26, Roma 1982, p. 513, intende che

esse riguardino la lingua; invece secondo V. ZABUGHIN, Giulio Pomponio Leto. Sag-
gio critico, II, Grottaferrata 1912, pp. 230 e 232, 387, «le pietre d’inciampo, con le
quali angolosità lottò a lungo lo scrupolo del Sabellico» furono un paio di aneddo-
ti «degni delle Facezie di Poggio» (p. 232). Ma si può forse avanzare una terza ipo-
tesi. Sabellico, pur minimizzando le offensiunculae («offensiunculae quaedam nec
adeo multae»), ci tiene a dissociarsi dalla responsabilità della pubblicazione; forse
appariva anche al suo occhio di curatore designato una certa farraginosità dell’in-
sieme, in contrasto proprio, come vedremo, con gli intenti di limpidità e chiarezza
espressi da Pomponio nella prefazione; in questo consistevano forse le offensiuncu-
lae.
9 «Veritus ne […] tollerem quae auctor maxime probaret, diu multumque du-

bitavi quae essent mei officii partes in commentariis his publicandis» scrive nella
Pomponii vita.
10 SABELLICO, Opera cit., f. 46v: «Tui Caesares nondum impressoriam subie-

runt officinam; subibunt tamen intra paucos dies, daboque operam ut quam emen-
datissime in apertum prodeant». La lettera, non datata, nella raccolta di Sabellico se-
gue immediatamente quella di Pomponio con l’invio dei Caesares; ma è in un’altra
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IL ROMANAE HISTORIAE COMPENDIUM DI POMPONIO LETO 323

morte di Pomponio, avvenuta il 9 giugno 149811, Sabellico rompe gli indu-


gi, decide che nessuna modifica deve essere apportata al testo di Pomponio,
dà istruzioni rigorose in questo senso ai tipografi, e affida la responsabilità
del lavoro a Democrito di Terracina12 (che aveva avuto parte anche nella
pubblicazione delle Enneades, tanto da meritarsi una lettera di ringrazia-
mento per fides et industria inclusa nel volume)13. Tutto ciò egli riferisce
nella Pomponii vita acclusa al Compendium, dedicata a Marcantonio Mo-
rosini; in questo modo ottiene un duplice risultato: vanta pubblicamente la
fiducia del grande Pomponio nei suoi riguardi («Vides Maurocene quantum
vir ille summus mihi tribuit, qui tam humane, ne humiliter dicam, res suas
nostro subiicit iudicio»: tutta la Pomponii vita trabocca delle espressioni di
stima di Pomponio verso l’autore stesso), ma allo stesso tempo declina o-
gni responsabilità nella pubblicazione del testo.
I Caesares uscirono infine a stampa, col titolo di Romanae historiae
compendium ab interitu Gordiani iunioris usque ad Iustinum III, il 23 a-

posta più avanti (ibid., f. 47v) che Sabellico dice di aver letto avidamente i Caesa-
res, anzi di averli utilizzati per le Enneades, appena uscite a stampa («librum de
Caesaribus quem ad me misisti tam cupide legi quam quod cupidissime, nec res mi-
nori fuit usui quam voluptati, quod tute facile iudicabis quum ea quae sunt in calce
nostrarum Enneadum quandoque legeris. Quod ut facilius contigeret dedi operam ut
tria ex his Enneadibus volumina istuc perferrentur»): è la lettera in cui parla anche
delle sue esitazioni a pubblicare i Caesares per le offensiunculae che contengono.
Allora però si deve supporre che Sabellico avesse temporeggiato quasi un anno in-
tero prima di dare risposta alla lettera di Pomponio del 7 maggio 1497. O forse si
può congetturare che nella rielaborazione dell’epistolario Sabellico condensasse in
una unica lettera quello che era compreso in un carteggio diluito nel tempo.
11 La data è discussa da M. DE NICHILO, I Viri illustres del cod. Vat. lat. 3920,

Roma 1997, (RRinedita, 3), p. 135; ad ulteriore conferma delle testimonianze da lui
riportate a favore della datazione al 9 giugno 1498 (anziché al 21 maggio 1497) del-
la morte di Pomponio si può aggiungere anche la lettera citata alla nota precedente
in cui Sabellico preannuncia a Pomponio l’invio di tre copie delle Enneades, che
presuppone Pomponio vivente al 31 marzo 1498, data di stampa dell’opera.
12 «Sed tutiorem viam ingressus librum archetypum cum Pomponii chiro-

grapho ea conditione librariis obtuli, ut nihil illi adderent, nihil adimerent; quod ut
commodius fieret totum negocium detuli Democrito Taracinensi».
13 Il ruolo di Democrito non emerge molto chiaramente dalla lettera di Sabel-

lico, che è soprattutto un’autoapologia. Ma si ritiene che Democrito sia stato l’edi-
tore del volume: cfr. P. VENEZIANI, Il frontespizio come etichetta del prodotto, in Il
libro italiano del Cinquecento: produzione e commercio, Roma 1989, p. 111. Sul-
l’identità di Democrito e la sua attività editoriale ora anche D. FATTORI, L’avventu-
rosa vita di Democrito Terracina (fra libri ed altro), «RR roma nel rinascimento, Bi-
bliografia e note», 1998, pp. 305-316.
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324 FRANCESCA NIUTTA

prile 1499, quasi un anno dopo la morte di Pomponio e due anni dopo
l’invio a Sabellico, accompagnati dalla prefazione dell’autore indirizzata
a Francesco Borgia, vescovo di Teano e prefetto dell’erario pontificio, ol-
tre che dalla Pomponii vita14, che è anche una sorta di postfazione in cui
Sabellico ripercorre le vicende della pubblicazione, citando stralci dal
carteggio con Pomponio e assicurando, contro l’evidenza, che Pomponio
glieli aveva affidati poco prima di morire («Pomponius haud multo post-
quam hanc suam ad me misit lucubrationem fato decessit»). Il ritardo nel-
la pubblicazione fu largamente compensato dal successo del Compen-
dium. La princeps fu seguita a brevissima distanza di tempo da una se-
conda edizione (12 dicembre 1500)15 che correggeva alcune sviste tipo-
grafiche e apportava qualche modifica nella Vita Pomponii, e da un’altra
ancora16 – tutte stampate a Venezia da Bernardino Vitali che era anche il
tipografo del Sabellico – e nel secolo successivo da un numero cospicuo
di edizioni, anche fuori d’Italia17. L’esigenza di disporre di una rassegna
completa delle vicende dell’impero romano è mostrata dalla frequente as-
sociazione nelle edizioni incunabole delle Vite dei Cesari di Suetonio con
l’Historia Augusta18, a cui erano aggiunti Eutropio e l’Historia Romana
di Paolo Diacono, ad ottenere una sequenza cronologica completa fino al-
la fine del VII secolo. Ora arrivava il Compendium a racchiudere per la
prima volta in un volumetto di poco più di 50 carte le biografie degli im-
peratori dalla morte di Gordiano III (244) fino agli ultimi discendenti di
Eraclio (fine del VII secolo). L’intento di Pomponio era stato infatti, co-
me egli scrive nella dedica a Francesco Borgia, di raccogliere quello che

14 BMC V 549; IGI 7987; la Pomponii vita occupa i ff. [57]r-[60]r.


15 BMC V 549; IGI 7988.
16 Ibid., IV p. 309. Non datata, è priva della Pomponii Vita.
17 Il più lusinghiero riconoscimento venne al Compendium dall’inclusione

nella raccolta degli storici dell’impero romano pubblicata nel 1518 a Basilea da
Froben, l’editore di Erasmo, a fianco delle Vite dei Cesari di Suetonio curate dallo
stesso Erasmo. Testimonianza ulteriore del successo del Compendium è il volga-
rizzamento italiano pubblicato da Giolito de’ Ferrari nel 1549, che dovette avere u-
na tiratura altissima a giudicare dalla diffusione nelle nostre biblioteche; era opera
di Francesco Baldelli, traduttore anche di Cesare, Giuseppe Flavio, Dione Cassio.
18 A partire dalla princeps dell’Historia Augusta di Milano, Philippus de La-

vagna, 1475, curata da Bono Accorsi (IGI 8847) e anche in quelle immediatamente
successive (IGI 8848-8849): cfr. anche A. BELLEZZA, Historia Augusta. I. Le edi-
zioni, Genova 1959, pp. 19-25. Anche Poliziano abbinava alla lettura di Suetonio
quella dell’Historia Augusta: V. FERA, Una ignota Expositio Suetoni del Poliziano,
Messina 1983, p. 33.
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IL ROMANAE HISTORIAE COMPENDIUM DI POMPONIO LETO 325

si trovava disperso in tante fonti diverse integrando la lacuna dell’Histo-


ria Augusta19:

Exorsi ab interitu iunioris Gordiani usque ad exilium Iustini He-


racliorum multa dispersa in unum corpus collegimus; ab Philippo
vero usque ad caedem Aemiliani quia Trebonii Pollionis labor si-
ne capite est et monimenta illorum temporum desiderantur nimis
circumcise narravimus

Intento ribadito a conclusione del primo libro, che si chiude con Caro,
Numeriano e Carino, gli ultimi imperatori dell’Historia Augusta:

Percurri gesta XI imperatorum, ne interrupta temporum series ad-


mirationem legentibus faceret; ad destinatum opus redeo profes-
sus initio me scripturum de iis imperatoribus quorum gesta ma-
gna ex parte fere interierant.

Il Compendium aveva il pregio di offrire una sintesi che intendeva es-


sere agile e chiara – «laudatur etiam in historia brevitas quae sit aperta ac
lucida […] nos vero breves esse volumus»; quanto poi questo risultato fos-
se raggiunto è un’altra questione – inframezzata da digressioni («et saepius
digressi sumus ornatus gratia») di carattere antiquario ed erudito, aneddoti,
e anche allusioni, commenti, deprecazioni sulla storia più recente, fino al-

19 Dagli inizi della stampa erano state pubblicate, anche replicatamente, le Vi-

te dei Cesari di Suetonio e l’Historia Augusta; lo iato fra le Vite, che si chiudono
con Domiziano (morto nel 96 d. C.) e l’Historia Augusta, che inizia con Adriano
(117-138), era stata colmato pochi anni prima, nel 1493, con la pubblicazione pro-
prio a Roma della traduzione latina di Bonifacio Bembo delle Vite di Nerva e Traia-
no tratte da Dione Cassio, che fu dedicata al cardinale Francesco Todeschini Picco-
lomini (IGI 3445), sulla quale M.G. BLASIO, L’editoria universitaria da Alessandro
VI a Leone X: libri e questioni, in Roma e lo Studium Urbis. Spazio urbano e cul-
tura dal Quattro al Seicento, (Atti del convegno, Roma, 7-10 giugno 1989), Roma
1992, pp. 298-299. Uscì poco dopo presso lo stesso stampatore l’Historia de impe-
rio post Marcum di Erodiano, che abbraccia gli anni 180-238, nella traduzione di
Poliziano (IGI 4689), su cui D. GIONTA, Pomponio Leto e l’Erodiano del Poliziano,
in Agnolo Poliziano, poeta, scrittore, filologo, (Atti del Convegno Internazionale di
Studi, Montepulciano, 3-6 novembre 1994), a cura di V. FERA-M. MARTELLI, Firen-
ze 1998, pp. 425-458, in particolare p. 439. (Dall’aldina di Egnazio del 1516 in poi
le edizioni di Suetonio e Historia Augusta sarebbero state accompagnate anche dal-
le vite di Nerva, Traiano e Adriano da Dione Cassio nella traduzione di Giorgio Me-
rula: BELLEZZA, Historia Augusta cit., pp. 26 e ss.). Ma rimaneva ancora nella se-
quenza delle biografie dell’Historia Augusta la lacuna fra Gordiano III e Valeriano
(anni 244-253); e l’Historia Augusta si arrestava comunque al 284 con Caro, Nu-
meriano e Carino.
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326 FRANCESCA NIUTTA

l’età contemporanea. Elementi tutti che concorsero al suo successo: «teque


mirari plurimum aiebas in opusculo tam pusillo, tam stricto, tantam tan-
quam variam rerum cognitionem contineri», scriveva qualche anno più tar-
di nella prefatoria indirizzata a Mattia Schurer dell’edizione degli Opera
pomponiani (Strasburgo 1515) Nicola Gerbelio, entusiasta della lettura del
Compendium che univa «nova quaedam simul et antiquissima nonnulla».
Possiamo dare credito alla dichiarazione di Sabellico di non aver mo-
dificato nulla, poiché il testo a stampa del Compendium coincide sostan-
zialmente con quello dei manoscritti superstiti. Qualche dubbio invece sia-
mo indotti a nutrire nelle capacità, e anche nella correttezza professionale,
di Democrito, verso il quale Sabellico è pur prodigo di lodi, che intensifica
anzi nella seconda edizione del Compendium (il semplice «detuli Democri-
to Taracinensi» diventa nella seconda edizione «detuli Democrito Taraci-
nensi viro in librariis officinis exercitatissimo»). Poiché la stampa ha pro-
prio nella dedica un vistoso errore che sarebbe sorprendente in un cultore
attento delle antichità come Pomponio, e nell’ultima pagina omette un’in-
tera frase, compromettendo la perspicuità del testo. Nel passo appena cita-
to della dedica a Francesco Borgia Trebellio Pollione, uno degli autori del-
l’Historia Augusta, viene trasformato, forse per attrazione dal nome del
congiurato anticesariano, in Trebonio Pollione («Trebonii Pollionis labor
sine capite est»). Ma i due manoscritti che riportano la dedica, il Vat. lat.
10936 e il Bonc. F. 2, fanno fede che Pomponio aveva scritto correttamen-
te Trebellius; che del resto è anche uno dei pochissimi, fra gli autori di cui
Pomponio si serve, ad essere citato per nome nel testo20. L’omissione è nel
capitolo finale in cui è presentata la progenie di Eraclio. Nel testo a stampa
manca nella catena genealogica un anello, l’imperatore Costantino IV. La
sequenza tràdita è: Costantino III, avvelenato dalla matrigna Martina e dal
fratellastro Eraclona; Eraclona; Costante II (641-668), che tenta una cam-
pagna contro i Longobardi, arriva a Roma, si stabilisce a Siracusa, dove vie-
ne ucciso da una congiura mentre prende un bagno; l’usurpatore Mezezio
(o Micizio; Pomponio lo chiama Mazes) che gli succede per breve tempo;

20«Trebellius Pollio meminit Diocletianum dicere solitum, cum in privata esset


vita, nihil esse difficilius quam bene imperare»: al f. [19]r della princeps. La senten-
za proviene da H. A., Aurel. 43, 2, che però va comunemente sotto il nome non di
Trebellio Pollione, ma di Flavio Vopisco. A Trebellio Pollione erano attribuite altre
delle biografie imperiali di cui Pomponio si serve (Valeriani duo), come si vedrà più
avanti. Ricordiamo che la tendenza oggi prevalente riguardo alla paternità dell’Hi-
storia Augusta è di considerarla opera di un unico autore, che si serve di più pseu-
donimi: si veda per tutti Histoire Auguste, I, 1: Introduction générale. Vies d’Hadrien,
Aelius, Antonin. Texte établi et traduit par J.-P. CALLU-A. GADEN-O. DESBORDES, Pa-
ris 1992, pp. XXIX e ss.
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IL ROMANAE HISTORIAE COMPENDIUM DI POMPONIO LETO 327

Costantino IV (668-685), figlio di Costante II; Giustiniano II, ultimo degli


Eraclidi, figlio di Costantino IV21. Giustiniano II, che Pomponio chiama
Giustino III22, regnò una prima volta per dieci anni (685-695), finché non
venne detronizzato da Leonzio ed esiliato nel Ponto; qui si ferma il raccon-
to del Compendium. La stampa, dopo aver ricordato, a poche righe dalla fi-
ne, che Costante II trafugò il rivestimento argenteo del Pantheon, portan-
dolo con sé in Sicilia, così prosegue:

Dumque ibi in balneis se lavat a ministris auctore Mazese inter-


fectus est; qui (chi? Mazes o Costante?) dum pace Constantino-
poli fruitur mortem obiit, regnumque per manus filio Iustino tra-
didit.

Quindi Giustino (o meglio Giustiniano) appare come figlio e succes-


sore o di Costante o dell’usurpatore Mezezio, mentre era figlio di Costanti-
no IV, del quale Pomponio sembra ignorare l’esistenza. Ma i tre manoscrit-
ti di cui disponiamo per questa parte del Compendium restituiscono la ge-
nealogia completa con una frase che la stampa omette. Essi sono: il Monac.
lat. 52823 copiato da Hartmann Schedel nel 1497, e due manoscritti della
Biblioteca Vaticana, il Vat. lat. 1093624, che Sabbadini, poi smentito da
Muzzioli, attribuì alla mano di Pomponio Leto25, e il Bonc. F. 226, che fino-
ra era passato inosservato. Sono due cartacei, copiati alla fine del ‘400. I tre

21 G. OSTROGORSKY, Storia dell’impero bizantino, Torino 1968 (trad. dell’ed.

München 1963), pp. 100-125; A.N. STRATOS, Byzantium in the Seventh Century,
Amsterdam 1968-1980.
22 Pomponio trovava forse il nome abbreviato per sospensione, o espresso da

una sigla, e lo interpretava malamente; ma l’errore di Pomponio potrebbe essere u-


tile come guida per il riconoscimento del manoscritto da lui usato. Ho trovato altri
casi di scambio fra i nomi Giustiniano e Giustino; cito solo come esempio quello
del Liber Pontificalis, ed. L. DUSCHESNE, Paris 1955, I, p. 308, dove è Giustino II ad
essere chiamato «Giustiniano».
23 Al f. 75r.
24 Al f. 105r.
25 R. SABBADINI, Leto, Pomponio, in Enciclopedia italiana, 20, Roma 1933, p.

976; G. MUZZIOLI, Due nuovi codici autografi di Pomponio Leto, «Italia medioeva-
le e umanistica», 2 (1959), p. 340; cfr. anche GIONTA, Pomponio Leto cit., p. 454.
L’indagine sulla scrittura di Pomponio Leto e di altri accademici è stata più di re-
cente ampliata da P. SCARCIA PIACENTINI, Note storico-paleografiche in margine al-
l’Accademia Romana, in Le chiavi della memoria. Miscellanea in occasione del pri-
mo centenario della Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica, a
cura dell’Associazione degli ex-allievi, Città del Vaticano 1984, (Littera Antiqua, 4),
pp. 491-549.
26 Al f. 135v.
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328 FRANCESCA NIUTTA

manoscritti, salvo varianti di scarso rilievo, concordano nel riportare così il


testo (do in corsivo la frase mancante nella stampa):

Dumque ibi in balneis se lavat a ministris auctore Mazese inter-


fectus est. Ille non bene conciliatis praetorianorum animis impe-
rium invadens a Constantino Constantis filio una cum coniuratis
caesus est. Qui dum pace Constantinopoli fruitur mortem obiit,
regnumque per manus filio Iustino tradidit.

Cioè Costante II muore per una congiura ordita da Mezezio che, inca-
pace di guadagnarsi il consenso dell’esercito27, rimane sul trono per breve
tempo e viene a sua volta ucciso dal figlio di Costante, Costantino IV, il
quale lascerà il regno a Giustino (o meglio Giustiniano II). E così la se-
quenza genealogica recupera la sua integrità. Nella princeps il testo termi-
na esattamente con l’ultima riga della pagina, che è anche l’ultima pagina
del binione (f. [56]v); il successivo binione contiene la Pomponii vita. Il so-
spetto è che l’editore infedele per mere necessità tipografiche tagliasse la
frase in modo da far coincidere la fine del testo con la fine della pagina. L’o-
missione si perpetuerà in tutte le edizioni successive.

2. Dalla Brevis narratio de Romana historia al Romanae historiae compen-


dium28

Il ‘chirografo’29 inviato il 7 maggio 1497 per la revisione finale a Sa-


bellico, e da questo a suo dire rigorosamente rispettato per la stampa, do-
veva rappresentare l’ultima volontà dell’autore. Nella princeps il Compen-
dium, preceduto dalla dedica a Francesco Borgia, è diviso in due libri; il pri-
mo, più breve (ff. [3]r-[10]v), comprende le biografie degli imperatori che
si succedettero da Gordiano III (238-244) fino a Caro, Numeriano e Carino
(285); il secondo (ff. [11]r-[56]v) abbraccia un periodo assai più ampio, da
Diocleziano all’ultimo discendente di Eraclio (fine del VII secolo). A cia-
scun imperatore è intitolato un capitolo; digressioni di vario contenuto so-
no frequenti e spesso ampie, e anzi costituiscono a volte capitoli a sé. Nel-
le lettere a Sabellico Pomponio aveva usato per l’opera la designazione di

27Si tornerà più avanti sulle fonti di questo passo.


28Nelle citazioni indicherò con P la princeps del Compendium, normalizzan-
do dittonghi (nell’edizione indicati irregolarmente), maiuscole e punteggiatura; cor-
reggerò tacitamente errori materiali.
29 Sull’uso dei termini chirographum e archetypus (impiegati da Sabellico ri-

guardo al manoscritto pomponiano) v. S. RIZZO, Il lessico filologico degli umanisti,


Roma 1973, pp. 100 e 308 e ss.
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IL ROMANAE HISTORIAE COMPENDIUM DI POMPONIO LETO 329

Caesares; ma Romanae historiae compendium ab interitu Gordiani iunio-


ris usque ad Iustinum III fu il titolo adottato per l’edizione a stampa (e che
compare in uno dei manoscritti, il Vat. lat. 10936).
Del Compendium sono finora noti quattro manoscritti: il Vat. lat.
10936 e il Bonc. F. 2 hanno il testo completo; il Monac. lat. 528, cartaceo
copiato da Schedel a Norimberga nel 1497, ne conserva la parte finale. Il
quarto manoscritto, il miscellaneo I. III.13 della Biblioteca Nazionale di To-
rino, riporta soltanto (ff. 5v-7v) degli estratti, con frequenti trasposizioni,
dalle digressioni che, con i titoli rispettivi di Magnitudo imperii Romani, De
triumpho et ovatione, De Nemesi dea, si trovano all’interno della biografia
di Diocleziano30. Il Monacense, che nei suoi 209 fogli contiene una raccol-
ta di testi in massima parte di storia e antichità romane, del Compendium
presenta (ff. 52r-75r) l’ultima parte del secondo libro, dall’elezione di Va-
lentiniano I (364) alla discendenza di Eraclio (corrispondente ai ff. [40]v-
[56]v della princeps), vale a dire meno di un terzo del testo; il titolo è Bre-
vis narratio de Romana historia ab interitu Iuviani usque ad obitum Hera-
cli. Schedel si sottoscrive al termine della Brevis narratio (f. 75r)31. Il testo
pomponiano è preceduto immediatamente dal Breviarium di Rufio Festo,
che arriva alla morte di Gioviano, il predecessore di Valentiniano I e Valen-
te, al quale si riannoda dunque cronologicamente. Il codice non riporta la
dedica a Francesco Borgia. Il Monacense presenta anche due ampie lacune
negli ultimi capitoli. Nel penultimo mancano il passo finale con le due ver-
sioni, una delle quali in chiave aneddotica, sulla malattia e morte di Eraclio
e il lungo inserto sulla vita di Maometto (ff. [55]r-[56]r della princeps); un
altro passo di carattere aneddotico manca nel capitolo conclusivo sulla pro-
genie di Eraclio32. Non si tratta tuttavia di omissioni di Schedel, la fedeltà al-
l’originale del quale è indicata anche da elementi formali come le intitola-
zioni dei capitoli, identiche a quelle della stampa. Nel primo caso il passo su
Eraclio e la digressione su Maometto vengono dopo quella che è la norma-

30 Sul manoscritto, fortemente danneggiato, di cui ho visto un microfilm mala-

mente leggibile, dà copiose notizie ZABUGHIN, Giulio Pomponio Leto cit., II, pp.
387-388.
31 Cfr. Catalogus codicum Latinorum Bibliothecae Regiae Monacensis, I, 1,

Monachii 1892, p. 149, e inoltre ZABUGHIN, Giulio Pomponio Leto cit., II, pp. 223-
225 e 383-384.
32 Talvolta è invece il manoscritto che presenta passi mancanti nell’edizione: si

è visto sopra della frase omessa nelle ultime righe dalla stampa, ma se ne è anche
indicata la giustificazione; a volte esso reca la lezione corretta, a fronte di quella er-
rata della stampa; ma per questo rinvio a ZABUGHIN, Giulio Pomponio Leto cit., II,
pp. 224-225 e 383-384, che già rilevava che la redazione della copia di Schedel non
coincide con quella della stampa, indicando rispettivi errori e lacune.
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330 FRANCESCA NIUTTA

le conclusione di ogni biografia del Compendium, l’indicazione della durata


del regno, denunciando la loro natura di aggiunte successive33; nel secondo
caso l’episodio del tutto marginale della fanciulla arsa viva sulla bara del-
l’imperatrice Fabia Eudocia si inserisce in modo stridente nell’esposizione,
rompendo la scarna registrazione della discendenza di Eraclio (ma questo è
lo stile tipico del Compendium).34 Il carattere aneddotico, l’indulgere al pit-
toresco (che abbonda anche nella biografia di Maometto), fanno attribuire
questi passi alla categoria delle digressioni, con cui Pomponio dichiara nel-
la prefatoria a Francesco Borgia di aver voluto integrare un’esposizione vo-
lutamente concisa35. Essi figurano negli altri due manoscritti, il Boncompa-
gni e il Vaticano36. I due passi mostrano di essere integrazioni successive del-
l’autore. E quindi la Brevis narratio è una redazione precedente del Com-
pendium.
Il Bonc. F. 2 e il Vat. lat. 10936, cartacei attribuibili alla fine del seco-
lo XV, recano il testo completo del Compendium, con la medesima divisio-
ne in capitoli della stampa, preceduto dalla dedica al Borgia. Nel Vaticano
il titolo è quello della stampa, Romanae historiae compendium ab interitu
Gordiani iunioris usque ad Iustinum III. Come nel Monacense anche nel

33 Nel Monacense, l’explicit del capitolo intitolato a Eraclio (f. 74r) è: «Impe-

ravit Heraclius annos XXXI». Nella stampa (f. [55]r) segue: «Ferunt hidropisi oc-
cubuisse. Alii scribunt novo (nono P) cladis genere testium folliculo sursum verso
simul cum virili membro et semper tento adeo ut quotiens meieret, nisi tabula um-
bilico admota prohibente, vultum locio sparsisset; existimant ob inlicitas nuptias id
adcidisse. Lapsus est fertur in haeresim monotelitarum»; e poi l’excursus su Mao-
metto, che occupa i ff. [55]r-[56]r.
34 Nel Monacense (f. 74v) il capitolo De progenie Heraclii segue immediata-

mente alla biografia di Eraclio: «Heraclius ex Fabia Eudocia uxore suscepit E-


piphaniam et Heraclium qui Constantinus Novus adpellatus est; quem ab ineunte ae-
tate sacro diademate adornavit pater»; fin qui coincide col testo della stampa, ma co-
sì prosegue, saltando l’episodio relativo al funerale di Fabia Eudocia: «Qua defunc-
ta duxit Martinam filiam fratris ex qua genuit Heraclonam». La stampa invece, do-
po «sacro diademate adornavit pater», prosegue: «Defunctae Fabiae funus cum ef-
ferretur (efferetur P) puella sorte quadam spuit per fenestram contigitque tetigisse
elatum cadaver. Nulla facta mora compraehensa et rogo Fabiae posita viva exusta.
Duxit postea Martinam filiam fratris lata lege ut idem omnibus liceret; ex qua ge-
nuit Heraclona».
35 «Nos breves esse volumus et saepius digressi sumus ornatus gratia».
36 Sono attinti dall’Epitome historiarum di ZONARA, XIV, 15-25, che è la fon-

te di cui Pomponio si serve sostanzialmente per i due capitoli (l’aneddoto sul fune-
rale di Fabia Eudocia a XIV, 15; quello sulla malattia di Eraclio a XIV, 17, dove si
tratta anche di Maometto), combinandola con l’Historia Romana di Paolo Diacono,
XVII, 25-40 (v. anche infra).
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IL ROMANAE HISTORIAE COMPENDIUM DI POMPONIO LETO 331

Vaticano, manoscritto omogeneo di 105 fogli37, il Compendium (ff. 17v-


105r; ai ff. 16r-17v la dedica) è preceduto dal Breviarium di Rufio Festo (ff.
1v-14r, di altra mano). Le postille marginali contengono correzioni o spie-
gazioni e notabilia in rosso; ai ff. 37r e 45r ci sono due lunghe integrazio-
ni a margine sulle quali torneremo tra breve. Il Bonc. F. 2 è un composito;
le unità codicologiche che lo compongono contengono estratti senecani e
pseudo-senecani, ciceroniani, e di altri autori. Il manoscrittto col testo pom-
poniano38, con propria foliazione da 1 a 136 (ff. 64-199 della numerazione
meccanica recente), costituisce l’ultimo elemento del codice; si presenta col
titolo Commentariorum historiarum Romanarum liber primus. I ff. 144 e
151 (rispettivamente 83 e 90 della numerazione originale), primo e ultimo
di un quaternione, dovettero sostituire quelli originali probabilmente a cau-
sa di una macchia di cui restano tracce nei fogli contigui; sono scritti da al-
tra mano. Solo una collazione potrà rivelare i rapporti fra i manoscritti e l’e-
dizione a stampa; in entrambi i codici però sono evidenti due lacune. In tut-
ti e due i casi riguardano testi di iscrizioni, aggiunte poi a margine. Sulla
prima di esse il Boncompagni attira subito l’attenzione con un richiamo al

37 Misura mm 272 x 205; specchio di scrittura mm 190 x 111; 20 linee, titoli e


iniziali rubricati; l’Epitome di Rufio Festo occupa il primo quinione e un duerno, il
Compendium nove quinioni, con richiami disposti orizzontalmente; cfr. anche I. B.
BORINO, Codices Vaticani Latini. Codices 10876-11000, Città del Vaticano 1955, p.
147; inoltre SABBADINI, Leto, Pomponio cit., pp. 976-977; MUZZIOLI, Due nuovi co-
dici cit., p. 340; GIONTA, Pomponio Leto cit., p. 454.
38 La descrizione del Bonc. F. 2 in Les manuscrits classiques latins de la Bi-

bliothèque Vaticane. Catalogue établi par E. PELLEGRIN [et alii], I. Fonds Archivio di
San Pietro e Ottoboni, Paris 1975, pp. 217-219, non include il Compendium. Ne do
quindi una sintetica descrizione: mm 190 x 114, ff. I, 64-199, con foliazione antica
1-136 sull’angolo superiore esterno. Si compone di un quinione (il primo fascicolo)
e di quaternioni; sono bianchi i ff. 198-199. Specchio di scrittura mm 138 x 60, 18
linee, con scrittura che inizia sotto la prima riga; rigatura verticale a piombo, oriz-
zontale a inchiostro. Della scrittura italica del codice il tratto più caratteristico è co-
stituito dalle legature sp, ss, st, che terminano con una curva appuntita verso destra.
I ff. 144 e 151 (rispettivamente 83 e 90 della numerazione originale), primo e ulti-
mo di un quaternione, che dovettero sostituire quelli originali probabilmente a cau-
sa di una macchia di cui restano tracce nei fogli contigui, sono scritti da una diver-
sa mano, che ha posto anche richiami ai ff. 144v e 150v. Mancano sistematicamen-
te le iniziali all’inizio dei capitoli, per le quali è stato lasciato lo spazio. Rare po-
stille, della mano del testo, contengono correzioni e integrazioni di parole saltate ed
eccezionalmente notabilia. La filigrana della carta, sirena a due code, è molto simi-
le, se non identica (non se ne vede la parte centrale, nascosta dalla legatura), a BRI-
QUET 13883, Napoli 1499. Al f. 62r, dove inizia la dedica a Francesco Borgia, c’è
un timbro con lo stemma Boncompagni. Il manoscritto pomponiano è segnalato da
P.O. KRISTELLER, Iter Italicum, VI, London-Leiden 1992, p. 410.
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332 FRANCESCA NIUTTA

f. 30v (=91v): «Vide in calce operis auctoris additamentum in operis revi-


sione»; e infatti sull’ultimo foglio (136r=197r) troviamo questo passo:

Auctoris additio. Anno postquam haec scripseramus Seraphinus


antistes S. Petri a Vinculis et Vilelmius Heda Alphinius commer-
cio literarum mihi valde familiares et antiquorum monimentorum
diligentissimi indagatores quum urbem Romam repeterent secum
attulere epigramma in agro Forosemproniensi ex saxo quadrato
exscriptum: «Aeterni imperatores Diocletianus et Maximianus
Augusti perpetui Caesares Constantius et Maximianus pontem
Metauro»39.

che prosegue alla pagina successiva:

Romae in templo Vestae nuper reperto ad forum Romanum in


quadam marmorea basi: «Dedicata XIIII Kal. Ian. Constantio III
et Maximiano III Caess. coss. curante Aur. Niceta»40. Quoniam
hac via multum proficimus studiosis consulendum arbitramur uti
perquirendo his vestigiis insistant; quod si fecerint sciant velim et
se nostrae linguae plurimum conlaturos et laboris gloriam conse-
quuturos.

L’integrazione si deve alla stessa mano, dalla scrittura fortemente inclinata,


che ha copiato i ff. 144 e 151. Il correttore ci tiene a precisare che l’additamen-
tum fu apportato dall’autore stesso in sede di revisione dell’opera. Nella prince-
ps il passo con le due iscrizioni si legge ai ff. [14]v-[15]r; è inserito nel lungo in-
ciso riguardante il nome di Massimiano (Galerio), che Pomponio avverte non
deve essere confuso con Massimino; la digressione sul nome dell’imperatore in-
terrompe il racconto delle gesta di Diocleziano, ripreso più avanti41. Dunque
Pomponio aveva già da prima supposto che il nome del collega di Costanzo
(Cloro) fosse Massimiano, e non Massimino come leggeva in alcuni mano-
scritti e iscrizioni; e sapeva che «aera lapidesque indicabunt». E infatti «an-
no postquam haec scripseramus» due amici, di ritorno da Fossombrone, gli
portarono la prova che aspettava con l’iscrizione che associava i nomi degli
imperatori. I due amici, «antiquorum monimentorum diligentissimi indaga-
tores» e legati a Pomponio «commercio litterarum», erano Serafino, «anti-

39 Cfr. CIL XI.2, 6623.


40 Cfr. CIL VI.1, 2141, e anche supra.
41 «Diocletianus rebus toto oriente compositis Europam repetiit ubi iam Scythae,

Sarmatae, Halani et Bastarnae iugum subierant una cum Carpis, Cattis et Quadis [qui
è l’excursus]. Ex barbaris multi adducti captivi; qui non fuere secuti, caesi».
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IL ROMANAE HISTORIAE COMPENDIUM DI POMPONIO LETO 333

stes S. Petri a Vinculis», e Vilhelmius Heda Alphinius. Vilhelmius Heda, se-


gretario di Massimiliano e poeta laureatus, era un olandese42 (anche il ve-
scovo di Fossombrone, Paolo di Middelburgo, che doveva la sua nomina al-
l’imperatore Massimiliano, era olandese)43. Serafino è da identificare proba-
bilmente con Serafino Panulfazi di Orte, vescovo di Montefiascone dal
1496.44 Quindi è da ritenere che l’aggiunta non possa essere stata fatta pri-
ma di quell’anno; di conseguenza la redazione del Compendium presentata
dal Boncompagni (e anche dal Vaticano), di un anno precedente all’aggiun-
ta («anno postquam haec scripseramus»), non dovrebbe essere anteriore al
1495; il che coincide del resto con la presenza della dedica a Francesco Bor-
gia «Teanensi episcopo», che ebbe la nomina nel 1495.
Invece la seconda iscrizione fu rinvenuta «in templo Vestae nuper re-
perto ad forum Romanum». Degli epigrammata appena rinvenuti «in pro-
nao templi Vestae sub Palatio contra forum Romanum» Pomponio – si è vi-
sto sopra – aveva dato comunicazione per lettera a Sabellico; e fu pronto ad
aggiungere nel Compendium quello che recava la testimonianza che stava
aspettando sul nome dell’imperatore Massimiano. Poiché il rinvenimento è
datato al 1497 da Giocondo di Verona che riporta questa e le altre iscrizio-
ni del tempio di Vesta45, l’aggiunta dovette essere fatta poco prima dell’in-
vio del Compendium a Sabellico. Ma la notizia vale anche quale testimo-
nianza anticipatrice dell’identificazione del tempio di Vesta al foro Roma-
no46; (e non è l’unica notizia di prima mano di recenti ritrovamenti archeo-

42 Fu canonico di San Salvatore («Alphense monasterium») a Utrecht: Liber

confraternitatis B. Mariae de Anima Teutonicorum de Urbe, Romae 1875, p. 118.


Suoi scritti sono registrati da KRISTELLER, Iter Italicum cit., IV, London-Leiden
1989, p. 383b, e VI, London-Leiden 1992, p. 6a.
43 Rinomato matematico, era stato creato vescovo nel 1494 su istanza di Mas-

similiano I: F. UGHELLI, Italia sacra, II, Venetiis 1717, p. 835.


44 UGHELLI, Italia sacra cit., I, p. 987. Veramente Pomponio dice Serafino «an-

tistes S. Petri a Vinculis». Vescovo di S. Pietro in Vincoli era allora Giuliano Della
Rovere, che però dal 1492 aveva abbandonato Roma e vi tornò solo dopo la morte
di Alessandro VI; comunque non è del tutto chiaro come si debba intendere la defi-
nizione di «antistes S. Petri a Vinculis».
45 V. supra nota 5.
46 La testimonianza di Pomponio sfuggì a R. LANCIANI, Storia degli scavi di

Roma e notizie intorno le collezioni di antichità, I, Roma 1902, p. 169, che riferisce
la prima notizia sull’identificazione del tempio di Vesta presso la chiesa di S. Maria
Antiqua (allora S. Maria Liberatrice) a Francesco Albertini all’inizio del secolo suc-
cessivo. L’unico tempio di Vesta noto a Poggio Bracciolini, che circa mezzo secolo
prima offre una preziosa rassegna dei monumenti romani, è quello rotondo sul Te-
vere: «Extat et Vestae templum iuxta Tiberis ripam ad initium montis Aventini ro-
tundum»: P. BRACCIOLINI, Les ruines de Rome, De varietate fortunae, livre I, texte
établi et traduit par J.-Y. BORIAUD, introduction et notes de PH. COARELLI-J.-Y. BO-
RIAUD, Paris 1999, p. 23; cfr. p. 82, nota 4.
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334 FRANCESCA NIUTTA

logici che il Compendium ci offre)47. Rispetto all’additamentum manoscrit-


to sul Boncompagni l’edizione a stampa presenta numerose varianti (Alfi-
nius per Alphinius, comertio litterarum per commercio literarum, cum per
quum, Matauro per Metauro, alia plures aggiunto dopo la seconda iscrizio-
ne, profecimus per proficimus, hiis per his, consecuturos per consequuturos;
sia nella stampa che nel Boncompagni c’è invece il genitivo Veste senza dit-
tongo o cediglia, contrariamente all’uso solito); esse sono tali da far esclu-
dere che l’aggiunta sul manoscritto sia stata fatta seguendo la stampa; do-
vette piuttosto essere apportata su indicazione dello stesso autore, come del
resto il correttore spiega definendola «auctoris additamentum in operis re-
visione». Anche perché il correttore non ebbe l’accortezza di normalizzare
più avanti, nel capitolo su Costanzo Cloro e Massimiano, ff. 105r-111v, il
nome di quest’ultimo che nonostante tutti gli avvertimenti di Pomponio ri-
mase nel manoscritto Maximinus, saltuariamente oscillante in Maximianus;
nella stampa c’è sempre Maximianus. Nel Vaticano il passo è stato solo par-
zialmente integrato a margine (f. 37r), in modo un po’ diverso, da una ma-
no che sembra la stessa del testo: la comunicazione del ritrovamento dell’i-
scrizione a Fossombrone è attribuita al solo Vilhelmius Heda, qui definito
«homo Germanus»; manca la seconda parte dell’aggiunta con l’iscrizione
rinvenuta nel 1497 nella casa delle Vestali – ma lo spazio a margine per ac-
coglierla ci sarebbe stato –; invece è riportata, nel margine inferiore, l’ulti-
ma parte («quoniam hac via – gloriam consecuturos»), con l’invito a utiliz-
zare le iscrizioni come fonti storiche. Possiamo evincerne che su questo ma-
noscritto l’integrazione venne fatta prima del ritrovamento dell’iscrizione
nel tempio di Vesta nel 1497? Non ne ho la certezza, poiché il Vaticano pre-
senta a sua volta integrazioni che mancano nel Boncompagni. L’altra lacu-
na nei due manoscritti riguarda una coppia di iscrizioni poste da Dioclezia-
no e Massimiano sulle porte di Cularo (odierna Grenobles)48 – e non di
Vienna degli Allobrogi come distrattamente ha inteso Pomponio a causa
della menzione in una di esse di una porta Viennensis49. Nel Vaticano (f.
45r) a margine di

Iovius et Herculius ab Gallis adeo dilecti ut ab eius duo populi


nomina sumpserint Ioviorum et Herculiorum et Viennenses duas
urbis portas Ioviam et Herculiam appellaverunt

fu fatta la seguente aggiunta:

47 Un’altra sul tempio dei Castori («in aede Castoris et Pollucis in parte fori

Romani versus Palatium cuius vestigia effodi vidimus») la troviamo nella biografia
di Decio: v. infra.
48 Cfr. CIL XII, 2229.
49 Lo rilevava anche ZABUGHIN, Giulio Pomponio Leto cit., II, p. 237.
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IL ROMANAE HISTORIAE COMPENDIUM DI POMPONIO LETO 335

ut epigrammata docent: «DD. NN. Impp. Caes. Gaius Aurel. Va-


lerius Diocletianus PP. invictus Augustus et imp. Caesar Marcus
Aurel. Valerius Maximianus invictus Aug. muris Cularonensibus
cum interioribus aedificiis providentia sua institutis atque pertec-
tis portam Viennensem Herculeam vocari iusserunt». In fronte al-
terius portae urbis idem epigramma, sed in fine sic: «Portam Ro-
manam Ioviam vocari iusserunt», quia Diocletianus Iovius est
dictus et Maximianus Herculius.

La stampa (f. [20]r) presenta la frase «Iovius – Herculiam adpellavere


ut epigrammata docent» trasposta dopo le iscrizioni, che vi sono precedute
dall’espressione introduttiva «et item Viennae Allobrogorum sic»; ha inol-
tre un ‘salto dallo stesso allo stesso’ da «et imp. Caesar» a «invictus Aug.»,
che ha fatto cadere proprio il nome di Massimiano, a cui Pomponio tanto
teneva; e qualche errore (Curalonensibus per Cularonensibus il più visto-
so). Forse nello stesso ‘chirografo’ inviato a Sabellico l’integrazione si tro-
vava a margine, e la posizione ne era incerta. Sul Boncompagni (f. 105r) le
due iscrizioni non vennero aggiunte.
Per concludere, il titolo dell’opera di Pomponio venne mutando nel
corso del tempo da Brevis narratio de Romana historia a Commentariorum
historiarum Romanarum [libri], a Caesares (forse), per diventare infine Ro-
manae historiae compendium ab interitu Gordiani iunioris usque ad Iusti-
num III, e il contenuto si arricchì progressivamente. La Brevis narratio de
Romana historia del Monacense, che fu copiata nel 1497 a Norimberga da
Hartmann Schedel ma che non sappiamo a quando risalga come redazione,
fa sospettare che il lavoro fosse concepito in origine come un prosegui-
mento dell’epitome di Festio Rufo. Così l’intendeva Hartmann Schedel, che
nel catalogo della propria biblioteca descrive nel modo seguente il conte-
nuto del Monacense: «Berosi Chaldaei historiarum regum Babyloniae de-
florationes. Additiones Manethonis Aegyptii sacerdotis. Ruffi Sexti histo-
riae de imperatoribus usque ad Iovianum. Additiones Pomponii Laeti usque
ad Heraclium. Bononia illustrata. Carmina Nicolai Burtii et aliorum»50. È
lecita l’ipotesi che solo in un secondo tempo il progetto di Pomponio si al-
largasse a comprendere il periodo fra Gordiano III e Gioviano, nell’intento,
come egli scrisse nella prefazione al Borgia, di colmare lo iato interno al-
l’Historia Augusta. Quello che risulta con certezza è che Pomponio seguitò
a inserire aggiunte al suo testo, che peraltro aveva già diffuso, soprattutto di

50 R. STAUBER, Die schedelsche Bibliothek, Freiburg i. B. 1907, p. 118. Sche-

del si procurò poi due esemplari a stampa del Compendium nonché l’edizione Ar-
gentorati 1510 degli Opera di Pomponio: ibid., pp. 192, 204, 209.
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336 FRANCESCA NIUTTA

iscrizioni, man mano che veniva a conoscenza di nuovi ritrovamenti (anzi


sembrerebbe che una delle funzioni che si compiacque di attribuire al Com-
pendium fu proprio di dare notizia degli ultimi rinvenimenti). Il Boncom-
pagni e il Vaticano, che hanno nel testo le digressioni aneddotiche ma non
ancora quelle epigrafiche – le ultime ad essere inserite, e che solo parzial-
mente furono aggiunte nei due codici – rispecchiano una redazione ante-
riore di un anno almeno a quella inviata il 7 maggio 1497 a Sabellico. A
questa fase precedente alla revisione finale appartiene la dedica al Borgia,
che rimase invariata anche in seguito.

3. Francesco Borgia

In deroga all’abitudine a scegliere nel novero dei sodali dell’Accade-


mia i destinatari delle sue opere (le sue dediche erano andate a Platina, A-
gostino Maffei, Gaspare Biondo, Pantagato), Pomponio dedicò l’ultima a
Francesco Borgia, un prelato, intimo del pontefice, vescovo di Teano e te-
soriere generale51. Pur essendo cugino del papa (ma una voce lo voleva fi-
glio del primo papa Borgia, Callisto III)52 e sicuramente devoto a lui e alla
famiglia (lo dimostrarono anche gli eventi successivi alla morte di Alessan-
dro VI), Francesco Borgia non godeva di un curriculum brillante. Ha più di
cinquant’anni quando arriva, nel settembre 1493, alla carica di tesoriere ge-
nerale della Chiesa, lasciata libera dal ventunenne Alessandro Farnese pro-
mosso cardinale; la nomina a vescovo di Teano giunge il 19 agosto 1495.

51 «Francisco Borgiae episcopo Teanensi et pontificalis aerarii praefecto». L’u-

nica biografia attendibile del Borgia è quella, necessariamente succinta, di G. DE


CARO, Borgia, Francesco, DBI, 12, Roma 1970, pp. 709-711. Numerose le inesat-
tezze in P. DE ROO, Material for the history of pope Alexander VI, his relatives and
his time, Bruges 1924, I, pp. 60 e ss., III, pp. 403-404 e passim; del tutto inattendi-
bile il commento a SIGISMONDO DE’ CONTI DA FOLIGNO, La storia de’ suoi tempi dal
1476 al 1510, Roma 1883, pp. 296 e 329, seguito da A. GOTTLOB, Aus der Camera
Apostolica des 15. Jahrhunderts, Innsbruck 1889, pp. 275-276; risale già ai compi-
latori sei-settecenteschi la confusione con almeno altri due omonimi, Francesco I-
loris (Lloris), o de Loris, di Valencia, cardinale di Santa Maria Nova, morto il 3
maggio 1507 e sepolto in S. Pietro (ONOFRIO PANVINIO, Romani pontifices et cardi-
nales S.R.E., Venetiis 1567, pp. 336 e 349) e Francesco Borgia, nipote del tesoriere
pontificio, che nel 1508 rinunciò a suo favore al vescovato di Teano: DE CARO, Bor-
gia cit., p. 710, e ID., Borgia, Francesco cit., pp. 712-713 (forse un altro ancora è il
Francesco Borgia vescovo di Elna, cardinale di Santa Sabina, morto il 22 luglio
1505, sepolto in S. Maria della Febbre).
52 La voce è raccolta e trasmessa da PANVINIO, Romani pontifices cit., p. 335:

«Franciscus Borgia, ex oppido Sauina, Valentinae diocesis, Hispanus, Calisti papae, ut


credebatur, filius, archiepiscopus Consentinus, presbyter cardinalis tituli S. Ceciliae».
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IL ROMANAE HISTORIAE COMPENDIUM DI POMPONIO LETO 337

Sarà fatto nel 1499 arcivescovo di Cosenza, conservando anche il vescova-


to di Teano; finalmente nel 1500 sarebbe stato nominato cardinale prete del
titolo di Santa Cecilia (che cambierà nel 1506 con quello dei Santi Nereo e
Achilleo). Ciò non toglie che godesse di grande fiducia da parte del ponte-
fice, tanto da essere scelto nel 1499 come tutore di Rodrigo, figlio di Lu-
crezia53 e nel 1502 di Giovanni Borgia, l’«infante romano» di madre igno-
ta, bastardo del papa54; lo stesso ufficio di tesoriere generale, la seconda ca-
rica finanziaria dopo quella del camerario55, richiedeva una persona di si-
cura fedeltà al papa. Nel Liber notarum del Burcardo Francesco Borgia è
spesso a fianco del papa o della figlia Lucrezia56. Ma soprattutto significa-
tivo è che fosse vicino al papa nell’ultimo giorno di vita, e fosse lui a fil-
trare le notizie sul suo stato di salute: la mattina del 18 agosto 1503, allor-
ché si ha sentore che Alessandro VI potrebbe non superare la malattia che
lo ha colpito, è presso di lui che gli ambasciatori stranieri si informano del-
le condizioni del pontefice57. Solo in seguito Francesco Borgia uscì dal-
l’ombra; nel 1510 ruppe con l’ex-antagonista e successore del papa Borgia,
Giulio II, schierandosi a difesa del Valentino, e fu poi tra i promotori del
concilio scismatico di Pisa del 1511. Alla corte francese lo incontrerà nel
settembre 1511 Machiavelli, incaricato dalla repubblica fiorentina di dis-
suadere i cardinali dissidenti dal concilio58. Ma al concilio il cardinale Co-
sentino non prese parte; morì a Reggio Emilia il 4 novembre 1511 mentre
era in viaggio verso Pisa. Da qualcuno gli si attribuì l’aspirazione a diven-
tare il terzo papa Borgia.
Di Francesco Borgia Raffaele Maffei ricorda, lui vivente, la fama di
pietà religiosa e di bontà59. Ma nella dedica del Compendium, che occupa
le prime due pagine dell’incunabolo (f.[2]r-v), Pomponio non concede
grande spazio alle sue lodi né al suo ritratto; ne menziona solo la passione
per la storia, anzi afferma che anteponeva alla vita pubblica i suoi interessi
di studioso («memoria saeculorum plurimum delectaris et ob id a publicis
negociis sevocaris»). Il Borgia, pur rimasto a lungo dietro le quinte, ebbe

53 JOHANNIS BURCKARDI Liber notarum ab anno 1483 usque ad annum 1506, a


cura di E. CELANI, RIS2, 32/1, (1907), p. 174.
54 DE CARO, Borgia cit., p. 710.
55 Camerario era Raffaele Riario, che era stato nominato da Innocenzo VIII. Il

tesoriere generale conservava tutti i libri ed era responsabile dell’amministrazione:


GOTTLOB, Aus der Camera cit., p. 95.
56 BURCKARDI Liber notarum cit., passim.
57 L. VON PASTOR, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, III, Roma 1912, pp.

871-872: dispaccio del 18 agosto 1503 di Bertrando Costabili al duca di Ferrara.


58 Legazione quarta alla corte di Francia.
59 RAPHAEL VOLATERRANUS, Commentariorum urbanorum libri XXXVIII, Ro-

mae 1506, f. 318r: lo associa al cardinale Giovanni salernitano, definendoli «prae-


sules ambo religionis ac bonitatis fama conspicui».
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338 FRANCESCA NIUTTA

compiti importanti; che si facesse assorbire dagli studi al punto da esserne


distolto dagli impegni pubblici è notizia a cui mancano riscontri; non sono
emersi finora lavori suoi, né figurano nell’Iter Italicum di Kristeller altre o-
pere a lui dedicate. L’affermazione di Pomponio sul suo interesse per la sto-
ria non è tuttavia gratuita poiché egli fece ricorso ripetutamente alla Bi-
blioteca Vaticana, e proprio per opere di storia. Nel marzo del 1493 il nipo-
te Francesco prendeva in prestito a suo nome l’«Historia regis Ferdinandi
avi huius regis hodie feliciter regnantis», identificata col De rebus a Ferdi-
nando Aragoniae gestis del Valla del manoscritto Vat. lat. 156560; qualche
anno più tardi, alla fine del 1506 (nel frattempo a suo cugino Alessandro VI
era succeduto Giulio II), il cardinale Cosentino avrebbe preso in prestito un
altro codice con le Vitae Pontificum di Platina61.
Nella prefatoria Pomponio riprende i temi alquanto abusati dell’utilità
della storia e della deontologia storiografica, rifacendosi ai canoni ciceronia-
ni del De oratore62: utilità, anzi necessità della storia come antidoto dell’oblio
(«series rerum, ne una cum eo qui gerit interiret, historiam excogitavit»); la
storia come imitatio vivendi, che induce ad odiare i vizi e ad amare le virtù.
Lo storico deve rifuggire dall’adulazione e non essere influenzato da amore,
paura, rancore «uti saepenumero contigit. Aiunt enim: scribe securus quod lu-
bet et quod velis narres; habiturus mendaciorum comites». Come non nomi-
na Cicerone, non indica la fonte della citazione sugli storici mentitori; la fra-
se ripresa dall’Historia Augusta (Aur. 2,1-2), già usata dal Valla, doveva for-

60 M. BERTÒLA, I due primi registri di prestito della Biblioteca Apostolica Va-


ticana. Codici Vaticani Latini 3964, 3966, Città del Vaticano 1942, p. 66: il Vat. lat.
1565 contiene anche De dictis ac factis Alfonsi regis Aragonum del Beccadelli; il
Borgia avrebbe tenuto presso di sé il codice per un anno intero; ricordiamo che del-
l’opera di Beccadelli esisteva già l’edizione a stampa di Pisa, 1485. Non è forse u-
na ragione meramente culturale a spingere Francesco Borgia a interessarsi alla sto-
ria del regno di Napoli. Gli anni 1493-1494 sono un periodo di intense trattative con
le potenze straniere per l’investitura del regno di Napoli. Nel 1493 Ferrante d’Ara-
gona inizia il riavvicinamento ad Alessandro VI, e si cominciano a ventilare matri-
moni fra le due famiglie; a Ferrante d’Aragona, morto il 25 gennaio 1494, succede
il figlio Alfonso II, che riesce a guadagnarsi l’appoggio del Borgia: PASTOR, Storia,
III, cit., pp. 300 e ss.
61 BERTÒLA, I due primi registri cit., p. 71 e s.: Vat. lat. 2044. Preso in prestito

il 17 dicembre 1506 a nome del cardinale dal suo familiare Gentile di Foligno, il co-
dice venne restituito il 7 gennaio dell’anno appresso. Delle Vitae di Platina esiste-
vano tre edizioni a stampa: Venezia 1479, Norimberga 1481, Treviso 1485.
62 CIC., de orat. 2, 9, 35-36 e 2, 15, 62. Ma Pomponio aggiunge qualcosa sul-

l’utilità della storia: «quemadmodum agriculatione corpora, sic monimentis rerum


animi foventur» (notare il termine agriculatio che si trova nel solo Columella, uno
degli autori studiati da Pomponio).
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IL ROMANAE HISTORIAE COMPENDIUM DI POMPONIO LETO 339

se suonare familiare alle orecchie del pubblico63. Ma – prosegue Pomponio –


se negli storici si incontrano divergenze è perché il giudizio (iudicium) è spes-
so fallace; poi, ispirandosi ancora a Cicerone (De orat. 2, 15, 62), ribadirà che
«nihil his commentariis falsum quantum perspeximus ausi sumus». In Sallu-
stio indica il suo modello («laudatur etiam in historia brevitas quae sit aperta
ac lucida ut illa Crispi Sallusti […] Nos vero breves esse volumus et saepius
digressi sumus ornatus gratia»), e delinea contenuto e intenti del lavoro: ha
raccolto quanto trovava disperso in varie opere dalla morte di Gordiano II al-
l’esilio di Giustino III, ultimo discendente di Eraclio (e cita Trebellio Pollio-
ne e la lacuna dell’Historia Augusta). Ha inteso scrivere un’opera che procu-
ri delectationem, mirando soprattutto alla chiarezza (candor): se non è riusci-
to a conseguirla chiede venia «ab iis qui legerint aut audierint».
Non sono emersi finora legami tra Pomponio e la sua Accademia e Fran-
cesco Borgia. Ma il 9 dicembre 1493, due giorni dopo la morte di Gaspare
Biondo, il medico Angelo Leonini di Tivoli rivolgeva a Francesco Borgia una
petizione per rientrare in possesso di sette casse di libri di sua proprietà rima-
ste presso il Biondo; Francesco Borgia ne aveva ordinato il sequestro64 (il Bor-
gia è qui chiamato segretario apostolico; ma, se si tratta del nostro, doveva già
essere tesoriere generale). Gaspare Biondo era membro dell’Accademia e le-
gato a Pomponio che gli aveva dedicato la Vita di Stazio (nel codice con la Te-
baide Vat. lat. 3279) e l’edizione a stampa di Nonio Marcello (Roma 1471). In
assenza di contesto la testimonianza della petizione al Borgia non può essere
interpretata; ma è certo indizio di un quadro più articolato di relazioni. Co-
munque il Compendium è immune da intenti encomiastici, da lusinghe ver-
so i Borgia e da forzature tendenziose. Pomponio omette di rilevare l’origi-
ne spagnola dell’imperatore Teodosio, che «genus a Traiano ducere se iac-
tabat» — sul quale pure dà un giudizio favorevole, sentenziando con for-
mula presa in prestito dal frasario delle iscrizioni onorarie: «ille labentem
rempublicam in pristinas vires restituit» (f. [42]v) —; e quindi forse è solo
casuale che proprio all’inizio indugi sull’elogio dello spagnolo Balbino. Ma
non poteva non compiacere i Borgia la pagina dedicata alla riaffermazione
del principio del potere universale di Roma e del papa65.

63 Così la sentenza nell’Historia Augusta: «Scribe, inquit, ut libet; securus

quod velis dices, habiturus mendaciorum comites, quos historicae eloquentiae mi-
ramur auctores». Era stata usata dal Valla nell’Antidotum in Facium; cfr. Histoire
Auguste cit., pp. LXVIII, LXXXI.
64 G. MARINI, Degli archiatri pontificj, Roma 1784, II, p. 246. Angelo Leonini

fu dal 1499 vescovo di Tivoli e dal 1500 nunzio a Venezia (ibid., I, pp. 303-306).
Gaspare Biondo fu ucciso a Pesaro il 7 dicembre 1493: V. FANELLI, Biondo, Ga-
spare, in DBI, 10, Roma 1968, p. 559.
65 V. infra.
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340 FRANCESCA NIUTTA

4. Pomponio e le fonti

Dunque il Compendium racchiudeva per la prima volta una narrazione


complessiva della storia del tardo impero romano fino alla fine del VII se-
colo, e inglobava anche una fetta della storia dell’impero bizantino66 – che
comunque «impero dei Romani» seguitò fino alla fine ad autodefinirsi.
Pomponio, diversamente da altri intellettuali del suo tempo, non sembra in-
teressato alla questione della fine dell’impero romano; non giustifica con u-
na periodizzazione il termine finale del suo racconto. L’Historia Augusta si
interrompeva dopo la biografia di Gordiano III seguita da quelle abbinate di
Massimo e Balbino, e riprendeva poi dalla vita di Valeriano; alla prima par-
te dell’Historia Augusta Pomponio si riannoda partendo dalla designazione
da parte del senato di Pupieno e Balbino per sconfiggere Massimino (il Tra-
ce), primo imperatore acclamato dall’esercito «posthabita senatus auctori-
tate»67:

Maximino profligando, qui primus posthabita senatus auctoritate


ab exercitu imperator Augustus adpellatus est, ex concione Vectii
Sabini patres imperium duobus viris decrevere et populus Roma-
nus concordi adsensu ac laetitia scivit. Hi fuere Decius Caelius Bal-
binus et M. Clodius Pupienus. Hic quamvis homo novus per gra-
dus dignitatis satis inlustris erat et gravitate ac severitate venerabi-
lis; Balbini maiores ex Gadibus Hispaniae cum Pompeio Magno
venerant et civitate donati. Horum primus Theophanes Balbus Ro-
mae adpellatus Cornelius quem M. Tullius defendit; igitur Balbi-
nus nobilitate familiae fortunisque et clementia satis cognitus; hic
Caesaris, ille Catonis moribus comparatus. Ille contra Maximinos
hostes iudicatos (hostis iudicatus codd., P) copias eduxit; hic urbis
gubernationem suscepit. Illius auspiciis caesi Maximini, huius bo-
nitate tumultus in urbe inter cives ac praetorianos exortus est. Tan-
dem neque illi severitas neque huic clementia profecerunt. Ambos
milites occiderunt. Gordianum natum annos XIII qui modo Caesar
erat imperatorem fecerunt, non abnuente senatu. Cuius successibus
cum posset Persicum nomen deleri insidiae Philippi vetuerunt, qui-
bus circumventus adolescens occisus est.

66 Perle fonti letterarie sulla storia dell’impero romano è sempre fondamentale


L. S. LE NAIN DE TILLEMONT, Histoire des empereurs et des autres princes qui ont ré-
gné durant le six premiers siècles, che ho visto nell’edizione Bruxelles 1707-1710
(dal tomo III il periodo abbracciato dal Compendium); per la ricostruzione storica mi
limito a citare due punti di riferimento obbligati: S. MAZZARINO, L’impero romano,
Bari 1984, e il già menzionato OSTROGORSKY, Storia dell’impero bizantino.
67 Le citazioni seguenti sono dalla princeps.
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IL ROMANAE HISTORIAE COMPENDIUM DI POMPONIO LETO 341

Il racconto di Pomponio è fortemente ellittico e non sempre perspicuo.


In effetti orientarsi nel groviglio di tradizioni che su questo tormentato pe-
riodo le sue fonti – principalmente, come vedremo, Historia Augusta e Zo-
nara – gli offrivano, e tra le quali esse stesse brancolavano68, era tutt’altro
che agevole. Né il concatenarsi degli eventi e la successione degli impera-
tori, né gli stessi nomi di questi, erano tramandati univocamente. A Balbi-
no è abbinato Massimo in luogo di Pupieno dall’Historia Augusta – che pe-
raltro ben conosce la tradizione che vuole Massimino sconfitto da Pupieno
(Hist. Aug., Max. Balb. 1, 2 e 18, 1-2), e anzi come vedremo parla di «Maxi-
minus sive Puppienus» – e anche da Zonara (Epit. XII, 16-17); Balbino è
chiamato Albino da Zonara69 che però ha notizia anche di un imperatore Pu-
blio Balbino (Epit. XII, 17) e fa il nome di altri ancora (Pompeiano, Mar-
co, Severo Ostiliano) su cui altri storici tacciono. Pomponio, probabilmente
sulla falsariga di Paolo Diacono, la terza fonte che utilizza, sfoltisce il raccon-
to, ridotto a pochi passaggi essenziali, e tace sull’esistenza di versioni alterna-
tive riferite sia dall’Historia Augusta che da Zonara. Chiama senza esitazione
Pupieno e Balbino i due imperatori nominati dal senato, sulla scorta di Paolo
Diacono ma anche dell’Historia Augusta. Paolo Diacono (H. R. 9, 2), seguen-
do Eutropio, fa regnare insieme Gordiano, Pupieno e Balbino70. L’Historia
Augusta cita ripetutamente «Maximus sive Puppienus» e poi, dopo aver di-
chiarato (Max. Balb. 16, 6-7): «Dexippus et Herodianus, qui hanc principum
historiam persecuti sunt, Maximum et Balbinum fuisse principes dicunt de-
lectos a senatu contra Maximinum post interitum duorum in Africa Gordiano-
rum, cum quibus etiam puer tertius Gordianus electus est. Sed apud Latinos
scriptores plerosque Maximi nomen non invenio et cum Balbino Puppienum
imperatorem repperio […] ut mihi videatur idem esse Puppienus qui Maximus
dicitur», ricorre anche a una prova documentaria per mostrare che si tratta del-
lo stesso personaggio (ibid. 17, 1-9): «quare etiam gratulatoriam epistolam
subdidi, quae scripta est a consule sui temporis de Puppieno et Balbino, in qua
laetatur redditam ab his post latrones improbos esse rem publicam», per con-
cludere (18, 1): «haec epistola probat Puppienum eundem esse, qui a plerisque
Maximus dicitur». Pomponio opta quindi tacitamente per la tradizione segui-
ta dagli storici latini, che chiamano Pupieno il vincitore di Massimino, scar-
tando quella di Dexippo ed Erodiano.

68 Si veda Hist. Aug., Max. Balb., passim, e segnatamente 15, 4-6.


69 Sulla questione dell’alternanza Albinus/Balbinus nell’Erodiano del Polizia-
no e sulla soluzione che ne dava Pomponio cfr. GIONTA, Pomponio Leto cit., pp. 445-
446, che osserva che Pomponio «si appoggiava con tutta probabilità proprio ai ca-
pitoli dedicati nell’Historia Augusta a Massimo e Balbino» nell’optare per la lezio-
ne «Balbinus pro Albino».
70 «Postea tres simul Augusti fuerunt, Puppienus, Balbinus, Gordianus».
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342 FRANCESCA NIUTTA

Dal lungo racconto dell’Historia Augusta nei capitoli su Massimino e


Massimo e Balbino Pomponio stralcia alcuni momenti salienti: la designa-
zione da parte del senato di Pupieno e Balbino per sconfiggere Massimino,
primo imperatore incoronato dall’esercito71; la sommossa dei pretoriani e la
conseguente sollevazione popolare, che in breve portano alla morte di Pu-
pieno e Balbino. Dà per scontata nel lettore la conoscenza dell’antefatto con
l’orazione di Vezio Sabino («ex concione Vectii Sabini») che si legge nel-
l’Historia Augusta (Max. Balb. 2, 1-9), in cui il senato era esortato a non
frapporre indugi nella nomina dei due imperatori poiché il feroce Massimi-
no incalza72; tace sui contrasti insorti fra Pupieno e Balbino, mentre si di-
lunga sul loro elogio. Li paragona a Cesare e a Catone73, prendendo spun-
to dall’Historia Augusta, e dilata un particolare cui essa accenna marginal-
mente: l’Historia Augusta riferiva che Balbino faceva risalire la propria o-
rigine al Balbo venuto dalla Spagna con Pompeo74; Pomponio abbraccia la
tradizione, e rende esplicito il riferimento al Cornelio Balbo difeso da Ci-
cerone nella causa in cui gli si contestava il diritto di cittadinanza conces-
sogli da Pompeo (per introdurre nel ricordo dei meriti e della nobiltà di na-
tali dello spagnolo Balbino un indiretto omaggio al dedicatario del Com-
pendium?).

71 Hist. Aug., Maximin. 8, 1: «Maximinus primum e corpore militari et nondum

senator sine decreto senatus Augustus ab exercitu appellatus est»; ma cfr. anche
PAUL. DIAC., H. R. 9, 1: «Maximinus ex corpore militari primus ad imperium ac-
cessit sola militum voluntate, cum nulla senatus intercessiset auctoritas neque ipse
senator esset».
72 «Imminet Maximinus, natura furiosus, truculentus, immanis».
73 Ma nella fonte il paragone è fra Cesare e Catone: Hist. Aug., Max. Balb. 7,

7: «Nonnulli, quemadmodum Catonem et Caesarem Sallustius comparat, ita hunc


quoque comparandum putarunt, ut alterum severum, clementem alterum, bonum il-
lum, istum constantem, illum nihil largientem, hunc affluentem copiis omnibus di-
cerent».
74 Hist. Aug., Max. Balb. 7, 3: «Familiae vetustissimae, ut ipse dicebat, a Bal-

bo Cornelio Theophane originem ducens, qui per Cn. Pompeium civitatem merue-
rat, cum esset suae patriae nobilissimus idemque historiae scriptor». Questa serie di
coincidenze mostra con certezza che Pomponio si serviva dell’Historia Augusta.
Sulle quattro fittissime pagine di estratti pomponiani dall’Historia Augusta nel ma-
noscritto miscellaneo Vat. lat. 3311 (ff. 170r-171v), che attendono ancora di essere
studiati, oltre a ZABUGHIN, Giulio Pomponio Leto cit., II, pp. 229 e 386-387, e MUZ-
ZIOLI, Due nuovi autografi cit., p. 349, ora anche D. GIONTA, Il Claudiano di Pom-
ponio Leto, in Filologia umanistica. Per Gianvito Resta, Padova 1997, p. 928, e
EAD., Pomponio Leto cit., pp. 446-447; del Varrone contenuto nel manoscritto si oc-
cupa M. ACCAME LANZILLOTA, Il commento varroniano di Pomponio Leto, «Miscel-
lanea greca e romana», 15 (1990), pp. 309-345; EAD., Le annotazioni di Pomponio
Leto ai libri VIII-IX del De lingua Latina di Varrone, «Giornale italiano di filolo-
gia», 50 (1998), pp. 41-57.
Cap. 15 Niutta F. 321-354 13-09-2002 12:50 Pagina 343

IL ROMANAE HISTORIAE COMPENDIUM DI POMPONIO LETO 343

Fin qui Pomponio ha sostanzialmente compendiato l’Historia Augusta.


Con l’elezione del tredicenne Gordiano, che quando sta per debellare i Per-
siani è ucciso a causa delle trame di Filippo, si affaciano due nuove fonti. Da
Paolo Diacono Pomponio parafrasa la frase successiva «quibus (scil. insidiis
Philippi) circumventus adolescens occisus est» (in Paolo Diacono, H. R. 9, 2:
«interfectus est fraude Philippi, qui post eum imperavit»). Gordiano III sem-
bra liquidato, Filippo l’Arabo (244-249) ne appare il successore; ma Pompo-
nio si astiene dal precisarlo. E invece interviene a complicare il suo racconto
un inserto mutuato da Zonara, con l’elezione di Marco e Severo Ostiliano, due
imperatori dal regno fugace, ignoti ad ogni altra fonte75. Dall’Epitome histo-
riarum di Zonara (XII, 18, ed. Dindorf) Pomponio traduce quasi alla lettera:

Senatus de morte Gordiani factus certior Marcum quendam vi-


rum gravem ac sapientem imperatorem legit qui subita morte in
palatio ubi habitabat decessit. Nec successor dilatus est statimque
lectus a patribus Severus Ostilianus qui repente cum incidisset in
morbum medicis male venam solventibus occubuit.

‘Ως δ’πηγγ λη τ γερουσα  το Γορδιανο σφαγ, τερον


'
ατοκρ!τορα διγειρεν '
ατ"ν προχειρσασθαι, κα% νε&πεν
ατκα Kασαρα M!ρκον τιν) φιλ*σοφον. ,O δ. πρ%ν /ρε&σαι τ0ν
π*δα τ αταρχα θνσκει α1φνδιον /ν τ2 παλατω δι!γων. Tο
'
δ θαν*ντος, '
κρατε& τς ,Pωµαων ' γεµονας ' Σευρος
>‘
,Oστιλιαν*ς. ’Aλλ) κα% ουτος ου9πω σχεδ0ν τα:της /πειληµµ νος,
π τισε τ0 χρε;ν. Nοσσας γ)ρ κα% φλεβοτοµηθε%ς /τελε:τησεν.

Poi di nuovo riprende l’Historia Augusta (Gord. 31, 2-3), stavolta pa-
rafrasata fedelmente, e fa un passo indietro tornando a Filippo l’Arabo e
Gordiano:

Interea litterae Philippi ad senatum adferuntur. In his scriptum e-


rat Gordianum gravi morbo adfectum obiisse et Philippum ab
exercitu imperatorem factum rogareque uti patres probarent. Se-
natus qui rem nondum noverat Augustum Philippum confirmavit.
Gordianum inter divos rettulit.

(Hist. Aug., Gord. 31, 2-3). Philippus autem […] Romam litteras
misit, quibus scripsit Gordianum morbo perisse seque a cunctis
militibus electum. Nec defuit ut senatus de his rebus, quas non

75 È la conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che Pomponio si è servito

di Zonara.
Cap. 15 Niutta F. 321-354 13-09-2002 12:50 Pagina 344

344 FRANCESCA NIUTTA

noverat, falleretur. Appellato igitur principe Philippo et Augusto


nuncupato Gordianum adulescentem inter deos rettulit.

Alcuni caratteri del metodo seguito da Pomponio emergono subito in


queste due prime pagine: l’utilizzazioni di fonti diverse, che vengono giu-
stapposte e intrecciate; l’accentuazione di un particolare, che fornisce il pre-
testo per una digressione. L’accento posto sul dualismo senato-esercito per-
corre tutto il Compendium. La simpatia di Pomponio va ai due imperatori de-
signati dal senato, benvoluti dal popolo, investiti della missione di sconfigge-
re Massimino che aveva calpestato l’autorità del senato (e sempre andrà agli
imperatori legittimi), e infine vittime dell’esercito; tanto che Pomponio sotta-
ce sia il conflitto insorto fra i due colleghi, sia il sospetto di pusillanimità che
una tradizione riferita dall’Historia Augusta fa gravare su Balbino (Max.
Balb. 9, 2): «cum Balbinus, homo lenior, seditionem sedare non posset». Ci
sono dati che Pomponio non fa mai mancare nelle sue biografie: i natali il-
lustri o oscuri, il modo di elezione, il tipo di morte. E sempre dei suoi per-
sonaggi dà una valutazione di approvazione o di condanna, che può non
coincidere con quella della fonte. Caratteristico è il dittico con i ritratti di
Filippo l’Arabo e Decio che si succedettero dopo Gordiano III (ff. [3]v-
[7]r). Nella biografia di Filippo Pomponio combina notizie prese da Zona-
ra (Epit. XII 18-19) e dall’Historia Augusta (Gord. 28-31) a cui aggiunge
qualche particolare attinto da Paolo Diacono.
Il ritratto di Filippo è emblematico dell’imperatore privo di scrupoli: fa
avvelenare – forse: «sunt qui scribunt» – il praefectus urbi (veramente le
fonti concordi lo vogliono prefetto al pretorio), suocero di Gordiano; men-
tre imperversa la guerra contro i Persiani intercetta le navi onerarie lascian-
do l’esercito senza vettovaglie e al contempo fomenta la ribellione contro il
giovane Gordiano denunciandone nascostamente l’ingenuità e l’inesperien-
za; infine lo fa assassinare – ripete per la terza volta Pomponio. Messe co-
sì le cose, veniva da sé che Pomponio respingesse la tradizione riportata da
Zonara, con tanto di prove, che Filippo fosse cristiano. Pomponio se la ca-
va disinvoltamente con un inciso, certo frutto di una valutazione personale:
«Philippus vero, homo Punica fraude deterior qui ut scelera tegeret cultum
Christiani nominis simulabat». Dall’Historia Augusta (Gord. 33, 1-4) mu-
tua la notizia che sotto di lui si celebrarono i Ludi saeculares per il millesi-
mo anniversario della fondazione di Roma e l’elenco delle fiere impiegate
allora nei giochi; sull’origine di questi non manca di introdurre una breve
digressione. Ma la biografia di Filippo contiene anche dei particolari che
non ho trovato finora in nessuna delle fonti usuali del Compendium: come
il soprannome di Agelastos che Pomponio dà al figlio di Filippo76, perché,

76 Agelastos era stato il soprannome di Marco Crasso, avo del triumviro; Pom-

ponio poteva averlo trovato in CIC., fin. 5, 30, 92 (cfr. anche PLIN., nat., VII, 19, 79).
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IL ROMANAE HISTORIAE COMPENDIUM DI POMPONIO LETO 345

come riferisce Paolo Diacono, contemplava con riprovazione il padre fe-


stante ai Ludi saeculares77. «Ambo Philippi immerito inter divos relati» è la
conclusione del capitolo. Anche questa notizia deve essere stata presa da
Paolo Diacono, a cui giungeva dall’Epitome de Caesaribus; ma il com-
mento «immerito» è di Pomponio.
Anche per Decio fa un incastro di fonti diverse, ma per dare un ritrat-
to decisamente favorevole dell’imperatore. Come al solito non nomina le
sue fonti e passa da una all’altra senza avvertire. Riprende dall’Historia Au-
gusta (Valer. 5-6) la notizia della rinuncia da parte dell’imperatore all’eser-
cizio della censura, che venne dal senato attribuita a Valeriano: «Cum de
censore eligendo potestas senatui data esset ab Decio, Valerianus absens
censor lectus est in aede Castoris et Pollucis in parte fori Romani versus Pa-
latium cuius vestigia effodi vidimus»78. Invece da Zonara (Epit. XII, 20) at-
tinge il racconto della morte di Decio, sulla quale esistevano molteplici tra-
dizioni, cui pure Pomponio accenna. Secondo Zonara Decio e il figlio con
tutto l’esercito si sarebbero inabissati in una palude a causa di un tranello
teso loro da Gallo, che fu poi il successore di Decio. Zonara, fortemente av-
verso a Decio, ne definisce «vergognosissima» la morte (α?σχιστα
διεφθ!ρη). Mentre Pomponio, pur adottando la sua versione, ne rovescia
l’interpretazione: amplifica il racconto delle intese col nemico del traditore
Gallo, e mette l’accento sulla buona fede carpita dell’imperatore, proprio
quando era sul punto di debellare il nemico. «Cum in pugna descederent,
admiratus est Decius quod qui modo percussi metu erant iam arma posce-
rent, ignarusque proditionis, certus victoriae, copias educit. Illi statim terga
dant»: i nemici, dietro suggerimento del traditore Gallo, fanno una finta, at-
tirandolo nella palude da cui sia lui che il figlio sono inghiottiti. Questa fu
la fine dei Deci che «pro futura victoria devoverunt»; come avevano fatto
secoli prima – soggiunge Pomponio – Decio Mure e il figlio che si erano
immolati per la patria79. Con la stessa passione con cui aveva condannato

77 «Is traditur fuisse Agelastos et ludis saecularibus ridentem patrem severo


vultu inspexisse velut illum corrigeret»; cfr. PAUL. DIAC., H. R. 9, 3: «Ex quibus iu-
nior Philippus adeo severi animi fuit, ut nullo cuiusquam commento ad ridendum
solvi potuerit patremque ludis saecularibus petulantius cacinnantem vultu aversato
notaverit», che deriva da AUR. VICT., epit. 28, 3. Considerate le coincidenze fre-
quenti del Compendium, anche nei capitoli per cui viene meno il racconto di Eutro-
pio, con l’Historia Romana di Paolo Diacono, non ci sono dubbi che fosse questa
direttamente la sua fonte.
78 Ogni volta che gliene capiti l’occasione Pomponio fa riferimento ai luoghi e

ai monumenti romani connessi con i fatti narrati. Qui dà una notizia inedita sull’i-
dentificazione del tempio dei Castori.
79 f. [7]r: « Decii mares duo prioribus saeculis, alter bello Etrusco, alter bello

Latino, constanti animo inter confertissimos hostes pro victoria patriae se devoven-
tes occubuere. Hunc devovendi morem primus creditur introduxisse Linus Codri fi-
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346 FRANCESCA NIUTTA

l’infido Filippo, Pomponio parteggia per Decio, rispettoso delle attribuzio-


ni del senato («cupiens nihil agere nisi quantum senatus iuberet»), coeren-
te fino all’eroismo col suo carattere di principe integro e valoroso. I meriti
di Decio gli appaiono tali che con palese anticonformismo Pomponio sor-
vola sulla persecuzione anticristiana organizzata con meticolosa sistemati-
cità, per la quale l’imperatore rimase famoso, e che viene relegata nella fra-
se: «multos habuisset laudatores, si ab Christianorum cruciatibus se tempe-
rasset».
Agli imperatori, da Valeriano (253-260) a Caro, Carino e Numeriano (m.
285), le cui biografie sopravvivono nell’Historia Augusta, Pomponio dedica
poche righe; trasceglie, per lo più dall’Historia Augusta, qualche notizia, a
cui aggiunge i suoi commenti lapidari. Valeriano, «homo maioris spei ac opi-
nionis quam fortunae», prigioniero di Sapore in Persia, «in captivitate conse-
nuit», che, con ribaltamento del giudizio, parafrasa Paolo Diacono, H. R. 9,
7: «ignobili servitute consenuit»; su Valeriano esisteva infatti una tradizione,
attestata dall’Epitome de Caesaribus, 32, 1, che è una delle fonti di cui Pao-
lo Diacono si serve per integrare il Breviarium di Eutropio, che lo voleva
«stolidus et multum iners», opposta a quella favorevole dell’Historia Augu-
sta, che egli segue. Di Claudio Gotico Pomponio scrive che fu «vir ad barba-
ros delendos natus». Per Probo, dal lungo panegirico dell’Historia Augusta
(Prob. 21, 4) mutua solo il gioco di parole sul nome «Probus igitur vere pro-
bus»; da Paolo Diacono prende la durata del regno in sei anni e quattro mesi,
contro i cinque dell’Historia Augusta (Prob. 21, 3), e forse la sentenza «dice-
re solebat milites minime necessarios fore cum desunt hostes»80. L’imperato-
re Tacito (275-276) fu eletto dal senato. È questa una circostanza che Pom-

lius qui pro patria bello Dorico se devovit». L’episodio, citato più volte da Cicerone,
narrato da Livio, ripreso da Valerio Massimo, apparteneva ad un repertorio piuttosto
abusato. Pomponio ha probabilmente presenti CIC., Tusc. 1, 37, 89, dove come nel
Compendium si parla di guerre rispettivamente contro Latini ed Etruschi per i due
Deci, e in più VAL. MAX. 5, 6, 5-6 («P. Decius Mus, qui consulatum in familiam suam
primus intulit, cum Latino bello Romanam aciem inclinatam et paene prostratam vi-
deret, caput suum pro salute rei publicae devovit […] Unicum talis imperatoris spe-
cimen esset, nisi animo suo respondentem filium genuisset. Is namque in quarto con-
sulatu suo patris exemplum secutus») e 5, 6 ext. 1 per la leggenda del re ateniese Co-
dro che si immola per la patria; ma forse Pomponio citava a memoria, anche perché
la menzione di Lino è del tutto fuori posto: Lino non ha nulla a che vedere con Co-
dro; invece una delle leggende che lo hanno a protagonista lo voleva nipote del re ar-
givo Crotopo. Dall’assonanza dei due nomi deriva forse la confusione di Pomponio,
che mostra qui di non essere del tutto a suo agio nella mitologia greca.
80 H. R. 9, 17: «Hic cum bella innumera gessisset, pace parata dixit brevi mili-

tes necessarios non futuros»; ma cfr. anche Hist. Aug., Prob. 22, 4: «Ipsa vox Probi
clarissima indicat, quid se facere potuisse speraret, qui dixit brevi necessarios mili-
tes non futuros»
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IL ROMANAE HISTORIAE COMPENDIUM DI POMPONIO LETO 347

ponio, seguendo l’Historia Augusta, mette in evidenza, come nell’esordio a-


veva messo in evidenza che Massimino era stato il primo imperatore eletto
dall’esercito, senza avallo del senato. Con Tacito «tunc primum respublica,
velut longo postliminio reducta, suo iure ac iudicio usa est». Poco importa
che il suo regno durasse sei mesi appena, tanto che l’Historia Augusta, dopo
avere dedicato pagine su pagine alle orazioni tenute a favore della sua elezio-
ne, ammette alla fine (Tac. 13, 4): «at in isto viro magnificum fuit quod tanta
gloria cepit imperium; gessit autem propter brevitatem temporum nihil ma-
gnum». Pomponio avrà ancora presente la lezione dell’Historia Augusta su
Tacito nel capitolo finale a proposito di Costante II, uno dei discendenti di E-
raclio: «Senatus tunc [dopo aver punito in maniera esemplare Martina ed E-
raclona, che avevavo avvelenato il rispettivo figliastro e fratellastro] sine mi-
litibus principem fecit, quod raro contigit et ante et post Tacitum».
Il capitolo finale De progenie Heraclii (ff. [56]r - [57]v) è una tradu-
zione da Zonara contaminata con Paolo Diacono. O meglio è la traduzione
di quelle parti che riguardano la genealogia e le lotte per il trono, con av-
velenamenti, congiure, mutilazioni; tutto il resto – guerre contro gli Arabi,
conflitti religiosi – è pressoché tralasciato; venne da Pomponio inserito in
un secondo tempo, come abbiamo visto sopra, l’episodio occorso al pas-
saggio del funerale dell’imperatrice Fabia Eudocia, attinto da Zonara. Di
Costante II Pomponio riferisce che «dum frustra in Langobardos impetum
facit, in suos convertit iram». La fonte è qui l’Historia Romana di Paolo
Diacono (17, 33: «At vero Constans Augustus quum nihil se contra Lango-
bardos gessisse conspiceret, omnes saevitiae suae minas contra suos, hoc e-
st Romanos, retorsit»). Giunto a Roma Costante II asportò la copertura del
Pantheon, che Paolo Diacono (e tutte le altre fonti, incluso il Liber pontifi-
calis)81 dicono di bronzo, mentre Pomponio la fa diventare d’argento. Ma
alla fine «dum […] in balneis se lavat, a ministris, auctore Mazese, inter-
fectus est». Mazes, il successore di Costante, è un usurpatore; Pomponio ne
fa anche il mandante dell’uccisione; ma questo non è detto né da Paolo Dia-
cono né da Zonara, che dell’assassinio fa un racconto più circostanziato82.

81 Liber Pontificalis cit., I, pp. 343-344.


82 ZONAR. XIV, 19-20: «‘O δ γε K;νστας Aξ /ν Σικελα διαγαγCν Dτη,
/κε&θεν οκ /πανλθεν. EEπιβουλευθε%ς γ)ρ παρ) τ2ν περ% ατ0ν ' λου*µενος,
/πλγη καιρως τ"ν κεφαλ"ν µετ) το )ντλµατος, G ατο κατεχε&το τ0
ζ ον Iδωρ, κα% π θανεν, Jρξας ‘Pωµαων /νιαντοKς Lππ! ' τε κα% ε?κοσι. [...]
OOπερ κο:σας P τ2ν K;νσταντσς υ1 ων πρεσβ:τερος (Costantino IV) [...] µετ)
στ*λου µεγ!λου τ"ν Σικελαν κατ λαβε, κα% τ*ν τε Mιζζιον χειρωσ!µενος
νει>λε». Cfr. anche PAUL. DIAC., H. R. 17, 33-34: «Sed tandem tantarum iniquitatum
poenas luit atque dum se in balneo lavaret, a suis extinctus est. Interfecto igitur apud
Syracusas Constante imperatore, Mezetius in Sicilia regnum arripuit, sed absque o-
rientalis exercitus voluntate»; Zonara invece non fa cenno alla circostanza che portò al-
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348 FRANCESCA NIUTTA

Deve trattarsi di una illazione di Pomponio.


Il Compendium si chiude con un ennesimo tocco di colore: l’ultimo di-
scendente di Eraclio, Giustino III (ovvero Giustiniano II), «X imperii anno
deiectus solio a Leontio Pilato exul in Ponto adflictus calamitate occubuit,
abscissis naribus». Nel frattempo gli Arabi hanno fatto irruzione in Sicilia
(Paul. Diac. H. R. 17, 35); ma questo Pomponio non lo registra. Però subi-
to prima aveva dedicato a Maometto e all’espansione araba un lungo para-
grafo intriso di riprovazione per la condotta degli imperatori romani colpe-
voli di avere consentito il diffondersi della superstizione, perché preda essi
stessi di dissolutezza e inerzia (f. [56]r): «Demum desidia Romanorum
principum eo superstitio crevit, ut magnitudine eius atque armis perterritus
oriens et bona pars Europae non sine clade et nostra ignominia desciverit».

L’esposizione del Compendium è tutt’altro che organica; non è sempre


facile seguire lo sviluppo degli eventi in cui intervengono personaggi dei
quali non viene specificata la posizione, si passa ex abrupto da un fronte di
guerra all’altro, da un teatro all’altro dell’azione, da Costantinopoli alla
Persia, da Roma alle Gallie; i riferimenti cronologici, solo ab urbe condita,
sono sporadici; si compiono salti in avanti e poi si ritorna indietro (come av-
viene nei primi capitoli con Gordiano III, il cui assassinio è riproposto tre
volte), a causa del giustapporsi di fonti diverse che Pomponio non rielabo-
ra, ma semplicemente traduce (Zonara), condensa (l’Historia Augusta), o
parafrasa (Paolo Diacono). Inoltre è stato dimostrato che Pomponio inseri-
sce quasi di peso appunti presi in precedenza83; e anche questo spiega il ca-
rattere rapsodico dell’esposizione. Pomponio non nomina mai le sue fonti.
Nel primo libro sfrutta per quanto possibile l’Historia Augusta; ma solo u-
na volta ne farà menzione citando Trebellio Pollione per una sentenza di
Diocleziano84. Verso la fine del Compendium, quando tratta di Maometto,
designa la sua fonte come «scriptor haud ignobilis qui paulo post illa tem-

la caduta di Mezezio. Il seguito: «Qui dum pace Constantinopoli fruitur mortem obiit,
regnumque per manus filio Iustino tradidit» è estratto da ZONAR., Epit. XIV, 21:«Kα%
Tν οIτω π!ντοθεν ε1ρηνε:οντα το&ς ,Pωµαοις τ) πρ!γµατα, ως τς τελευτς
τοδε το ατοκρ!τορος (Costantino IV). ’Eτελε:τησε δ’/π% διαδ*χω τ2 υU2
’Iουστινιαν2, βασιλε:σας /νιαυτοKς Lπτακαδεκα». ' ' '
' in evidenza GIONTA, Il Claudiano cit., pp. 1001-1002, per un pas-
83 Lo mette

so del Compendium ripreso quasi alla lettera dal commento a Claudiano; anche ZA-
BUGHIN, Giulio Pomponio Leto cit., II, pp. 226-229, indicava assonanze fra i Caesa-
res e passi pomponiani nel Vat. lat. 3311; ma più che di «lavori preparatori» per il
Compendium, come li definisce Zabughin, mi sembra si tratti di annotazioni riuti-
lizzate.
84 V. supra nota 20.
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IL ROMANAE HISTORIAE COMPENDIUM DI POMPONIO LETO 349

pora fuit» (f. [56]r): è Giovanni Zonara, alla cui Epitome historiarum ha at-
tinto a piene mani («illa tempora» sono quelli dell’espansione araba; Zona-
ra è in verità di qualche secolo successivo). Invece non nomina mai Eutro-
pio e Paolo Diacono, la cui Historia Romana utilizza estesamente soprat-
tutto nel secondo libro85, quando gli viene a mancare il supporto dell’Hi-
storia Augusta. Soltanto per presentare versioni alternative ricorre alle e-
spressioni «quidam tradunt», «quidam dicunt», «alii scribunt», che fareb-
bero pensare che stia egli stesso mettendo a confronto fonti diverse. E in-
vece riprende dalla fonte sia l’espressione «quidam scribunt» che la diver-
sa versione86. Eccezionalmente fa il nome di qualche autore, per riferire pe-
raltro particolari secondari. Per esempio, parlando di Giuliano l’Apostata
riporta una citazione da Ammiano Marcellino, ma per un dettaglio margi-
nale, il reperimento del diadema allorché Giuliano venne proclamato Au-
gusto dall’esercito87; per il resto anche in questa parte Pomponio segue non
l’ampio racconto di Ammiano ma l’Epitome di Zonara (XIII, 10). Menzio-
na, nel capitolo su Anastasio, che regnò fra il 491 e il 518, un altro Marcel-
lino, autore nel VI secolo di una cronaca relativa agli anni 374-534 assai

85 L’Historia Romana di Paolo Diacono comprende sedici libri, fino a Giusti-


niano; il XVII che arriva a Leonzio (detronizzatore dell’ultimo discendente di Era-
clio, Giustiniano II, col quale si chiude il Compendium) è un excerptum, di autore i-
gnoto ma di poco successivo, della Historia Langobardorum: A. CRIVELLUCCI, in
Pauli Diaconi Historia Romana, a cura di A. CRIVELLUCCI, Roma 1914, pp. XLVIII-
LI. Il Compendium, arrivando fino a Giustiniano II, si ferma immediatamente prima
di dove si ferma l’Historia Romana, e, almeno per quanto riguarda il periodo co-
perto dall’excerptum, non presenta nulla in più di quanto essa offra; credo quindi
che Pomponio utilizzò questo direttamente e non l’Historia Langobardorum.
86 Basteranno due esempi: nella biografia di Costantino, a proposito della divi-

sione dell’impero dopo la sua morte, Pomponio scrive (f. [28]v): «Quidam tradunt
Costantinum orbem heredibus testamento divisisse, quidam filios sorte fecisse» che
corrisponde a ZONAR., Epit. XIII, 5: «‘Ως µ ν τινες συνεγρ!ψαντο παρ) το
πατρ0ς σφσι διανεµηθε&σα, Xς δ’τεροι καθ’LαυτοKς τα:την ατ2ν
διελοµ νων». A proposito della versione alternativa sulla malattia e morte di Era-
clio, per cui v. anche supra nota 33, scrive (f. [55]r): «Ferunt hidropisi occubuisse.
Alii scribunt […]», attingendo il tutto da ZONAR., Epit. XIV, 17: «‘Hρ!κλειος δ ,
Xς ε?ρηται […], ν*σω περιππτει [δερικ. Λ γεται δ. κα [...]».
'
87 Al f. [34]v: «Marcellinus ' comitem ordinis detraxisse sibi tor-
scribit Maurum
quem – draconarius enim erat – et capiti principis aptasse»; cfr. AMM. MARC. 20, 4:
«Maurus nomine quidam, postea comes qui rem male gessit apud Succorum angu-
stias, Petulantium tunc hastatus, abstractum sibi torquem quo ut draconarius uteba-
tur capiti Iuliani imposuit».
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350 FRANCESCA NIUTTA

succinta e che tuttavia ha conservato in esclusiva alcune notizie88. Nella


biografia di Costantino cita un passo dai Caesares di Giuliano89; ma è una
citazione di seconda mano, che egli riporta di peso dalla sua fonte, il solito
Zonara (Epit. XIII, 4).

Emergono chiaramente da questo sondaggio le fonti principali a cui si


rifà e il metodo di composizione a intarsio seguito da Pomponio. L’Histo-
ria Augusta e Paolo Diacono ben si prestavano ad un uso congiunto: l’Hi-
storia Romana di Paolo Diacono, che integrava e continuava fino a Giusti-
niano (e oltre con l’excerptum che costituisce il XVII libro) il Breviarium
di Eutropio, gli offriva l’ossatura del racconto; le biografie imperiali del-
l’Historia Augusta gli fornivano i personaggi, i caratteri e le vicende pub-
bliche e private, aneddoti e colore. Pomponio non copia mai, condensa o
parafrasa. Ma sia l’Historia Augusta che Paolo Diacono erano ben cono-
sciuti. Quello di Paolo Diacono fu tra i più popolari manuali di storia ro-
mana ereditati dal Medio Evo90; la fortuna dell’Historia Augusta ebbe
un’impennata dal XIV secolo91. La vera novità fu invece l’utilizzazione si-
stematica dell’Epitome di Giovanni Zonara, che dà una panoramica storica

88 Al f. [49]r: «Marcellinus tamen tradit eum natum supra annos LXXX subita

morte occubuisse». I Chronica di Marcellinus Comes sono editi in MGH, Auct. ant.,
11, 60-104.
89 Al f. [28]r: «Iulianus in oratione de Caesaribus scribit Mercurium interroga-

tum a patruo Constantino quis esset modus boni principis respondisse regem opor-
tere multa possidere et multa impendere»; cfr. JUL., Caes. 36. Veramente i Caesares
(Saturnalia, o Symposium) sono una satira menippea; Pomponio li definisce ora-
zione seguendo Zonara, che li designa col termine di logos.
90 CRIVELLUCCI, in Pauli Diaconi Historia Romana cit., p. VIII, ne conosceva

all’inizio di questo secolo centoquindici manoscritti; nel ’400 si trovava in tutte le


maggiori biblioteche: per citare solo la biblioteca pontificia, cinque erano i mano-
scritti di Paolo Diacono presenti all’epoca di Pomponio identificati da A. MANFRE-
DI, I codici latini di Niccolò V, Città del Vaticano 1994, pp. 230-231 e 433: i Vat. lat.
1979, 1980, 1981, 1983, 1984; fra questi in primo luogo andrà cercato l’esemplare
usato da Pomponio, ma anche fra i codici che vanno sotto il nome di Eutropio, al
quale l’Historia Romana di Paolo Diacono è sovente attribuita: così anche nell’edi-
zione di Roma, [Lauer], 1471 (IGI 3768, IERS 81), nella rubrica della quale (f.
[9]r), presa per buona dai cataloghi, il testo va sotto il nome di Eutropio: «Incipit
Eutropius historiographus et post eum Paulus Diaconus de historiis Italice provin-
cie ac Romanorum»; si tratta invece dell’Historia Romana di Paolo Diacono (vi è
compreso il XVII libro).
91 Per la fortuna dell’Historia Augusta nell’Umanesimo v. J.P. CALLU-O. DE-

SBORDES, Le «Quattrocento» de l’Histoire Auguste, «Revue d’histoire des textes» 19


(1989), pp. 253-275, da integrare con Histoire Auguste, I, 1: Introduction générale
cit., pp. LXXXI-LXXXV.
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IL ROMANAE HISTORIAE COMPENDIUM DI POMPONIO LETO 351

completa fino ad Alessio I Comneno e, diversamente dall’Historia Romana


di Paolo Diacono, è tutt’altro che un semplice sommario. Nel ricco mate-
riale che essa offriva Pomponio dovette operare una selezione che fu più ri-
gorosa nella prima redazione (quella del Monac. lat. 528) mentre in segui-
to vennero recuperati episodi originariamente tralasciati. Sembra che solo
nel secolo successivo l’Epitome sarebbe stata tradotta in latino92; e quindi
si deve postulare che Pomponio la leggesse direttamente in greco. Rimane
da identificare il codice di cui si servì. Manoscritti dell’Epitome erano allo-
ra presenti nella Biblioteca vaticana; tre ne registra l’inventario di Cristofo-
ro Persona del 148493.
La sequela di guerre, congiure, morti violente del Compendium è con-
trappuntata da commenti e sentenze moraleggianti94, oltre che da digressio-
ni erudite di carattere antiquario – vere e proprie trattazioni in capitoli a sé
sono quelle intitolate Magnitudo imperii Romani, in cui Pomponio anticipa
il tema a lui caro del trionfo, sul quale ritornerà ripetutamente, De triumpho
et ovatione, De Nemesi dea –, e da raffronti ed exempla tratti dalla storia
della Roma repubblicana. Spesso si tratta di citazioni di repertorio, come
quella della vittoria di Lucullo su Tigrane e Mitridate che lo stesso Pompo-
nio utilizza più di una volta95. La fine dell’imperatore Costante ad opera
dell’ingrato Magnenzio – da lui salvato dai soldati che lo volevano uccide-
re nascondendolo sotto un mantello – è paragonata a quella di Cicerone as-
sassinato da Popilio Lenate, che Cicerone aveva in passato difeso dall’ac-

92 Da H. WOLF, Basilea 1557; poco dopo (1560) ne sarebbe uscito un volga-


rizzamento italiano di Ludovico Dolce. Rimane difficilmente conciliabile con l’uso
esteso di Zonara nel Compendium l’affermazione di Sabellico nella Pomponii Vita:
«Graeca (scil. studia) enim vix attigit»; ma cfr. sulla questione dell’apprendimento
del greco da parte di Pomponio ZABUGHIN, Giulio Pomponio Leto cit., I, p. 28; PIA-
CENTINI SCARCIA, Note storico-paleografiche cit., pp. 496-497, 499, 514.
93 R. DEVREESSE, Le fonds grec de la Bibliothèque Vaticane dès origines à Paul

V, Città del Vaticano 1965, pp. 133-134, 138, 149; i tre codici sono identificati con
i Vat. gr. 136, 482 (dubitativamente), 639. L’Epitome è conservata in varie decine di
manoscritti.
94 Solo qualche esempio: «ex lectione historiarum illud compertum habeo, vic-

toriam semper fore in ea parte quae iure pugnat» (f. [43]v); «Romani semper iusta
movere arma» (f. [17]v: le guerre dei Romani furono sempre giuste, diversamente
da quelle mosse da altri popoli, spinti da odio e rabbia); «felix est qui victoriam ad-
secutus temperare se didicerit» (f. [52]v).
95 Vi aveva fatto riferimento all’inizio del secolo perfino il greco Manuele Cri-

solora nella Synkrisis tes palaias kai neas Rhomes, V, 3: «Non potresti più distin-
guere la sorte di Pompeo e di Lucullo da quella di Mitridate e Tigrane» (Le due Ro-
me. Confronto tra Roma e Costantinopoli. Con la traduzione latina di Francesco A-
leardi, a cura di F. NIUTTA, in corso di stampa).
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352 FRANCESCA NIUTTA

cusa di parricidio96. Il metodo è anche qui quello della contaminazione di


più fonti. Ulteriori intarsi sono costituiti da notizie di prima mano su ritro-
vamenti archeologici e dalle iscrizioni con cui egli mette a confronto i dati
delle fonti letterarie - il che non era una novità; ma si deve dare atto a Pom-
ponio di avere enunciato un metodo per l’utilizzazione delle testimonianze
epigrafiche97. Però Pomponio non rinuncia a sue illazioni, che possono es-
sere deduzioni dalle notizie che riporta, ma anche interpolazioni personali:
il soprannome Agelastos dato al figlio di Filippo l’Arabo, le tegole del
Pantheon che diventano d’argento. L’imperatore Eraclio secondo il Com-
pendium (f.[55]r) celebrò a Costantinopoli la vittoria sui Persiani con una
sorta di trionfo: portato su un carro d’oro, brandiva «non lauream manu sed
lignum crucis»; è il «legno della vera croce» strappato ai Persiani che l’a-
vevano portato via da Gerusalemme. Niente di tutto ciò in Zonara (Epit.
XIV, 85), che si limita a dire che Eraclio dopo la vittoria fu accolto splen-
didamente dal senato e dal popolo, fra acclamazioni ed applausi. Non mol-
to di più nelle altre fonti cronachistiche bizantine. Quindi è Pomponio che
trasforma l’accoglienza tributata all’imperatore in una variante del trionfo,
con l’elemento inedito della croce.

Il Compendium si presenta come un agglomerato di episodi di rilievo


disuguale alternati a digressioni; ha un fine eminentemente informativo e
nello stesso tempo intende produrre diletto; si rivolge ad un pubblico am-
pio, di lettori in proprio e anche di ascoltatori. Ma non è privo di qualche
chiave interpretativa dei fatti, che affiora saltuariamente; e Pomponio non è

96 f. [29]v: «Constans si exemplo Ciceronis didicisset non armasset in suam

caedem Magnentium. Opilius Laenas reus capitis M. Tullio defensori caput absci-
dit; Magnentius servatori suo mortem intulit. Nam cum milites exorto tumultu in Il-
luriis occidere vellent, obiecto paludamento imperator texit et servavit». Pomponio
attingeva probabilmente l’episodio da VAL. MAX. 5, 3, 4: «M. Cicero C. Popilium
Laenatem […] defendit […] Hic Popilius postea nec re nec verbo a Cicerone laesus
ultro M. Antonium rogavit ut ad illum proscriptum persequendum et iugulandum
mitteretur, impetratisque detestabilis ministerii partibus gaudio exultans Caietam
cucurrit et virum […] iugulum praebere iussit ac protinus caput Romanae eloquen-
tiae et pacis clarissimam dexteram per summum et securum otium amputavit».
L’imputazione di parricidio da cui Popilio Lenate era stato difeso da Cicerone, che
manca in Valerio Massimo, si trova in PLUT., Cic. 48 (per il quale peraltro l’ucciso-
re di Cicerone non fu Popilio ma il centurione Erennio). Quindi Pomponio doveva
conoscere anche la versione di Plutarco. Verrebbe il sospetto che più che volonta-
riamente contaminare Pomponio citasse l’episodio a memoria.
97 ZABUGHIN, Giulio Pomponio cit., II, pp. 170-194, per gli interessi archeologi-

ci ed epigrafici di Pomponio. Sulle sue iscrizioni ora S. MAGISTER, Pomponio Leto


collezionista di antichità. Note sulla tradizione manoscritta di una raccolta epigra-
fica nella Roma del tardo Quattrocento, «Xenia Antiqua», 7 (1998), pp. 167-196.
Cap. 15 Niutta F. 321-354 13-09-2002 12:50 Pagina 353

IL ROMANAE HISTORIAE COMPENDIUM DI POMPONIO LETO 353

mai neutrale. Mutua dalle sue stesse fonti delle categorie interpretative: che
abbracci la tradizione filosenatoria avversa al potere militare espressa dal-
l’Historia Augusta, e continui ad applicarla all’impero bizantino del VII se-
colo, si è già visto; si è visto come condanni la «desidia Romanorum prin-
cipum» che non sono stati capaci di impedire l’espansione dei seguaci di
Maometto. Agli imperatori rimprovera anche di avere abbandonato l’occi-
dente ai barbari – che è un altro dei Leitmotiven dell’opera («nescio quo fa-
to praefectis obtemperavimus et aliquando Augustulis et saepenumero regi-
bus Gothorum», ff. [36]v-[37]r, è il tema di molte pagine). La vena di anti-
bizantinismo, latente in tutto il Compendium, diventa qui esplicita. Pompo-
nio non fa ricorso alla categoria della translatio imperii, non imputa alla
fondazione di Costantinopoli l’origine remota della decadenza dell’impero
romano, come faceva Flavio Biondo qualche decennio prima98; però «ubi
nova Roma, praesentibus Augustis, lacertos extulit, absentia principum no-
stra Roma paululum inminuta, utraque tamen urbe principatum sibi vindi-
cante». A differenza di altri suoi contemporanei Pomponio non si interroga
sulla fine dell’impero romano99; è lontanissimo dal ricercare le cause degli
eventi, non tenta periodizzazioni; registra solo dei fatti. Ma senza distacco
cronachistico.
Dalle età trascorse scivola nel presente. Totila entra in Roma, ne allon-
tana tutti gli abitanti, la incendia (ff. [50]v-[51]r). Il saccheggio antico evo-
ca saccheggi recenti, lotte intestine, la rovina che esse portano: «Sed iam ci-
vili intestinoque odio eo lapsa es, ut honorificentior haberes, si nomen tuum
tantummodo extaret […] A tuis praesertim dilaniata es». I Cristiani invece
di combattere contro i nemici della fede sono costantemente assorbiti («oc-
cupantur») da guerre civili e odii reciproci, «sed proeliandum esset contra
hostes fidei»; i príncipi «ad tam pernitiosum facinus stipendia solvunt»100.
Fin qui solo allusioni; ma poi un lungo encomio viene tributato non al de-
dicatario del lavoro, né al papa, ma a Ferdinando il Cattolico, come unico
fra i prìncipi che abbia mosso una guerra giusta. Le sue vittorie sugli Arabi
erano state ampiamente esaltate dai Pomponiani all’epoca della presa di
Granada (1492)101. E allora viene da chiedersi quanto vi sia, nel motivo an-

98 Nelle Historiarum ab inclinatione imperii Romani decades tres.


99 Un esame delle posizioni al riguardo di Bruni, Flavio Biondo, Poggio Brac-
ciolini in S. MAZZARINO, La fine del mondo antico, Milano 1989, pp. 79 e ss.
100 Nella biografia di Licinio compaiono (f. [23]v-[24]r) due pagine di acco-

rata perorazione contro le guerre che i Cristiani conducono fra loro, autentiche
guerre civili, che riportano forse alle incursioni in Italia di Carlo VIII del 1494 e
del 1495.
101 È superfluo rievocare il clima di entusiasmo che si determinò allora a Ro-

ma. Dall’ambiente pomponiano uscirono l’Historia Baetica di Carlo Verardi, dram-


ma storico sulla conquista di Granada, il Fernandus servatus di Marcellino Verardi
Cap. 15 Niutta F. 321-354 13-09-2002 12:50 Pagina 354

354 FRANCESCA NIUTTA

tiislamico del Compendium di partecipazione sincera e spontanea e quanto


sia frutto di una cristallizzazione topica102.
Ma soprattutto nella pagina sull’antagonismo religioso e politico con
Costantinopoli (f. [37]r) il Compendium offre un manifesto a favore del po-
tere universale di Roma e del papato, incardinato sull’idea che Roma è dea
delle terre e regina dei popoli («terrarum dea et gentium regina») e merita
di essere «Dei sedes et imperii generis humani»; il vescovo di Roma non
solo è sempre stato «caput catholicae fidei», ma «divino iussu et humanae
rationis vinculo generis humani parens et princeps est». La constatazione
del declino della potenza imperiale e dell’abbandono di Roma conduceva
Pomponio alla riaffermazione del principio teocratico. Bastava questo a
giustificare la dedica a Francesco Borgia. Il pontificato borgiano poteva
contare sul consenso, quali che fossero le vie per cui era maturato, del più
rinomato studioso romano103.

e la Panegyris de triumpho Granatensi di Paolo Pompilio, scritta per incarico del


Carvajal, ambasciatore dei re di Spagna presso il papa (che era allora Innocenzo
VIII), e ancora il Panegirico di s. Agostino di Pietro Marso (su cui D. DEFILIPPIS, Un
accademico romano e la conquista di Granata, «Istituto Universitario Orientale.
Annali. Sezione romanza», 30, 1 (1988), (= Atti del Convegno internazionale Dal-
l’Umanesimo Napoletano dell’Età Aragonese al Rinascimento in Italia e in Spagna,
Napoli-Caserta, 11-15 maggio 1987), pp. 223-229.
102 Di un «‘mito dei re cattolici’, difensori della fede cristiana nel segno della

continuità della politica filospagnola dei pontefici» ha parlato M. Miglio nell’in-


contro del 17 dicembre 1993 dedicato a Influssi spagnoli nella cultura rinascimen-
tale romana. Intorno alla pubblicazione della Historia Baetica di Carlo Verardi, su
cui la relazione di A.M. Oliva, «RR roma nel rinascimento, Bibliografia e note»,
1993, p. 235, dalla quale è tratta la citazione. Nella medesima occasione P. Farenga
parlava della rinascita con Ferdinando II dello spirito della crociata, e del rilievo
strumentale, ispirato dai re cattolici, dato alla caduta di Granada dal clero spagnolo,
con i suoi riflessi a Roma (OLIVA, ibid., p. 236).
103 Ai funerali di Pomponio in Ara Coeli avrebbero partecipato, oltre all’intero

mondo letterario e agli ambasciatori stranieri, quaranta prelati della Chiesa romana:
SABELLICO nella Pomponii vita cit., f. [59]v.
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DOMENICO DEFILIPPIS-ISABELLA NUOVO

I riflessi della scoperta dell’America


nell’opera di un umanista meridionale,
Antonio De Ferrariis Galateo*

Gli anni del pontificato di Alessandro VI furono, com’è noto, anni no-
dali per la scoperta di nuove terre e l’apertura di imprevedibili rotte com-
merciali. A tale tema e al ruolo giocato dal pontefice nel dirimere le molte-
plici questioni connesse con il periodo più fruttuoso delle esplorazioni o-
ceaniche hanno offerto un importante contributo le relazioni svolte durante
i Convegni di Roma del dicembre 19991 e di Cagliari del maggio 2001.
Questo contributo intende cogliere invece sul duplice versante, quello del-
l’orizzonte scientifico e quello dell’orizzonte etico, le inaspettate reazioni
che tali eventi sollecitarono tra gli intellettuali del tempo, muovendo da u-
na specola privilegiata, la scrittura di Antonio Galateo, assai attenta a co-
gliere, anche in questo caso, gli umori di una intellettualità in crisi, dibattu-
ta tra problemi di natura etico-politica2 e l’ardua risoluzione di controverse
conoscenze scientifiche.

1. L’orizzonte scientifico
Nella dedica premessa all’edizione veneziana del 1511 della Geo-
graphia di Tolomeo il curatore dell’opera, Bernardo Silvano da Eboli, ma-
nifestava al Duca d’Atri, Andrea Matteo Acquaviva, la propria sorpresa nel
constatare l’inattendibilità dei dati sulla longitudine e la latitudine delle va-
rie località forniti dall’Alessandrino, quando questi fossero stati confrontati
e verificati con le misure desunte dai moderni portolani e dalla recente rap-
presentazione cartografica delle scoperte oceaniche. Ma ancora più sorpren-
dente era notare che nei vari codici greci e latini consultati le discrepanze
maggiori riguardavano i numeri indicanti appunto la posizione, laddove in-
* Domenico Defilippis ha redatto le pp. 343-373; Isabella Nuovo le pp. 373-391.
1 In particolare quelle di G. AIRALDI, Il ruolo di Alessandro VI nelle scoperte geo-

grafiche e di L. ADÃO DA FONSECA, Alessandro VI e le scoperte portoghesi, in Roma


di fronte all’Europa al tempo di Alessandro VI, (Atti del convegno, Città del Vatica-
no-Roma, 1-4 dicembre 1999) a cura di M. CHIABÒ-S. MADDALO-M. MIGLIO-A.M. O-
LIVA, Roma, 2001, pp. 227-247; ma v. anche F. TATEO, Papa Borgia nella memoria sto-
rica, in De Valencia a Roma a traves de los Borja, (Atti del Convegno di Valencia, 23-
26 febbraio 2000).
2 Cfr. S. VALERIO, Un’allegoria di Alessandro VI nell’Eremita del Galateo, in

questo stesso volume.


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356 DOMENICO DEFILIPPIS-ISABELLA NUOVO

vece i verba del testo sembravano essere in sintonia con i dati rilevati dalla
moderna cartografia. Occorreva pertanto, secondo il Silvano, correggere
quelli, che erano assai spesso in contrasto perfino con le stesse parole di To-
lomeo, e ridisegnare, come egli fece per primo, le carte tolemaiche tenendo
conto degli inediti apporti dei contemporanei, senza disconoscere l’autore-
vole lavoro di risistemazione del pensiero geografico antico prodotto da To-
lomeo, che «più diligentemente degli altri geografi ha descritto le posizioni
e le distanze tra i luoghi», e senza ricorrere, com’era avvenuto nelle più re-
centi edizioni della Geographia, all’aggiunta di nuove carte cui affidare i ri-
sultati della moderna indagine corografica3. La vicenda editoriale e i suoi

3 Cfr. CLAUDII PTHOLEMAEI ALEXANDRINI Liber Geographiae cum tabulis et uni-

versali figura et cum additione locorum quae a recentioribus reperta sunt diligenti cu-
ra emendatus et impressus, Venetiis, per Iacobum Pentium de Leucho, MDXI, moder-
namente riprodotto in Theatrum orbis terrarum, Series of Atlases in Facsimile, 5, 1, con
un’Introduzione di R.A. SKELTON, Amsterdam 1969. Sull’edizione del Silvano v. A.E.
NORDENSKIÖLD, Facsimile-Atlas to the Early History of Cartography, translated from
the swedish original by J.A. EKELÖF-C.R. MARKHAM, New York 1973, pp. 18 e ss.; l’In-
troduzione cit. di SKELTON; A. BLESSICH, La geografia alla corte aragonese in Napoli,
Roma 1897; G. GUGLIELMI-ZAZO, Bernardo Silvano e la sua edizione della Geografia
di Tolomeo, «Rivista geografica Italiana», 32 (1925), pp. 37-56, e 33 (1926), pp. 25-52;
R. ALMAGIÀ, Studi di cartografia napoletana, in ALMAGIÀ, Scritti geografici, Roma
1961, pp. 247-249. Su Bernardo Silvano da Eboli non è possibile rintracciare altre no-
tizie al di fuori di quelle che egli stesso offre indirettamente nella dedica premessa alla
sua edizione: dopo aver approntato per Andrea Matteo il codice della Geographia tole-
maica, per il quale v. oltre, ne divenne suddito quando l’Acquaviva, sposando in se-
conde nozze Caterina della Ratta (1509, †1511), contessa di Caserta, assunse anche la
signoria di Eboli; fu legato da una sincera amicizia al poeta veronese Giovanni Cotta,
che, conosciuto probabilmente a Napoli, dov’era vissuto prima del 1507, elogia nel-
l’introduzione al suo lavoro per aver corretto le «dimostrazioni matematiche» del I e del
VII libro nell’edizione della Geografia del 1507 curata da Marco Beneventano, che ac-
cusa invece di «inscitiam atque negligentiam»; frequentò non solo la ricca biblioteca
del suo signore, ma ebbe accesso anche alla raccolte più preziose di testi antichi della
sua età e agli altrettanto importanti documenti cartografici contemporanei, la cui con-
sultazione gli consentì di perfezionare l’opera tolemaica. Su Andrea Matteo Acquaviva
cfr. la ‘voce’ redazionale del DBI, 1, Roma 1960, pp. 185-187, e F. TATEO, Feudatari e
umanisti nell’impresa tipografica, in TATEO, Chierici e feudatari del Mezzogiorno, Ba-
ri 1984, pp. 69-96; ID., Aspetti della cultura feudale attraverso i libri di Andrea Matteo
Acquaviva, in Il territorio a sud-est di Bari in età medievale, (Atti del Convegno di stu-
di, Bari, 13-15 maggio 1983), Bari 1985, pp. 371-384; ID., Sulla cultura greca di An-
drea Matteo Acquaviva e C. BIANCA, Andrea Matteo Acquaviva e i libri a stampa, in
Territorio e feudalità nel Mezzogiorno rinascimentale. Il ruolo degli Acquaviva tra XV
e XVI secolo, a cura di C. LAVARRA, I, Galatina 1995, pp. 31-38 e 39-53, e più in gene-
rale i saggi raccolti nel medesimo volume. Concorda con le osservazioni del Silvano il
giudizio espresso dal Galateo in un’opera di poco anteriore (1509) alla pubblicazione
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I RIFLESSI DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA 357

protagonisti illustrano efficacemente lo stato e la diffusione degli studi geo-


grafici nel Regno di Napoli e mettono in luce il latente senso di ‘crisi’ del
mondo intellettuale, inaspettatamente posto di fronte a inedite realtà dalle
scoperte portoghesi e spagnole. Se infatti il Silvano, nonostante tutto, non o-
sava scardinare l’antica auctoritas, e anzi tentava di puntellarne la credibilità
incolpando delle inesattezze i disattenti copisti della Geographia, non esita-
va però ad apportare le necessarie correzioni e a riconoscere la limitatezza
dell’orizzonte geografico tolemaico: sono questi gli elementi di maggiore
novità dell’edizione veneziana, che furono già opportunamente rilevati dal
Nordenskiöld: «[Sylvanus] was the first to break with the blind confidence
that almost every scholar in the beginning of the 16th century had in the a-
tlas of the old Alexandrian geographer»4. L’operazione del moderno geo-
grafo è tuttavia anche il segno della vivacità di un dibattito maturato all’in-
terno dell’accademia e della corte napoletana, di cui erano stati protagonisti,
insieme con i letterati, gli stessi sovrani e i potenti baroni del Regno, uma-
nisticamente formatisi, negli ultimi decenni del XV secolo, alla lezione del
Pontano. Tra costoro va annoverato il dedicatario dell’edizione veneziana,
Andrea Matteo Acquaviva, che fu esperto uomo d’arme e letterato finissimo,
scaltrito esegeta, magnifico mecenate e accanito bibliofilo: per lui e per la
sua prima moglie, Isabella Todeschini Piccolomini, il Silvano, nel 1490, a-
veva confezionato una pregevolissima copia pergamenacea e riccamente mi-
niata della Geographia, ora custodita presso la Biblioteca Nazionale di Pari-
gi, che però, nel solco di una tradizione ormai consolidata, riproduceva la
traduzione latina di Jacopo Angeli e offriva un corredo di carte in tutto simi-
le a quello dell’edizione romana del 1478, senza l’aggiunta delle carte mo-
derne. Quando Silvano si dedicò a questo lavoro, infatti, non ancora erano
state compiute le imprese che, di lì a qualche anno, avrebbero sovvertito un
patrimonio conoscitivo che pareva ormai stabile5.

del Tolomeo: «Ptolemaei descriptio, quae multa alibi quam sint locat. Sive id acciderit
aliorum relatu, sive auctoris incuria, sive quod chorographiam recte scribere nemo po-
test nisi qui in ea regione diu versatus aut natus fuerit, sive transcriptorum aut transla-
torum inscitia et librorum mendositate, nescio», A. GALATEI De situ Iapygiae, Basilea
1558, p. 80 (emblematico è il caso di Lecce, ibid., p. 85).
4 NORDENSKIÖLD, Facsimile-Atlas cit., p. 19.
5 È il Paris. lat. 10764: su di esso cfr. J.H. HERMANN, Miniaturhandschriften

aus der Bibliothek des Herzog Andrea Matteo III Acquaviva, «Jahrbuch der Kunst-
historischen Sammlungen des allerhochsten Kaiserhauses», 19 (1898), pp. 147-216;
T. DE MARINIS, Un manoscritto di Tolomeo fatto per Andrea Matteo Acquaviva e I-
sabella Piccolomini, Verona 1956; M. MILANESI, Testi geografici antichi in mano-
scritti miniati del XV secolo, in Columbeis V. Relazioni di viaggio e conoscenza del
mondo fra Medioevo e Umanesimo, (Atti del V Convegno internazionale di studi
dell’Associazione per il Medioevo e Umanesimo Latini, Genova, 12-15 dicembre
1991), a cura di S. PITTALUGA, Genova 1993, p. 350.
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358 DOMENICO DEFILIPPIS-ISABELLA NUOVO

L’interesse per gli studi geografici a Napoli, rilevante fin dall’età angioi-
na, ebbe quindi un notevole impulso al tempo degli Aragonesi, certamente an-
che per effetto del magistero del Pontano, di cui sono noti gli studi e gli scrit-
ti di carattere astronomico e astrologico e le polemiche posizioni antipichiane
della produzione ultima6. Non va tuttavia sottovalutata, come conseguenza di-
retta del mutato assetto di governo del Regno e degli avvenimenti politici con-
temporanei, la irrinunciabile esigenza di conoscere e quindi di descrivere con
la massima precisione possibile un territorio notevolmente vasto, di enorme
importanza, per la sua posizione geografica, sotto il profilo strategico e com-
merciale e perciò dai confini quanto mai insicuri. Motivazioni di ordine teo-
retico, speculativo e letterario si combinavano con l’ineludibile necessità di
un’accorta difesa dello Stato, costantemente esposto ai desideri di riconquista,
mai sopiti negli animi dei re di Francia e dei loro sostenitori regnicoli, forte-
mente ambito nelle sue città costiere del basso Adriatico e dello Ionio dalla
agguerrita Repubblica di Venezia, tenacemente decisa a procurarsi nuovi e si-
curi scali per i propri commerci nel ‘suo’ golfo, e infine preda delle incessan-
ti scorrerie dei Turchi, che erano ormai giunti ad occupare la sponda adriatica
opposta alla regione pugliese7. Nella Napoli aragonese il recupero dell’antico
significò pertanto, quantomeno in questo caso, riappropriazione non solo del
Tolomeo dell’Almagesto e del Centiloquio, di Macrobio e di quel Manilio che,
riscoperto da Poggio nel 1416, fu studiato e commentato durante il suo sog-
giorno partenopeo dal Bonincontri (tra il 1450 e il 1475), e precocemente
stampato a Napoli presso Hohenstein nel 1476 ca.8, ma anche del Tolomeo

6 Cfr. BLESSICH, La geografia cit.; R. ALMAGIÀ, Studi storici di cartografia na-


poletana, «Archivio storico per le province napoletane», 37 (1912), pp. 564-592, e
38 (1913), pp. 3-35, 318-348, 409-440, 639-654; ID., Le opinioni e le conoscenze
geografiche di Antonio De Ferrariis, «Rivista Geografica Italiana», 12 (1905), fasc.
VI-VII, pp. 3-27; ID, Per un nuovo repertorio di carte nautiche italiane conservate
in Italia (secoli XIII-XVII), in Atti del XVII Congresso Geografico Italiano, (Bari,
23-29 aprile 1957), Bari 1957, II, pp. 427-431; SKELTON, Introduzione cit.
7 Cfr. I. NUOVO, La descrizione di Gallipoli nell’evoluzione degli interessi geo-

grafici, in Atti del Convegno Nazionale su «La presa di Gallipoli del 1484 ed i rap-
porti tra Venezia e Terra d’Otranto», Bari 1986, pp. 77-105 e la bibliografia ivi cit.
8 Cfr. la ‘voce’ di C. GRAYSON, in DBI, 12, Roma 1970, pp. 209-211; BLESSICH,

La geografia cit.; B. SOLDATI, La poesia astrologica nel 400, presentazione di C. VA-


SOLI, Firenze 1986, p. 118 e ss.; M. SANTORO, La cultura umanistica, in Storia di
Napoli, IV, 2, Napoli 1974, pp. 315-498; F. TATEO, Gli studi scientifici del Colocci
e l’Umanesimo napoletano, in Atti del Convegno di studi su Angelo Colocci, (Jesi,
13-14 settembre 1969), Jesi 1972, pp. 133-155: 145; G. FERRAÙ, Il tessitore di An-
tequera. Storiografia umanistica meridionale, Roma 2001, in particolare le pp. 131-
174; per la stampa napoletana di Manilio v. M. SANTORO, La stampa a Napoli nel
Quattrocento, Napoli 1984, p. 129. Assai interessante per il dibattito sviluppatosi a
Napoli sulla attendibilità di Tolomeo mi sembra il giudizio espresso dal Bonincon-
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I RIFLESSI DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA 359

della Geographia, e di Strabone, Mela, Solino e Plinio, la cui opera il Bran-


cati a metà degli anni settanta offriva a Ferdinando I in una traduzione in na-
poletano misto, che contrapponeva a quella toscana, appena compiuta, indi-
rizzata allo stesso sovrano da Cristoforo Landino, ma giudicata dall’umanista
napoletano lacunosa e scorretta9. E un riflesso preciso di questa molteplicità
di interessi entro cui si erano indirizzati gli studi geografici è facilmente leg-
gibile nei titoli delle opere trascritte per volontà di Andrea Matteo Acquaviva
nei ricchi codici miniati che costituivano i pezzi più preziosi della famosa bi-
blioteca del Duca d’Atri, il quale a sua volta non aveva mancato di accostarsi
alle tematiche cosmologiche, trattandone nel secondo libro del suo commen-
to al De virtute morali di Plutarco e richiamandosi, tra l’altro, alle dottrine pla-
toniche, aristoteliche e tolemaiche: accanto agli Astronomica di Arato, al com-
mento del Timeo, al poema lucreziano, troviamo la già ricordata Geographia
di Tolomeo, la Parafrasi di Temistio alla Fisica di Aristotele, la Chorographia
di Pomponio Mela e una silloge di testi aristotelici comprendente Physica, De
generatione et corruptione, De caelo, De anima10.

tri in un passaggio del commentario all’Astronomicon di Manilio (L. BONINCONTRI,


In Manilium commentum, Roma 1484) citato da F. SURDICH, L’Africa nella cultura
europea tra Medioevo e Rinascimento, in Columbeis V cit., pp. 165-240: 212: «Nel
capitolo III del primo libro dell’Almagesto Tolomeo dice di non aver avuto fino ad
allora conoscenza che un luogo situato al di là dell’Equatore fosse abitato. Ma ai no-
stri giorni, Enrico d’Aragona, re del Portogallo, ha inviato i propri navigatori per
cercare queste regioni, dove si sono trovati uomini e si è visto che certi luoghi era-
no più abbondantemente popolati, mentre altri non lo erano affatto».
9 Cfr. la Premessa di Salvatore Gentile all’edizione della traduzione del Bran-

cati: C. PLINIO SECONDO, La Storia Naturale [Libri I-XI], tradotta in ‘napolitano mi-
sto’ da Giovanni Brancati. Inedito del sec. XV, a cura di S. GENTILE, I, Napoli 1974,
pp. V-XII; R. CARDINI, La critica del Landino, Firenze 1973, pp. 149-191; C. LAN-
DINO, Scritti critici e teorici, a cura di R. CARDINI, I, Roma 1974, pp. 81-93, II, pp.
86-92. Sull’interesse per la cultura geografica da parte del re Ferdinando I, v. MI-
LANESI, Testi geografici cit., pp. 343 e ss.
10 Cfr. HERMANN, Miniaturhandschriften cit.; G. CAVALLO, Libri greci e resi-

stenza etnica in Terra d’Otranto, in Libri e lettori nel mondo bizantino. Guida sto-
rica e critica, a cura di G. CAVALLO, Bari 1982, pp. 155-227: 164 e ss.; C. BIANCA,
La biblioteca di Andrea Matteo Acquaviva, in Gli Acquaviva d’Aragona Duchi di A-
tri e Conti di S. Flaviano, I, Teramo 1985, pp. 159-173; per il PLUTARCHI De virtu-
te morali libellus graeca cum latina versione et Commentaria Andreae Matt. Ac-
quavivi Hadrianorum Ducis, Napoli 1526 (si rinvia in particolare alle cc. LX-LXXI
del commento: A.M. AQUIVIVI HADRIANORUM INTERAMNATUMQUE DUCIS Commen-
tarii in translationem libelli Plutarchi de virtute morali. Liber secundus), v. G. GU-
GLIEMI-ZAZO, Bernardo Silvano cit., p. 43, e di F. TATEO, oltre alla bibliografia già
segnalata alla nota 3, il saggio Sulle traduzioni umanistiche di Plutarco. Il De vir-
tute morali di Andrea Matteo Acquaviva, in Filosofia e cultura. Per Eugenio Garin,
a cura di M. CILIBERTO-C. VASOLI, Roma 1991, I, pp. 195-214.
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360 DOMENICO DEFILIPPIS-ISABELLA NUOVO

L’impatto con la scoperta di terre sconosciute agli antichi ebbe sugli u-


manisti napoletani, dediti a un tipo di indagine dai contorni così variegati, un
duplice esito: suscitò un’ampia eco nelle scritture scientifiche dei letterati
più attenti al problema cosmologico e corografico o decisamente orientati
verso il settore della produzione cartografica, mentre si affacciò più som-
messamente e in forme diverse nelle opere prodotte da chi si mostrava più
sensibile alle tematiche astronomiche, con le loro implicazioni astrologiche,
o, più genericamente, si piegava alle esigenze di un testo letterariamente at-
teggiato, che seguisse i moduli e gli schemi di una tipologia di generi codi-
ficati dalla tradizione. Ciò spiega la ragione dello scarto avvertibile, ad e-
sempio, tra la produzione pontaniana, nella quale affiora solo sporadica-
mente qualche cenno alle terre «nuovamente scoperte» dai Portoghesi e da-
gli Spagnoli grazie all’apertura delle rotte oceaniche verso Occidente e ver-
so Oriente11, e gli scritti di un medico e filosofo, come l’umanista salentino
Antonio De Ferrariis Galateo, nei quali si rintraccia ben più che un rapido ri-
ferimento ad esse12. Il disomogeneo atteggiamento non è necessariamente
indice della maggiore o minore attenzione riservata da un autore alle grosse
questioni che le scoperte inevitabilmente sollevavano, ma piuttosto è la regi-
strazione della diversa incidenza che a livelli quantitativamente, ma non an-
che qualitativamente diversificati, ebbero sul prodotto letterario quegli even-
ti, perché essi non solo servirono per riscrivere le antiche teorie cosmologi-
che, ma alimentarono un ambiguo senso di palingenesi e di rinnovamento at-
tivando o rinverdendo diffusi desideri di mutamento, fortemente radicati nel
popolo così come nell’élite culturale contemporanea, e che avevano ascen-
denze diverse e non sempre, perciò, facilmente riconducibili con certezza al
solo elemento religioso, magico, profetico o socio-politico. Le scoperte, in

11 Per la navigazione del «sinus Hesperius» e la scoperta dell’America da par-


te degli Spagnoli si rinvia a GIOVANNI PONTANO, De rebus coelestibus, Napoli 1512,
l. XIV, c. Z1v; per la scoperta delle isole atlantiche e la circumnavigazione dell’A-
frica da parte dei Portoghesi v. invece l’ecloga pontaniana Acon, vv. 28-36, e il De
hortis Hesperidum, I, vv. 346-368, e II, vv. 414 e ss. (si accenna al primo viaggio di
Vasco de Gama del 1497-99; il poemetto fu concluso nel 1502, ma avviato già al-
cuni anni prima): cfr. BLESSICH, La geografia cit.; L. MONTI SABIA, Echi di scoper-
te geografiche in opere di Giovanni Pontano, in Columbeis V cit., pp. 283-303; F.
TATEO, L’etica umanistica di fronte alle ‘scoperte’, «Rassegna europea di letteratu-
ra italiana», 1 (1993), pp. 193-204; M. DE NICHILO, Lo sconosciuto apografo avel-
linese del «De hortis Hesperidum» di G. Pontano, «Filologia e critica», 2 (1977),
pp. 217-224; I. NUOVO, Mito e Natura nel De hortis Hesperidum di Giovanni Pon-
tano, in Acta Conventus Neo-Latini Bariensis, ed. by J.F. ALCINA-J.DILLON-W.
LUDWIG-C.NATIVELLE-M. DE NICHILO-S. RYLE, Tempe Ar. 1998, pp. 453-460.
12 Per Galateo si rinvia alla ‘voce’ curata da A. IURILLI per il secondo tomo di

Centuriae Latinae, Ginevra 2001 e alla aggiornata bibliografia critica che la correda.
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I RIFLESSI DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA 361

tal caso, venivano interpretate come l’atteso segnale dell’inizio di una nuo-
va era e si avviavano a costituire non tanto l’oggetto diretto della trattazio-
ne, ma piuttosto la motivazione sottaciuta di questa. Ma su questi problemi
ci si soffermerà più diffusamente sulla seconda parte di questo saggio.
Ora, una sicura testimonianza, viva e diretta, di quei dibattiti che coin-
volsero l’ambiente di corte nello scorcio del secolo XV è conservata negli o-
puscoli scientifici del Galateo, che furono pubblicati a Basilea nel 1558, un
quarantennio dopo la morte del loro autore, a cura del Marchese di Oria Gio-
vanni Bernardino Bonifacio, conterraneo dell’umanista13. Il De situ elemen-
torum, il De situ terrarum e l’Argonautica, sive de Hierosolymitana pere-
grinatione14 possono essere letti come tre momenti di una unitaria ricerca
che muove dalla rivisitazione delle tematiche cosmologiche per approdare

13 È il secondo volume previsto dall’ambizioso progetto concepito dal Bonifacio


a metà Cinquecento, un trentennio dopo la morte del Galateo, e immaturamente in-
terrottosi con quella pubblicazione, di raccogliere, risistemare e dare per la prima vol-
ta alle stampe l’intera produzione letteraria dell’umanista salentino; su di esso v. M.
E. WELTI, G. B. Bonifacio, Marchese di Oria, im Exil, 1557-1597. Eine Biographie
und ein Beitrag zur Geschichte des Philippismus, Ginevra 1976; ID., Dall’Umanesi-
mo alla riforma. Giovanni Bernardino Bonifacio Marchese di Oria, 1517-1557, Brin-
disi 1986; ID., Il progetto fallito di un’edizione cinquecentesca delle opere complete
di A. De Ferrariis, detto il Galateo, «Archivio storico per le province napoletane», III,
10 (1972), pp. 179-191.
14 Gli opuscoli sono indirizzati, in forma di epistola, i primi due al Sannazaro

e il terzo ad Andrea Matteo Acquaviva e si leggono nell’ordine alle pp. 9-63, 65-80,
81-87 della stampa basileense cit.; sono preceduti da una dedicatoria del Bonifacio
al patrizio veneto Vincenzo Cappello, datata il giorno di Capodanno del 1558, e so-
no seguiti da un quarto e un quinto opuscolo, entrambi adespoti e di cui è dubbia
l’attribuzione al Galateo, sul livello e l’estesione della massa acquea del globo ri-
spetto a quella terrestre e sulla origine dei fiumi, il Libellus de mari et aquis (pp. 89-
113) e il De fluviorum origine (pp. 114-120), e dall’operetta di analogo contenuto
di Sebastiano Foxio Morzillo, De aquarum origine (pp. 121-143), cui sono pospo-
sti l’indice dei nomi e delle cose notevoli (cc. K5r-I3v), l’Errata corrige e in ap-
pendice, con numerazione propria, l’In Alphonsum regem epithaphium del Galateo:
v. P. ANDRIOLI NEMOLA, Catalogo delle opere di A. De’ Ferrariis (Galateo), Lecce
1982, pp. 73-75, 188-190, 205-210, 278 e ss., cui si rinvia anche per i problemi di
datazione e per la bibliografia specifica; per la tradizione manoscritta v. invece A.
IURILLI, L’opera di Antonio Galateo nella tradizione manoscritta. Catalogo, Napo-
li 1990. Il De situ terrarum e il De Hierosolymitana peregrinatione sono stati ri-
pubblicati modernamente in ANTONIO DE FERRARIIS GALATEO, Epistole, ed. critica a
cura di A. ALTAMURA, Lecce 1959, pp. 23-31 e 77-80; del primo opuscolo ha forni-
to l’edizione, fondata su un testo criticamente curato, e la traduzione F. Tateo in AN-
TONIO GALATEO, Epistole, in Puglia Neo-Latina. Un itinerario del Rinascimento fra
autori e testi, a cura di F. TATEO-M. DE NICHILO-P. SISTO, Bari 1994, pp. 62-79: su
di esso v. anche TATEO, L’etica umanistica cit.
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362 DOMENICO DEFILIPPIS-ISABELLA NUOVO

alla descrizione, squisitamente geografica, del viaggio verso Gerusalemme.


La forma del trattato, che caratterizza il primo opuscolo, muta adeguandosi
ai canoni della dialogistica nel secondo, per stemperarsi, nel terzo, in una
sorta di immaginario racconto di viaggio, ricco di riferimenti topografici fin
troppo noti per una meta assai frequentata dai Cristiani, ma anche carico di
inquietanti sollecitazioni di natura decisamente etica. Elemento caratteriz-
zante comune ai tre scritti, di cui si avverte costantemente la presenza, seb-
bene sia ora relegato sullo sfondo del discorso, ora, invece, diventi prepo-
tentemente il protagonista della narrazione, è l’animata discussione apertasi
a corte intorno alle notizie che si rincorrevano velocemente sulle nuove sco-
perte compiute dai navigatori portoghesi e spagnoli15. L’arco cronologico,
che delimita la composizione degli opuscoli e la serie degli avvenimenti cui
in quelli si accenna, va dal 1492-1494 ai primissimi anni del Cinquecento,
coincidendo quindi significativamente col pontificato di Alessandro VI
(1492-1503). È un periodo non certo felice per la dinastia aragonese, trava-
gliato com’è dalle lotte seguite alla discesa di Carlo VIII (1494) prima e al-
l’apertura del lungo conflitto franco-spagnolo subito dopo, che segnarono i-
nesorabilmente la fine del dominio aragonese nel Mezzogiorno d’Italia16.
Ma il prevedibile clima di tensione e di incertezza, che pur doveva connota-
re nel fondo quelle riunioni, non traspare immediatamente negli scritti gala-
teani, ove, al contrario, domina la pacificata atmosfera delle dispute umani-
stiche tra i sodales dell’Accademia17, che non significa estraneità dal reale,
quanto piuttosto capacità di saper guardare al di là del contingente per riu-
scire a cogliere ed interpretare in senso più complessivo e profondo delle i-
nedite conoscenze via via acquisite e a sfruttare semmai poi i risultati di un
dialogo teorico per fini più dichiaratamente pratici, come la difesa dello Sta-
to o la formulazione di un diverso giudizio sui mutati equilibri internaziona-
li. Il forte pragmatismo, che caratterizza le scelte politiche del governo ara-
gonese, determinate, a Napoli più che in altri Stati regionali italiani, da una
insanabile instabilità del potere regio, costantemente minacciato dalla com-

15 Cfr. R. ALMAGIÀ, La geografia fisica in Italia nel Cinquecento, in ALMAGIÀ,


Scritti cit., p. 180 e ss.; F. SURDICH, Verso il Nuovo Mondo. La dimensione e la co-
scienza delle scoperte, Firenze 1991, pp. 69, 84-94; M. MILANESI, Tolomeo sosti-
tuito. Studi di storia delle conoscenze geografiche nel XVI secolo, Milano 1984.
16 Cfr. G. D’AGOSTINO, La capitale ambigua. Napoli dal 1458 al 1580, Napo-

li 1979.
17 L’analogia tra queste discussioni e quelle tenute presso l’Accademia ponta-

niana consente di stabilire un rapporto con lo svolgimento e le finalità di queste ul-


time, ben noti dai Dialoghi dello stesso Pontano, sui quali v. F. TATEO, Umanesimo
etico di Giovanni Pontano, Lecce 1972; SANTORO, La cultura umanistica cit., pp.
375 e ss.
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I RIFLESSI DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA 363

ponente baronale del Regno, aveva trovato un valido supporto nell’élite cul-
turale, sempre attenta a garantirne il prestigio, sebbene fosse però non sem-
pre disposta a rinnegare le antiche prerogative di gestione del potere vantate
dalla potente nobiltà regnicola tout-court: si pensi ai trattati delle virtù so-
ciali del Pontano, o agli opuscoli del Caracciolo, o ai Memoriali del Carafa,
da cui emana una forte traccia di realismo politico18. Ma le res, l’esperienza,
non possono da sole produrre la scientia: occorre infatti il preventivo con-
fronto con i verba perché possa elaborarsi un giudizio veritiero, equilibrato,
maturo, insomma esatto. «Tunc enim res bene cedit […], ut Aristoteles ait in
libro de Coelo, [...] quando ratio apparentibus attestatur et apparentia ratio-
ni; cum haec duo sibi invicem non consentiunt omnia falsa, omnia erronea
sunt»19. Muove da questo assunto aristotelico, ricordato in un trattatello co-
rografico, il De situ Iapygiae, ma sinteticamente richiamato anche nel De si-
tu elementorum20, la severa analisi critica cui il Galateo sottopone le scon-
volgenti notizie che giungono, per vie diverse, alla corte napoletana. Da un
canto le relazioni di viaggio e l’esperienza diretta dei naviganti, i cui racconti
sono talora così sovvertitori delle idee correnti da apparire incredibili e per-
ciò poco degni di fede; dall’altro la parola autorevole degli auctores, che non

18 Cfr. GIOVANNI PONTANO, I libri delle virtù sociali, a cura di F. TATEO, Roma

1999; M. SANTORO, Tristano Caracciolo e la cultura napoletana della Rinascenza,


Napoli 1957; ID., L’ideale della ‘prudenza’ e la realtà contemporanea negli scritti
di T. Caracciolo, in SANTORO, Fortuna, ragione e prudenza nella civiltà letteraria
del Cinquecento, Napoli 1967, pp. 73-133: 97-115; G. VITALE, L’umanista Tristano
Caracciolo ed i Principi di Melfi, «Archivio storico per le province napoletane», 81
(1962), pp. 343-381; DIOMEDE CARAFA, Memoriali, ed. critica a cura di F. PETRUC-
CI NARDELLI, note linguistiche e glossario di A. LUPIS, Roma 1988.
19 GALATEI Liber de situ Iapygiae cit., pp. 118-119: cfr. ARISTOTELES, De cae-

lo, I, 3, 270b. Sull’operetta corografica galateana v. F. TATEO, La Magna Grecia nel-


l’antiquaria del Rinascimento, e G. SALMERI, L’idea di Magna Grecia dall’Umane-
simo all’unità d’Italia, in Eredità della Magna Grecia, (Atti del trentacinquesimo
Convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto, 6-10 ottobre 1995), Napoli 1998,
pp. 149-163 e 29 e ss.; D. DEFILIPPIS, L’edizione basileense e la tradizione mano-
scritta del De situ Iapygiae di Antonio De Ferrariis Galateo, «Quaderni» dell’Isti-
tuto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale, 1 (1984), pp. 23-50; ID., Di
un nuovo codice del «De situ Iapygiae» di Antonio Galateo, «Quaderni» dell’Isti-
tuto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale, 6 (1989), pp. 5-28; ID., De-
scrivere la terra: le fonti classiche nel Liber de situ Iapygiae di Antonio De Ferra-
riis Galateo, in Acta Conventus Neo-Latini Bariensis cit., pp. 199-208.
20 «Neque quispiam dixerit montuosam esse aquam aut miraculose contineri,

nisi qui, quod obiectis nesciat respondere, sensum ipsum et rerum apparentiam et,
ut Cicero ait, visa et perspicua negaverit. Nam negare sensum propter rationem, ra-
tionis est indigere»: ANTONII GALATEI Liber de situ elementorum, Basilea 1558, p.
23 (il nesso ciceroniano rinvia forse a De inventione, 2, 22, 65).
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364 DOMENICO DEFILIPPIS-ISABELLA NUOVO

è lecito contraddire avventatamente. Difficile è trovare un punto di media-


zione accettabile tra questi due modi contrapposti di approccio con il reale,
che consenta di indirizzare alla vera scientia. Il momento di sbando, di tra-
vaglio interiore dell’umanista acquista, nel De situ elementorum, toni dram-
matici nella sequenza affannosa, direi incontrollata, di una serie di testimo-
nianze variamente affastellate e desunte alternativamente dagli auctores e
dai contemporanei esploratori dell’Oceano. La fede negli antichi vacilla, ma
il Galateo è perplesso, fortemente indeciso: le scoperte impongono un volo
intellettuale non meno folle di quello di Ulisse, per chi ha creduto e crede
fermamente nella superiorità degli antichi. Rinnegare Tolomeo in nome di
un dato non sufficientemente attendibile non si addice ad uno scienziato at-
tento e rigoroso; ma anche arroccarsi su convinzioni che vengono giornal-
mente sconfessate non è degno di un uomo saggio e prudente: si rischia, in
questo caso, di ripetere lo stesso errore epistemologico commesso dai dotti
dell’età di mezzo, come Alberto Magno, i quali pur sono scusabili perché
«nondum [...] ad Latinos pervenerat Cosmographia Ptolemaei et Strabonis,
Plinius quoque a paucis legebatur»21. Ma ora che le opere del passato sono
note, conosciute e ampiamente commentate, la scelta è inaspettatamente an-
cor più difficile, perché se la manifesta ignoranza di chi ha sbagliato può ren-
dere indulgenti22, la consapevole e dichiarata perseveranza nell’errore da
parte di chi dispone di tutti i mezzi per formulare un giudizio esatto, abilita
ad una condanna e ad una riprovazione inappellabili. Galateo non possiede
né quel bagaglio limitato di nozioni geografiche ereditate dalla tradizione
classica esibito da Colombo nella lettura dell’Historia rerum ubique gesta-
rum di Pio II, della Naturalis historia pliniana, dell’Imago mundi di Pierre
d’Ailly23, né l’esperienza faticosamente maturata dal Genovese con le sue

21 GALATEI Liber de situ elementorum cit., p. 58.


22 «Albertus Alemanus seu, ut quidam volunt, Magnus, quid sentiret de situ ter-
rae et aquae nunquam potui intelligere, ita inculcata et involuta sunt verba illius, ut
cogant me putare ipsum quid sibi vellet minime intellexisse. Nescio quam Amphi-
tritem et puncta Orientis et terram aqua, ut zona quadam, cinctam somniat et, ut
multiscius haberetur, libros suos refersit mirabilibus et fabulosis opinionibus. Sed
detur culpa temporibus»: ibid., p. 58
23 Le tre opere furono note, rispettivamente nelle edizioni del 1477, del 1489

(traduzione italiana del Landino) e in quella del 1480-1483, a Colombo, che lasciò
traccia della sua lettura nelle postille apposte nei margini dei volumi a lui apparte-
nuti e ora custoditi presso la Biblioteca Colombina di Siviglia: v. J. GIL, Le postille
colombiane, in C. COLOMBO, Gli scritti, a cura di C. VARELA, Introduzione di J. GIL,
ed. ital. a cura di P. COLLO, traduzione e revisione di P. L. CROVETTO, Torino 1992,
pp. XL-XLIII, e 3-10; E. SARMATI, Le postille di Colombo all’Imago mundi di Pier-
re d’Ailly, in Columbeis IV, Genova 1990, pp. 23-42; F. RICO, Il Nuovo Mondo di
Nebrija e Colombo. Note sulla geografia umanistica in Spagna e sul contesto intel-
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I RIFLESSI DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA 365

navigazioni oceaniche. In lui, umanista, più che la ragionata audacia di Co-


lombo, agisce il freno inibitore dei verba, della meditata lettura di quegli
auctores greci e latini, su cui lo stesso Pio II aveva fondato la costruzione
dell’Historia. Il dramma dell’autore è tuttavia sapientemente celato nella
finzione del gioco letterario, perché la struttura espositiva del De situ ele-
mentorum finisce per racchiudere al suo interno, quasi inavvertito e inavver-
tibile, una delle motivazioni più irrinunciabili della composizione dell’ope-
retta. Galateo è retore finissimo, nonostante le reiterate e provocatorie smen-
tite a riguardo assai frequenti nei suoi scritti. Per indirizzare il lettore ad un
tipo di conoscenza che conduca alla verità attraverso la consapevole e razio-
nale elaborazione di una pluralità di dati, l’umanista offre infatti tutti gli e-
lementi che possano concorrere ad esprimere un giudizio corretto e rilancia
perciò la questione che più gli interessa discutere, quella della circumnavi-
gabilità dell’Africa, nel più ampio dibattito cosmologico sul sito degli ele-
menti.
Il De situ elementorum si apre con una dotta descrizione del mondo
sublunare, quello, cioè, che contiene i quattro elementi. L’illustrazione dei
‘siti’ rispettivamente occupati da fuoco, aria, acqua e terra segue percorsi
argomentativi già tracciati da Aristotele nelle Meteore e nel De caelo, da
Cicerone nel De natura deorum, da Macrobio nei Saturnalia e nel Com-
mento al Somnium Scipionis, da Plinio nella Naturalis historia, e non sde-
gna di avvalersi dell’autorità di Tommaso, di Averroé, di Alfragano, né
manca di richiamarsi a poeti come Omero, Virgilio e Lucano. Ma all’in-
terno di questo tracciato, così umanisticamente atteggiato, affiora un pri-
mo dubbio irrisolto, se, cioè, la superficie delle acque sia più estesa di
quella delle terre emerse o viceversa, che pare preannunziare il successivo
dibattito sulla circumnavigazione dell’Africa. La questione non è di poca
importanza, poiché ad essa veniva indissolubilmente connessa l’ipotesi di
poter raggiungere le Indie in tempi ragionevolmente brevi navigando ver-
so Ovest. Colombo, com’è noto, seguendo una convinzione diffusa, rite-
neva, con Marino di Tiro e col profeta Esdra, che la massa continentale eu-

lettuale della scoperta dell’America, in Vestigia. Studi in onore di G. Billanovich, a


cura di R. AVESANI-M. FERRARI-T. FOFFANO-G. FRASSO-A. SOTTILI, Roma 1984, pp.
575-607: 601; v. anche per le conoscenze e gli studi dell’Ammiraglio La storia del
viaggio che l’Ammiraglio Don Cristoforo Colombo fece la terza volta che venne al-
le Indie, quando scoprì la terra ferma, qual egli la inviò ai Re dall’isola Española
del 1498, in COLOMBO, Gli scritti cit., pp. 207-225, e la attenta lettura intepretativa
che del testo offre P. L. CROVETTO, «Andando más, más se sabe». Tradizione e e-
sperienza nella «Relazione del terzo viaggio» di Cristoforo Colombo (Agosto 1498),
in Columbeis V cit., pp. 399-414.
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366 DOMENICO DEFILIPPIS-ISABELLA NUOVO

ro-afro-asiatica occupasse quasi l’intero globo, sicché giudicava che solo


un breve tratto di mare separasse l’Africa dall’India24. Questa teoria non
pareva scalfita né dalla controversa questione dell’antictone, dell’esistenza
cioè di altre terre abitate nella zona climatica temperata meridionale omo-

24 «Quel che io so è che l’anno ’94 navigai 24 gradi a ponente in nove ore e non

poté esservi errore perché vi fu un’eclisse; il sole si trovava in Bilancia e la luna in A-


riete. Tutto questo che io intesi per parola, già l’avevo saputo per iscritto. Tolomeo cre-
dette di aver corretto Marino e al presente gli scritti di questi si reputano assai prossi-
mi al vero. Tolomeo situa Catigara a dodici linee dal suo occidente che egli stabilì es-
sere due gradi e un terzo sopra il capo San Vicente in Portogallo; Marino comprese la
terra e i suoi confini in 15 linee. E lo stesso Marino pone l’Etiopia a più di 24 gradi
dalla linea equinoziale, e ora che i portoghesi navigano in detta regione confermano il
dato. Tolomeo asserisce che la terra più australe è il primo termine e che non scende
oltre i quindici gradi e un terzo. Il mondo è poco; l’emerso ne costituisce sei parti e
solo la settima è coperta d’acqua. L’esperienza lo ha confermato e ne ho scritto in al-
tre lettere con il conforto di passi della Sacra Scrittura riguardo al sito del Paradiso
Terrestre che Santa Madre Chiesa approva. Dico che il mondo non è grande come di-
ce il volgo e che un grado della linea equinoziale è miglia 56 e due terzi e presto si
toccherà con mano»: COLOMBO, Relazione del quarto viaggio, Isola di Giamaica, 7 lu-
glio 1503, in COLOMBO, Gli scritti cit., pp. 337-338. Il dato di geografia fisica per cui
le terre occuperebbero i 6/7 del globo è ricavato da Colombo (v. la lettera del 1498 La
storia del viaggio cit., in COLOMBO, Gli scritti cit., p. 223, ma v. anche più in genera-
le per le suggestioni derivanti dalla lettura degli auctores – Plinio, Seneca, Aristotele,
Tolomeo – e dalle Sacre Scritture, le pp. 221-223) da Esdra, IV, 6: cfr. A. VON HUM-
BOLDT, L’invenzione del Nuovo Mondo: critica della conoscenza geografica, a cura di
C. GREPPI, Firenze 1992, pp. 57 e 111 e ss., R. ALMAGIÀ, Cristoforo Colombo davan-
ti alla scienza, in ALMAGIÀ, Scritti geografici cit., pp. 583-591. Per «il mondo è poco»
v., tra l’altro, l’attestazione del De caelo di Aristotele più avanti citata, e per la vici-
nanza tra le due sponde si ricordi quanto asseriva Seneca: «Qual è infatti la distanza
che intercorre fra gli estremi lidi spagnoli e le coste dell’India? Lo spazio di pochissi-
mi giorni, se la nave è spinta dal vento favorevole. Ma quella regione celeste offre un
viaggio che dura trent’anni al più veloce dei suoi astri» (L.A. SENECA, Questioni na-
turali, 1, Praef. 13, traduzione di D. VOTTERO, rist. Milano 1990, [Torino 1989], p.
217), ma si rinvia, per l’intera questione al cap. III, Le fonti di Colombo secondo il fi-
glio Fernando – Dimensione e forma del globo in base ai testi degli autori classici:
Aristotele, Strabone, Seneca, Platone, Macrobio Esdra, Plutarco, del volume di VON
HUMBOLDT, L’invenzione del Nuovo Mondo cit, pp. 59 e ss., e a J. GIL, De Rubruc a
Colòn, in Columbeis V cit., pp. 415-434, il quale ricorda come il progetto colombia-
no (v. in particolare La storia del viaggio cit., in COLOMBO, Gli scritti cit., pp. 222-
223) si fondasse sul confronto fra le fonti classiche e sulle teorie, che dallo loro lettu-
ra potevano trarsi, elaborate da Pierre d’Ailly nel 1410 ca. (Imago mundi, cap. 8), che,
a sua volta, le aveva tratte dall’Opus maius (1267) di Ruggero Bacone; v. anche, per i
testi, A. VON HUMBOLDT, L’invenzione del Nuovo Mondo cit., pp. 44-46. L’ottimistica
previsione di Aristotele non era tuttavia sempre acriticamente condivisa: dubbi sulla
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I RIFLESSI DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA 367

loga a quella del nostro emisfero, né dalla prospettiva tolemaica che vole-
va Africa e India unite a sud dell’equatore da una «Terra incognita»25. Al
contrario queste posizioni parevano accreditare l’idea, ricorrente nelle
Scritture, che le acque si distendessero appena sulla settima parte del glo-
bo. Credo perciò che il dubbio del Galateo, la sua sospensione di giudizio,
che lo porta ad affermare che «maioris fortasse partis terrae locus sit a-
qua»26, dipenda proprio dalla notizia dei lunghi tratti di costa africana so-
lo di recente riscoperti dai Portoghesi, dopo le mitiche imprese di circum-
navigazione dell’Africa ricordate dai testi dei geografi antichi27. L’effetti-
va estensione del mare al di là del Capo Bojador, designato nelle leggende
medievali e dalla superstizione dei marinai quale estremo limite invalica-
bile, posto all’inizio della zona torrida, e invece superato nel 1434 da Gil
Eannes e Alfonso de Baldaja, l’impresa di Bartolomeo Dias, che nel 1487
aveva raggiunto il Capo di Buona Speranza28 e le resistenze sempre mag-

sua attendibilità sollevava ad esempio l’ambiente monastico di Salamanca a metà


Quattrocento (v. RICO, Il Nuovo Mondo cit., p. 586); anche la lettura della testimo-
nianza senechiana poteva risultare controversa, in quanto quella distanza era stabilita
in rapporto col movimento degli astri, per sottolineare la limitatezza del globo terre-
stre, e non definita in assoluto, sulla base dell’esperienza.
25 Si tratta dell’«errore più sorprendente del geografo alessandrino», come op-

portunamente sottolinea N. BROC, La geografia del Rinascimento. Cosmografi, car-


tografi, viaggiatori. 1420-1620, Modena 1989, p. 10.
26 «Globus vero qui ex terra et aquae mole constat, ab ipso circumfluo aere am-

bitur, ita aqua et terra intermixtas habent regiones et consitas. Et quamvis maioris for-
tasse partis terrae locus sit aqua, tamen nulli dubium est quod illarum partium, quas a-
qua non inundat, quas nos incolimus, locus est aer»: GALATEI Liber de situ elemento-
rum cit., p. 13, ma v. anche la successiva nota 33. Nell’ultima revisione dell’opera, co-
me si vedrà più avanti, Galateo avrebbe mostrato minore reticenza nel sostenere la
propria opinione sulla maggior superficie delle acque rispetto alle terre emerse.
27 Cfr. R. ALMAGIÀ, La geografia nell’età classica e Concetto e indirizzi della geo-

grafia attraverso i tempi, in ALMAGIÀ, Scritti geografici cit., pp. 325-406 e 553-573; M.
MILANESI, Tolomeo sostituito cit., pp. 75-143; S.E. MORRISON, Storia della scoperta
dell’America, I. Viaggi del Nord, Milano 1976, pp. 15-23; M. DE NARDIS, Aristotelismo
e doxografia antica (ancora sul Perì tês toû Neílou anabàseos), «Geographia antiqua»,
1 (1992), pp. 89-108, e J. DESANGES, La face cachée de l’Afrique selon Pomponius Mé-
la, «Geographia antiqua», 3-4 (1994-1995), pp. 79-88; G. GAGGERO, Conquistatori ai
confini del mondo. Le imprese di Sesostri, Semiramide, Tearco, Nabucodonosor tra
realtà storica e deformazione leggendaria, in Columbeis VI, Genova 1997, pp. 7-37.
28 Cfr. BROC, La geografia cit., pp. 43 e 62; SURDICH, Verso il Nuovo Mondo

cit., p. 23; ID., L’Africa cit., pp. 195-196 e 212-213, cui si rinvia per un dettagliato
elenco cronologicamente ordinato dei ‘progressi’ compiuti dai Portoghesi nel Quat-
trocento, fino a giungere al superamento dell’equatore (1474) e quindi alla circum-
navigazione dell’Africa: sull’impresa del Dias v. nota 47.
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368 DOMENICO DEFILIPPIS-ISABELLA NUOVO

giori che incontrava anche fra i dotti l’ipotesi tolemaica dell’esistenza del-
la «Terra incognita», ipotesi di cui già Pio II aveva sottolineato la fragi-
lità29, imposero probabilmente al Galateo un atteggiamento più cauto. E
proprio la più generale quaestio de aqua et terra costituiva l’oggetto pri-
vilegiato della trattazione del De situ elementorum. Le prove addotte per
dirimere una quaestio ampiamente dibattuta nelle età precedenti – si pen-
si solo agli interventi di Alberto Magno o dello stesso Dante –, non rivela-
no grosse novità metodologiche: Galateo risolve il quesito sulle ragioni
della maggiore altezza delle terre abitabili rispetto al livello del mare e
spiega i motivi per cui la terra, pur essendo più pesante dell’acqua, la so-
vrasti, adducendo le testimonianze degli auctores già menzionati e ricor-
rendo alla forza inattaccabile dell’esperienza; ma premette a questa sezio-
ne dimostrativa dei prolegomena, necessari alla corretta impostazione del
problema, tra i quali colloca il lungo excursus in cui annota e discute il si-
gnificato delle recenti scoperte geografiche30.
Occorre, a questo punto, definire con maggior precisione i limiti cro-
nologici della composizione del De situ elementorum. Il trattato è indub-
biamente la registrazione letteraria di una o più discussioni su quel tema,
reso attuale dalla apertura delle nuove rotte oceaniche, svoltesi tra gli acca-
demici, presso la corte, alla presenza di Federico d’Aragona e di altri nobi-
li del Regno. Un’immagine assai precisa di quegli incontri ci è restituita
dallo stesso Galateo nel De situ terrarum, ove il contesto dialogico consen-
te una più precisa schematizzazione delle posizioni espresse dai singoli in-
terlocutori. Ma anche nel De situ elementorum l’opzione per la forma del
trattato non impedisce all’autore di offrire ampi squarci di carattere vaga-
mente dialogico. In essi domina la figura del re Federico, unico ad essere
menzionato tra i protagonisti di un dibattito sicuramente a più voci: «inter
disputandum», dice l’umanista. Galateo ne ricorda innanzitutto l’abitudine
di definire ‘parentesi’ le inevitabili e non inutili considerazioni accessorie

29 ENEAE SILVII PICCOLOMINI Historia rerum ubique gestarum, cap. IV, in O-

pera omnia, Basilea 1551, pp. 284-285: «Consensu omnium receptum est totius
habitabilis treis praecipuas existere portiones, quarum prae magnitudine prima est
Asia, secunda est Aphrica, tertia Europa. Asia coniungitur Aphricae (sicut Ptole-
maeo visum est) per dorsum Arabiae, quod mare nostrum ab Arabico sinu di-
siungit. Nemo id negat, sed adiicit ille alio in loco coniungi per terram incogni-
tam, quae Indicum pelagus circumplectitur, in qua sententia pene solus est. Om-
neis enim quos offendumus de situ orbis scribenteis, mare Indicum ad Austrum et
Orientem sine terminis ponunt, et partem Oceani esse volunt, sicut ab his tradi-
tum est, qui ab Arabico sinu in Atlanticum mare et ad columnas Herculis naviga-
runt».
30 Cfr. TATEO, L’etica umanistica cit.
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I RIFLESSI DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA 369

che il complesso tema «de naturae mirabilibus»31 imponeva ai partecipanti


alla discussione; quindi affida all’autorevole intervento del sovrano la pro-
posta più probante per la risoluzione della prima quaestio sull’altezza dei
mari e delle terre emerse32. La scena del testo rinvia perciò decisamente agli
anni del regno di Federico (1496-1501). Fu quello un momento di grande
travaglio politico e istituzionale per Napoli, che favorì tuttavia la ripresa di
una più attiva collaborazione tra letterati e potere e tra re e ceto baronale, re-
sa necessaria dall’esigenza di rinsaldare l’immagine del dominio aragonese
fin troppo appannata dai tentativi operati da Francesi e Spagnoli di impos-
sessarsi del Mezzogiorno d’Italia. Nel De situ elementorum però l’usuale o-
maggio rivolto al sovrano dal letterato di corte si carica di una struggente no-
stalgia, fortemente venata di rammarico e di rimpianto per un’epoca caratte-
rizzata da una irripetibile forma di civilitas che la vittoria degli Spagnoli e il
volontario esilio di Federico in Francia avevano definitivamente distrutto.
Non è un caso infatti che il De situ elementorum e il De situ terrarum siano
entrambi destinati al Sannazaro, che di quel mondo sembrava essere l’idea-
le continuatore una volta tornato a Napoli dalla Francia, dove aveva fedel-
mente seguito il suo re (1501), restandogli vicino fino alla morte (novembre
1504). Il problema della circumnavigabilità dell’Africa si pone quando il
Galateo affronta la vexata quaestio della unicità dell’Oceano e dei collega-
menti esistenti tra i vari mari interni: «Terrae autem partes omnes ad com-
munes terminos coniunguntur nec est aliqua pars terrae, quae non terrae
cohaereat, sive continentem spectare velis, sive insulas. Occiduo Oceano in-
ternum mare ad Herculeum fretum iungitur. Attamen Indicum pelagus, a
Ptolemaeo magnae autoritatis viro circumseptum undique littoribus descri-
bitur, quod secus esse Lusitani navigantes nostra aetate demonstravere»33.
L’esperienza contraddice l’auctoritas tolemaica, ma l’umanista non è

31 «Quum de naturae mirabilibus loquimur, semper quaestio alia aliam trudit,

et haec est nostra, ut scis, parenthesis: sic enim rex Federicus appellare solebat»:
GALATEI Liber de situ elementorum cit., p. 15.
32 «Imprimis assero rationem Achilleam, quam ipse rex Federicus pro ingenii

sui magnitudine inter disputandum ex tempore assignavit»: ibid., p. 25.


33 Ibid., p. 18, e cfr. nota 8. La tesi galateana, che ribalta quella tradizionale se-

condo cui l’Oceano circonderebbe tutta la terra emersa e non viceversa, trova un au-
torevole precursore nell’agostiniano Jaime Pérez de Valencia († 1490), che nelle sue
Expositiones in CL Psalmos dedicate a Rodrigo Borgia, il futuro Alessandro VI,
stampate a Valencia nel 1484, ma composte tra il 1478 e il 1480, asseriva: «Oceanus
non circuit totam terram, ut vulgares putant, ymo clauditur undique montibus, nam
litora eius orientalia et etiam meridionalia sunt nobis nota, licet occidentalia et aqui-
lonaria sint ignota; sed multe et vaste insule reperte sunt a nautis versus occasum; nec
enim multum distant litora occidentalia eius, secundum Aristotelem in fine secundi
De caelo»; ma diversamente dall’umanista salentino egli riteneva, concordemente
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370 DOMENICO DEFILIPPIS-ISABELLA NUOVO

disposto ad arrendersi ai moderni esploratori senza combattere, senza ten-


tare di smentire il probabile errore antico servendosi della parola degli stes-
si antichi; e infatti per contestare l’assunto tolemaico egli ricorre a quanto
Aristotele aveva affermato nel libro sulle inondazioni del Nilo e nelle Me-
teore: le parole del filosofo greco inducono a riflettere, a meditare più at-
tentamente sul problema, se non addirittura a far prefigurare le recenti sco-
perte africane: «In Libello de inundatione Nili, qui inter libros Aristotelis le-
gitur, scriptum est: ‘Nullum enim audivimus dignum fide de Rubro mari, u-
trum ipsum per se ipsum est, an coniungitur ad id quod extra Herculeas co-
lumnas’. Sed parum infra: ‘Lybiam amphitalassam esse aiunt’, hoc est ma-
ri circunfluum34. Aristoteles 2. Meteor.: ‘Rubrum’, inquit, ‘mare videtur
quod modicum communicans ad id, quod est extra columnas, mare; Hyrca-
num autem et Caspium separatum ab hoc et circumhabitatum circuitu’»35.
Il dubbio sollevato da Aristotele circa il probabile congiungimento del Mar
Rosso con l’Oceano resta tuttavia sostanzialmente irrisolto, perché l’esito
della controversia è ancora affidata a voci non confermate, non certe: ‘di-
cono’, ‘sembra’ scrive Aristotele riportando i termini di un’ipotesi avanza-
ta da altri e – si direbbe – non del tutto condivisa da lui, che nel De coelo
asserisce: «Per modo che da tutto questo risulta evidente non solo che la
forma della terra è quella d’una sfera, ma anche d’una sfera non molto gran-
de, perché altrimenti non renderebbe così rapidamente visibile il mutamen-
to degli astri, quando poi ci spostiamo di così poco. Perciò non ci deve sem-
brare troppo incredibile l’opinione di quelli che ritengono che la regione

con le Scritture e col profeta Esdra che «Nec mare est maius terra, ut quidam putant,
ymo terra est maior in spacio septies quod omnia maria, ut legitur in tercio libro E-
sdre capitulo vi, ubi sic dicitur […]. Ex supradictis patet quod terra est maior omni-
bus maribus septupliciter, et tamen mare quod dicimus Oceanus est magnum et ex-
tensum per multos sinus et brachia, ut dictum est» (si cita da GIL, De Rubruc a Colòn
cit., pp. 427-428, note 29 e 30, che utilizza l’ed. di Lione del 1531): è quindi ben
comprensibile in tale varietà di opinioni il «fortasse» del Galateo (v. nota 26).
34 GALATEI Liber de situ elementorum cit., p. 18: il testo diverge solo per l’as-

senza di nondum dopo fide e per la presenza di an invece che aut da quello moder-
namente edito da F. JACOBY (PSEUDO-ARISTOTELE, Perì tês toû Neílou anabáseos, in
FGrHist, 646 F 1, pp. 195, rr. 22-24 e 198, r. 8); sull’attribuzione dell’opera ad A-
ristotele nota solo attraverso la traduzione latina, sulla diffusione di quest’ultima in
età medievale e umanistica e sulla sua importanza nel dibattito geografico sulla cir-
cumnavigabilità dell’Africa si rinvia a DE NARDIS, Aristotelismo e doxografia anti-
ca cit., e alla bibliografia ivi cit.
35 GALATEI Liber de situ elementorum cit., p. 18 (= ARISTOTELE, Meteorologi-

ca, 353b).
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I RIFLESSI DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA 371

delle colonne d’Ercole confina con quella dell’India, e che in tal modo il
mare è uno solo. Essi affermano questo ritenendo che ne siano un indizio
anche gli elefanti, la cui specie si ritrova nelle due regioni estreme; e que-
sto accadrebbe in quanto i due estremi si toccano. […] Argomentando sul-
la base di tutti questi elementi, abbiamo che non solo la mole della terra ri-
sulta di necessità sferica, ma anche che essa non è grande, se la si raffron-
ta alla dimensione degli altri astri»36.
Certo Galateo ben conosceva quel passo del De caelo, che è opera am-
piamente utilizzata nella stesura del De situ elementorum, ma in questa oc-
casione volutamente ‘dimenticata’, e sapeva bene perciò che richiamarsi ai
testi aristotelici, in contrasto tra loro, non avrebbe potuto fornire un appi-
glio sicuro. E non lo convinceva neppure l’opinione dei geografi antichi,
quali ad esempio Mela e Plinio, ripreso, quest’ultimo anche da Marziano
Capella, che avevano con maggior vigore confortato l’idea del collegamen-
to tra i due mari. L’umanista infatti, pur affermando che concorderebbero con
l’ipotesi riportata da Aristotele le idee di costoro – che tuttavia non nomina
in modo esplicito («Nec me latet nonnullos ex veteribus esse, qui hoc ipsum
sentiant») –, i quali «asserant testes quosdam e Mauritania et Gadibus sol-
visse atque ad Rubrum mare et Arabiam et ex Arabia in Gaditanos fines, cir-
cumlustrata tota fere Africa, pervenisse et rostra aliaque fragmenta Lusitana-
rum navium reperta fuisse in Arabico sinu»37, finiva poi per avvertire l’indi-
lazionabile esigenza di richiamarsi ancora una volta alla propria esperienza di
vita per cercare di dirimere una questione lasciata sostanzialmente irrisolta
dagli antichi. Le testimonianze a favore della circumnavigabilità, che il Ga-
lateo aveva pazientemente intercettato ed elencato, venivano infatti inesora-
bilmente invalidate dai pareri contrari, altrettanto noti e autorevoli che l’u-
manista non riferisce, ma che certamente nel corso della discussione erano
stati sottoposti al vaglio degli interlocutori. In verità quelle testimonianze si
fondavano tutte, indistintamente, su notizie lontane e di seconda mano, intri-
se talora di racconti favolosi, e non sulle conoscenze dirette e sperimentate
degli auctores, e ciò ne inficiava ovviamente il valore probatorio38. Potrebbe
perciò a ragione esser sollevata, anche in questa circostanza, la corretta obie-
zione avanzata dall’umanista-scienziato nel De situ Iapygiae circa l’esisten-
za e l’azione di vampiri: «Mirum est: totum orbem invasit et in miseras erra-
vit fabula gentes, nullo certo auctore, nulla ratione, nullo experimento unus-

36 De caelo, II, 14, 298a, traduzione di O. LONGO, in ARISTOTELE, Opere: Fisi-

ca, Del cielo, Bari 1973, pp. 319-320.


37 GALATEI Liber de situ elementorum cit., p. 19. Cfr. MELA, De chorographia,

3, 89-93; PLINIUS, Naturalis historia, 2, 167 e ss.; 5, 8; MARTIANUS CAPELLA, De


nuptiis Philologiae et Mercurii, 6, 616-621.
38 Cfr. BROC, La geografia cit., pp. 12 e ss.
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372 DOMENICO DEFILIPPIS-ISABELLA NUOVO

quisque credit quae neque vidit, neque vera sunt, stamus alienis et indoctissi-
morum hominum testimoniis [...] et plus fidei auribus, quam oculis adhibe-
mus»39. L’applicazione di una affidabile metodologia della conoscenza esige
perciò di attenersi solo a quanto si è sperimentato di persona e si conosce per
certo. Muovendo da tale presupposto la circumnavigabilità dell’Africa sem-
brerebbe avvalorata, secondo l’umanista, dalla qualità delle merci importate
da alcuni navigatori portoghesi da poco («nuper») ritornati, a loro detta, dal
Mare Indiano e dal golfo della Colchide, l’importante centro commerciale
dell’Oriente, e dal giudizio, autorevolissimo, del genovese Giorgio Interiano,
che aveva dimorato a Napoli, in casa del Sannazaro, mentre il Galateo anda-
va componendo il De situ elementorum. Ora, il passo dell’opuscolo galatea-
no che ci consegna queste informazioni è molto simile ad un altro attestato in
un’operetta di analogo contenuto scientifico, tramandataci da un manoscritto
appartenuto ad Angelo Colocci. Il codice, miscellaneo, accorpa scritti diver-
si, che sarebbero dovuti servire all’umanista marchigiano per comporre una
mai realizzata opera De mensuris. Non si conosce l’autore del De situ ele-
mentorum colocciano40, e incerta è anche l’identificazione della mano del co-
pista dell’opuscolo, nella quale Tateo individua, con qualche riserva, quella
del Pontano41. Ma in questa sede importa non tanto tornare sul difficile pro-
blema dell’attribuzione, quanto analizzare i parallelismi esistenti tra le due te-
stimonianze, per meglio rilevare i tempi e i modi della ricezione delle sco-
perte geografiche presso la corte aragonese.

A. GALATEI Liber de situ elementorum cit., pp. 19-21.

Quidam aiunt missos nuper ab Occidentis regibus, longa naviga-


tione in Indicum mare applicuisse, usque ad Colchidem sinum at-

39 GALATEI Liber de situ Iapygiae cit., p. 116. Il lungo passo, nel quale vengo-

no decisamente smentite anche in questo caso le testimonianze dubbie di Plinio ri-


guardo la «Hermotini Clazomenii […] fabula» (Naturalis historia, 7, 174) e di Se-
neca «de sepulchro incantato» (ma l’attribuzione a Seneca è erronea: si tratta di u-
na svista del Galateo), giudicate assolutamente inattendibili, si chiude con la cita-
zione aristotelica dal De caelo (I, 3, 270b), ricordata in apertura.
40 La struttura d’impianto è tuttavia simile, nella prima parte, a quella dell’o-

monimo testo galateano, sebbene le argomentazioni risultino meno strutturate e or-


ganizzate: «Nel nostro libro […] tutta la questione relativa alla collocazione degli e-
lementi non è che un’introduzione alla descrizione degli oceani, delle terre e dei fiu-
mi. E la questione de aqua et terra, collegata logicamente al problema fisico inizia-
le e inserita nel mezzo del libro, non è che una parentesi prima che si sviluppi la par-
te relativa alla classificazione dei climi e delle zone astronomiche»: TATEO, Gli stu-
di scientifici cit., p. 135 e nota 8 a p. 136.
41 Cfr. TATEO, Gli studi scientifici cit., pp. 150-151.
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I RIFLESSI DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA 373

que inde et piper, et cinamomum, et zinziber, et elephantorum den-


tes deportasse, quae omnia memini me Ferdinando seniore vidis-
se. Idem videtur sentire noster Georgius Italianus (sic! si legga ‘In-
terianus’) Genuensis, vir in peragrando orbe atque in indagando
terrarum situ diligentissimus, qui nobiscum apud te [scil. Sincerum
Sannazarium] Neapoli agebat, dum nos haec conscriberemus. Sed
nescio an illas merces Aphrica quoque gignat. Est enim terra
Aethiopia, ut ait Strabo, Indiae persimilis, unde et recentiores for-
tasse Aethiopiam, Indiam vocant. At legatus quidam Olysiponen-
sium, vel Lusitanorum regis, qui mihi plusquam caeteri illius na-
tionis homines sapere videbatur, mihi narravit neminem eorum qui
a suo rege missi fuerant, ad aequinoctialem usque pervenisse, quod
probatum fuisse aiebat astronomicis instrumentis. Plinius autem
narrat Indos quosdam tempestate delatos in septentrionalem usque
Oceanum et inde a rege Boiorum Romam missos. In hoc ego fidem
meam non obstringam: utatur quisque suo ut velit arbitrio. Haec
omnia, quum libellum scripsimus, non satis certa erant. At nunc
quum edidimus, postremo anno Federici regis, omnes consentiunt
Lusitanos totam circumlustrasse Aphricam et ad mare Indicum
pervenisse, usque ad ostia sinus Arabici et Persici, ibique manum
cum classe Aegyptiorum et Syriae regis, quem Soltanum dicunt,
conseruisse, et demum ad Colchidem sinum aromatum emporium
alterum et usque ad Taprobanem insulam. Hyrcanum mare undi-
que terra clauditur, nec refert si Ptolemaeo non credas dicasque
tam vastum illud mare septentrionali Oceano iungi esse perquam
simillimum veri, quum aquae debeatur suus locus, quam esse
maiorem terra oportere, non sine ratione multi autumant.

De situ elementorum, Vat. lat. 3353, ff. 275r-276v42.

Fines igitur harum gentium [scil. Sinarum] atque extrema sunt


hactenus incomperta, sive ea deserta sint cultu, sive ab oceano
circumdentur, sive post eas, interiectis solitudinibus, sint aliae at-
que aliae nationes. Nam nec defuere qui traderent habitationis no-
strae ultima Oceano undique claudi eumque dirimere habitatio-
nem hanc nostram gentibus ab aliis, quae nos adversus, antarcti-
cum ad polum pertinent. Lusitani, gens hispana, quique hodie
Portugallenses dicuntur, et nostra et patrum nostrorum memoria
Atlanticum primo, inde Hesperiumque enavigarunt Oceanum, I-
spanique item alii Fortunatis potiti sunt insulis ad easque civilem

42 Brano parzialmente già citato in TATEO, Gli studi scientifici cit., nota 9, p. 137.
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374 DOMENICO DEFILIPPIS-ISABELLA NUOVO

cultum religionemque ac ritus Christianos attulerunt; ulteriusque


et hi et illi progressi instituta ad hoc Ispaniarum regibus non se-
mel classe incompertas antea insulas novaque fluviorum repere-
runt hostia novasque adierunt terras. Donec Lusitani multorum
tandem mensium navigatione continuata in indicum delati sunt
mare, atque ad frequentissimum Indiae emporium, cui nomen ho-
die est Colicuti, quantumque assequi coniectura licet, id oppidum
in sinu est colchico intra promontorium, quod est e regione Ta-
probanae, cui vetus fuit nomen Coli. Biennio itaque antequam
haec scribimus ab Ispania in Indiam denuo aperta est navigatio
calaetiis auctoribus ac itineris ducibus, quod non a nautis ipsis
modo Calaetiis renuntiatum est, qui biennio postquam ex Ispania
solverunt reversi sunt e Colicutis in patriam merces referentes in-
dicas, verum his ipsis diebus idem hoc retulit e Bithinia ac Prusia
regressus Neapolim in Italiam vir maximi usus summaeque co-
gnitionis Georgius Interianus, negociator genuensis; cum enim
Prusiae negociaretur reversique essent ex India mercatores bithy-
nei, audivit iisdem de mercatoribus perinde ac novam rem atque
admiratione dignam referentibus, cum ipsi apud Colicutos age-
rent, applicasse eo naves ispanas atque, accepta fide publica, de-
scendisse nautas in continentem patuisseque illorum praefecto ad
regem aditum, qui et ipse Christianus esset, eamque descensio-
nem fuisse molestissimam assyriis mercatoribus, qui illic nego-
ciarentur, quod timerent eripi sibi commercia rerum indicarum
tantamque negociationem ab occiduis mercatoribus ac praesertim
christianis. Haec itaque ab Georgio, cum summa etiam fide refer-
rentur atque optestatione, accepi et ipse literas ab Hieronymo Spi-
nula amplissimo mercatore, quibus idem confirmaretur ex rela-
tione Didaci Diae, qui post reditum e Colicutis in Calaetiam
haud multo post Genuam enavigasset, a quo navigationem quo-
que ipsam omnem cognovisset: solvisse enim classem eam Ca-
laetii regis iussu e promontorio quod non multum abesset ab I-
spali [ex isponali] notissima urbe, quae hodie est Ulispona, atque
in altum digressam longius, post inter occasum meridiemque iter
tenuisse diuturnioremque post navigationem applicuisse ad insu-
las prioribus navigationibus a Calaetiis ipsis occupatas; inde pau-
cis post diebus solvisse cursumque tenuisse longissimum procul
a terrarum omnium conspectu, traiecta aequinoctiali linea, quae
Aethiopiam secat mareque aethiopicum, sinum ultra hesperium,
delatamque a ventis esse lineam versus Capricorni, quippe cum
septemtriones atque arcticas stellas plurimos interim dies nullo
modo prospexerint idque e diurnis ac nocturnis spatiis etiam ani-
madverterint; itaque conversis proris tenuisse iter ad aethiopicum
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I RIFLESSI DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA 375

Africaeque exterioris litus, multosque post dies rursus eis aequi-


noctialem revertisse lineam sensimque conspectis septemtrioni-
bus ac coelo arctico, relicto aethiopico litore, Indicum mare in-
gressam maximoque enavigato pelago delatam esse Colicutos.
Quae quidem res indicat ignorasse Ptolemeum inter Prassum,
Aethiopiae promontorium, et Catigora, Sinarum oppidum, misce-
ri indico mari Oceanum, veraque prodidisse et Melam et Martia-
num, quique alii asseverent indicum mare mediterraneum esse a-
liasque eo e mari in Ispaniam navibus esse penetratum.»

Le testimonianze sembrano essere coeve, perché in ambedue si accen-


na alla spedizione inviata nel golfo della Colchide come appena conclusa-
si, e alla presenza di Giorgio Interiano a Napoli; ma quella del codice ap-
partenuto al Colocci è senza dubbio più ricca di particolari, che ne consen-
tono una più facile datazione. Quest’ultima infatti menziona sommaria-
mente i primi tentativi effettuati dai Portoghesi di spingersi nell’Atlantico
meridionale, nei quali si può leggere un preciso riferimento alle spedizioni
verso Capo Bojador, Capo Verde e Capo di Buona Speranza, e, registrata la
conquista delle «Fortunatae insulae», cioè delle Canarie, da parte degli Spa-
gnoli, accenna alla scoperta di «isole prima sconosciute, di nuovi fiumi e»
– riprendendo un’espressione cara a Colombo dalla pregnante valenza se-
mantica e ideologica – «nuove terre». Queste notizie rinviano quantomeno
agli anni 1492-93 o, con più probabilità, dal momento che si accenna al-
l’allestimento di una flotta ripetutamente («non semel») inviata in esplora-
zione, agli anni 1493-96 e 1498-1500, all’epoca cioè della seconda e della
terza spedizione di Colombo43, tant’è che il rinvenimento di «novaque flu-
viorum … hostia» potrebbe alludere alle foci di quell’Orinoco, ritrovate
dall’Ammiraglio durante il suo terzo viaggio e credute prossime al Paradi-
so terrestre, se quel gran fiume era, com’egli riteneva, il braccio di uno dei
quattro fiumi che scaturiscono dall’Eden44. Subito dopo l’anonimo autore
del De situ elementorum passa ad illustrare, con discorso più disteso e cir-

43 Si vedano il Diario del secondo viaggio e il Diario del terzo viaggio pub-
blicati in Nuovo Mondo. Gli Italiani. 1492-1565, Torino 1991, pp. 32 e ss.
44 «E credo che nessuno potrà mai raggiungere la vetta come ho già detto, e

credo che quest’acqua possa scaturire proprio da quel luogo per quanto lontano e
poi sfociare là da dove io vengo, formandovi questo lago. Grandi indizi del Paradi-
so terrestre sono questi, perché tale sito è conforme all’opinione di questi santi e sa-
cri teologi»: COLOMBO, Diario del terzo viaggio, in Nuovo Mondo cit., pp. 65, su cui
cfr. CROVETTO, «Andando más, más se sabe» cit., pp. 410-411; M.L. FAGIOLI CI-
PRIANI, Cristoforo Colombo. Il Medioevo alla prova, Torino 1985, pp. 179-184; per
l’identificazione del Paradiso terrestre v. la successiva nota 73.
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376 DOMENICO DEFILIPPIS-ISABELLA NUOVO

costanziato, i progressi portoghesi nell’Oceano Indiano, evento che viene


giudicato di ben maggior rilievo rispetto al precedente per l’importanza che
assumerebbe per i traffici con l’Oriente l’apertura di una nuova rotta verso
l’India, che fosse in grado di ridimensionare il monopolio commerciale
controllato in quei territori dai mercanti mori. L’autore riferisce del fortu-
nato tentativo di una prima spedizione, cui accenna brevemente, e di quel-
lo successivo di una seconda («denuo»), la quale avrebbe consolidato la rot-
ta per le Indie. A conferma della veridicità di quest’ultima notizia «novam
atque admiratione dignam» adduce due testimoni di provata fiducia: il pri-
mo è il mercante genovese Giorgio Interiano, che, giunto da poco a Napo-
li, ha riferito quanto ha a sua volta appreso dai mercanti assiri incontrati a
Prusa, in Bitinia, i quali avevano assistito all’arrivo delle navi dei Porto-
ghesi a Calicut e avevano mostrato di nutrire forti timori per i loro com-
merci in seguito agli accordi stipulati tra il re di Calicut, creduto dai Porto-
ghesi di religione cristiana, e il comandante della spedizione. L’altro testi-
mone è anche lui un mercante, Girolamo Spinola, autore di alcune lettere
inviate all’estensore dell’opuscolo, nelle quali accreditava le prime infor-
mazioni servendosi della diretta testimonianza di uno dei partecipanti alla
missione portoghese, Diogo Dias, che, tornato in Portogallo da Calicut, si
sarebbe quindi recato a Genova e là avrebbe parlato della navigazione ap-
pena compiuta con lo Spinola. Seguendo la convincente ipotesi avanzata da
Tateo45 si potrà identificare la prima spedizione con il primo viaggio di Va-
sco de Gama (1497-1499) e la seconda con quello di Pedro Alvares Cabral
(1500-1501)46.
La dettagliata, anche se breve, descrizione contenuta nel De situ ele-
mentorum non sembra infatti dar adito a eccessive incertezze, se la si con-
fronta con quella, invero assai più puntuale e ricca di riferimenti, elaborata
dall’anonimo autore della Navigazion del capitano Pedro Alvares scritta
per un piloto portoghese e tradotta di lingua portoghesa in italiana; è inol-
tre da registrare la partecipazione alla spedizione di Bartolomeo e Diogo
(«Didacus»?) Dias, delle cui navi, dirette inizialmente a «Ceffala» (Sofola),
quella di Bartolomeo andò distrutta con tutto l’equipaggio a causa di un for-
tunale, l’altra invece raggiunse la meta e si ricongiunse col resto della flot-
ta sulla via del ritorno a Capo Verde47. La flotta portoghese infatti, come

45 TATEO, Gli studi scientifici cit., pp. 136 e ss.


46 Sulle imprese dei due navigatori portoghesi v. SURDICH, Verso il Nuovo Mon-
do cit., pp. 20 e ss.; S. CASTRO, L’immagine del Brasile nella Venezia del primo Cin-
quecento, in L’impatto della scoperta dell’America nella cultura veneziana. a cura
di A. CARACCIOLO ARICÒ, Roma 1990, pp. 35 e ss.
47 Cfr. Navigazion del capitano Pedro Alvares scritta per un pilota portoghese

e tradotta di lingua portoghesa in italiana, in G.B. RAMUSIO, Navigazioni e viaggi,


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I RIFLESSI DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA 377

raccontano l’Interiano e lo Spinola, che si fa portavoce di Dias, e conferma


l’anonima Navigazion, partì da Lisbona (lunedì 9 marzo 1500), effettuò su-
bito dopo uno scalo in alcuni possedimenti insulari portoghesi dell’Oceano
meridionale (le isole di Capo Verde, 22 marzo), quindi riprese il largo, na-
vigando in mare aperto, e, superata la linea equinoziale, sospinta dai ven-
ti verso occidente in direzione del tropico del Capricorno, cioè verso Sud-
Ovest, oltrepassato anche quest’ultimo, giunse (22 aprile) in una nuova ter-
ra, il Brasile, della cui scoperta si diede immediatamente notizia al re di
Portogallo48. L’evento – cui è dedicata scarsa attenzione anche nella Navi-
gazion – non è registrato dall’anonimo estensore del De situ terrarum, per
il quale evidentemente esso non ha ancora quel rilievo che avrebbe avuto
invece di lì a poco, dopo l’esplorazione di quelle terre affidata dal sovrano
ad Amerigo Vespucci49, la cui flotta, diretta in Brasile, si incontrò con le na-
vi di Cabral, di ritorno dal mar Indiano, nelle isole di Capo Verde in quello
scorcio del mese di giugno del 1501, poco prima che lo stesso Cabral rien-
trasse a Lisbona (23 giugno 1501): è questo un ulteriore elemento di valu-
tazione che avalla la datazione proposta da Tateo per la composizione del
De situ elementorum, il 1501 appunto. Dopo l’incursione nel mare occi-
dentale («sinum […] Hesperium»), Cabral invertì la rotta dirigendosi verso
oriente e il Capo di Buona Speranza; doppiato il capo, le navi nella stagio-
ne ormai estiva costeggiarono per un lungo tratto il versante orientale del
continente africano e giunsero a Malindi e a Calicut dopo aver nuovamen-
te tagliato la linea equinoziale procedendo verso Nord-Est. La presenza dei
Portoghesi nell’Oceano Indiano e la loro intraprendenza nell’organizzazio-
ne dei traffici commerciali verso l’Occidente provocò l’immediata reazione
dei mercanti musulmani, che sfociò nelle prime aggressioni militari alle im-
barcazioni degli europei50.
Questa lettura interpretativa del passo del De situ elementorum conser-

I, Torino 1978, pp. 619-653. Secondo von Humboldt sarebbe stato Diogo Dias, che
aveva fatto parte anche della precedente spedizione di Vasco de Gama, e non il fra-
tello Bartolomeo, che nel 1487 aveva solo scoperto il Capo, a «doppiare» per primo
«il Capo di Buona Speranza e a costeggiare l’estremità australe dell’Africa da est
verso ovest», VON HUMBOLDT, L’invenzione del Nuovo Mondo cit, p. 166, nota 50.
48 Si vedano le lettere di Mestre João, la relazione di un pilota anonimo (è l’au-

tore della Navigazion cit.), entrambi al seguito della spedizione, e la Carta do a-


chamento do Brasil di Pero Vaz de Caminha: cfr. SURDICH, Verso il Nuovo Mondo
cit., p. 71.
49 Per i resoconti dell’esplorazione v. SURDICH, Verso il Nuovo Mondo cit., p.

72, e CASTRO, L’immagine del Brasile cit.


50 Navigazion cit., e in particolare per gli scontri con i mercanti mori, p. 647 e

ss.; ma v. anche Navigazioni e viaggi cit., p. 595.


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378 DOMENICO DEFILIPPIS-ISABELLA NUOVO

vatoci dal codice colocciano richiede forse una breve ulteriore postilla. Si è
detto dello stretto rapporto che lega quel testo alla figura del Pontano, ma
non mi sembra che ne sia stata posta sufficientemente in evidenza la rela-
zione con le già ricordate testimonianze pontaniane del XIV libro del De re-
bus coelestibus e del De hortis Hesperidum. Il riferimento alla conquista
spagnola delle Canarie e alla loro civilizzazione («Ispanique item alii For-
tunatis potiti sunt insulis ad easque civile cultum religionemque ac ritus
Christianos attulerunt») trova riscontro in quel «Quo sinu tempestate nostra
ab Hispanis enavigato, occupatis insulis, quae Fortunatae olim, nunc Cana-
riae ab illarum dicuntur maxima […] Nulli sunt apud Fortunatas insulas
rethores aut iuris consulti, scilicet quod nullae iis in insulis sint respubli-
cae, literae nullae, leges item quae scripto sanciant nullae, neque aliis
quam naturae ipsius institutis vivant insularum earum incolae» del De re-
bus coelestibus51; ma sicuramente più interessante è il raffronto con la nar-
razione della spedizione portoghese contenuta nel De hortis Hesperidum:
innanzitutto il comune uso del pontaniano Caletii («a nautis […] Calaetiis»
e «a Calaetiis ipsis occupatis», De situ elementorum; «Callaetia pubes», De
hortis Hesperidum, I, 346) per indicare i Portoghesi52, e poi la descrizione
stessa del viaggio: la rotta verso Sud-Ovest dopo la partenza dal Portogallo
(«classem […] in altum digressam longius, […] inter occasum meridiem-
que iter tenuisse […] procul a terrarum omnium conspectu, traiecta aequi-
noctiali linea, quae Aethiopiam secat mareque aethiopicum, sinum ultra
Hesperium53, delatamque a ventis esse lineam versus Capricorni, quippe
cum septemtriones atque arcticas stellas plurimos interim dies nullo modo
prospexerint», De situ elementorum; «Nuper enim Hesperio oceano Calle-
tia pubes / digressa […]. Hinc Austro approperans coeloque intenta caden-
ti / sideraque adverso servans labentia mundo / incidit obscurum gelidi Ae-
gocerotis in orbem attonita et rerum novitate et umbra locorum», De hortis
Hesperidum, I, 351-354), e quindi l’inversione di direzione per risalire lun-
go la costa orientale dell’Africa fino all’India («conversis proris, tenuisse i-
ter ad aethiopicum Africaeque exterioris litus […] sensimque conspectis
septemtrionibus ac coelo arctico, relicto aethiopico litore, indicum mare in-
gressam maximoque enavigato pelago delatam esse Colicutos. [...] Igno-
rasse Ptolemeum inter Prassum, Aethiopiae promontorium, et Catigora, Si-
narum oppidum», De situ elementorum; «inde pedem referens Prassi con-

51 Si cita dai testi riportati nei saggi di TATEO, Gli studi scientifici cit., nota 9,

p. 137, e di MONTI SABIA, Echi cit., pp. 283-284 e 295.


52 Cfr. su tale uso MONTI SABIA, Echi cit., p. 291, nota 26.
53 Sull’uso pontaniano di «sinus Hesperius» nel XIV del De rebus coelestibus

v. MONTI SABIA, Echi cit., p. 285, nota 9: la denominazione risale tuttavia a Tolo-
meo (Geographia, 4, 6, 1-2).
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I RIFLESSI DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA 379

vertit ad oras, / barbaricumque fretum exsuperans Rhaptique procellas /


tandem gemmiferos Indi defertur ad amnes», De hortis Hesperidum, I, 355-
357), superando il mar etiopico, il «sinus barbaricus» delle carte tolemai-
che, e il capo Prassum a sud del promontorio Rhapta nell’Africa orientale,
designati tecnicamente secondo l’uso tolemaico, che per il geografo greco
e per la geografia antica costituivano i punti estremi a sud dei quali si e-
stendeva quella «Terra incognita» che univa l’Africa all’Asia54. Parrebbe
dunque che entrambi i testi facciano riferimento allo stesso evento e che
quella del De hortis Hesperidum si configuri quasi come una riscrittura
poetica delle notizie contenute nello stringato resoconto affidato al De situ
elementorum. Non osterebbero a questa ipotesi problemi di datazione, po-
tendosi ricondurre la stesura di ambedue i passi agli anni 1501 (De situ e-
lementorum) – 1502 (De hortis Hesperidum)55. E anche la diversa identifi-
cazione della navigazione, con quella di Vasco de Gama, proposta dalla
Monti Sabia per il Pontano e con quella invece di Cabral, proposta da Ta-
teo per lo sconosciuto compilatore del De situ elementorum, potrebbe tro-
vare una sua spiegazione proprio nella stringatezza delle informazioni for-
nite, ugualmente riferibili alle due imprese, che si svolsero, oltretutto, una
a ridosso dell’altra: «E questo nostro re di Portogallo ha grandissimo animo
sopra queste cose, e ha già fatto mettere in ordine quattro navi e due cara-
velle al gennaio sequente con mercanzie assai e bene armate». Il 10 luglio
del 1499 la prima delle navi di Vasco de Gama rientrava a Lisbona e, come
ci informa Girolamo Sernigi, già si andava allestendo la flotta di Cabral che
di lì a pochi mesi avrebbe ripercorso la stessa via di Vasco de Gama56. Non
è pertanto improbabile che i due autori facessero più genericamente riferi-
mento, tra il 1501 e il 1502, alla straordinaria notizia della circumnaviga-
zione dell’Africa evidenziando l’eccezionalità dell’evento: esso era potuto
sembrare in un primo momento incredibile dopo la navigazione di Vasco de
Gama, che aveva prodotto come risultato l’importazione di «alcune poche
specie» e nessuna relazione dettagliata del viaggio, e invece era diventato
certo e ben documentato solo con la successiva spedizione di Cabral. La
conferma dell’apertura della «nuova rotta» delle droghe e delle spezie si

54 Cfr. VON HUMBOLDT, L’invenzione del Nuovo Mondo, cit, p. 184; «[Marino

di Tiro e Tolomeo] immaginavano che la penisola transgangetica sulla quale si tro-


va Cattigara, al di là del Sinus Magnus, all’estremità orientale dell’Asia, si unisse a
ovest attraverso una terra incognita al promontorio Prasum (capo Delgado) e alla
costa africana di Azania»: ibid., p. 74.
55 Sulla data del compimento dell’opera pontaniana v. MONTI SABIA, Echi cit.,

p. 290, nota 24.


56 Cfr. Navigazione di Vasco di Gama, in RAMUSIO, Navigazione e viaggi cit.,

I, pp. 607-617.
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380 DOMENICO DEFILIPPIS-ISABELLA NUOVO

diffuse precocemente a Napoli e suscitò molta impressione per l’arditezza


dell’impresa e per lo scompiglio che recava nelle consolidate teorie tole-
maiche sulla «Terra incognita». Probabilmente in quello stesso 1501 o
tutt’al più l’anno precedente era giunto nella capitale del Regno Giorgio In-
teriano, che fu prevedibilmente accolto con grande interesse dagli accade-
mici pontaniani: non gli mancarono certo attestazioni di amicizia e di sti-
ma, come dimostra l’ospitalità offertagli dal Sannazaro, forse nella villa di
Mergellina che l’umanista ebbe in dono da re Federico nel 1499, e come ri-
corda Aldo Manuzio dedicando proprio al Sannazaro, nel 1502, la pubbli-
cazione dell’opuscolo sui Circassi composto dal Genovese57.
Il soggiorno partenopeo dell’Interiano si protrasse non oltre il 1501,
quando la resa di Federico ai Francesi e la imminente partenza del re e del
Sannazaro da Napoli lo indussero a recarsi a Venezia, da Aldo, per propor-
gli la stampa della sua operetta. Tra il 1500 e il 1501, mentre andava ela-
borando la prima stesura del De situ elementorum, Galateo disponeva quin-
di, a Napoli, di una fonte quanto mai autorevole della circumnavigazione
dell’Africa. Si trattava di un personaggio noto per i suoi trascorsi di esper-
to esploratore del mondo, novello Ulisse, secondo la encomiastica defini-
zione di Aldo, meritevole della familiarità del Pontano e del Poliziano; ep-

57 «ALDUS MANUTIUS ROMANUS IACOBO SANAZARO PATRITIO


NEAPOLITANO ET EQUITI CLARISSIMO S. P. D. Georgius Interianuas Ge-
nuensis, homo frugi, venit iam annum Venetias, quo cum primum adplicuit, etsi me
de facie non cognosceret nec ulla inter nos familiaritas intercederet, me tamen offi-
ciose adiit, tum quia ipse benignus est et sane quam humanus, tum etiam quia Da-
niel Clarius Parmensis, vir utraque lingua doctus et qui in urbe Rhacusa publice
summa cum laude profitetur bonas literas, ei ut me suo nomine salutaret iniunxerat,
mihique statim sic factus est familiaris ac si vixisset mecum. Est enim homo, ut no-
sti, facetus ac integer vitae et doctorum hominum studiosissimus. Tum visus est
mihi Homeri Ulisses alter: nam et ipse [...] Non miror igitur si et tu plurimum eo ho-
mine delectaris, et Pontanus, vir doctissimus ac aetate nostra Vergilius alter, et Po-
litianus olim, multi homo studii ac summo ingenio, qui etiam in Miscellaneis suis
de eo ipso Georgio meminit, delectatus est. […] Ipsum autem libellum, quoniam
gratissimum tibi fore existimamus tum ipsa historia tum summo ipsius Georgii in te
amore, ad te mittimus. Simul ut hac ad te epistola peterem, ut quae et latina et vul-
gari lingua docte et eleganter composuisti ad me perquam diligenter castigata dares,
ut excusa typis nostris edantur in manus studiosorum, quam emendatissima et digna
Sanazaro. Nam quae impressa habentur valde sunt depravata ab impressoribus. Va-
le, vir doctissime suavissimeque, et me fac diligas quemadmodum facere te accepi
a Marco Musuro, Cretensi iuvene, et latine et graece oppidoque erudito atque utrius-
que nostrum amantissimo. Venetiis, XX Octobris DII»: GIORGIO INTERIANO, Vita de’
Zichi, chiamati Ciarcassi, in GIOVANNI BATTISTA RAMUSIO, Navigazione e viaggi, IV,
a cura di M. MILANESI, Torino 1983, pp. 27-28.
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I RIFLESSI DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA 381

pure l’umanista, diversamente dall’anonimo autore del codice colocciano,


non si lasciò trasportare da facili e prevedibili entusiasmi. Alla testimo-
nianza dell’Interiano si poteva infatti contrapporre l’auctoritas di Strabone
e l’altrettanto autorevole opinione di «un certo ambasciatore portoghese»,
il quale – dice il Galateo – «pare che sappia più di tutti gli altri di quella na-
zione» e che gli aveva riferito di persona che «nessuno di quelli che erano
stati spediti dal suo re fossero pervenuti alla linea equinoziale, il che dice-
va esser stato dimostrato con strumenti astronomici». La parola degli anti-
chi e del moderno dignitario di corte consigliavano perciò ancora una volta
estrema cautela, e il Galateo finiva così per insinuare che i Portoghesi fos-
sero più semplicemente giunti in Etiopia, senza oltrepassare la linea equi-
noziale58 e senza penetrare nel mare Indiano. Essi avevano presumibilmen-
te navigato per un tratto lungo la «Terra incognita» tolemaica, si erano poi
fermati all’estremo lembo del continente africano, non osando spingersi ol-
tre, e da là avevano acquistato e portato in patria pepe, cinnamomo, zenze-
ro e denti di elefante, prodotti, cioè, comuni all’Africa e all’India59. L’uma-
nista infatti fin dai tempi del re Ferrante aveva avuto modo di constatare di
persona l’importazione diretta di tali ‘spezie’ dall’Etiopia e, attenendosi al-
la testimonianza di Strabone sulla similarità delle merci provenienti dai due

58 Galateo in questa fase di elaborazione del suo opuscolo mostra di non aver
tentennamenti nel perpetuare l’intoccabile dogma (cfr. a riguardo PLINIUS, Natura-
lis historia, 2, 172), relativo all’impraticabilità della cosiddetta zona torrida: v.
BROC, La geografia cit., pp. 63-64, e tra le testimonianze avverse a quel dogma ad-
dotte dai moderni navigatori, quella, ad es., di Diogo Gomes citata in SURDICH, L’A-
frica cit., pp. 211-213 e la precedente nota 8. Sulla questione e sulle opinioni degli
auctores su di essa, riprese e sintetizzate da Alberto Magno nel De natura locorum,
il quale ribadiva l’impossibilità di pervenire agli antipodi, sebbene suggerisse la
possibilità che la zona torrida fosse abitabile, cfr. VON HUMBOLDT, L’invenzione del
Nuovo Mondo cit, pp. 39-40, e RICO, Il Nuovo Mondo cit., p. 583.
59 Ecco come viene registrato l’arrivo a Lisbona, di ritorno da Calicut, della na-

ve di Nicolau Coelho, l’«Anunciada», che faceva parte della flotta di Cabral, in una
lettera del mercante fiorentino Bartolomeo Merchionni, armatore insieme con altri
italiani dell’imbarcazione, contenuta in un codice appartenuto a Pietro Vaglienti
(Riccardiano 1910): «Dicevisi p(er) l’ultima nostra chome delle charovelle che an-
donno al viaggio di Chalicut n’era tornata una, e p(er) esa vi si mandò el charicho
suo. Dipoi delle cinque restate adietro n’è tornate 3, l’altre sono pure, e queste àn-
no rechate chant(ar)a 3000 di pepe e chant(ar)a 1000 di chanella e gengavo e ghe-
rofani e altre spezierie, i·modo che qui si stima abbi a fornire p(er) questa via tuto
‘l Ponente e anche chol tenpo l’Italia, e che abbi a dare una gran·noia a’ Veneziani,
e vie più al Soldano», c. 484ra: si cita da L. FORMISANO, La geografia dei mercan-
ti nella compilazione di Piero Vaglienti, in Columbeis V cit., pp. 241-256: 255; e
cfr. Navigazion cit., p. 652.
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382 DOMENICO DEFILIPPIS-ISABELLA NUOVO

paesi60, poteva asserire che quasi certamente i Portoghesi si erano sbaglia-


ti, foss’anche in buona fede: erano arrivati in Etiopia e avevano creduto di
aver violato il ‘chiuso’ Oceano Indiano. La difesa a oltranza dell’auctoritas
tolemaica e dell’antica teoria dell’impossibilità di avventurarsi nella zona e-
quatoriale, giudicata inabitabile perché arsa dai raggi solari, intendeva così
ribadire posizioni già note e pubblicizzate da una secolare tradizione scrit-
toria e negare le novità introdotte dal racconto dei marinai portoghesi, che
in un certo qual modo pareva avallare l’autorevole opinione di Plinio ri-
guardo la comunicazione dell’Oceano Indiano con l’Atlantico: alcuni In-
diani sarebbero stati spinti infatti da una tempesta fino alle coste atlantiche
della Gallia e inviati poi a Roma dal re dei Boi61. Le testimonianze si bi-
lanciavano di nuovo: Galateo opponeva Strabone a Plinio e le affermazioni
dell’ambasciatore portoghese a quelle di Giorgio Interiano.
Il giudizio era quindi ancora sospeso fino 1501: «io non mi obbligo a
credere», scriveva l’umanista, «ciascuno faccia uso della propria libertà di
giudizio, come vuole». Il suo punto di vista, inoltre, veniva quasi sicura-
mente a coincidere con quello ufficiale condiviso in quegli anni dalla corte
e dalla comunità dei dotti. Ciò che Galateo aveva sottovalutato però nella
sua critica era il forte interesse politico e commerciale in gioco. La fiducia
riposta nell’ambasciatore portoghese è segno di una certa ingenuità, perché

60 STRABONE, Geographia, 15, 1, 13 e 22, ma v. anche la descrizione dell’iso-

la di Taprobane, sita a sud dell’India, verso le regioni dell’Etiopia che si affacciano


sull’Oceano Indiano: 15, 1, 14 e s.; per la sovrapposizione non infrequente tra Afri-
ca/Aethiopia e India, attestata già negli auctores per indicare genericamente i paesi
compresi tra i due tropici e poi trasmessasi all’età medievale, v. SURDICH, L’Africa
cit., pp. 170 e ss. e 197 e ss.
61 «Idem Nepos de septentrionali circuitu tradit Quinto Metello Celeri, Afrani

in consulatu collegae, sed tum Galliae proconsuli, Indos a rege Sueborum dono da-
tos, qui ex India commercii causa navigantes tempestatibus essent in Germaniam
abrepti. Sic maria circumfusa undique dividuo globo partem orbis auferunt nobis,
nec inde huc nec hinc illo pervio tractu»: PLINIUS, Naturalis historia, 2, 170. È evi-
dente che Galateo, forse citando a memoria, abbia confuso la testimonianza di Pli-
nio con quella assai simile di Pomponio Mela, Chorographia, 3, 44-45: «ultra Ca-
spium sinum quidnam esset ambiguum aliquamdiu fuit, idemne oceanus an tellus
infesta frigoribus sine ambitu ac sine fine proiecta. Sed praeter physicos Homerum-
que qui universum orbem mari circumfusum esse dixerunt Cornelius Nepos ut re-
centior, auctoritate sic certior; testem autem rei Quintum Metellum Celerem adicit,
eumque ita rettulisse commemorat: cum Galliae pro consule praeesset, Indos quo-
sdam a rege Botorum [sed alii Boiorum] dono sibi datos; unde in eas terras deve-
nissent requirendo cognosse, vi tempestatium ex Indicis aequoribus abreptos, e-
mensosque quae intererant, tandem in Germaniae litora exisse»: sulla testimonian-
za cfr. VON HUMBOLDT, L’invenzione del Nuovo Mondo cit, pp. 328-329.
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I RIFLESSI DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA 383

rivela come l’umanista non tenesse nel debito conto la necessità di tacere
sulla nuova rotta e di sviare ad arte le notizie su di essa, prima che i Porto-
ghesi l’avessero ulteriormente sperimentata e avessero occupato strategica-
mente gli scali più funzionali ad una sicura e continua navigazione verso
l’India. È quanto immancabilmente avvenne subito dopo l’impresa di Ca-
bral, quando le spedizioni si susseguirono a cadenza annuale: «João de No-
va nel 1501, Vasco de Gama nel 1502, Francisco de Albuquerque, Alfonso
de Albuquerque e Antonio Saldanha nel 1503, Lopo Soares nel 1504 [...]
Dal 1502 si tratta di flotte da guerra: rendendosi conto che l’Oceano India-
no è dominato nei suoi scambi marittimi dai mercanti arabi, e che la spera-
ta presenza cristiana vi è inesistente, i Portoghesi ricorrono immediatamen-
te alla forza, cercano di procurarsi l’esclusiva dell’importazione di spezie in
Europa, bloccando il Mar Rosso: compiti commerciali e militari si assom-
mano nelle persone degli Albuquerque, dei Saldanha, dei Soares»62. Ed è
proprio questa situazione di maggiore instabilità di rapporti politico-milita-
ri che il Galateo puntualmente sottolinea nella breve integrazione al testo
dell’opuscolo, precocemente invecchiato nel giro di pochi anni. Le tesi co-
sì fermamente sostenute fino al 1500-1501 risultavano infatti definitiva-
mente obsolete e pericolosamente false e ingannevoli negli anni immedia-
tamente successivi. Il De situ elementorum, composto, per affermazione del
suo stesso autore, durante il regno di re Federico e «divulgato» nell’ultimo
anno di vita del sovrano napoletano, il 150463, registra nell’estrema postil-
la la fine di un dominio politico, quello aragonese, e di un predominio in-
tellettuale, quello di Tolomeo, e segna, più in generale, la crisi della fede dei
moderni nel pensiero cosmologico antico. Alla scoperta, ormai certa – i

62 Navigazioni portoghesi verso le Indie orientali, in RAMUSIO, Navigazioni e

viaggi, I, cit., p. 594.


63 L’interpretazione dell’ambiguo passaggio in cui Galateo afferma di aver re-

so noto il suo opuscolo «postremo anno Federici regis», ha diviso sul problema del-
la datazione gli studiosi galateani, intentendo taluni quell’anno quale l’ultimo di re-
gno del sovrano (1501), altri, invece, quale l’ultimo della sua vita (1504): per un e-
lenco di quanti abbiano sostenuto, con diverse e motivate argomentazioni, le diver-
genti posizioni rinvio a ANDRIOLI NEMOLA, Catalogo cit., pp. 205-210, cui è da ag-
giungere la proposta di TATEO, Gli studi scientifici cit., nota 11, pp. 138-139, il qua-
le propende per il 1501. La data del 1504 mi sembra possa meglio accordarsi con il
riferimento a quegli scontri bellici che le testimonianze coeve dicono sì avvenuti a
partire dalla spedizione di Cabral, ma che si intensificarono sensibilmente negli an-
ni successivi, e di cui si è conservato il lucido ricordo anche nell’episodio del viag-
gio di Astolfo nel paese del Prete Gianni narrato nel Furioso (33, 102 e ss.), su cui
v. SURDICH, L’Africa cit., p. 201; MILANESI, Tolomeo sostituito cit., pp. 235-251; A.
CARACCIOLO ARICÒ, Da Cortés a Colombo, da Ariosto a Tasso, in Il letteraro tra mi-
ti e realtà del Nuovo Mondo: Venezia, il mondo iberico e l’Italia, a cura della stes-
sa, Roma 1994, pp. 131-139.
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384 DOMENICO DEFILIPPIS-ISABELLA NUOVO

Portoghesi, dice l’umanista, si sono spinti fino alla lontana e mitica isola di
Taprobane64 –, è immediatamente seguita la conquista, sicché il Galateo
non manca di riportare la notizia recentissima degli scontri militari verifi-
catisi all’imboccatura dei golfi arabico e persiano tra l’armata portoghese e
la flotta dei potentati arabi di Egitto e Siria, detentori, fino ad allora, del
commercio con l’oriente in quel tratto di mare. Nel 1505 Francisco de Al-
meida sarà nominato primo viceré dell’India portoghese e nel 1510 gli suc-
cederà nel prestigioso incarico quell’Alfonso de Albuquerque che, per pri-
mo, tra il 1503 e il 1504, aveva cominciato a consolidare con la forza delle
armi la nuova rotta65. Sebbene fosse anch’essa sottoposta a revisione, la
parte più strettamente dimostrativa del De situ elementorum non offre ulte-
riori spunti polemici.
Nel 1504 la scoperta delle nuove realtà geografiche è ormai un dato
acquisito alla cultura scientifica del Galateo, al punto che egli ne parla sen-
za riserve e la porta a sostegno delle proprie tesi senza più discuterla. Ac-
certata è la navigabilità dell’Oceano occidentale, giornalmente solcato dal-
le navi spagnole dirette in America, avviata è ormai l’esplorazione della fa-
volosa isola dell’Oceano Indiano, Taprobane, la moderna Ceylon, e smen-
tita è stata l’opinione di quanti, fra cui lo stesso Colombo, avevano ritenu-
to che le terre sopravanzassero di molto il mare: sembrerebbe vero invece il
contrario e in tal caso l’esperienza avrebbe dato ragione ad una convinzio-
ne largamente diffusa tra gli auctores, a iniziare dallo stesso Tolomeo. Non
stupisce quindi che, nella sezione finale del trattato, quasi in un crescendo,
l’umanista giunga a ridicolizzare le assurde affermazioni di Alberto di Sas-
sonia sull’invalicabilità delle colonne d’Ercole richiamandosi non più ai
verba degli antichi, che non conoscevano, ma alle res dei moderni naviga-
tori, che invece hanno sperimentato e sanno: «Addit et quoddam dictum ri-
diculum, ab Hercule positas fuisse columnas ne quis navigaret mare, quod
ipse appellat impermeabile. Nescio quid sibi velit. Hic quoque hi loque-
bantur de mundo (parcant mihi manes illorum) ac si non fuissent in mundo.
Nam quotidie audimus Hispanos navigare per multa millia stadiorum, seu
passuum, seu leucarum, ut mos est Gallis et Hispanis appellare»66. La
schiacciante vittoria delle res sui verba potrebbe tuttavia lusingare al punto
da far riporre cieca fiducia nell’experientia e da far identificare con essa
tout-court la scientia. È per evitare questo sottile inganno che l’umanista la-
scia invariato nella stesura ultima i termini di una discussione di dati e di

64All’isola si accenna appena nella Navigazion cit., p. 616, ma non si registra


lo sbarco su di essa
65 Navigazioni portoghesi cit.
66 GALATEI Liber de situ elementorum cit., p. 59.
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I RIFLESSI DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA 385

fonti a prima vista inutile perché chiaramente smentita nelle sue conclusio-
ni iniziali dall’incalzare degli eventi. Mantenendo un atteggiamento appa-
rentemente sviante il Galateo vuole non rinunciare aprioristicamente a mi-
surarsi con la modernità in nome di una fede mal riposta nell’antico, ma
piuttosto ammonire i lettori ad esercitare sempre e in qualsiasi circostanza
la facoltà di critica, perché se «negare il senso per la ragione è mancar di
ragione», è altrettanto riprovevole il contrario. La critica costruttiva, che
conduce alla vera scientia non passa quindi attraverso il feticistico salva-
taggio dell’antica auctoritas, ma sa accortamente valersi di essa pur non ri-
nunciando all’idea di progresso. Il Galateo si pone perciò sulla stessa linea
operativa seguita dal Silvano, che riuscì ad aggiornare Tolomeo senza però
negarne l’autorevolezza, e scrivendo il De situ elementorum volle puntua-
lizzare e umanisticamente esaltare la funzione degli auctores: gli antichi so-
no in ogni caso da anteporre ai teorici dell’età di mezzo, i cui errori furono
generati dall’ignoranza delle opere del mondo classico, ma devono essere
anche essi costante oggetto di rilettura, di verifica e di reinterpretazione67.
Se si tien presente questo orizzonte culturale ed ideologico entro cui si
formò l’uomo del Rinascimento, non sorprende né l’ostinata ricerca con-
dotta da Colombo per rintracciare negli auctores elementi che avallassero e
provassero la sua felice intuizione e la scoperta del Mondo Nuovo, né l’af-
fannosa e appassionata rilettura dei testi dei geografi e dei filosofi greci e
latini nei quali anche il Galateo, in quegli stessi anni, tentava di individua-
re una traccia, un segnale dell’inedito assetto del globo terracqueo proposto
dai moderni. A parte la grave svista di Tolomeo, l’errore dei moderni, sem-
bra suggerire l’umanista, è stato quello di prestare maggior credito alle te-
stimonianze classiche che concordassero con il pensiero della scolastica,
piuttosto che soffermarsi a soppesare obiettivamente le ragioni, ad esempio,
sostenute da Plinio e da Mela. In tal modo il pensiero antico si riappropria,
in virtù di una più attenta azione di analisi, libera da svianti sovrastrutture,
del suo ruolo di guida che il Galateo, in perfetta sintonia con gli ideali pro-
posti dal movimento umanistico non può e non vuole né rinnegare, né di-
sconoscere.

2. L’orizzonte etico

Il dilatarsi dell’orizzonte geografico irrompeva inaspettatamente allo


scadere del XV secolo nella salda prospettiva mentale di una élite culturale
che si era venuta faticosamente costruendo, sulla scorta e sul recupero de-
gli antichi, una specifica identità intellettuale e una complessa valenza mo-

67 Cfr. su tale aspetto RICO, Il Nuovo Mondo cit., pp. 599-600.


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386 DOMENICO DEFILIPPIS-ISABELLA NUOVO

rale. L’improvviso e profondo sconvolgimento che i viaggi e le scoperte ve-


nivano producendo in ambito scientifico sconfessando e ribaltando antiche
e autorevoli posizioni, registrava una lacerazione ancora più profonda in
ambito ideologico, scardinando i consueti schemi interpretativi e accele-
rando un processo di rifondazione critica che riassorbisse all’interno di un
rinnovato orizzonte mentale le dirompenti spinte emotive e conoscitive e
proiettasse, grazie anche a un necessario confronto con la diversità, gli uo-
mini del Quattrocento verso l’età moderna. Se cadevano le barriere di uni-
versi chiusi, processi economici, demografici, sociali, culturali altrettanto
rivoluzionari permisero che, tra delusioni e speranze, successi e insuccessi,
imprese temerarie e comprensibili paure, tra tensioni mistiche e utilitaristi-
che aspirazioni di ricchezze si concepissero e attuassero per tutto il Cin-
quecento quegli straordinari progetti che Lopez de Gomera non esitò a de-
finire, nella dedica a Carlo V della Historia general de las Indias (1522) «la
maggior cosa dopo la creazione del mondo»68. L’enorme e complesso ma-
teriale documentario che nel giro di alcuni decenni si riversò, com’è noto,
nel panorama culturale europeo e italiano in primo luogo, richiese un gra-
voso sforzo di identificazione e catalogazione dei diversi generi in cui que-
ste scritture si esprimevano: resoconti, racconti di esplorazione, conquista
ed evangelizzazione, itinerari, descrizioni, diari, scritti odeporici69. E si re-
se necessario altresì un attento approccio di lettura capace di non smarrire
gli elementi più rigorosamente scientifici e geograficamente credibili e at-
tendibili rintracciabili nella pur diffusa dimensione mitico-favolosa alla
quale si faceva abbondantemente ricorso per descrivere, manipolare una
realtà sconosciuta o per omologarla, viceversa, alla tipologia del conosciu-
to propria del vecchio mondo, nel tentativo di ancorare ad un referente con-
creto la diversità e la atipicità di una experientia che stentando a riproporsi
nella netta funzione di documento, concedeva sempre più all’ambiguo regi-
stro dell’inventio o della fictio70. Affabulazioni antiche si coniugavano per-
ciò a ricercati esotismi, alimentando un immaginario geografico che, attra-
verso il riuso di un esuberante patrimonio classico e cristiano, rilanciava al-

68 Cfr. R. ROMEO, Le scoperte americane nella coscienza italiana del Cinque-


cento, Bari 1989; SURDICH, Verso il Nuovo Mondo cit., pp. 69 e ss. e pp. 175-207;
A. QUONDAM, (De)scrivere la terra. Il discorso geografico da Tolomeo all’Atlante,
in Culture et société en Italie du Moyen-Âge à la Renaissance. Hommage à André
Rochon, Parigi 1985, pp. 11-35; S. GREENBLATT, Meraviglia e possesso. Lo stupore
di fronte al Nuovo Mondo, Bologna 1994; TATEO, L’etica umanistica cit.
69 Cfr. la bibliografia cit. a nota 15 e G.R. CARDONA, I viaggi e le scoperte, in

Letteratura italiana, dir. da A. ASOR ROSA, V, Le questioni, Torino 1986, pp. 687-713.
70 M. MASOERO, I mostri nella letteratura della scoperta, in Disarmonia, brut-

tezza e bizzarria nel Rinascimento, (Atti del VII Convegno Internazionale, Chian-
ciano-Pienza, 17-20 luglio 1995), a cura di L. SECCHI TARUGI, Firenze 1998, pp.
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I RIFLESSI DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA 387

lettanti prospettive di felice beatitudine e di ritrovata età dell’oro. I conno-


tati di questo nuovo spazio geografico si venivano dunque sempre più defi-
nendo anche in rapporto alla grande attesa di renovatio testimoniataci, tra
l’altro, dalla stessa esortazione rivolta ai cardinali riuniti nel conclave, che
avrebbe eletto papa Alessandro VI, dal vescovo spagnolo de Carvajal il 6 a-
gosto 149271, e largamente diffusa in vasti strati delle popolazioni europee,
le quali si compiacevano di leggere la pagina delle scoperte attraverso l’ot-
tica di una profonda sensibilità morale e proiettando i fermenti religiosi e le
tensioni irrisolte in quel nuovo mondo che lo stesso Colombo suggeriva di
interpretare come il «segno» di un compimento72. E se l’abile navigatore e
l’esperto cartografo avevano saputo istintivamente fiutare la rotta giusta, il
credente, imbevuto di sacre scritture e di racconti biblici arrivava ad affer-
mare che con la sua missione si era avverata la profezia di Isaia. Questa
stessa tipologia mentale gli fa credere di aver raggiunto il Paradiso terrestre
già ambiguamente identificato nelle carte medievali col giardino dell’Eden
e periodicamente collocato anche dalla tradizione classica, quale luogo di
delizie, ai confini della Terra, nel mitico Oriente73. Appare evidente dunque
che l’improvviso spalancarsi delle Colonne d’Ercole, così come la perse-
guita circumnavigabilità dell’Africa se da un lato impongono all’intellet-

295-306; G. LANCIANI, Il meraviglioso come scarto tra sistemi culturali, in L’Ame-


rica tra reale e meraviglioso. Scopritori, cronisti, viaggiatori, (Atti del Convegno di
Milano), a cura di G. BELLINI, Roma 1990, pp. 213-218.
71 Cfr. G. PEPE, La politica dei Borgia, Napoli 1945, p. 18.
72 Cfr. J. GIL, Miti e utopie della scoperta. Cristoforo Colombo e il suo tempo,

Milano 1991; CROVETTO, «Andando más, más se sabe» cit.; SURDICH, Verso il Nuo-
vo Mondo cit.
73 Si rinvia a A. GRAF, Il mito del Paradiso terrestre, in Miti, leggende e su-

perstizioni del Medio Evo, rist. Bologna 1985 (Torino 1892), pp. XI-XXIII, 1-238
(riedizione incompleta a cura di G. BONFANTI, Milano 1984); L. OLSCHKI, Storia let-
teraria delle scoperte geografiche, Firenze 1937; A. GERBI, La natura delle Indie
Nove. Da Cristoforo Colombo a Gonsalo Fernandez de Oviedo, Milano-Napoli
1975; S. FASCE, Colombo, il Paradiso terrestre e Mircea Eliade, in Columbeis I, Ge-
nova 1986, pp. 199-205; M. CENTANNI, Da Aristotele ai confini del mondo: Ales-
sandro o dell’inveramento della meraviglia, «Strumenti critici», n.ser., 3 (1988), pp.
249-255; M. MIGLIO, Il giardino come rappresentazione simbolica, in L’ambiente
vegetale nell’Alto Medioevo, II, Spoleto 1990, pp. 709-724; G. TARDIOLA, Cristofo-
ro Colombo e le meraviglie dell’America. L’esotismo fantastico medievale nella
percezione colombiana del Nuovo Mondo, Roma 1992; F. SBERLATI, Esplorazione
geografica e antropologia: esperienze di viaggio tra ’400 e ’500, in L’Odepori-
ca/Hodoeporics: on Travel Literature, a cura di L. MONGE, «Annali d’Italianistica»,
14 (1996), pp. 183 e ss.; G. BOGLIOLO BRUNA, Paese degli iperborei, ultima Thule,
Paradiso terrestre, in Columbeis VI cit., pp. 161-178; MILANESI, Tolomeo sostituito
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388 DOMENICO DEFILIPPIS-ISABELLA NUOVO

tuale umanista di confrontarsi tempestivamente con la rivoluzionata realtà


scientifico-geografica per aggiornare i propri parametri culturali, dall’altro
mandano in frantumi tutto un apparato di schemi interpretativi e di meto-
dologie critiche, le quali, irreversibilmente sconfitte sul piano logico-razio-
nale, si aggrappano alla sfera escatologica e, sull’onda di una nostalgica ri-
generazione apocalittica, si riappropriano di una forte valenza religiosa. Di
qui la necessità di decodificare correttamente lo choc subito dall’intelli-
ghentia umanistica e di valutare l’esatto livello di ricezione che l’impatto
traumatico col nuovo mondo aveva attivato non solo nella produzione lette-
raria, ma anche nella riformulazione delle categorie mentali74.
Un simile processo è possibile rintracciare in alcuni scritti del De Fer-
rariis, che era personaggio di notevole rilievo presso la corte aragonese e
particolarmente sensibile alle questioni scientifiche, geografiche, cartogra-
fiche. Mi riferisco al De situ terrarum e alla De Hierosolymitana peregri-
natione sive Argonautica pubblicati con il De situ elementorum nel volu-
metto basileense del 1558 e all’epistola Ad Catholicum regem Ferdinan-
dum75. Gli opuscoli, pur appartenendo tutti all’epistolario composto dall’u-
manista salentino, ebbero diversa fortuna. I primi due infatti vennero sele-
zionati col De situ elementorum per costituire quella trilogia cosmologica,
cosmografica, geografica, che affidava all’editio princeps del 1558 la me-
ditata riflessione galateana sui gravi problemi filosofico-scientifici innesca-

cit.; F. CARDINI, Alla cerca del Paradiso, in Columbeis V cit., pp. 67-88. Cfr., per le
opinioni dell’Ammiraglio, COLOMBO, La storia del viaggio cit., in COLOMBO, Gli
scritti cit., pp. 220-221; GIL, Miti e utopie della scoperta cit., pp. 142-154; CRO-
VETTO, «Andando más, más se sabe» cit., pp. 411-413.
74 Cfr. GIL, Miti e utopie della scoperta cit., p. 69 e ss.; SURDICH, I riflessi del-

la scoperta sulla realtà europea, in SURDICH, Verso il Nuovo Mondo cit.; L’Ameri-
ca tra reale e meraviglioso cit.; Il letterato tra miti e realtà del Mondo Nuovo. Ve-
nezia, il mondo iberico e l’Italia, a cura di A. CARACCIOLO ARICÒ, Roma 1994;
L’impatto della scoperta cit.; Temi colombiani, Roma 1988; Il Nuovo Mondo tra
storia e invenzione. L’Italia e Napoli, a cura di G.B. DE CESARE, Roma 1990; E-
spaña e Italia: un encuentro de culturas en el nuevo mundo, (Atti del Colloquio I-
talo-Spagnolo, Barcellona, 20-22 aprile 1989), Roma 1990; Firenze e la scoperta
dell’America: umanesimo e geografia nel ‘400 fiorentino. Catalogo della mostra,
Firenze 1992, a cura di S. GENTILE, Firenze 1992; L’impatto della scoperta dell’A-
merica nella cultura veneziana cit.; Uomini dell’altro mondo. L’incontro con i po-
poli americani nella cultura italiana ed europea, (Atti del Convegno di Siena, 11-
13 marzo 1991), Roma 1993; Andando más más se sabe, (Atti del Convegno Inter-
nazionale «La scoperta dell’America e la cultura italiana», Genova, 6-8 aprile
1992), a cura di P.L. CROVETTO, Roma 1994.
75 Cfr. la precedente nota 12; l’epistola al sovrano spagnolo è pubblicata in DE

FERRARIIS GALATEO, Epistole cit., pp. 151-158.


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I RIFLESSI DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA 389

ti dagli esiti dei viaggi oceanici e delle scoperte76. L’epistola al Cattolico ri-
maneva invece agganciata alla raccolta di lettere perché, pur risalendo alla
comune matrice dei progressi geografici compiuti dagli Spagnoli, approda-
va poi ad una dimensione ideologica ben più articolata, che la sottraeva per-
tanto ad una lettura scientifica tout-court. D’altra parte anche l’intervallo
cronologico che separa questi opuscoli (1494 ca. il De situ terrarum77; 1504
il De Hierosolymitana peregrinatione; 1510 l’epistola Ad Catholicum re-
gem Ferdinandum) riflette una diversa messa a fuoco del problema geogra-
fico-politico imputabile più che a incoerenza o a volubilità dell’autore, ad
una sua rassegnata accettazione dei mutati equilibri di potere. Le tre epi-
stole, concepite con finalità senz’altro diverse, dirette a tre distinti destina-
tari, finiscono col canalizzare le loro argomentazioni verso un unico obiet-
tivo, che ci aiuta a recuperare i meccanismi interpretativi adottati dal Gala-
teo nell’esposizione di fatti e vicende solo apparentemente slegati tra di lo-
ro. Il De situ terrarum, anch’esso diretto al Sannazaro, come il De situ ele-
mentorum, registrava una dotta discussione avvenuta a corte alla presenza
di Federico, fratello del re Alfonso II e valoroso ammiraglio della sua flot-
ta, il quale prendendo spunto dall’esame di un recente portolano e avvalen-
dosi di una sicura esperienza nell’arte nautica, oltre che del prezioso baga-
glio di una raffinata cultura umanistica, aveva introdotto una vivace dispu-
ta sulla discussa distribuzione delle terre in rapporto alle acque. Il tema ri-
mandava esplicitamente alla ridefinizione delle concezioni classiche rimo-
dellate sull’apporto della moderna experientia e relegava nell’ambito delle
favole antiche il mitico racconto della penetrazione di Oceano, attraverso le
Colonne d’Ercole, fin nella più interna Propontide, variamente accolto ed e-
laborato da una tradizione classica alla quale il Galateo non voleva rinun-
ciare pur riconoscendone ovviamente l’infondatezza scientifica. Così come
non si sottraeva alla tentazione di segnalare, sia pure rapidamente, la inve-
rosimile esistenza della mitica Atlantide platonica78. Ma se l’orizzonte mi-
tologico esaurisce tutto lo spazio conosciuto e conoscibile entro i confini
delle terre percorribili e degli oceani navigabili, riducendo sempre più l’im-
maginario geografico in precise coordinate cartografiche, topografiche e to-
ponomastiche, si ingigantiva, per contrappeso quasi, la dimensione mitica

76 Cfr. TATEO, L’etica umanistica cit.


77 Si fa qui riferimento alla data in cui presumibilmente ebbe luogo il dibattito
ricordato dal Galateo; la stesura dell’epistola avvenne in un momento successivo,
quando, dopo la caduta del Regno (1501) il Galateo si era ritirato in Puglia: sui pro-
blemi di datazione v. ANTONIO GALATEO, De situ terrarum, in GALATEO, Epistole, a
cura di F. TATEO, cit., p. 62, nota 2; MONTI SABIA, Echi cit., pp. 300-301.
78 Cfr. TATEO, L’etica umanistica cit.
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390 DOMENICO DEFILIPPIS-ISABELLA NUOVO

della ritrovata età dell’oro, in cui le nuove terre sembravano felicemente im-
merse79. È estremamente significativo infatti che il Galateo, dopo aver e-
spresso un convinto elogio dell’ardire umano e dei navigatori che osarono
compiere un’impresa veramente degna di memoria, si soffermi poi ad in-
terrogarsi sull’effettivo vantaggio che quelle genti ritrovate avrebbero trat-
to dal contatto con la civiltà: «Macti virtute viri et memoratu dignissimi, de
nobis et posteris benemeriti, ausi se credere ignoto et infinito pelago, ausi
penetrare illud nescio quid vastum et inana naturae! […] O macti iterum at-
que iterum virtute viri, facinus ausi magnum et memorabile! Sed nescio an
gentibus quas reperistis in bonum cessit»80. Un lungo passaggio è impiega-
to dall’umanista per tracciare con provocatoria lucidità i danni, gli inganni,
le simulazioni e gli equivoci che un’ambigua idea di progresso e di civilitas
possono contrabbandare in terre eticamente ancora vergini e presso popoli
il cui felice stato di natura è senz’altro preferibile alla dilagante corruzione
dei loro più civili scopritori81. Questa lamentatio, retoricamente costruita

79 Cfr. R. ROMEO, Il mito dell’età dell’oro, in ROMEO, Le scoperte americane


cit., pp. 5-26; SURDICH, Uno spazio per l’Immaginario, l’Utopia e l’Allegoria, in
SURDICH, Verso il Nuovo Mondo cit., pp. 153 e ss.; G. COSTA, La leggenda dei se-
coli d’oro nella letteratura italiana, Bari 1972.
80 GALATEO, De situ terrarum cit., p. 66: il riferimento è all’impresa colombia-

na (v. GALATEO, Epistole, a cura di F. TATEO, cit., pp. 25-26), sebbene «il nome dei
naviganti» sia «studiosamente taciuto (probabilmente in uniformità a certi voleri po-
litici dei sovrani spagnoli)»: MONTI SABIA, Echi cit., p. 301, nota 65, cui si rinvia per
il rapporto tra l’epistola galateana e le testimonianze pontaniane, cui si è accennato,
sulla scoperta dell’America.
81 Cfr. TATEO, L’etica umanistica cit. La denuncia degli aspetti negativi legati

alla conquista spagnola trovano nel Galateo una precoce voce di dissenso, all’inter-
no di un panorama italiano nettamente filospagnolo; non a caso tale atteggiamento
dell’umanista salentino si affianca a quello antispagnolo sostenuto da alcuni am-
bienti europei, soprattutto francesi, in cui le accuse di un Las Casas, la cui Historia
de las Indias fu avviata nel 1527, avrebbero avuto ampia eco, e precede invece di
poco più di un decennio la analoga posizione assunta dal contemporaneo storico ge-
novese Agostino Giustiniani (Psalterium, Hebraeum, Graecum, Arabicum et Chal-
deum cum tribus latinis interpretationibus et glossis, Genova 1516) e di alcuni de-
cenni la dura «critica ai sistemi di colonizzazione impiegati nel Nuovo Mondo, che
costituisce il motivo dominante nel testo della ‘Historia’» di Girolamo Benzoni (G.
BENZONI MILANESE, La historia del Mondo Nuovo, Prefazione e note a cura di A.
VIG, Milano 1965, p. XIII): cfr. su tali aspetti ROMEO, Le scoperte americane cit.,
pp. 39-62, 87 e ss.; M. LANIERI, Colombo e la Spagna nell’opera di Agostino Giu-
stiniani, in Columbeis V cit., pp. 565-590: 579; SURDICH, Verso il Nuovo Mondo cit.,
pp. 111 e ss. e 190 e ss.; G.B. DE CESARE, Il Mezzogiorno d’Italia nella disputa sul
Nuovo Mondo, in Il Nuovo Mondo tra storia e invenzione cit., pp. 235 e ss.; G. BEL-
LINI, Las Casas, Venezia e l’America e L. SILVESTRI, Lo sguardo antropologico di
Girolamo Benzoni, in Il letterato tra miti e realtà cit., pp. 39-59 e 491-502.
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I RIFLESSI DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA 391

sui consolidati topoi dell’opposizione natura/civilitas82 trovava un efficace


archetipo nelle oraziane insulae fortunatae, esplicitamente richiamate dal-
l’umanista, là dove si assiste alla proiezione in un mitico spazio geografico
connotato classicamente secondo i moduli del locus amoenus, di un’inno-
cente e beata società primitiva, estremo rifugio per chi ha provato l’orrore
delle guerre civili e la decadenza dei costumi morali83. Anche in Seneca,
che sicuramente Galateo ha presente, così come in Plinio e nel ciceroniano
Somnium Scipionis, proprio nella sequenza dedicata alla trattazione delle
acque si apriva una parentesi profondamente meditativa, in cui l’autore an-
tico si soffermava a riflettere sul significato e sugli effetti della fortuna, sul-
la sua capacità di sovvertire non solo le condizioni private, ma anche quel-
le degli Stati, rovesciando, a volte in maniera catastrofica, vecchi equilibri
e consolidati imperi. Di qui nasceva la conseguente considerazione di non

82 «Vereor ne, dum vos ad cultiorem vitam illos ducere creditis […] afferre cu-
ratis, ingeratis simul et nostra vicia. […] Nec deerit in tam magno populo aliquis,
cui a natura ingenii lumen insitum sit (homines enim sunt) cognoscatque ab exter-
nis non tam cultos mores quam depravatos»: GALATEO, De situ terrarum cit., pp. 66-
68; e cfr. A. GIUSTINIANI, Psalterium cit.: «Mittit Hispania iam sua in innocuum or-
bem venena, oneratur plurima et serica et aurata veste, et cui non satis erat de hoc
nostro orbe triumphasse, navigat in puros et innocuos populos luxus» (si cita da LA-
NIERI, Colombo e la Spagna cit., p. 579, nota 43).
83 «Vere fortunatae gentes et, ut ait Horatius [Epod. 16, 41-48], beatorum in-

sulae, suis contentae rebus, aurea vivebant secula», GALATEO, De situ terrarum
cit., p. 66. Cfr. su tali aspetti in generale ROMEO, Le scoperte americane cit., p. 27
e ss.; T. J. CACHEY JR., Le Isole Fortunate nella storiografia di scoperta del Cin-
quecento, in Le Isole Fortunate. Appunti di storia letteraria italiana, Roma 1995,
e per la figura del Galateo il cap. Diagnosi del potere nell’oratoria di un medico,
in TATEO, Chierici e feudatari del Mezzogiorno cit., pp. 3 e ss.; ANTONIO DE FER-
RARIIS DIT GALATEO, De educatione (1505), a cura di C. VECCE-P. TORDEUR, Lo-
vanio 1993. Risalta ancor più l’eccentrica autonomia della posizione del Galateo
se confrontata con quella corale encomiasticamente volta a dichiarare i valori del-
la conquista spagnola rilanciata, ad esempio, anche dall’anonimo estensore del De
situ terrarum colocciano: sebbene le «isole fortunate» designino nei due testi
realtà geografiche diverse – l’America per l’uno, le isole Canarie per l’altro – è
tuttavia analogo il processo di assoggettamento e di acculturazione di popolazio-
ni primitive interpretato positivamente nel manoscritto del Colocci: «Ispanique i-
tem alii fortunatis potiti sunt insulis, ad easque civile cultum religionemque ac ri-
tus Christianos attulerunt», cui fa eco la voce neutra del Pontano, il quale si limi-
ta a registrare poeticamente lo stato di primitiva beatitudine in cui si sarebbero tro-
vate a vivere le Canarie, senza produrre giudizi sulla conquista: v. De rebus coe-
lestibus, l. XIV, ed. cit., c. V8r; De aspiratione, Napoli 1481, c. 7v (citati in MON-
TI SABIA, Echi cit., pp. 294-296).
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392 DOMENICO DEFILIPPIS-ISABELLA NUOVO

lasciarsi abbagliare dal potere o dalle ricchezze, ma di valutare che molto


più importante della conoscenza empirica derivante dai viaggi e dalle pere-
grinazioni, è la conoscenza speculativa diretta al bene beateque vivere, che
equivaleva a ribadire la superiorità dell’indagine filosofia su quella storica
e contraddiceva la riflessione ciceroniana sulla preminenza della storia:
«Quanto satius est quid faciendum sit quam quid factum quaerere, ac doce-
re eos, qui sua permisere fortunae, nihil stabile ab illa datum esse, munus
eius omne aura fluere mobilius!» e ancora, con un più preciso riferimento
alle conquiste condotte sull’elemento aqueo, oggetto appunto della tratta-
zione del terzo libro delle Naturales quaestiones, così come anche argo-
mento nodale della trattazione del De situ terrarum del Galateo: «Quid
praecipuum in rebus humanis est? Non classibus maria complesse nec in
Rubri maris litore signa fixisse nec, deficiente ad iniurias terra, errasse in
oceano ignota quaerentem, sed animo omne vidisse et, qua maior nulla vic-
toria est, vitia domuisse: innumerabiles sunt qui populos, qui urbes habue-
runt in potestate, paucissimi qui se»84. Non c’è dubbio che la suggestione
di questi atteggiamenti mentali, già preoccupati di conciliare un crescente
patrimonio conoscitivo con la purezza della sfera morale operavano attiva-
mente nell’impianto ideologico del Galateo, e lo conducevano ad assumere
assai precocemente una posizione che incontrerà successivamente grande
fortuna e che opportunamente rielaborata sconfinerà nella costruzione di un

84 La riflessione senechiana offriva al Galateo oltre che un valido sostegno, sia

pur accortamente sottaciuto, della posizione che egli assumeva nella premessa alla
narrazione del dibattito de situ terrarum – anche qui il cantuccio che l’autore si ri-
servava per manifestare la sua opinione è il luogo già privilegiato da Seneca (Natu-
rales quaestiones, 3, Praef., 7 e 10) –, un interessante spunto per la descrizione del-
l’azione della Fortuna contenuta anch’essa all’interno di un contesto squisitamente
geografico e programmaticamente collocata, per il suo condizionante valore etico,
in apertura del De situ Iapygiae cit., p. 11; i luoghi in cui Plinio e Cicerone legano
la meditazione sulla precarietà dell’azione umana sottoposta all’incessante azione
della fortuna e sulla finitezza e sulla vanità della gloria terrena, ponendola in rap-
porto contrastivo con la piccolezza del mondo abitato e inserendola, anche in que-
sto caso, in contesti di tipo cosmografico, sono quel passaggio della Naturalis hi-
storia in cui si parla della divinità, dopo aver illustrato le plaghe del mondo (2, 22),
e quei capitoli della parte conclusiva del sesto libro della Repubblica ciceroniana,
tramandataci da Macrobio col titolo di Somnium Scipionis e già utilizzata da Pe-
trarca nell’Africa per il suo ‘Magone morente’, in cui l’illustrazione dell’ecumene
introduce e precede la serrata meditazione etica (6, 20 e ss.). Seneca fornisce quin-
di con la sua opera argomentazioni utili a persuadere Colombo della fattibilità del-
l’impresa (e anche qui in una Prefazione, quella al primo libro: v. nota 24), ma an-
che a indirizzare l’uomo ad un corretto uso delle più ampie conoscenze cui pervie-
ne e del potere e delle ricchezze che da esse derivino.
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I RIFLESSI DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA 393

nuovo mito: quello del buon selvaggio85. Qui si possono leggere solo le pre-
messe di un discorso destinato ad arricchirsi e a complicarsi notevolmente
nelle scritture storiche posteriori, ma è già molto importante individuare in
questa fase cronologica (1494 ca.) il referente classico, cui il Galateo si i-
spira, e il referente politico, sul quale si ribalta la condanna della falsa ci-
viltà. I re spagnoli, ai quali pur si fa risalire il merito delle scoperte, diven-
tano poi l’implicito bersaglio della polemica invettiva contro la devastante
degenerazione di un costume etico e politico che proprio nella Spagna tro-
vava la sua matrice. Sebbene infatti in queste pagine del De situ terrarum il
circostanziato catalogo di vizi e nefandezze non assuma una chiara identità
politica e geografica, stemperandosi preferibilmente nella più vaga e uni-
versale criminalizzazione della civilitas, in altre opere successive, come il
De educatione e l’Espositione del Pater Noster, quell’identico repertorio di
mali morali, di degenerati costumi sociali, di perfidi atteggiamenti compor-
tamentali, di vacue millanterie militari diventerà il codificato schema de-
scrittivo per qualificare inequivocabilmente gli Spagnoli86. Per ora all’uma-
nista importava essenzialmente smascherare i limiti di una civilitas che si
riappropriava integralmente del suo primato solo nella sfera della cono-
scenza, nella duplice valenza di sapientia ed experientia e della virtus nel
duplice livello di areté e téchne, ma cedeva inesorabilmente di fronte al-
l’intatta società primitiva. Con un prestito virgiliano l’autore faceva escla-
mare ad un indigeno più dotato degli altri: «Felice, ah troppo felice, se nem-
meno le sponde / della nostra terra avessero mai navi straniere toccato»87.
Chiuso il problematico excursus prendeva la parola l’Acquaviva, che ricon-
duceva il percorso della discussione nel solco più consueto e scientifica-
mente più rigido della esatta collocazione di terre ed acque.
Alcuni anni dopo, intorno al 1504-1505, si era appena compiuto il de-
stino della dinastia aragonese e l’infelice Regno di Napoli era ormai ridot-
to a semplice Viceregno, sul quale incombeva l’inquietante fantasma del
dominio spagnolo. Il Galateo, che da quella terribile vicenda usciva parti-
colarmente frustrato e avvertiva fino in fondo l’umiliazione politica e l’ap-
piattimento morale e culturale che quella tragedia storica rappresentava
per la superstite accademia pontaniana, oltre che per lo smarrito ceto ba-

85 ROMEO, Le scoperte americane cit., pp. 50 e ss.; T. TODOROV, La conquista

dell’America. Il problema dell’altro, Torino 1984.


86 Cfr. GALATEO, De situ terrarum cit., pp. 66, 68; ID., De educatione (1505)

cit., pp. 106-108 e passim; ID., Esposizione del ‘Pater Noster’, in La Giapigia e va-
rii opuscoli di A. De Ferrrariis detto il Galateo, a cura di S. GRANDE, Lecce 1867-
1871, IV, pp. 149-238, XVIII, e 1-104 passim.
87 «Felix heu nimium felix, si littora tantum / externae nunquam tetigissent no-

stra carinae», VERG., Aen., 4, 658-659: GALATEO, De situ terrarum cit., pp. 68-69.
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394 DOMENICO DEFILIPPIS-ISABELLA NUOVO

ronale, traduceva sul piano mitico-religioso l’opposizione ideologica e po-


litica di un orgoglioso manipolo di intellettuali, i quali si sottraevano con
una emblematica fuga al patto di sudditanza verso un potere non solo stra-
niero, ma anche ostile nei confronti di quel progetto culturale che, pazien-
temente promosso e instancabilmente perseguito negli anni della dinastia
aragonese, aveva rappresentato l’arma del riscatto e dell’autolegittimazio-
ne di una intera generazione di umanisti, i quali erano riusciti a coniugare
in buona sintonia strategie politiche e programmi letterari. Il viaggio dun-
que si offriva al Galateo come l’unico antidoto per varcare i confini di uno
spazio diventato improvvisamente troppo angusto e ingorgato da ingom-
branti presenze straniere. Un viaggio, quello delineato nella De Hierosoly-
mitana peregrinatione, che si propone subito un duplice itinerario e un du-
plice obiettivo: è un rigenerante tragitto penitenziale e di espiazione, ma
pur adottando la forma del pellegrinaggio religioso, non rinuncia poi al
travestimento mitologico, anzi amplifica il messaggio metaforico eviden-
temente legato alla scelta di un viaggio pur sempre immaginario e lettera-
rio, travestendo il medievale itinerarium Hierosolomitanum88 con i classi-
ci panni degli Argonautica. Sono queste due contrastanti connotazioni del-
la De Hierosolymitana peregrinatione a fornirci la chiave di lettura di
un’epistola che riassume significativamente il disagio politico-culturale ed
esistenziale dell’umanista salentino, che, sebbene profondamente affasci-
nato dal rilancio ideologico del viaggio geografico e di scoperta, non si al-
linea con le entusiastiche manifestazioni di consenso nei confronti degli
Spagnoli e sembra anzi intenzionalmente prendere le distanze da un’im-

88Su tale tematica si rinvia alla Presentazione di Francesco Lo Monaco a FRAN-


CESCO PETRARCA, Itinerario in Terra Santa 1358, a cura di F. LO MONACO, Bergamo
1990; i tre piani di lettura – religioso, descrittivo, esemplare – che Lo Monaco indi-
vidua nell’Itinerario petrarchesco seguendo le indicazioni dello stesso autore (Itin.
28, 83-90), sono facilmente rintracciabili anche nell’epistola galateana, cui si ag-
giunge il livello mitologico, che reinventa, col rinvio ai classici, una tipologia di scrit-
tura codificata dalla tradizione nel segno del miracoloso/meraviglioso e assai spesso,
come nel caso del Petrarca, del rendiconto di un viaggio immaginario redatto sulla
scorta degli auctores e delle Sacre Scritture: cfr. anche F. LO MONACO, L’“Itinerario
in Terrasanta”di Francesco Petrarca, in Columbeis V cit., pp. 263-378; Volgarizza-
mento meridionale anonimo di F. Petrarca, Itinerarium breve de Ianua usque ad Ie-
rusalem et Terram Sanctam, ed. crit. a cura di A. PAOLELLA, Bologna 1993; F. CAR-
DINI, I viaggi di religione, d’ambasceria e di mercatura, in Storia della società ita-
liana, VII, Milano 1982; ID., L’immaginario del viaggio dal Medioevo al Quattro-
cento, in Il mondo di Vespucci e Verrazzano: geografia e viaggi dalla Terrasanta al-
l’America, a cura di L. ROMBA, Firenze 1993, pp. 9-27; A. PAOLELLA, Petrarca: pe-
regrinus an viator?, in L’Odeporica/Hodoeporics cit., pp. 152-176; ID., Petrarca e la
letteraura odeporica del Medioevo, «Studi e problemi di critica testuale», 44 (1992),
pp. 61-85.
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I RIFLESSI DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA 395

presa nautica materializzatasi per effetto dell’experientia e che approda a


mete bisognose di essere civilizzate ed evangelizzate. Non è questa l’aspi-
razione del Galateo e dei suoi amici. Il loro viaggio rappresenta un’inver-
sione di rotta ed è insieme di fuga e di ritorno. È una proiezione mentale
che accorpa due tappe fondamentali nel cammino dell’umanista; è la ri-
cerca a ritroso verso la Grecia e le isole dell’Egeo di una identità cultura-
le momentaneamente smarrita, ed è attraverso il pellegrinaggio votivo in
Terra Santa l’estremo recupero e riconoscimento di una fede religiosa che
sola può trasformare il nostro viaggio in passagium89. Al mito di Ulisse
Galateo sembra preferire quello di Giasone e degli Argonauti, alla viola-
zione delle Colonne d’Ercole la navigabilità del «liquido continente medi-
terraneo»90, al moderno mito dell’America l’antico mito della Grecia, allo
stato di natura la inossidabile civiltà classica, al favoloso Paradiso terrestre
il vero paradiso, consegnatoci dalla rivelazione, tangibilmente rintraccia-
bile nei luoghi santi, là dove compiendosi la missione del Cristo si apriro-
no per noi le porte dell’eternità. Il monito etico, la soglia ontologica rap-
presentata da Gibilterra agiva da deterrente nella coscienza religiosa del
Galateo, e se i viaggi oceanici avevano smentito e ridimensionato gli anti-
chi auctores, l’umanista non per questo rinnegava la loro cultura, anzi al
contrario il riproporsi come moderni argonauti alla conquista del vello d’o-
ro, significava allegoricamente impegnarsi nel recupero e nel salvataggio
di quell’unica vera ricchezza che non ha prezzo e non ha padroni; signifi-
cava riaffermare prepotentemente le proprie radici culturali e di civiltà91;
significava ergersi a depositari e trasmettitori di un sapere e di una cono-
scenza che non era solo ‘folle’ curiositas, ma prudente sapientia. Perciò il
viaggio del Galateo, concepito come fuga, diventava una peregrinatio ani-
mae ed un itinerarium spirituale, che privilegiava le vestigia delle città gre-
che alle pompe e alle vanità di Spagna e di Francia92 e corroborava la fede
religiosa dell’umanista93 consentendogli quel ritorno, quel nóstos, che lo

89 «Scis noster Iason quantum tibi gloriae ex hac expeditione accedet: non e-
nim referes aureum vellus aut Medeam, veneficum scortum et truculentum, sed pa-
radysum, hoc est felicitatem et beatam vitam, et inter Christianos immortale nomen
et multarum rerum peritiam: qua in re, ut scis, maxime laudavit Homerus»: GALA-
TEO, De Hierosolymitana peregrinatione cit., pp. 77-78.
90 Cfr. F. BRAUDEL, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, I,

Torino 1986.
91 «Salve tellus sacra et veneranda mihi, divino Hippocrate cive nobilis et Ga-

leni testimonio terrarum omnium temperatissima!»: GALATEO, De Hierosolymitana


peregrinatione cit., p. 78.
92 «Gratius est mihi videre […] haec graecarum urbium busta, has heroum fe-

races terras, quam Hispaniae aut Galliae pompas et vanitates»: ibid., p. 78.
93 «O mens mundi, o Dei patris sapientia, illumina mentes nostras, ut sapien-

tiores et meliores domum redeamus»: ibid., p. 79.


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396 DOMENICO DEFILIPPIS-ISABELLA NUOVO

vedrà impegnato insieme con i suoi sodali argonauti a combattere una dif-
ficile battaglia, quella dell’estrema difesa del primato della civiltà classica
e della purezza evangelica della chiesa cristiana94.
Con la terza epistola, quella Ad Catholicum regem Ferdinandum, scrit-
ta presumibilmente intorno al 1510 e comunque subito dopo la conquista di
Tripoli, alla quale si fa riferimento, la vis oratoria del Galateo muta decisa-
mente segno e imbocca una direzione del tutto inedita. Dal modulo scienti-
fico e mitologico si passa a quello storiografico. L’elogio di Ferdinando, re-
toricamente costruito sul topico schema del panegyricus, rappresenta un u-
nicum nel corso dell’epistolario e nella produzione letteraria dell’umanista,
per nulla incline a celebrare i potenti, tanto più se stranieri e spagnoli. Va su-
bito chiarito dunque che la mutata disposizione psicologica e l’inaspettato
atteggiamento ideologico registrano più che un opportunistico compromes-
so politico la coraggiosa dichiarazione di un suddito, che dopo aver ostina-
tamente negato il suo assenso quando le sorti del Regno di Napoli sembra-
vano poter ancora giocare un ruolo diverso ed aspirare alla restaurazione del-
la dinastia aragonese, riconosceva ora, di fronte alla ineluttabile forza degli
eventi, il legittimo dominio del Cattolico e si apprestava ad esaltarne i meri-
ti abbandonando l’ormai inattuale polemica antispagnola e riabilitando l’im-
magine di un popolo che si era riscattato grazie alla singola virtus di un uni-
co re, Ferdinando. Ma per quanto riconcigliatosi con la terra iberica, l’uma-
nista non intende rinnegare la gravitas italiana, tante volte contrapposta nel
passato alla vanitas degli stranieri95, e pertanto concepisce un esordio in cui
il nuovo punto di vista è programmaticamente affidato all’impegnativo rico-

94 «Haec litterarum quondam mater, conditore suo non magis quam architecti
industria celebris, Alexandrea. Haec est omnium occidentis populorum commune
emporium. […] Peragremus Idumeam et Palaestinam et terram illam fluentem lac et
mel, hoc est salutem animarum, nostrarum et virtutum omnium dulcissimos et salu-
berrimos fructus. […] Hinc, Aquevive, salutatis sanctis locis, redibimus sanctiores.
[…] Satis sit nobis vidisse sancta et nobilissima orbis loca, satis sit peregisse sacrum
iter, ut habeamus quod pueris senes narremus. In magnificis vero Hispaniarum et
Galliarum rebus stabimus relatui aliorum, quibus, quantum ipsi nobis, tantum nos
illis fidei adhibebimus. Tu, noster dux, incipe de peregrinatione cogitare, si Sarace-
norum res compositae sint: nam diebus in maximo erant tumultu»: ibid., pp. 78-80
passim.
95 «Quis enim eum qui suo regi aureas vestes, vascula aurea atque argentea, aut

ipsa humanae vanitatis indicia indicas gemmas et vitro non absimiles lapillos, quo-
rum ipse locupletissimus est, donaverit, non cauponem aut foeneratorem appellave-
rit, aut potius piscatorem qui sub parva esca grandem venari putet acipenserem aut
rhombum?»: GALATEO, Ad Catholicum regem Ferdinandum, de capta Tripoli cit., p.
151.
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I RIFLESSI DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA 397

noscimento nel sovrano spagnolo del rappresentante di Dio in terra96, e l’in-


dividuazione di questo ruolo autorizza il letterato a stigmatizzare come i-
nopportune le offerte preziose che sembrerebbero in qualche modo voler ri-
cattare il signore per assicurarsene la complice protezione e a ripristinare in-
vece l’antica frugalità dell’omaggio, che nelle età veramente felici non di-
sdegnarono nemmeno gli dei97. A questo punto la laudatio assume un con-
notato spiccatamente politico, e una lunga sequenza elenca le indiscusse
qualità strategiche del giovane Ferdinando, che seppe affiancare il vecchio
padre nella vittoriosa risistemazione interna della penisola iberica. Una gran-
de sensibilità politica, una consapevole attenzione per i problemi del proprio
popolo, una forte concezione mistica dei diritti e dei doveri dello Stato, gui-
darono il Cattolico nella strenua lotta contro i Mori, e la conquista di Gra-
nata fu salutata con gioia dalla cristianità occidentale, sempre preoccupata
dell’Islam, accrescendo notevolmente il prestigio del sovrano spagnolo. Con
una operazione non certo indolore il Cattolico pianificava i programmi mili-
tari e con saggia ma ostinata determinazione compiva le sue mosse su uno
scacchiere ormai dilatato all’Africa e all’Italia. La gradatio martellante con
cui l’umanista scolpisce il ritratto di questo infaticabile paladino della cri-
stianità imprime il suggello del consensus divino ad un imperium che si fa
strada praticando esclusivamente un bellum iustum e che materializza per-
tanto un signum che anche le altre nazioni non stenteranno a riconoscere98.
Non tardava infatti ad arrivare il più recente successo, la conquista di Tripo-
li, che allontanava tempestivamente il pericolo turco dalle minacciate regio-
ni dell’Italia meridionale. Era quindi sicuramente sincera la gratitudine e-
spressa dal Galateo per una campagna militare che si poneva quale bersaglio
privilegiato la lotta contro gli infedeli. Gli esemplari labores di Ferdinando,
epicamente ripercorsi dall’orazione galateana, costituivano però una funzio-
nale premessa per introdurre l’altro tema fondamentale nell’elogio del so-
vrano: la lode per le imprese nautiche e geografiche. La celebrazione si sno-
da serrata, e tutte le tappe degli incalzanti successi oceanici vengono ricor-

96 «Hic est mos Deo immortali, inclyte rex, necnon et vobis regibus, qui illius

vicem in terris geritis»: ibid., p. 151.


97 «O felicia saecula, in quibus Superi contenti erant ut puris moribus, sic et pu-

rissimis donis, farre et ture et spiceis sertis et oleo! […] Neque ego deliquerim si
magnitudini nominis, immo et numinis tui, parva quidem sed pura et sincera obtu-
lerim munera; ut qui pro tuis partibus, pro fide in te servanda, ut plerique Hispano-
rum noverunt, superioribus bellis res meas, me ipsum, uxorem et filios periculis om-
nibus exponere non dubitaverim»: ibid., pp. 151-152.
98 «Quid dicam? Ubicumque tuum venerandum nomen exauditur, eodem et vic-

toria sequitur. Tu solus inter christianos principes non christianorum, sed hostium
Christi, sanguinem semper sitisti. Iam tenes Christo duce munitiora et tutiora utriu-
sque Mauritaniae et Numidiae et Aphricae orae loca»: ibid., p. 153.
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date, da Taprobane alla circumnavigazione dell’Africa, all’Oceano Indiano


congiunto con lo Spagnolo, allo scoprimento di terre ignote e di mari mai na-
vigati. L’audacia delle imprese nautiche fu accresciuta dalla strategia econo-
mica, dall’opera evangelizzatrice e dall’impegno di civilizzazione; tutto ciò
non poteva essere che il segno di una particolare benevolenza divina, e l’an-
nuncio profetico che la Spagna era chiamata a grandi cose99.
Subito dopo lo sbarco di Colombo, infatti, si vide nella cristianizza-
zione del nuovo mondo una forma di risarcimento per le conquiste dell’I-
slam; l’improvvisa proiezione degli interessi europei verso l’estremo Occi-
dente venne interpretato come il contraccolpo e la continuazione dello slan-
cio dei Musulmani dall’Oriente verso l’Occidente. Lo stesso Colombo, che
naviga verso Ponente nella speranza di trovare le Indie, dà l’avvio a quella
nuova suggestione che vede nelle Indie dell’Occidente un compenso della
cristianità. Queste allusioni ad un cammino della civiltà cristiana da Orien-
te verso Occidente, suffragata dall’eccezionale espansione politica ed eco-
nomica della Spagna nel Nuovo Mondo sembravano confermare in ambito
geografico le antiche teorie storiografiche, che ordinavano la storia univer-
sale sugli schemi delle quattro monarchie o delle sei età del mondo, e giu-
stificavano la fatale grandezza e decadenza della ciclica successione degli
imperi: è la moderna riproposizione dell’antica translatio imperii. In que-
sto clima sembra muoversi anche l’oratio galateana, che coniuga la pienez-
za dei tempi, insistentemente annunciata dai profeti, col primato spagnolo
enfaticamente riconosciuto dall’umanista salentino100. Ma ecco che con u-

99 «Iam ad Taprobanem per maria nullius ante trita rate devenimus. Taprobane hi-

spana et signa et arma vidit. Vestrum nomen iam utrumque horret hemisphaerium.
Nec fraudabo Lusitanos tuos suis laudibus. O inclyti, o felices occidentis reges! nun-
quam satis a me laudati, quamvis vestra egregia facta et aetema digna memoria, ubi-
cumque locus tempusque suasit, nunquam tacui neque hic tacebo. Vos vos ausi estis
rem futuris saeculi memorandam atque admirandam, quam nec confines et praepo-
tentes Carthaginienses noverunt, nec rerum domini Romani, nec is qui se Iovis filium
et mundi regem appellari iussit. Coniunxistis Indos Hispanis; sulcastis ignotum va-
stum illud et inane naturae; ostendistis nobis ignotas terras et inaudita nedum visa ma-
ria; iunxistis indicum hispanico oceano, et circumfluam demonstrastis esse Aphricam,
quod astrologorum maximus in Aegypto sub florente romano imperio natus, necnon
et Iuba rex rerum diligentissimus indagator ignoravit. Quid aliud hoc est quam aut ex
duobus unum, aut ex disiuncto terrarum orbe continuum fecisse? Auxistis commercia
et consuetudines gentium totque immanes nationes et pecorum more viventes ad reli-
gionem et ad bene et culte vivendum instituistis. Non est facile dicere quantum vobis
humana immo et christiana res debeat»: ibid., pp. 153-154.
100 «Haec sunt, magnanime rex, quae mihi fidem faciunt, celsitudinem tuam ad

multo maiores res gerendas a Christo servatam. […] Suadet mihi, ut credam, haec
ita ut dico futura esse, ordo et series quaedam rerum humanarum a Deo instituta. In
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I RIFLESSI DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA 399

na imprevedibile virata, Galateo inverte ancora una volta la traiettoria del


suo discorso e facendosi erede delle ultime volontà di Colombo sembra vo-
ler rammentare al sovrano spagnolo l’obbligo di una promessa e di un im-
pegno assunti col navigatore ligure. Certamente in quegli anni dovevano es-
sere noti al letterato non solo le lettere ai reali e le relazioni di viaggio di
Colombo, ma anche gran parte della documentazione e degli scritti sulle
scoperte che senza dubbio circolavano nell’ambiente napoletano suscitando
riflessioni e stimolando eruditi dibattiti. Appare perciò particolarmente em-
blematica la penultima sequenza dell’epistola, in cui il rimando al pro-
gramma ideologico e religioso di Colombo suggerisce quasi l’inconscia ri-
proposizione di uno schema latente sul quale si articola la reale idea di pro-

oriente apud Assyrios, Medos, Persas coepere imperia. Inde Aegyptii et Scythae in
magna parte terrarum, Iudaei et Phoenices in quota parte dominati sunt. Post vero
Macedones rerum potiti, ultimo oriente terminaverunt imperium. Carthaginienses
quoque Aphricae et Hispaniae et Mediterranei maris nonnullis insulis imperaverunt.
Romani longius latiusque quam ceterae nationes, quas unquam legimus, propaga-
verunt imperii sui fines; sanctius iustiusque quam ceteri omnes mortales suis viribus
usi sunt; gentes, quas subegerunt, humanitate et bonis moribus instituerunt partici-
pesque fecerunt imperii; ab una urbe orbis victus est plus fide, clementia, liberalita-
te et beneficiis quam armis. Gothi et Longobardi diu regnaverunt. Prisci Galli usque
in Asiam et Taurum montem penetraverunt. Posteriores vero, quos potuit Francos
appellaverim (sunt enim ab antiqua origine Germani), sub romanorum pontificum
umbra multas orbis partes occupaverunt praeclaraque gesserunt opera. Germani
iamdiu dono pontificum romanorum obtinent imperium. Soli Hispani hucusque
suam vicissitudinem non habuerunt; soli Hispani sua signa nunquam e solo patrio
extulerunt. Fortissimi viri, ut constat apud omnes scriptores, Hispani semper habiti
sunt, sed sub alienis signis, sub alienis auspiciis, nunc sub romanis, nunc sub poe-
nis ducibus. Iam redditae sunt Hispaniae suae vices et, te regnante, iam caput orbis
erit. Plus tibi se debere Hispaniam fateri necesse est quam omnibus ante te regibus.
Tu illam a servitute eripuisti, militari disciplina et mitissimis moribus instruxisti. Ne
perdite, Hispani, occasionem. Venere vestra tempora. Hoc non a vate, sed a viro non
malo dictum accipite et credite; sub Ferdinandi istius auspiciis toti terrarum orbi im-
perabitis; si modo in victoriis vestris et in tanto et novo afflatu fortunae vobis tem-
perare didiceritis, memores humanarum rerum et eorum qui vobiscum una periculis
se suaque omnia exposuerunt. Indignabunda res victoria est, et cum se non perbeni-
gne ac perhumane, sed superbe et insolenter tractari noverit, alas habet et fugit alio,
et quos ante afflixerat nonnunquam amplectitur. Illius hae tantum leges sunt: parce-
re subiectis et debellare superbos»: ibid., pp. 155, 157-158. Su questo tema cfr. F.
TATEO, Il ritorno della barbarie, in TATEO, I miti della storiografia umanistica, Ro-
ma 1990, pp. 81-98, ma v. anche G. FERRAÙ, La concezione storiografica del Valla:
i Gesta Ferdinandi Regis Aragonum, in L. Valla e l’Umanesimo italiano, a cura di
O. BESOMI-M. REGOLIOSI, Padova 1986, pp. 265-310; e ora ID., Il tessitore di Ante-
quera cit.
Cap. 16 DeFilippis-Nuo 355-404 13-09-2002 13:25 Pagina 400

400 DOMENICO DEFILIPPIS-ISABELLA NUOVO

gresso che alla fine accomunava l’uomo di mare e l’uomo di lettere. È no-
ta quanto profonda fosse la formazione e la fede cristiana di Colombo e con
quanta convinzione fosse andato raccogliendo dopo i primi viaggi non solo
un erudito apparato di fonti classiche con le quali confortare le sue espe-
rienze e modellare i suoi racconti impreziosendoli con dotte citazioni, ma
era anche venuto raccogliendo un altrettanto ricco repertorio di fonti bibli-
che e scritturali, di profezie testamentarie, che giustificassero e interpretas-
sero la sua mitica impresa101. Per questo era convinto di compiere una mis-
sione provvidenziale, voluta e guidata da Dio stesso: «Già dissi come per la
realizzazione dell’impresa delle Indie non m’avessero giovato né ragione né
matematica né mappamondi; semplicemente si compì ciò che disse Isaia»,
aveva detto nella famosa lettera ai sovrani del 1501102. Secondo una diffu-
sa mentalità tardomedievale Colombo riteneva, come molti suoi contempo-
ranei, che Dio avesse costellato il cammino della storia di segnali inequi-
vocabili, annunciati dai profeti. L’attesa escatologica si faceva sempre più
assillante e il navigatore non ignorava la misteriosa predizione di Gioac-
chino da Fiore secondo cui agli Spagnoli sarebbe spettata la conquista di
Gerusalemme103. Ma il Genovese era ancora più esplicito: Dio lo aveva fat-
to messaggero «del nuovo cielo e della nuova terra che Nostro Signore an-

101 Cfr. nota 73 e P. COLLO, Andando más, más se sabe, in COLOMBO, Gli scrit-

ti cit., pp. 420-424.


102 «[…] ho visto e mi sono studiato di compulsare tutti i libri di cosmografia,

di storia, le cronache, i libri di filosofia e di altre arti alle quali Nostro Signore mi
aprì l’intelletto con mano palpabile, per darmi a intendere ch’era possibile navi-
gare di qui alle Indie, e mi provvide di volontà per mandare a esecuzione il mio pro-
getto. […] Tutte le scienze, di cui ho detto sopra e l’autorità loro non mi furono
d’alcun giovamento. Solo nelle Vostre Altezze trovai fede e tenacia. Chi mai po-
trebbe dubitare che tale luce non procedesse dallo Spirito Santo, così come da me?
Il quale […] venne in soccorso con l’alta e chiarissima voce della Santa e Sacra
scrittura, con i quarantaquattro libri del Vecchio Testamento e i quattro Evangeli,
e le ventitre Epistole di quei bonavventurati Apostoli, incitandomi a che io dessi
corso all’impresa. […] La Sacra Scrittura nel Vecchio Testamento […] testimonia
che questo mondo deve aver fine […] Sant’Agostino dice che cadrà la fine di que-
sto mondo nel settimo millennio della sua creazione […] Secondo questo compu-
to non mancano che centocinquantacinque anni al compimento dei settemila […]
E il Nostro Redentore disse che prima della fine del mondo dovrà compiersi tutto
ciò che i Profeti hanno annunciato […] Isaia è fra tutti il più celebrato […] Già dis-
si come [...]»: CRISTOFORO COLOMBO, Lettere ai Re, da Cadice o Siviglia, 1501, in
COLOMBO, Gli scritti cit., pp. 289-293: 292-293. Sul significato e l’importanza del-
la famosa lettera indirizzata ai re cattolici si rinvia a GIL, Miti e utopie della sco-
perta cit., pp. 198-227.
103 «E questo è quanto bramo di scrivere per ricondurlo alla memoria delle Vo-

stre Altezze e perché vi rallegrino del resto che dirò loro di Gerusalemme con paro-
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I RIFLESSI DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA 401

nunciò per mano di san Giovanni nell’Apocalisse, e prima disse per bocca
di Isaia»104, il quale dice nel versetto 65, 17 e ss.: «Poiché, ecco, io creo cie-
li nuovi e una nuova terra: non sarà più ricordato il passato, non verrà più
in mente […] poiché, ecco, rendo Gerusalemme una gioia, il suo popolo un
godimento [...] fabbricheranno case e le abiteranno, pianteranno vigne e ne
mangeranno i frutti». L’apparizione dunque della Gerusalemme celeste di-
ventava un punto dominante dell’orizzonte mentale colombiano105, che a-
deriva perfettamente con quelle ansie mistiche di renovatio e di devotio mo-
derna che un’accorta predicazione andava sollecitando e favorendo in ampi
settori della popolazione. Sempre più infervorato da queste evidenti corri-
spondenze Colombo persiste nella sua utopia: «e poiché al tempo che io
mossi per andare a scoprire le Indie lo feci con l’intenzione di impetrare al
Re e alla Regina Nostri Signori che dalla rendita che le Loro Altezze traes-
sero dalle Indie deliberassero di finanziare la conquista di Gerusalemme, e
così in tal senso io li supplicai»106. D’altra parte la conquista di Granata a-
veva risvegliato nei re cattolici nuove ambizioni imperialistiche, che ben si
coniugavano con il progetto dell’immediata conquista di Gerusalemme, e

le delle stesse autorità; della quale impresa, se c’è fede, tengano per certissima la
vittoria. […] L’abate Joahachin Calabrese disse che sarebbe venuto di Spagna colui
che doveva riedificare la casa del monte Sion»: COLOMBO, Gli scritti cit., p. 193; v.
anche A. PROSPERI, America e Apocalisse. Nota sulla «conquista spirituale» del
Nuovo Mondo, «Critica storica», 13, 1 (1976), pp. 1-61.
104 CRISTOFORO COLOMBO, Lettera a Doña Juana de la Torre, in COLOMBO, Gli

scritti cit., pp. 274-275; il controverso riferimento a Isaia contenuto nella lettera ai
re cattolici può in parte chiarirsi proprio alla luce di quanto Colombo afferma in
questa Lettera a Doña Juana de la Torre; l’altro riferimento è all’Apocalisse di Gio-
vanni (21, 1 e ss.), che così si esprime: «E vidi un cielo nuovo e una terra nuova. In-
fatti, il primo cielo e la prima terra passarono, e il mare non è più. E vidi la città san-
ta, Gerusalemme nuova, che scende dal cielo […] preparata come una sposa che è
stata ornata per il marito».
105. Si legga il centone di testimonianze che compone il Libro della Profezie, in

COLOMBO, Gli scritti cit., pp. 299-305, e GIL, Miti e utopie della scoperta, cit.
106 E l’Istituzione del Maggiorasco, redatta a Siviglia il 22 febbraio del 1498, co-

sì significativamente prosegue: «e, ove lo facciano, che sia la buon’ora, e che altri-
menti rimanga saldo il detto Don Diego o chi ne sia l’erede nel proposito di accumu-
lare quanto più denaro potrà per accompagnare il Re Nostro Signore a Gerusalemme
a conquistarla, o andarvi da solo quanto potere piacesse a Dio Nostro Signore, che se
egli avesse o avrà detta intenzione, gli si dia soccorso perché possa farlo e lo faccia»,
in COLOMBO, Gli scritti cit., p. 201; ma v. anche la Relazione del quarto viaggio, Iso-
la di Giamaica, 7 luglio 1503, dove si sostiene la necessità del corretto uso dell’oro
proveniente dalle Indie («David nel suo testamento lasciò tremila quintali d’oro delle
Indie a Salomone per soccorrerlo nell’edificazione del Tempio, e, secondo Giuseppe,
proveniva esso oro da queste stesse terre. Gerusalemme e il Monte Sion debbon ese-
re riedificati per mano di Cristiano: chi abbia da esser costui lo dice Dio per bocca del
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402 DOMENICO DEFILIPPIS-ISABELLA NUOVO

quindi l’utopia di Colombo si alimentava del giusto clima politico e reli-


gioso. La restauratio Hierosolomitana così accanitamente propagandata
trovava pieno consenso presso il Galateo, che dopo aver adottato l’idea me-
taforica di un allegorico pellegrinaggio in Terra Santa, con tutte le inevita-
bili implicazioni che questo messaggio innescava, tornava proprio nell’Elo-
gio di Ferdinando a fare sua l’urgenza del recupero di Gerusalemme. E pur
relegando nell’ambito delle superstizioni il progressivo accumulo di segni
e prodigi impadronitosi dell’immaginario popolare, Galateo, richiamando-
si anch’egli alla profezia gioachimita, rinnovava il suo appello al re cattoli-
co perché suggellasse nella evidente plenitudo temporum, con una esem-
plare restauratio ecclesiae, il trionfale cammino del suo regno e del suo po-
polo, che solo dall’irrinunciabile approdo a Gerusalemme avrebbe potuto
ottenere il lusinghiero e meritato titolo di caput mundi107. La capitolazione
del suddito Galateo diventava totale, e non si risparmiava nemmeno la sof-
ferta abdicazione a quel primato che solo Roma aveva imposto al resto del

Profeta nel Salmo decimo quarto. L’abate Gioachino disse che costui sarebbe partito
di Spagna. […] L’oro che possiede il Quibian a Beragna e gli altri di quella regione,
sebbene sia – a quanto si dice – molto, non mi parve equo né conveniente il servizio
delle Loro Altezze strapparlo ad essi per via di rapina: il buon ordine scongiurerà o-
gni sorta di scandalo e di cattiva fama, e garantirà che tutto, senza eccezione di un gra-
no, converga al tesoro»: in COLOMBO, Gli scritti cit., p. 346; ma si veda l’intero passo
alle pp. 344-346) e la polemica invettiva contro il cattivo uso che di quell’oro aveva-
no fatto gli Spagnoli e più in generale l’intero mondo cristiano, affidata dal Galateo
alla sua Esposizione del ‘Pater Noster’, che andava componendo proprio in quegli an-
ni e che in tutt’altro senso intende l’elogio, pronunciato da Colombo, dell’oro messo
al servizio della salvezza della anime («dell’oro si fanno tesori e chi lo possiede fa e
opera quanto gli aggrada nel mondo, al punto che giunge a guadagnare il Paradiso al-
le anime»: Relazione del quarto viaggio cit., p. 345): «io dico che mai foro li miglio-
ri omini e tempi, li seculi aurei, si non al presente. Vedimo che lo mundo è tutto de o-
ro: oro se veste, oro se calza, in oro si beve, in oro se mangia, in oro se dorme, oro se
cinge, de oro s’incatena lo collo, de oro se copre lo capo, oro resplende nelli templi,
nelli teatri, nelle piazze e fi’ alle taverne; non è cosa oggie in precio si non l’oro, che
tiene subiette tutte le virtuti: l’oro è adorato e stimato, ‘Omnia per ipsum facta sunt’
(‘tutte le cose si fanno per suo mezzo’). All’oro ubbidisce omne cosa; l’oro fa lo drit-
to parer torto, e lo torto dritto, l’oro doma la severità delle leggi, l’oro fa li summi pon-
tifici, l’oro fa li ri, l’oro dà gli onori, li magistrati, li cappelli, le mitre; l’oro fa li vica-
rii, l’oro fa priori e ministri e guardiani, l’oro dà el Paradiso, l’oro vince la fortezza,
l’oro espugna la pudicizia, l’oro abbatte alte castella, l’oro apre le insepugnabili for-
tezze, l’oro cieca gli occhi de quelli chi son tenuti, e non son savi», GALATEO, Esposi-
zione del ‘Pater noster’ cit., p. 200.
107 «Haec sunt, magnanime rex, quae mihi fidem faciunt, celsitudinem tuam ad

multo maiores res gerendas a Christo servatam. Nec a me expectes obscura et vana apo-
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I RIFLESSI DELLA SCOPERTA DELL’AMERICA 403

mondo; ma il trionfo della Città santa e la realizzazione della Gerusalemme


celeste avrebbe forse finalmente riscattato e riabilitato anche l’immagine
del nostro vecchio mondo, che solo così avrebbe potuto finalmente con-
frontarsi con l’utopia del Mondo nuovo.

telesmata, quibus ego quamvis ea non penitus ignorem, nihil tamen fidei adhibeo, ut quae
mihi fidei nostrae catholicae minime convenire videantur. […] Memini me puerum (ita
Deus bene me amet, non mentior) vulgo audisse Ferdinandum quemdam futurum qui Sa-
racenos ex Hispania pelleret eumdemque recuperaturum sanctam Dei civitatem Hieru-
salem. Idem omnes sentiunt, nemine auctore praeter Deum optimum maximum, a quo i-
ta fore decretum est. Consensus gentium ex Deo est. Utere felicitate tua, optime rex, dum
licet, et restitue nobis rem christianam, quae ad angulum mundi redacta erat. Satis est no-
bis hactenus ora Aphricae, dum et portus et receptus habeamus, et Saracenis adimamus
spem incursionum. Arentia loca et sitientes campos, quos multo difficilius est tutari quam
vincere, vagi et nudi sibi habeant Nomades. Aggrediamur imperium romanum a Turcis
occupatum. Quae quidem expeditio tanto facilior erit, quanto maior est spes praemio-
rum»: GALATEO, Ad Catholicum regem Ferdinandum, de capta Tripoli cit., p. 155.
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CHIARA CASSIANI

Rime predicabili.
La poesia in volgare di Giuliano Dati

Al nome di Giuliano Dati è legato un notevole corpus di componi-


menti in ottava rima interamente pubblicato a Roma durante il pontificato
di Alessandro VI1. Sono incunaboli di carattere popolare, ornati di immagi-
ni xilografiche, che ebbero larga diffusione e numerose ristampe sia nel-
l’ambiente romano, dove l’autore viveva, sia in quello fiorentino, del quale
era invece originario2. Di questi testi restano oggi esemplari unici, rarissi-
mi, sopravvissuti nell’ambito di una letteratura minore legata a scopi im-
mediati di istruzione religiosa e di incitamento morale3. La produzione di

1 Egli stesso dichiara la propria identità al termine dei suoi cantari, sottoscri-

vendosi come «messer Giuliano Dati, fiorentino in Roma». Trasferitosi a Roma in-
torno al 1485 Dati fu penitenziere in Laterano durante il pontificato di papa Borgia;
poi divenne decano dei penitenzieri e Giulio II lo nominò rettore della parrocchia
dei SS. Silvestro e Dorotea in Trastevere. Infine da Leone X fu eletto vescovo di San
Leone in Calabria. Cfr. P. FARENGA-G. CURCIO, Dati, Giuliano, in DBI, 33, Roma
1987, pp. 31-35.
2 Sono tutte edizioni non datate e prive della sottoscrizione del tipografo, ma per

la maggior parte attribuite a tipografie romane: Stazioni e Indulgenze di Roma (Roma,


A. Fritag, 1492); Historia e leggenda di S. Biagio (Roma, A. Fritag, 1492-93); Histo-
ria di Santa Maria de Loreto (Roma, A. Fritag, 1492-93); La storia della inventione
delle nuove insule di Channaria indiane (Roma, E. Silber, 1493); Calculatione delle
ecclissi (Roma, J. Besicken e S. Mayr, 1493); La gran magnificentia del Prete Janni
o Primo cantare dell’India (Roma 1493-94); Leggenda di S. Barbara (Roma, A. Fri-
tag, 1494); Aedificatio Romae (Roma, J. Besicken e S. Mayr, 1494); Trattato di Sci-
pione Africano (Roma, J. Besicken e S. Mayr, 1494); Secondo cantare dell’India (Ro-
ma, J. Besicken e S. Mayr, 1494-95); Trattato de Santo Ioanni Laterano (Roma, A.
Fritag, 1495); Historia di S. Job propheta (Firenze, L. Morgianni e J. Petri, c. 1495);
Storia di tutti i re di Francia (Roma, J. Besicken e S. Mayr, 1495-96); La magna le-
ga (Roma, J. Besicken e S. Mayr, 1495-96); Del diluvio di Roma del 1495 (Roma, J.
Besicken e S. Mayr, 1495-96); La vita di tutti e pontefici (Roma 1505). È ritenuta o-
pera del Dati anche la Storia della beata Giovanna da Signa, trasmessaci da due ma-
noscritti conservati nella Biblioteca Nazionale di Firenze (Palatino 322, sec. XVII, e
Magliabechiano XXXVIII 82, sec. XVIII): cfr. G.B. BRONZINI, La ‘Vita della beata
Giovanna da Signa’ di Giuliano Dati, «La Bibliofilia», 54 (1952), pp. 49-56.
3 Al loro ampio successo di pubblico si deve l’odierna rarità degli opuscoli,

conservati per lo più in esemplari unici. Si tratta infatti di quel particolare tipo di li-
bri illustrati, di consultazione quotidiana, che A. PETRUCCI, Alle origini del libro
Cap. 17 Cassiani 405-428 13-09-2002 13:26 Pagina 406

406 CHIARA CASSIANI

Dati abbraccia ecletticamente argomenti eterogenei: storia antica, racconti


agiografici e cronaca contemporanea, gusto antiquario e curiosità per il
Nuovo Mondo. Ma esaminata nel suo insieme essa rivela una propria inter-
na coerenza e un ben preciso intento progettuale. All’origine infatti di que-
sti componimenti c’è la consapevole intuizione delle potenzialità dell’arte
tipografica, che il canonico intende rivolgere ai fini di un’azione pastorale
capillarmente diffusa presso i ceti meno colti4.
Il gruppo di cantari forse più noto del Dati è quello ispirato alle recenti
scoperte geografiche. Alla libera rielaborazione in ottave della lettera di Co-
lombo5 seguirono subito altri due poemetti sulle meraviglie dell’India. Il pri-

moderno: libri da banco, libri da bisaccia, libretti da mano, in Libri, scrittura e


pubblico nel Rinascimento. Guida storica e critica, a cura di A. PETRUCCI, Roma-
Bari 1979, pp. 137-156, ha definito «da bisaccia».
4 Ad una riconsiderazione della presenza di Dati nel panorama editoriale di fi-

ne Quattrocento hanno dato avvio le indagini sulla prima stampa romana: A.M. A-
DORISIO, Cultura in lingua volgare a Roma fra Quattro e Cinquecento, in Studi di
biblioteconomia e storia del libro in onore di Francesco Barberi, Roma 1976, pp.
19-36; P. FARENGA, «Indoctis viris ... mulierculis quoque ipsis». Cultura in volgare
nella stampa romana?, in Scrittura, biblioteche e stampa a Roma nel Quattrocento.
Aspetti e problemi, (Atti del Seminario, 1-2 giugno 1979), a cura di C. BIANCA-P.
FARENGA-G. LOMBARDI-A.G. LUCIANI-M. MIGLIO, Città del Vaticano 1980, (Littera
Antiqua, 1,1), pp. 403-416; EAD., Le prefazioni alle edizioni romane di Giovanni Fi-
lippo De Lignamine, in Scrittura, biblioteche e stampa a Roma nel Quattrocento,
(Atti del 2° Seminario, 6-8 maggio 1982), a cura di M. MIGLIO, con la collabora-
zione di P. FARENGA-A. MODIGLIANI, Città del Vaticano 1983, (Littera Antiqua, 2),
pp. 135-174; S. COLAFRANCESCHI, Giuliano Dati: «Historia et legenda di Sancto
Biasio vescovo et martyre», ibid., pp. 257-269; G. CURCIO, Giuliano Dati: «Comin-
cia el tractato di Santo Ioanni Laterano», ibid., pp. 271-304.
5 GIULIANO DATI, La storia della inventione delle nuove insule di Channaria in-

diane, Introduzione e note di M. RUFFINI, Torino 1967 (l’edizione è basata sulla


princeps romana del 15 giugno 1493). La divulgazione dell’impresa colombiana av-
venne in Italia con notevole tempestività proprio grazie all’operetta del Dati; cfr. C.
GIOBBIO, La lettera di Cristoforo Colombo a Gabriel Sanchez nelle ottave di Gulia-
no Dati, «Geografia», 8, 1 (1985), pp. 7-13; A. GUARINO, Il primo componimento i-
taliano sulla scoperta di Colombo: «Storia della inventione delle nuove insule di
Channaria indiane» di Giuliano Dati, «Medioevo. Saggi e Rassegne», 14 (1990),
pp. 187-199; R. LEFEVRE, Nel 500° dell’impresa colombiana. Dalle prime cronache
ai «Cantari» di Giuliano Dati, Roma 1992; O. BALDACCI, Roma e Cristoforo Co-
lombo, Firenze 1992, in particolare le pp. 38-40 e 65-70; La lettera della scoperta.
Febbraio-Marzo 1493, a cura di L. FORMISANO, Napoli 1992, in particolare le pp.
50-52 e 173-206; La scoperta del nuovo mondo. Divulgazione in Italia dell’impre-
sa attraverso due testi del 1493, a cura di M. DAVIES, Firenze 1992; A. UNALI, Sul-
la divulgazione a Roma dell’impresa colombiana: «La storia della inventione delle
nuove insule de Channaria indiane» di Giuliano Dati, «Clio», 31, 2 (1995), pp. 301-
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RIME PREDICABILI 407

mo, La gran magnificentia del Prete Janni6, reca impressa sul frontespizio
un’immagine xilografica di forte valore allegorico, che chiarisce il contenuto
del testo ma, più in generale, anche le intenzioni dell’autore7. L’illustrazione
ritrae il sovrano orientale seduto in trono in atto di benedire con in capo il tri-
regno, simbolo del suo potere spirituale e temporale, e nella mano sinistra la
Sacra Scrittura8. Intorno a lui sono seduti i dodici consiglieri in abito cardi-
nalizio e alle sue spalle c’è l’albero della vite con al centro il crocifisso9. Al
trono si accede mediante sette gradini, ciascuno simboleggiato da un mate-
riale diverso, sui quali è ripetuta sette volte l’ingiunzione a fuggire i vizi ca-
pitali. La xilografia riassume e memorizza il contenuto del cantare: in parti-
colare le ottave XI-XX descrivono, sulle orme del Guerin Meschino, il son-
tuoso palazzo del sovrano orientale, ornato d’oro e di pietre preziose.

In nel palazzo del primo pastore,


montato in campo della magna scala,
dov’è d’oro et di gemme uno splendore
che quasi non si scorge una gran sala. (XI, 1-4)

El primo grado è d’oro a gran dovitia


et di lettere nere pare scripto
le qual concludon: «Fuggi l’avaritia».
È ’l secondo d’argiento et non è ficto,
et scripto in quello par senza malitia:
«Fuggi l’accidia». È ’l verso suo diricto.
Et è di rame el suo terzo scaglione:
«Fuggi la ’nvidia» dice el suo sermone. (XIV)

317. Ha indagato le consonanze di temi e motivi tra i cantari di Dati sulle meravi-
glie d’Oriente e la geografia fantastica del Furioso L. FORTINI, Ariosto, Roma e la
geografia del meraviglioso, «RR roma nel rinascimento, Bibliografia e note», 1994,
pp. 75-93.
6 Più esattamente La gran magnificentia de Prete Janni Signore dell’India

Maggiore et della Ethiopia o anche Primo cantare dell’India, completato poi dal Se-
condo cantare dell’India.
7 Per i particolari iconografici e le relative fonti resta tuttora prezioso un sag-

gio di L. OLSCHKI, I «Cantari dell’India» di Giuliano Dati, «La Bibliofilia», 40


(1938), pp. 289-316.
8 Sulle remote origini e la secolare fortuna del mito del Prete Gianni v. l’Intro-

duzione a La lettera del Prete Gianni, a cura di G. ZAGANELLI, Parma 1992, pp. 7-44.
9 Al motivo del trono e dell’albero, interpretato come simbolo del potere impe-

riale, dedica ampio spazio OLSCHKI, I «Cantari dell’India» cit., pp. 300-311. Ma il
crocifisso con la vite rievoca anche le associazioni di base che avevano alimentato l’o-
pera di san Bonaventura: sul Lignum vitae e sulle sue diverse raffigurazioni nel Me-
dioevo si veda L. BOLZONI, La Torre della Sapienza, «Kos», 30, 3 (1987), pp. 54-61.
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408 CHIARA CASSIANI

El suo quarto scaglion mi par di ferro:


«Fa che tu fugga l’ira», dice il verso.
Di piombo è il quinto poi, se io non erro,
«Fuggi la ghola» è ’l suo scripto diverso.
Di legno è il sesto suo, com’io diserro,
con fiamme di tarsia tucta traverso:
«Fuggi luxuria», el verso tuo t’alluma,
che ’l corpo et l’alma alfin di poi consuma. (XV)

El septimo scaglion mi par di terra:


«Fuggi superbia» el dolce verso canta (XVI, 1-2)10.

La descrizione rinvia continuamente al suo corrispondente visivo, con


cui coopera e si integra:

Tien fermi, o auditore, e tuo’ orecchi,


attendi al mio parlare et al disegno,
e gusterai il collegio tanto degno. (XX, 6-8)

Nello stesso tempo il testo contribuisce ad arricchire l’immagine di ul-


teriori particolari; allo schema settenario dei vizi, ad esempio, contrappone
immediatamente quello delle virtù:

Et poi da ciascun lato sta’ a sedere


Sei de’ suoi primi degni e gran prelati
Sopra una sedia et ciascun può vedere;
et quattro gradi in alto stan levati,
secondo di chi scrive è ’l suo parere.
Et sopra a questi è scripto et disegnato
le virtù sette decte principale (XIX, 1-7).

Nella stretta correlazione tra parola e immagine, come vedremo, è indi-


viduabile una costante di questi poemetti. L’intento dell’autore infatti è quel-
lo di imprimere con evidenza i principi morali nella memoria dei lettori, ren-
dendoli immediatamente figurabili. In questo senso l’allegoria della scala dei
vizi, che attraverso lo schema delle corrispondenze settenarie simboleggia
chiaramente il nesso tra materia e significato, potrebbe porsi a suggello del-
10 Le citazioni sono tratte dall’edizione di GIULIANO DATI, La gran magnifi-

centia de Prete Janni. Signore dell’India Maggiore et della Ethiopia, in LEFEVRE,


Nel 500° dell’impresa colombiana. Dalle prime cronache ai «Cantari» di Giuliano
Dati cit., pp. 111-130 (la xilografia del frontespizio è riprodotta a p. 57). Il testo e-
ra stato precedentemente edito da A. NERI, «Il Propugnatore», 9 (1876), pp. 145-
165.
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RIME PREDICABILI 409

l’intera produzione di Giuliano Dati. Alla vigilia della Riforma egli aveva tra-
dotto la propria esperienza spirituale in un’azione concreta di intervento nella
vita cittadina, a stretto contatto con il mondo dei laici. Svolse infatti un’attivo
apostolato in prima persona, promosse importanti opere caritative e assisten-
ziali, ebbe inoltre un ruolo significativo nella confraternita del Gonfalone e più
tardi anche nella compagnia del Divino Amore11. Non sembra esserci estra-
neità né soluzione di continuità fra l’uomo di Chiesa, il predicatore, e il ver-
satile compositore di rime volgari, il quale probabilmente sovrintese egli stes-
so alla stampa dei propri poemetti12. Nella realtà variegata dell’editoria roma-
na, infatti, il caso di Dati rappresenta un esempio privilegiato della circola-
zione di opuscoli che alimentavano un rapporto con la tradizione scritta non
circoscritto a una dimensione puramente libresca13.
Il poeta menziona di frequente le fonti da lui utilizzate, compiacendosi
della propria cultura storica:
11 Le prime riunioni del Divino Amore si tennero, intorno al 1514, nella par-

rocchia dei SS. Silvestro e Dorotea in Trastevere, di cui Dati era rettore. A lui si de-
ve anche l’iniziativa, nel 1517, dell’aggregazione del Ridotto degli Incurabili di Ge-
nova all’Arciospedale S. Giacomo di Roma, fondato nel 1515 da papa Leone X co-
me filiazione della Compagnia romana. Cfr. P. PASCHINI, Un parroco romano in sui
primi del Cinquecento, «Roma», 6 (1928), pp. 19-25; ID., Le compagnie del Divino
Amore e la beneficenza pubblica nei primi decenni del Cinquecento, in Tre ricerche
sulla storia della Chiesa nel Cinquecento, Roma 1945, pp. 3-90; G. GABRIELI, Me-
morie spirituali trasteverine (il «Divino Amore»), «Roma», 12 (1934), pp. 499-510.
Sul ruolo non secondario svolto dai sodalizi laicali nella vita devozionale, assisten-
ziale e artistica della città pontificia la bibliografia oggi è molto vasta; si rinvia a L.
FIORANI, «Charitate et pietate». Confraternite e gruppi devoti nella città rinasci-
mentale e barocca, in Storia d’Italia, Annali, 16: Roma, la città del papa, a cura di
L. FIORANI-A. PROSPERI, Torino 2000, pp. 431-476.
12 L’ipotesi è stata formulata da ADORISIO, Cultura in lingua volgare a Roma cit.,

p. 21. In tal senso potrebbe anche essere interpretata la presenza sul frontespizio di
molte edizioni del Dati del suo stemma familiare: tre teste d’uomo sovrastate da un
lambello; cfr. anche R. LEFEVRE, Fiorentini a Roma nel ’400: i Dati, «Studi Romani»,
20/2 (1972), pp. 187-197. Ad avvalorare l’ipotesi contribuisce, inoltre, l’interesse di-
mostrato dal canonico fiorentino per le illustrazioni che ornano i suoi testi: cfr. CUR-
CIO, Giuliano Dati: «Comincia el tractato di Santo Ioanni Laterano» cit., p. 275.
13 Dati attinge, nelle più diverse articolazioni, al patrimonio del cantare in ottava

rima, partecipando al processo di letterarizzazione del genere popolare, al passaggio


dalla recitazione alla lettura, per effetto dell’arte tipografica. Sulle caratteristiche pro-
prie di questo genere: I cantari. Struttura e tradizione, (Atti del Convegno Internazio-
nale di Montreal, 19-20 marzo 1981), a cura di M. PICONE-M. BENDINELLI PREDELLI,
Firenze 1984. Ha svolto un’analisi esaustiva delle procedure narrative e del carattere
formulare della letteratura canterina M.C. CABANI, Le forme del cantare epico-cavalle-
resco, Lucca 1988. Sull’importanza dell’adozione dell’ottava rima nelle stampe ‘popo-
lari’, cfr. anche A. QUONDAM, La letteratura in tipografia, in Letteratura italiana, di-
retta da A. ASOR ROSA, II, Produzione e consumo, Torino 1983, pp. 594-595, 600-603.
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Io cierchando vist’ò alchun volume,


massime del dottor Sant’Aghostino,
di Livio e d’Eutropio, degnio lume,
d’Orosio e di Valerio, el quale stimo,
e di Plutarcho el suo magnio costume,
sì chome alchuna volta iscrivo e rimo,
e ancho qualche volta ò letto Appiano
che fa menzion d’alchun degnio romano (III)14.

Ma i suoi cantari si avvalgono di un linguaggio estraneo al sistema dei


generi della comunicazione classicistica, presuppongono una scelta alternati-
va rispetto a quella accademica degli umanisti. Sono versi che dialogano con
un’altra tradizione letteraria, portatori di un sapere che intende trasmettersi in
maniera diversa: a renderli difficilmente definibili è quindi innanzitutto un
problema metodologico. Questi componimenti rientrano nella categoria dei
testi dotati di una funzione conativa, persuasiva, perché vogliono agire sul de-
stinatario per trasformarlo15. Nascono infatti da una dimensione non indivi-
duale, ma collettiva, legata alla città e al mondo delle confraternite laiche16.
È per la compagnia del Gonfalone che Dati redige il testo della Pas-
sione rappresentata al Colosseo, alla cui origine c’è una consolidata tradi-

14 GIULIANO DATI, Trattato di Scipione Africano, Roma, J. Besicken e S. Mayr,


1494, 4 cc. non num. (la citazione è alla c. 1v). Ho seguito il testo dell’esemplare
conservato a Roma, presso la Biblioteca Casanatense. La trascrizione delle ottave e-
saminate non ha subìto, qui come altrove, sostanziali regolarizzazioni ortografiche
o linguistiche, nel tentativo di rispettarne le caratteristiche fonomorfologiche e cul-
turali originarie. Ho proceduto soltanto allo scioglimento delle abbreviazioni, alla
separazione delle parole, all’introduzione delle lettere maiuscole, alla distinzione tra
‘u’ e ‘v’, all’inserimento della punteggiatura e dei segni diacritici essenziali per la
comprensione del testo. Ho segnalato in nota i pochi casi di correzione di refusi ti-
pografici. Tutti i corsivi utilizzati nelle citazioni sono miei.
15 Il riferimento è all’ormai classico schema di R. JAKOBSON, Linguistica e poeti-

ca (1960), in JAKOBSON, Saggi di linguistica generale, trad. ital., Milano 1966, pp. 181-
218.
16 Cfr. A. ESPOSITO, Apparati e suggestioni nelle «feste et devotioni» delle con-

fraternite romane, «Archivio della Società Romana di Storia Patria», 106 (1983),
pp. 311-322; EAD., La richiesta di libri da parte dell’associazionismo religioso ro-
mano nel tardo Medioevo, in Produzione e commercio della carta e del libro. Secc.
XII-XVIII, (Atti della «Ventitreesima Settimana di Studi», Prato, 15-20 aprile 1991),
a cura di S. CAVACIOCCHI, Firenze 1992, pp. 869-879; EAD., Le confraternite roma-
ne tra arte e devozione: persistenze e mutamenti nel corso del XV secolo, in Arte,
committenza ed economia a Roma e nelle corti del Rinascimento (1420-1530), (At-
ti del Convegno Internazionale, Roma, 24-27 ottobre 1990), a cura di A. ESCH-CH.L.
FROMMEL, Torino 1995, pp. 107-120.
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zione di laudi, di canti paraliturgici recitati durante la settimana santa e nel


corso delle discipline penitenziali17. L’insistente richiamo alla sofferenza
redentiva di Cristo, presente anche nei suoi poemetti, risponde a un’intento
morale di edificazione e salvezza delle anime. Con la facilità e l’ingenuità
del linguaggio canterino, Dati fornisce una guida spirituale efficace, una ve-
ra Biblia pauperum per i lettori di limitata cultura a cui si rivolge, un udi-
torio sostanzialmente indifferenziato che rimarrebbe escluso dal circuito
della letteratura ufficiale. L’autore mira a coinvolgere il proprio pubblico
facendo ricorso ad espressioni che richiamano il senso del dovere e della
colpa, con toni di ammonizione, biasimo, condanna, che avvicinano questi
testi a delle vere e proprie prediche in versi18:

omè, crudel pechato, iniquo et angue,


perché tormenti al mondo tanta giente?
che se non fussi tu, crudel pechato,
no sare’l mondo tanto tribulato! (XXI, 5-8)19.

In anni in cui sembra credibile una violenta purificazione dei costu-


mi e l’attesa profetica di una radicale trasformazione appare legittimata

17 L’edizione della Passione di Christo fu stampata a Roma da Johann Be-

sicken e Andreas Fritag nel 1496. Ha illustrato il significato dell’opera e i suoi rap-
porti con la sacra rappresentazione fiorentina R. ALHAIQUE PETTINELLI, La Compa-
gnia del Gonfalone e la ‘Passione’ al Colosseo, in Un’idea di Roma. Società, arte e
cultura tra Umanesimo e Rinascimento, a cura di L. FORTINI, Roma 1993, pp. 73-
98; v. anche R. GUARINO, Prospettive dello spettacolo religioso nell’Italia del Quat-
trocento, in Esperienze dello spettacolo religioso nell’Europa del Quattrocento,
(Atti del XVI Convegno Internazionale del Centro Studi sul Teatro Medioevale e Ri-
nascimentale, Roma-Anagni, 17-21 giugno 1992), a cura di M. CHIABÒ-F. DOGLIO,
Roma 1993, pp. 25-58, in particolare pp. 52 e s. Secondo Adorisio (Cultura in lin-
gua volgare a Roma cit., p. 21), sarebbe da attribuire a Dati anche una Resuscita-
zione di Lazzaro in rima vulgari secondo che recita de parola in parola la dignissi-
ma compagnia de lo Gonfalone, stampata a Roma dopo il 1500 e conservata presso
la Biblioteca Colombina di Siviglia; cfr. Catalogo dei libri a stampa in lingua ita-
liana della Biblioteca Colombina di Siviglia, a cura di K. WAGNER-M. CARRERA,
Ferrara-Modena 1991, n. 450.
18 Sull’argomento cfr. L. BOLZONI, Oratoria e prediche, in Letteratura italiana, di-

retta da A. ASOR ROSA, III 2, Le forme del testo. La prosa, Torino 1984, pp. 1041-1063.
19 G. DATI, Del diluvio di Roma del 1495, Roma, Johann Besicken e Sigismund

Mayr, 1495-96, 6 cc. non num. (la citazione è alla c. 2v). Seguo il testo dell’esempla-
re posseduto dalla Biblioteca Nazionale di Napoli. Di quest’opera esistono anche al-
tre due edizioni: Roma, Eucharius Silber, 1495-96, di cui un esemplare è conservato
presso la Biblioteca Trivulziana di Milano, e Firenze, Antonio di Bartolomeo Misco-
mini, 1495-96, presente alla British Library e al Metropolitan Museum di New York.
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412 CHIARA CASSIANI

dagli eventi della storia profana20, i cantari di Dati adempiono ad una fun-
zione mnemonico-emotiva, mediante il forte uso di strumenti retorici co-
me la ripetizione, l’allitterazione, la giustapposizione e l’esclamazione.
L’intento è quello di far rivivere episodi del testo biblico e insieme avve-
nimenti della cronaca contemporanea, visualizzarli, per provocare nell’a-
nimo del lettore un’esperienza di meditazione e di trasformazione inte-
riore, una conversione appunto:

par che ’l Signior tal cosa lui ci mandi,


quel che su nella crocie fu defunto,
per farci più acciepti in ne’ sua regni
ci manda gl’infrascripti e detti segni. (XVI, 5-8)

questi son segni tutti di dolore


e da star ben provisto col Signiore. (XVII, 7-8)

questi segni ci manda l’alto Idio


che no’ ci prepariamo, al parer mio (XIX, 7-8)21.

Nell’esordio del cantare sulla terribile alluvione del Tevere del dicem-
bre 149522 i segni prodigiosi che Dio, in presenza di Mosè e Aronne, aveva
inviato al Faraone d’Egitto per liberare il suo popolo dalla schiavitù diven-
gono ammonimento per il presente. Infatti, rimasti inascoltati, furono se-
guiti da un terribile castigo:

20 Ha ricostruito la stagione profetica a cavallo tra Quattro e Cinquecento, esa-

minando i vari livelli di diffusione sociale e la forte incidenza della stampa sull’im-
maginario religioso del tempo, O. NICCOLI, Profeti e popolo nell’Italia del Rinasci-
mento, Roma-Bari 1987. La studiosa ha attribuito, in questo senso, un ruolo non se-
condario al poemetto di Dati sul Diluvio; cfr. le pp. 27-29, 47-48, 126-127.
21 DATI, Del diluvio di Roma del 1495 cit., c. 2r.
22 Il ricordo della disastrosa inondazione è vivo anche nelle testimonianze dei

cronisti romani: «A dì 4 de decembre - scrive Sebastiano di Branca Tedallini -, co-


me cresceva lo fiume per tutta Roma et tutte le cantine erano piene de acqua; quel-
le che non potevano andare de sopra andáro de sotto; era alta l’acqua per tutte le
strade più de doi canne»; cfr. Diario romano dal 1 maggio 1485 al 6 giugno 1524
di Sebastiano di Branca Tedallini, a cura di P. PICCOLOMINI, RIS2, 23/3, (1904), pp.
316. Ricca di particolari è la descrizione contenuta nell’Appendice I: Fascetto di
memorie storiche del secolo XV, che segue il Diario della città di Roma dall’anno
1480 all’anno 1492 di Antonio de Vascho, a cura di G. CHIESA, ibid., p. 552: «Re-
cordo como in questo dì sopra dicto inundò lo Tevere molto per modo che inundò
in molti lochi de Roma et maxime lo Rione de Campo Marzo et de Colonna». Cfr.
anche M. MIGLIO, Scritture, Scrittori e Storia, II, Città e corte a Roma nel Quattro-
cento, Manziana 1993, pp. 15 e 153.
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RIME PREDICABILI 413

Così ’nterviene a quel che non observa


e tua santi precepti, o magnio Idio,
perché la tua iusticia è più acerva
quanto più la prolungi, al parer mio,
però non chiamo Giove né Minerva
né alcun simulacro ficto o rio,
ma priego te, Signor, che mi conciedi
che con queste mie rime alcun non ledi (III)23.

Alla base dei componimenti di Dati c’è una lettura profetica della Sa-
cra Scrittura e la sua conseguente attualizzazione. Così il pacifico pontifi-
cato di Innocenzo VIII rinvia a «quel che predisse / Ioseph a Faraon nel Gie-
nesisse»24, cioè il sogno premonitore che annunciava un periodo di grande
abbondanza cui avrebbero fatto seguito anni altrettanto lunghi di dura care-
stia25:

Le sette vache grasse e sua sett’anni,


cierto mi par che fu ’l significato.
Or fa qui punto e pensa a’ grandi affanni
che Napol ebbe e come e’ fu privato
del suo Ferrando Re con tanti danni,
come lo sa quel popul affanato
e Alfonso lo seppe e or Ferrando,
che per tal morte resta tribulando (XXVII)26.

Assente è il nome di Alessandro VI, ma l’interpretazione fedele della


Scrittura diviene chiaro strumento di comprensione della realtà contempora-
nea e degli avvenimenti politico-militari che sconvolgono le sorti della peni-
sola. Entro la trama narrativa e sapienziale del testo sacro gli eventi della sto-
ria profana finiscono con l’assumere un nuovo e diverso significato, facen-
dosi testimonianza della verità di fede, sua sensibile manifestazione:

Questo significhò quelle saette


e le fiamme del fuoco, l’aspra guerra
e la gran peste poi le crocie dette,
che fu nell’una e poi nell’altra terra,
e l’una e l’altra anchor non ne son nette;

23 DATI, Del diluvio di Roma del 1495 cit., c. 1v. Ho corretto al v. 4 ‘prelungi’

con ‘prolungi’ e al v. 6 ‘fitto’ con ’ficto’.


24 Ibid., c. 2v, ott. XXVI, 7-8.
25 È l’episodio narrato nel Genesi 41, 25-32.
26 DATI, Del diluvio di Roma del 1495 cit., c. 2v.
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414 CHIARA CASSIANI

così l’ira d’Idio ci strignie e serra


con peste e guerra e fame e acque e venti
et infiniti assai altri tormenti (XXVIII)27.

La discesa di Carlo VIII in Italia costituisce nei cantari del Dati un e-


pisodio di particolare rilevanza. Le sue ripercussioni infatti influenzarono a
lungo l’immaginario letterario seguendo direzioni molteplici28 e incisero
notevolmente sul moltiplicarsi di una già ricca produzione di poemetti bel-
lici in ottava rima29. In un componimento di poco anteriore, la Storia di tut-
ti i re di Francia30, Dati aveva narrato con ben altro tono l’impresa del so-
vrano d’oltralpe, dalla partenza fino al momento del suo insediamento nel
Regno di Napoli:

Tu sai che con l’aiuto del Signore


di Francia con tal giente s’è partito
e in Italia è giunto con amore
e sempre è stato amato e reverito
e fattogli per tutto un grande onore
per Lombardia e donde ’gli è transito,
a Fiorenze, a Siena e per Toschana,
insino alla ciptà santa romana (XLIV)31.

27 Ibid. Ho corretto al v. 8 ‘eninfiniti’ con ‘et infiniti’.


28 Si veda a questo proposito A.C. FIORATO, Complaintes, “cantari” et poésies
satiriques inspirés par la campagne de 1494-1495, in Italie 1494, a cura di A.C. FIO-
RATO, Paris 1994, pp. 179-225. Sul genere del ‘lamento’ come variante specifica del
cantare di argomento storico, mi permetto di rinviare al mio L’immagine di Roma in
un ‘Lamento’ anonimo in ottava rima (1494-1527), «Mario & Mario. Annuario di
critica letteraria e comparata», 2 (1996-1997), pp. 65-88.
29 Un ampio corpus di cantari e poemetti bellici relativi alle guerre d’Italia e

contro i Turchi (secc. XV-XVI) è riprodotto in edizione anastatica nelle Guerre in


ottava rima, a cura di M. BARDINI-M. BEER-M.C. CABANI-D. DIAMANTI-C. IVALDI,
Ferrara-Modena 1988-1989, 4 voll. Sulle caratteristiche formali e materiali assunte
dal genere bellico nel corso delle sue successive fasi evolutive, si veda C. IVALDI,
Cantari e poemetti bellici in ottava rima: la parabola produttiva di un sottogenere
del romanzo cavalleresco, in Ritterepik der Renaissance, (Akten des deutsch-italie-
nischen Kolloquiums, Berlin 30.3-2.4 1987), herausgegeben von K.W. HEMPFER,
Stuttgart 1989, pp. 35-46.
30 GIULIANO DATI, Storia di tutti i re di Francia, Roma, Johann Besicken e Si-

gismund Mayr, 1495-96, 6 cc. non num.


31 Ibid., c. 5v. Seguo il testo dell’unico esemplare conservato presso la Biblio-

teca Nazionale di Napoli, mutilo di 2 cc.


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RIME PREDICABILI 415

Il poemetto è una cronaca in versi con propositi celebrativi, un mani-


festo di propaganda politica filofrancese in un momento storico di grande
attesa e di forte aspettativa nei confronti del nuovo. Probabilmente anche
Dati aveva guardato per un’istante al sovrano straniero come al secondo
Carlo Magno, il rivendicatore della Chiesa e liberatore del Santo Sepolcro,
facendo sua un’opinione comunemente diffusa in quegli anni32. Di Carlo
VIII egli esalta la potenza militare, ma non manca di sottolineare l’ubbi-
dienza del «fedele e devoto christiano»33 nei confronti del «buon pastor ro-
mano»34. Anche se «el giglio passa tutti gli altri fiori»35, il canonico fioren-
tino non propone al lettore una chiave di lettura degli avvenimenti politici
più recenti, limitandosi alla semplice registrazione piuttosto che ad una lo-
ro possibile interpretazione:

In sin a qui la scriptur’à parlato,


or ci bisognierà confuso andare,
sì che chi fussi in questo nominato
e non avessi el luogo che gli pare,
l’umilità prepone el tempo e lato,
è ’l iudicie di sopra che l’à fare,
pur noi direm dell’essercito parte,
el qual par che conduca el nuovo Marte (XXXV)36.

Poi, di fronte agli atti di feroce crudeltà compiuti nel Regno di Napo-
li, preso «a sangue, a fuoco, a sacho, a tutti e danni»37 dai Francesi, il cro-
nista che si dichiara «parato ad ogni correctione»38 invoca la suprema giu-
stizia divina ed esprime la propria difficoltà nel comprendere la storia:

32 Sulla tensione profetica che aveva a lungo circondato la figura del re france-
se, cfr. C. VASOLI, Umanesimo ed escatologia, in L’attesa della fine dei tempi nel
Medioevo, a cura di O. CAPITANI-J. MIETHKE, Bologna 1990, pp. 245-75, in partico-
lare pp. 271-72. Al momento dell’arrivo di Carlo VIII le reazioni degli italiani furo-
no molteplici: cfr. C. DE FREDE, «Più simile a mostro che a uomo». La bruttezza e
l’incultura di Carlo VIII nella rappresentazione degli italiani del Rinascimento,
«Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», 44 (1982), pp. 545-585; S. BERTEL-
LI, «Li portamenti del re Carlo», in Italie 1494 cit., pp. 121-141. Cfr. anche A. LIN-
DER, An unpublished ‘Pronosticatio’ on the return of Charles VIII to Italy, «Journal
of the Warburg and Courtauld Institutes», 47 (1984), pp. 200-203.
33 DATI, Storia di tutti i re di Francia cit., c. 5v, ott. XLVII, 5.
34 Ibid., ott. XLVI, 6.
35 Ibid., c. 5r, ott. XXXIV, 4.
36 Ibid. Ho corretto al v. 7 ‘diren’ con ‘direm’.
37 Ibid., c. 6v, ott. LXIII, 8.
38 Ibid., ott. LXIX, 4.
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416 CHIARA CASSIANI

queste son cose da non ne trattare


che non si può del tutto ben chiarire (LXVII, 5-6)39.

Diversamente, nel Diluvio di Roma Carlo VIII non rappresenta più


l’imperatore dal quale si attende la salvezza, ma le terribili sciagure che af-
fliggono l’Italia dal momento del suo arrivo nella penisola sono interpreta-
te come segni dell’ira divina per i peccati degli uomini, invito alla peniten-
za e alla purificazione spirituale:

Donde procieda questo tu lo sai


che tu ’l vedi con gli ochi ed etti detto,
le crude pestilenze e l’altri guai
tu ne se’ colmo e pieno infino al tetto,
le guerre che con techo ispesso fai
par che tu sia di sopra maledetto,
massime tu, Italia pellegrina,
che par ch’adosso a te sia tal ruina (XXXVIII)40.

Il diluvio, dunque, rappresenta il più recente avvertimento mandato da


Dio agli uomini in questa «ferrea e ultima etade»41. Mediante una lettura
‘teologica’ della storia, che coniuga Antico e Nuovo Testamento, Dati tra-
duce in rime volgari la costante presenza della provvidenza divina nella tra-
ma degli eventi umani:

Perché non credi a’ segni a te mandati,


nel sole e nelle stelle e nella luna,
come ti son dal Signior predichati
e narrali ’l Vangielio ad una ad una,
al vigiesimo primo gli ò trovati
capitulo di Luca e nella chuna,
li doveresti alla mente sapere
che se’ christiano e debi Idio temere (XXXIX)42.

39 Ibid. Ho corretto al v. 6 ‘chi’ con ‘che’.


40 DATI, Del diluvio di Roma del 1495 cit., c. 3r.
41 Ibid., c. 6v. Così recita il colophon di questo cantare: «Fine del trattato del-

li cielesti segni e delle moderne tribulationi e della ultima acqua inundata in nel-
l’alma, veneranda e santa ciptà di Roma nella nostra ferrea e ultima etade collecta e
messa in versi per messer Giuliano de’ Dati a laude della cielestial corte».
42 Ibid., c. 3r. È il brano di Luca 21, 25-28: «Vi saranno dei segni nel sole, nel-

la luna e nelle stelle: e sulla terra le nazioni si troveranno in angoscia, spaventate dal
rimbombo del mare e dei suoi flutti. Gli uomini saranno tramortiti dallo spavento e
dall’attesa angosciosa di quel che avverrà sopra la terra [...]. Quando cominceranno
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RIME PREDICABILI 417

Il sistema delle corrispondenze profetiche che Dati individua tra le vi-


cende bibliche, i fatti storici antichi e moderni, e le diverse età del mondo,
emerge in modo evidente in un altro suo poemetto, l’Aedificatio Romae,
con il quale intendeva «far memoria / del prencipio di Roma la sua storia»43.
La narrazione prende le mosse dal racconto liviano, ma all’autorità degli
storiografi antichi si sovrappone la teoria agostiniana, ripresa anche da Isi-
doro di Siviglia, secondo la quale la storia era divisa in sei età: da Adamo a
Noè, da Noè ad Abramo, da Abramo a Davide, da Davide alla cattività ba-
bilonese, dalla cattività babilonese alla nascita di Cristo, dalla nascita di
Cristo alla fine del mondo. In tal modo l’autore può collocare significativa-
mente l’origine di Roma tra la quinta e la sesta età:

Or ritorniamo al nostro primo obghietto,


che fu chantare el prencipio di Roma.
Fra la quint’e la sesta etate ò letto
che nacque Anchise, el qual già Troia doma,
chom’Eusebio scrive huomo perfetto,
e Vergilio fa spesso punto e choma;
l’opinion di Homero io vo’ lassare
e cholla magior parte io voglio andare.

E chome parla Tito Livio e scrive


delle battaglie magnie alte romane
in nell’opere sue legiadre e dive (X-XI, 1-3)44.

La valenza paradigmatica della Scrittura assimila quindi la storia eroi-


ca di Roma, riuscendo ad armonizzare la cronologia antica con quella bi-
blica, il ricordo degli eroi romani e l’enumerazione dei profeti:

Al tempo d’un buon re quest’è fondata,


chome s’achordan a dir molti poeti,
et era in questo tempo circhundata
la terra d’otto santi e buon profeti,
e no mi intenderete a questa fiata

ad accadere queste cose, guardate in alto e alzate il capo, perché la vostra redenzio-
ne è vicina». Al valore che i ‘segni’ e le alterazioni degli astri avevano nella divina-
zione popolare ha dedicato pagine illuminanti NICCOLI, Profeti e popolo cit., pp. 47-
48, partendo proprio da queste ottave di Dati.
43 GIULIANO DATI, Aedificatio Romae, Roma, J. Besicken e S. Mayr, 1494, 6 cc.

non num. (la citazione è alla c. 1v, ott. I, 7-8). Seguo il testo dell’esemplare posse-
duto dalla Biblioteca Nazionale di Venezia.
44 Ibid.
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se state atenti e chon gli animi leti,


Iona, Ioel, Amos, Osea, Abdia,
Naum, Obeth, ottavo è Isaia (XX)45.

Gli opuscoli di Dati, con la loro capacità immediata di risposta ad e-


venti concreti, riflettono poi i grandi miti profetici ed escatologici che pro-
prio in quegli anni avevano conosciuto straordinaria fioritura tra Roma e Fi-
renze, ad opera di monaci, frati, eremiti itineranti46. Il canonico fiorentino,
dottore in teologia, dovette essere attratto dallo zelo riformatore di Girola-
mo Savonarola47, il cui nome è presente nelle ottave del Diluvio insieme a
quei «tanti profeti» che con abito di sacco avevano predicato e annunciato
nelle piazze, con tonalità apocalittiche, i segni del volere divino: Guglielmo
da Morano, Antonio da Padova, Colomba da Rieti48. La consonanza tra i
versi di Dati e certe espressioni o temi della predicazione savonaroliana,
l’insistita condanna delle colpe come incitamento alla penitenza, conferma
l’intento dell’uomo di Chiesa di comporre una poesia in volgare nutrita dal-
la verità cristiana e largamente accessibile a tutti, libera dall’imitazione de-
gli antichi, dalla lingua latina e dalle eleganze umanistiche. La scelta di un
lessico volutamente quotidiano, la sua semplicità grammaticale e sintattica,
congiunta alla facile cantabilità dell’ottava rima, sono da ritenersi il frutto
di una precisa concezione di poetica. Come ha dimostrato Erich Auerbach,
ogni qual volta, in epoche diverse, gli scrittori cristiani si sono posti il pro-
blema di riusare gli strumenti espressivi del mondo pagano hanno polemi-
camente dato importanza al sermo humilis, usando uno stile basso, realisti-

45 Ibid.,c. 2r. Ho corretto al v. 2 ‘achorda’ con ‘achordan’.


46Cfr. G. TOGNETTI, Profezie, profeti itineranti e cultura orale, «La cultura»,
19 (1980), pp. 427-434; B. NOBILE, «Romiti» e vita religiosa nella cronachistica i-
taliana fra ’400 e ’500, «Cristianesimo nella storia», 5 (1984), pp. 303-340 e NIC-
COLI, Profeti e popolo cit., pp. 125-132.
47 Un probabile legame con l’ambiente savonaroliano è stato congetturato da

quasi tutti gli studiosi che in tempi diversi si sono occupati di Giuliano Dati; cfr. A.
BIANCONI, L’opera delle compagnie del «Divino Amore» nella riforma cattolica,
Città di Castello 1914, p. 13; CURCIO, Giuliano Dati: «Comincia el tractato di San-
to Ioanni Laterano» cit., p. 302. Ha avvicinato la figura di Dati a quella del fioren-
tino Castellano Castellani, ritenuto anch’egli per alcuni aspetti seguace del frate fer-
rarese, ALHAIQUE PETTINELLI, La Compagnia del Gonfalone e la ‘Passione’ al Co-
losseo cit., pp. 75 e ss.
48 Dati menziona «el ferrarese» subito dopo «quel da Ginazano», il filomedi-

ceo Mariano da Genazzano che solo qualche anno più tardi avrebbe esortato Ales-
sandro VI a ricorrere ai provvedimenti più estremi nei confronti di Savonarola: cfr.
DATI, Del diluvio di Roma del 1495 cit., c. 3v, ott. XLV, 1.
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RIME PREDICABILI 419

co, appellandosi alla dimensione della natura, del corpo, delle cose49. Me-
diante questa scelta rivoluzionaria il mondo cristiano si è riappropriato del-
la tradizione retorica pagana. Le «rime inepte»50 di Dati riescono felice-
mente a coniugare la ragione didascalica dell’utile dulci con l’immediata
disponibilità al riuso collettivo tipica del genere canterino, per divenire vei-
coli di una devozione che in quegli anni necessitava una veste diversa, più
piacevole, ma anche diretta e incisiva51. Anche la poetica della brevitas fat-
ta propria dal Dati, con le frequenti dichiarazioni di voler abbreviare il di-
scorso ‘per non essere noioso, per non tediare’, si rifà al precetto evangeli-
co della semplicità del parlare. Sono soprattutto passi di appello al lettore,
spesso collocati a conclusione di un’ottava. Ciò di cui l’autore racconta ri-
guarda da vicino il destinatario, è un invito alla collaborazione del lettore,
perché le parole devono continuare a crescere nella sua mente, vincendo la
noia, devono germogliare e cooperare. Attraverso una marcata tendenza al-
la visualizzazione espressiva il poeta esorta l’ascoltatore a udire e a ‘porre
mente’, ossia a vedere con gli occhi dell’anima. Mettendo in scena luoghi
e personaggi reali, raccontando avvenimenti che si svolgevano sotto gli oc-
chi di tutti, il testo cerca di creare un punto di vista sulle cose e insieme par-
tecipa a un processo di costruzione di immagini mentali efficaci, atte a rap-
presentare un preciso codice per ricordare. La muta predicatio affidata al-
l’immagine appare idonea infatti, più degli altri strumenti retorici, a far pre-
sa sulla sensibilità e sulla memoria del lettore per la sua forza emotiva. Pro-
duce conoscenza e insieme trasformazione interiore:

quel ch’abbi dimostrato tu lo vedi,


però mi rendo cierto che lo credi (XXV, 7-8)52.

49 E. AUERBACH, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel

Medioevo, trad. ital., Milano 1970, pp. 33-67.


50 La citazione è tratta da GIULIANO DATI, Secondo cantare dell’India, Roma,

J. Besiken e S. Mayr, 1494-95, c. 4v, ott. LIX, 6. Ho consultato l’esemplare posse-


duto dalla Biblioteca Casanatense di Roma.
51 In diversi punti le finalità didattiche dell’autore sono particolarmente espli-

cite: «Chi usa el tempo suo così passare, / non tien le voglie sue mai otiose; / non è
più dolcie cosa o più felice / che lo ’mparare, el tuo poeta el dicie» (ibid., ott. LVIII),
oppure «Or fa che tu stie ’ttento, o auditore, / e della Bibia intenderai gran chose, /
ben che lo possi udire a tutte l’ore / sonti fors’a studiarle fatichose; / i’ te l’ò messe
in versi per amore / che sono a qualchedun più dilettose; poi tal potrà quest’opera
tenere / che non può la gran Bibia in casa avere»: cfr. GIULIANO DATI, Historia di S.
Job propheta, Firenze, L. Morgianni e J. Petri, ca. 1495, c. 2v, ott. XXV (esempla-
re conservato presso la Biblioteca Casanatense di Roma).
52 DATI, Del diluvio di Roma del 1495 cit., c. 2v.
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se tu non credi, Italia, a questa vocie


credi a quel che tu vedi che ti chuocie (XLV, 7-8)53.

Questi versi svolgono una funzione edificante affidandosi al fascino


del narrato, dell’evento miracoloso, ma esprimono sempre un chiaro giudi-
zio sul presente, in una situazione storica concretamente determinabile. I
segni dell’ira e della volontà divina sono infatti avvertimenti di un futuro
catastrofico, ma anche indicazioni che la provvidenza offre agli uomini per-
ché possano comprendere il reale significato della storia. Accentuando la
componente emotiva, Dati dichiara in maniera esplicita l’intento educativo
e la funzione civile dei propri componimenti:

Non posso dir le cose grandi e strane


e ancho non si può tutto sapere,
sì che, popul romano, io mi ti scuso
s’i’ son nel mio cantare lunge confuso (LXXXVII, 5-8).

Confusamente io l’ò tutte comprese


perché fu grande tal confusione
e òttele confuse qui distese,
perché confuse i’ l’ò da più persone,
òlle confusamente e viste e ’ntese,
però confusa fo conclusione,
megli’ è confusamente alquanto intendere
che per confusion nulla comprendere (LXXXVIII)54.

Nelle ottave del Diluvio le ripercussioni della cronaca interagiscono


con un immaginario centrato sulla valenza simbolica della città pontificia,
che altrove lo stesso Dati aveva contribuito a rafforzare55. Se lo splendore e
la monumentalità di Roma sono pari alla sua sacralità, la distruzione fisica
dell’Urbe coincide con la rovina morale dell’intera cristianità. L’alluvione
del Tevere, che travolge inesorabilmente tutto, «non riguardando al papa o
cardinali»56, richiama alla memoria l’immaginario apocalittico legato al pe-
ricolo turco e alla conquista di Gerusalemme, la città santa materialmente
distrutta e spiritualmente riedificata57.

53Ibid., c. 3v.
54Ibid., c. 5v.
55 Soprattutto nelle Stazioni e indulgenze di Roma, nell’Aedificatio Romae, nel

Trattato de Santo Ioanni Laterano e nella più tarda Vita di tutti e pontefici.
56 DATI, Del diluvio di Roma del 1495 cit., c. 4r, ott. LVII.
57 Mi sono soffermata su questi temi, prendendo in esame l’intero svolgimen-

to narrativo del poemetto sul Diluvio e i punti di contatto con la contemporanea tra-
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RIME PREDICABILI 421

Un secondo livello di discorso infatti, religioso e profetico, continua-


mente agisce sul primo, la storia, interpretandolo in chiave simbolica. L’e-
vento naturale è inscritto in un ordine provvidenziale che non mira alla
semplice punizione dei vizi della città e della Chiesa, ma attraverso la sof-
ferenza condurrà alla rigenerazione di Roma. Nel loro forte anelito alla
salvezza queste rime devote esprimono un preciso e concreto bisogno di
purificazione spirituale della società cristiana e insieme la necessità di una
vita religiosa più intensa ed austera. Se nella speranza e nella fede in una
renovatio totale sono racchiuse le nuove istanze di riforma in senso evan-
gelico delle istituzioni religiose e del vivere civile, alle motivazioni collet-
tive si affianca anche l’idea di un traguardo individuale da raggiungere at-
traverso un’esperienza interiore di preghiera e di penitenza. I contenuti che
il testo vuole imprimere nella mente del lettore sono tali, infatti, da agire
sulla volontà: rinviano a ciò che deve guidare la vita del cristiano e su cui
egli discute il proprio destino di salvezza o di dannazione eterna. Partico-
larmente significativo, in questo senso, è il cantare dedicato alla Historia
di Sancto Job propheta: una figura biblica centrale, che rinvia a questioni
teologiche essenziali, come il problema della sofferenza e del male, della
giustizia di Dio e di quella del diavolo. Al Libro di Giobbe sono legati i no-
mi di Savonarola, di Vincenzo Quirini, ma anche quello di un personaggio
di sicura eterodossia come il fiorentino Antonio Brucioli, che nel 1534
pubblicherà e commenterà il testo sacro. Nelle ottave di Dati l’esempio di
Giobbe viene proposto al lettore sotto il profilo dell’ammaestramento eti-
co, come paradigma di virtù:

Fu patiente, questo, oltra misura,


modesto e iusto e fu molto prudente;
ebe ’l chorpo e la mente molto pura,
grave, piatoso e d’animo possente
e della verità tenne gran chura (XII, 1-5)58.

La vita del santo testimonia concretamente come la sofferenza e il do-


lore possano divenire mezzo di accrescimento della fede. Fornisce, dunque,
al lettore un esempio chiaro e imitabile sul quale modellare la propria e-

dizione colta, nel mio «Delli celesti segni e delle moderne tribulationi». Tensione
profetica e renovatio religiosa nelle ottave di Giuliano Dati, in Roma nella svolta
tra Quattro e Cinquecento, (Atti del Convegno Internazionale di Studi, Roma, 28-
31 ottobre 1996), in corso di stampa.
58 DATI, Historia di S. Job propheta cit., c. 2r.
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sperienza59, avvalorato anche da un lungo elogio della pazienza e da un’am-


pia rassegna di autori dell’antichità che scrissero della nobile virtù:
Luchano al nono libro anchora el pone,
nel secondo chapitol dicie Chato
ch’è massima virtù con sua ragione
la patientia, anchor Quintiliano
e Paulo ne scrive a te romano (LXXXIII, 4-8).

Aristotil anchor nel libro ottavo


Politichorum chapitulo secondo,
Tulius artis nove poi studiavo
simil de Ovidio un detto assai profondo
nell’ipistola quinta, ch’io trovavo,
e molti altri dottori dotti del mondo,
Macrobio con Prudentio e poi Cirillo,
di Bernardo e Boetio vorre’ dirlo (LXXXVI)60.
La mediazione interpretativa dell’autore riesce a rinnovavare una tra-
dizione agiografica consolidata con la forza persuasiva, dialettica e vitale
del presente. Nei versi di Dati infatti è l’insorgere del morbo gallico, porta-
to dall’esercito straniero, ad essere interpretato come castigo divino da e-
spiare attraverso la devozione tributata a san Giobbe61.
E t’è venuto addosso e galli e chani,
ch’anno el tuo paese arso e predato;
o quanti de’ paesi ultramontani
ànno ’l sudor del viso tuo mangiato!
E se’ del tuo nimico ito alle mani,
che à ’l tuo sangue isparso in ogni lato
e freddo e fame e sete e peste e guerra
e ora el mal di Iob che ti serra (XCVIII)62.

59 Così recitano i suoi versi: «io vo’ chantare, / a nostro esemplo, la sua santa
vita / che fu fra l’altre sola singulare; / beato a chi la segue o chi la imita», ibid., c.
1v, ott. IV, 1-4 (correggo al v. 4 ‘inmita’ con ‘imita’). Al medesimo scopo Dati ave-
va composto altri cantari di argomento agiografico, dedicati a san Biagio, santa Bar-
bara e alla beata Giovanna da Signa. Cfr. M. SIMHART, Una leggenda in versi su San-
ta Barbara del 1494, «La Bibliofilia», 27 (1925), pp. 142-146.
60 DATI, Historia di S. Job propheta cit., c. 5v.
61 Ha studiato questo cantare come rara testimonianza della ripresa del culto di

Giobbe, in un ben determinato momento storico, L. LUPETINA, «Sancto Job prophe-


ta». Osservazioni sul culto di San Giobbe e la sifilide, «Sanità scienza e storia», 1-2
(1992), pp. 103-121.
62 DATI, Historia di S. Job propheta cit., c. 6r.
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RIME PREDICABILI 423

Giobbe, simbolo corporeo delle intenzioni spirituali che si intendeva co-


municare, diviene modello di una devozionalità prevista e programmatica63:

Se tu avesi al prencipio creduto,


tu non saresti a questo, tienti a mente,
ma tu ài fatto sempre el sordo e ’l muto
e di far penitentia non niente,
po’ che di Dio nell’ira se’ chaduto
non eser al ben far più negligiente,
ma porta del Signor la penitentia
come fe’ Job in sancta patientia (XCIX)64.

E abbi questo santo in divotione,


di cui cappelle fassi e più figure.
Vedi di quanto ben sarà chagione
tal mal che fa le nostre menti pure;
la sua solennità fan le persone
in alcun logo intendi e pon ben cure;
s’io l’ò bene studiato, o visto l’agio,
ogni anno viene el sesto di magio (C).

Sperimentando forme private di persuasione e di meditazione, questi o-


puscoli in volgare diventano strumento di catechesi e si preparano lentamen-
te a sostituire i modi più tradizionali della pietà popolare, traendo una parte
considerevole della loro fortuna proprio dall’uso di figure che accompagnano
i caratteri a stampa65. Componimenti come questi contengono già in nuce i
presupposti di una retorica delle immagini destinata ad accrescere sempre più
le proprie potenzialità. Attraverso il linguaggio delle immagini e delle parole
si realizza infatti la trasposizione dell’evento pubblico nella sfera privata del-
la lettura devota. Dati istruisce, ammonisce ed esorta i credenti per ricondur-
li alla penitenza, al ben operare e alla speranza della vita eterna, prospettan-
do loro l’imminente avvento di una nuova era di pace spirituale e temporale,
un’umanità rinnovata sotto il segno della religione di Cristo:

63 Queste caratteristiche sono riscontrabili anche nel cantare di Dati dedicato a

san Biagio; cfr. COLAFRANCESCHI, Giuliano Dati: «Historia et legenda di Sancto


Biasio vescovo et martyre» cit., pp. 257-269
64 DATI, Historia di S. Job propheta cit., c. 6r. Ho corretto al v. 3 ‘à’ con ‘ài’.
65 Cfr. R. RUSCONI, Pratica culturale ed istruzione religiosa nelle confraterni-

te italiane del tardo Medio Evo: «libri da compagnia» e libri di pietà, in Le mou-
vement confraternel au Moyen Âge. France, Italie, Suisse, (Actes de la table ronde,
Lausanne, 9-11 mai 1985), Genève 1987, pp. 133-153.
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Habi la fede al cuor, l’opere in mano,


che sian perfette e nulla cosa ria;
fa che non temi poi, fedel cristiano,
così la natural filosofia
ti mostra con le feste aperte in mano66
sanz’aver altri punti astrologia (CIX, 1-6)67.

Se i suoi cantari manifestano, da una parte, una forte esigenza di puri-


ficazione morale attraverso l’insistita riproposizione di ideali evangelici,
dall’altra esaltano il carattere provvidenziale del pontificato, contribuendo
a diffondere il progetto di potestà papale promosso da Alessandro VI68.
L’avvento dei tempi nuovi diventa così non soltanto oggetto di meditazio-
ne, ma il persuasivo risultato di una rete di relazioni che il testo evidenzia.
In più componimenti l’autore dimostra una profonda devozione per il pon-
tefice. Anche le iniziative politiche e propagandistiche del papato assumo-
no un significato spirituale e religioso, gli stessi successi militari vengono
sacralizzati69. Nel poemetto La magna lega, dedicato alla costituzione del-

66 In un altro cantare, la Calculatione delle ecclissi, Roma, J. Besicken e S. Mayr,


1493, lo stesso Dati aveva messo in versi «l’eclisse in sole e luna / e le mobili feste ad
una ad una» (c. 2r, ott. I, 7-8), allo scopo di compilare un calendario degli anni 1494-
1523. Un esemplare di questo testo è posseduto dalla Biblioteca Casanatense di Roma.
67 DATI, Del diluvio di Roma del 1495 cit., c. 6v (ho corretto al v. 6 ‘ostrologia’

con ‘astrologia’). Versi come questi esprimono chiaramente un’ammonizione mora-


le, ma anche una preoccupazione dottrinale particolamente viva in quegli anni, la
lotta tra profezia e astrologia, strenuamente sostenuta a Firenze da Girolamo Savo-
narola. Alla polemica antiastrologica, già presente in molte sue prediche, nel Com-
pendio di rivelazioni e nel Trionfo della croce, il frate ferrarese dedicherà nel 1497
il trattato Contro gli astrologi (cfr. ora l’edizione a cura di C. GIGANTE, Roma 2000).
Sull’argomento si vedano almeno E. GARIN, Lo zodiaco della vita. La polemica sul-
l’astrologia dal Trecento al Cinquecento, Roma-Bari 1976; O. NICCOLI, Il diluvio
del 1524 fra panico collettivo e irrisione carnevalesca, in Scienze, credenze occul-
te, livelli di cultura, (Convegno Internazionale di studi, Firenze, 26-30 giugno
1980), Firenze 1982, pp. 369-392; EAD., Profeti e popolo cit., pp. 185 e s.
68 Si fa qui riferimento all’indagine condotta, su un altro componimento di Da-

ti, da CURCIO, Giuliano Dati: «Comincia el tractato di Santo Ioanni Laterano» cit.
I contenuti del testo sono avvalorati anche dall’immagine xilografica presente sul
frontespizio, che raffigura quattro episodi della Donazione costantiniana.
69 L’intento encomiastico è esplicito nelle ottave d’apertura de La storia della

inventione delle nuove insule di Channaria indiane: «Ma chi potesse legier nel fu-
turo / d’uno Allexandro magnio papa sexto, / de la sua creatione il modo puro, /
grat’a ciascuno, a nullo mai molesto, / e del prim’anno suo el magnio muro / che
non gli può nessuno esser infesto; / sest’Alessandro Papa Borgia ispano, / giusto nel
giudicare et tutto humano»; cfr. LEFEVRE, Nel 500° dell’impresa colombiana. Dalle
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RIME PREDICABILI 425

l’alleanza tra Venezia, Alessandro VI, Ferdinando e Isabella di Spagna,


Massimiliano I e Ludovico il Moro, a seguito della conquista francese del
Regno di Napoli, la città di Roma festeggia la notizia come un vero e pro-
prio trionfo temporale della Chiesa:

E fu per tutta Roma poi sonato


e fatto fu la sera molti fuochi,
e allegreza e gaudio in ogni lato,
spingarde e chanti e suoni e molti giuochi;
viva la Chiesa e ’l suo pastor beato
in sempiterno, sempre in tutti e luochi,
che mantien la sua gregie in tanta festa
e salval’ e difende da molesta (XIV)70.

La cronaca contemporanea viene messa in scena epicamente attraver-


so il dispiegamento degli eserciti, i nomi dei comandanti delle diverse ar-
mate, il concorso degli uomini più valorosi, provenienti da diversi paesi ma
uniti dalla medesima religione, nella communis patria romana. Dopo una
dettagliata enumerazione di tutti i rappresentanti delle magistrature comu-
nali, dei cittadini romani e della gerarchia ecclesiatica, il cantare prosegue
nell’esaltazione della pietà e magnificenza del pontefice:

Or d’Alesandro sesto che dirai,


nipote di Calisto glorioso,
quasi ier choronato, chome sai,
e quel ch’à fatto a te non è naschoso;
di santo Ianni el tetto tu vedrai,
chom’à rifatto al tempio pretioso,
le stanze di palazo messe a oro
e giemme pretiose, o che tesoro (XLI)71.

L’elogio di papa Borgia, che con il proprio ingegno «à voltato el mon-


do sotto sopra»72, non esclude la persistenza di valutazioni critiche: l’ospe-

prime cronache ai «Cantari» di Giuliano Dati cit., p. 84, ott. VI. Il poemetto, è no-
to, era stato commissionato a Giuliano Dati dal De Ligmamine, «domestico fami-
liare dello illustrissimo re di Spagna»: cfr. FARENGA, Le prefazioni alle edizioni ro-
mane di Giovanni Filippo De Lignamine cit., pp. 166-167.
70 GIULIANO DATI, La magna lega, Roma, Johann Besicken, 1495-96, cc. 6 non

num. (la citazione è alla c. 2r). Seguo il testo dell’esemplare conservato a Firenze,
presso la Biblioteca della Facoltà di Medicina.
71 Ibid, c. 3v.
72 Ibid., ott. XLIV, 8.
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dale di San Giovanni, ad esempio, «un pozo d’or non tanto vale / quant’e-
gli à speso e spende»73. Diversamente,

in santo Pietro, che ti pare


el chorridoro nuovo e le due porte?
Del muro di Chastel non vo’ parlare,
che mai sarà forteza tanta forte
e magni fossi intorno che fa fare,
chi vi s’achosta istimi aver la morte;
or si potrà ben dire di quel castello
che sia del mondo el piu forte ’l piu bello (XLII)74.

Poi l’autore interviene nella narrazione:

Non ti maravigliar, tu che ascholti,


di questo mio parlar, ch’è tanto altero;
chostoro àn asai giente e danar molti,
massime ’l santo patre e poi lo ’mpero (XLVII, 1-4).

L’interesse per l’immagine fisica dell’Urbe, per i suoi edifici monu-


mentali e le sue bellezze artistiche, accomuna diversi componimenti di
Dati. Nella sua Vita di tutti e pontefici, edita dopo la morte di Alessandro
VI, il canonico fiorentino ricostruisce l’intero operato dei papi sulla città
seguendo lo schema tradizionale delle cronologie pontificie. Qui lo spa-
zio dedicato a papa Borgia è interrotto da una riflessione ancora più e-
splicita:

Or d’Alexandro sesto ch’al presente


quiesce in pace basta poco dire,
però che le sue chose tutta gente
vede quanto son grande, magne e mire;
pur per non esser detto negligente
ti vo’ qualche chosette riferire,
d’ognuno si vuol dir bene universale
e di ciascun guardarsi di dir male (C)75.

73 Ibid., ott. XLIII, 5-6.


74 Ibid.
75 GIULIANO DATI, La vita di tutti e pontefici, Roma 1505, 6 cc. non num. (la ci-

tazione è alla c. 6r). Un esemplare di questa edizione è conservato a Venezia, pres-


so la Fondazione Cini.
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RIME PREDICABILI 427

Nella Magna lega Dati aveva rivolto al lettore un chiaro ammonimento:


bisogna «sempre la Chiesa e ’l pastor venerare» e «se vuoi da turcho viver, va’
in Turchia / e lasa star la Chiesa santa e pia»76. La sua produzione letteraria,
profondamente intrecciata alla tradizione alta, ha fatto proprie alcune tenden-
ze di particolare specificità dell’umanesimo romano, riadattandole a usi, biso-
gni e interessi di fruitori e ambienti diversi77. La continuità tra la Roma paga-
na e quella cristiana, infatti, aveva conferito un solido fondamento teorico e in-
sieme una legittimazione spirituale all’azione del papato come impero cristia-
no. L’idea stessa della centralità universale della città pontificia spiega le im-
plicazioni profetiche connesse alla colonizzazione politico-militare di nuove
terre, come compimento dell’imminente età dell’oro affidata al principato ec-
clesiastico78. Nei versi di Dati il mito e la leggenda vengono rivitalizzati nel
presente, divenendo attuali e veritieri. Visioni di paradisi terrestri e di immani
sciagure sono i due poli della medesima tensione che attraversa un momento
così grave di crisi e di attesa escatologica. In un contesto come questo anche
il favoloso regno del Prete Gianni, vera e propria oasi della cristianità oltre le
terre islamiche, con il suo corredo di esseri fantastici e ricchezze meraviglio-
se, finisce con l’assumere i tratti e le sembianze della realtà contemporanea:

Nella qual sala in su la sedia posa


el venerando vecchio prete Janni,
et l’audientia sua è gratiosa,
et come gran pastor veste suo’ panni.
Sopra la testa sua meravigliosa
la mitera papal tien senza affanni,
et ha di sopra scripto e sette doni
dello spirito sancto et più sermoni (XVIII).

76 DATI, La magna lega, cit., c. 5r, ott. LXXIII, 3; LXXIV, 7-8.


77 Le diverse articolazioni dell’umanesimo romano sono state indagate da V.
DE CAPRIO, Roma, in Letteratura italiana, diretta da A. ASOR ROSA, Storia e geo-
grafia, II 1, Torino 1988, pp. 327-472; R. ALHAIQUE PETTINELLI, Tra antico e mo-
derno. Roma nel primo Rinascimento, Roma 1991; G. SAVARESE, La cultura a Ro-
ma tra Umanesimo ed Ermetismo (1480-1540), Anzio 1993; J.F. D’AMICO, Renais-
sance Humanism in Papal Rome: Humanists and Churchmen on the Eve of the
Reformation, Baltimore-London 1983; C.L. STINGER, The Renaissance in Rome,
Bloomington 1985; L. D’ASCIA, Erasmo e l’umanesimo romano, Firenze 1991.
78 Sul significato escatologico attribuito dai contempornei alla scoperta dell’A-

merica, basti citare A. PROSPERI, America e Apocalisse. Note sulla «conquista spiri-
tuale» del Nuovo Mondo, «Critica Storica», 13 (1976), pp. 1-61; R. ROMEO, Le sco-
perte americane nella coscienza italiana del Cinquecento, Bari 1989; A. PROSPERI, I
limiti dello spazio e quelli del tempo. La scoperta dell’America nel profetismo apo-
calittico italiano del ’500, «Rassegna europea di letteratura italiana», 1 (1993), pp.
177-191; F. TATEO, L’etica umanistica di fronte alle «scoperte», ibid., pp. 193-204.
Cap. 17 Cassiani 405-428 13-09-2002 13:26 Pagina 428

428 CHIARA CASSIANI

Nella catena delle analogie e delle corrispondenze, il sovrano orienta-


le, che «come el nostro primo et gran pastore / per grande umiltà si scrive
et canta / servo servorum Dei è ’l suo tenore»79, rappresenta l’immagine
speculare del pontefice e della sua corte:

Et non è patriarcha solamente


di queste genti, e loro sommo pastore,
ma temporal signore certamente,
et è chiamato loro imperadore. (XXV, 1-4)

Il Prete Gianni è circondato da un collegio di vescovi e prelati con «il


cappel da cardinale»80, è solito celebrare «cerimonie sue meravigliose [...]
et poi le messe sancte [...] come fa il papa»81, e nella propria città ha fatto
costruire molti palazzi «ornati di splendore et di richezze»82:

Et le lor chiese magne et gloriose


magior son delle nostre et più ornate
d’argento et d’oro et pietre preziose,
et di ricchi ornamenti circundate. (XXXVI, 1-4)

Così egli governa un popolo di «fedeli et devoti christiani»83. Il mito


dell’imperatore-pontefice, che per tutto il Medioevo ha rappresentato l’uto-
pia politica del sovrano giusto e magnanimo, viene ora riletto e interpreta-
to dal Dati con una forte accentuazione morale e religiosa, offrendo al let-
tore la prospettiva finale di uno stato di definitiva perfezione:

Se si potesse el tutto qui narrare,


o auditore, e’ ti verrebbe voglia
di voler quel paese visitare
rinuntiando del tuo ciascuna spoglia. (XLI, 1-4)

79 DATI, La gran magnificentia de Prete Janni cit., ott. XXIV, 1-3.


80 Ibid., ott. XIX, 8.
81 Ibid., ott. XXXIII, 8; XXXIV, 2 e 5.
82 Ibid., ott. X, 8. Un chiaro riferimento alla figura del Prete Gianni comparirà

più tardi anche nel Libellus ad Leonem X Pontificem Maximum (1513) composto da
Paolo Giustiniani e Vincenzo Quirini. Significative coincidenze tra questo testo e il
cantare del Dati sono state individuate da R. ALHAIQUE PETTINELLI nel suo recente
intervento, Letterati e Riforma cattolica, in La comunità cristiana a Roma: la sua
vita e la sua cultura dall’età ottoniana agli inizi dell’età moderna, (Atti del 2° Con-
vegno di studio, Roma, 15-17 aprile, 1999), in corso di stampa.
83 DATI, La gran magnificentia de Prete Janni cit., ott. XXIII, 3.
Cap. 18 Bracke W.429-438 13-09-2002 13:26 Pagina 429

WOUTER BRACKE

Paolo Pompilio, una carriera mancata

Nonostante la breve biografia pubblicata dal cardinale Giovanni Mer-


cati in anni ormai lontani1 e nonostante l’accenno di Dionisotti nel suo fon-
damentale studio su Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, il
grammatico e poeta Paolo Pompilio (1455-1491) rimane una figura tuttora
sottovalutata nell’umanesimo romano: in anni recenti Mirko Tavoni, all’in-
terno della discussione sul bilinguismo in epoca antica, ha dedicato un ca-
pitolo a Pompilio, e altri studi recenti si devono a Myriam Chiabò e Dieter
Briesemeister2. Ma le precisazioni da fare non mancano, come la datazione
di alcuni panegirici di Paolo Pompilio, cioè Ad Carvajales e De triumpho
Granatensi, che sono stati assegnati al 1492, quando Pompilio era già mor-
to3, o come le note catulliane di cui Julia H. Gaisser nel Catalogus Tran-
slationum et Commentariorum ha negato la paternità4. Ma di questo ho di-
scusso in altra sede5. Paolo Pompilio è stato studiato per la prima volta da
un filologo belga, Paul Faider, professore all’Università di Gand, nel qua-
dro delle sue ricerche su Seneca. Faider pubblicò nel 1921 la Vita Senecae
di Paolo Pompilio, preceduta da un’ampia introduzione, dove ricostruiva la

1 G. MERCATI, Paolo Pompilio e la scoperta del cadavere intatto sull’Appia nel

1485, «Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia», III ser., 3


(1924-1925), pp. 25-43, rist. in MERCATI, Opere minori, IV, Città del Vaticano 1937,
pp. 268-286.
2 C. DIONISOTTI, Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, Firenze

1968; M. TAVONI, Latino, grammatica, volgare. Storia di una questione umanistica,


Padova 1984; ed infra.
3 M. CHIABÒ, Paolo Pompilio professore dello ‘Studium Urbis’, in Un pontifi-

cato ed una città: Sisto IV (1471-1484), (Atti del Convegno, Roma, 3-7 dicembre
1984), a cura di M. MIGLIO-F. NIUTTA-D. QUAGLIONI-C. RANIERI, Città del Vaticano-
Roma 1986, (Littera Antiqua, 3), pp. 503-514; D. BRIESEMEISTER, Episch-dramati-
sche Humanistendichtungen zur Eroberung von Granada (1492), in Texte, Kontexte,
Strukturen. Beiträge zur französischen, spanischen und hispanoamerikanischen Lite-
ratur. Festschrift zum 60. Geburtstag von Karl Alfred Blüher, hersg. von A. DE TO-
RO, Tübingen 1987, pp. 249-263.
4 Catalogus Translationum et Commentariorum: Mediaeval and Renaissance

Latin Translations and Commentaries. Annotated Lists and Guides, VII, Washing-
ton D.C. 1992, s.v. Catullus.
5 W. BRACKE, Pietro Paolo Pompilio grammatico e poeta, Tesi di dottorato di ri-

cerca, Messina 1993. Sulle note catulliane si veda ora W. BRACKE, À propos d’un
commentaire sur Catulle datant du XVe siècle, «Latomus», 59, 2 (2000), pp. 414-426.
Cap. 18 Bracke W.429-438 13-09-2002 13:26 Pagina 430

430 WOUTER BRACKE

biografia del nostro sulla base della vita anonima conservata nel Vat. lat.
22226. Il suo interesse per la figura di Pompilio era nato senz’altro da un
piccolo libro prezioso conservato tutt’ora presso la Biblioteca universitaria
di Gand. Si tratta dell’edizione olandese della Vita Senecae pubblicata da
Ricardo Pafraet a Deventer tra il 1491 e il 1497 (HC *13251). L’edizione,
di poco posteriore all’editio princeps eseguita da Eucario Silber a Roma il
16 febbraio 1490 (HCR 13252, IGI 7983, IERS 1172), testimonia una cer-
ta e rapida fortuna del suo autore oltralpe. Il testo costituisce l’ultima ope-
ra conservata del nostro e ha tutte le caratteristiche di un lavoro scientifico
concepito per motivi tutt’altro che scientifici. Prima di tutto il contenuto.
L’opera, una raccolta di materiale sparso «quemadmodum coloni in male
cultis agris utiles herbas aut raras aut latentes rimantur»7, è dedicata non so-
lo alla figura del filosofo spagnolo, ma costituisce una lode del popolo spa-
gnolo in generale e dei suoi letterati in particolare. Lo scopo, così sottoli-
nea Pompilio alla fine della Vita Senecae, fu «notari ut quanta fuerit Hispa-
nia tum hominum claritudine, tum rerum omnium splendore, eo tempore
coniici possit cum ex una civitate et quae in angulo orbis terrarum est, et in
oceano, tanta nobilitas conspici potuerit»8. La città cui si riferisce Pompilio
è ovviamente Cordova, città dei Seneca e di Lucano. L’elenco comprende
personalità ed autori dall’antichità al Trecento ed include anche rappresen-
tanti della cultura araba. Nel secondo capitolo De nobilitate Gentis Hispa-
niae Pompilio si limita all’epoca romana enumerando tra gli altri Pompo-
nio Mela, Silio Italico, Quintiliano, Marziale, Columella, Nerva, Traiano,
Adriano, Teodosio, Galba e erroneamente Floro9. Nell’ultimo capitolo De
nobilitate Cordubae et reliquae Hispaniae ripete alcuni di questi nomi ag-
giungendone tanti altri, tra i quali Avicenna, Averroes, Rasis, Albucasis, A-
li Abbas, Moses, Avenzoar, Alfonso X, Valeriano, Prudenzio, Orosio, Isido-
ro, Eutropio, Iuvenco, Raimundo Lullo10. Pompilio si sofferma più a lungo
su Quintiliano e soprattutto su Lucano (cui sono dedicati i capitoli 6, 15-
17), tutti e due autori che ebbero grande rilievo all’interno dell’umanesimo
romano. L’opera è dedicata al segretario di Rodrigo Borgia, allora vicecan-
celliere, Giovanni Lopez, decano di Valenza, con il quale, stando alla lette-
ra dedicatoria, Pompilio era in buoni rapporti da quando era piccolo: «Ea
[benivolentia] quidem a tenera aetate inita ad hanc usque diem constantis-
sime crevit»11. Gliela dedicò anche per altri motivi. In primo luogo perché

6 P. FAIDER, Études sur Sénèque, Gand 1921, pp. 269-323.


7 Ibid., p. 282.
8 Ibid., p. 323.
9 Ibid., pp. 283-284.
10 Ibid., pp. 317-318.
11 Ibid., p. 281. L’identificazione di questo personaggio non è del tutto sicura:

cfr. JERONI PAU, Obres, edició a cura de M. VILALLONGA, I, Barcelona 1986, pp. 99-
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PAOLO POMPILIO, UNA CARRIERA MANCATA 431

Giovanni Lopez era un filosofo e un «sacrae theologiae religiossimus asser-


tor» e quindi avrebbe potuto apprezzare la vita di un altro filosofo «ac prope
christiani» quale fu Seneca. In secondo luogo perché, in qualità di collabora-
tore, Lopez aiutava ed anzi sostituiva l’‘ottimo principe’ Rodrigo Borgia, che
«patrum prudentissimus unus pene omnium cuncta apostolicae curiae obit» e
nella mente del quale «regum caeterorumque principum totius orbis christia-
ni res vertuntur et digeruntur». Per tale motivo Giovanni Lopez meritava di
essere paragonato ad Ercole che sostenne sulle proprie spalle il cielo per aiu-
tare Atlante12.
Quindi, fin dall’infanzia, Paolo Pompilio era in stretto contatto con gli
Spagnoli che dal pontificato dell’altro Borgia, Callisto III, si erano sistemati
a Roma. Erano arrivati a Roma al seguito del nuovo papa nella prospettiva
di una carriera di curiale, di uomo di corte. Occuparono a Roma posti im-
portanti e diventarono, come si è visto, i committenti più in vista del mon-
do romano della seconda metà del ’400. I buoni rapporti tra i membri del-
l’Accademia pomponiana e la nazione spagnola sono stati già illustrati. An-
che alcuni prestigiosi membri di grandi famiglie romane sono stati tributa-
ri, in certi periodi delle loro carriere, a questi stranieri. Dei Mellini, ad e-
sempio, per menzionare una famiglia ancor oggi poco studiata, Giovanni
Battista, canonico di San Giovanni in Laterano e cardinale sotto Sisto IV, fu
ambasciatore e legato pontificio di Callisto III, mentre suo fratello Luca,
abbate dell’ordine dei Celestini, fu confessore di Alfonso Borgia cardinale.
Del primo, come è noto, Bartolomeo Platina scrisse una breve biografia13.
Per i letterati le occasioni non mancarono per dimostrare le loro capacità re-
toriche e poetiche. Tra queste la guerra di Granata costituì senza dubbio un
argomento prediletto. Basta leggere quanto sostiene Pietro Marso nella de-
dica della sua orazione, recitata per la festività di sant’Agostino, orazione

100. Un Giovanni Lopez, protonotario e luogotenente nel governo d’Orvieto per Ro-
drigo Borgia, fu sepolto nella chiesa dei Borgia, Santa Maria del Popolo. Nell’epi-
taffio, però, è chiamato decanus Segobiensis (cfr. Biblioteca Hispana Vetus, sive Hi-
spani scriptores qui ab Octaviani Augusti aevo ad annum Christi MD. floruerunt,
auctore D. NICOLAO ANTONIO HISPALENSIS I. C., curante FRANCISCO PEREZIO BAYE-
RIO, II, ab anno M ad MD, Matriti 1788, pp. 337-339, in particolare p. 338, nota 1).
12 FAIDER, Études cit., pp. 281-282.
13 Vat. lat. 3406. Sulla vita si veda M.G. BLASIO, Interpretazioni storiche e fil-

tri autobiografici nella Vita Ioannis Milini di Bartolomeo Platina, in Le due Rome
del Quattrocento. Melozzo, Antoniazzo e la cultura artistica del ’400 romano, (Atti
del Convegno Internazionale di Studi, Università di Roma «La Sapienza» - Facoltà
di Lettere e Filosofia Istituto di Storia dell’arte, Roma, 21-24 Febbraio 1996), a cu-
ra di S. ROSSI-S. VALERI, Roma 1997, pp. 172-182. La vita viene citata anche nel-
l’introduzione a BARTHOLOMAEI PLATYNAE De falso et vero bono, a cura di M.G.
BLASIO, Roma 1999, p. 49.
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432 WOUTER BRACKE

dedicata a Ferdinando e Isabella di Spagna14. In essa Marso spiegava di a-


ver scartato l’idea di comporre un’operetta sulla conquista di Granata per-
ché avrebbe rischiato di perdersi nella marea dei coevi scritti di circostanza
(si pensi, per esempio, alla Historia Baetica di Carlo Verardi)15. Da questo
punto di vista, Paolo Pompilio non era diverso dai suoi connazionali. Per i
Mellini scrisse il suo Phasma, composizione in distici nella quale tesseva le
lodi del vescovo di Urbino16. Ai Carvajal, importante famiglia spagnola del-
la quale i membri più famosi furono Giovanni Carvajal, dotto teologo, e suo
nipote Bernardino Lopez de Carvajal, ambasciatore della corte spagnola a
Roma, nonché nominato cardinale nel 1493 da Alessandro VI, dedicò un al-
tro panegirico in occasione della liberazione di Plasencia realizzata ad ope-
ra dei Carvajal in favore della corona aragonese nel 148817. A Bernardino,
suo coetano, arrivato a Roma poco dopo il 1480, che secondo il De cardi-
nalatu di Paolo Cortesi abitava nel palazzo dei Mellini18, Pompilio dedicò
anche il suo Panegyris de triumpho Granatensi19. Quest’opera racconta in
dettaglio la presa di Basa nel 1490, tappa decisiva nella guerra di Granata,
che fu in un primo momento considerata dai contemporanei la fine della
guerra contro il nemico mussulmano. Bernardino stesso aveva pronunciato
in quest’occasione un discorso davanti al collegio dei cardinali il 10 gen-
naio 1490 presso la chiesa di San Giacomo degli Spagnoli a piazza Navo-
na. Se Paolo Pompilio non aveva potuto utilizzare il discorso, pubblicato da
Stephan Plannck solo intorno al 1495 (HC *4549), aveva sicuramente rice-
vuto di persona dall’autore tutte le informazioni necessarie al resoconto
delle diverse fasi della guerra. L’intera produzione di Pompilio è quindi fon-
damentalmente impregnata della cultura spagnola tanto che Michael Mal-
lett nella sua biografia dei Borgia, lo ha considerato addirittura catalano20.
Se dall’infanzia Paolo Pompilio godeva della benevolenza di Giovanni

14 Su Pietro Marso si veda M. DYKMANS, L’humanisme de Pierre Marso, Città


del Vaticano 1988, (Studi e testi, 327).
15 D. DEFILIPPIS, Un accademico romano e la conquista di Granata, «Annali del-

l’Istituto Universitario Orientale di Napoli. Sezione romanza», 30/1 (1988), pp. 223-
229, in particolare p. 223. Per il testo di Carlo Verardi, si veda CARLO VERARDI, Histo-
ria Baetica, a cura di M. CHIABÒ-P. FARENGA-M. MIGLIO-A. MORELLI, Roma 1993,
(RRanastatica, 6).
16 Vat. lat. 2222, ff. 86v-90r.
17 Vat. lat. 2222, ff. 90r-92v. Su Bernardino Carvajal si veda G. FRAGNITO in

DBI, 21, Roma 1978, pp. 28-34.


18. PAULI CORTESII PROTONOTARII APOSTOLICI Libri de cardinalatu ad Iulium Se-

cundum pontificem maximum, in Castro Cortesio 1510, cap. II, de domo cardina-
lium (f. 50r).
19 Vat. lat. 2222, ff. 27r-45r.
20 M. MALLETT, The Borgias. The Rise and Fall of a Renaissance Dynasty, Lon-

don-Sydney-Toronto 1969, pp. 104-105.


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PAOLO POMPILIO, UNA CARRIERA MANCATA 433

Lopez, era però più intimamente legato con il coetano Girolamo Pau, sul
quale si veda il contributo di Mariangela Vilallonga in questo volume. Pro-
va della stima che gli portava il catalano si legge nella dedicatoria del suo
Barcino, descrizione storico-geografica di Barcellona, città natale del Pau21.
L’opera fu pubblicata nel 1491 poco prima della sua morte. Paolo Pompilio
gli aveva chiesto di scrivere la storia della città22. Una richiesta che dimo-
stra la volontà del nostro per un approfondimento delle sue conoscenze del
mondo spagnolo. Girolamo Pau era venuto per la prima volta a Roma nel
1475 e vi si era sistemato definitivamente nel 1477 dopo un breve soggior-
no a Pisa. A quest’epoca Pau era già membro della corte del cardinale Ro-
drigo Borgia per il quale stese la prima redazione dell’iscrizione destinata
alla Torre Borgiana a Subiaco in occasione del suo restauro. Altre compo-
sizioni seguirono nei primi anni Ottanta, epoca in cui probabilmente fece
conoscenza con Pompilio in quanto giovane maestro di grammatica nel rio-
ne Campo Marzio e da poco professore alla Sapienza. Paolo Pompilio lo
menziona nel terzo libro delle Notationes, quando parla dei prodigia acca-
duti negli anni 1484-85 a Roma, che considera di una certa importanza23.
Uno di questi ostenta costituisce la scoperta sulla via Appia del corpo di una
giovane romana perfettamente conservato. Tutta la città accorse a guardare
il corpo. Dei letterati che si precipitarono a dare la loro interpretazione ri-
guardo all’identificazione della giovane romana, solo Girolamo Pau è no-
minato espressamente in quanto «vir certe paucorum similis pudore et eru-
ditione». Per quanto riguarda l’opera di Girolamo Pau, pubblicata intera-
mente in anni recenti, vale forse la pena menzionare un nuovo testimone per
tre delle opere più significative della produzione letteraria del catalano. Il
manoscritto di Bruxelles (BR, 10565, in 8°) è datato alla fine del ‘400, ed è
probabilmente di fattura italiana. Tra i 57 fogli che costituiscono il mano-
scritto, si conservano il Barcino (ff. 1-24v), l’Hymnus panegyricus in festo
divi Aurelii Augustini (ff. 24v-37r) e il De fluminibus et montibus Hispa-

21 Si veda l’edizione in JERONI PAU, Obres cit., II, pp. 290-347.


22 Ibid. pp. 290-293: «Amicorum quosdam fures esse temporis ait Seneca. Tu
contra, Pompili, facis; curas enim et instigas ne surripiantur amicis neve negotiis
obruantur. Rogas unum aut aliud, quo temporum mora fructum aliquem litterarum
his, quos diligis, pariat; appellasque negotia ipsa impedimenta quaedam philo-
sophiae, et sublimioris exercitationis animi, interceptiones. Interrupisti nuper per e-
pistolam negotiosas legum actiones, gratissimo rogatu. Cupis enim ut quae de urbe
mea eiusque agro et principatu, incolis et situ, deque eorum rebus praeclare magni-
ficeque gestis apud priscos auctores et fide dignos legi, ad te scriberem; addita per-
strictim usque ad nostra tempora historia. Quod libens feci, id te exposcente, ut de
eruditione taceam, amicorum optimo».
23 Si legga il testo in MERCATI, Paolo Pompilio cit., pp. 276-280.
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434 WOUTER BRACKE

niarum libellus, dedicato quest’ultimo a Rodrigo Borgia. La collazione dei


testi con le edizioni esistenti ha rivelato varianti testuali importanti. Per di
più, per il testo del panegirico in occasione della festa di sant’Agostino, il
codice di Bruxelles è il secondo testimone. Costituisce, quindi, indubbia-
mente una fonte preziosa per l’edizione del testo24. Ricordiamo ancora che
nel 1492 Pietro Marso aveva dedicato un’orazione simile ai Re di Spagna e
che il culto di sant’Agostino e l’ordine degli Agostiniani (eremiti), che era
stato fondato nel XIII secolo da Alessandro IV, godevano del favore tutto
particolare del futuro papa Alessandro VI: nel 1497 egli avrebbe stabilito
che il Praefectus Sacrarii Pontificii sarebbe stato dell’ordine agostiniano,
come avviene ancora oggi. Questi interessi sono presenti anche nella pro-
duzione di Pompilio. Il dialogo De amore25, scritto nell’estate del 1487, ma
ambientato ad Anguillara nel 1476 o nel 1478, al quale prendono parte, ac-
canto ai pomponiani Antonio Volsco, Papinio Cavalcanti e il Platina, gli
spagnoli Pietro de Rocha, arcivescovo di Salerno, nativo di Valenza, e Fran-
cesco da Toledo, vescovo di Coria (†1479)26, evoca ripetutamente come
fonte principale il vescovo di Ippona.
Già prima del 1485 Paolo Pompilio risulta ben introdotto nella familia
del vicecancelliere Rodrigo Borgia. Nel primo libro delle Notationes egli
racconta la discussione sul bilinguismo in epoca romana avvenuta «in aedi-
bus Cardinalis Valentini Rodorici Boriae» alla presenza di Girolamo Pau vir
quidem litteratissimus27. Nel 1486, l’anno nel quale Pietro Ludovico Bor-
gia, figlio maggiore del vicecancelliere, diventò duca di Gandìa, Pompilio
gli dedicò il carme intitolato Odyssea28. Si tratta di un panegirico di tipo al-
legorico che si distingue per questo aspetto dagli altri panegirici di Pompi-
lio che sono rimasti, appartenenti tutti all’epica. Seguendo l’andamento del
modello omerico, il suo autore rielabora il tema classico in chiave ovidia-
na. Il libro nono dell’Odyssea costituisce la trama per il panegirico pompi-
liano, dove si raccontano davanti ai Feaci le peregrinazioni da parte dell’e-
roe. Non c’è nessuna allusione al nuovo duca, nessuna indicazione che per-
mette d’identificarlo con l’eroe omerico. Il tema era stato scelto per altri
motivi; era stato infatti l’acquisto del titolo di Duca di Gandìa per suo figlio
da parte di Rodrigo Borgia ad ispirare il nostro a scrivere un panegirico. Il
suo argomento importava poco. Il vero destinatario della composizione era

24Per un’analisi del codice si veda ora M. VILALLONGA-W. BRACKE, Addenda


à l’édition de l’œuvre de Hieronymus Paulus, «Archives et Bibliothèques de Belgi-
que», in corso di stampa.
25 Vat. lat. 2222, ff. 46r-76r.
26 Biblioteca Hispana Vetus cit., pp. 308-310, nn. 675-682.
27 Si legga il testo in MERCATI, Paolo Pompilio cit., pp. 284-285.
28 Vat. lat. 2222, ff. 77r-85r.
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PAOLO POMPILIO, UNA CARRIERA MANCATA 435

piuttosto il padre che il figlio. Intorno al 1488, grazie alla benevolenza di


Giovanni Lopez, spinto soprattutto da Esperandeo Spagnoli, che Alessio
Stati nel dialogo De amore e Paolo Pompilio nel De syllabis chiamano a-
micissimus noster29, e che fu considerato dai suoi connazionali uno degli
uomini più eruditi di Maiorca30, Paolo Pompilio, giovane accademico, di-
ventò insegnante privato del giovane Cesare Borgia. Gli insegnò la gram-
matica, come risulta dell’edizione del De syllabis del 148831. Si tratta di
un’edizione rivista in modo affrettato di un testo polemico scritto intorno al
1480, arricchita, su domanda del suo illustre allievo, di alcuni capitoli sul-
la versificazione e sull’accento. Ancora nel 1490, Alessandro Farnese face-
va riferimento a questo insegnamento in una lettera allo stesso Borgia32. In-
segnamento che ebbe fine probabilmente quando l’allievo si trasferì a Pisa,
dove la sua presenza nello Studio è attestata per gli anni 1491-1492. Paolo
Pompilio, nella lettera dedicatoria all’allievo, unisce espressamente il suo
destino a quello del Borgia: «Sic enim arbitror tui tuorumque omnium per-
quam aeterno nomini meum adhaerens et ornabitur et durabit»33. Dopo la
morte di Pietro Ludovico Borgia, il terzo figlio Cesare era diventato il figlio
sul quale il futuro papa contava di più, in primo tempo in quanto principe
della chiesa, più tardi in quanto principe secolare. Leggiamo ancora quello
che dice Paolo Pompilio del giovane Cesare nella lettera dedicatoria del De
syllabis: «Non deerit surgenti tuae virtuti commodus aliquando et idoneus
praeco; nam ut ex tam laetis initiis prospicere licet, quem tua dignitas, quem

29 Vat. lat. 2222, f. 47v; H *13254, f. [2r].


30 J. N. HILLGARTH, Readers and Books in Majorca (1229-1550), I, Paris 1991,
pp. 241-242, e M. VILALLONGA, Una mostra de la poesia llatina quatrecentista als
països catalans, in Llengua i Literatura de l’Edat Mitjana al Renaixement, «Estudi
General», 11 (1991), pp. 51-63 (55-56).
31 H *13254, IGI 7982, IERS 1099. L’edizione è dedicata al giovane Borgia.

Nella lettera dedicatoria (f. 2r) Pompilio gli dice: «Perge, nostri temporis Borgiae
familiae spes et decus, libentique animo Syllabas nostras cape, amicissimi clientis
munus». Al f. 47r scrive ancora: «Respicio tamen officii mei curam in te, cuius e-
minens ingenium solicitam praeceptoris diligentiam meretur». Sul De syllabis si ve-
da W. BRACKE, «Contentiosa disputatio magnopere ingenium exacuit», in Roma e lo
Studium Urbis. Spazio urbano e cultura dal Quattro al Seicento, (Atti del Conve-
gno, Roma, 7-10 giugno 1989), Roma 1992, pp. 156-168.
32 A. FRUGONI, Carteggio umanistico di Alessandro Farnese (Dal cod. Gl. Kgl. S.

2125, Copenaghen), Firenze 1950, pp. 52-53: «Quod si virtus tua pene incredibilis
[…] et doctissimi praeceptoris Pompilii sedula cura non solum admonitione non indi-
gerent, verum et aliis exemplo non essent, omni conatu ac studio te ad huiuscemodi
imbibenda excitassem, et ad iucundissimum illum sapientiae fontem hauriendum
frequenter impulissem».
33 H *13254 f. [2r].
Cap. 18 Bracke W.429-438 13-09-2002 13:26 Pagina 436

436 WOUTER BRACKE

antiquae nobilitatis Borgius splendor qui longe lateque et olim et nunc per
Italiam, Gallias, Hispanias omnemque Europam coruscavit, non ad scri-
bendum excitabit?»34. In questi anni Paolo Pompilio preparò anche la pub-
blicazione della Vita Senecae, di cui si è già parlato. Alla fine di questo te-
sto si legge una composizione che a prima vista sembra fuori posto. Il car-
me di 59 esametri, intitolato Vita Alphonsina, è dedicato alla memoria del
papa Callisto III, Alfonso Borgia. Il rapporto con la Vita Senecae che pre-
cede è tutt’altro che chiaro. I Borgia non furono nemmeno menzionati nel-
l’elenco degli spagnoli famosi che occupa il secondo e l’ultimo capitolo
della Vita Senecae. Certo, la fama della famiglia nasce nel ’400 e la fami-
glia non aveva prodotto autori di rilievo. Leggendo gli esametri, però, si ca-
pisce il vero scopo dell’aggiunta. La Vita Alphonsina, ovvero Sylva Alphon-
sina, denominazione con la quale si chiude il carme, che fu aggiunto alla
Vita Senecae, sembra l’abbozzo per un progetto epico di più ampio respiro
che il nostro intendeva realizzare in un prossimo futuro. Infatti Pompilio
termina, o, per dir meglio, interrompe, il carme con una promessa di conti-
nuazione: «Sint haec pauca satis, Clio, iam barbyton intra / Thecam conde
suam et serva; cras plura canemus». I primi 19 versi sono un dialogo con
Clio, musa della storia, sugli argomenti da affrontare nella poesia epica:
Pompilio non vuole scrivere la storia di un eroe classico, e tanto meno su
Apollo vanaque priscae numina culturae; preferisce invece trattare un tema
sacro. Decide infatti di scrivere di Alfonso Borgia, ossia Callisto III, di cui
potrà cantare la dottrina, che fu alla base della sua elezione, la modestia e
l’onestà. Discuterà dei patti di pace, dei concili, delle sue ambascerie, e so-
prattutto della sua crociata contro i Turchi. Si tratta, quindi, di una materia
da elaborare in un epos di ampia dimensione, un epos cristiano, non paga-
no. Pubblicando questo primo abbozzo alla fine della Vita Senecae, dedica-
ta al segretario di Rodrigo Borgia, Paolo Pompilio rendeva pubblico il pro-
posito di scrivere l’epopea dei Borgia. Il tempo non poteva essere più pro-
pizio: nel 1492 Rodrigo Borgia diventò papa con il nome di Alessandro VI.
Purtroppo, a questa data Paolo Pompilio era già morto da un anno.

34 H *13254 f. [1r].
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PAOLO POMPILIO, UNA CARRIERA MANCATA 437

APPENDICE

Paulus Pompilius ad Musam suam*

Cui nunc heroum meditaris carmina, Clio?


Dic, age, num Latios tentas ornare Catones?
Nunquid Aristidem? Vel qui vi contudit omnem
Sparthani fastum libertatenque redemit
Et patriis potuit felix occumbere Thebis? 5
An potius laetis praeconia cantibus illi
Adiicies contra nymbos atque aequora terris
Omnibus est ingens cui condita lignea moles?
An qui iram aversi modulatus nablia flexit
Saepe dei? Certe non frustra barbyton aptas 10
Concinnasque fides, admota comminus aure,
Tentatis nervis, et hianti molliter ore.
Nec tu etiam Phoebum dictura es vanaque priscae
Numina culturae, cum nondum clara per omnes
Bissenis terras tuba vocibus acta cucurrit. 15
Ingenium tu, musa, meum cui dicere laudes
Est proprium, dic quem nuper tibi contigit altae
Ob mentis pretium virtutes atque retentas
Mirari, exemplum nostrae admirabile vitae.
Nimirum hic Alphonsus erit, si Setabis illum 20
Patria; sed terno Callistum Roma vocavit
Ordine pontificum, Petri cum prora notaret
Temonem docto cessisse aliquando magistro.
Borgia progenies antiqui sanguinis, unus
Nobilis hic atavis, doctrina, moribus, omni 25
Parte Melethei dignissimus ore poetae.
Vera cano, quo fit verear ne promere, quicquid
Historiae pariter totus testatur et orbis.
Dic, rogo, quis nam hominum nostro qui tempore sacris
Se dederit rebus sponsa requiescit in una? 30
Huic satis una fuit commissa Valentia iusto
Cum titulo renuens apicem et vi pene coactus
Puniceum accepit sed et alti culmen honoris
Cui inhiant alii, potuit quoque ferre rogatus.

(*) Trascrizione del Testimonium vitae Callisti Tertii pontificis maximi pie in-
tegerrimeque actae quocunque suae aetatis gradu dal Vat. lat. 2222, ff. 24r-25r.
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438 WOUTER BRACKE

Coecae mentes hominum, quas pessima turbat 35


Ambitio; clausa ostendunt his artibus astra
Alphonsi modus et vitae frugalis honestas.
Noverat ante tamen fortunae quaslibet horas
Ipse suae divinitus; ergo optavit et istis
Esse exemplo aliis in rebus. Daenique tractu 40
In toto vitae, quis regum foedera, pacem;
Quis bellis curat poni ferventibus arma?
Quis pacat populos? Quis conciliabula solvit?
Semper ad haec presto est Alphonsus Borgia, terra
Atque mari, nunc ad Zephyrum nunc missus ad Eurum, 45
Nunc recta Septem legatus ad usque triones.
Verum quo raperis? Satis est iam, musa, canatur
In Turcas odium bellique impigra voluntas.
Sancte senex coelo statim subiture, parabas
Tune arma in Turcas? Bizanti tune putasti, 50
Magnanime atque invicte senex, munimina posse
Iam per te redimi Scythicis defensa sarissis?
Sed iam te reddit coelo octogesimus annus.
Mitte libros, legisti iam satis. I, pete vultus
Divinos. Illic tibi contemplare tuendo 55
Lecta et apud summum nostri reminiscere regem,
Nos quoque quo capiat stellantis regia coeli.
Sint haec pauca satis, Clio, iam barbyton intra
Thecam conde suam et serva; cras plura canemus.

1. meditaris carmina: cf. Lydia 6 (meditatur carmina), Hor. epist. 2, 2, 76 (me-


ditare versus); 2. Dic, age, num Latios: cf. Hor. carm. 1, 32, 3 (Age, dic Latinum);
5. patriis ... Thebis: cf. Verg. Aen. 2, 180 (patrias … Mycenas); 9-10. aversi … dei:
cf. Verg. Aen. 2, 170 (aversa deae mens); 24. progenies antiqui sanguinis: cf. Verg.
Aen. 1, 19 (progeniem … Troiano sanguine); 35. Coecae mentes: cf. Phaedr. 4, 19,
Ov. Met. 4, 502 (Caecaeque … mentis); 46. Septem … triones: cf. Ov. Met. 1, 64
(Septemque triones), Verg. Georg. 3, 381; 53. reddit coelo: cf. Ov. Pont. 2, 11, 7; 57.
stellantis regia coeli: Verg. Aen. 7, 210; 58-59. barbyton … conde … cras: cf. Au-
son. 7, 3-4 (et barbita condes … cras citharoedus eris)
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INDICI
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INDICI 441

INDICE DEI NOMI

Abante: 173 Alessandro Magno: 34, 163, 252-253


Aberdeen: 263 Alessandro IV, papa (Rinaldo dei Conti
Abramo: 184, 192, 417 di Segni): 434
Abruzzi: 200 Alessio I Comneno, imp.: 351
Acca Larenzia: 161 Aletto: 91
Accademia Pomponiana: 39, 201, 207, Alfonso de Albuquerque: 383-384
336, 339, 431 Alfonso II d’Aragona, duca di Calabria
Accademia Pontaniana: 362 e re di Napoli: 51, 57, 59-60, 63, 65,
Acciaiuoli Donato: 152 71-72, 77, 293, 338, 389, 413
Acciaiuoli Roberto: 61 Alfonso IV di Catalogna: v. Alfonso V,
Accorsi Bono: 324 detto il Magnanimo, re d’Aragona
Achille: 300, 309-310 Alfonso V, detto il Magnanimo, re d’A-
Acquaviva Andrea Matteo: 355-357, ragona: 59-61, 65, 72, 147, 196, 219,
359, 361, 393, 396 413
Acquaviva Belisario: 146, 149 Alfonso X, detto il Savio, re di Castiglia
Adamo: 183, 417 e di Léon: 430
Adorisio A.M.: 411 Alfragano: 365
Adriano, imp.: 222, 325, 430 Algido: 79
Adriano IV, papa (Nicola Breakspear): Ali Abbas: 430
265 Alighieri Dante: 47, 294, 368
Adriatico, mare: 173, 358 Almeida Francisco de: 384
Afranio Lucio: 382 Alonso de Cartagena: v. García de San-
Africa: 172, 189, 360, 365-373, 375, ta María Alonso
378-382, 387, 398-399, 403 Alpi: 56, 113
Agamennone: 305, 308-310 Altamura A.: 97, 142-143
Agesilao: 157 Alteus: 172
Agnelli Ludovico: 9 Alviano Bartolomeo d’: 71-72, 75-76,
Agostino, s.: 189, 227, 390, 400, 410, 79-81, 83-84
431, 434 America: 276, 289, 360, 384, 390-391,
Ailly Pierre d’: 364, 366 395, 427
Airaldi G.: 243 Ammiano Marcellino: 343, 349
Alberti Leon Battista: 227-228, 230 Amsterdam: 68, 277
Albertini Francesco: 327, 333 Anastasio I, imp.: 349
Alberto Magno: 156, 364, 368, 381 Anchise: 417
Alberto di Sassonia: 384 Ancona: 76
Albucasis: 430 Andromaca: 302
Alcalá de Henares: 211, 276, 281 Angeli Jacopo da Scarperia: 357
Alcibiade: 303 Angiò Giovanna II d’, regina di Napoli:
Alerna: 178 64-65
Alessandria: 241 Angiò Renato d’, re di Napoli: 63
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442 INDICI

Anglia: v. Inghilterra Arcadio, imp.: 322


Anguillara: 58, 207, 434 Archiloco: 160
Anna di Bretagna, regina di Francia: 74 Arcudi Alessandro Tommaso: 145
Annibale: 130, 235 Aretino Pietro: 286
Annio da Viterbo: 7, 34, 38-39, 173-178, Arezzo: 167
180-187, 189-193, 208, 233 Argonauti: 395
Anonimo Romano: 123 Arianna: 170
Antea: 308 Aristide: 437
Antimaco: 309 Aristotele: 149, 158, 183, 359, 363, 365-
Antiochia: 147 366, 369-371, 422
Antiquari Iacopo: 19, 21-22, 24-25, 31, Aronne: 412
33, 35, 99-101, 109 Arunte: 172
Antoniazzo Romano: 8 Asburgo Filippo d’, figlio di Massimi-
Antonio da Padova, s.: 418 liano I: 256
Antonio da Sangallo: 200 Ascoli: 106
Antonio Marco, triumviro: 27, 352 Asensio E.: 222, 229-230
Api: 172 Asia: 73, 153, 173, 189, 368, 379, 399
Apollo: 36, 436-437 Assisi: 121
Appennino: 83 — S. Maria degli Angeli: 138
Appia, via: 201, 433 Asti: 51
Appiano: 160, 175, 410 Astolfo: 383
Aquileia: 156 Athskettin: 265
Aquosa Dionisio: 86 Atlante: 431
Arabia: 368, 371 Atlante Italo: 172-173
Arabico, golfo: 368, 371, 373 Atlantico, oceano: 368, 373, 375, 382
Aragona, famiglia: 14, 58-59 Atlantide: 389
Aragona Alfonso d’, duca di Bisceglie, Atri: 13-14
secondo marito di Lucrezia Borgia: Atrio: 174
59, 61, 71, 77-78, 293 Atti Gioan Fabrizio degli: 104-106, 114-
Aragona Ferdinando I d’: v. Ferrante I 115
d’Aragona Atu: 173
Aragona Ferdinando II d’: v. Ferrandino Audiffredi Giovanni Battista: 245, 299
d’Aragona Auerbach E.: 418
Aragona Ferrante d’, principe di Capua: Augusto, imp.: 29, 160, 186, 199
66 Aurelio Marco, imp.: 174
Aragona Giovanna d’, moglie di Ferran- Aurigemma G.: 35
te, regina di Napoli: 64 Aventino, figlio di Ercole e Rea: 34
Aragona Giovanna d’, figlia di Ferrante, Avenzoar: 430
regina di Napoli: 66 Averno: 34
Aragona Giovanni d’, figlio dei Re Cat- Averroé: 365, 430
tolici: 65 Avicenna: 430
Aragona Lucrezia d’, figlia di Ferrante: Avignone: 269
58 Azania: 379
Aragona Sancia d’, figlia di Alfonso II Babilonia: 286, 298, 329
d’Aragona: 288-289, 293 Baccano: 79
Arato: 353, 359 Bacco: 27, 36
Arbace: 160 Bacone Ruggero: 366
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INDICI 443

Badajoz: 24 Bernardino da Feltre: 117, 133


Baffioni G.: 154 Bernardino da Siena, s.: 133
Baglioni, famiglia: 107-108, 136 Bernardo, s.: 422
Baglioni Astorre: 16, 104, 108 Bernardo Silvano da Eboli: 356-357,
Baglioni Giampaolo: 83, 108-109 385
Baglioni Morgante: 137 Beroaldo Filippo, il Vecchio: 212, 225
Bajazet II, sultano: 73 Beroso: 155, 160, 165, 172, 177, 183-
Balbino Decio Celio, imp.: 339-342, 184, 186-187, 189, 191, 335
344 Bertinoro: 248, 251
Balbino Publio, imp.: 341 Besicken Johann: 40, 282, 411
Balbo Cornelio: 340, 342 Bessarione Giovanni, card.: 298-299
Baldaja Alfonso de: 367 Biagio, s.: 422-423
Baldelli Francesco: 324 Bianca C.: 237, 239-240
Bandoli Silvestro: 7 Bianoro: 174
Barbara, s.: 422 Billanovich G.: 181
Barbaro Ermolao: 12, 149, 156, 171, Biondo Flavio: 8, 27-31, 33, 212, 214-
212, 225, 233-234 215, 218, 221, 231-232, 236, 353
Barbazza Andrea: 196 Biondo Gaspare: 336, 339
Barbosa Arias: 225 Bisanzio: 143, 438
Barcellona: 195-196, 202-206, 277, Bisceglie: 11
281, 433 Bisentina, isola: 299
Basa: 432 Bitinia: 374, 376
Basilea: 56, 324, 361 Blasio M.G.: 44
Bassanello: 207 Bloch M.: 124
Bataillon M.: 220, 225 Bobbio: 19
Battlori M.: 7 Boccaccio Giovanni: 196, 280
Beccadelli Antonio, detto il Panormita: Boezio Anicio Manlio Severino: 422
338 Bologna: 79, 83, 174, 196, 211, 221,
Beirut: 199 225, 233, 235, 251
Bellonci M.: 285 Bologna Girolamo: 8
Bellotti-Bon, compagnia teatrale: 287 Bolsena, lago: 116, 297-299
Bembo Bonifacio: 325 Bon: 174
Bembo Pietro: 12, 47 Bonaini F.: 107
Benagli Bernardino: 242 Bonaventura da Bagnoregio, s.: 407
Benedetto XIII, papa (Pietro Francesco Bonifacio Giovanni Bernardino: 361
Orsini): 269 Bonifacio, marchese di Monferrato:
Benedetto XIII, antipapa (Pedro de Lu- 240, 248
na): 269-270 Bonincontri Lorenzo: 358
Benevento: 156 Borgia, famiglia: 11, 13-15, 49, 91, 125,
Beneimbene Camillo: 8 136-137, 200-201, 208, 270, 286,
Bentivoglio, famiglia: 79, 83 290, 292, 339
Bentivoglio Giovanni II: 79 Borgia Alfonso: v. Callisto III
Bentley J.: 225 Borgia Antonio: 61
Benvenuto di Sangiorgio: v. Sangiorgi Borgia Cesare, duca Valentino: 13-16,
Benvenuto 47, 49-51, 53, 55, 58, 69, 74-84, 93-
Benzoni Girolamo: 390 94, 120-122, 126-127, 131, 135-137,
Beragna: 402 201, 207-208, 284-296, 337, 435
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444 INDICI

Borgia Francesco, card.: 51, 204, 324, Buonarroti Michelangelo: 295


326, 328-331, 333, 335-339, 353 Burcardo Giovanni: 10, 28, 40, 125-126,
Borgia Francesco, nipote del preceden- 134, 140, 241-242, 246, 288-290,
te: 336, 338 293, 295, 337
Borgia Gennaro, figlio di Lucrezia: 285 Burckhardt J.: 16, 55, 290, 293, 295
Borgia Giovanni, II duca di Gandía: 55, Cabral Alvares Pedro: 376-377, 379,
69, 75, 77, 123, 126, 263, 285, 287, 381, 383
289, 291-294 Caco: 34, 171, 173
Borgia Giovanni, duca di Nepi: 288 Cadice: 253, 371
Borgia Giovanni, vesc.: 198 Cadmo: 186
Borgia Giovanni, l’infante romano: 337 Cagliari: 355
Borgia Girolamo: 61-64, 66-67, 82, 85- Caino: 293
86, 95, 97 Calabria: 399
Borgia Jofré, principe di Squillace: 77, Calaetia: v. Portogallo
288 Calcante: 312
Borgia Lucrezia: 11, 13, 53, 55, 70, 77, Calicut: 374-378, 381
95, 111, 118, 126, 128-129, 131, Calenzio Elisio: 86
134, 285, 288, 291, 293, 337 Caligola, C. Giulio Cesare Germanico
Borgia Pedro Luis, I duca di Gandía: imp., detto: 68, 77, 82, 126, 129, 179
434-435 Callisto III, papa (Alfonso Borgia): 53,
Borgia Pier Luigi: 14 61, 65, 192, 195, 206, 211, 219, 245,
Borgia Pietro: 61 336, 425, 431, 436-438
Borgia Rodrigo, figlio di Lucrezia: 337 Cam: 155, 172, 187-188
Borgia Ximenio: 61 Camarina: 172
Borromeo Giovanni: 277 Cambridge: 272
Bosch Hieronymus: 16 Camerino: 76, 83, 121
Bossi Matteo: 8 Camese: 171-172
Bosworth: 263 Caminha Vaz de Pero: 377
Bracciano: 75 Campania: 89
Braccio da Montone: 19 Campano Giovanni Antonio: 19
Bracciolini Poggio: 31, 177, 212, 225, Canarie, isole: 373, 375, 378, 391
231, 322, 333, 353, 358 Canozi Lorenzo: 242
Brancati Giovanni: 359 Cantalicio Giambattista: 7, 13
Brandolini Aurelio, detto Lippo: 7, 282- Caoursin Guillaume: 245
283, 289 Capo Bojador: 367, 375
Brandolini Raffaele: 7 Capo Delgado: 375, 378-379
Brasile: 371, 377 Capo di Buona Speranza: 367, 375, 377
Briesemeister D.: 429 Capo Prassum: v. Capo Delgado
Brigida, s.: 119 Capo San Vicente: 366
Brindisi, biblioteca arcivescovile: 144- Capo Verde: 375-377
145 Capodistria: 303
Britannia: v. Inghilterra Cappello Vincenzo: 361
Broekhuizen Joan van: 89 Capponi Piero: 290
Brucioli Antonio: 421 Capranica Giovan Battista, detto Flavio
Bruni Leonardo: 206, 212, 214-216, Pantagato: 336
220, 227-228, 232, 310, 353 Cara Pietro: 251-253
Budé Guillaume: 236 Caracciolo Marino: 93-94
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INDICI 445

Caracciolo Tristano: 363 Cerveteri: 58


Carafa Diomede: 363 Cervini Marcello, card.: 85
Carbonell Francesc: 196, 199 Cesare Gaio Giulio: 9, 31, 188, 231,
Carbonell Pere Miquel: 195, 198, 202- 252, 324, 340, 342
206 Cesario di Heisterbach: 131
Carcano Antonio: 241 Cesena: 68, 72, 76, 120
Carino Marco Aurelio, imp.: 325, 328, Ceylon: 382, 384, 398
346 Chiabò M.: 429
Carlo V, imp.: 63, 313, 386 Chiara, s.: 138
Carlo VIII, re di Francia: 12-13, 50-51, Chiericati Francesco: 260
53, 56, 58-61, 63-64, 69, 72-74, 90- Chiusi: 76, 174
93, 102-103, 113-116, 119-120, 147, Cibele: 173
256, 290, 295, 353, 362, 414-416 Cibicius: 174
Carlo Magno, imp.: 415 Cicerone Marco Tullio: 36, 166, 172,
Caro Marco Aurelio, imp.: 325, 328, 199, 214, 216, 222, 233, 338-340,
346 342, 346, 351-352, 363, 365, 392
Carrara Francesco I da: 214 Cidno, monte: 27
Carthagena: 24 Cilicia: 27
Carvajal, famiglia: 432 Cimino, monte: 297
Carvajal Bernardino López de, card.: Cipelli Giambattista: 325
23-24, 28, 40, 139, 206, 354, 387, Circello: 81
432 Cirillo, s.: 422
Carvajal Giovanni de: 432 Ciro il Grande, re di Persia: 160, 313
Casanovas Jaume: 198 Città del Vaticano:
Casas Homs J.M.: 204 — Archivio Segreto Vaticano: 44
Cascia: 106 — Biblioteca Apostolica Vaticana: 204,
Caserta: 356 338
Caspio, mare: 370, 382 Città di Castello: 16, 81
Castellani Castellano: 418 Clario Daniele da Parma: 380
Castellesi Adriano, card.: 7, 82, 272 Claudiano Claudio: 348
Castore: 339 Claudio II il Gotico, imp.: 346
Catalogna: 195 Clemente VII, papa (Giulio de’ Medici):
Catanei Vannozza: 288, 291-295 286, 313, 315
Caterina da Siena, s.: 41, 294 Cleopatra: 27
Catigora: v. Cattigara Clio: 436-438
Catilina Lucio Sergio: 78, 129 Codro: 345-346
Catone Marco Porcio, detto il Censore: Coelho Nicolau: 381
161-162, 199, 234-235, 340, 342, Colchide: 372-373, 375
422 Colicut: v. Calicut
Cattigara: 366, 378-379 Colocci Angelo: 90, 372, 375, 391
Cavalcanti Papinio: 207, 434 Colomba da Rieti: 106, 418
Cecina: 175-176 Colombo Cristoforo: 276, 292, 364-366,
Celestino, vesc.: 258 375, 384-385, 387, 392, 399-402,
Celio Vibenna: 173-174 406
Celtis Konrad: 236 Colonia: 238
Cerdagna: 281 Colonna, famiglia: 53, 75, 80, 84, 126
Cervelló Joan: 78 Colonna Landolfo: 131
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446 INDICI

Colonna Lavinia: 108 Crasso Marco Licinio: 31, 344


Colonna Pompeo, card.: 56 Crinito Pietro: 12
Colonna Prospero: 84 Crise: 305
Colonne d’Ercole: v. Gibilterra Crisolora Manuele: 351
Columella Lucio Giunio Moderato: 218, Croce B.: 14, 122, 150, 289
233, 338, 430 Crotopo, re argivo: 346
Comestore Pietro: 154-155, 164-165, Ctesia di Cnido: 161
177 Cularo: v. Grenobles
Commynes Philippe de: 58-59 Curione Celio Secondo: 56
Compagni Dino: 123 Cybo Giovan Battista: v. Innocenzo VIII
Concilii: D’Alessandro Antonio: 65
— Ferrara: 267 D’Amico S.: 287
— Firenze: 267 D’Anghiera Pietro Martire: 158, 211,
— Laterano V: 310 275-284
— Pisa: 337 Dardano: 172-173
— Trento: 268 Dario III, re di Persia: 163
Concini Bartolomeo: 56 Dati Giuliano: 405-406, 409-428
Conti Sigismondo: 57, 101, 103, 119- David, re: 177, 313-314, 401, 417
120, 122, 129, 133 David de Burgundia: 256
Copernico Niccolò: 289 de Angelis Domenico: 144
Cordova: 430 de Caris Antonio: 141
Cork: 264 Decio Mure Publio, imp.: 334, 342, 345-
Coribante: 173 346
Corinto: 250 De Ferrariis Antonio: v. Galateo Antonio
Corio Bernardino: 10, 29, 56, 58, 62, Del Carretto Galeotto: 15
103, 119 De Lignamine Giovanni Filippo: 425
Corito: 154, 171-172 Della Corte F.: 275
Cornelio Nepote: 382 Della Ratta Caterina: 356
Corsica: 174 Della Rovere Antonio Ferrerio: 109
Cortesi Paolo: 13, 19, 24-25, 432 Della Rovere Giuliano: v. Giulio II
Corumberger Jacobus: 281 Del Pozzo Francesco: 101, 196
Cosenza: 337 De Maio R.: 255
Cossa Pietro: 286-290, 292-296 De Matteis M.C.: 246
Costante Flavio Giulio I, imp.: 351-352 Democrito di Terracina: 323, 326
Costante Flavio Eraclio II, imp.: 327- De Sabio Giovanni Antonio: v. Nicolini
328, 347 Giovanni Antonio da Sabbio
Costantino I, detto il Grande, imp.: 29, Descós Arnau: 208
349-350 Deventer: 430
Costantino Flavio Eraclio III, imp.: 326, Dexippo: 341
330 Dias Bartolomeo: 367, 376-377
Costantino IV, imp.: 326-328, 348 Dias Diogo (Didaco): 374, 376-377
Costantinopoli: 73, 243, 267, 327-328, Diaz Garlon Antonio: 89
348, 352-354 Didone: 234, 303
Costanzo Cloro, imp.: 332, 334 Diocleziano Aurelio Valerio, imp.: 326,
Cotta Giovanni: 356 328-329, 332, 334-335, 348
Crane: 172, 178 Diodoro Siculo: 157-159, 161, 177,
Crano: 172 182-183, 188
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INDICI 447

Diomede: 307, 310 Enrico VII, re di Inghilterra: 255, 263-


Dione Cassio: 324-325 266, 270-273
Dionigi di Alicarnasso: 158, 160-161, Enrico VIII, re di Inghilterra: 64, 260,
169-170, 179 266
Dionisotti C.: 46, 429 Enrico di Saltrey: 261, 267
Djem, figlio di Maometto II: 73-74 Epifania, figlia di Eraclio: 330
Dolce Ludovico: 351 Eques Tuscus: 174
Dolone: 309 Era A.: 203
Domiziano Tito Flavio, imp.: 325 Eraclio Flavio I, imp.: 324, 326, 328-
Donà Tommaso, patriarca di Venezia: 37 330, 339, 347-349, 352
Donato Elio: 167 Eraclona: 326, 330, 347
Donegal: 255 Erasmo da Rotterdam: 150, 180, 225,
Donizetti Gaetano: 285, 287 315, 324
Drogheda: 264 Ercole: 34, 154, 157, 161, 170, 172,
Du Bellay Joachim: 217 182, 431
Dublino: 264 Erodiano: 325, 341
Dungal: 259 Erodoto: 157, 172
Dunmore: 262 Escobar Cristóbal de: 215
Durham: 255 Esdra: 365-366, 370
Eannes Gil: 367 Esperandeu Espanyol: 207, 435
Earn, lago: 259 Espero: 172
Este Alfonso d’, duca di Ferrara: 13,
Eboli: 356
134, 285, 287, 293
Ecamede: 304
Este Ercole I d’, duca di Ferrara: 58, 121
Edoardo, conte di Warwick: v. Simnel
Este Ippolito d’, card.: 160, 289
Lambert
Este Isabella d’: 260
Eforo: 157
Este Ruggiero d’: 260
Egeo, mare: 395 Etalia: v. Elba, isola
Egidio d’Amelia: 137 Etalo: 174
Egidio da Viterbo: 7, 181, 307-315 Etiopia: 374, 378, 381-382
Egitto: 129, 276, 384, 398 Etruria: v. Toscana
Egnazio Giambattista: v. Cipelli Giam- Ettore: 300, 302
battista Eudocia Fabia, imperatrice: 330, 347
Egneo: v. Owein Europa: 8-9, 47-48, 73, 152, 167, 178,
Elba, isola: 174 181, 186-187, 189, 192, 215, 219-
Elbius: 174 220, 256, 287, 368, 383
Elena: 308 Eusebio di Cesarea: 160, 166, 171, 417
Elettra: 154 Eutropio: 324, 341, 345-346, 349-350,
Eliogabalo, imp.: 68, 82 410, 430
Emilia: 69, 80, 93 Eva: 148
Emiliano Marco Emilio, imp.: 325 Fabio Pittore: 160-161, 177, 179-180, 186
Enachio: 172 Fabretti A.: 106-107
Enea: 171, 173-174, 303 Faccioli E.: 287
Enoch: 183-184 Facio Bartolomeo: 102, 206
Enrico, re di Portogallo: 359 Faenza: 16, 76
Enrico II, re di Inghilterra: 273 Faider P.: 429
Enrico VI, re di Inghilterra: 255 Fano: 45, 76
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448 INDICI

Farenga P.: 216, 237, 239-240, 354 Fitz-Ralph Richard: 269


Farnese, famiglia: 299 Flaminia: 73, 76, 79
Farnese Alessandro: v. Paolo III Flaminio Marco Antonio: 78, 233
Farnese Giulia: 92, 118, 126-127, 288- Flavio Giuseppe: 133, 157, 160, 164,
289 182-183, 324
Fascitelli Onorato: 89 Flavio Vopisco: v. Scriptores Historiae
Faula: 161 Augustae
Faustolo: 161 Floro, imp.: 430
Federico d’Aragona, re di Napoli: 78, Foligno: 121
120, 147, 368-369, 373, 380, 383, Forlì: 76-77, 93
389 Fornovo: 122-123
Federico III, imp.: 245 Forteguerri Scipione: 7
Felsino: 174 Fortini L.: 237
Ferdinando II, detto il Cattolico, re d’A- Fortunate, isole: v. Canarie
ragona: 32, 34, 64, 161, 177, 192, Fossombrone: 41, 328, 332-334
209, 233, 275-277, 279-280, 282- Francesco d’Assisi, s.: 138
283, 353-354, 389, 396-397, 399, Francesco da Brevio: 7
403, 425, 432 Francesco di Niccolò di Nino: 105
Ferento: 156 Francisco de Albuquerque: 383
Fernandez de Heredia Alonso: 211 Francia: 16, 54, 58-61, 63, 72-74, 187,
Fernandez de Heredia Gonsalvo: 23 236, 281, 348, 358, 369, 382, 395,
Fernández Gonzalo de Cordoba, detto il 414
Gran Capitano: 84 Franco, re: 156
Ferno Michele: 7, 10, 19-28, 31-36 Francoforte: 56
Ferrante I d’Aragona, re di Napoli: 14, Frejus: 246
23, 51, 57-60, 63-65, 71-73, 147, Fritag Andreas: 240-242, 411
219, 252, 338, 359, 373, 381, 413 Froben Johann: 324
Ferrantino d’Aragona, re di Napoli: 413 Frova C.: 99
Ferraiolo: 66 Fulin R.: 37
Ferrara: 251 Fumi L.: 104, 106
Ferrari Paolo: 286 Gades: v. Cadice
Ferrari Giolito de: 324 Gadira: 167
Festo Rufio: 172, 329, 331, 335 Gaisser J.H.: 429
Ficino Marsilio: 303, 315 Galateo Antonio: 141-150, 284, 354,
Fieschi Ettore: 246-247 356, 360-361, 363-365, 367-372,
Fieschi Urbano: 246 380-385, 389-397, 399, 402
Fiesole: 165, 167 Galba Servio Sulpicio, imp.: 430
Filelfo Francesco: 206 Galeno: 395
Filippo l’Arabo, imp.: 325, 340, 343- Galerito: 179
346, 352 Gallia: v. Francia
Filone Erennio: 160, 190, 352 Gallo Costanzo, imp.: 345
Firenze: 39, 49, 51, 55, 59, 62, 75, 83, Gallo Antonio: 246
103, 111, 121, 123, 196, 214, 227- Galway: 262
228, 230, 240, 251, 290, 302-303, Gama Vasco de: 360, 376-377, 379, 383
414, 418, 424-425 Gand: 430
— Biblioteca Medicea Laurenziana: García Pere: 204
143 García de Santa María Alonso: 211
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INDICI 449

García de Santa María Gonzalo: 211 Giovanni da Spira: 41


Gargano, promontorio: 16-17 Giovanni Antonio di Sangiorgio: v. San-
Garin E.: 150 giorgi Giovanni Antonio
Gaza: 199 Giove: 9, 62, 79, 157, 224, 300, 308, 413
Gem: v. Djem Giovenale Decimo Giunio: 173-174,
Genova: 160, 241, 244, 246-247, 251, 182
374, 376, 409 Giovenco Gaio Vettio Aquilino: 430
Gensberg Johann: 242 Gioviano Flavio, imp.: 329, 335
Gentile da Foligno: 338 Giovio Paolo: 62, 103
Gentile S.: 359 Giraldus Cambrensis: 273
Geraldini Antonio: 206 Girolamo, s.: 146, 155, 167, 190, 226-
Gerbelio Nicola: 326 227, 311
Gerione: 34 Giuliano Flavio, detto l’Apostata, imp.:
Germania: 40, 69, 126, 186-187, 233, 349-350
236, 311-312, 382 Giulio II, papa (Giuliano Della Rovere):
Gerusalemme: 199-200, 248, 313, 362, 11, 14, 47, 52, 65, 87, 127, 143-145,
400-403, 420 147, 149-150, 297, 333, 337-338,
Gesualdo Camillo, vesc.: 62 405
Gesualdo Fabrizio: 62 Giunone: 179, 308
Gherardi Iacopo, detto il Volterrano: 19, Giunti, famiglia: 47
101 Giunti Filippo: 47
Giacosa Giuseppe: 286 Giuseppe: 401, 413
Giamblico: 38 Giustiniani Agostino: 390
Gianni prete: v. Prete Gianni Giustiniani Bernardo: 242
Giano: 154, 171-172, 177-179, 184-186, Giustiniani Paolo: 428
188-189 Giustiniano I, imp.: 349-350, 390
Giasone: 395 Giustiniano II, imp.: 325, 327-328, 339,
Gibilterra: 368, 371, 384, 387, 389, 395 348-349
Gioacchino da Fiore: 400-402 Giustino III: v. Giustiniano II
Giobbe: 421-423 Glauco: 173
Giocondo da Verona: 321-322, 333 Gnatone: 249
Giorgio, s.: 16 Goetz W.W.: 168
Giorgio Armeno, frate: 160 Goffredo da Buglione: 294
Giorgio da Trebisonda: v. Trapezunzio Goffredo da Viterbo: 155
Giorgio Gomar: 171
Giorgio Veneto: 181 Gomera López de: 386
Giosuè: 191 Gomes Diogo: 381
Giovan Francesco da Pisa: 8 Gómez Alvar de Ciudad Real: 234
Giovanna da Signa: 422 Gonzaga Gianfrancesco II, marchese di
Giovanni, s.: 28, 401 Mantova: 138
Giovanni I, detto il Cacciatore, re d’Ara- Gordiano Antonio II, imp.: 333, 337-339
gona: 270 Gordiano Antonio III, imp.: 322, 324-
Giovanni II, detto il Senza fede, re d’A- 325, 328, 335, 340, 343-344, 348
ragona: 196 Gotor J.L.: 281
Giovanni XXII, papa (Jaime Duesa): Granada: 32, 207, 216, 219, 229, 353-
131 354, 397, 401, 431-432
Giovanni da Capestrano: 133 Granjon Robert: 42
Cap. indici finali 439-464 13-09-2002 13:27 Pagina 450

450 INDICI

Gravina Pietro: 7 Interiano Giorgio: 372-377, 380-382


Graziano, imp.: 181 Ione: 304
Grecia: 73, 182, 200, 235, 395 Ionio, mare: 358
Gregorovius F.: 55, 126, 285, 288, 290 Ippocrate: 395
Grenobles: 334 Irlanda: 255, 257-266, 269-274
Griffo Francesco: 45-47 Irpinia: 62
Griffolini Francesco: 298, 302 Isabella I, detta la Cattolica, regina di
Grifone: 160 Castiglia: 32, 34, 161, 192, 223, 225,
Guarino Veronese: 102, 212, 222 275-276, 280, 283, 425, 432
Guenée B.: 168 Isabella di Castiglia e Aragona, figlia
Guglielmo da Mantova: 160-161 dei Re Cattolici: 66
Guglielmo da Morano: 418 Isaia: 313, 387, 400-401, 418
Guicciardini Francesco: 12, 15-16, 50- Iside: 154
52, 54, 57-58, 62-64, 67, 103, 129- Isidoro di Siviglia: 222, 417, 430
130, 283 Isola Farnese: 299
Guidobaldo da Montefeltro, duca d’Ur- Italia: 9, 14-16, 42-43, 45, 49, 57, 59,
bino: 83 62-65, 71, 74-75, 80-81, 96, 109,
Guldinbeck Bartholomaeus: 240, 244 111-116, 119, 121, 131, 147-148,
Hecht U.: 275, 277 150, 154, 164, 167, 187, 211, 214-
Heda Vilhelmius: 332-334 221 228-229, 232-236, 248, 250,
Hellanicus: 157 260, 269-270, 275-276, 287, 290,
Hesperia: v. Italia e Spagna 312, 374, 397, 406, 414, 416, 420
Hibernia: v. Irlanda Itinerarium Antonini: 160
Hinojo Andrés G.: 231 Jacopo da Varazze: 18, 248, 255
Hohenstein Jodok: 358 Jafet: 171
Hugo Victor: 282, 287, 292 Jean de Bolhères, card.: 295
Humboldt A. von: 377 Jenson Nicolas: 242
Hutten Ulrich von: 142, 315 Knockfergus: 265
Hyde J.K.: 128 Kristeller P.O.: 8, 338
Iacobazio Andrea: 7 Lachmann K.: 159
Iasio: 154, 172-173 Lamech: 183-184
Ibero: 34 Landino Cristoforo: 156, 230, 359, 364
Ida, monte: 308 Larcan G.R.: 260
Idumea: 396 Las Casas Bartolomeo: 390
Iloris Francesco: v. Lloris Francesco Lascaris Giovanni: 7
India: 163, 366-367, 371, 373-374, 376, Lattanzio Firmiano: 157-158, 161, 164,
378, 381-382, 384, 406 168, 182-183
Indiano, oceano: 369, 372, 375-377, Lawrence J.: 234
381-384, 398 Lazio: 34, 177-178, 201
Indie: 233, 276, 376, 398, 400 Lazzaroni Pietro: 7
Infessura Stefano: 134 Lecce: 357
Inghilterra: 263-264, 272 Lecceto: 297
Inghirami Tommaso, detto Fedra: 7, 198 Le Goff J.: 260-261, 267-268
Innocenzo VIII, papa (Giovan Battista Leone X, papa (Giovanni Medici): 11,
Cybo): 20, 22-23, 32, 39, 51-52, 58, 47, 98, 297, 405, 409
64-65, 100-101, 118, 138, 239-240, Leoniceno Niccolò: 149
245-247, 265, 337, 354, 413 Leonini Angelo: 339
Cap. indici finali 439-464 13-09-2002 13:27 Pagina 451

INDICI 451

Leonzio Pilato, imp.: 327, 348 Luigi XI, re di Francia: 63, 69, 70, 80
Lestrigon: 172 Lünig Johann Christian: 238
Leto Pomponio: 7, 19, 207, 276, 289, Lutero Martin: 315
321-324, 326-327, 332-333, 335, Macedonia: 236
337-343, 344-348, 350-354 Machiavelli Niccolò: 12, 14-15, 49-51,
Levita Elijah: 311 66, 103, 129, 258, 289-290, 337
Lezzi Giovanni Battista: 144-145 Macrobio Aurelio Teodosio: 358, 365,
Libano: 313 392, 422
Libia: 370 Maddaleni Capodiferro Evangelista,
Libio: 170 detto Fausto: 8
Licinio Valerio Liciniano, imp.: 353 Maffei Agostino: 336
Lino, imp.: 345-346 Maffei Raffaele, detto il Volterrano: 19,
Lione: 267 36, 337
Lipsia: 238 Magalotti Alberto: 123
Liri, fiume: 74 Magnenzio: 351-352
Lisbona: 374, 377, 379, 381 Magone: 392
Lituania: 251 Magonza: 245
Liviano Bartolomeo: v. Alviano Bartolo- Mai A.: 142
meo d’ Maio Giuniano: 86
Livio Tito: 130, 158, 164, 169-171, 174, Maino Giason del: 241, 253
179-180, 222, 231, 289, 346, 410, Malatesta Roberto: 69
417 Malatesta Sigismondo Pandolfo: 69, 83
Livius Fidenas: 174 Malindi: 377
Llopis Joan: v. López Juan Mallett M.: 432
Lloris Francesco, card.: 336 Mancinelli Antonio: 178
Llull Ramon: 208, 430 Manetone: 160, 335
Lombardia: 414 Manili Giovanni Antonio: 248, 253
Lombardo Pietro: 301 Manilio Marco: 358-359
Lo Monaco F.: 394 Mantova: 138, 174, 251
Londra: 260, 270 Manuzio Aldo: 7, 37-38, 40-43, 45-48,
— British Library: 411 233, 380
López Giovanni, card.: 430-432, 435 Manuzio Paolo: 68, 89
López Juan: 198, 205 Maometto: 229, 329-330, 348, 353
López de Haro Diego: 278-279, 281 Maometto II, detto il Conquistatore: 73
López de Mendoza Iñigo, conte di Ten- Marca: v. Marche
dilla: 211, 275, 277, 283-284 Marcellinus Comes, cronista: 349
Lot: 70 Marche: 16, 45, 53
Lough Derg, lago: 255, 261 Marco Beneventano: 356
Luca, s.: 416 Margarit Joan: 211, 218
Lucano Marco Anneo: 205, 218, 233, Mariano da Genazzano: 418
365, 430 Marineo Lucio, detto Siculo: 211, 215,
Lucca: 251-252 217, 220, 232
Lucena Juan de: 211 Marino, vesc. di Glaudères: 262
Lucullo Lucio Licinio: 351 Marino di Tiro: 365-366, 379
Lucumone: 173, 179 Mario Caio: 81
Ludovico il Moro: v. Sforza Ludovico Marsia: 174
Lukius: 173 Marso Pietro: 354, 431-432, 434
Cap. indici finali 439-464 13-09-2002 13:27 Pagina 452

452 INDICI

Martana, isola: 297-299 Mela Pomponio: 218, 271, 359, 371,


Marte: 30, 305, 307 375, 382, 385, 430
Martina, matrigna di Costantino III: Melantone Filippo: 315
326, 330, 347 Melchisedech: 155, 187-188
Martino V, papa (Oddone Colonna): Mellini, famiglia: 431-432
100, 108 Mellini Giovanni Battista: 431-432
Martino Polono: 139, 154, 185 Mellini Luca: 431
Marullo Michele: 59 Mena Juan de: 211
Marziale Marco Valerio: 13, 199, 218, Menecrate: 160
430 Menippo: 175
Marziano Capella: 371, 375 Menodoro: 175
Massenzio Marco Aurelio Vittore, imp.: Mercati G.: 429
29 Merchionni Bartolomeo: 381
Massimiano Aurelio Valerio, imp.: 332- Merula Giorgio: 19, 325
335 Messalina: 289
Massimiliano I d’Asburgo, imp.: 256, Mestre João: 377
289, 333, 425 Metello Celere Quinto Cecilio: 382
Massimino Galerio Valerio, detto il Tra- Mezenzio: 173
ce, imp.: 332, 340-342, 344, 347 Mezezio, imp.: 326-328, 347-348
Massimo Petronio, imp.: 340-342 Miccoli G.: 117
Masuccio Salernitano: 268 Michele, arcangelo: 16
Matarazzo Francesco: v. Maturanzio Micheletto: 80
Francesco Micizio: v. Mezezio
Matelica: 106 Miglio M.: 11, 237, 354
Matteo, s.: 149 Milano: 19, 21, 57, 69, 99, 111, 121,
Matteo Veneto: 321 173, 181, 240, 251, 289
Mattia Armeno, frate: 160 — Biblioteca Trivulziana: 411
Mattia Corvino, re di Ungheria: 242, 248 Milano L.: 311
Maturanzio Francesco: 99-100, 104, Minerva: 224, 303, 307, 309-310, 413
106-112, 122, 131, 134, 136-137, Minervio Severo: 105
139 Minosse: 173
Mauritania: 371, 397 Mirsilo di Metimna: 159-161, 164
Mazes: v. Mezezio Mitridate: 351
Mecenate Gaio Clinio: 36, 175 Modigliani A.: 237, 243
Medea: 395 Monferrato: 251
Medici, famiglia: 72 Monreale: 198
Medici Cosimo I, granduca di Toscana: Montaigne Michel: 139
56 Montano Marco, arcivesc.: 245
Medici Giovanni: v. Leone X Montefiascone: 333
Medici Lorenzo, detto il Magnifico: 12, Monti Sabia L.: 14, 69, 379
39, 51, 58, 212, 230 More Thomas: 272
Medici Lorenzo, duca di Urbino, figlio Moreno A.G.: 223
di Piero: 16 Morgete: 172-173
Medici Piero: 51, 57-58, 60, 103 Morosini Marcantonio: 323
Medina: 84 Morro Giovanni: 21-22
Mediterraneo, mare: 219-220, 233 Morton John: 272
Megastene: 164-165 Morzillo Sebastiano Foxio: 361
Cap. indici finali 439-464 13-09-2002 13:27 Pagina 453

INDICI 453

Mosè: 148, 184, 191-192, 314, 412 Nilo, fiume: 369


Moses: 430 Nino: 186-187
Mugnoni Francesco: 104-106, 117-118, Nocera Umbra: 106
123, 129, 137 Noè: 154, 163, 171-172, 177-178, 183-
Musarna: 176 186, 188-192, 417
Mussato Albertino: 286 Nonio Marcello: 339
Musuro Marco: 380 Nordenskiöld A.E.: 357
Muzzioli G.: 327 Norimberga: 335
Nabucodonosor: 190 Nortia: 175-176
Nanni Giovanni: v. Annio da Viterbo Nova João de: 383
Nanni Tommaso: 161 Novara: 181-182
Napoli: 12, 14, 51, 56-57, 60, 63-64, 67, Novelli Ermete: 286
74, 78, 84, 86, 111, 115-116, 126, Numa Pompilio: 137
211, 288, 293, 356, 358, 362, 369, Numeriano Marco Aurelio Numerio,
372-376, 380, 413 imp.: 325, 328, 346
— Biblioteca Nazionale Vittorio Ema- Numidia: 397
nuele III: 411, 414 Ochus Veius: 171-172
— Mergellina: 380 Ocno: 173-174
— Monte Posillipo: 297 Ogige: 177
— S. Giovanni a Carbonara: 297 Ognibene da Lonigo: 100
— teatro S. Carlo: 285 O’Kelly Taddeo: 262
Napoli, regno di: 60, 63, 65, 69, 72, 126, Olanda: 256, 259
136, 147, 251, 256, 338, 357, 363, Oliva A.M.: 354
368, 389, 393, 396, 414-415, 425 Oliverotto da Fermo: 80
Nardò: 141 Olmedo F.: 234
Navarra: 80, 229 Omero: 310, 313-314, 365, 380, 382,
Nebrija Antonio de: 211-212, 220-222, 417
224-236, 276, 281 Orazio Flacco Quinto: 141, 391
Nemesi: 93-94 Ordonio Alfonso: 278
Nepi: 83 Oria: 361
— castello: 200 Orinoco, fiume: 375
Nepote Cornelio: v. Cornelio Nepote Oriolanus Franciscus: 283
Nerone Caio Claudio, imp.: 68, 82, 126, Orobi: 165
129, 163, 171, 175, 289 Orosio Paolo: 410, 430
Nerva Cocceio, imp.: 325, 430 Orsini, famiglia: 14, 53, 55, 75, 79-81,
Nestore: 199, 304, 309-310 83-84, 126
Nettuno: 308 Orsini Battista, card: 81
New York, Metropolitan Museum: 411 Orsini Fabio: 80-81
Niccoli O.: 124 Orsini Latino, card.: 80
Niccolò V, papa (Tommaso Parentucel- Orsini Orsino: 126
li): 65, 241, 243 Orsini Paolo: 80
Niccolò da Castello: 198 Orsini Pietro Francesco: v. Benedetto XIII
Niccolò di Lira: 156 Orsini Virginio, signore di Bracciano:
Nicea: 174 58, 65, 72-73, 75, 121
Nicio: 173-174 Orvieto: 106, 116, 123, 431
Nicolini Giovanni Antonio da Sabbio, ti- — duomo, cappella Nova: 132
pografo: 89 Osco: 173
Cap. indici finali 439-464 13-09-2002 13:27 Pagina 454

454 INDICI

Osiride: 172 — rocca di San Leo: 136


Ostiliano Marco, imp.: 322, 343 Persia: 346, 348
Ostiliano Severo, imp.: 322, 343 Perugino: 8
Otranto: 248 Pesaro: 76, 118, 339
— S. Nicola di Casole: 143 Petrarca Francesco: 31, 35, 45-46, 206,
Otone, imp.: 175 214, 218, 298, 392, 394
Ovidio Nasone Publio: 158, 177, 185, Petrucci Ottaviano: 41
222, 422 Petrucci Pandolfo: 83
Owein, cavaliere: 259-260 Piccolomini Enea Silvio: v. Pio II
Oxford: 272 Piceno: 76, 80-81
Padova: 311 Pico della Mirandola Giovanni: 12, 39,
Pafraet Ricardo: 430 212, 233-235, 311, 315
Palencia Alfonso de: 211 Picotti G.B.: 15
Paleologhi, famiglia: 154 Pier Matteo d’Amelia: 8
Palestina: 396 Pietro, s.: 32, 79, 122, 145-150, 292
Pamplona: 53 Pinturicchio Bernardino: 289
Pantagato Flavio: v. Capranica Giovan Pio II, papa (Enea Silvio Piccolomini):
Battista 30, 245, 271, 273, 284, 364-365, 368
Panulfazi Serafino, vesc.: 332-333 Pio III, papa (Francesco Todeschini Pic-
Paolo, s.: 78, 146, 422 colomini): 83, 98, 272, 284, 325
Paolo III, papa (Alessandro Farnese): Pipino III, detto il Breve: 173-174
153, 289, 336, 435 Pirenei: 64
Paolo Diacono: 156, 172, 324, 330, 341, Pisa: 75, 84, 196, 337, 433, 435
343-345, 347-351 Piseo: 173-174
Paolo di Middelburgh: 333 Pistoia: 106
Paolo Lucio Emilio: 236 Pitagora: 304
Paravicini Bagliani A.: 140 Pla Antoni Arnau: 204
Parenti Piero: 103 Plannck Stephan: 240-242, 244-245,
Parigi, Biblioteca Nazionale: 357 432
Parma: 240 Plasencia: 432
Pastor L. von: 7-8, 40, 55, 124-126, 128, Platina Bartolomeo: 10, 139, 276, 336,
246 338, 431, 434
Patrizio, s.: 255-263, 266-270, 274 Platone: 303-304
Pau Jeroni: 195-198, 201-207, 433-434 Plinio Gaio Cecilio Secondo, detto il
Patrizi Francesco: 122 Vecchio: 158, 160-161, 170-171,
Pavia: 160, 240-241 175, 182, 359, 364-366, 371-373,
Peiró Joan: 202 382, 385, 391-392
Pepe G.: 14-15, 284 Plinio Gaio Secondo, detto il Giovane:
Perellós Ramon de: 270 179
Pérez Jaime: 369 Plutarco: 352, 359, 410
Perna Pietro: 56 Po: 74, 182
Perotteto: 78 Podocataro Ludovico: 7, 198
Perotti Niccolò: 43-44, 47, 171 Polidori F.L.: 107
Persico, golfo: 373 Poliziano Angelo: 12, 212, 214, 216,
Persona Cristoforo: 351 225, 233, 289, 301-302, 315, 324-
Perugia: 16, 76, 80, 99-100, 106-108, 325, 341, 380
116, 121, 196 Pollidori Giovan Battista: 143-145
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INDICI 455

Polonia: 249 Reto: 174


Polonio V.: 241 Rhapta, promontorio: 379
Pompeiano Tiberio Claudio, imp.: 341 Riario Raffaele, card.: 337
Pompeo Gneo, detto il Magno: 31, 340, Riccardo, duca di York: v. Warbeck Per-
342, 351 kin
Pompilio Paolo: 195-196, 201-203, 205- Riccobaldo da Ferrara: 139
208, 353, 429-436 Rimini: 76, 83
Pontano Giovanni: 12, 59-61, 69-70, 86, Roca Pere de, arcivesc.: 207-208, 434
97, 101, 166, 357-358, 362-363, Rodi: 73, 242, 248, 251
372, 378-380, 391 Romagna: 16, 53, 76, 120, 122, 136, 248
Ponto: 187, 327, 348 Roma
Popilio Lenate: 351-352 — archi:
Porcari Girolamo: 7, 28, 32, 243-244 — — di Costantino: 29-30
Porsenna: 159, 169, 174 — — di Ottaviano: 8, 29
Portogallo: 251, 366, 374, 376-378 — Biblioteca Casanatense: 298, 410,
Poynings: 264 419, 424
Prete Gianni: 383, 407, 427-428 — Campidoglio: 26
Priamo: 300 — Castel Sant’Angelo: 36, 81, 426
Prisciano di Cesarea: 167 — chiese e basiliche:
Priuli Girolamo: 119 — — Ara Coeli: 354
Probo Valerio, imp.: 346 — — S. Cecilia: 337
Procaccia M.: 311 — — S. Celso: 29
Prodi P.: 128 — — S. Croce in Gerusalemme: 139
Properzio Sesto Aurelio: 158-159, 177, — — S. Giacomo degli Spagnoli: 432
179 — — S. Giovanni in Laterano: 30, 405,
Proteo: 36 425
Prudenzio Clemente Aurelio: 422, 430 — — S. Lorenzo in Lucina: 29
Prusa: 376 — — S. Maria Antiqua: 333
pseudo Metastene: 155, 160, 164-165 — — S. Maria della Febbre: 336
Puglia: 15, 150, 389 — — S. Maria del Popolo: 431
Pulgar Ferdinando del: 231, 277 — — S. Maria Liberatrice v. S. Maria
Pupieno M. Clodio, imp.: 340-342 Antiqua
Puteolano Francesco: v. Del Pozzo Fran- — — S. Maria Nova: 336
cesco — — SS. Nereo e Achilleo: 337
Quintiliano Marco Fabio: 218, 222, 422, — — S. Pietro: 26, 36, 54, 140, 288,
430 336, 426
Quirini Vincenzo: 421, 428 — — S. Sabina: 336
Ragusa: 380 — — SS. Silvestro e Dorotea: 405, 409
Ranke L. von: 293 — Città Leonina: 83
Rasenna: 172 — Colosseo: 8, 29, 410
Rasis: 430 — confraternita del Gonfalone: 409,
Rea Silvia: 34 410
Reger Johann: 245 — Foro Romano: 332-333, 345
Reggio Emilia: 337 — Meta Romuli: 36
Regoliosi M.: 142 — Mole Adriana: v. Castel Sant’Angelo
Renier R.: 15 — ospedali:
Renouard Antoine-Augustin: 44 — — S. Giacomo degli Spagnoli: 409
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456 INDICI

— — S. Giovanni: 426 Samotes: 186-187


— — S. Spirito in Sassia: 10 Samuele: 167, 190
— palazzi: Sánchez de Madriaga E.: 278
— — Borgia: v. palazzo della Cancel- Sánchez Rodrigo de Arévalo: 192, 211,
leria 216-218, 231-233
— — Carafa: 30 Sandei Felino: 7, 10, 38
— — della Cancelleria: 199 Sangiorgi Benvenuto: 248-249
— — di Napoli: v. Carafa Sangiorgi Giovanni Antonio, card.: 7,
— — Massimo: 10 240-241
— — Torlonia: 272 Sannazaro Jacopo: 68, 78-79, 82, 89, 91,
— Pantheon: 29, 183, 327, 347, 352 94, 97, 361, 369, 372-373, 380, 389
— piazza Navona: 432 Sanseverino Federico, card.: 22, 24-26
— rioni: Sanseverino Roberto: 24
— — Campo Marzio: 412, 433 Sanudo Marino: 128, 295
— — Colonna: 412 Sanzio Raffaello: 16
— — Trastevere: 405 Sapore, re di Persia: 346
— Studium Urbis: 201, 209, 433 Sarron: 186
— templi: Saturno: 62, 157, 170, 172, 187
— — dei Castori: 334, 345 Saul: 292, 295
— — di Vesta: 321-322, 332-334 Savelli, famiglia: 53
— Università: v. Studium Urbis Savelli Antimo: 56
— Vaticano: 27, 73 Savelli Silvio: 126
— — Palazzo Vaticano: 134, 288, 290, Savoia: 251
293, 295 Savonarola Girolamo: 255, 263, 289,
— vie: 418, 421, 424
— — Alessandrina: 36 Scaligero Giuseppe Giusto: 159
— — dei Portoghesi: 311 Scevino: 175
— — della Conciliazione: 272 Schedel Hartmann: 327, 329, 335
— — della Scrofa: 311 Schurer Mattia: 326
Romani Felice: 285, 287 Schurener Johann: 242
Romolo: 34, 68, 127, 161, 173-174, Scipione Publio Cornelio, detto l’Afri-
178-179 cano: 23
Rossi E.: 286 Scozia: 263
Rossiglione: 64, 281 Scriptores Historiae Augustae: 325-326,
Rosso, mare: 184, 191, 370-371, 383, 335, 338-342, 344-348, 350, 353
392 Seiano Lucio Elio: 175
Rucellai Bernardo: 57-58, 60-63, 103 Sem: 155
Saba: 170 Sempronio Asellione: 160, 175, 177
Sabbadini R.: 327 Senarega Bartolomeo: 244
Sabellico Marco Antonio: 41, 321-324, Seneca Lucio Anneo, filosofo: 202, 205,
326, 328, 333, 335-336, 351 218, 233, 366, 372, 391-392, 429-
Salamanca: 211, 220, 234, 367 431, 433
Saldanha Antonio: 383 Seneca Lucio Anneo, retore: 218, 233,
Salerno: 207 366, 430
Sallustio Crispo Gaio: 339, 342 Senigallia: 76, 80, 122
Salomone: 313, 401 Senise: 61
Salvini Gustavo: 286 Senofonte: 160, 170
Cap. indici finali 439-464 13-09-2002 13:27 Pagina 457

INDICI 457

Seripando Girolamo: 89 215-216, 218-221, 228-232, 234-


Sernigi Girolamo: 379 236, 251-252, 271, 275-278, 280-
Servio: 173 281, 284, 342, 374, 391, 393, 395,
Settimio Severo, imp.: 176 398-399, 401-403, 430
Severiano: 181 Sperulo Francesco: 7, 13
Sforza, famiglia: 53 Spinelli Antonio: 266-267
Sforza Ascanio, card.: 24, 52, 55, 59, 68, Spinola Giacomo: 244
77, 82, 121, 262, 277 Spinola Girolamo: 274, 376-377
Sforza Caterina: 77 Spoleto: 156
Sforza Galeazzo Maria, duca di Milano: Stagnino Bernardino: 47, 91
69 Stati Alessio: 435
Sforza Giangaleazzo, duca di Milano: Stazio Publio Papinio: 339
58, 69 Strabone: 158, 175, 183, 359, 364, 373,
Sforza Giovanni, signore di Pesaro: 55, 381-382
118, 126, 128-129, 134, 293 Subiaco: 198, 433
Sforza Ludovico, detto il Moro: 25, 56- — castello: 199-200
60, 63, 69, 71-72, 75, 77, 80, 103, — rocca abbaziale: 200
120-121, 129, 147, 241, 244, 289, — torre borgiana: 200
425 Summonte Pietro: 70, 86
Sicano: 172 Svetonio Tranquillo Gaio: 199, 289,
Sicilia: 172, 215, 327, 348 324-325
Siena: 76, 196, 251, 414 Tacito Cornelio: 133, 177
Signorelli Luca: 104, 132 Tacito M. Claudio, imp.: 346-347
Silber Eucharius: 21, 28, 38-39, 240, Tagete: 172
244-245, 430 Tanai, fiume: 167, 187
Silio Italico: 172, 218, 233, 430 Taprobane: v. Ceylon
Silvestro II, papa (Gerberto di Aurillac): Taranto: 126
139 Tarconte: 173-174
Simnel Lambert: 264-265 Tate R.: 218
Sincero: v. Sannazaro Jacopo Tateo F.: 156, 290, 372, 376-377, 379
Sion, monte: 184, 401 Tavoni M.: 429
Siracusa: 326, 347 Teano: 324, 336-337
Siria: 199-200, 384 Tebaldeo Antonio: 8
Sisto IV, papa (Francesco Della Rove- Tebe: 437
re): 7, 10-11, 20, 65, 91, 142, 198, Tedallini Sebastiano: 412
207, 242, 245, 250, 431 Temistio: 359
Siviglia: 276, 401 Tenenti A.: 243
— Biblioteca Colombina: 364, 411 Teodosio I, detto il Grande, imp.: 339,
Soares Lopo: 383 430
Socrate: 304 Tevere: 55, 69, 76-77, 154, 178, 185,
Soderini Paolo Antonio: 59 188, 291, 293, 333, 412, 420
Sofola: 376 Tiberino: 173
Solino Gaio Giulio: 359 Tiferno: v. Città di Castello
Soncino Giacomo: 45-46 Tigrane: 351
Soranzo G.: 125-126, 128 Tigrini Nicola: 252-253
Spagna: 15, 33-34, 52, 54, 130, 148, Timeo: 157
172, 186-187, 197-198, 207, 211, Tirreno, mare: 164
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458 INDICI

Tirreno, re: 153, 173, 188 Urbino: 76, 83, 286


Tisifone: 75, 82 Utrecht: 333
Tivoli: 339 Vadimone, lago: 179
Todeschini Piccolomini Francesco: v. Vagad Gauberte Fabricio de: 211, 217,
Pio III 219, 231, 233, 236
Todeschini Piccolomini Isabella: 357 Vaglienti Pietro: 381
Todi: 76, 83, 106, 114-115, 121 Valente, imp.: 329
Toledo Francisco de: 207, 434 Valentí Teseu Benet Ferran: 196
Tolomeo Claudio: 158, 175, 354, 356- Valentiniano Flavio I, imp.: 181, 329
359, 364, 366, 368, 373, 375, 378- Valencia: 12, 14, 192, 209, 281, 369,
379, 383-385 434, 437
Tolumnio: 174 Valeriano Licinio, imp.: 325, 340, 345-
Tomacelli Marino: 59 346, 430
Tommaso d’Aquino, s.: 116, 156, 168, Valeriano Pierio: 315
227, 365 Valerio Massimo: 346, 352, 410
Tommaso di Silvestro da Orvieto: 104- Valgulio Carlo: 7
106, 115-117, 119, 123, 134 Valla Lorenzo: 142-143, 149, 212-216,
Tommasuccio, beato: 119-120 220, 223, 225, 227, 230, 232, 298,
Tonelli L.: 292 302, 314, 338-339
Torebo: 173 Vannucci Pietro: v. Perugino
Torelli Achille: 286 Valori Filippo: 65
Torino: 21, 287 Varchi Benedetto: 289
Tortelli Giovanni: 156, 176 Varrone Marco Terenzio: 180, 188-190,
Toscana: 76, 174-175, 414 342
Totila: 353 Vasari Giorgio: 16
Traiano M. Ulpio, imp.: 218, 325, 339, Vasoli C.: 216
430 Vecce C.: 143
Trapezunzio Giorgio: 166 Vegezio Flavio Renato: 81, 231
Trebellio Pollione: 326, 339, 348 Veibeno: 173
Trebonio Pollione: 325-326 Veioco: 171
Trevi: 106, 117 Velletri: 79
Tripoli: 396-397 Venere: 303, 308
Troia: 171, 303, 312, 417 Venezia: 37, 41, 45, 47, 58, 83, 111,
Tubal: 186-187, 192 113, 148, 240, 242, 251, 311, 321,
Tudor, famiglia: 263-264, 270, 272 324, 339, 358, 381, 425
Tuisco: 186-187 — biblioteche:
Turchia: 427 — — Fondazione Cini: 426
Tusco: 173 — — Museo Correr: 321
Tusso: 172 — — Nazionale Marciana: 417
Uberti Fazio degli: 156, 270 Verardi Carlo: 32, 353, 432
Uberti Francesco: 7 Verardi Marcellino: 8, 276, 353
Ulispona: v. Lisbona Vergili Polidoro: 7, 272-273
Ugo di San Vittore: 162 Verrio Flacco: 161
Ulisse: 309-310, 312, 364, 380, 395 Vertunno: 160, 176-178
Ulm: 245 Vespucci Amerigo: 377
Ulster: 259 Vetesy Laszlo: 242, 248, 250
Umbria: 16, 76, 103, 112, 115, 118, 132 Vettori Francesco: 62
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INDICI 459

Vetulonia: 153 Vitelli Paolo: 75, 81


Vezio Sabino: 340, 342 Vitelli Vitello: 81
Vibenno: v. Veibeno Vitelli Vitellozzo: 80-81
Vibi Giovan Maria: 100 Viterbo: 152-153, 156, 162, 168, 170-
Vic: 196 172, 175, 181, 188-189, 299
Vicenza: 100, 110 — convento di S. Maria di Gradi: 172,
Vico Tusco: 176 176
Vienna: 334 Volsco Antonio: 178, 207, 434
Vignaus Joannes: 282 Volterra: 106
Vilallonga M.: 433 Volterrano Raffaele: v. Maffei Raffaele
Villani Villano: 105 Warbeck Perkin: 264
Vincenzo di Beauvais: 139, 156, 163 Yello: 174
Virgilio Marone Publio: 34, 46, 158, Zabughin V.: 348
177, 199, 222, 235, 303, 365, 380, Zacconi E.: 286
417 Zenone Rutilio: 252
Viriato: 217 Zizim: v. Djem
Visconti Giangaleazzo: 69 Zoccoli Antonio: 298
Vitali Bernardino: 321, 324 Zonara Giovanni: 322, 330, 341, 343-
Vitelli, famiglia: 80-81 345, 347-352
Vitelli Camillo: 81, 121 Zoroastro: 155, 187
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INDICI 461

INDICE DELLE FONTI MANOSCRITTE

BARCELONA Vat. lat.


1565: 338
BIBLIOTECA UNIVERSITARIA 1979: 350
23: 205 1980: 350
1981: 350
BERGAMO 1983: 350
BIBLIOTECA CIVICA ANGELO MAI 1984: 350
MA 502: 20 2044: 338
2048: 19
BRINDISI 2222: 201, 430, 432, 434-
435, 437
BIBLIOTECA ARCIVESCOVILE 2836: 86, 91
D 2: 145 2839: 70
D 5: 144 2875: 85
3279: 339
BRUXELLES 3298: 302
BIBLIOTHÈQUE ROYALE 3311: 342, 348
10565: 433-434 3353: 90, 373
3361: 89
CITTÀ DEL VATICANO 3406: 431
3617: 302
BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA 3966: 19
Barb. lat. 5175: 61, 86
338: 70 7584: 142
1705: 277, 280-281 8407: 20
1858: 91 8656: 20
1903: 68, 85 9948: 78
2117: 277 10936: 327, 329-330, 333-
2639: 20-21 334, 336
Boncompagni 14203: 20
F. 2: 327, 329-331, 333-336
FIRENZE
Reg. lat.
BIBLIOTECA MEDICEA LAURENZIANA
453: 95, 97
16,40: 143
Urb. lat. BIBLIOTECA NAZIONALE CENTRALE
844: 20 Magl. XXXVIII 82: 405
Vat. gr. Pal. 322: 405
136: 351
482: 351 BIBLIOTECA RICCARDIANA
639: 351 1910: 381
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462 INDICI

GENOVA PERUGIA
ARCHIVIO DI STATO BIBLIOTECA COMUNALE AUGUSTA
ms. 70: 244 I 109: 106-107, 110
BIBLIOTECA UNIVERSITARIA 3217: 106
E.III.1: 20
E.III.3: 21 ROMA
BIBLIOTECA ANGELICA
LUCCA gr. 101: 305
BIBLIOTECA CAPITOLARE lat. 351: 181
555: 36 BIBLIOTECA CASANATENSE
1227/a-b: 298
MODENA
BIBLIOTECA NAZIONALE CENTRALE
BIBLIOTECA ESTENSE
VITTORIO EMANUELE II
Gamma Z.3.2 (Campori 2869):
Vitt. Em.1024: 20
153

MÜNCHEN TORINO

BAYRISCHE STAATSBILIOTHEK BIBLIOTECA NAZIONALE


lat. 528: 327, 329-330, 335, 351 I.III.13: 329

NAPOLI VENEZIA

BIBLIOTECA NAZIONALE MUSEO CORRER


IX B 7: 20 Cicogna 1632 (già 2704): 321
XII C 11: 20
ZARAGOZA
PARIS
BIBLIOTECA DEL SEMINARIO SACER-
BIBLIOTHÈQUE NATIONALE DOTAL DE SAN CARLOS
lat. 10764: 357 A.4.24: 20
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INDICI 463

INDICE DELLE TAVOLE

Pag. 316. - Roma, Biblioteca Casanatense, 1227b, c. 221r


Pag. 317. - Roma, Biblioteca Casanatense, 1227b, c. 210r
Pag. 318. - Roma, Biblioteca Casanatense, 1227b, c. 124r
Pag. 319. - Roma, Biblioteca Casanatense, 1227b, c. 140v
Pag. 320. - Roma, Biblioteca Casanatense, 1227b, c. 130v
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