Le Beatitudini Nel Vangelo Di Matteo

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Le Beatitudini

nel Vangelo di Matteo


Mt 5, 1-10

“La religione è l’oppio dei popoli”. Con questa severa affermazione, Karl Marx denunciava il
pericolo delle religioni. Non aveva torto Marx. Se una religione viene usata dai ricchi e dai potenti
per mantenere il dominio su una massa di poveri e di oppressi, è veramente un oppio, cioè un
narcotico che neutralizza le energie e le forze vitali del popolo.
Sul banco degli accusati, in prima fila tra le religioni, c’era secondo Marx, proprio il cristianesimo e,
in particolare, il messaggio di Gesù conosciuto come “le beatitudini”.
Una religione nella quale si proclamano beati i poveri, perché proprio a causa della loro indigenza
hanno il paradiso assicurato, è indubbiamente una religione alienante.
Come si può dire agli afflitti, agli affamati, che sono beati? E perché beati? Perché dopo il calvario
della loro esistenza, come “premio”, avranno paradiso. Un paradiso, però, che non solo non è
precluso al ricco, anzi, questi si assicura l’aldilà lasciando generose offerte per la celebrazione di
messe perpetue. E così, i poveri, si sentono beffati su questa terra e in quella futura.
La predicazione di questo messaggio non poteva che essere fallimentare.
Per questo, le beatitudini sono le grandi sconosciute della dottrina cristiana. Non si conoscono o si
conoscono male.
Tutti ricordano la prima, “Beati i poveri…”, per il resto è come se Gesù avesse proclamato beati i
disgraziati della società e beatificato quelle condizioni di sofferenza e di dolore dalle quali ogni
persona sana di mente si guarda bene dall’entrare e dove, se malauguratamente ci si trova, farà di
tutto per uscirne.
Realmente Gesù ha proclamato beati i poveri? E se l’ha fatto, perché i poveri sono beati? Perché
vanno poi in paradiso, in quell’aldilà nel quale anche i ricchi sono ammessi?
La risposta si trova nei vangeli e la sorpresa è che mai Gesù ha proclamato beati i poveri, quelli che
la società affama ed opprime.
Gesù non è venuto a santificare la povertà, ma a eliminarla.
Il Cristo non è venuto per addolcire con la visione beatifica la tragedia della vita quotidiana dei
poveri, ma a strappare i miseri dalla condizione di indigenza e di dolore.
Le beatitudini nei vangeli si trovano in Matteo e in Luca (Mt 5,1-10; Lc 6,20-23). Le forme sono
diverse, il messaggio è identico. Mentre in Matteo l’invito è a quanti vogliono farsi poveri (Beati i
poveri di spirito), in Luca Gesù si rivolge ai discepoli che hanno già fatto questa scelta (Beati voi
poveri, Lc 6,20) e hanno lasciato tutto per alleviare la sofferenza degli altri seguendo (Lc 5,11).
La certezza che una comunità ha accolto Gesù è che all’interno di essa non esistono
disuguaglianze, ricchi e poveri, chi comanda e chi serve, ma tutti sono e si comportano da fratelli,
responsabili gli uni della felicità e del benessere dell’altro.
Questo è il significato della prima beatitudine: un invito a prendersi cura del bene e del benessere
dell’umanità.
La decisione volontaria di entrare nella condizione di povertà è presentata dall'evangelista come la
beatitudine principale e condizione per l'esistenza di tutte le altre.

1
Gesù, dunque, proclama beati, cioè pienamente felici, non quelli che la società ha reso poveri, ma
quanti volontariamente entrano in questa condizione per alleviare e eliminare le cause della
povertà.
L’invito di Gesù è infatti rivolto ai poveri “di spirito”, a quelli che liberamente e volontariamente,
per amore, per lo spirito che li anima, entrano nella condizione di povertà.
Quella di Gesù non è una richiesta di spogliarsi di quel che si ha, ma di rivestire chi non ha nulla,
scoprendo così che la felicità non consiste nell’avere, ma nel dare (At. 20,35).
La beatitudine è un invito a trasformare radicalmente la società e permettere così l’avvento del
Regno di Dio. Per questo le beatitudini sono precedute dall’invito alla conversione per consentire
la realizzazione del regno di Dio (Mt 4,17).
In una società dominata dai verbi: avere, salire, comandare, che causano rivalità, odio e
ingiustizia, Gesù propone, come alternativa, il regno di Dio, l’ambito dove, anziché la cupidigia
dell’avere sempre di più, vi sia il condividere, dove al posto del salire al di sopra degli altri vi sia lo
scendere a fianco degli ultimi, e dove anziché la brama di comandare vi sia la gioia del servire.
A coloro che fanno la scelta libera e volontaria della povertà viene assicurato il “regno dei cieli” (da
non confondere con un regno nei cieli).
Matteo è l’unico evangelista a usare l’espressione “regno dei cieli”, al posto di regno di Dio,
secondo la tendenza tipica degli scribi di usare dei sostituti per
evitare di pronunciare o scrivere il nome divino.
Il “regno dei cieli” non proietta la promessa di Gesù in un futuro lontano (l’aldilà), ma nella
possibilità, già presente, di avere Dio come re, ovvero un Padre che si prende cura dei suoi. Questo
regno diventa realtà nel momento in cui gli uomini entrano nella condizione di poveri.
A chi si fa responsabile del benessere del proprio fratello Gesù garantisce che il Padre stesso si farà
carico della sua felicità (Mt 6,33; 25,34-40).
Con questa beatitudine Gesù, non solo non idealizza la povertà, ma chiede ai discepoli una scelta
coraggiosa che consenta di eliminare le cause che la provocano. Per questo, le beatitudini, non
solo non sono l’oppio dei popoli, ma sono la carica che stimola energie vitali all’umanità, quel che
permetterà agli oppressi, ai diseredati, agli affamati di vedere finalmente la fine della loro
condizione di infelicità.
Le beatitudini rappresentano la sintesi del messaggio di Gesù, sono le nuove tavole della legge.
Qualcuno ha scritto che esse sono l’espressione in positivo, per i credenti adulti, dei dieci
comandamenti. Come i bambini hanno bisogno anche di steccati e di proibizioni per imparare le
regole della realtà, cosi possiamo dire che sono i “credenti bambini” ad aver bisogno dei dieci
comandamenti espressi in forma di proibizione, mentre le beatitudini sono per i “credenti adulti”.
É doloroso constatare che ci hanno educati ad essere dei bravi ebrei, ma non dei bravi cristiani,
con tutto il rispetto per la religione ebraica.
Tutti quanti abbiamo imparato i comandamenti ma ben pochi sanno quante e quali sono le
beatitudini. A volte qualcuno ne conosce il numero, ma pochi sanno quali sono.
É drammatico, perché le beatitudini sono il costitutivo dell’essere cristiano.
Non è colpa nostra, ma di chi ci ha insegnato. Ci hanno insegnato ad osservare i comandamenti di
Mosè, che sono per il popolo ebraico, e non le beatitudini, che sono per i cristiani. Ora sta a noi
provvedere.
Dopo questa doverosa introduzione, anche se sarà ripetitiva, iniziamo la lettura di questo capitolo
stupendo, il capitolo 5 del Vangelo di Matteo, un autentico capolavoro dal punto di vista letterario
e dal punto di vista teologico.

2
Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi
discepoli.
Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il
regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la
terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i
misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati
gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della
giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno
e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate,
perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.
Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi.

“Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna (…)”.


L’evangelista dice che Gesù sali sul monte, ma non dice quale, non dà un’indicazione topografica.
Ricordiamo che Matteo scrive per dei giudei che conoscono benissimo la loro storia. Il monte per
eccellenza era il monte Sinai, dove Dio si era manifestato e aveva dato le tavole dell’alleanza tra lui
ed il suo popolo. Questo monte, quindi, rappresenta il monte Sinai, cioè il luogo della presenza
divina.
“ (…) e messosi a sedere (…)”.
Ogni particolare è importante. Perché si mise a sedere?
Perché il Messia si immaginava seduto alla destra di Dio. Gesù, che l’evangelista ha presentato
come il Dio con noi, manifesta così la pienezza della condizione divina. Mosè è salito sul monte e
da Dio ha ricevuto l’alleanza col suo popolo; Gesù sale sul monte e lui stesso, che è Dio, il Dio con
noi, manifesta la nuova alleanza con il popolo.
C’è una grande differenza. Mosè, servo di Dio, ha proposto o imposto un’alleanza tra servi e il loro
Signore, basata sull’obbedienza; Gesù, Figlio di Dio, propone un’alleanza tra i figli e il loro Padre
basata sulla somiglianza e la
Differenza è enorme!
“ (…) e messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli”.
Nell’AT soltanto Mosè poteva avvicinarsi al monte. Chi si avvicinava al monte doveva morire.
Avvicinarsi alla condizione divina, era un attributo geloso degli dei. Ma con Gesù, l’ avvicinarsi alla
condizione divina è possibile a tutte le persone.
“Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo (…)”.
É una espressione solenne e, da qui, inizia il testo meraviglioso delle otto beatitudini.
Otto perché, nel cristianesimo primitivo, l’otto era il numero che simboleggiava la resurrezione di
Gesù che era risuscitato il primo giorno dopo la settimana, cioè il giorno ottavo.
Per questo, nell’antichità, i battisteri avevano tutti quanti una forma ottagonale.
Quindi, mentre l’osservanza dei comandamenti garantiva lunga vita qui su
questa terra, l’accoglienza delle beatitudini garantisce, già da questa esistenza una vita
indistruttibile.
Gesù, quando parla della vita eterna, non lo fa alla maniera giudaica. Nel mondo giudaico la vita
eterna era un premio futuro da conseguire per la buona condotta nel presente.
Per Gesù, la vita eterna, non è un premio nel futuro, ma una possibilità da sperimentare ora. Chi
accoglie il messaggio di Gesù e lo traduce in pratica sentirà liberare dentro di se certe energie,
certe capacità, certe forze vitali d’amore che lo portano già in una dimensione che è quella
definitiva.

3
Il numero otto, significa così che la pratica, l’accoglienza di questo messaggio produce nell’uomo
una vita di una qualità tale che è indistruttibile.
Mentre i comandamenti sono per un singolo popolo, Israele, le beatitudini
sono per tutta l’umanità, tutti possono accogliere questo messaggio.
“Beati i poveri per lo spirito perché di questi è il regno dei cieli”.
Il termine beato, al tempo di Gesù, indicava la felicità piena e totale che era la caratteristica
gelosa ed esclusiva delle divinità.
Nel mondo pagano gli dei avevano delle esclusività, una di queste era la felicità e quando si
accorgevano che sulla terra qualcuno raggiungeva una soglia di felicità che loro giudicavano
troppo alta, lo colpivano con qualche disgrazia.
Ebbene Gesù per 8 volte invita alla pienezza della felicità.
Gesù è venuto ad annunziare che dobbiamo tendere ad essere pienamente felici qui in questa
esistenza.
Gesù è venuto a proporre un nuovo tipo di rapporto con Dio. Dio non è nemico della felicità, Dio è
l’autore della felicità e desidera che questa felicità sia la condizione di ogni uomo.
“Beati i poveri…”
Soltanto uno che non conosce i poveri, può asserire che i poveri sono beati! Se uno conosce i
poveri e sa cos’è la povertà, non può dire assolutamente che sono beati!
Non c’è nessuna beatitudine nella povertà, e Gesù non si è mai sognato di dire che i poveri sono
beati.
Gesù nel dire “beati” invita a raggiungere qui, su questa terra, la pienezza della felicità.
Come? Con la “povertà per lo spirito.” Ma cosa intendeva dire?
Ci possono essere 3 possibilità di interpretazione.
1. La prima: “carenti di spirito”, cioè ottusi. Ma è strano che Gesù li proclami beati, semmai vanno
aiutati, vanno gratificati, ma Gesù di certo non invita ad entrare in questa categoria.
2. La seconda: coloro che, pur essendo ricchi materialmente, ne sono spiritualmente distaccati.
Questa e stata proprio l’interpretazione che è andata in voga nella Chiesa e che hanno sempre
corteggiato i ricchi. Ma non si è mai riuscito a capire cosa voglia significare “essere distaccati dalle
ricchezze”! che mantengo saldamente..., pero ne sono distaccato...
Questa è l’interpretazione che si è data, in contraddizione con tutto l’insegnamento di Gesù.
Quando Gesù incontra il ricco, non gli dice “sii povero spiritualmente”, ma “prendi quello che hai e
dallo ai poveri”.
Gesù esige dai ricchi un distacco concreto dalla ricchezza.
3. La terza interpretazione, è “poveri per lo spirito”. Gesù non dice “beati quelli che sono poveri”,
ma dice che quelli che volontariamente, per la forza dello spirito che hanno dentro, scelgono di
entrare nella categoria dei poveri, non per andare ad aggiungersi ai tanti poveri che già sono
nell’umanità, ma per toglierli da questa condizione, questi sono beati.
É il principio della condivisione che sempre chiede Gesù.
Paolo si rivolge a noi con questa espressione: “Gesù da ricco che era si è fatto povero perché noi
poveri fossimo ricchi” ( 2 Cor. 8,9).
Gesù sta facendo una proposta a tutti quanti, in particolare ai discepoli: scegliete di abbassare la
vostra condizione di vita, il vostro tenore di vita, per permettere a quelli che l’hanno troppo
basso di alzarlo un po’.
Gesù ci invita con questa beatitudine a prenderci cura delle persone che non hanno niente.

4
Gesù dice che quelli che volontariamente, liberamente, per amore, quindi per lo spirito, si
prendono cura dei diseredati di questo mondo, dei poveri, sono beati, perché di questi “è” il regno
dei cieli.
Il verbo è al presente. Gesù non dice “sarà”, ma “è”. Se avesse detto “sarà”, si poteva intendere
l’aldilà. E’ l’unica beatitudine, assieme all’ultima, che ha un verbo al presente, il che significa
qualcosa che è possibile ottenere subito.
Quanti di voi, dice Gesù, volontariamente, liberamente per lo spirito, cioè per questa forza che
hanno dentro, decidono di occuparsi degli altri, beati, perché questi permetteranno a Dio di
manifestarsi nella loro esistenza, subito, immediatamente.
Quando si sperimenta questo, la vita cambia completamente.
Un conto e credere che Dio è Padre, un conto è sperimentare la sua paternità.
Si può sperimentare che Dio è Padre soltanto se si accetta questa beatitudine. É una beatitudine
immediata, non differita.
Se noi decidiamo di orientare la nostra vita verso gli altri; se decidiamo di abbassare un po’ il
nostro tenore di vita per permettere alle persone che l’hanno troppo basso di alzarlo un po’; se ci
sentiamo responsabili della felicita degli altri, si permette a Dio di manifestarsi come Padre nella
nostra esistenza. La vita cambia completamente.
Questo mutamento non elimina le difficoltà che si incontrano nella vita, gli inevitabili momenti
negativi che la vita ci riserva, ma dà una capacita nuova di vivere, perché uno sente, in qualunque
situazione della sua esistenza, un Dio che continuamente gli dice: “non ti preoccupare, io sono con
te”.
Gesù invita a non preoccuparsi per sé, ma ad occuparsi degli altri.
Chi si occupa del bene degli altri, permette a Dio di occuparsi di lui.
La beatitudine dei poveri per lo spirito non è stata messa a caso al primo posto. É la condizione
perché esistano tutte le altre, é la più importante.
Per questa ragione è l’unica, insieme all’ultima, che ha il verbo al presente.
Gesù promulga la nuova alleanza con un invito alla piena felicità, che non consiste in ciò che gli
altri faranno per te, ma in ciò che tu farai per gli altri.
Ecco perché “c’è più gioia nel dare che nel ricevere”!
Quando ci si occupa del bene degli altri, si aprono le porte all’azione di Dio. C’è una espressione
evangelica che è di una bellezza straordinaria: “Con la misura con la quale misurate sarete misurati
e vi sarà data una aggiunta”.
Dio non si lascia vincere in generosità, Dio regala amore a chi comunica vita agli altri.
Più noi diamo agli altri e più permettiamo a Dio di dare a noi.
Queste non sono parole, ma è l’esperienza vitale che fanno tutte le persone che accolgono questa
beatitudine.
Non è quindi una beatitudine da temere, anzi! Quelli che volontariamente, liberamente, sono
responsabili della felicità degli altri, beati, perché questi e non altri permetteranno a Dio di
prendersi cura della loro felicità.
Gesù non ci chiede di spogliarci, ma di vestire chi è nudo. Io credo onestamente che ognuno di noi
possa vestire almeno una persona senza bisogno di spogliarsi.
Abbiamo tanta di quella roba! Gesù ci chiede di metterci accanto ai poveri, non per condividerne
la condizione, ma per eliminare la povertà, perché l’unica prova della presenza di Dio in una
comunità è che non ci siano bisognosi.
“Beati gli afflitti perché questi saranno consolati”.
Gesù non dice che sono beati gli oppressi: gli oppressi non possono essere beati, ma sono beati
perché saranno consolati.
5
Ma a che cosa si riferisce Gesù, a quale tipo di afflizione? A quale tipo di oppressione, e
soprattutto a quale tipo di consolazione?
L’evangelista sta citando il profeta Isaia che, al capitolo 61, parla del popolo che è oppresso da due
forze nefaste, il dominio pagano e i dirigenti del popolo. É un popolo talmente oppresso che non
può non gridare la propria disperazione.
Allora Gesù dice che se c’è - ed è tutto condizionato dalla prima beatitudine - un gruppo di
persone, se c’è una comunità che decide di mettersi dalla parte degli ultimi della società, quelli che
la società ha schiacciato, allora quelli che sono oppressi saranno consolati. La consolazione non
sarà nell’aldilà.
Il verbo che l’evangelista adopera non è “confortati”, ma “consolati”.
La differenza tra il confortare e il consolare è che il conforto ti lascia come ti trova; la consolazione
indica l’eliminazione, alla radice, della causa della sofferenza.
Quindi non si tratta, solo, di dare un conforto alle persone disgraziate, ma di eliminare le cause
della sofferenza.
Se c’è un gruppo di persone, una comunità, che prende sul serio la prima beatitudine, avverrà che
le persone che sono state schiacciate dalla società, gli oppressi, gli afflitti, vedranno la fine della
loro oppressione, perché c’è una comunità che si prende cura di loro.
“Beati i miti, perché questi erediteranno la terra”.
Matteo scrive per una comunità di giudei, e quindi tutto quello che scrive è pieno di richiami
all’AT. Questa beatitudine fa riferimento è al salmo 37, nel quale il salmista cerca di consolare i
diseredati.
Cosa era successo? Quando le tribù di Israele presero possesso della terra di Cana, la divisero fra le
tribù. Ogni tribù poi divise la terra ricevuta secondo i gradi familiari, in modo che ogni famiglia
avesse un pezzo di terra.
La terra è importante, la terra significa il sostentamento dell’uomo. Se l’uomo ha la terra può
lavorare, mangiare e mantenere degnamente la propria famiglia.
Quindi ogni famiglia aveva un proprio appezzamento che le dava dignità.
Nel giro di una o due generazioni i più forti, i più intraprendenti o i più prepotenti, si
impossessarono dei terreni dei più deboli e dei meno capaci.
Nel giro di una o due generazioni, poche famiglie giunsero a possedere gran parte della terra,
mentre altre si trovarono senza nulla. Erano i diseredati.
Dunque i miti ai quali Gesù si riferisce sono i miti del salmo 37, mitezza che
non indica una qualità della persona, ma una condizione sociale. É la stessa
differenza che c’è tra “essere umile” e “essere umiliato”. Qui si parla di persone che sono state
umiliate. Allora il salmista, cercando di calmarli, dice loro di aver fede perché erediteranno un
terreno.
Ebbene, Gesù parla dei diseredati, cioè di quelli che hanno perso tutto, che non hanno più nulla, e
dice loro: “beati” perché se c’è una comunità che accoglie la prima beatitudine, quella di farsi
carico dei problemi degli ultimi della terra, questi erediteranno non “una” terra, ma “la” terra, con
l’articolo determinativo che indica la totalità. In altri termini, riceveranno una dignità che non
hanno mai conosciuto.
Queste due beatitudini vengono riassunte e riformulate nella terza,
“Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati”.
L’evangelista, anziché adoperare il verbo “nutrire”, adopera il verbo “saziare”, che si adoperava
nel senso di mangiare fino a scoppiare.
Ritroveremo questo verbo nell’ episodio della condivisione dei pani e dei pesci, quando la gente
mangerà fino ad essere satolla (Mt15,37).
6
Cosa vuol dire Gesù? La propria fame di pane e la propria sete di giustizia si saziano saziando la
fame degli altri.
Gesù passa poi alle beatitudini che riguardano la vita all’interno della comunità e quelle che Gesù
elenca, non sono qualità delle persone ma caratteristiche che le rendono riconoscibili, derivanti
dall’accettazione della prima beatitudine.
“Beati i misericordiosi”.
I misericordiosi sono le persone sulle quali si può sempre contare in ogni momento.
Siamo certi che, qualunque sia la nostra richiesta o la nostra necessita, queste persone ci dicono di
sì, non si sottraggono mai.
Misericordia, non come un gesto isolato, ma come una qualità abituale che rende riconoscibile la
persona.
Misericordia, non come sentimento, ma come attività a favore degli altri.
Non è la misericordia del superiore verso l’inferiore, ma di chi si mette allo stesso livello di chi ha
bisogno, perché la misericordia non deve mai umiliare.
Gesù dice che quelli che, abitualmente, aiutano gli altri, beati, perché ogni volta che avranno
bisogno riceveranno anch’essi aiuto da parte di Dio.
“Beati i puri di cuore, perché questi vedranno Dio”.
Il cuore nel mondo ebraico è la mente, la coscienza dell’uomo. La purezza sta quindi nella testa,
nella coscienza dell’individuo. Il puro di cuore è la persona cristallina, la persona che non indossa
una maschera.
Il puro di cuore è la persona trasparente.
Sei puro di cuore quando non ti interessa più di essere al di sopra degli altri, figurare, apparire,
quando ti prendi a cuore il bene degli ultimi della società e non hai più bisogno di metterti quelle
maschere che normalmente gli altri indossano per essere accettati, per essere rispettati.
Sei puro di cuore quando sei esattamente quello che sei.
Allora Gesù dice che coloro che, avendo accettato la prima beatitudine, sono trasparenti, non
fingono, dicono ciò che pensano, non sono opportunisti, compiacenti, adulatori, sono beati perché
vedranno Dio.
Non si intende della visione di Dio nell’aldilà, perché nell’aldilà tutti vedranno Dio, ma una visione
di lui già da ora.
Gesù non sta garantendo apparizioni o visioni!
Per indicare il “vedere”, in greco ci sono due verbi: uno indica la capacita di comprensione
interiore, e l’altro per la percezione fisica.
Noi adoperiamo il verbo vedere per tutti e due gli aspetti, fisico ed interiore.
Il verbo che l’evangelista adopera per i puri di cuore “che vedranno Dio”, non indica la vista fisica.
Costoro non vedranno Dio con la vista fisica, ma lo percepiranno come una profonda, abituale
esperienza nella loro esistenza.
Non avranno visioni, ma percepiranno la sua presenza.
Gesù ci garantisce che chi accoglie la prima beatitudine, quella della povertà, chi vive per gli altri
ed è una persona trasparente si rende conto della presenza di Dio nella sua esistenza.
Quando ci si rende conto della presenza di Dio, la vita cambia. Dio è sempre con noi, ci aiuta, ci
incoraggia, ci dà forza.
Purtroppo sono poche le persone che se ne rendono conto.
Le due precedenti beatitudini vengono riassunte nell’ultima beatitudine,
“Beati i costruttori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio”.

7
Chi accetta la prima beatitudine e si mette a fianco dei poveri per toglierli dalla condizione di
povertà è “costruttore di pace”.
Il termine “pace” nella lingua ebraica (shalom) indica tutto quello che concorre alla felicita degli
uomini.
Gesù ci sta dando un’immagine di chi è Dio.
Se quelli che lavorano per la pace degli uomini Dio li chiama suoi figli, cioè li riconosce come
persone che gli assomigliano, Dio è colui che lavora per la pace e la serenità degli uomini.
Bisogna prendere le distanze dalle immagini religiose, tradizionali, di un Dio che manda le
malattie, i castighi, che gradisce la sofferenza degli uomini, che è geloso ed invidioso della felicità
degli uomini.
Questa è l’immagine di Dio che hanno molte persone. Ma Gesù ci libera da
questa idea. Dio è colui che lavora per il bene degli uomini, e la volontà di Dio è che l’uomo sia
pieno di vita, veramente sereno e felice qui, su questa terra.
“Beati i perseguitati per la loro giustizia, perché di questi è il regno dei cieli”.
Al presente, esattamente come la prima beatitudine. La seconda parte della prima e dell’ultima
beatitudine sono identiche.
Cosa vuol dire Gesù? Se siete fedeli alle beatitudini, non aspettatevi l’applauso della società. Al
contrario, vi perseguiteranno, perché il vostro modo di operare denuncerà le loro ingiustizie.
Il verbo “perseguitare” che adopera l’evangelista, indica la persecuzione in nome di Dio, la
persecuzione religiosa.
Gesù dice che coloro che vi ostacoleranno e vi perseguiteranno non saranno i nemici di fuori, ma
quelli che sono all’interno della comunità, quelli che avrebbero dovuto aiutarvi ed appoggiarvi.
Gesù parla di questo perché chi accoglie le beatitudini entra in sintonia con Dio, vede Dio, cioè lo
sente presente nella propria vita ed ha bisogno di manifestarlo sempre in forme nuove.
Allora accade che, proprio all’interno della comunità cristiana, ci sia una parte che si è fermata e
che, anziché la proposta di Gesù di creare una comunità dinamica animata dallo spirito, si è
degradata ad una istituzione immobile regolata dalle leggi: allora questi non sopporteranno la
presenza dei profeti all’interno della comunità e li perseguiteranno.
Gesù dirà nel vangelo di Giovanni: “verrà il momento in cui chiunque vi uccide crederà di rendere
culto a Dio”.
In nome di Dio vi perseguiteranno, ma, beati perché Dio sta dalla parte vostra: la persecuzione per
il credente, per la comunità cristiana non sarà un segno di sconfitta, ma un fattore di crescita.
Gesù ci assicura che il vivere nella fedeltà al suo messaggio, comporterà la persecuzione, ma Dio,
tra chi perseguita e chi viene perseguitato, sta sempre dalla parte del perseguitato. Tra chi
condanna in nome di Dio e i condannati, Dio sta sempre dalla parte dei condannati. Tra chi
accende il rogo e chi viene bruciato, Gesù, Dio sta sempre dalla parte dei martiri.
La tragica storia della anche della nostra chiesa, non è che non ha saputo riconoscere i santi, i
profeti, gli inviati da Dio, li ha subito individuati e, quando è stato possibile, li ha eliminati.
Poi la storia passa e quelli che sono stati sacrificati, quelli che sono stati umiliati diventano i veri
testimoni del Signore.
Come facciamo a sapere se siamo una comunità animata dallo Spirito, una rigida istituzione
immobile regolata dalle leggi?
C’è una frase che è un segnale di allarme, quando di fronte ad una proposta nuova, quando di
fronte ad una novità diciamo, sentiamo dire: “…ma perché cambiare? Si è sempre fatto così! ”,
attenzione perché siamo dalla parte della legge e non dello Spirito, rischiamo di diventare
persecutori anziché perseguitati.

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