Nicola Zitara - 'O Sorece Morto Padania Dissangue Due Sicilie Revisionismo Calabria Napoli Sud Italia
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Nicola Zitara - 89048 Siderno - Piazza Portosalvo 1 - Tel e fax 0964 380498
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Nicola Zitara
‘O sorece morto
Romanzo
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La vicenda si svolge a San Policarpio, un paese della costa jonica reggina, e a Capursi,
un paese della Costiera Amalfitana, tra il 1932 circa e il 2001
Famiglia Alfano
Famiglia Surrenti
Godo di una bella pensione e di consistenti rendite, che non so come spendere. Non mi
piace viaggiare, i miei bisogni sono modesti, i miei congiunti sono anche loro
benestanti. I soldi in più li devolvo mensilmente al mio amico Willy Hauser che
pubblica a Boston una rivista su macchine e macchinette meno inquinanti. La mia
esistenza di vecchio scorre tranquilla. Una parte della mattinata studio, faccio calcoli e
disegno. La seconda parte la passo in mare con Oreste, un macchinista del cantiere
Diaz, a provare e mettere a punto il prototipo di un motore da 360 cavalli, di cui il mio
vecchio principale – nonché mio consuocero - ha comprato il brevetto. Al pomeriggio,
Mara, mia nuora, viene a stirare la mia biancheria e a riassettare le tre stanze del vecchio
palazzo dove vivo, le quali, per la verità, sono state già rassettate in mattinata dalla
signora polacca ingaggiata a ore per lavare le scale. Ma mia nuora è siciliana come lo
era mia madre, e in Sicilia vige un duro statuto riguardo alle donne, ai loro vecchi e alla
casa dei loro vecchi. Con Mara, vengono anche Lino e Nina, i miei nipotini, ma la
reciproca comunicazione è quasi inesistente. Sono nato in un mondo in cui i ragazzini
erano parecchio rispettosi degli adulti, ma anche discoli, maneschi e malvestiti, cosicché
questi “omini anticipati” di collodiana memoria mi piacciono poco. Anzi, a dire il vero,
mi disturbano. Durante il tempo che Mara e i suoi figlioli armeggiano per casa
preferisco starmene sul terrazzino. A quell’ora l’ex senatrice Vitulia Surrenti attraversa
il passaggio a livello ferroviario assieme a una badante, e si dirige verso quel che resta
del caricatoio, trascinandosi dietro suo marito Karl, semiparalizzato da un ictus ormai
da trenta e più anni. Affacciarsi costituisce un dovere di cortesia, perché le due donne,
quando attraversano il binario, non dimenticano mai di guardare dalla mia parte e di
alzare un braccio in segno di saluto.
San Policarpio è il paese dove sono nato e cresciuto. E’ un abito noto che porto con
agio, eppure è come se non lo conoscessi. Ciò dipende dal fatto che ho vissuto altrove la
mia vita di lavoratore e i lunghi anni di carcere che l’hanno preceduta. Nel frattempo le
vecchie generazioni sono scomparse, il paese si è dilatato e le attività che vi si svolgono
sono radicalmente cambiate.
Ma questo è scienza del poi. Prima vivevo a Messina, dove ero di casa e dove avevo
amici e parenti. Se fossi rimasto lì, la mia vecchiaia non sarebbe trascorsa né solitaria né
triste. Però sentivo il bisogno di rivivere il mio mare, di godermelo da un balcone della
casa avita. Perché – mi dicevo – il mare è sempre lo stesso. Quel che cambia sono le
coste e la luce. Difatti, il mare che vedevo da Camaro, sulla prima balza dei Peloritani,
era sfavillante, splendido, accecante.
Lo Stretto è uno scenario che distrae. L’aria è trasparente, i paesaggi marini sono tali e
tanti, che fanno venire il capogiro, mentre io sentivo il bisogno opposto: di salutare
quietamente il mondo che si allontanava da me, senza farmi abbagliare dalle cose. In
concreto desideravo avere sotto gli occhi il mio mare, che si stende libero e senza altro
confine che il cielo.
Tranne i magazzini, che sono dati in affitto, prima del mio ritorno il resto del palazzo
era come abbandonato. Cosicché l’ho fatto rimettere in ordine. Il primo piano l’ho
donato alla biblioteca comunale, per cui il luogo ha, sì, cambiato funzione, ma è tuttora
vitale. La mattina ci viene qualche persona matura: insegnanti, giornalisti, studiosi,
lettori generici a prendere in prestito un romanzo; al pomeriggio arrivano i ragazzi a fare
le ricerche loro assegnate. Hanno fretta di sbrigarsi. Per far presto, copiano l’uno
dall’altro. Vociano e sciamano per le scale, giocano nel cortile intorno ai due vecchi
ippocastani, calpestano le aiuole.
La giovinezza è sempre vitale, spensierata, amante dei giochi che impegnano il corpo,
ma noto che i ragazzi di oggi tornano a casa presto. Non restano a giocare per strada. O
non ci restano a lungo. La casa è il centro della loro vita; la strada una dimensione
esterna. Non ci sono più i sodalizi, le combriccole dicevamo, le squadre, le bande che
un tempo si formavano in base al legame territoriale. La famiglia e il vicolo: un mondo
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già anziani e non più buoni per la nuova marineria, organizzata da armatori di livello
nazionale con sede a Genova. Cosicché erano tornati in paese, a fare i pescatori. Ma il
nostro mare non è generoso. La pesca non dava a sufficienza da vivere. Di conseguenza
facevano i pescatori dalle tre di notte alle sette del mattino e i facchini dalle sette del
mattino alle cinque e mezza di sera.
Non erano dipendenti stabili della ditta. Venivano ingaggiati in gruppo per lavori
determinati e pagati a risultato, oppure assunti singolarmente e pagati a orario. Inutile
aggiungere che erano più poveri di Lazzaro. Al pomeriggio, prima che il negozio
riaprisse, si sedevano ad aspettare su una panchina: all’ombra del palazzo, se era
d’estate; sul lato opposto della piazza, dove batteva il sole, se era d’inverno.
Chiacchieravano pacatamente dei loro trascorsi per mare.
Ascoltarli, a me piaceva più che giocare con i miei coetanei. Mi sedevo sul bordo
rialzato di un aiuola e navigavo con loro per i mari del mondo. Furono il mio Van Loon,
il mio Conrand. L’Elvira aveva fatto naufragio nel Golfo del Leone e ‘u Peppi ‘u
Piccirillu, aggrappato a un rottame, aveva nuotato due giorni e una notte. A Porto Said,
Michiele Michielà era rimasto fermo tre mesi, che aveva trascorso a sbucciare patate. ‘U
Chirichella era fuochista. Alimentava la caldaia con metodiche palate di carbone.
Ripeteva il gesto decine di migliaia di volte al giorno e stava completamente nudo, solo
un perizoma, come quello di Cristo sulla croce. Tanto era il sudore che doveva bere
cinquanta litri d’acqua al giorno. A ‘u Testazza piacevano le calleja di Buenos Aires, e
ancor di più le donnine che le popolavano. Lì, sono tanto calde che ti bruciano la vita.
Non come nell’Africa, che con i bianchi restano come un pezzo di legno. Godono solo
con i loro uomini, che hanno sciabole quattro volte le nostre. Ma il viaggio imperiale lo
facevo cu Peppi, a Liverpool, regina del mondo. A Liverpool s’incontravano le navi più
grandi. Dovevamo aspettare tre giorni in rada per avere il posto al dock, e se dicevamo
una sola parola di più, il pilota ci faceva arrestare.
*
Con il nome di caricatoio si designava non soltanto il vecchio molo e la retrostante
piazza, ma anche la ruga a cui appartenevo. ‘A ruga du Caricatoio si stendeva dietro il
Fondaco Alfano. Era un quartiere dalla forma non inconsueta nei centri di nuova
urbanizzazione. Nuove costruzioni borghesi convivevano con le preesistenti casupole
proletarie, sulla base di una logica classista. Quelle dei ricchi terrieri erano disposte
lungo il Corso, quelle dei professionisti e dei mercanti lungo la via Marina, parallela al
primo. Dietro (o dentro) c’erano le case dei poveri. Ne era venuta fuori una specie di
scatola, che luccicava di benessere all’esterno, mentre all’interno l’unica cosa che
luccicava erano i lumini accesi alla Madonna, affinché desse un soccorso alla fame e
alla disoccupazione.
Il negozio paterno si affacciava con sei porte sulla piazza Caricatoio, e con altrettante
sia sulla via Marina sia sul vico Speranza, da cui si accedeva al ventre della ruga. Su via
Amalfi, la traversa che passava dietro il fondaco collegando il corso con la via Marina,
c’era il grande portone carraio, ornato con due alte colonne di pietra. Il cortile, grande
come una pubblica piazza, era ombreggiato da due enormi ippocastani. La nostra casa si
ergeva, come una specie di torrione, su quattro dei sei magazzini sottostanti. Al piano
terra, la casa e i magazzini facevano un blocco. Infatti, nonostante le innumerevoli
porte, il magazzino era uno solo. Era il risultato di tre navate affiancate, due delle quali
erano sorrette dai muri perimetrali, mentre quella centrale appoggiava su una doppia
serie di cinque colonne (o muraglioni), disposte simmetricamente. L’impressione
dell’insieme sarebbe stata quella di una chiesa a tre navate, se la prima navata, quella
che si apriva sulla piazza, non fosse stata separata da quelle retrostanti da altissime
scaffalature di legno.
C’erano anche due navate minori, perpendicolari ai due vani estremi. Insomma il
magazzino, complessivamente considerato, era un rettangolo con due corna. La parte
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più interna (e più fresca) nascondeva trentadue cisterne, ciascuna delle quali aveva una
capienza di sei botti d’olio della misura detta napoletana, cioè di circa 3.500 litri
ciascuna. Le cisterne erano intonacate con resina di vetro. Quello speciale intonaco,
realizzato sul posto da operai venuti da Napoli, era stata una gloria della vecchia ditta.
La funzione commerciale assegnata alle cisterne stava nel conservare nel modo migliore
l’olio fino che, a metà marzo d’ogni anno, le quattro golette della Ditta in convoglio,
ciascuna con un carico di 40 botti - in tutto 100 tonnellate circa - lo avrebbero
trasportato a Venezia e a Trieste.
Al momento del racconto le cisterne non erano più usate. Ciascuna botola di accesso era
stata coperta da una lamiera di ferro alquanto spessa, molto più larga della botola e
fissata con viti al pavimento. Ogni tre o quattro anni, Peppi ‘u Piccirillu, con l’aiuto di
qualcuno della ciurma, provvedeva a calarvisi e a ripulirle dalla polvere e dalle
fuliggini.
*
Sebbene il caricatoio fosse ormai in parte distrutto dai marosi e in parte interrato - in
effetti utilizzato soltanto per lo sbarco di tavolame da costruzione proveniente dalla
Juogoslavia e dalla Norvegia - la zona era ancora piena di vita e di lavoro. La piazza,
che ne era la prosecuzione – appunto Piazza Caricatoio - benché non fosse più il centro
cittadino, era ancora la più bella e grande del paese. Aveva il lato a mezzogiorno
interamente aperto sul mare. Sul lato opposto, proprio di fronte al mare, c’era la vecchia
Chiesa, costruita al tempo di Francesco I con il suffragio dei pescatori e dei mercanti. Al
centro della piazza s’innalzava il palco per i concerti bandistici, che nei giorni di festa
richiamavano migliaia di persone; un manufatto con volute ad arco e con ringhiera in
ferro battuto. Ordinati a raggiera rispetto al palco si dispiegavano, in quattro raggi
maggiori e in otto minori, i lampioni: i primi alti, gli altri meno alti – degli splendidi
lavori in ferro.
Sul bordo della piazza si erigevano due alti chioschi, anch’essi in ferro battuto e vetri
colorati: il primo era destinato alla vendita dei giornali e il secondo di limonate, orzate e
altre bibite fresche.
Sul lato sud c’erano il Fondaco Alfano e altri negozi e sul lato nord c’erano il Caffè
Posillipo, il Circolo di Società e negozi di vario genere. Al tempo della mia prima
giovinezza essi erano la causa principale dell’animazione della piazza – la mattina i
negozi, la sera il caffè e il circolo.
Per essere esatti, il Fondaco Alfano non era più un fondaco, ma soltanto l’unica sede
della Ditta Alfano, la cui Sede principale, a Napoli, e le tre succursali calabresi erano
state chiuse da tempo. Anche la parola fondaco stava sparendo nell’uso locale, per
lasciare il posto all’espressione ‘u negoziu d’Arfanu o ‘u palazzu d’Arfanu, a seconda
del diverso angolo visuale di chi vi si riferiva. La ditta Alfano era sopravvissuta al
caricatoio, ma aveva perduto il vento. Bordeggiava. E tuttavia navigava ancora. Di
conseguenza l’antico fondaco presentava una fisionomia ambigua e composita: quella
nuova, di ricca residenza padronale, e quella originaria di negozio con annesso
“convento”.
Quanto al convento, si trattava di una metafora riguardante la parte riservata ai
commessi amalfitani che lavoravano in negozio. Era consuetudine fra gli amalfitani che
aprivano un fondaco di portarsi dietro anche i dipendenti. Per più di mille anni la cosa
aveva trovato una giustificazione nel fatto che andavano a insediarsi in luoghi ostili e
arretrati, comunque mancanti di tradizioni mercantili. Detta esigenza non valeva più ai
tempi miei. E tuttavia l’antica usanza continuava ad avere un senso, perché i contadini,
che costituivano la massa degli avventori per i negozi di alimentari, erano clienti
difficili: sempre perplessi se spendere o no, sempre paurosi d’essere fatti fessi dal
negoziante. Ora, sul punto che oggi chiameremmo del marketing, Amalfi era una vera
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università e gli amalfitani dei veri dottori. Per cui mio padre, come ogni mercante
amalfitano, era praticamente costretto ad affrontare il maggior costo di commessi scelti
fra i suoi compatrioti.
Al tempo in cui inizia il racconto, i giovani erano tre: Andrea, don Aniello e Costantino.
Amalfitano era anche il ragioniere, don Pantaleone Mezzacapo, dalla gente del paese
più brevemente appellato don Leone; un accoppiamento che allora mi divertiva
enormemente, suonandomi stridente che un uomo portasse il nome d’un animale, fosse
pure il re della foresta, e che, per giunta, gli si facessero le querimonie.
Siccome il piano del palazzo ancora riservato ai giovani era stato concepito per una
ventina di persone, le quattro che allora l’occupavano potevano stare alquanto comode.
Infatti, soltanto Andrea e Costantino dormivano nello stesso stanzone, mentre Aniello,
che era un po’ più anziano e parecchio sofistico, godeva di una camera solamente per
lui. A don Pantaleone, poi, era riservato un piccolo appartamento.
Alla vita del convento sovrintendeva ‘a Maruzza, una secca vergine in capillis di
cinquantacinque o sessant’anni, la quale provvedeva alle pulizie e a preparare i pasti per
i frati conversi, come tradizionalmente si autodefinivano.
*
Quando ‘a Maruzza aveva finito le sue faccende, il convento diventava un luogo mesto
e silenzioso. Ricordo vagamente che qualche volta, alla sera, Andrea, che era un
giovane tirocinante, prendeva il mandolino e si metteva a cantare. Allora la mamma lo
chiamava su e gli addolciva la solitudine con qualche leccornia e un bicchierino, o una
bibita fresca se era d’estate. Gli altri giovani, avendo fatto le loro amicizie in paese -
immancabilmente supervisionate dal padrone - dopo cena se ne andavano al cinema o a
passeggiare sul Corso.
Restava, al contrario, sempre in casa don Pantaleone. Tecnicamente è anche facile dire
il perché. Non lo è invece umanamente. Difatti don Pantaleone aveva perduto la gamba
destra in guerra e perciò camminava faticosamente con l’aiuto delle stampelle. La
menomazione - il vedere don Pantaleone fermo e vigoroso, ma impedito ad agire
corrispondentemente - mi spaventava, e a volte mi faceva piangere così accoratamente
che la mamma si amareggiava e si metteva a piangere anche lei. Era allora don
Pantaleone a salire faticosamente le scale e a consolarci, dicendo pianamente che la
difesa della patria, anche a costo della vita, era il dovere d’ogni italiano. Ancora di più:
anche a costo di andare contro la nostra Santa Fede, uccidendo uomini in tutto e per
tutto simili a noi.
Finché il regime fascista non assunse un atteggiamento spocchioso, gli anniversari
patriottici erano solennizzati con misura e decoro. Tuttavia, anche se contenuta, la
retorica disturbava i superstiti e i parenti dei caduti. Lo ricordo bene: dopo la morte di
Patreppaolo, mio nonno, allorché la vecchia nonna, rimasta sola, venne a vivere con noi
in Calabria, il 4 Novembre di ogni anno, mentre fuori noi balilla sfilavamo dietro la
banda che intonava la Canzone del Piave, lei faceva chiudere i portali dei vecchi balconi
e si fasciava il capo e le orecchie per non udirne le note. E più che gli altri giorni, in
quella ricorrenza gli occhi di zio Gioacchino parevano guardarci con muto rimprovero
dalla fotografia appesa dietro lo scrittoio di papà. Il quale, turbato, piantava in asso il
lavoro e se n’andava in campagna.
L’anniversario toccava anche mamma, che nel luglio del 1915 aveva perduto il fratello
maggiore. Ma la sua velata mestizia era cosa ben diversa dal cupo dolore della nonna.
Tra mia madre e zio Tommaso c’erano dieci anni di differenza. Quando lei era ancora
una ragazzina il fratello era già all’università. Lontani per dieci mesi all’anno, si può
dire che non avessero realizzato una piena comunanza familiare. E, poi, della sua
famiglia d’origine non c’era più nessuno in paese. Entrambi i genitori erano morti, il
fratello vivente se n’era tornato in Sicilia, da dove la famiglia era venuta al seguito del
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baroni stranieri, l’impaludamento malarico avevano spinto gli abitanti della costa a
insediarsi in collina, in città fortificate. Le antiche città greche erano completamente
scomparse, sulla costa abitavano soltanto dei pescatori-contadini, probabilmente
indifferenti alla suggestione del paesaggio, dominato da uno sperone rupestre con sopra
un castello in rovina. Sulla spiaggia, nel punto più incassato della rada, la torre costiera,
che non aveva più alcuna funzione militare, ma serviva soltanto per accendervi un fuoco
nelle notti di burrasca, con cui indicare ai bastimenti in difficoltà da che parte era la
rada.
A San Policarpio, i nuovi venuti s’insediarono alla meno peggio accanto alla torre, che
fungeva anche da sede per la dogana marittima, a cui andavano esibiti i permessi per
l’esportazione. Qui costruirono i loro depositi e in appresso moderne cisterne per lo
stoccaggio dell’olio. Intorno a quei depositi nacque l’attuale Marina.
*
A distanza di oltre mezzo secolo non ho dubbi nel definire mio padre e mia madre delle
persone dal tratto signorile, eppure sia l’uno che l’altra si ritenevano soltanto dei
lavoratori fortunati. Fortunati, secondo lui, in virtù del caso, e secondo lei per volontà
divina. Comunque è certo che a casa mia mancava il culto nobiliare della genealogia.
Perciò le notizie che da ragazzino ricevevo sulla famiglia sfocavano nella nebbia. Il
punto della prima chiarezza era Patreggiacchino, padre di mio nonno Paolo, nonno di
mio padre e mio bisnonno.
Nei ricordi familiari, l’avo si presentava all’origine delle fortune commerciali della
Ditta. Del suo primo incontro con la Calabria non è rimasta una data. L’atto notarile,
con cui egli acquistò dal barone Rinaldo Englen il terreno su cui, in appresso, costruì “il
convento” e il palazzo di fronte, è datato 9 ottobre 1835. Sul capitello di una colonna,
all’ingresso del cortile, è scolpita la scritta “G. Ciano 1847”, mentre sui bordi di tutte le
cisterne è impresso uno stesso stampiglio:
parte del DNA familiare). Veniva rammentata anche la nera finanziera con cui si
abbigliava, ovvero il gibus eternamente piazzato sul capo, se no si prendeva il
raffreddore (anche questo fa parte del nostro DNA). L’unico a possedere ricordi meno
effimeri era un vecchio commesso. Lasciando la Ditta, don Matteo non era tornato ad
Amalfi. Avendo ottenuto le facilitazioni di rito dagli ex padroni, aveva aperto un
negozio, che poi in vecchiaia aveva ceduto a suo figlio. Ormai libero da impegni, si era
eletto titolare di una sedia dinanzi alla cassa e tutte le mattine veniva in negozio ad
ammazzare il tempo, distribuendo consigli e intrattenendosi con i clienti, giovani e
vecchi, ma specialmente con le giovani cummarelle, proprio quelle più procaci.
“Quando il padrone parlava, sembrava un professore. Ma parlava poco, gli bastava uno
sguardo per comandarci. Non toccava mai i soldi, li faceva contare ai figli e ai nipoti.
Però tutto doveva essere registrato fino al tornese. E lui si ricordava di tutto, fino al
tornese.
“I proprietari si pisciavano addosso aspettandolo. Arrivava da Napoli il giorno che il
prezzo di Marsiglia scendeva. Allora lui faceva scrivere su un cartellone “Acquisto tot
botti al prezzo di tot ducati” e il cartellone ce lo faceva appendere alla vetrina dello
studio. Il suo sistema era tutto il contrario degli altri, che ancora acquistavano con il
sistema antico, con il prezzo di San Nicola, strangolando i proprietari, quelli a cui più
gli servivano i soldi. Perciò i proprietari avevano fiducia e correvano qui, e lui si
accaparrava tutto.
“Aveva più soldi di Rothschild. Un prezzo diverso secondo la qualità. E lui pagava
sull’unghia. Ma quasi tutti s’erano già preso l’anticipo in merci, nel negozio degli
alimentari. Ed essendo che allora gli alimentari erano molto remunerativi, lui questi
debiti ci ordinava di scontarli al prezzo più alto dell’annata ... Così ci facevamo il buon
nome. Cosa credi, che per fare regali?
“Avevamo le cisterne più grosse di tutta la Calabria ... Cisterne qui, e cisterne sotto il
palazzo che poi, nella divisione, andò a Patre Giuseppe Conforti, dove lui, suo cognato
e i figli abitavano quando stavano a San Policarpio ... Le nostre cisterne venivano da
lontano a vederle. Da Gioia, da Reggio, da Amantea. Raccontavano i vecchi che erano
costate una montagna di danari.
“Piccoli e grossi erano pari per lui, ma i grandi proprietari, quelli che ti riempivano
una/due cisterne d’olio, riscuotevano più fiducia e potevano ottenere grosse
anticipazioni. Quando tuo zio Ferdinando si presentò deputato, gli furono prestate
ventimila lire, e quando il Cavalier Figliomeni sposò l’unica figlia, la dote uscì da qui.
Trenta fogli della Banca, uno sull’altro! Questo te lo devi ricordare: mai una lira
d’interesse. Erano altri tempi, e questo era un principio d’onore. Nessun imbroglio,
nessun raggiro. Tutto a voce alta. Ed era per questo che tutti approdavano qui, al nostro
buon nome. E tutti rispettavano il contratto, portando ’e cafisi d’olio necessari per
pagare il conto. E chi non poteva, veniva a dirlo. Trecentomila ducati scritti a libro. Lui
contava sempre in ducati, ma erano già soldi di Vittorio. Vuoi sapere quant’era? Più di
cinquanta milioni di oggi. Neanche il re! Poteva armare un esercito! Pensa che io
pigliavo sessanta lire al mese di paga, il mangiare e l’alloggio.
“Questa scrivania è sempre la stessa, e così pure la cassaforte, ma a quel tempo non era
come oggi, che si sta dietro il bancone per mezza lira. Da qui usciva da vivere per venti
paesi, signori e pezzenti. Montagne di pezzi d’argento in quella cassaforte. E lui pagava
con un semplice telegramma che faceva a Napoli. E i soldi spiccioli li spedivamo a
Napoli nei sacchi, coi bastimenti.
“Li vedi gli ulivi ? ... Un mare!... ‘A ddà sapè che i soldi per piantarli sono usciti tutti da
quella cassaforte. Lo vedi quel viottolo? (E indicava un tracciato di terra soda dove
l’erba non cresceva più). Su quel viottolo, ogni settimana, passavano mille sacchi di
grano (sbarcati da una delle golette). Miniello (il capocommesso), venti giovani e
quaranta facchini non ce la facevamo a servire tutti. Patre Giuseppe, i figli e i nipoti,
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tutti nello studio a scrivere i conti, dalle sei del mattino alle sette di sera. E la domenica
ti dovevi alzare alle cinque per sentire la Santa Messa e comunicarti. Questa era la
regola: vivere come frati, chiusi nelle stanze di sopra, nel convento, cucinandoci,
lavandoci e stirandoci da noi. E pure le pulizie.”
*
A papà non dispiaceva che gli stessi sempre dietro e che dall’esempio imparassi la sua
arte. Fra le altre cose, avevo introiettato le proporzioni della ricchezza. Così percepivo
chiaramente che una ricchezza locale è una pagliuzza a confronto di una nazionale o
mondiale. E tuttavia, nell’ambito locale, l’idea corrente era che quella degli Alfano
rappresentasse il massimo. In effetti la Ditta era stata così importante da realizzare un
forte legame tra il mio paesino e Napoli, come dire il resto del mondo.
Tutti erano attenti e rispettosi quando si parlava dell’uomo che aveva creato, forse dal
nulla, un’azienda oggi diremmo plurimiliardaria. Ma io lo ero doppiamente. E in
appresso capii meglio il perché. Nella figura altamente positiva dell’avo Gioacchino
trovavo una sorta di compensazione alla non smagliante figura di mio nonno, il quale
troppo spesso veniva accusato di non aver saputo cavare ‘no sorece morto ’a dinto ’o
pertuso, come dire di non averci saputo fare commercialmente.
Ma chi era stato, codesto Padron Giacchino? Come era vissuto? Come se la sbrigava
con le tempeste? Come impartiva i comandi sulla nave? Era coraggioso? Aveva
l’incerata per evitare di bagnarsi quando il mare era in tempesta, come Clark Gable?
Qualche volta arrivavo a chiedermi se baciasse i suoi figli. Ma di lui era rimasto molto
poco. In famiglia, solo la nonna era padrona di quel monumento familiare. Ma
purtroppo, di navi, lei non capiva un bel niente.
“Nonna, com’era il pronnonno ?”, chiedevo.
E la nonna: “Io l’ho conosciuto che era già avanti negli anni. Era sempre a Napoli, ma
quando stava a Capursi usciva la mattina all’alba a camminare. E camminava,
camminava. Non si stancava mai. Ma poi stava sempre in casa… Leggeva le preghiere,
si diceva il rosario. Era vedovo e solo. Solo il padre di Anselmo, il cocchiere… Mia
suocera era francese, io non l’ho mai conosciuta. Ricordo soltanto il giorno che ci fu il
funerale. Morì che Paolo aveva diciott’anni.”
“Ma aveva fatto il capitano ?”
La nonna - nata proprio nel 1861, l’anno del Re Scomunicato - apparteneva a una
diversa classe sociale. Veniva da una famiglia di grandi banchieri napoletani. Gente
illustre, ma ormai decaduta. I suoi fratelli non stavano negli affari. Esercitavano una
professione.
“Mio suocero venne da Gaeta. Sin da ragazzo navigava per Marsiglia, con l’olio. Fece
fortuna presto, e a Marsiglia si sposò con una bella e ricca ragazza, figlia di un
mercante. Un po’ di soldi li ebbe in dote, un po’ glieli diede il re, così comprò una
goletta e se ne venne a Capursi. Comprava l’olio in Calabria e lo vendeva a Marsiglia, e
così fece una grande fortuna.” Con il che – mi resi conto – la rischiosa attività di
capitano era finita. Infatti, a Capursi, né Patreggiacchino, né suo cognato Conforti, né i
loro rispettivi figli, venivano ricordati come capitani, ma solo come armatori e mercanti.
La nonna, che pur raccontava delle paure che i bastimenti potessero far naufragio,
parlava chiaramente di paure economiche e non fisiche. Cosa che significa che
Patreppaolo, suo marito, era sulla riva ad attendere. Quando lei ricordava l’avversione
di questi per il mare - “pe’ mare non ci stanno taverne” - una fosca ombra calava sul
mio cuore intrepido. Avrei sicuramente preferito un nonno in lotta con i marosi e con il
sartiame, come Il Corsaro Nero.
Avevo amato intensamente mio nonno e amavo ancora il suo fresco ricordo. Fra me e
lui c’era una comunicazione, una complicità arcana e indecifrabile, quasi fossimo
entrambi bambini o entrambi vecchi. Durante i tre mesi estivi che da bambino
trascorrevo a Capursi, con la nonna e con lui, mio padre diveniva una riserva, quasi un
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intruso.
L’idea che il nonno fosse un inetto mi disturbava parecchio. Lui morto, cercai sempre
d’evitare qualsiasi discorso che gli si riferisse. Mi avrebbe fatto troppo male continuare
a sentire che era un debole. Era questo anche l’atteggiamento di papà. Entrambi, quasi
per una tacita intesa, scartavamo ogni riflessione riguardante il nostro rispettivo padre e
nonno. In verità sul vecchio Patreppaolo e su un suo fratello e socio - che si chiamava
Generoso - gravava l’infamia di aver dissipato, per bonomia il primo e con le donne il
secondo, gran parte del patrimonio familiare.
*
Al tempo delle mie infantili villeggiature a Capursi, il nonno e i suoi cugini Conforti si
guardavano in cagnesco. Nonostante i portoni dei rispettivi palazzi fossero a pochi passi
l’uno dall’altro, nonostante anche i giardini retrostanti fossero contigui, fingevano una
fredda e distaccata conoscenza. L’inimicizia si smorzava un po’ presso la generazione
successiva, quella di mio padre, assumendo il carattere di un legame parentale ipocrita.
Ricordo tutti e quattro i fratelli Conforti. Due vivevano a San Policarpio e gli altri due a
Capursi. Al tempo della guerra d’Africa erano tutti vicini agli ottant’anni. Il maggiore li
aveva anche superati.
Era, questi, un tipo fuori del comune. E per moltissime cose, ciascuna delle quali era
sufficiente a stralunare le mie categorie infantili. Soprattutto la sua trista fama. Si
sapeva, infatti, che il Capitano aveva portato, deliberatamente, una fregata a sbattere
contro la banchina del porto di Ancona e l’aveva mezz’affondata.
A casa del Capitano, che abitava però da tutt’altra parte del paese, ci arrivai attraverso la
porta di servizio. Conoscevo l’arcaico ed esotico parente soltanto di vista, poiché lo
vedevo la sera a passeggio sul corso, con la mesta moglie appesa al braccio. E quando li
incontravo, mi irrigidivo per il disagio, così come si irrigidiva il nonno. Mio padre e mia
madre invece li salutavano sempre, ma da lontano; tranne la prima volta, al loro arrivo a
Capursi. Sarebbe stato, infatti, troppo sgarbato non avvicinarsi. Ma se le inimicizie
antiche dividevano le famiglie, le cameriere le univano. Infatti Maddalena, la cameriera
della nonna, era sorella di Margherita, la cameriera del Capitano. Le due sorelle, pur
non avvertendo alcuno dei sentimenti avversativi dei rispettivi padroni, erano tuttavia
costrette a vedersi di soppiatto, o se non proprio di soppiatto, quantomeno senza
compromettere l’inimicizia dominicale. Per tal motivo, quando il nonno e la nonna
facevano il loro pisolino postprandiale, Maddalena si recava alla villa del Capitano, a
chiacchierare con la sorella.
Ma Maddalena aveva anche il dovere di sorvegliarmi, dato che le idee pedagogiche dei
nonni erano molto diverse da quelle correnti a San Policarpio. Così, per conciliare
l’utile con il dilettevole, mi portava con sé. In verità non ci dirigevamo al casino dello
zio, ma verso la parte retrostante, corrispondente a un ampio giardino di limoni, al quale
accedevamo attraverso una porticina sgangherata, sicuramente centenaria. Sul bordo
della piantagione c’era uno stanzone che fungeva da lavatoio. Maddalena e Margherita
si sedevano all’ombra dell’edificio, e per chiacchierare liberamente mi lasciavano ampia
libertà di scalare gli alberi; libertà non contrastata da Luigi, il contadino dello zio. In
cambio di tale compiacenza, Maddalena mi aveva fatto promettere che non l’avrei
tradita riferendo alla nonna dove si andava al pomeriggio. Se qualcuno mi avesse
chiesto, avrei dovuto mentire spudoratamente affermando che eravamo andati a pigliare
il fresco nel giardino sotto casa.
Tutto andò liscio per qualche tempo. A quell’ora, sopraffatti dal pranzo e dalla calura, il
Capitano e sua moglie ronfavano. Ma un destino beffardo volle che le suole delle mie
scarpe graffiassero la corteccia dei limoni che andavo scalando. Il guasto non sfuggì al
Capitano, che ovviamente lo addebitò a Luigi. Il quale Luigi, per discolparsi, chiarì che
i graffi erano stati prodotti “dalle scarpe di vostro nipote”.
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incrociatori, così potei subito capire che la nave del dipinto raffigurava una corazzata di
altri tempi.
“La Caio Duilio... Sai chi era Caio Duilio?”
Lo sapevo.
“L’ho progettata e varata io, il più giovane ingegnere d’Italia. A Castellammare quel
giorno c’erano il re, la regina, il prinzkaiser e la moglie, tutti i ministri e quasi tutto il
parlamento.”
Che nave poteva mai essere quella, se era stata varata a Castellammare! A
Castellammare c’ero stato con il nonno e non avevo visto neppure un pennacchio di
fumo. Sicuro che doveva arrabbiarsi!... Castellammare di Stabia?... Ridacchiavo dentro
di me, ma mi dispiaceva anche. Lo zio era completamente svampito... Un cantiere
navale a Castellammare di Stabia...? Ah, ah... Già la parola “stabia” aveva un suono
come di pollaio... Tutto quel che si diceva circa la tramontata sanità mentale dello zio
era vero, purtroppo. D’altra parte, zia Wìlma non mi aveva detto di non credergli?
“Non ci credi?” - disse rivolto alla moglie, come se non si conoscessero da
cinquant’anni e come se lei non sapesse. “Ecco i progetti”, e cominciò a tirar fuori da
uno stranissimo mobile rotoli e rotoli di disegni. E poi montagne di enormi quaderni
pieni di stranissime operazioni numeriche. E li mostrava alla moglie.
La mia espressione confusa e impaurita lo fece tornare in sé. Mi accarezzò vagamente e
credo si rendesse conto che non potevo capire alcunché dei suoi disegni, e meno che
mai dei suoi calcoli. Si avvicinò a una delle credenze che contenevano modellini navali
e ne prese uno. Giudicai che fosse il più importante, perché era il più in vista.
“Cos’è questa?”, mi chiese.
“La Caio Duilio”. “La Regia Nave da Battaglia Caio Duilio, ammiraglia della flotta
italiana. Era la corazzata più moderna e potente del mondo. La più celebre. Le grandi
potenze ce la invidiavano. L’Imperatore d’Austria aveva l’amaro in bocca.
“Adesso confronta mentalmente la sagoma di questa nave con la sagoma di una
corazzata attuale e dimmi che differenza noti?”
Era una domanda di estrema facilità. Infatti le due torri erano sistemate al centro, dietro
le ciminiere, di modo che la nave poteva sparare solo mettendosi in linea.
“No, non è questo il problema. Almeno non è il problema principale. Il problema è
quest’altro.” E mostrava il foglietto di compensato che avvolgeva i fianchi della nave.
“Mi sai dire perché una nave galleggia?”
“Perché è più leggera dell’acqua”.
“Di qual acqua?”
“Dell’acqua di mare.”
“No, scimunito! Anzi sì. Bisogna stare attenti. Uno scafo immerso sposta una
determinata quantità d’acqua. Un ingegnere deve sapere quanto pesa l’acqua che sarà
spostata dallo scafo che sta progettando, ma non può pesare né l’acqua né lo scafo.
Invece calcola il peso a tavolino, con queste operazioni (e indicava con il dito i
quaderni) che sono più precise delle bilance. “La quantità d’acqua spostata dipende
contemporaneamente da due cose: il peso dello scafo e il suo volume. Molto peso, ma
poca acqua spostata, la nave affonda. Allora, se io metto alla nave questa corazza, la
carico di un grande peso, ma sposto poca acqua.”
Forse avevo capito, forse no, comunque lo zio si compiacque. Ma i compiacimenti
erano appena finiti che egli s’infiammò di nuovo contro un tal Benedetto, che dai
discorsi successivi seppi essere un ammiraglio. La sua arrabbiatura discendeva dal fatto
che quell’ammiraglio non l’assecondava.
“A Castellammare...”
Era proprio fissato. Che mai ci faceva a Castellammare un ingegnere che aveva fatto il
suo tirocinio in Inghilterra? Ma forse non capivo bene, la Castellammare in questione
non era quella che io conoscevo...
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e quella di zio Paolino, quella dei loro figli e nipoti - era stata, se non proprio rovinata,
sicuramente spostata verso un altro destino. Lei qui, vecchia e sola, vedova e straniera, e
loro - i figli e i nipoti - in Germania; un paese vinto, dove per molto tempo non c’era
stato pane a sufficienza per tutti, per di più con un nome e un cognome italiani, malvisti
da tutti.
Lei era l’unica figlia dell’addetto navale dell’ambasciata tedesca e zio Paolino il più
brillante dei giovani ingegneri navali italiani. Si erano incontrati nei salotti di Napoli,
che a quel tempo erano ricchi e splendidi quanto quelli di Parigi. Anzi di più.
“C’erano più teatri a Napoli che in tutto il resto d’Italia”.
Lei era molto bella e corteggiata. Anche zio Paolino era bello e corteggiato. Entrambi
erano vezzeggiati da tutti. Si sposarono. L’avvenire prometteva rose e fiori. Ma quando
il governo decise d’abbandonare Castellammare, i napoletani urlarono di dolore. Zio
Paolino urlò con gli altri. Il governo non cedette e zio Paolino fu trasferito per punizione
in Africa, a Massaua, con la scusa di allestirne il porto. Dopo qualche anno fu
ritrasferito ad Ancona, ma sempre per drenare sabbia dal fondale del porto. A quel
nuovo affronto, dimenticato da tutti, zio Paolino s’inviperì e volle vendicarsi. Lo fece
riparando così male le eliche di una fregata che, appena in moto, questa andò a sbattere
contro la banchina.
Dovettero scappare in Francia, e dalla Francia in Germania. Ma nel 1914, quando la
guerra tra Italia e Germania era già prevedibile, zio Paolino, non volendo stare contro
l’Italia ed essere chiamato traditore, se ne andò in Russia, a lavorare per lo zar, nei
cantieri del Mar Nero. Qui assistette alla rivoluzione. Poi tornò in Germania e, da lì,
poté rientrare in Italia mercé la mediazione dell’ambasciatore britannico. Ma non riebbe
il grado, né ebbe la pensione. Per fortuna aveva guadagnato parecchio con la
progettazione e la costruzione di una petroliera svedese. I figli invece erano rimasti in
Germania, dove si erano laureati. Le donne avevano il nome delle navi alle quali zio
Paolino aveva lavorato: Duilia e Romana.
Quello stesso inverno zia Wìlma morì mentre si trovava in Germania, in visita ai figli.
*
“Nonno, zio Paolino dice che voi siete un asino e un cacone, uno che se la fa sotto ... ”
Il gioco della memoria è sicuramente cosa da poeti. Una volta che ti ci immergi, il
presente scompare, e con esso - felicemente - evaporano le noiose scadenze che
aduggiano la vita dell’uomo comune. Il passato torna attuale, ma depurato da incertezze,
e le persone morte si ripresentano con un carattere netto; con colpe e meriti scritti in
fronte.
Quando mi sono messo a scrivere del passato, credevo che non fosse necessario turbare
la pace di una tomba ricavata sul fianco di una rupe, in un fresco cimitero della
Costiera; un luogo ormai muto e di-sadorno, dacché anche le gambe del nipote sono
invecchiate. Nessuno più che vi porti un fiore, né una mano amorosa che strappi i ciuffi
d’erba cresciuti nelle fessure dei marmi ingialliti e sconnessi. Ci sono sacralità - mi
dicevo - che dovrebbero travalicare i conclamati doveri del narratore. E poi
umanamente mi domandavo qual mai utilità ci sarebbe a infrangere un ricordo gentile,
ad allontanare dalla nuca di me bambino la carezza di una mano calda e protettiva.
Disturbare i morti, penetrare i segreti che hanno portato con sé, profanare le chiuse
tombe, non è forse, per l’uomo civile, il più esecrando dei delitti?
Ma la storia degli Alfano – lo capisco solo oggi che ho la penna in mano e davanti a me
i fogli bianchi - non appartiene a me, né a mio padre, né a mio nonno. E’ invece la storia
di tutti noi.
Gli Alfano erano fin troppo ben educati per mostrare all’esterno i dubbi che covavano
nelle loro coscienze. Quel vegliardo autorevole e rispettato - ma con me tenero e
dolcissimo - era veramente uno scemo per bonezza, come diceva affettuosamente e
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ingenuamente sua moglie? Era vero che fosse un asino e un cacasotto, come sosteneva
zio Paolino Conforti? Ed era proprio vero che non sapesse cavare ’no sorece morto ’a
dinto ’o pertuso, secondo il giudizio di Miniello? Ma non era stato proprio lui che s’era
fatto scippare dai genovesi il commercio dell’olio e la Banca di Sconto? O,
riproponendo sinteticamente la stessa domanda, era vero che la Ditta si era afflosciata
sotto la sua guida bonacciona e non sufficientemente competitiva?
Queste domande - il dubbio con esse connesso - mi hanno a lungo trattenuto la mano.
Lasciavo la biciclettina in custodia a Peppiniello, alla capanna dove si vendevano le
angurie tagliate a fette e tenute al fresco nella neve ghiacciata. Ce ne andavamo, il
nonno e io, tenendoci per mano, verso la Torre e il cimitero, mentre il sole si abbassava
sul mare abbagliandoci. “Guagliò, io so’ vecchio, ma prima di morire aggia a capì cosa
vuoi fare da grande” Ma più che una domanda a me, era una domanda a se stesso.
A me ragazzo era chiaro che, tanto per mio nonno quanto per mio padre, il destino della
Ditta era segnato. Già il sistema mussoliniano degli ammassi e delle assegnazioni
l’aveva portata a perdere terreno a favore di concorrenti che in precedenza non le
facevano ombra. Inoltre l’America aveva bloccato l’emigrazione e di conseguenza la
povertà dilagava in Calabria. Questa terra, che gli Alfano avevano molto usato ma poco
amato, invece d’addolcirsi, si faceva ogni giorno più inospitale.
Il mio avvenire, già incerto per cause oggettive, era poi reso improbabile dai pericoli
insiti nel mio stesso temperamento. Il nonno e papà mi leggevano dentro cose che io
non ero capace di vedere, anche se poi ero capace di capire che erano perplessi e, in
qualche modo, preoccupati. Mi rendevo conto d’essere insolitamente generoso, ma a
insegnarmi la generosità erano stati proprio loro due. Sapevo anche d’essere alquanto
spericolato nel buttarmi avanti, ma nei ricordi del parentado materno, il nonno Ninai
non veniva ammirato ed elogiato per la stessa cosa? C’erano poi da mettere in conto
quelle che la mamma chiamava esaltazioni, e che non saprei meglio definire neppure
oggi. Io non so se la mamma mi considerasse un matto o un eroe, sta di fatto che,
prefigurandosi il mio futuro, a volte piangeva, a volte s’esaltava e mi chiamava
mafiosetto mio.
Tutto era cominciato a scuola. Siccome avevo preso a rifiutare la colazione del mattino,
la mamma, che era sempre a badare che mi nutrissi abbastanza, d’accordo con il
maestro (che in effetti fu il suggeritore di quella punizione) mi mandò la zuppa a scuola.
Il maestro mi convocò sulla cattedra, accanto a sé, e mi regalò un commovente sermone
sul privilegio d’avere di che nutrirmi, mentre “decine di compagni, sicuramente
affamati, ti stanno invidiando”.
La predica andò oltre le cattedratiche aspettative. Non solo ingoiai la zuppa lacrimando,
ma a partire da quel momento ogni mattina mi presentavo alla salumeria Sabbato, con
un gruzzolo di monetine, e acquistavo una decina di panini con la mortadella, che poi
distribuivo fra i compagni che sembravano più ansiosi di consumarli. Potevo
permettermi la connessa spesa in quanto la mamma mi faceva custodire il danaro che
ricevevo in dono, affinché imparassi a risparmiare. Dovevo metterlo da parte fino a
raggiungere la cifra di mille lire, la quale era quella occorrente per acquistare un Buono
Fruttifero Postale.
Ovviamente sapevo in anticipo che don Daniele Sabbato si sarebbe sorpreso di fronte a
quel consistente acquisto. Così, per parare il colpo, mi preparai in anticipo una bella
bugia. Anzi una piccola sceneggiata. Affermai che i compagni mi avevano affidato i
loro soldi, in modo che facendo un acquisto consistente avessimo uno sconto sul prezzo.
Dapprima don Daniele abboccò, e mi dette in omaggio un tredicesimo panino, ma dopo
alcuni giorni della stessa solfa si rese conto che per le possibilità di San Policarpio era
veramente troppo. Fece in modo d’incontrare mio padre e lo informò dettagliatamente.
Non venni punito, ma mi fu spiegato che l’avvenire era insicuro per tutti. E che, come
insicuro fra gli altri insicuri, avrei dovuto reprimere simili moti dell’animo fino a
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“Sai che ti dico? Perché non fai il medico come zio Dante, che vive tranquillo e sereno,
o come zio Ettorino? Tu nun l’hai conosciuto, il fratello della nonna ... un vero
scienziato ... amico di Cardarelli ... noto dovunque per la sua scienza e la sua carità ...O
come tuo nonno Ninai, un grande chirurgo… Fai il medico e te ne vieni qui, in Costiera,
nella casa di tuo nonno... Tieni ‘nu bello palazzo ... parenti, amici... tutto ... Ti sposi ...
.La gente t’invidierebbe.
“L’avvocato no! L’ingegnere ... Ne putimmo parlare male quanto vulimmo per il suo
carattere pazzo, ma zì ’ Paolino, anche lui…Era un grosso ingegnere, un professionista
di valore, conosciuto in tutto il mondo. Che ha lavorato dovunque...Russia, Germania,
Svezia… Di lui parlano i libri ...
“Tu questo devi fare: l’ingegnere. Se il mare t’appassiona tanto, l’ingegnere navale,
come zì Paolino. Ma in Calabria no! Della Calabria non ti puoi fidare ... Ha ingannato
me, ingannerà pure te ... Non è per noi ...
“L’Onorevole, lo conosci?”
di suo figlio ... Questo lo devi promettere: ... non mischiare mai il tuo sangue ... ”
“L’animo mio è pulito. Ho perdonato e posso salire in qualunque momento al cospetto
del Signore e Giudice. Però ti dovevo avvertire ... Degli altri il Signore abbia pietà ...
“La Calabria è tutta così ... Non c’è fede ... Non c’è pubblica fede... Vattenne ... non è
cosa per te.
“Puoi andare in America, se vuoi. E’ un paese giovane e onesto.
“Appena prendi la licenza liceale, te ne vai a Boston, all’università, a fare gli studi
navali. Adesso è famosa come quelle inglesi.
“La Ditta è finita ... Solo il coraggio di tuo padre la tiene in piedi. Tutto il Napoletano è
finito ... Napoli è un cimitero ... Il porto ... Torre, no ne parlammo! ... L’America! ... Ci
sono stato con mio figlio Giacchino nel 1913 ... Lo dovevo presentare alla borsa merci
... Quanti sogni, figlio mio benedetto! ...
“A Boston ho parecchi amici ... uomini di grande rispetto ... e anche i loro figli ... “Lo
vedi quest’anello? Quest’anello è tuo. Non passa per tuo padre. E’ direttamente tuo dal
giorno stesso che non ci sarò più ...come il palazzo.
“Tu vai in treno fino a Calais, poi da Dover a Liverpool ... Da lì è cinque giorni di mare
... A Liverpool, tu mostra l’anello, ma senza fà vedé. Alzi solamente la mano. Loro
capiranno e ti daranno la migliore cabina. Il capitano ti farà mille gentilezze. A Boston
... a suo tempo, tuo padre ti dirà dove ... ti apriranno tutte le porte. Ti accoglieranno e ti
sposerai lì ... E sarà come fondare nuovamente il casato ... fra gente libera e onesta.”
Quando il sole era già calato sul mare, arrivava Anselmo con la car-rozzella di piazza e
andava a farle invertire direzione di marcia un po’ più avanti del cancello del cimitero,
dove la curva era stata allargata. Se c’era la biciclettina, veniva caricata sulla rastrelliera
e noi salivamo. Il cavallo partiva lentamente. Il nonno, aperta la giacca, mi avvolgeva
con la falda e mi stringeva a sé.
*
Perché odiasse la Calabria, l’ho capito soltanto parecchio tempo dopo. Allora davo un
riferimento completamente diverso alle sue parole. L’arretratezza di San Policarpio era
evidente. Capursi era invece profumata, ricca di acque per l’irrigazione, varia, piena di
colori. La gente vestiva elegantemente, c’erano gli inglesi (che poi erano per la maggior
parte americani), la casa era bella e piena di mobili ben lucidati. Le persiane socchiuse
rendevano tenero l’abitarvi. I giardini erano ricchi di frutta e i contadini allegri e
affezionati. Al chiosco vendevano i sottencoppa. Papà aveva un chiozzo e quando il
vento era propizio, Romualdo alzava la vela, a me facevano mettere il salvagente di
sughero e si andava lontano, fino al Fiordo di Calore, a Conca e a Praiano, oppure fino
al Capo d’Orso; e alla sera, in macchina, a Ravello, per sentire l’orchestra. E cenavamo
in trattoria.
Il nonno non veniva mai con noi, né per mare né a Ravello. Al mattino, letto il giornale,
si metteva a scrivere. Dalle dieci a mezzogiorno. La mamma gli chiedeva sorridendo:
“Papà, state scrivendo un romanzo?” Usava dei fogli formato protocollo, ma senza
righe. Quando gli chiedevo dove comprasse quell’insolita carta, lui sorrideva
dolcemente e mi diceva che tutte le risme che non avrebbe consumato sarebbero state
mie dopo la sua morte, e pure l’orologio d’oro con la catena per il panciotto, il famoso
anello e il palazzo.
“Accussì sei subito il padrone e resti qui a fare compagnia alla non-na.”
Il nonno odiava suo cognato Surrenti, ma non era permesso chiederne il perché.
L’informazione l’avrei avuta a tempo debito, da grande. Oltre all’anello, all’orologio e
al palazzo, erano destinate a me le carte che stava scrivendo. “Adesso le tiene papà e
quando sei grande te le dà.”
Mammà commentava: “Non è la vecchiaia. E’ vero, quando s’invecchia non sempre si
connette pienamente, ma papà è sempre stato così ... Come dire ... un po’ poetico. E’
lucido, lucidissimo ... ma è un po’ poeta.” Gli apprezzamenti che si sussurravano su suo
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padre ferivano papà, e non sempre egli riusciva a trattenersi. - “Ma che ne sapete voi?
Era un uomo che voleva essere a posto con la sua coscienza e con Dio. I fatti della vita
non sempre è possibile dominarli, ma ha affrontato le difficoltà, le avversità, il dolore
con la fronte alta e l’animo sereno. Non è compito mio giudicarlo, ma chiunque altro
voglia farlo, prima bisogna che conosca la storia d’Italia.”
Cosa c’entrasse l’Italia non l’afferravo d’altra parte lui, a quella considerazione,
s’impuntava e non andava avanti. Eppure la sentivo di un’oscurità minacciosa. Che
c’entrava il nonno con Mazzini e Garibaldi, lui che neppure aveva partecipato alle
guerre d’indipendenza? - “Al tempo di Garibaldi ero ancora un ragazzo, avevo dieci
anni. Quando, poi, ci fu la presa di Roma ero a Marsiglia, a imparare il mestiere nel
fondaco di Monsieur Leboyer. La Francia era sconfitta…L’avevano con gli italiani. Mi
dovetti nascondere… No, Paolì, lo so che a te ti dispiace, ma non ho partecipato alle
lotte per l’indipendenza.”
*
Quando morì, avevo undici anni. Quel giorno fui vestito da ometto, con gli abiti giunti
espressamente da Salerno che ancora era notte: i pantaloni lunghi e una giacchetta
grigia, un cravattino nero e una larga fascia nera sul braccio sinistro. Mi toccò
camminare per mano a mio padre, soli in testa al corteo. Gli altri parenti indietro un
metro, con zia Anita al centro, mentre le campane della Cattedrale suonavano
accoratamente a morto. Zì’ Prevete e tutto il Capitolo della Cattedrale e la Congrega di
San Giacomo camminavano avanti salmodiando.
Miniello pretendeva che in quella circostanza io portassi il magico anello - “un anello
da principe, una luce” - che tutti potevano vedere, ma del quale non si poteva
assolutamente parlare. Solo che, per quanta ovatta ci mettesse attorno, l’anello mi
cadeva lo stesso dal dito. Così, per non provocare rumori inopportuni e indebite
distrazioni durante le esequie, oltre che per la paura di perdere l’oggetto prezioso,
l’inanellamento fu procrastinato a miglior tempo. In appresso, un miglior uso delle
categorie di spazio e di tempo mi ha portato a capire che la morte di Patreppaolo aveva
segnato la fine della famiglia sulla Costiera.
Da ragazzo, ancorato com’ero alla viva realtà della mia ruga, non mi rendevo conto di
qual era stato il ruolo di Patreppaolo nella società capursina. D’altra parte tutto
convergeva a farmelo sottovalutare, in primo luogo lui stesso e la nonna, che erano
persone d’indole modestissima, autocollocatesi fuori d’ogni giro sociale.
In effetti la loro generazione era ormai agli sgoccioli, mentre i figli e i nipoti s’erano
costruiti interessi autonomi.
Ora l’addio veniva celebrato - e rimarcato - con una solennità a cui non ero preparato e
che mi colpì, e colpì anche mia madre. Eravamo arrivati il giorno prima, mentre papà ci
aveva preceduti. Quando l’avevo rivisto, l’avevo trovato un uomo diverso, senza
mitezze. Distaccato. E adesso che camminava in testa al corteo tenendomi per mano -
elegantissimo come solo lui in famiglia sapeva esserlo - capivo che era tutt’altro uomo
dell’essere disincantato che conoscevo. Poi i fatti si presero una pesante rivincita, ma
allora pareva proclamasse: “Ho sempre un piede qui. Sono e resto un Alfano, uno di
qui, uno che conta.”
Non avevo mai visto, né avrei mai più visto tante giacchette nere sui pantaloni grigi
rigati quante quel giorno. E altrettante teste canute scappellarsi e inchinarsi
profondamente dinanzi a papà e allungare la mano protettiva per carezzarmi il capo.
Adesso che il nonno era morto e stava steso in una bara senza vita e pensiero - visibile
soltanto con uno sforzo dell’immaginazione - gli Alfano eravamo rimasti in due
soltanto. E nella logica dello svolgimento naturale, prima papà, in appresso io, avremmo
dovuto fare scudo alla famiglia; proteggerla e guidarla. Mantenerne la ricchezza e il
rango. E mai sbagliare.
E sempre avremmo dovuto pagare interamente il debito, se sbagliavamo. Quei signori
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con la giacca nera, il capo scoperto e il cappello nero in mano, stavano lì a ricordarcelo.
Nonostante l’età immatura, avevo già assimilata l’idea che il privilegio d’essere un
grosso mercante aveva un suo specifico costo. Quel viaggiare per il mondo senza essere
abbrutito dalla miseria e dalla sporcizia - fisicamente sui cuscini di seconda classe, ma
solo per modestia, e in prima se c’era anche la mamma - il palazzo, i salotti, il
vasellame pregiato, il Terminus e il Massimo d’Azeglio, il facchino per le valigie, le
scarpe dietro la porta, la carrozzella, il barbiere con la tovaglia candida, non erano
gratis; avevano invece un prezzo: non sbagliare, rispettare le regole.
Il fatto poi che tali regole non fossero codificate, ma di volta in volta dovessero essere
indovinate dall’Alfano apprendista, costituiva per me la materia d’esame. E questo mi
spaventava.
Certamente, nei ranghi sarei rimasto soltanto se non avessi mai sbagliato: questa era la
costituzione materiale della borghesia mercantile. Ma ero nato per sbagliare, e non me
ne dolgo.
*
Quando si parlava della Sede, cioè dell’antica centrale napoletana della Ditta, papà - lui
sempre così misurato! - adottava una certa enfasi. La mamma sapeva soltanto che c’era
stata, mentre la nonna, se e quando ne parlava, faceva pensare a un costo della sua
esistenza. Ed è anche facile capire il perché. Infatti suo marito, Padron Paolo, al lunedì
mattina prendeva il vaporetto che da Amalfi lo portava a Napoli, dove rimaneva di
solito fino al venerdì, allorché una diversa e opposta coincidenza del medesimo
vaporetto lo riportava a casa, in Costiera.
Ripensandoci mi rendo conto che la nonna era stata giovane anche lei, e magari gelosa,
e forse in ansia per il marito, che rimaneva quasi una settimana da solo in una città
immensa e non certo famosa per i suoi morigerati costumi; un marito che lei - non v’era
dubbio - avrebbe invece voluto tenersi sotto la gonnella. Sicuramente a Napoli era
meglio che in Calabria, la terra che entrambi i miei nonni - in misura diversa e per
motivi diversi - detestavano. Credo che la nonna, come tutte le mogli del passato,
avrebbe preferito un marito agricoltore e redditiere, per tenerselo a casa, a portata delle
faccende e dei problemi familiari.
Per questo motivo, pur nella singolare dolcezza del suo temperamento e nella mitezza
dei suoi sentimenti, la nonna non amava Napoli. Non aveva amato andarci - lo
dichiarava apertis verbis - sebbene la Sede, sotto l’aspetto abitativo, fosse più che
decente e confortevole, e sebbene lei stessa in prima persona avesse a Napoli legami
familiari illustri, come spesso ci narrava. Insomma, quelle volte che vi era andata, non
era giunta in un luogo poco ospitale, né sconosciuta in terra di sconosciuti. E però
Napoli, responsabile di sottrarle la compagnia e la tutela del consorte per cinque giorni
su sette, era sempre e comunque una nemica.
Ben diversi erano i sentimenti di suo figlio. Papà non indulgeva alla retorica per indole
e per educazione, tranne alcune cose. La prima sicuramente era rappresentata dall’epos
di Trento e Trieste; la seconda era la mitica piazza di Londra, che imponeva le sue
condizioni a tutto il mondo mercantile e non; la terza andava equamente divisa tra la
Norma e la Lucia di Lamermour. Subito dopo, o assieme alle prime tre, c’era il suo
immenso amore per Napoli e i teatri di Napoli. Cosa che includeva alcuni non ancora
santificati poeti e teatranti, a nome Salvatore Di Giacomo, Eduardo Scarpetta, Raffaele
Viviani.
Ma anche nei suoi discorsi - le rarissime volte che parlava di sé o della famiglia
d’origine - la Sede si presentava come il ricordo di un passato prestigioso, e tuttavia
lontano nel tempo e nello spazio. In effetti lui, la Sede, l’aveva sì vista, ma mai
adoperata, posseduta, diretta; era come il quadro di un antenato guerriero per un
discendente che si è ridotto a fare il sacrestano. In buona sostanza, neppure una
nostalgia, ma soltanto un mito. Da internazionali che erano stati, adesso gli Alfano
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erano di rango provinciale, anzi paesano. E chissà cosa riservava loro l’avvenire! La
Calabria li aveva travolti nel suo mottoso franare, soffocati nella sua immensa
lontananza e solitudine. “Qui finisce il mondo.”
Sicuramente papà era troppo avvertito per ignorare che da tempo il mondo si era ritirato
anche da Napoli e che ormai la città ricadeva fuori dal confine ideale della civiltà, come
lui generalmente l’intendeva. Ma pur essendo tutt’altro che incline allo sciovinismo, su
questo punto amava incantarsi. C’era un valore napoletano di natura eterna, incoercibile
e insopprimibile, che gli altri spesso riconoscevano e gustavano, però da estranei. Del
quale invece lui, in quanto interno, partecipava, e del quale, un giorno, anch’io avrei
partecipato, se avessi saputo bere alla fonte fatata della napoletanità.
Quando, più grandicello, una volta gli chiesi che me lo indicasse, egli si spiegò con una
breve frase: “A Napoli si parla.” Poi, come se ci avesse riflettuto su, aggiunse: “Il Verbo
... lo sai? ... Quando Dio volle farsi conoscere dagli uomini disse di sé: “Io sono il
Verbo”. Ebbene, la parola è la superiore manifestazione della napoletanità”.
Una tale visione comportava che Napoli fosse la quintessenza del mondo, e per la legge
dei vasi comunicanti, che la Sede napoletana della Ditta fosse stata partecipe di quella
qualità mondiale.”
*
Ancor oggi ciascuna parte della città di Napoli è come specializzata in una funzione. A
maggior ragione in passato. Secondo tale logica comunale, gli Alfano, armatori e
mercanti per pubblico riconoscimento, sebbene amanti della musica lirica, mai
avrebbero stabilito la loro sede accanto al San Carlo, ma sicuramente vicino al porto,
anzi tra il porto e il Mercato.
Debbo confessare che come ogni non nato a Napoli, ho ancora una certa confusione in
testa circa l’ubicazione e i confini degli storici rioni, o quartieri cittadini, ma se ce n’è
uno che mi confonde più degli altri, questo è il Mercato. Non so bene dove cominci e
dove finisca, meno che mai lo sapevo allora. Ma sono certo che il suo cuore storico è
l’omonima, famosa Piazza dove fu giustiziato Corradino e dove si spense il sogno
ghibellino di fare l’Italia senza l’intervento biforcuto di Cavour.
Sapevo che la sede della ditta sorgeva non lontano dal luogo dove fu mozzato il capo al
giovanetto e cancellato per sempre ciò che simboleggiava. E invece la Napoli di poi,
che qualche volta s’illuse d’essere giacobina, chiusa tra l’acqua salata e l’acqua santa, è
stata sempre e soltanto papalina. E l’amaro tributo a Roma di una cavalla bianca è
tuttora inavvertitamente versato e riscosso con funebre puntualità.
La Sede la vidi un giorno del 1939, quando il nonno era già morto.
Ai miei occhi l’edificio non parve niente di speciale. Papà mi spiegò che il fabbricato
originario era stato rimaneggiato e sopraelevato per farne un albergo, ad opera di certi
nostri parenti, che l’avevano acquistato dopo la Guerra e la prematura morte di suo
fratello.
“Vedi quella finestra d’angolo al primo piano, proprio a mezzogiorno? ... Lì aveva
dormito mio nonno e ci dormiva anche mio padre.”
Più che istruirmi, credo che, almeno per un istante, avesse in animo di trasmettermi un
messaggio, di presentare gli antichi fasti degli Alfano come un traguardo da
raggiungere, una posizione da riconquistare. Sicuramente un attimo di autoinganno, che
sebbene ragazzo, non mi sfuggì.
“Mio padre - Patreppaolo, come lo chiamano anche qui - ci teneva ad avere una stanza a
mezzogiorno ... Dovunque si trovasse, s’alzava presto e voleva vedere il sole. Nella
stanza accanto c’era un salotto ... Sotto stavano gli uffici e i magazzeni.
“Al tempo di mio nonno, qui venivano persino i Rothschild per i loro affari, e i ministri
della casa reale ... quelli dei Borboni ... Il principe di Terranova era di casa. Era il nostro
protettore. Ci vendeva centinaia e centinaia di botti d’olio e veniva a riscuotere ...
“Proprio per ricevere le illustri personalità, il nonno s’era fatto fare dal miglior
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mobiliere di Napoli il salotto di seta bordeaux che adesso è nello studio di papà, a
Capursi ...
“Quei tempi sono tramontati…
“In questa casa ci ho dormito pure io, qualche volta. Lì, sul retro ... Una stanza che
rimaneva chiusa da quando mio fratello era partito in Calabria ... Sì, perché l’ultimo
anno di scuola l’aveva fatto qui ...
“Raccontava sempre Giacchino che qui c’era allegria. Venivano i cugini Capone ...
Erano di casa. Specialmente Ciccillo, che faceva il tirocinio d’avvocato ... Morti tutti e
due...E Lorenzo...”
Ero già abbastanza cresciuto per comprendere che zio Lorenzo era stato ferito
all’organo genitale, ma papà, con me, era molto pudico. Lo era tanto che, anche decenni
più tardi, quando gli toccava nominare gli organi genitali, lo faceva ricorrendo ai freddi
termini accettati dal vocabolario.
“Con papà, loro, avevano una gran confidenza. Non come noi, io e Giacchino, che ce la
facevamo sotto. Figurati che Gioacchino bruciò l’ombrello di seta per non farsi vedere
con la sigaretta da papà... C’era allegria, qui, prima della guerra. Un mondo scomparso
nelle trincee.
“Allora papà faceva ancora buoni profitti. Prima che io nascessi ... dopo che i Conforti
si ritirarono dalla Ditta, lui rimase solo con zio Generoso. Cosicché vendettero le due
vecchie golette, che erano arrivate a loro dalla divisione con i Conforti, e ne
comprarono una nuova, più grossa ... più veloce…In Inghilterra. La chiamarono Anita,
così pure mia sorella ... Questo nel 1898, due anni prima che io nascessi ...
“Ma l’olio era perduto. Ormai c’era la ferrovia e per viaggiare in Calabria le golette non
servivano più. Andava, invece, in Grecia carica di cordami e tornava portando grano per
il pastificio Tancredi di Salerno. Ma il guadagno maggiore papà lo faceva con il baccalà
... La Banca lo finanziava fino a tre, quattromila quintali e l’Anita andava in Portogallo
a trasbordarlo. Poi lo rivendeva a Napoli, ma anche in Calabria, in Sicilia, a Genova, a
Venezia…Papà non stava fermo!...
“Anche gli acquisti per i negozi che tenevamo in Calabria, che allora erano quattro, si
facevano qui a Napoli. La pasta, la farina, le patate ... Zio Generoso spediva un
telegramma al giorno, per dire al fratello come andava la piazza in Calabria e quello di
cui c’era bisogno, e papà si regolava ... E un po’ d’olio continuavano pure a
commerciarlo, quello buono per il consumo. Avevano parecchi clienti a Napoli...
“Certo non erano più i tempi di mio nonno, quando con l’olio si facevano i milioni, ma
si campava ancora bene ... Per questo mio fratello Gioacchino andò in Calabria a
imparare il mestiere ... Tra me e lui c’erano otto anni di differenza ... Papà e zio
Generoso erano andati a Marsiglia, a imparare, da Monsieur Leboyer, ma ormai l’olio
era poca cosa, non c’era nessuna ragione che Gioacchino andasse in Francia ... Così mio
padre stava a Napoli, e Giacchino in Calabria con zio Generoso, a imparare ... Ma poi
l’Anita fece naufragio ... Subito dopo venne la guerra ... la svalutazione ...
“Dopo la guerra papà chiuse. Teneva quasi settant’anni ... Era nato nel 1850. Un figlio
perduto pochi giorni prima che la guerra finisse ... Era credente, ma per un momento
dubitò di Dio ... Chiuse la Sede e vendette l’edificio. Lo comprò un cugino, che ci fece
un albergo ... Cedettero anche tre delle succursali che avevano in Calabria ... Troppe
ruberie. Si tennero soltanto il fondaco di San Policarpio. Di tanti che erano prima, erano
rimasti soltanto due vecchi ... Dovetti lasciare gli studi e andare in Calabria ... Ma solo
per gli alimentari, il commercio dell’olio non c’era più.”
*
Gli capitava raramente, ma quella fu una delle poche volte che papà steccò. Si era
lasciato andare a una pretesa eccessiva; non si era reso conto che ero immaturo per
intendere i suoi sentimenti. Certamente capivo che un tempo la famiglia era stata molto
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attiva, ma il fatto non mi toccava. Era un dato della storia familiare, niente di più.
Più che istruirmi, la visita all’antica sede mi aveva piegato. La bella Napoli mi lasciava
assolutamente indifferente. Per giunta papà, che era un camminatore instancabile, mi
aveva fatto macinare chilometri su chilometri. A quel punto le cose che desideravo più
ardentemente erano nell’ordine: sedermi e mangiare.
“Bah, adesso andiamo da Michele.”
“Eccoti subito accontentato”, voi direte. Invece un invito a buttarsi nel cratere del
Vesuvio, che allora ardeva e fumava, non sarebbe stato considerato più minaccioso di
quel Michele buttato là con indifferenza. “Quando la mamma lo saprà, succederà il
finimondo”, pensavo. Tuttavia seguii papà. Infatti i ragazzini d’allora eravamo usi a
obbedir tacendo, tal quale i carabinieri.
Altra scarpinata, questa volta in salita. Ci accolse la linda e fresca trattoria di don
Michele, Al Pioppo Reale, dove - come sospettavo - mio padre non era un cliente ma un
commensale. E’ veramente sorprendente l’attitudine degli adolescenti a captare e
decifrare ciò che i familiari sussurrano. Nessuno me lo aveva mai apertamente spiegato,
ma sapevo già che la moglie di don Michele, donna Elisa, era il frutto di un giovanile
peccato del defunto zio Generoso, in effetti una prima cugina di papà.
La santità - l’avevo compreso - non era una virtù comune a tutti i vecchi Alfano.
Sicuramente non era un attributo applicabile al prozio Generoso. Questo
chiacchieratissimo (ma solo in famiglia, per il resto lodatissimo) zio morì quando io
avevo appena tre anni. Fu il primo degli Alfano a fare la sua dipartita terrena da una
stazione calabrese. Il nipote Genso preferiva non parlarne, in quanto, prima che morisse,
avevano avuto forti dissapori. Invece ne parlava spesso la mamma, che tuttavia si
ribellava persino all’idea di ricordarsene. Secondo lei si trattava d’un materialista senza
fede, d’un massone incallito, d’un donnaiolo impenitente, d’un dissipatore senza affetti;
nelle sue appassionate perorazioni, l’Animale. Come dire il Diavolo.
Ma in una famiglia di mercanti, questo era il meno; il più era l’accusa, che ella gli
faceva, d’aver sprecato in amorazzi da trivio e scostumatezze innominabili il
consistente, milionario patrimonio aziendale. Papà che, oltre a ripeterne il nome, ne era
stato il discepolo e aveva imparato da lui tutto quel che sapeva del mestiere, taceva. Non
tacevano, invece, i vecchi clienti, i bottegai della zona, il cui giudizio era assolutamente
lusinghiero. A detta loro, nessuno lo eguagliava quanto a conoscenze merceologiche;
nessuno sapeva pesarli meglio di lui, che a colpo d’occhio distingueva il cliente buono
dal cattivo. Nessuno, che loro conoscessero, sapeva tastare il polso al mercato con
altrettanta sicurezza; cosa che negli affari, come tutti sanno, è una qualità decisiva;
nessuno che sapesse, come lui, riconoscere la qualità di una partita d’olio solo
dall’assaggio. Anche se, poi, tutti ammettevano che non difettava di “quella debolezza
là”.
La mia posizione - ovviamente mai resa pubblica - era viziata d’immaturità. Infatti
capivo perfettamente che gli uomini non sposati - persino i preti - hanno, di regola, delle
mogli nascoste, dette amanti. Le quali invecchiano pure loro. E sapevo anche che, con il
sopraggiungere della vecchiaia, il segreto cade, cosicché quelle che da giovani vengono
chiamate amanti, da vecchie si collocano in una condizione incerta, tra la suocera e la
cameriera.
Per esempio Assuntina, che ogni settimana veniva in negozio a fare la spesa, stava in
casa con don Peppino Bianchi, il parroco di Sant’Eligio. Aveva quattro figli, che
naturalmente Assuntina trattava da figli, e che anche don Peppino trattava da veri figli.
Ma dal punto di vista della loro origine era come se fossero capitati in casa per virtù
dello Spirito Santo. Quello che non mi quadrava era la circostanza particolare di zio
Generoso, del quale si raccontava che, ormai vecchio e quasi ottantenne, nonché già
titolare di un’anziana perpetua a nome donna Filomena, incettasse - e per giunta senza
che donna Filomena si arrabbiasse - delle giovani amanti. La più importante delle quali
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era una signora che tutti chiamavano donna Jana, o anche ‘a Cavalera, essendo ella la
vedova del Cavaliere Codispoti, e che in effetti si chiamava donna Diana Codispoti.
Della cui esistenza ero pienamente al corrente e che, anzi, avevo qualche volta
incontrato per strada.
A questa signora molto distinta, ma che secondo mia madre era, invece, una gran
sporcacciona, lo zio Generoso aveva lasciato il casino in usufrutto e una rendita, che
papà doveva pagarle ogni mese.
Un’altra amante dello zio era stata la Zarina - al tempo una donna non più giovane, ma
ancora bellissima: alta, distinta, prosperosa, coi capelli ramati. Una granduchessa si
diceva, fuggita dalla Russia con un marinaio del paese al tempo della Rivoluzione.
Adesso andava per le case a fare l’infermiera. Viveva con il figlio diciottenne, operaio
all’officina Fiat e già considerato un meccanico di tutto rispetto. Insomma, zio
Generoso - affermava la mamma - s’era mangiato un patrimonio con le donnacce.
Nonostante tutto questo, pare che quel vecchio scostumato mi adorasse. Ma doveva aver
voluto bene anche a mio padre, se nel testamento l’aveva nominato erede universale.
Che voleva dire - mi fu spiegato - d’ogni suo bene. Mammà, però, commentava:
“Universale sì, ma delle sue vergogne”.
Senza esserne l’erede universale, anch’io avevo avuto dal prozio un lascito di centomila
lire, come al solito in Buoni del Tesoro. Peraltro ho sempre sostenuto - con ciò
suscitando lo scetticismo familiare - di ricordare lo zio in questo e quell’altro
atteggiamento (fuori dall’harem, per fortuna). Comunque, ricordavo perfettamente
Mister Free, che era stato il suo fedele cane da caccia e - molto tempo dopo capii –
anche l’impotente protesta contro il fascismo; il quale Mister Free, si raccontava, morto
il padrone, era venuto spontaneamente e immediatamente, neanche un cristiano, ad
abitare da noi, anzi a dormire sul tappeto accanto al mio lettino d’infante, innervosendo
oltremodo mia madre, che s’incaponiva a vedere nel cane l’anima scurrile del padrone.
Come l’altro prozio, Gabriele - fattosi frate non ho capito se per un obbligo familiare o
per vocazione - il prozio Generoso era stato condannato al celibato dalle ferree leggi
della primogenitura. Ma egli, uomo molto vitale, espansivo, sommamente piacente e
parecchio considerato presso il bel sesso, aveva avuto più avventure di quel che dio
comanda. Una era stata con una certa donna Giustina, moglie di un daziere napoletano,
dalla quale era nata donna Elisa che, rimasta precocemente orfana del padre putativo,
seppe del vero padre quando questi volle che crescesse lontano dalla madre, in un
convitto di suore, da dove era uscita soltanto al momento del matrimonio.
Evidentemente il prozio aveva molta più stima del marito cornificato che della propria
amante.
Mio padre era affezionato a questa sua cugina spuria; una donna, al tempo del racconto,
tra i quaranta e i quarantacinque anni, parecchio attraente. E i rapporti che intratteneva
con lei e con suo marito erano franchi e familiari.
Diviso tra un’acerba attenzione per Iole, figliola dei predetti don Michele e donna Elisa,
e quella per il pollo con le patate fritte, m’ero completamente dimenticato dei fasti e dei
nefasti degli Alfano. Ma a richiamarmi sul terreno delle ubbie familiari fu proprio
l’ignaro don Michele, il quale, da mite trattore, era preoccupato circa un mussoliniano e
autarchico razionamento dell’olio e di altre derrate, di cui si sentiva già parlare.
“A te i soldi non mancano”, diceva rivolto a papà. “In Calabria l’olio c’è. Perché non
riprendi l’antica attività?”
Mi resi conto che quel tasto solleticava papà, tuttavia egli si schernì. - “Ah Miché, si’
pazzo? I soldi miei, il mio lavoro di quindici anni e tutto quello che mi è venuto dalla
famiglia è scritto a libro ... L’olio? Ma per carità… Ci vorrebbero decine e decine di
milioni... Non sono più i tempi di una volta ... E poi dovrei pure fare la guerra a
Genova… I genovesi tu li conosci...Per una lira, che sia una sola lira ... Anche peggio i
lucchesi ... ”
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“Ma come avete fatto? ... Gente seria, che la fortuna non se l’è giocata a carte.. E
tenevate pure una banca...!”
Eravamo al grande rebus familiare. Da una parte le note accuse al prozio Generoso,
dall’altra, addirittura, la chiamata in causa di Patreppaolo; sullo sfondo, con un ruolo
nebuloso, la possente e luciferina figura dell’onorevole Surrenti, il cognato dei vecchi
Alfano, il marito di zia Minicuccia, lo zio disconosciuto, del quale in famiglia non si
poteva neppure fare il nome.
A questo punto ebbi paura. “Se papà vorrà scagionare il nonno, non potrà tacere le
scostumatezze di zio Generoso”, pensai.
Chi era il vero colpevole? Volevo molto bene al nonno, l’uomo più giusto e buono che
avessi conosciuto nella mia giovane vita. Una sua condanna mi avrebbe addolorato.
Però la giustizia storica non è un sentimento elastico. Anche il prozio Generoso -
nonostante le affermazioni di mamma - aveva diritto a un deferente ricordo, come
membro della famiglia e parte della Ditta.
Al centro di tutto c’era la Banca, che non avevo ancora ben capito se il governo aveva
chiuso d’autorità, e perché. Di quale delitto, di quale indegnità s’erano macchiati il
nonno oppure zio Generoso oppure l’innominabile zio Ferdinando? La gente stimava
ancora e rispettava la memoria di zio Generoso, nonostante le sue scostumatezze.
Nessuno invece diceva una sola parola di bene su zio Ferdinando. Sicuramente il
colpevole era lui, ma cosa mai aveva combinato? E dei suicidi che c’erano stati, chi era
il colpevole?
Dopo la morte del nonno, l’Alfano in capo era papà. A lui spettava il verdetto.
“Credi a me, Michele ... Rifletti. Era mai possibile che gli amalfitani cadessero tutti
assieme? Nisciuno che si salvasse? ... E che! Erano diventati tutti minchioni?
“Non solo gli Alfano, ma i Cuomo, i Proto, i Gargano, i Lucibello, i Pagliaro, i Panza, i
Savo ... tutti fessi? Il meglio della Costiera. Gente che navigava da mille anni, che ha
tenuto banche, industrie, navi ... che ha combattuto contro i normanni e i saraceni...
Mercanti, banchieri, capitani, ammiragli, consoli, dogi ... Dovunque, a Costantinopoli,
ad Alessandria, a Beirut, a Tunisi ... All’improvviso tutti fessi. Persone esperte, famiglie
millenarie, che all’improvviso si fanno mettere nel sacco! ... Insomma, ti pare? ... ”
Donna Elisa annuiva. Forse, per un attimo poté pensare che gli Alfano, tornati milionari,
sarebbero stati generosi con lei, che pure Alfano era, anche se non ne portava il
cognome; con lei che - lo si vedeva - amava tanto vestirsi bene e ingioiellarsi.
Sicuramente maggiori larghezze non le sarebbero dispiaciute.
“I cugini Conforti vanno dicendo che sarebbe stato mio padre il colpevole di quella
perdita. Ma se ciò fosse vero, avremmo almeno otto colpevoli. (Rivolto a donna Elisa)
Questo me l’ha insegnato tuo padre: otto erano le ditte che controllavano tutto l’olio
calabrese, due sorrentine e sei amalfitane ... Tutte sconfitte allo stesso momento? ... Un
solo fulmine?
“No, è troppo semplice buttare tutta la colpa su mio padre. Invece la cosa non è così
semplice ... No, è stata tutta una questione di banche. Prima di tutto la Banca che revoca
il conto corrente. E già questo non si spiega. Era la banca più ricca, l’unica sicura in
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quel periodo di scandali... Noi abbiamo la nostra banca, bene o male si tira avanti anche
senza l’aiuto della Banca. Ma il governo...Insomma, la dobbiamo vendere. Poi, quando i
prezzi crollano, arrivano i genovesi pieni di soldi. Pur d’incassare, i proprietari vendono
l’olio già impegnato... Ma come te lo spieghi tutto questo?... Te lo spieghi dopo, quando
ci sono i morti…
“Bah, lasciamo stare...Ci sono i ragazzini...”
Era la prima volta che vedevo papà accalorarsi. Ma subito si riprese. “No, Michele, io il
pollo fritto non lo voglio. Tu mi devi fare un piatto di maccheroni con la besciamella e
la noce moscata, come tu solo sai fare.”
Allorché, dopo pranzo, uscimmo per una passeggiata, volle che andassimo al porto.
Cercò d’indicarmi il posto dove, qualche decennio prima che lui nascesse, stazionavano
le botti d’olio calabrese in attesa d’essere reimbarcate sui velieri da mille tonnellate che
facevano rotta per Liverpool, Anversa, Oslo, Boston. Ma l’impresa non gli riuscì.
Con la morte del nonno finirono le mie coccolate estati capursine. Tornai in servizio
attivo fra i compagni della ruga per undici mesi all’anno. Il dodicesimo dovevo
dedicarlo ai miei cugini saluzzesi, il cui arrivo divenne un forte disturbo per la mia
serenità. Zio Filiberto, più che un piemontese, sembrava un napoletano allegro e
sfotticchiante. Coloro che l’avevano conosciuto negli anni in cui era stato pretore a San
Policarpio raccontavano mille aneddoti sul suo modo di insaporire le udienze con
battute pizzicanti all’indirizzo degli avvocati e specialmente del povero cancelliere
Cavallaro che, a causa di quell’irrefrenabile cascata di punzecchiature, si fece la fama
d’ignorante e pasticcione.
Anche adesso che a San Policarpio trascorreva soltanto un mese, intorno a lui, sulla
spiaggia, si raggruppavano i bagnanti più pettegoli, chiacchieroni e allegri. Ricordo tutte
quelle persone, tuttavia, ai fini del racconto, basterà citare l’onorevole Carlo Aversano,
anche lui forestiero e anche lui ritualmente presente in paese nei mesi estivi.
L’Onorevole era il padre di Norina, la moglie di Totò Surrenti, primo cugino di mio
padre, in quanto figlio di zia Minicuccia, sorella di mio nonno. Papà e Totò si
detestavano. Quando il caso voleva che s’incontrassero, si salutavano appena. Era
un’inimicizia antica, che pareva toccasse solo i maschi delle due famiglie. Infatti, se
anche la mamma si teneva alla larga da Totò, non lo faceva tanto per essere solidale con
papà, quanto perché dava credito a quello che tutti dicevano, e cioè che Totò e suo
padre fossero dei jettatori.
Per il resto, tra le due famiglie, i rapporti erano quelli consueti fra parenti che non si
frequentano. Da parte loro gli Alfano divenivano affettuosi e reverenti soltanto con zia
Minicuccia, una vecchia signora, buona e dolce, la quale soffriva molto per la ruggine
esistente fra il marito e il fratello. Anche con Norina la freddezza era visibile, ma non
derivava dai rancori pregressi. Norina era una donna precocemente appassita e stanca.
Era anche lei avvocato, come il marito, il padre e il suocero, ma pare si limitasse ad
aiutare nello studio. Si sussurrava che, per il fatto d’essere donna, il marito e il suocero
non le permettessero d’andare in tribunale. Si sussurrava anche che l’onorevole
Aversano e sua moglie, pur avendo altri figli, venissero a San Policarpio tutte le volte
che potevano per starle vicino.
Personalmente, se la vedevo profilarsi all’orizzonte stradale, svicolavo con decisione. E
non perché Norina fosse cattiva. Tutt’altro, era molto affettuosa con me. Solo che, alla
fine dell’incontro, invariabilmente commentava: “Io non riesco a capire perché ti
lascino crescere come un selvaggio”. E a me, l’idea di somigliare a uno con la cintura di
foglie intorno alla vita e l’orecchino al naso, non mi andava giù. Comunque, mi avevano
insegnato a essere discreto, e io quel commento, che avrebbe potuto essere causa di altri
litigi, non lo riferivo a casa.
L’Onorevole, che era l’amico balneare di zio Filiberto, passava per essere un
sovversivo, un nemico del fascismo, però in paese tutti ne avevano rispetto e deferenza,
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Con gli anni la barca divenne la grande attrattiva. I pescatori non avevano difficoltà a
prestarmi un cianciolo, con il quale li portavo lontano dalla riva, a godersi il silenzio
cantante del mare.
Poi venne la guerra, zio Filibertò fu richiamato, e ci perdemmo di vista.
*
Il palazzo dei Surrenti si affacciava sul corso, come quello di tutti i gnuri. Erano costoro
i padroni degli uliveti e in genere delle terre collinari che serravano il paese a monte. Le
famiglie veramente ricche erano pochissime; le altre lo erano state nei decenni
precedenti. Ben lo si intuiva, perché tenevano superstiti atteggiamenti padronali e le
finestre orbe di vita, negli aviti palazzi.
Nel ristretto gruppo dei più ricchi, le donne avevano ricevuto un’accurata educazione ai
bei modi: le più vecchie nei collegi napoletani, le giovani, o meno vecchie, in quelli
fiorentini e romani. Le nobildonne uscivano di casa soltanto per recarsi dai parenti, mai
a passeggiare come le comuni mortali. Non era ancora venuta l’abitudine d’impiegare la
macchina sui brevi tragitti, così che esse usavano le gambe come chiunque. Bisogna
aggiungere: fortuna nostra, in quanto il loro passaggio era un colpo di teatro. Sempre
eleganti, così da apparire belle anche quando non lo erano; sempre vestite alla moda -
cosa che si percepiva più che sapersi - e delicatamente profumate.
Siccome erano conosciute, il loro avvicinarsi era preavvertito da un’ondata di cappelli
maschili che riverivano e dagli spazi che si aprivano per lasciare loro il passo.
L’aristocrazia paesana non era sicuramente fatta di famiglie autenticamente nobili e dal
risonante casato; apparteneva invece a quel padronato rurale che aveva approfittato
dell’eversione dei feudi e che si era arricchito con l’appropriazione di terre demaniali.
Dacché il treno aveva reso la provincia meno lontana dalla capitale, i gnuri potevano
raggiungerla facilmente e permanervi. Così avevano imparato la lingua, i modi e gli
atteggiamenti dei gran signori. Non dico soltanto quelli epidermici, ma propriamente la
distinzione.
I maschi, di regola, possedevano una laurea - avvocati, medici, qualche ingegnere - ma
non esercitavano la professione, quantomeno in paese, mentre qualcuno di loro lo
faceva a Roma. Né esercitavano professionalmente l’attività di agricoltori, tranne uno
che aveva piantato un grande agrumeto. Delle loro terre, che non erano dei latifondi, ma
un certo numero (a volte parecchie decine) di fondi piccoli e medi, si occupavano
soltanto nei mesi in cui si raccoglievano le olive e i trappeti erano in attività. Allora
lasciavano il palazzo, in paese, e andavano a soggiornare nella villa di campagna.
I figli crescevano e studiavano a Roma: chi in convitto, chi abitando un appartamento
che la famiglia aveva comprato a tale scopo, nonché per avere un piede a terra per le
vacanze capitoline, o in occasione di viaggi per l’acquisto di toilettes, e per ogni
problema di salute.
La recente e insolita origine mercantile del paese portava a considerare come dei
forestieri gli appartenenti al gruppo aristocratico e proprietario. In effetti i gnuri erano
arrivati già ricchi dai paesi collinari, per godere delle maggiori comodità viarie che le
marine presentavano. Ed erano veramente come dei forestieri, con abitudini diverse e
poco inseriti nella vita locale, con la quale entravano in contatto mercé la mediazione di
chi stava su un gradino più basso, come i professionisti e i medi e piccoli padroni di
agrumeti, le cui case, palazzi e palazzine erano di minor tono e non sempre avevano
trovato spazio sul dorso.
*
A quel tempo il nostro Corso, spazioso e lungo come il corso di qualunque marina
jonica, mostrava un tratto più frequentato dal passeggio, più ricco di vetrine e di caffè,
con i tavoli all’aperto e le larghe tende che riparavano dal sole; uno spazio che noi
indicavamo con l’espressione “al centro”. Su quei trecento metri di quotidiano svago i
fratelli Bova avevano aperto un negozio di radio, grammofoni, dischi e quant’altro di
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I soldati arrivarono appena qualche giorno dopo. Erano più di mille e nel volgere di
appena qualche ora il paese divenne un’appendice di Vicenza e di Ferrara, con qualche
insaporitura di Salerno e Avellino. Il primo effetto fu che tutte le botti, sia quelle già
spillate, sia quelle che i bettolieri tenevano di riserva, furono vuotate in men che non si
dica. Sull’onda della nuova e imprevista domanda di consumo, il paese, da esportatore
di vino che era, dovette importarlo. Qualcuno previde che sarebbero scomparsi anche, e
in breve tempo, i cani, i gatti, i topi e persino le rane dallo stagno du Fegu Vecchiu. Ma
a voler essere onesti, non mi pare che tale evento si sia verificato.
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Sopraffatte dal numero dei maschi e dalla forestiera attenzione, le donne del paese
cominciarono a vibrare. Siccome era già estate, nelle rughe esse sedevano dinanzi alla
porta di casa, formando con le vicine ampi cerchi. I soldati si accostavano, e dovunque
erano gran risate a gratificare il loro incomprensibile eloquio. Subito dopo, forse a
colmare le diversità dialettali, cominciavano a venire fuori chitarre, mandolini,
fisarmoniche, e la notte oscura si riempiva di suoni, di cori e d’allegria.
Non credo che la fraternizzazione andasse oltre. I padri, i mariti, i fratelli erano alquanto
reattivi sul punto dell’onore. Un po’ di musica non lo comprometteva; andare oltre era
vietato dal costume. In verità, la canzone fu per tutti noi la compagna degli anni di
guerra; la melodica consolatrice dei pensieri amari, che sopraggiungevano con il buio
dell’oscuramento totale. Ancora una volta ogni famiglia aveva uno dei suoi al fronte,
anzi su uno dei fronti che il duce, nella sua infinita follia, andava aprendo. E non
esisteva altro miele per la paura, la nostalgia, l’angoscia, la noia delle sere vuote, che la
canzone.
A livello popolare, la guerra, l’oscuramento, la povertà alimentare, i sacrifici duri che la
gente era costretta a fare, la paura fisica per sé stessi e per i congiunti lontani - anzi
irraggiungibili, perché spediti dal duce poco retoricamente al di là dei monti e dei mari,
in Africa, in Russia, in Jugoslavia, da dove non arrivavano altre notizie se non di disagi
e di morte - si accompagnarono a una certa qual sospensione delle chiusure familiari; un
qualcosa che somigliava parecchio all’umana solidarietà. E ciò, forse, poté servire ad
alleviare le sofferenze.
Il sentimento del comune pericolo - che fra il popolo si elevava a melanconia collettiva -
a un livello più alto, cioè fra i gnuri, approdò invece, e di botto, all’empireo delle
frivolezze. Con i militari di truppa, erano giunti in paese una settantina di ufficiali,
anch’essi della riserva. A costoro - o meglio, a causa loro o per loro merito -
l’aristocrazia paesana spalancò i suoi riservati e serici salotti.
Tranne i cinque o sei ufficiali di marina addetti al treno armato, gli altri erano persone
provenienti dal mondo del lavoro e delle professioni; uomini infilati in una divisa dopo
decenni di congedo illimitato; attempati padri di famiglia costretti a piantare in asso i
propri affari, a lasciare la moglie e i figli, a separarsi dalla vestaglia e dalle pantofole.
Per parecchi la divisa ebbe l’effetto di una mutazione dei connotati fisici e morali.
L’assicuratore Sarti, divenuto il colonnello Sarti, non ragionava più di contratti e di
premi, ma pareva potesse dare l’anima per la baronessa Lo Vecchio. Il ragionier
Bussoni di Canneto Po, adesso l’azzimato e marziale tenente Bussoni, pendeva dalle
labbra della signora Perez. L’avvocato Golini aveva l’occhio attento alle cameriere. A
tali ricevimenti veniva invitata anche la mia famiglia, ed essa stessa dovette darne
qualcuno. La cosa contrariava sia mia madre, che provava disagio a scimmiottare le
gran dame (ma neppure intendeva offenderle) sia mio padre, che avvertiva un gran
fastidio a mettersi al fatuo livello dei nobilucci. Ma si era di fronte a un dovere
d’ospitalità, oltre che a un dovere patriottico. Quando passai ai pantaloni lunghi, a tali
mondanità dovetti partecipare anch’io - mi fu detto - onde esercitarmi sanamente a
rispettare le convenienze sociali.
*
La guerra, fra tutte le altre cose, fu anche un impoverimento della vanità. Tutti
vestivamo alla meno peggio, specialmente i ragazzi. Io ero cresciuto. Bisognava
rivestirmi e dotarmi di pantaloni lunghi. Ma stoffa di vera lana non se ne trovava più.
Nacque una diatriba tra la mamma, che voleva far rivoltare un vestito buono di papà, e
papà, che si rifiutava energicamente di sacrificarlo. Così venne in ballo un mantello che
quindici o venti anni prima il nonno, arrivato a San Policarpio, che ancora faceva
freddo, e ripartito per la Costiera che già era caldo estivo, aveva dimenticato. I familiari
che erano sul punto di prendere il treno per Capursi, invariabilmente, promettevano di
riportarlo al suo proprietario, ma poi, al momento della partenza, per un motivo o per
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pieno sole assume la tonalità “cammello in corsa”, o per maggior chiarezza, color giallo
cacca, quello stesso che pare avesse il cavallo con cui d’Artagnan parte per le sue
avventure? Per di più, un indumento peloso come un gatto girovago, che ricordava il
Maresciallo Radetzki e le Guerre d’Indipendenza? Messi di fronte a quel capo
d’abbigliamento, l’attenzione più graziosa che gli amici presero a rivolgermi suonava
così: ”Maresciallo, le nostre armate hanno già scaldato l’Oglio e stanno per soffriggere
il Micino...”
Per compiacere la mamma e dimostrarle che non ero lo scugnizzo di strada che lei
sosteneva, avevo già partecipato a tre o quattro ricevimenti. Ma, trascorrendo la mia
giovane esistenza tra una scuola burbera, uno scrittoio solitario di fronte al mare vuoto,
un campetto di calcio tutto buche e pozzanghere, una bicicletta che pesava 25 chili, il
bigliardo, la strada e i ragazzi del basso popolo con i quali passavo le ore di svago, non
avevo alcuna dimestichezza con i figghi di gnuri. Né loro l’avevano con me. Io,
sospettoso della loro boria, loro, forse memori delle sassate intercorse soltanto qualche
anno prima, e comunque trattenuti dal mio impaccio, il dialogo mancava. Così, chiuso
nel mio abito color cammello in corsa, anche quella sera me ne stavo muto e solitario,
appoggiando le spalle contro lo stipite di una porta, a fare tappezzeria. Quando...
Quando i miei occhi incrociarono lo sguardo curioso e divertito di Vitulia Surrenti, che
ballava un valzer con Donato Muscari. La salutai alzando una mano ritrosa, con due
sole dita aperte. Era bella, bellissima, ma certamente la cosa si sarebbe esaurita in un
po’ d’invidia per Donato, che la teneva fra le braccia, se, terminato il ballo, lei non mi si
fosse parata davanti ridacchiando, senza per nulla dissimulare che la causa del suo
spasso era costituita dal mio vestito.
“Mai visto un vestito così bello. Dove l’hai comprato?”
Naturalmente mi feci di brace. Avrei voluto rintuzzare il dileggio, ma non seppi trovare
il calibro giusto per una risposta. Il cervello mi era andato in tilt, la lingua mi si era
legata al palato. Non la vedevo da qualche anno. L’essere che rideva di me, di fronte a
me, pur essendo sicuramente Lia, non era più Lia. Era un’ammutolente bella signorina,
fresca ed elegante. Insomma la Deanne Durbin che un ragazzo di allora sognava.
Già la qualità supersudtirolese del loden che indossavo aveva cominciato a mettere a
disagio le mie ghiandole sudorifere, adesso la risata divertita di Vitulia, e più ancora la
posizione, che inopinatamente lei assumeva, di giudice, mi spensero la ragione.
Quando, sempre sorridente, mi sfiorò la guancia per il rituale scambio di baci, mi sentii
percorrere tutte le membra da un’ebbrezza mai provata, da una sensazione travolgente.
Eppure c’è qualcosa più potente dell’amore, ed è - non so come chiamarla - la stupidità,
l’ipocrisia, la soggezione alle mere apparenze. Comunque, cose che mi portarono a fare
la faccia da ebete, proprio mentre avrei voluto chiedere alla superiore volontà che regge
il mondo di farmela accarezzare ancora, d’inchiodarla lì, in modo che lei parlasse solo e
sempre con me.
“Vieni, balliamo.”
“Non so ballare.”
“E’ facile. Su, vieni, t’insegno io”.
Questa volta il sudore prese a scendermi a rivoli lungo la schiena. M’insudiciava la
fronte, le guance e il collo. La camicia e la cravatta mi strozzavano.
Poi, quello zampettare senza estasi né gioia - qual è il ballo per chi non sa ballare -
stancò Vitulia e mortificò me. “Lasciamo stare”, dissi e me ne andai in giardino a
incontrare me stesso. E lì compresi finalmente cosa volesse significare il nonno allorché
mi diceva: “Non mischiare mai il loro sangue con il tuo”.
*
L’inimicizia, appena dissimulata dalle formalità in uso fra parenti, la profonda
avversione che correva tra gli Alfano e i Surrenti aveva le sue radici in fatti lontani nel
tempo, lo si sapeva bene. Molto più difficile era appurarne le vere cause. Queste stavano
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in una nube tossica che aleggiava intorno alla figura di zio Ferdinando. La nube si
vedeva a occhio nudo; cosa ci fosse oltre era invece confuso, anzi misterioso. Un
mistero che doveva esistere obbligatoriamente, per non addolorare ulteriormente zia
Minicuccia.
Quando la incontravo, le baciavo la mano reverente e affettuoso. Lei, altrettanto
affettuosamente, mi chiedeva di tutti. Avute le notizie, si metteva a scuotere la testa.
Poi, appena la prima lacrima le imperlava le pupille, si allontanava senza dire altro. Con
il temuto zio Ferdinando, nel corso dei miei sedici anni d’esistenza, avevo sì e no
scambiato soltanto qualche parola. Peraltro, la sua vecchiaia non somigliava alla vitale
vecchiaia dei miei nonni. Si diceva in giro che la sua diabolica intelligenza funzionasse
ancora alla perfezione, ma si vedeva che le gambe lo reggevano male, i suoi pantaloni
erano sempre umidi davanti. In effetti usciva di rado e sempre in macchina.
Invece, nell’andare a scuola incontravo spesso suo figlio Totò, in quella fase bellica,
anche lui costretto a pedalare su una vecchia bicicletta per recarsi a Sottovento, in
tribunale.
‘U Siccia, questo era il nomignolo con cui la gente lo indicava, era un avvocato che
sembrava già maturo. Aveva soltanto qualche anno più di papà, ma sembrava un
cinquantenne. Come professionista era ben considerato, però si diceva che non avesse
molti clienti. E non tanto per il fatto che fosse antifascista (la gente se ne fregava di
simili preclusioni, si deve dire anzi che per un avvocato l’essere antifascista era la prova
di una personale indipendenza verso la legge, dalla quale i privati dovevano appunto
difendersi) quanto, piuttosto, per il fatto che la gente lo riteneva un jettatore. Cosicché
cautamente lo emarginava. Quando lo si vedeva spuntare, invariabilmente qualcuno
esclamava: “Mò ‘a siccia ti tingi”. I più toccavano ferro e chi poteva se ne stava alla
larga.
Invece a me Totò era simpatico. Il giudizio del paese mi sembrava ingiusto e cattivo. Si
sapeva che non era ricco. In altri tempi, l’Onorevole aveva dato fondo al patrimonio
familiare per spesare le sue costose permanenze romane e le ricorrenti campagne
elettorali. Molte proprietà erano state vendute, molti debiti erano ancora da pagare,
mentre la professione forense, se in qualche modo aveva dato dei buoni compensi al
padre, si mostrava poco generosa con il figlio. Che Totò se la passasse male, era
assolutamente evidente. Ed anche commovente. L’appassionata lettura di romanzi russi
mi metteva le lenti adatte per immaginare le angustie - a dir poco - di un padre che non
ha i mezzi per mantenere i figli studenti e studentesse; nutrirli, vestirli e tenerli al caldo.
Lo vedevo infelice e tuttavia sforzarsi d’essere socievole, anzi mellifluo. Pensavo: “I
pregiudizi”... E lo salutavo. “Buongiorno, Totò”.
“Oh, mio caro. Buongiorno, mio caro... Molte lezioni oggi, eh ?... Virgilio, eh ?... Il
maestro di color che sanno, il donno Virgilio... Arma virumque canò... Troiaeque qui
primus abòris...”, recitava pasticciando un pochino.
Al contrario di me, papà non poteva soffrire il cugino e lo giudicava severamente. Le
volte che la mamma ne parlava, per commiserare le ristrettezze in cui la famiglia
versava, egli esclamava invariabilmente: “Ma perché non se ne va a Milano, invece di
stare qui a marcire? Così non mi toccherà più d’incontrare la sua faccia di jettatore.”
Difficilmente lo nominava, anzi li nominava. Intendo dire il padre e il figlio. Se c’era da
commentare una loro malefatta, sussurrava: “Lazzaroni con lo stemma araldico sopra il
portone!”
Se il loro nome sopravveniva mentre stava in compagnia di estranei, non diceva niente,
ma sorrideva amaro sotto il baffetto spagnolo. Non toccava ferro come tutti - non lo
faceva mai - ma posso immaginare che, nel caso, gli sarebbe piaciuto essere
superstizioso. Zio e cugino erano la sua bestia nera.
*
Papà chiuse il negozio nei primi mesi del 1942. Ma già prima era come se fosse chiuso.
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Due dei giovani erano partiti militari. Don Pantaleone, che ormai aveva poco da fare,
aveva trovato un impiego presso l’ufficio ammassi. Era rimasto soltanto il sofistico don
Aniello. Alla bisogna si chiamava qualcuno della ciurma, i cui componenti erano ridotti
alla fame nera. Le cisterne erano state requisite dalla prefettura per l’ammasso
obbligatorio dell’olio e il magazzino era stato diviso da un muro all’altezza della prima
navata.
La guerra si faceva più vicina e non passava giorno senza che i bimotori inglesi
mitragliassero la linea ferroviaria e sganciassero delle bombe. Andammo ad abitare nel
casino che zio Generoso aveva lasciato in eredità a mio padre. La Cavalera, che ne
aveva l’usufrutto, era morta l’anno precedente.
Il fronte interno, come allora veniva chiamata la popolazione civile, era in una
condizione non meno avvilente di quello combattente. La povera gente trascorreva un
altro inverno senza pane e senza fuoco. La paura cresceva e la demoralizzazione
straripava nelle nostre coscienze.
La famiglia di Vitulia era scomparsa dal paese parecchi mesi prima di noi, seppi
inghiottita dall’antica collina, dove possedeva ancora una vecchia villa.
Sicuramente avrei potuto raggiungere il luogo e vederla. Le lunghe pedalate non mi
spaventavano, né spaventavano gli amici che mi avrebbero fatto compagnia, ma non lo
feci. Anzi, volendo essere più chiaro, dopo il ballo, per molti giorni non ebbi altro
pensiero e bisogno che rivederla, dirle che l’amavo e chiederle se mi voleva. Ma poi
non mi muovevo. A trattenermi non era tanto la lontana e impubere ingiunzione del
nonno circa i sangui che non dovevano congiungersi (in effetti un pensiero del caso non
l’avevo, o non l’avevo ancora maturato), quanto uno strano pudore. Non volevo che la
gente sapesse, o capisse che ero innamorato. E questo, nello stesso momento in cui
sentivo l’opposto impeto di urlarlo ai quattro venti.
Poi, lontan dagli occhi, lontan dal cuore, improvvisamente mi innamorai di un’altra, a
nome Elsa.
Per quel poco che si andava a scuola, Elsa frequentava le magistrali. Era bionda, alta e
forte, molto probabilmente titolare di un DNA tenacemente sopravvissuto al lontano
passaggio dalle nostre parti, ottocento anni prima, dei barbari e intraprendenti normanni.
Portava delle trecce incredibilmente lunghe, per cui era anche diffusamente appellata
Ermengarda, in onore dell’ottimo Manzoni.
Durante la primavera, il mio travolgente amore comportò fatiche e rischi notevoli, e non
solo per me, ma per l’esteso gruppo degli amici. Siccome le scuole avevano chiuso i
portoni sul finire di marzo, in tutto il periodo successivo bisognò quotidianamente
raggiungere in bicicletta - onde renderle omaggio - il paesino dove abitava, posto a venti
chilometri circa da San Policarpio. L’omaggio consisteva nel girare per un’ora circa,
sempre in bicicletta, intorno all’isolato in cui la vichinga aveva il suo malioso castello.
Poi, quando il sole calava, attendevo che la celestiale fanciulla scendesse nell’orto, in
modo che arditamente potessi stringerle una mano attraverso i robusti pali della
staccionata. Anzi, mi pare - ma non sono completamente certo - che nel corso di tali
furtivi incontri ci sia scappato pure un fugace bacio, reso possibile, anzi facilitato da due
pali storti, i quali, oltre al passaggio delle mani, consentivano l’accostamento delle
punte dei nasi. Mentre ciò avveniva, qualche inglese impertinente sventagliava raffiche
di mitraglia sulla rocca della Rocchetta. Nel contempo il vasto popolo dei miei
compagni ciclisti intratteneva non altrettanto casti conversari con le ragazzotte che,
richiamate dal nostro intenso ronzare in bicicletta, si affacciavano alle finestre delle loro
case, più basse e meno difese di quelle del maniero.
Il fiorire di tali disinvolti amori ciclistici avrebbe sicuramente favorito il mio, ancor più
travolgente, se non mi fosse capitato d’innamorarmi anche di Assuntina, la quale era
una contadinella mora, tenera e flessuosa, del tipo danza del ventre, nostra vicina di casa
nel luogo dove eravamo sfollati.
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Qui non c’era la staccionata, quindi le cose andarono un po’ oltre. In mancanza dei pali,
c’erano però il fucile e il coltello di suo padre, cosa che mi consigliò una certa
prudenza. Ma la calma mi mandò rovinosamente in tilt. Presi a rimproverarmi
l’evidente incostanza. Improvvisamente mi scoprivo capace di infedeltà e tradimenti.
Peggio, incapace di dominare gli impulsi della carne e di tracciare un solco lineare in
cui far marciare i pensieri e i sogni.
Qual mai amletico Romeo ebbe altrettanti e tremendi dubbi? E certamente, se non fossi
stato il ragazzo controllato che ero, quei mesi di congiuntura tra bombardamenti inglesi
e bombardamenti americani, i miei amici e confidenti li avrebbero vissuti con molto
fastidio.
*
Nei primi mesi di quell’anno m’incontrai con due parole che oggi la televisione ci
somministra a colazione, pranzo e cena: inflazione e svalutazione.
Debbo confessare che neppure dopo averle afferrate mnemonicamente riuscivo a capire
di cosa in effetti si trattasse, né a rendermi conto del perché spaventassero enormemente
i miei. Certamente non ero tanto distratto da non notare la presenza del mercato nero e
dei corrispondenti prezzi, ma debbo dire che continuavo a spiegarmi il fenomeno con la
dicotomia ricchi e poveri: i primi in condizione di comprare pane, pesce, carne e
quant’altro, i secondi impediti a farlo. Ma, per i miei genitori, la questione era ben altra.
Per la precisione - finalmente capii - di vedersi evaporare dalle mani i cospicui risparmi
familiari. Si trattava, ben sapevo, di una somma considerevole, con la quale si sarebbero
potuti comprare, o far costruire, parecchi palazzi e aprire un nuovo deposito. Con
l’inflazione quei soldi avrebbero perduto ogni valore, e se fossimo stati sconfitti - come
ormai appariva razionalmente non dubitabile - sarebbero bastati appena ad acquistare
qualche chilo di patate, come era accaduto in Germania alla povera zia Wilma. Un altro
chilo di patate sarebbe stato il controvalore della dote materna, costituita da 300 mila
lire in buoni del tesoro. Insomma, saremmo stati belli e rovinati nel volgere di qualche
mese.
In una situazione non migliore si sarebbero trovati i vecchi zii materni, i fratelli della
nonna Fazio, e i loro figli e nipoti, in fama d’essere anche loro milionari. Cominciarono
allora, nella famiglia allargata, dei gran consulti, ai quali mi fu permesso d’intervenire
data l’eccezionalità del momento. L’ardimentoso zio Rosario, prendendosi in tal modo
una storica rivincita sui prudenti fratelli, propose di mettere assieme tutte le risorse e di
costruire un secondo sbarramento subalveo per l’irrigazione, questa volta a nord del
paese. L’idea era buona, ma la sua applicabilità era subordinata non tanto alla difficoltà
di ottenere l’assegnazione del cemento necessario e di trasportarlo, per oltre cento
chilometri, sotto l’infuriare dei bombardamenti, quanto a quella di ottenere in breve
tempo l’autorizzazione prefettizia a sbarrare il fiume.
A sua volta zio Bixio, che era scappato dalla Sicilia con i figli, le nuore e i nipoti,
propose di costruire una distilleria con degli alambicchi fabbricati artigianalmente.
L’uva c’era, e sicuramente la guerra non avrebbe toccato i vigneti. Quest’idea apparve
anche migliore della prima e la raffineria sarebbe stata certamente avviata, se i bolli
della guardia di finanza non fossero arrivati a guerra abbondantemente finita.
Ci furono altre proposte, ma tutte difficili da mettere in pratica. Alla fine la mamma
sbottò dichiarando che, in quel particolare momento, l’unico investimento serio
consisteva nel comprare della terra. I soldi c’erano, in campagna si poteva fare a meno
del cemento e del prefetto; la terra stava inchiodata lì e nessun inglese o americano
avrebbe potuto portarla via. Ma non la vinse. Quantomeno non l’ebbe vinta subito. La
maggioranza degli zii decise d’andare a chiedere consiglio al Senatore De Ruocco, un
illustre mercante, il quale s’era arricchito nel corso dell’altra guerra. Il Senatore era
sfollato nelle campagne del Marchesato, cosa che significava un viaggio di
centocinquanta chilometri, non esente da pericoli. Su questo punto l’opposizione di mia
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madre salì di tono. Andare a Crotone era cosa facile a dirsi, ma difficile a farsi. Le
incursioni aeree erano ormai così frequenti che affrontare un tragitto del genere
equivaleva all’esporsi in prima linea. La strada e la ferrovia erano tenute sotto tiro di
giorno e di notte.
L’idea del treno venne subito scartata. Ne passavano ormai pochissimi e senza alcun
rispetto degli orari. Si trattava di convogli ridotti al rango di tradotte militari e spesso
carichi di armi e munizioni. C’era ancora un treno passeggeri ogni giorno, il cosiddetto
Bari che, fatti i debiti trasbordi nei punti in cui la linea era interrotta, portava militari in
licenza dalla Sicilia in Puglia e viceversa. In stazione si potevano persino avere notizie
circa il suo mutevole orario, cosa che offriva la possibilità teorica di servirsene. Ma
bisognava anche accettare l’alea di rimanere fermi in qualche stazione per un tempo
imprecisabile, se sulla linea c’era o c’era stato un bombardamento.
“No, non fare pazzie. A Crotone!... C’è il rischio della vita... E poi lo sappiamo bene a
cosa pensa questa gente...E’ gente che si è arricchita durante l’altra guerra con il
contrabbando... magari facendo la spia per i tedeschi. Mettersi nel contrabbando non è
cosa per te... Per queste cose c’è il carcere... la fucilazione alla schiena...I soldi si
possono rifare, la vita no...Il disonore...”
“Pizzeche e vasi non fanno pertusi. Non c’è niente di male che vada a sentire. Di un
commerciante si tratta, non d’un bandito... Don Ernesto è senatore del Regno, e scusate
se vi pare poco...Ti sembra mai possibile che uno come lui si mette negli impicci?”
Ma la paura di mia madre si autoalimentava. La sua sfiducia verso ogni forma
d’impresa, che non fosse quella agricola, era riemersa nel corso degli ultimi mesi di
guerra, e con essa la sua foga intimidatrice. Proprio il giorno della decisione, lo shock di
un cannoneggiamento navale fece crescere la tensione in famiglia. A sera, ella pose
apertamente il veto. “Tu da qui non ti muovi, o me ne vado con i ragazzi da mio fratello,
in Sicilia.”
“Vattene pure in Sicilia, ma io la figura di chi prima s’impegna e poi si ritira, non la
faccio.”
La mamma non andò in Sicilia e papà andò all’incontro. Anzi noi – lui e io - andammo
all’incontro. In fondo, le bombe nemiche ti potevano colpire anche a casa. Eravamo
nelle mani di Dio.
*
Per il viaggio fu adottata la lussuosa Isotta Fraschini di zio Bixio, dio solo sa con quali
arti salvata dalla requisizione. Pippo, il figlio maggiore, eletto nocchiero, approvò la
mia presenza. Gli avrei potuto dare un aiuto nel caso di forature. Si trattava di
un’eventualità tutt’altro che remota, essendo ormai tutte le gomme delle poche auto
ancora in circolazione ridotte a un velo. Tanto consunte erano quelle dell’Isotta
Fraschini che Pippo si portò dietro ben quattordici ricambi, ovviamente rappresentati da
gomme ancor più usurate di quelle montate.
Don Ernesto De Ruocco - o per meglio dire il Senatore De Ruocco, o più sinteticamente
e antonomasticamente il Senatore e basta - era stato elevato dal re al laticlavio per via
del suo plurimilionario portafoglio, e non invece, come oggi si potrebbe essere indotti a
immaginare, per benemerenze politiche. Bisogna poi precisare che i suoi meriti erano
piuttosto fondiari che commerciali, perché, ancor prima che il vero padrone della
Società Commerciale Jonica, era un grande proprietario terriero; proprietà - si diceva -
equamente divisa tra Parma, l’Agro nocerino e il Marchesato di Crotone.
Nonostante il rango, il Senatore si diceva fosse persona alquanto affabile, disponibile,
senza puzze sotto il naso, oltre che molto intelligente, abile negli affari e addentro nelle
segrete cose dello Stato e dell’economia nazionale, nonché a contatto personale con il
duce.
Partimmo che albeggiava. Un sibilante vento di tramontana spazzava la vecchia e
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disselciata nazionale. Il mare, in apparenza liscio come una tavola, era, però, segnato da
piccole creste di spuma bianca. E noi della costa sappiamo bene come ciò riveli che sta
fremendo sotto il contropelo delle raffiche.
I soldati tedeschi che incontravamo, per proteggersi il volto dalle sferzate, stavano con
l’elmetto incastrato dentro il bavero del cappotto; quelli italiani si attorcigliavano
intorno alle falde dei loro miseri pastrani. I vecchi contadini, che a quell’ora antelucana
si avventuravano a piedi dal borgo al campo, tirandosi dietro, nonostante le intemperie,
la moglie rinsecchita e i nipotini a frotte, procedevano curvi, quasi carponi. Altri
contadini, meno vecchi o del tutto giovani - forse militari in licenza - s’infilavano nelle
folate spingendo a mano la bicicletta, come se volessero perforare l’aria. Visti dalla
macchina in corsa parevano burattini impazziti.
Tenendo conto dell’inclemenza del tempo e delle condizioni della strada, l’Isotta
Fraschini procedeva velocemente e, fortunatamente, senza beccare un solo chiodo. Cosa
che si doveva al fatto che anche i cavalli e i muli erano stati requisiti, mentre gran parte
degli asini erano stati tradotti in gustosa mortadella.
Stavamo attraversando una parte di Calabria che praticamente non conoscevo: un
percorso fatto altre volte in treno, ma sempre di notte. Qui il paesaggio si allargava. La
montagna si distendeva e propagava verso il mare con un più lento degradare di colline.
Anche l’arsura della terra pareva essersi spenta. Il verde industriale degli aranceti aveva
lasciato il posto al triste neroverde dell’ulivo. La freschezza dei campi arati, lungo le
acclività collinari, addolciva i colori dolorosi del paesaggio. Un cielo tersissimo,
azzurrissimo, prendeva le distanze dai sottostanti, severi, terragni affreschi.
Intorno ai frequenti torrentelli, la folla chiassosa dei canneti si dibatteva sotto la
violenza delle raffiche, le cime degli antichi pioppi danzavano terrorizzate, le querce,
spavalde, sostenevano l’urto, però rabbrividivano esse stesse del proprio coraggio.
L’infuriare del vento incitava il guidatore a coniugare un vero rosario di bestemmie, che
da Cristo Salvatore Nostro scendeva giù, passando per i Santi Medici Cosimo e
Damiano, fino al cane di San Rocco. Le raffiche arrivavano violente e improvvise, e
Pippo faceva fatica a tenere le ruote dentro la strada. Le buche, di cui era disseminata,
gli facevano ballare lo sterzo in mano. Bisognava, però, correre quanto più si poteva, e
far presto. Avevamo scelto di partire all’alba, quando gli aerei erano ancora a rullare
sulla pista. Alle dieci, o magari alle nove e mezza, sarebbero arrivati per farci ascoltare
le loro cantate di morte.
Per fortuna, poco dopo le otto e mezzo eravamo già al casino del Senatore, immerso in
un bosco di poderosi ulivi.
Sotto l’oliveto era come se il vento si fosse placato. Soltanto le cime degli ulivi
stormivano protettive. C’erano due ragazzi della famiglia ospitante. Secondo il
Senatore, mi sarei annoiato. Per tal motivo - dopo averci mostrato dall’alto di un
terrazzino, lontane qualche chilometro, le Castella, un maniero medievale circondato dal
mare - mi affidò a loro. “Non andate per la via diretta. Prendete lungo il fiume ...”
La riunione mi avrebbe attratto di più. Ero ancora troppo giovane per non partecipare
alla vita della mia famiglia e per non essere sensibile ai suoi interessi. Tuttavia non
potevo proclamarlo proprio per via dell’età. I ragazzi non dovevano intervenire in certe
cose, questa era la regola. “Parra sulu quandu u gallu faci l’ovu”. Così me ne andai con i
due, ma invece di seguire i dettami del Senatore volemmo vedere, sia pure da lontano,
l’aeroporto.
In fondo la Calabria era zeppa di vecchi castelli in rovina, nonché circondata da un
vasto mare, sempre uguale a sé stesso, mentre, di aeroporti, non ne avevo mai visto uno.
Fu una grossa e mussoliniana delusione. Si trattava soltanto di terra spianata e coperta
da un cereale spontaneo a noi non noto. Pochi nidi di mitragliatrici, non si capiva bene
se ancora in funzione, una decina di carcasse di velivoli, una decina di carcasse di
camion, due o tre alti pali metallici, che forse avevano sorretto delle maniche a vento,
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poi portate via proprio dal vento, i resti sforacchiati di un edificio, probabilmente il
vecchio comando. Di aerei in funzione, neppure l’ombra. Solo un gregge a pascere e
degli avieri a far finta di fare il picchetto intorno all’alta rete, anch’essa sforacchiata a
ogni passo, ma questa volta, con tutta evidenza, ad opera di mani umane, per farci
passare le pecore.
Quando fummo tornati al casino, ovviamente, nessuno si curò d’informarmi circa i
consigli del Senatore. Dovetti ricostruirli faticosamente da me, attraverso i discorsi che
ascoltai durante il pranzo e nel corso della serata. Il punto era questo: l’inflazione, che
era già in atto, sarebbe sicuramente aumentata ancora, come era già capitato durante
l’altra guerra e nel successivo dopoguerra. Ciò avrebbe colpito i creditori. Il capitale
commerciale si sarebbe salvato solo acquistando merci e, poi, aspettando che il prezzo
aumentasse. Praticamente la via d’uscita era il mercato nero. La capacità d’acquisto
della moneta avrebbe ceduto quote rilevanti. Forse la metà, forse due terzi, o forse
peggio, perché questa volta l’Italia avrebbe perduto la guerra. Anzi, se Mussolini non si
sbrigava a chiedere l’armistizio, questa sarebbe arrivata sul territorio nazionale. La
trasformazione sociale sarebbe stata, sicuramente, di vaste proporzioni.
L’alternativa proposta del Senatore consisteva nella formazione di una società, da lui
diretta, con venticinque milioni di capitale, che avrebbe acquistato la Cassa Bruzia di
Credito. Nel caso di svalutazione monetaria la banca non guadagna e non perde.
Secondo il Senatore, una volta finita la guerra, sarebbe emersa una nuova classe di
ricchi, composta dai proprietari terrieri, che producevano gli alimenti, e da chi si
sarebbe inserito nel mercato nero. Impiegando i depositi dei nuovi ricchi, la banca
avrebbe potuto finanziare le attività dei soci.
*
La proposta non andò a genio alla mamma. Mettersi con la gente che ruotava intorno a
De Ruocco significava farsi aggiogare a un carro che percorreva strade tortuose. Quali
soci? Un’autentica banda di ladroni. Perché nessuno ignorava che alcuni di loro
corrompevano i capistazione e acquistavano per poche lire le merci contenute nei carri
che i bombardamenti avevano bloccato in stazione. - “No e poi no. Non voglio vederti
in galera. La guerra finirà. E non sappiamo ancora se gli inglesi ci ammazzeranno tutti.
In queste condizioni vuoi pensare al dopo? Ma se non vogliamo perdere il nostro
capitale, ci sono mille altri modi. E fra questi mille modi, il più tranquillo è quello di
acquistare un bel fondo.”
L’argomento era pertinente e papà appariva perplesso. Lo aveva toccato non tanto l’idea
delle prevedibili difficoltà, quando l’interrogativo sui compagni di strada. “Forse hai
ragione tu. Chi va con lo zoppo… D’altra parte, io non ho mai fatto il banchiere, e
quando non si possiede il mestiere, è meglio non mettercisi ... “
Alla fine decisero di dividere il tesoro in tre parti. Una l’avrebbero affidata a De
Ruocco, se non altro, per non disgustarselo: con la seconda avrebbero acquistato un
fondo, mentre con la terza avrebbero tentato di acquistare dei metalli preziosi, che
sarebbero stati sommamente utili se si fosse stati costretti, da uno sbarco sulle nostre
coste, a scappare al Nord.
La ritirata di papà caricò sulla mamma l’arduo compito di salvare i nostri danari dalla
svalutazione. Era un’idea alla quale non pareva volesse rinunziare, e tuttavia non
riusciva a trovare un braccio secolare per realizzarla. Gli zii erano vecchi, i cugini
innamorati di De Ruocco, altre persone difficilmente abbordabili senza lo schermo del
capofamiglia.
Sapemmo dopo che, guardatasi attorno, aveva concluso che ‘u Giomu, figlio di un
colono del nonno Ninai, ed egli stesso colono nel fondo ereditato da mamma, un
mafioso scaltro, duro, ma affidabile più di un familiare, era la persona che faceva al
caso suo. L’aveva perciò chiamato in disparte, e in segreto gli aveva spiegato il percome
e il perquanto.
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‘U Giomu che, come imparai in appresso, era sensibile all’idea di proprietà privata più
di un illuminista inglese, mise in moto la macchina dell’onorata società, nel cui seno, si
diceva, era una persona di spicco, forse il capo della ‘ndrina d’a Batìa. Nel giro di otto
giorni egli trovò quel che la mamma cercava: un esteso appezzamento di terra a pascolo,
trasformabile in terreno irriguo. Lo vendeva un anziano ufficiale, che ne aveva avuto
pieno mandato da una sorella altrettanto anziana, sposata a un signore toscano.
Una sera del giugno 1942 arrivarono al casino il notaio Brucculeri e il ragionier De
Luca, direttore della Regia Banca. Papà, mestamente, e mia madre, che aveva venduto
alla Banca i suoi buoni del tesoro, armata di molto spirito di rivalsa e con gran cipiglio,
acquistarono in comune l’indivisa terra denominata “Vasia” per la somma di lire
650.000 (seicentocinquantamila), “somma che il qui presente Ragionier Carlo De Luca,
intervenuto come sopra con procura istitoria allegata all’Atto, afferma liquida,
disponibile e trasferibile sul conto della venditrice contestualmente alla sottoscrizione
del presente Contratto di Compravendita”.
Il capitano medico Moccaldo, parente di certi nostri parenti casertani, al momento di
stanza a San Policarpio, nonché don Damiano Reale, lo scrivano del notaio, fecero da
testimoni al solennissimo atto, in base al quale “il qui presente dottor Generoso Alfano,
del fu don Paolo e di donna Maria Celeste Staibano, di anni quarantadue, commerciante
all’ingrosso, e donna Sara Alongi, del fu dottor professor Beniamino e della fu donna
Isabella Fazio, di anni trentanove, gentildonna, contraenti della cui identità io Notaio
sono certo”, divennero proprietari di una terra ex nobiliare.
Per l’occasione, si aprirono parecchie bottiglie di greco ben invecchiato. Bellicamente,
potei berne a volontà, per la qual cosa stetti male tutta la notte. Ma molto meno male di
coloro su cui piovevano le bombe che, tra un conato di vomito e l’altro, sentivo
esplodere al di là dell’Aspromonte. Papà e mamma mi stavano accanto, per il caso che
dalla sbornia non sortisse un maggior danno; lei pacificata, lui rannuvolato, potei notare
nonostante i fumi dell’alcol. Qualche giorno dopo gli chiesi il perché dello scontento.
“E’ finito un capitolo della mia vita. Adesso sono anch’io un proprietario. Che vuoi di
più?”
L’eventualità, a cui non avevo mai pensato prima, di mio padre senza il suo lavoro mi
lasciò perplesso. Quello splendido Alfano, che scendeva atleticamente le scale di casa
per raggiungere il suo negozio, quel signore che tutti riverivano, sufficientemente ricco
da poter spendere duemila lire per comprarmi, da un ufficiale tedesco, una magnifica
Leica, quell’agile nuotatore, quell’ardito velista, e - aggiungeva la mamma per gli ignari
– quel provetto schermitore; il mangiatore raffinato di quell’orrenda cosa a nome “le
cervella”; il fumatore impenitente, che adesso sapeva non soffrire per la mancanza di
sigarette; l’uomo distinto a cui le donne correvano dietro facendo impazzire di gelosia la
povera mamma; il padre mio e di mia sorella Celeste, che fra dieci o dodici anni si
sarebbe dovuta maritare, per cui bisognava preparare sin da adesso una dote all’altezza
degli Alfano; quell’uomo che sembrava nato per lavorare e guadagnare, non avrebbe
avuto più un lavoro, non avrebbe prodotto ogni anno centomila lire di utili con il suo
negozio, come già non le produceva più.
Cosa gli sarebbe rimasto? Ce ne saremmo andati, lui e io - similmente a quei gnuri che
mi aveva abituato a guardare con un pizzico di sufficienza - la mattina presto in
campagna a sorvegliare le raccoglitrici di olive? Ci saremmo forniti d’un fucile da
caccia, per sparare orrendamente a dei poveri uccellini? Chissà cosa c’è nel destino di
un essere umano la cui esistenza pare già disegnata, e per sempre!
In appresso, insistetti ancora con la domanda. La sua risposta mi riportò con i piedi a
terra: “Stiamo franando, figlio…E’ uno scivolone interminabile. Facciamo i passi del
gambero, una generazione dietro l’altra. Dietro le spalle di mia madre ci sono quaranta
generazioni…Da quando Napoli era un ducato bizantino…Cavalieri di Malta, generali,
banchieri, ministri, cardinali, abati…Cos’è rimasto degli Staibano? Neppure i
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“Vedi, figlio, la vita di un uomo è sua… Il giudizio su di sé e sul mondo sta dentro di
lui…Ma dove nasce, dove muore, come trascorre l’esistenza, quello che fa, quello che è
indotto a fare, non dipende da lui. E’ dove è nato, il suo paese…Un americano è più
libero di un cinese, un genovese è più libero d’un calabrese…E’ la storia…Sono i corsi
e i ricorsi…Non è filosofia, è la vita vera d’ognuno…
“Il commercio non chiude qui, è eterno. Ma quando quest’inferno finirà - sempre che
abbiamo salva la vita - non sarò più io a dettare le regole, ma chi avrà in mano i
capitali…Forse quelli che oggi fanno il mercato nero, forse i fornitori, forse le banche,
forse gli inglesi…E tu e Celeste?…La vostra indipendenza non sarà più vostro padre a
costruirla. Per te non c’è altro che la professione. Una miracolosa carriera, come quella
di tuo nonno Ninai, è un caso su mille. I più finiscono nell’impiego. E dovrai ritenerti
fortunato se avrai un posto di pretore, come Filiberto. Ma per un posto del genere devi
studiare…. Eccome, se devi! Se no ti tocca di fare il cancelliere…Che so, il maresciallo
dei carabinieri, della finanza! E per Celeste sarà anche più difficile.“
*
Quando ormai pensavo a lei solo di tanto in tanto – e solamente quando stavo per
addormentarmi - ringraziando Dio per avermela fatta perdere, in modo da non avere più
la materiale possibilità di trasgredire all’ingiunzione del nonno - lei ricomparve.
Avvenne a scuola, e proprio nella mia classe. Una tegola in testa mi avrebbe stordito di
meno. Le gambe mi si afflosciarono. Una sensazione simile l’ho provata soltanto dopo
moltissimo tempo – proprio da vecchio – quando un infermiere distratto mi praticò due
iniezioni di papaverina una dietro l’altra.
Caddi seduto nel mio banco, senza udire e capire più niente. Finita l’ora, Vitulia uscì dal
suo banco, venne verso di me, mi dette la mano e, come al solito, si protese per il rituale
scambio di un bacio sulla guancia. Il contatto fisico mi portò alle stelle e,
contemporaneamente, le buone maniere nel mondo della ritualità. Infatti seppi chiedere
come mai fosse lì, e poi come stava zia Minicuccia, come stava Norina, come stava
Totò, come stavano i fratelli. Dimenticavo sempre zio Ferdinando, ma non per colpa
mia. Vitulia mi spiegò che i nonni Aversano si erano rifugiati in un paesino della Sabina
e lei era tornata in paese per paura che un’invasione la tagliasse fuori dal resto della
famiglia. Aggiunse che adesso viaggiava con due altre ragazze. Un’intera ora di calesse
a scendere, due ore al ritorno.
“Il posto dove abitiamo è bellissimo. E’ in alto. Almeno cinquecento metri. Vedo tutta
l’insenatura, da punta a punta. Un sogno. Non sapevo che ci fossero posti così belli.
“Studiare con il lume è molto dolce. La luce è più morbida. Mi piace persino il cattivo
odore del petrolio.”
Tutti i giorni, alle undici, passavamo il quarto d’ora di ricreazione assieme, innamorati
senza dircelo, parlando di questo e di quello. Poi un giorno, a causa di un’incursione
aerea, abbandonammo la classe e corremmo verso il rifugio; una specie di trincea
scavata nel mezzo della strada. All’entrata, la calca era enorme. Era l’occasione sperata.
Come per un tacito accordo riprendemmo a correre, questa volta verso i campi non
lontani. Ci buttammo per terra, in un punto in cui il suolo si avvallava. E siccome a ogni
deflagrazione, Vitulia si aggrappava a me, io la baciai tutto tremante, come il mio
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comunisti ammazzavano chi la pensava diversamente; sulla Spagna, che non era una
repubblica ma propriamente un casino. Non parlava invece di quel nostro passato
borbonico, che tutti consideravamo fosco e vile - la negazione di Dio. Non ne parlava
per non andare al confino, ma tutti presupponevamo che fosse quello l’argomento su cui
gli sarebbe piaciuto dottoreggiare.
Sì, perché il mutismo, che ne faceva un uomo poco socievole in tutti gli altri rapporti, si
scioglieva quando poteva trattare di politica. E tuttavia la gente non amava intrattenersi
con lui perché era un interlocutore non solo strambo, ma anche presuntuoso; quanto più
informato, tanto più fastidioso. E poi quell’incubo che da un momento all’altro potesse
mettersi a inneggiare ai Borboni, faceva tutti guardinghi.
Sospinto, evidentemente, da tale preoccupazione, don Sarvaturi, l’edicolante, dopo
averlo lasciato tranquillo per dieci minuti, infilava una mano attraverso le metalliche
volute del suo chiosco e toccandogli la spalla diceva: “E mò, Micu, vattindi, ca mi cacci
i clienti” .
Mastro Mico grugniva, ma se ne andava. Si sedeva allora poco distante, su una panchina
di ferro, dando le spalle al sole, e stava lì fino al rintocco della mezza, cioè fin quando
suonava la mezz’ora dopo mezzogiorno. Stando a sedere, il rigido colletto del mantello
gli risaliva lungo la nuca. Senza che lui se ne rendesse pienamente conto, il cappellaccio
si sollevava dietro e si abbassava sugli occhi. Così messo, mastro Mico a me sembrava
meno orco. Allora chiedevo spiegazioni.
“Mammà, cos’è una Rinomata Ditta?”
“Una ditta famosa; una ditta di cui puoi fidarti.”
“E mastro Mico ha una ditta?”
come si stava cominciando a dire) non era quello appropriato. Si trattava piuttosto di un
“don” degradato: quello che sarebbe spettato al predetto Parisi, ove egli avesse
conservato i fasti della
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come risultava dalla targa bombata in lamiera nera, vergata con caratteri romani dorati;
tutt’attorno un fregio egualmente dorato e in cima uno stemma reale; targa che veniva
periodicamente ripittata e rifissata sulla possente colonna a sinistra della porta carrabile,
proprio all’entrata dell’orto, e che poteva rimanere lì dov’era, nonostante il divieto di
legge, in quanto, sosteneva mastru Micu, da ben tre generazioni i Parisi erano pronti a
“spaccare la testa a dominiddio, anche ai Reali Carabinieri”, se qualcuno avesse osato
manometterla.
Quella pubblica offesa al decoro della Patria, qual io la ritenevo, restava lì - sosteneva
invece mio padre - “perché nessuno la vede, essendo il luogo assolutamente fuori mano;
e poi, a leggere quell’epitaffio sgrammaticato sei rimasto soltanto tu.”
Quanto al ruolo di Sestia nel farci penetrare nello spiazzo recintato e ingombro di
montagne di trucioli e di seghe a nastro arrugginite, esso era minimo, poiché dell’intera
famiglia, composta di padre, madre, una vecchia zia e otto fra figli e figlie, soltanto il
citato mastro Mico tentava di interdirci l’accesso, svillaneggiandoci e prendendoci a
sassate.
Sentivo spesso dire che, tramontata la fabbricazione delle botti, mastro Mico aveva fatto
una fallimentare esperienza di “fabbricatore” di cassette per la frutta, e che dopo il
fallimento era stato costretto a prendere l’ascia in mano e ad acconciarsi a fare l’umile
mestiere del bottaio su commissione.
Che Mastro Mico fosse un bravo artigiano non v’era dubbio. Lo vedevo sbrigare
alquanto rapidamente e ottimamente, con l’aiuto di qualche discepolo, nonché di un
apparato di seghe speciali e di molta perizia con l’ascia, le commissioni di buttazzi che
gli facevano i produttori di vino. E tuttavia era diffusamente mal giudicato, perché non
solo era caristusu, ma anche arrogante nelle relazioni commerciali.
Come ho già detto, anche fuori il lavoro mastro Mico era mal visto e paventato.
Principalmente per quel passato innominabile che l’ossessionava. Bastava vederselo
spuntare davanti, perché riesumassero a livello della coscienza privata e sociale le
nostre responsabilità collettive verso l’idea santa di Patria: i Martiri di Gerace, il
tradimento dei fratelli Bandiera, il Vallone di Rovito, Carlo Pisacane, i contadini di
Sapri, e più lontano il Cardinale Ruffo e i corpi penzolanti di Francesco Caracciolo e
Luigia Sanfelice. Ma anche per la sua arroganza. Suppongo che difficilmente ci si
potesse imbattere in un simbolo umano più intonato di mastro Mico a rappresentare la
negatività dell’infame dominazione borbonica. In effetti era sufficientemente violento,
sufficientemente scostante, sufficientemente sconfitto per offrire una brutta immagine di
sé, e di riflesso dei suoi ascendenti politici e dinastici.
Passarono gli anni e facemmo amicizia. L’anno prima era scoppiata la guerra. Facevo il
liceo e quell’estate andavo a lezione privata da un bravo studente universitario per
riempire i vuoti che la scuola regolare, a causa della guerra, si lasciava dietro. Studiavo
l’intero pomeriggio. Scendevo a mare soltanto al tramonto. Oltre tutto mi piaceva. Sulla
spiaggia le persone erano poche e il mare, quasi sempre tranquillo a quell’ora, favoriva
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una bella nuotata. Era proprio l’ora in cui Mastro Mico, finita una giornata di lavoro,
usciva dall’orto e si dirigeva, lungo il muro di cinta, a passo lento verso un cespuglio
alto quanto una siepe, evidentemente per fare un bisogno. Dopo di che percorreva,
sempre lentamente, i venti metri che separavano l’orto dalla riva. Portava con sé un
lenzuolo. Qui giunto, si metteva dietro una barca, al riparo da sguardi estranei, e si
spogliava lentamente a cominciare dalle scarpe, ancora quelle alte, e dalle calze, che
probabilmente erano di lana. Alla fine si toglieva la maglia di lana e le mutande di lana,
e infilava il costume. Uno di quelli in uso vent’anni prima. Dopo di che si buttava in
acqua.
Ci rimaneva quieto e tranquillo alquanto tempo. Poi cominciava a urlare: “Don Paolino,
don Paolino, che ora è?”
Glielo dicevo. Lui tornava a riva, si copriva con il lenzuolo e si toglieva il costume
bagnato. Per pudore, non avendo una terza mano, lo faceva con mille contorsioni onde
reggere il lenzuolo e contemporaneamente far scivolare l’indumento. Poi, coperto in
modo da richiamare il ricordo di Catone il Censore, si sedeva vicino a me e cominciava:
“Sapete, don Paolino?…Ma voi fate il liceo, è vero? … Potete capire. Sapete che la
guerra noi non la possiamo vincere?”
Cercavo di obiettare, ma lui: “Vedete, l’America non può restare fuori…Si tratta di
tempo…L’America vuole aiutare l’Inghilterra. Questo è un fatto. E’ un fatto anche che
l’Inghilterra non ce la fa più. L’America è ricca e potente. Quando entra in guerra si
trascina dietro l’Australia, il Canada, il Brasile, il Cile, l’Argentina… Manderanno i
loro eserciti in Inghilterra…. Milioni e milioni di uomini e da lì passeranno in
Germania…Un bombardamento navale su Rotterdam, su Amburgo, su un altro
posto…persino in Danimarca e poi sbarcheranno. La Germania non può fronteggiare le
flotte dell’America e dell’Inghilterra assieme…”.
Mastro Mico era un analista perspicace e puntiglioso, e io un buon ascoltatore. Parlava
di cose che io non sapevo e che neppure immaginavo. La sua informazione non veniva
dai libri ma dai giornali. Infatti parlava di tutto, meno che delle cose che si studiano a
scuola. Spesso s’era fatto buio e noi eravamo ancora sulla spiaggia, lui a parlare, io ad
ascoltare.
*
La tragedia scoppiò nel febbraio 1943. Ai primi del mese, mastro Mico venne a diverbio
con don Pasqualino Baggetta, gestore del Consorzio Agrario, il quale aveva messo in
esposizione, proprio dinanzi alla porta del negozio, delle botti fatte venire dalla vicina
Serra. Si sapeva che su questo punto c’era un vecchio contendere tra i due. Pare - ma la
verità non la si è mai saputa - che ci fosse una promessa del negoziante di non guastare
la piazza all’artigiano. Però i prezzi del mastro bottaio non tendevano al ribasso,
cosicché molti viticoltori erano a fare pressioni su Baggetta perché ne rompesse il
monopolio, importando botti da fuori. Come ho già ricordato, nel corso della guerra il
vino fu il solo prodotto agricolo - e un bene alimentare - non di-stribuito con la tessera.
Il suo consumo era entrato in una fase alta in quanto molto domandato dai soldati di
stanza.
In paese, scorreva a fiumi e gli agricoltori e i bettolieri pregavano la Madonna che la
guerra (magari senza morti) durasse in eterno. Comunque, l’aumento spropositato del
consumo aveva comportato un aumento della domanda di botti, a cui corrispondeva un
aumento dei prezzi di mastro Mico. E certamente una maggior pressione su Baggetta
perché lo scavalcasse. Alla fine, accusato di connivenza dal segretario del fascio, per
non perdere la concessione del lucroso Consorzio, egli si indusse a cedere.
Quando mastro Mico vide quelle novità forestiere, s’infuriò. Penetrò d’impeto nel locale
e subissò Baggetta di male parole, ribadendo l’assurda pretesa che soltanto lui, in paese,
aveva il diritto di vendere botti nuove. Forse in un altro momento Baggetta se la sarebbe
tenuta, ma a quel tempo il Consorzio Agrario era una pubblica istituzione controllata dal
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fascio, il quale certe private jattanze non le tollerava; specialmente poi se provenivano
da chi dava l’impressione di barcollare in materia di fedeltà al Duce e al Re, e faceva
supporre pensieri sovversivi, mentre la Patria era in armi. Per tal motivo don
Pasqualino, titolato esponente della pubblica e consortile Autorità, intese fosse un suo
preciso e istituzionale dovere di placcare l’irriverente energumeno. Tentò di farlo con
l’aiuto dei propri dipendenti, ai quali - forse - dette anche l’ordine di pestare l’invasore.
Ma il Mastro era parecchio prestante, così sbaragliò con una sola manata gli assalitori,
quindi, estratto un coltello, intimò a Baggetta di farsi avanti.
Quando questi si trovò faccia a faccia con l’amico/nemico tradito – un coltello in mezzo
- la situazione si mise a suo sfavore. La dea Paura gli ispirò il consiglio. In appresso la
sentii raccontare in mille modi diversi. In realtà nessuno udì gli argomenti con cui don
Pasqualino perorò la sua salvezza, ma sicuramente le parole dovettero essere
grandemente eloquenti, se la furia di mastro Mico fu dirottata verso un diverso,
imprevedibile bersaglio. Infatti, abbandonata la sua preda consortile, l’infuriato mastro
percorse, urlando “traditori... traditori”, i venti metri che lo separavano dalla sede della
Banca e, penetrato come un rapace nelle stanze interne, alzò il coltello sull’esterrefatto
ragionier Pisanti, il nuovo direttore, e glielo conficcò in mezzo al petto.
Il poveretto fu dichiarato salvo solo dopo tre giorni trascorsi tra la vita e la morte, e
soltanto per merito del dottor Arrigo, chirurgo emerito, il quale aveva fama di non
essere al primo dei suoi miracoli.
*
Nonostante la guerra e le privazioni, nonostante che i bombardamenti si fossero fatti più
frequenti da quando gli americani s’erano impadroniti dell’Africa Settentrionale,
quell’improvviso volgersi in tragedia di una farsa, che prima divertiva solo gli
sfaccendati sconvolse tutti.
La mia famiglia ne fu toccata in modo immediato. Infatti, gli anni erano trascorsi
inutilmente: Sestia era ancora zitella. Il suo fidanzato era andato in Etiopia, in cerca di
fortuna. Prigioniero o morto, non aveva più dato notizie di sé. Come ricamatrice, Sestia
aveva fatto progressi straordinari, ma le commissioni erano poche, e non solo per lei;
ormai per chiunque. Non erano sicuramente giorni in cui pensare ai corredi ricamati. Il
tempo che trascorreva a casa nostra l’aveva trasformata in una specie di non remunerata
dama di compagnia di mia madre.
La coltellata inferta al ragionier Pisanti fece scattare la pubblica commozione. Tutto il
paese s’interrogava. Il pubblico dibattito si svolgeva la mattina presto, allorché si
riteneva che gli aerei nemici non fossero ancora decollati. Aveva inizio alla Cancella, il
mercato coperto, e proseguiva sui marciapiedi del centro. I due fratelli Panajia, Nicola,
dottore, e Gaspare, ingegnere, ne erano gli speaker per pubblico riconoscimento. Si
trattava di signori molto distinti, e in tutto il resto anche molto riservati. Ultimamente,
però, pareva che avessero perduto ogni freno inibitorio. Erano, infatti, sempre in giro a
parlare di politica. Proprio tutto il contrario degli ordini mussoliniani pittati sui muri con
la vernice: “Taci, il nemico ti ascolta!”
Per salvarsi, quale argomento aveva usato Baggetta in quel momento drammatico in cui
stava di fronte a un coltello brandito? Non c’era dubbio alcuno, aveva accusato la Banca
di un vero misfatto ai danni di Mastro Mico. “Sicuramente le cassette”, tutti lo
giuravano.
Raccontava il dottore Panajia che, circa vent’anni prima, Mastro Mico, vedendo
deperire l’avita industria di bottazzi, aveva tentato una diversa attività. Richiamato in
guerra, durante i periodi in cui il suo reggimento aveva qualche mese di riposo nelle
retrovie, aveva notato che le classiche ceste intrecciate, che gli ortolani usavano per
conservare e trasportare la frutta, a volte lasciavano il posto a semplici ma solide
cassette di legno. Gli fu facile immaginare che gli esportatori agrumari di San
Policarpio le avrebbero adottate volentieri in sostituzione delle ceste di castagno
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rivestite di tela di sacco, in quanto si prestavano più delle ceste a costruire, nei depositi,
delle alte pile di merce.
Già pratico del lavoro del legno, Mastro Mico mise insieme i superstiti capitali
familiari, comprò le macchine necessarie e aprì un cassettificio. L’iniziativa ebbe
successo. Le richieste arrivavano anche dalle piazze vicine. Naturalmente il prezzo delle
sue cassette era diverso a seconda del legno impiegato. Se erano di faggio costavano di
più, mentre quelle di pioppo avevano un prezzo più basso, e perciò erano le più richieste
dagli esportatori, il cui ricavo non era determinato dalla qualità della confezione, ma da
quella del contenuto.
“Ora – diceva sempre il dottore - essendo la nostra zona piuttosto ricca di faggete che di
pioppeti, Mastro Mico prese a comprare tavolame di pioppo nei paesi del Cosentino.”
L’ingegner Panajia rimarcava che, dopo la Prima Guerra, l‘immenso bosco, da noi
chiamato la Foresta, che faceva parte dell’appannaggio reale, era stato concesso ai
fratelli Radler, degli invisibili tedeschi rappresentati sul posto dal ragioner Mittiga. Gli
affittuari erano parecchio interessati al commercio del legno di castagno, con cui, fra
l’altro, i montanari fabbricavano le ceste per le arance e per i limoni da imbarcare,
diretti in Inghilterra e i paesi del Nord. Però il legno di castagno non si prestava alla
lavorazione delle cassette.
Insomma, l’iniziativa di Mastro Mico aveva recato pregiudizio agli interessi di quei
signori. Ma egli, lo sappiamo, non teneva in alcun conto gli altri. Né, in questo caso, era
tenuto a farlo.
Il primo anno, gli affari del Mastro erano andati gagliardamente. Le sue cassette
avevano fruttato quasi quanto i barili del nonno. Ma si era trattato soltanto di profitti
contabili, perché, quanto a danaro contante, Mastro Mico ne aveva incassato ben poco.
Anzi più cresceva lo smercio, più crediti segnava a libro. Pare infatti che chi doveva
pagarlo aspettasse l’arrivo di una rimessa inglese o francese; e che questa, prima
d’imboccare la via della Calabria, dovesse essere trasformata in lire dalle autorità
romane. Pare, inoltre, che dette autorità se la pigliassero molto comoda per quanto
atteneva alla trasformazione.
Cosi andando le cose, il povero mastro era venuto a imbattersi in una brutta crisi di
liquidità. Non piacendogli mancare di puntualità con i fornitori e con gli operai, il
nostro fabbricatore si era presentato in banca a chiedere che il finanziamento di cui già
godeva fosse aumentato. Il poveruomo aveva le carte in regola per ottenerlo, e invece
gli era stato risposto che, avendo il governo bloccato il credito, la banca era costretta a
rifiutare ogni nuova esposizione.
La risposta non era apparsa credibile. Si era preso a sussurrare che la banca veniva
influenzata dai Radler, i quali – si sussurrava inoltre – vi depositavano decine di
milioni. Altre banche a cui rivolgersi non c’erano. Non restavano che gli usurai. Non fu
mai chiarito se Mastro Mico fosse veramente approdato a quella sponda. Di sicuro era
avvenuto che, perduta alquanto la bussola, egli se ne andava in giro invocando ad alta
voce l’ombra del nonno. E non solo: anche quella di Ferdinando II.
La stramberia aveva fatto scalpore. Tanto che il sindaco del tempo, persona in forte
odore massonico, si era sentito in dovere di convocarlo e di redarguirlo severamente.
Qualche giorno dopo la commedia si era volta al tragico. A petto di una fattura di chiodi
di appena settecento lire, la cui tratta era tornata insoluta al venditore, il Tribunale di
Sottovento aveva dichiarato il fallimento della Rinomata Ditta, nella sua nuova, nipotile
versione di cassettificio. Da quell’evento erano trascorsi vent’anni e il paese, impotente
di fronte al mutare delle umane sorti, l’aveva quasi dimenticato. Il fallito mastro Mico,
per campare la famiglia, aveva ripiegato sul mestiere di bottaio. Ma la sua caduta era
somigliata a un tonfo; una famiglia, che stava ancora in alto, si era ridotta a navigare
alla deriva. Di conseguenza non tutta la testa del povero mastro aveva retto.
Adesso il sangue d’un innocente forestiero metteva il paese di fronte all’esigenza
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morale di giudicare un suo componente. Persino di fronte alla propria storia collettiva.
Non solo quella recente, ma anche quella lontana, con tutta la questione delle botti
borboniche e della Rinomata Ditta.
In buona sostanza – spiegava il dottor Panajia - il tentato omicidio di Pisanti era la fine
di un capitolo iniziato intorno al 1830, quando i Parisi non fabbricavano ancora botti ma
già fornivano barili al Reale esercito, che in paese aveva una fabbrica di salnitro.
Bisognava stabilire cos’era stata veramente la Rinomata Ditta, e se mastro Mico
dovesse o non dovesse accettare il suo destino. E se potesse, esso Destino, comportare
la follia.
“Insomma, Parisi non è il colpevole, ma la vittima”, tuonava il dottor Panajia.
Al tempo dell’avo, la prosperità della Rinomata Ditta aveva superato i cinquanta
dipendenti; la stagione felice si era però conclusa intorno alla fine del secolo, allorché
l’olio aveva preso a partire per ferrovia, in sicuri carri-cisterna. Ma il vero colpo di
grazia le era arrivato qualche anno dopo, quando i fusti in lamiera avevano preso il
posto delle botti di castagno. L’olio, che in precedenza aveva rotolato in malsicure botti,
da quel momento prese a rotolare per le vie del paese, con moderna svagatezza in fusti
di lamiera, fino ad arrivare alla Piccola della stazione, dove veniva pompato nelle
cisterne ferroviarie.
Sicurezza certo, ma quanto lavoro aveva perduto la gente? Eziologica e successiva
quaestio: in detta congiuntura, cosa doveva e poteva fare la gente, l’indistinta
collettività, il paese, a propria difesa? Certamente non mettersi contro il progresso,
anche se veniva da fuori. E allora?
“Se ci avessero lasciato le Ferriere della Ferdinandea e l’Officina di Mongiana, quaranta
chilometri di qua, i fusti di ferro li avremmo potuti fare benissimo noi. Adesso non più”,
proclamava petulantemente l’ingegnere Panajia. Dopo di che voltava le spalle e se ne
andava insalutato ospite.
Diversamente dal fratello, conservava qualche paura e faceva il brusco. Non salutare
poteva significare che lui, a quella conversazione, non aveva mai partecipato. E sì,
perché l’affermazione che aveva lasciato cadere pareva a lui stesso un pericoloso inno al
passato. Un passato patriotticamente e anche fascisticamente da dimenticare, e persino
ragionevolmente dimenticato.
A spiegarlo era lui stesso. - “Al punto a cui sono arrivate le cose, che senso ha farsene
assertore e paladino?... Solo un pazzo come mastro Mico... Ma il sottoscritto, ingegner
Gaspare Panajia, Politecnico di Torino, voti 108 su 110, Maggiore del Genio, medaglia
d’argento al valore, un ponte sull’Isonzo proprio sotto il martellante fuoco nemico, più
volte ferito, pazzo non è”. In effetti non lo era, era anzi l’Ingegnere per antonomasia.
Se ne andava, ma, registrato che attorno non c’erano i noti delatori, tornava sui suoi
passi. - “E non venite a dirmi che si trattava di roba vecchia, che non funzionava, perché
altrove ha funzionato. Eccome se ha funzionato... Sicuro... e qualche pezzo certamente
funziona ancora!”
Il professor Vittorio Russo, che insegnava letteratura alle magistrali, prendeva cappello.
“Ingegnere, voi siete pazzo! Allora i Malavoglia dove li mettiamo? Il processo storico,
l’avvento del capitalismo, i retaggi feudali…l’inettitudine delle nostra borghesia…
Benedetto Croce?”
“Sì, croce e delizia, delizia al cor…” Questa volta l’ingegnere se n’andava veramente.
Perdere altro tempo sarebbe stato da sciocchi. Sapeva che la peculiarità dell’argomento
costituiva il miglior alibi per la comune voglia di quieto vivere. “Ma che ne sappiamo
noi di fonderie!”, e gli astanti avrebbero fatto muro di gomma.
*
Se la gente restava inerte di fronte alle incazzature di Panajia, non aveva tutti i torti. Le
idee erano sommamente confuse in quella materia. Fare e disfare era compito dei
governanti. Era soltanto puerile - sostenevano i benpensanti - star dietro a Panajia, il
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quale era indubbiamente un ottimo ingegnere, ma quanto a presunzione, era meglio non
parlarne. Si ripiegava, ovviamente, sull’avverso Destino. Perché, oltre al destino dei
singoli, c’era un destino delle collettività, dei paesi e paesini. A tal riguardo, anche se
nessuno era così retrogrado da parteggiare per mastro Mico a proposito delle botti, le
quali evidentemente non potevano reggere il confronto coi fusti, molti dubbi
sopravvenivano a proposito delle cassette, nonché sulla funzione della banca.
“Ma quale destino!…Il governo…il governo…”, urlava don Nicola, il dottore.
“Sì, dillo forte, così finisci al confino.”
“Ingegnere, Ingegnere...”, chiamavo. Mi appostavo con Dino all’angolo del Caffè
Ritorto, aspettandone il passaggio.
Lui si voltava spaurito, ma vedendo che ero soltanto io tornava a sorridere.
“Ah, sei tu Paolino...E a scuola...?”
“Ingegnere, cos’è ‘sta Ferdinandea, che voi dite...?”
“Tutto pare aver congiurato contro...Allora non hai capito niente…La banca… la
baaannncccaaaa…”
“Sta cazza di banca…”
La gente aveva un moderato timore di Dio e delle sue giuste punizioni; aveva anche un
certo qual timore dell’arciprete, che ogni domenica ricordava ai fedeli che chi ama i
soldi non ama Dio; ma quelli erano timori domenicali, che non spostavano di un ette le
coscienze e i comportamenti feriali. La banca, invece, incuteva una paura concreta, reale
e feriale a chicchessia, anche alle persone più sveglie e pratiche della vita. Chi avesse
per caso bisogno della banca, si doveva considerare un uomo finito. Essa era un’autorità
severa con i non abbienti, questo lo sapevamo. Ciò di cui andavamo prendendo
coscienza soltanto in quel momento era la sua insospettabile fellonia. Qui il governo
non c’entrava; il terreno era libero. Anche se fosse arrivata una spia, l’argomento non
era di quelli proibiti. D’altra parte, se fosse stata un’altra banca - una di quelle banche
milanesi arrivate a Reggio, come diceva papà, per intascarsi le rendite agrumarie -
qualche prudenza non sarebbe mancata. Ma per questa banca tutta meridionale, no. La
gente l’aveva proprio sullo stomaco e la criticava. Era un’istituzione arcigna e avida,
mancante di qualunque socievolezza e, diremmo oggi, di democrazia. Dava con due dita
e riprendeva tutto con mano perfida, e pure l’aggiunta. Anche i ragazzi l’odiavano.
*
“Sta stronza di banca…Io non la posso vedere…”
“Neppure io”.
“Ci ha rotto a tutti.”
La cosa ci cresceva nell’animo. Le bombe nemiche, le sconfitte su tutti i fronti, lo
sfollamento, la paura, la carestia, l’inganno mussoliniano, l’immiserimento di tutto ci
conducevano a mettere inconsapevolmente una pietra tombale su molti miti del passato.
Tutto era divenuto falso e miserabile. E poi si sa, i ragazzi sono meno tolleranti,
accomodanti, prudenti degli adulti. Personalmente, poi, mi sentivo dentro un bisogno di
rompere l’attesa, avevo paura che domani Vitulia potesse non volermi più.
“No, la Regia Banca, proprio non la posso vedere…E poi quella faccia di culo del
cassiere Murdocca…Ce l’ho sullo stomaco, ecco…”
“Per il momento te lo tieni…”
“Mi tenarrìa ‘a cugnata, chilla bonazza… Illa sì …ma illu!… La prossima volta che
viene al campo e lo vedo tifare per la squadra dei militari, gli sparo una pallonata in
mezzo a quella faccia di culo, che porta sfortuna…”
“Sì, ‘nci fai na carizza…”
“ No, ‘nci sfasciu i vitrini, si vo’ mu sai…”
Gustino voleva riferirsi alle lenti, ma ci fu chi pensò alle solenni e costose vetrine della
Banca, da poco ripristinate dacché lo spostamento d’aria provocato dall’esplosione di
una bomba le aveva mandate in frantumi. A partire da quel momento, esse divennero il
nostro obiettivo militare. Bisognava rompergliele, e poi rirompergliele ogni volta che le
avessero rimesse nuove. Dovevamo, quantomeno, piegare quelle facce di culo dei
dipendenti, fino a portarli alla rassegnazione e alla pubblica resa: alla vergogna di
quattro fogli di compensato al posto dei vetri smerigliati.
I miei amici mi fecero l’onore di considerami il più ardito fra loro, oltre che un abile
fromboliere. “Scegli tu, chi deve venire con te.”
Logica avrebbe voluto che scegliessi Dino, con la fionda più bravo di me. Ma il fatto
che il padre fosse, per pubblico riconoscimento, un socialista, mi indusse a temere che,
se ci avessero scoperto, la sua colpa sarebbe stata strumentalmente estesa all’intera
famiglia. – “Faccio venire Michele ‘u Ndiano e Filici Tri Sordi. Sono bravissimi e non
corrono il pericolo d’essere esclusi da tutte le scuole del Regno”.
Infatti non frequentavano la scuola, ma una bottega d’artigiano. Erano coraggiosi,
affidabili e anche fra i più destri della mia ruga in materia di sassate.
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La sera successiva, ci appostammo fra i muri in costruzione della nuova clinica Arrigo e
aspettammo che scoccasse l’ora fissata. Era febbraio e si fu d’accordo di procedere al
tramonto. In controluce, difficilmente ci avrebbero riconosciuti. A quell’ora gli
impiegati erano ancora lì, a fare i conti, e l’alamarato usciere non aveva ancora
abbassato le saracinesche. Per godersi la scena, gli altri avrebbero finto una gara a tiro a
segno, al chiosco che un’impavida zingara teneva aperto in Piazza dei Martiri.
Alle quattro e un quarto, ora legale, tre sassi ben scelti fendettero l’aria. Fu un
capolavoro, uno vero schianto. La cristalleria affumicata, con al centro la cifra della
Banca graziosamente intrecciata in un arabesco, venne giù in tre secondi. Per un’intera
settimana i carabinieri, i vigili urbani, le guardie di finanza cercarono confidenze in
giro. Nessuno fiatò.
*
I vetri furono rimessi: due metri di finissime lastre, su tre porte. I vigili urbani, i
carabinieri, le guardie di finanza, i pompieri e, adesso, persino la truppa presidiavano
l’intera zona. Era impossibile ripetere l’impresa. Eppure questa era la sfida. Bisognava
farlo, e farlo anche a regola d’arte, questa la sfida per la ruga.
Via Speranza, partendo da Piazza Caricatoio, spartiva in due l’omonima ruga per tutti i
suoi trecento metri. Andava, quindi, a sbattere contro il muro di cinta della Villa
Sansalone, che occupava tutta un’area compresa tra il Corso e la Via Marina. Siccome,
superata la Villa, Via Jonio appariva la continuazione di Via Speranza, era facile intuire
che i due vicoli fossero, un tempo, un’unica via, lunga sei o settecento metri – forse la
strada centrale della Marina al tempo dei Borbone.
La villa era una costruzione nuova; nuova per lo stile e per l’insolita ubicazione in un
rione chiaramente ottocentesco, mentre, in paese, i nuovi insediamenti abitativi si
stavano sviluppando nella cosiddetta Zona Industriale, che al tempo della mia
adolescenza designava un’estesa ruga in formazione. Ma poi non tanto nuova, perché
risaliva certamente a una ventina d’anni prima. Il professor Sansalone era stato il più
apprezzato degli oculisti napoletani della generazione di mio nonno. Con i guadagni
della professione aveva potuto costruire una lussuosa dimora per la figlia Adele.
Al tempo del racconto il Professore era ancora vivo e vegeto, viveva a Napoli ed era
ancora attivo come professionista, anche se aveva lasciato la cattedra. Veniva in paese
soltanto una volta al mese, in visita alla figlia. Era questa l’occasione buona per tutti
coloro che avevano problemi agli occhi. Il suo arrivo in paese era infatti atteso, cosicché
aveva appena il tempo di scambiare un bacio con la figlia, il nipotino e il genero ché
subito doveva correre in ospedale a ricevere i pazienti. Se doveva operare, si fermava
più di un giorno, o veniva apposta. Era il medico meno venale del mondo. Chi poteva lo
pagava, e chi non poteva non solo non pagava, ma spesso riceveva un aiuto. Nei
racconti familiari, era anche l’amico inseparabile di zio Generoso, con cui condivideva
la cattiva nomea di femminiere.
Il risvolto romantico di tale inclinazione era proprio la figlia Adele, nata da una
relazione con una ballerina dell’avanspettacolo e affidata a una famiglia di contadini
delle Serre.
Quindici anni dopo, il su nominato Professore, andandosene a caccia con il su nominato
zio Generoso, incontra una fanciulla che regge in capo un fascio di rami secchi. La
guarda per caso e si accorge che la fanciulla è il preciso ritratto di sua madre. Superfluo
raccontare il resto. Un romanzo di Mastriani? La verità? Il romanticismo ne fa una cosa
sola, ed è bello proprio perché confonde la realtà con le fughe dalla realtà. In paese, la
villa era l’illustrazione migliore della ricchezza proveniente dall’esercizio di una libera
professione. L’abitazione era un edificio belle époque. Il vasto giardino che la
circondava era una splendida confusione di aiuole tenute a prato inglese e di palme
tripoline che, in numero di tre, erano piazzate al centro di ciascuna di esse. La somma di
undici aiuole dava 33. Molto bella, e sicuramente non allusiva, era l’inferriata che dava
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lavoro prima delle cinque. Alle quattro e venti uscimmo dal settimo tombino che
ricadeva nel recinto predisposto dai muratori. C’infilammo non visti nell’edificio in
costruzione, salimmo i gradini ancora grezzi, e raggiungemmo il balcone più prossimo
alle vetrine della banca. Rimanemmo, però, lontani dall’apertura, in un angolo morto sia
per chi guardasse da sotto, sia per chi guardasse dai balconi di fronte, quelli del palazzo
del marchese Cicero, che rappresentavano il pericolo maggiore, in quanto la casa era
piena di camerieri.
Ciascuno di noi edificò un sedile con dei mattoni forati e così, chiacchierando sottovoce
e con il cuore in gola, aspettammo le cinque meno venti, prefissate come ora x. Per
comprimere il battito del cuore, spesso, ci alzavamo e aspiravamo ed espiravamo
profondamente. Intanto recitavamo a bassa voce, a mo’ di tranquillante ante litteram, i
versi della Cavallina storna, che Fabio ci aveva imposto di mandare a memoria, dopo
averne fatto tre copie con la macchina da scrivere del padre.
I secondi trascorrevano lentamente. Così fermo, io avvertivo una sensazione di freddo.
“E’ la paura. E’ mai possibile che t’impressioni per una cosa da ragazzi?”
Il cielo era terso e il pomeriggio luminoso, tuttavia l’ombra era già lunga e il trovarci
contro sole avrebbe nascosto la nostra identità. L’ora si avvicinava lentamente, ma
all’improvviso ci fu un mutamento. L’alamarato usciere della Banca uscì prima delle
cinque, con in mano l’asta per abbassare le saracinesche. Nacque il dilemma se agire
immediatamente, sotto gli occhi di don Ciccio, oppure rimandare a domani.
Don Ciccio si spostò sulla strada che faceva angolo, per tirare la saracinesca a due porte
laterali non comprese fra i bersagli. “Via”. Innescammo il primo sasso, tendemmo le
fionde. Fu un capolavoro, un crollo irreparabile. I vetri affumicati vennero giù in tre
secondi.
Già avvertito dall’evento precedente, don Alessio, il proprietario del Bar Adua, con uno
straccio ad asciugarsi le mani e un grembiule intorno alla vita, apparve sulla porta
urlando. Dei pompieri che parlottavano fra loro, seduti al posto di guida di una vecchia
autobotte, non seppero far di meglio che avviare il motore con la manovella. Una
pattuglia di militi fascisti corse verso di loro. Don Ciccio, l’usciere, lasciata
precipitosamente cadere la saracinesca che stava tirando rispettosamente giù, sull’altra
via, apparve sull’angolo, con l’asta in mano, come un oplita sconfitto.
Qualcuno degli avventori del bar, che giocava a tressette nel retrobottega, venne fuori. E
venne fuori, passando sui vetri rotti, quella faccia di merda del cassiere.
Don Alessio, che subito intuì da dove proveniva l’aggressione, corse verso l’apertura
centrale dell’edificio, tirandosi dietro i clienti, i pompieri e i militi. Ma non poterono
scorgerci. Per consiglio di Fabio non avevamo commesso l’errore di attraversare i pochi
metri di terreno scoperto tra l’edificio in costruzione e il tombino. Restammo
nell’edificio per circa due ore, nascosti dietro il lucernario delle scale, per tutto quel
tempo recitando i versi di Pascoli, a titolo di tranquillante. Andammo via, sempre
attraverso la fogna, solo quando l’agitazione ebbe fine e si fu fatto buio pesto. Un quarto
d’ora di corsa carponi, al lume di una torcia elettrica, e fummo di nuovo a i ‘gghiandari,
dove Fabio ci attendeva più morto che vivo.
*
Mentre Mastro Cicciu ‘u Pàsseru provvedeva a sostituire con dei fogli di compensato le
ampie vetrate bancarie, qualcosa della bravata trapelò. La prima reazione arrivò da
fuori. Il cugino Civale, consigliere d’amministrazione della banca, scrisse a papà una
lettera raccomandata, in busta sigillata con la ceralacca, in cui diceva come fosse stato
sommamente spiacevole l’apprendere ciò che si sussurrava. Sperava che non fosse vero.
Comunque, dati i meriti acquisiti dall’Istituto presso le popolazioni meridionali, egli
mai e poi mai avrebbe immaginato un fatto del genere. Papà ne ridacchiò, invece la
mamma ne fu seriamente preoccupata: – “Questo brigante finirà in galera…” Subito
dopo anche papà dovette prenderla sul serio. Fu, infatti, chiamato dal Procuratore del
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Re. Per fortuna, questi era un suo amico e spesso nostro commensale. Dall’incontro
scaturì una specie di perdono per me e la degradazione della vicenda a ragazzata, in
cambio però di un solennissimo rimbrotto, e magari – sottinteso – di una dose di
solennissimi ceffoni.
Ma ciò su cui la Giustizia si era mostrata disposta a sorvolare, parve non fosse
perdonabile da parte della Casa del Fascio, la quale volle punirmi diversamente. Ma
forse, attraverso me, si voleva arrivare a incolpare Dino, che i fascisti immaginavano
l’istigatore se non il responsabile del misfatto, essendo suo padre uno di quelli che non
si curavano di nascondere la propria soddisfazione ogni volta che il Bollettino di Guerra
annunziava una batosta militare.
Comunque la pensassero, sta di fatto che fui incolpato d’aver compiuto “un’azione da
masnadiero” e patriotticamente imputato di sedizione sovversiva. Il povero mio padre
cercò di muovere tutte le pedine massoniche che poteva, ma non ci fu verso. A causa
delle periclitanti sorti della guerra, il fascio si era indurito. Il comando locale era passato
in mano a gente nuova. Niente più facce ben rasate di ricchi proprietari, ma volti scuri
di ex subalterni in fase ascendente. Venni severamente giudicato. Volevano sapere il
nome dei miei complici. Per averli usarono le blandizie, ma continuai a sostenere ciò
che mio padre mi aveva suggerito, cioè che ero un ragazzo studioso, come attestava il
mio curriculum scolastico, e che, come tale, non rientrava nei miei pensieri neanche
lontanamente l’idea di rompere i vetri a chicchessia. Per fortuna, nessuno osò
picchiarmi, come temevo. Fui tuttavia condannato a essere pubblicamente degradato da
capo squadra a semplice avanguardista moschettiere.
La cerimonia si svolse in un plumbeo sabato fascista del febbraio 1943. In Piazza dei
Martiri, gli Avanguardisti vennero schierati sul lato maggiore, i Giovani Italiani del
Littorio sul lato destro e le Giovani Italiane sul lato sinistro. Sul lato opposto al
maggiore c’era la formazione dei Balilla moschettieri (i Balilla semplici e le Piccole
Italiane furono lasciati a casa); il tutto in un ordinato e spazioso quadrato. In mezzo
stavano il Segretario, il Capitano Fimognari e altri capi; in seconda linea, a cavallo,
l’avvocato Furci, ispettore di zona, e altri cavalieri di pari rango.
Affinché non mi sottraessi alla cerimonia, guastandogli la festa, sin dal primo mattino
erano arrivati nella casa di campagna, dove eravamo sfollati, Ciccio, l’Asu ‘i Coppi, e
Vici ‘u Cagnolu, entrambi barbieri, in uniforme della Milizia Volontaria per la
Sicurezza Nazionale, i quali, tra mille scuse -“Noi non abbiamo nessuna colpa... Si vede
che sono impazziti... Un ragazzo come si deve...”- m’avevano scortato (per fortuna in
bicicletta) fino alla Casa del Fascio e poi vigilato a vista.
La coreografia messa in piedi rappresentava soltanto la parte umiliante della cosa; la
parte veramente preoccupante stava invece nella minaccia di un’espulsione da tutte le
scuole del Regno; minaccia appena sussurrata, ma alquanto realistica a causa della
grande importanza che i fascisti locali davano all’accaduto. Anche se in appresso
qualche volta mi è capitato di ricordare il passaggio solo per riderci sopra, debbo
ammettere che vissi uno dei momenti più drammatici della mia vita, con Celeste
sommessamente piangente, mia madre a mordere un fazzoletto, la nonna pietrificata,
papà muto e inebetito, a mescere bicchieri di ottimo vino ai due ceffi, mentre io –
racconta Celeste - sfigurato dal tremore represso, mi consegnavo senza fare resistenza.
La mamma volle essere presente all’oltraggio. Ricordava spesso che decisero di
presentarsi in piazza parati con i vestiti migliori. Lì, si raccolsero intorno a Celeste
piangente, sotto al monumento ai caduti, su cui, ironia delle cose, il primo nome del
lunghissimo elenco scolpito nel marmo era quello di suo fratello Tommaso.
“Non piangere”, mi dicevo e stringevo i denti. Data la risibilità della cerimonia, la sola
cosa importante era che resistessi alle lacrime.
Mi avevano messo in fila al solito posto: il primo a destra. Gli amici e i compagni
sfottevano sottovoce:- “E adesso come fai, ché ti sei giocata la carriera?” …”Sei fottuto.
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qui con la nonna…Per lei non c’è pericolo…Non può farcela, sono ore di cammino. Io
vi accompagno e torno subito…
“Alla Limina sono persone di fiducia…meglio che a casa vostra…Solo un po’ di
scomodità”.
L’8 settembre del 1943, sulla nazionale arrivarono gli angloamericani, i nemici. A
guerra non ancora finita cominciava per noi un’era nuova, ma non lo capimmo subito.
Ciò che vedevamo era la disfatta. Tra l’agosto e il settembre un interminabile fiume di
uomini in fuga attraversò il paese. Non ho un ricordo più amaro e pietoso di quello.
Venivano scalzi, con i piedi sanguinanti, affamati, coperti di stracci, sudici, il volto
sporco di barbe non rasate, i pori intasati di sudore e miseria; pronti a uccidere e a
subire per un pezzo di pane. Dormivano nei casalini abbandonati e semidistrutti dalle
intemperie, o lungo la scarpata della nazionale e della ferrovia. Qualcuno fu ucciso
perché trovato a rubare. Forse qualcuno di loro uccise anche, per rubare. Erano
soprattutto siciliani, padri di famiglia della riserva, militari imboscati negli uffici, ma
anche giovani che avevano combattuto in Jugoslavia. Qualcuno veniva dalla Grecia,
qualche altro dalla Russia.
I primi giorni la gente dette tutto quello che poteva, e anche di più, poi prevalse la dura,
umana/disumana legge della sopravvivenza. Oggi, nessuno ricorda più quella tragedia.
In appresso gli angloamericani dettero un aiuto. Gli sbandati continuarono a passare a
piedi, ma senza più stendere la mano e senza disturbare nessuno.
Era il momento di piangere sull’immane disastro, ma i vecchi antifascisti non ebbero
gran rispetto per la gente dolorante. La corsa al potere fu preannunciata dalle esibizioni
comiziali di gente che si era fatto un suo pacifico e vezzeggiato antifascismo di
chiacchiere la sera a cena dai Surrenti, o al Circolo di Società. In quei primi mesi di non
fascismo, l’apologia dell’ideale democratico fu assunta da un manipolo di vecchietti, le
cui carriere politiche s’erano bloccate venti anni prima. Le loro perorazioni ci
apparivano demenziali e fuori luogo nel momento in cui un esercito, considerato ancora
da tutti nemico, risaliva la penisola per portare a termine l’occupazione d’Italia; terra
lontana e sconosciuta ai più, ma che i superstiti della Prima Guerra ci avevano insegnato
ad amare e a riverire.
I Surrenti avevano aspettato la vendemmia prima di tornare in paese. L’indugio non era
certamente addebitabile al poco mosto che mettevano nelle botti, ma piuttosto al
desiderio di non imbattersi con gli sbandati. Ma ancor prima che la fiumana si esaurisse,
si seppe che il nuovo prefetto aveva nominato Totò Surrenti sindaco del paese. I vecchi
spiegarono che il premio non si doveva ai meriti di Totò, ma a quelli del padre. Per
l’Onorevole – si sosteneva – sarebbe stata, comunque, ben poca cosa. La giusta
ricompensa era un ministero: quello di Grazia e Giustizia o l’Agricoltura. Cosa che,
“onestamente parlando, non è troppo”. Non per altro, ma perché aveva acquistato una
lunga esperienza di uomo di stato proprio in quei due dicasteri, come sottosegretario.
Ma mentre di ciò si discuteva, l’Onorevole, novantenne ormai, lasciò questa valle di
lacrime.
Il paese gli tributò le solenni esequie che in un altro momento non gli avrebbe fatto.
Gliele dovette fare perché, ora, era il vincitore. La sua parte, collettivamente, prendeva
il posto di Mussolini. Venne persino un drappello della Regia Marina, composto da una
decina di marinai ben vestiti e ben calzati, che non si capì bene dove li avessero trovati
e come fossero arrivati fin qui.
In detta circostanza la nonna proclamò che non poteva non fare visita a sua cognata. La
cognata Minicuccia era venuta a riverirla quando, dopo la morte del nonno, si era
trasferita a San Policarpio. Fare quella visita costituiva un suo elementare dovere. Di
conseguenza divenne un elementare dovere per papà accompagnarla. Accompagnare la
nonna e papà divenne un elementare dovere per la mamma. E siccome la mamma ci
andava, ci andavo anch’io. Solo Celeste, a causa della sua età immatura, sarebbe stata
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Anzi c’era, ma era la cosa che costava di più, sempre che lo trovavi. E le ulive d’u
cugnettu, e carne e patate. Le uova non le volevo. Le uova senza pane non dicono.
“La fame c’era. E tutta quella fatica! Ché, d’altra parte, se non avessi fatto il
contrabbando, come potevo andare a giocare? Era fatica, era. Come un mulo. Pedalavo
come i corridori, con le gambe e con i fianchi. Ogni fianco per aiutare la sua gamba.
‘Na flessione a destra e ‘na flessione a sinistra. Una a destra e una a sinistra, dall’alba a
sole alto. Sudavo come ‘na bumbula nel mese di luglio. In montagna la mattina fa
freddo pure in agosto; e il freddo mi gelava la fronte e le mani mi cadevano. Eppure
sudavo. Il basco non lo sopportavo e neppure i guanti. E il cappotto e la giacca li avevo
sul portabagagli, per il ritorno.
“Ogni tanto bevevo un sorso di vino dalla borraccia che mio padre si era portata per
ricordo da Gorizia. Lo sai il vino di don Giannino Misuraca? Una goccia ti resuscita.
Che carburante! Bevevo a digiuno e il vino si trasformava in forza motrice.
“Sul portabagagli mi portavo quattro sacchetti vuoti, quelli dello zucchero, che non si
strappano mai. Forse non lo sai? Me li regalò tuo padre. Ognuno valeva almeno tre lire.
Per trovare la mercanzia a buon prezzo non dovevi fermarti nei paesi. Se giravo per le
case, il contadino cedeva prima.
“Avrei potuto portare qualche mercanzia per fare il baratto, così facevano tutti, ma i
contadini volevano vedere i soldi. Se avevi i soldi non pensavano che volevi fare due
guadagni. E così uno ti vendeva i fagioli suoi, e poi ti mandava anche dal fratello, dal
cognato, dal suocero per le patate.
“Lasciavo la bicicletta da uno e poi giravo per i viottoli. Ma che ti pare, che è come il
paese? In montagna, una casa vicina è a mezz’ora di cammino, una casa lontana, devi
camminare mezza giornata. Giravo per quattro/cinque ore, fino a quando non avevo
quaranta chili di roba. Più no, sennò in curva cadevo. Parecchie volte sono caduto. Però
in discesa mi mettevo i guanti ché, se cadevo, mi salvavano il palmo della mano.
“La discesa era bella, senza fatica, solo il freddo, che ti bruciava la fronte. Però la notte
non potevo viaggiare. Senza faro cadevo. Troppi sassi. Mi toccava dormire digiuno
sotto i ponti, e poi scendevo con il sole del mattino in faccia. Quando dormivo in
montagna, gli aerei li sentivo un quarto d’ora prima, e tante volte ho visto il
bombardamento. E poi ringraziavo la Madonna se le bombe le buttavano su un altro
paese.
“C’era una donna che mi dava gratis un po’ di roba. Però voleva... tu mi capisci. Il pelo
mi luceva... Fimmini schietti e maritati. Anche a me mi piaceva. Ero pieno e andavo
volentieri. Era una donna bella e calda, però poi ero stanco. Ma se restavo da lei tutta la
notte, il giorno dopo non guadagnavo niente. Adesso sono pentito. Chissà chi se la gode
adesso? Forse il marito, se è tornato, o forse un altro.
“Chissà quante volte te l’hanno raccontato? Una sera, era il 18 dicembre, che avevo
fatto diciott’anni a luglio, mi becca quel delinquente di forestale e mi vuole sequestrare
quasi un tomolo di ceci. Ma io scappo. E quando mi credevo sicuro, mi arrestano i
carabinieri al passo di Croceferrata.”
Aurelio uscì dal carcere, insieme agli altri detenuti, quando gli angloamericani erano già
in Sicilia, perché il carcere non riusciva ad assicurare le razioni alimentari. Il resto della
pena gli fu trasformato in libertà vigilata e praticamente condonato. Egli, che raccontava
parecchie cose a proposito di quel periodo, non fece mai cenno del fatto che in carcere
era stato battezzato nella ‘ndrangheta. A questo punto, tuttavia, usciamo dal certo ed
entriamo in quello dei si dice. Avendolo adesso come compagno, facevo attenzione a
quel che si raccontava di lui in giro. Che fosse battezzato lo dicevano parecchie persone,
ma un fatto del genere è sempre segreto. Lo si deduce dalle situazioni. Ora, nel caso di
Aurelio non c’era un solo fatto che lo attestasse. È’ da supporre che, da ragazzo sveglio,
in carcere avesse chiesto lui stesso di associarsi, ciò forse per evitarsi sopraffazioni e
maltrattamenti fisici e morali, o forse soltanto per assicurare alla sua famiglia qualche
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Don Mico Muzzì, un negoziante di calzature, ex ferroviere, ben noto in paese per il suo
irremovibile antifascismo, divenne il nostro mentore. Con la serale frequentazione della
sezione cominciò una vera e propria milizia politica. Tra la sezione giovanile e quella
“adulti” – come la chiamavamo - c’era un collegamento stretto. La sezione adulti –
scoprii – era moralmente spaccata. C’era un nocciolo duro formato da una quindicina di
compagni più anziani, che avevano cominciato la loro esperienza politica tra il 1910 e la
dittatura fascista. Erano tutti operai e artigiani; c’era un solo agricoltore, un piccolo
proprietario a nome Cavaleri. C’erano anche tre ferrovieri che, dopo essere stati espulsi
dall’impiego, lo riottenevano proprio in quei giorni, insieme a consistenti risarcimenti.
‘U Siccia (il nomignolo sfuggiva spesso di bocca ai compagni, che poi chiedevano
scusa a Vitulia) e il suo gruppo costituivano una componente esotica, vista con scarsa
simpatia dai primi. C’era poi un fatto nuovo. S’iscrivevano al partito decine e decine di
persone nate o cresciute sotto il fascismo, specialmente reduci che rivedevano il paese
dopo anni di lontananza. Si trattava in parte di operai e di artigiani, in parte di maestri,
di studenti e di laureati. Qualcuno dei vecchi lamentava che la sezione stesse
trasformandosi nel partito dei professori, ma don Mico spiegava che in trasformazione
non era il partito, ma il lavoro subordinato. Con i panni del pubblico impiegato andava
formandosi un nuovo settore del lavoro subalterno, una condizione molto vicina al
proletariato. Era compito del partito fare dei proletari dell’impiego una componente del
movimento di classe. Ma altri opponevano che i nuovi venuti, alla prima occasione,
sarebbero divenuti la claque del sindaco Surrenti.
La sfiducia dei compagni verso Totò era un atteggiamento ereditato dall’età prefascista,
allorché tra la sezione socialista e zio Ferdinando, deputato giolittiano e autentico
signore politico del paese, si era arrivati ai ferri corti. Citando negativamente il defunto
Onorevole, contro cui avevano fieramente lottato nella loro giovinezza, i vecchi
prendevano coscienza della presenza di Vitulia, verso la quale, diversamente che per il
nonno e per il padre, si aveva molta stima, e dicevano - “Scusate, Compagna…” Vitulia
non batteva ciglio e pareva che l’avversione dei socialisti per la sua famiglia fosse
acqua che scorreva sugli abiti senza bagnarli.
*
Bisogna pur dirlo francamente: la democrazia segnò un netto decadimento morale in chi
esercitava il potere politico. Nel mio paesino, l’uomo che meglio raffigurò la transizione
dall’onestà alla disonestà fu Totò. Nominato sindaco, acquistò un’arroganza e un
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sussiego che facevano a pugni con la precedente mellifluità. Il suo potere era notevole e
le sue decisioni difficilmente sindacabili. Gli altolocati amici del defunto padre, tornati
al comando, gli offrivano una vasta copertura in paese e a livello provinciale. A tenerlo
in alto nella considerazione politica c’era poi il prestigio che gli veniva dall’essere
genero dell’onorevole Aversano, in quel momento sottosegretario agli Esteri e
personalità di primo piano fra i socialisti. Di fronte a tale innalzamento, le antipatie
dovettero essere taciute e molta ipocrisia dovette essere usata per conquistare le sue
buone grazie, in vista di un favore.
Offendendo la purezza morale dei vecchi socialisti, ‘u Siccia, aveva preso a
commerciare i suoi ammanigliamenti. La crisi esplose nel febbraio 1945 e fu la causa di
pesanti conseguenze. Riguardava l’ammasso dell’olio, che era tuttora in vigore, ma
sotto le nuove autorità. Si trattava di un incarico quasi politico, che veniva remunerato.
Era quindi ambito da molti, e molti erano i focolai di guerre intestine intorno al posto.
Nel cambiamento politico, l’incarico era andato a don Ernesto Carlino, noto antifascista,
ma inviso alla popolazione per la sua avidità. Lo si riteneva una persona disonesta,
capace di tradire sia gli interessi dei produttori sia quelli dei consumatori; insomma uno
che badava solamente ad arricchirsi con imbrogli d’ogni genere.
S’erano così formate due fazioni che tagliavano trasversalmente il paese e anche il
partito. Fra le altre cose si diceva che Carlino e Surrenti spartivano sottobanco;
un’accusa assolutamente plausibile, in quanto i soldi, che da un anno in qua Totò
spendeva e spandeva, da qualche parte dovevano pur venire.
Da tempo Vitulia mi aveva confessato d’essere convinta della di-sonestà del padre. Le
più recenti dicerie l’incupirono e l’accasciarono. Probabilmente aveva prove che non
indicò, né io volli chiedere. Perse il suo smalto, la connaturata franchezza e quella levità
che facevano di lei un essere speciale. Non osava più guardare in faccia la gente:
proprio lei che innamorava con il suo sguardo dolce, franco, in qualche modo ingenuo.
Quando eravamo soli, si aggrappava a me come una bambina smarrita fra gente ostile, e
piangeva.
Io non sapevo proprio più che dire. Contro Totò non mi pronunziavo, in quanto era pur
sempre suo padre. Ma il coraggio di difenderlo, non mi veniva. Solo le consigliavo di
uscire di casa il meno possibile e soprattutto di non venire in sezione, dove infuriava
una vera battaglia.
Accolse il consiglio. Che altro poteva fare? Tornammo a frequentare la spiaggia, deserta
d’inverno. Ci accolse l’amichevole frinire dei grilli. Un prato di fiori violetti e di tenere
erbette, anticipo gentile della primavera, ci accarezzava le gambe. Gli slanci di Vitulia si
fecero più appassionati e insolitamente arditi, con la conseguenza che la mia testa non
sempre stava a posto.
Contro Totò ci furono critiche aperte e severe anche in sezione. Spinto da quella diffusa
irritazione, il prudente Muzzì dovette prendere posizione. Convocata l’assemblea degli
iscritti, presentò un ordine del giorno in cui si diceva che, per il buon nome del partito,
il compagno Surrenti doveva lasciare la carica di sindaco. Lo si invitava, inoltre, a
sospendere ogni attività politica fin quando non fosse stata fatta piena luce sulla
questione Carlino. Ma l’assemblea andò oltre. Spesso, nelle assemblee, le posizioni
radicali e le parole infiammate hanno il sopravvento sul buon senso (e qualche volta
anche sulla ragione). ‘U Siccia fu deferito ai probiviri con la richiesta di espulsione per
indegnità politica.
“Si poteva aspettare d’avere in mano qualche prova”, fu il commento di Muzzì e dei più
avveduti, i quali erano certi che la reazione du Siccia sarebbe presto arrivata, anche se
nessuno sapeva quando e come. La situazione si faceva di giorno in giorno più tesa. Lo
facessero per tatto o lo facessero per mancanza di fiducia, mi resi conto che i compagni
apparivano imbarazzati ed elusivi se trattavano il tema Totò in mia presenza. Così,
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licenziamento.
Il congresso si aprì con l’interminabile discorso di un avvocato socialista su riformismo
e massimalismo. Parlarono altri, chi a favore del riformismo, chi a favore di quell’altra
cosa che non si capiva bene se fosse la rivoluzione armata o soltanto un riformismo
guarnito di un aggressivo vocabolario. Nel bel mezzo di tale dotto dibattito, del quale
afferravo ben poco, un esponente della presidenza lesse la mozione che avevo
presentato all’apertura dei lavori, e poi disse: “Ha la parola il compagno Alfano della
sezione giovanile di San Policarpio”. In verità non mi aspettavo che avvenisse così
presto. Arrivai tremante alla tribuna. Grondavo sudore persino dalle unghie. Non ebbi il
coraggio di tirar fuori il discorso che avevo bello e scritto in tasca. A quel tempo non si
usava. “E adesso cosa dico?” L’unica cosa chiara che mi venne in testa fu l’orazione di
Lisia contro i mercanti di grano. Pronunciai le accuse contro ‘u Siccia con tanto vigore
che, dentro di me, mi chiedevo se non fossi impazzito. Ma in ballo non erano più le sue
colpe, bensì il consenso dell’uditorio.
Mentre parlavo come un automa, ebbi la chiara percezione che quel discorso poteva
essere inteso come una bega locale. Allora ebbi l’improntitudine di tirare una coccola –
come diceva proprio Totò - sulla moralità socialista e le virtù democratiche. Era quello
il linguaggio che piaceva agli astanti. L’orazione fu infatti accolta da applausi
scroscianti.
L’onorevole Feudale, un vecchio e autorevole deputato, si alzò pesantemente dallo
scanno presidenziale e volle abbracciarmi. La cosa avrebbe dovuto lusingarmi e invece,
raffreddatasi la tensione, cominciai a sentire vergogna per aver colpito con ferocia uno
che, per quanto si mostrasse arrogante, in fondo altro non era che un povero diavolo;
uno che - intrallazzi o non intrallazzi - doveva portare a casa il necessario per un’intera
famiglia. In quel momento sentii che anche Vitulia era ingiusta con lui. In effetti
mangiava alla sua tavola e vestiva gli abiti che lui – ‘u Siccia – le procurava lecitamente
o illecitamente. Studiava sui libri che lui pagava e aveva di lui la stessa calibrata
ragionevolezza.
Comunque, in quanto figlia, lei poteva persino essere severa, ma io avevo sbagliato
decisamente l’entrata. Con il padre della ragazza che amavo e che mi amava, avrei
dovuto essere molto più cauto. “Sei un pagliaccio”, dicevo a me stesso. Se mia madre
mi avesse visto e sentito - pensai - mi avrebbe suonato un ceffone. Mio padre avrebbe
detto: “Un uomo non fa cose del genere”. Il presidente, con un volto mesto, come se i
guai del mondo fossero tutti suoi, mise ai voti una proposta della presidenza per la
costituzione di una commissione d’inchiesta.
*
Una quindicina di giorni dopo ci fu un incontro informale tra il gruppo di Totò e quello
di Muzzì. Gli espulsi vennero reintegrati e Muzzì fu rieletto segretario. Era la
condizione, o il prezzo che Totò pagava perché potesse continuare a fare il sindaco. Si
disse che Totò era stato fortemente redarguito dai dirigenti venuti a San Policarpio, ma
di ciò non si ebbero elementi certi.
Non appartenente alle supposizioni, bensì alle certezze fu, invece, un incontro tra Totò e
il sottoscritto. Vitulia e io tornavamo da una passeggiata sulla spiaggia, quando egli ci
apparve dinanzi, come se ci avesse aspettati al varco. Da principio fu bonario, ma
quando, sulla porta del palazzo, fui sul punto di salutare per andarmene, mi disse
d’entrare con una certa durezza. E una volta entrati, spedì sgarbatamente Vitulia su, in
casa, mentre a me fece cenno di seguirlo nel suo studio professionale, che dava sul
cortile.
Senza neppure invitarmi a sedere, estratto da un cassetto della scrivania un foglio con
degli appunti, mi sparò in faccia l’elenco dettagliato delle accuse che gli avevo rivolte al
congresso. – “Sono certo che non ti fa onore frequentare la figlia di un simile
mascalzone…
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“Dicono che sei un ragazzo intelligente e maturo. Allora ti dovrebbe essere chiaro che -
anche se mascalzone non ero e non sono - tu e i tuoi amici mi avete bollato per tale. E
avete bollato i miei figli, Vitulia compresa…
“Solo tuo nonno ti ha superato in leggerezza…Se mio padre non fosse stato l’uomo che
era, sarebbe stato una delle tante vittime della sua insipienza…
“La vittima è stata il nonno…”, tentai di dire. “Ho sbagliato argomento…Lasciamo
stare le defunte generazioni…Forse tu…Tutti siamo stati giovani, tutti siamo stati
innamorati. Adesso, il problema dell’onore non lo avverti, ma lo avvertirà tuo padre, e
lo avvertirà tua madre…Prima o poi s’imporranno…La figlia di un disonesto!…Ma il
problema dell’onore lo avverto anch’io, e non posso permettere che sia mia figlia a
pagare per il tuo infantilismo…
“Tra Vitulia e te è fiorita una passione di ragazzi, che il mondo chiuso della guerra ha
fatto crescere, ma che è destinata a finire non appena questo caos finirà. Intanto ha
assunto l’aspetto esteriore di una cosa più grande dei vostri anni…
“ E poi, non ignori che tra le nostre famiglie c’è un’inimicizia antica, che mio padre e
tuo nonno non si sono scambiati una sola parola in cinquant’anni, che io e tuo padre
siamo stati a un passo dalle sciabole in mano…
“No, io non posso perdere mia figlia. Perciò ti prego di dimenticarla…di dimenticare
me e tutta la mia famiglia…”
Aprii le labbra per ribattere, ma non lo feci. Infatti ribattere avrebbe significato
compromettere Vitulia.
“Quella è la porta”.
Non sapendo che dire, o non volendo dire ciò che avrei potuto, l’infilai e uscii.
Mi diressi nuovamente verso la spiaggia, da cui ero venuto. Avevo bisogno del mare e
delle stelle per capire cosa m’era accaduto.
*
Il pettegolezzo girò. La notizia che Totò mi aveva buttato fuori di casa arrivò alle
orecchie di Sestia e, quindi, di mia madre. Da mia madre a mio padre il tragitto fu
breve. In appresso arrivò alla nonna e a Celeste. Ma nessuno fiatò. Mia madre mi
scrutava perplessa e rattristata, papà, invece, mi guardava con occhi di sfida, come per
dire: “Adesso sapremo se sei un uomo o no”. La nonna pareva dicesse dentro di sé:
“Dio non voleva”, mentre Celeste (sicuramente) ripassava mentalmente la favola, per
raccontarla alle sue amiche. Chiunque mi conoscesse diceva: “Pazienza…Non c’è rosa
senza spine…” Giomo affrontò il tema in forma sintetica, superiore esito della ragion
pura: “Voi, adesso, non dovete fare niente. Se lei vi vuole, saprà come fare”.
Cosa potesse fare non sapevo immaginarlo, perché scomparve anche da scuola.
Non passò una settimana che arrivò la prima bordata d’u Siccia. La prefettura di
Reggio, con una breve lettera, revocò a papà la gestione del deposito Amgot. Per papà
fu un duro colpo. Quel lavoro, oltre a permetterci di mangiar bene, portava in casa circa
ventimila lire al mese, tra affitti e stipendio paterno. Quasi un terno a lotto in un
momento in cui una buona metà della popolazione era tagliata fuori da un reddito.
Subito dopo arrivò una seconda bordata, sicuramente meno dura, e tuttavia dolorosa. La
Camera di Commercio disdettò l’affitto delle cisterne che risaliva a una requisizione
ordinata prima della guerra. Siccome percepiva soltanto ottocento lire al mese, papà
aveva scritto chiedendo un adeguamento del prezzo. Fingendo di aver frainteso il
significato della lettera, il locatario aderiva alla fantomatica disdetta “in essa contenuta”
e lasciava liberi i locali.
Mi sentivo tradito e impotente. Non sapevo se amare o odiare. La cattiveria dei Surrenti
era un fatto o un’opinione? E se c’era, si trasmetteva da una generazione all’altra? Io
conoscevo Totò. E Totò era una carogna. Ma questo mi autorizzava a pensare che lo
fossero anche suo padre e sua figlia? Vitulia odiava il padre. Ma ciò era coraggio o
viltà? - “Se mio padre fosse un corrotto, io lo difenderei o l’accuserei? Starei con lui,
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anche a costo di passare per un corrotto”, mi rispondevo. Ma poi aggiungevo: “Tu sei
un immaturo, un piccolo borghese. Al mondo c’è anche gente come Robespierre…”
Mi tornò in mente il famoso manoscritto del nonno. Chi erano veramente i Surrenti? La
prescrizione avita era che avrei dovuto conoscerlo solo da grande. Ma io ero già grande.
Fra qualche mese avrei finito i diciannove anni. Fra due anni sarei stato maggiorenne.
Lo scritto era chiuso in cassaforte. Bastava scendere le scale, aprire la cassaforte e
leggere. Niente di straordinario. La mamma, la nonna e Celeste erano a chiacchierare in
cucina con Sestia. Papà era uscito. Come al solito aveva energicamente spazzolato la
giacca e i pantaloni, e lucidato le scarpe. Aveva riposto sul comò le chiavi della
porticina blindata che permetteva d’entrare in negozio dal cortile di casa, e quelle della
cassaforte. Aveva preso la pistola dal secrétaire dove la nascondeva. Aveva messo il
caricatore nell’arma e poi il proiettile in canna. Applicata la sicura, l’aveva infilata nella
tasca sinistra del gilè, appositamente tagliata più larga e profonda di quella destra.
Aveva preso anche una torcia elettrica, e posto le sigarette e l’accendino nel taschino
interno della giacca, in modo che il loro ingombro mistificasse l’ingombro della pistola.
Controllata l’ora, aveva esclamato a voce alta: “Sara, io esco”. La mamma era andata
sul pianerottolo. Si erano salutati e lui aveva sveltamente sceso le scale. Sarebbe tornato
verso le 22,30.
Presi le chiavi, scesi in negozio, entrai nell’ufficio, accesi la luce e aprii la cassaforte.
Niente di strano. Lo avevo fatto decine di volte su comando. Invece non avevo mai
rovistato tra i documenti che papà custodiva nello scrigno interno, in quattro borse.
Scelsi quella giusta, contenente le carte della famiglia avita. Trovai la busta con il
manoscritto - un centinaio di pagine - e lo portai con me, in camera mia. Passai l’intera
notte a leggerlo.
Il nonno aveva una bella calligrafia; cosa assolutamente normale ai suoi tempi, allorché
la calligrafia era materia scolastica. E tuttavia un manoscritto, sia pure vergato in bella
calligrafia, non si legge scorrevolmente come la pagina stampata. La prima parte
riguardava i rapporti con le ditte marsigliesi, principalmente quella con i fratelli di sua
madre. La seconda il mercato dell’olio a Napoli e a San Policarpio, nonché le relazioni
con i produttori, e come mantenerle buone. Poi il grano, le banche, la navigazione a
vela, i nostri giardini di Capursi e la produzione dei limoni, la massoneria. Insomma una
molteplicità di argomenti e temi che avrebbero potuto interessare me, suo erede e
continuatore, non certamente i miei lettori. Conseguentemente li tralascio, per
soffermarmi sul capitolo relativo allo zio Ferdinando, che è parte centrale del racconto.
Siccome il manoscritto è qui sul mio tavolo, volendo essere un storico fedele, trascrivo
il passo.
Da cinquant’anni sul mio nome cade l’ingiusto addebito di non aver saputo
amministrare quello che mio padre ci lasciò quando morì. Alla sua morte, fra fratelli e
cugini, tutti furono in accordo che l’amministratore della Società fossi io. Dopo tutto ero
anche il maggiore, immediatamente dopo Paolino Conforti, che però aveva voluto
seguire la carriera militare.
Le cose continuarono ad andar bene per i successivi anni; poi cominciarono le
disavventure. Si tratta di eventi che nessuno avrebbe potuto dominare, principalmente il
voltafaccia della Banca, che ci aveva sempre dato larghe aperture di credito per la
campagna olearia. Quando la Banca venne meno, ci ritrovammo senza alcuna difesa alle
spalle. Se volevamo sopravvivere, bisognava trovare credito, ma sulla piazza di Napoli
era divenuto sempre più difficile avere danaro. Pareva che i soldi fossero tutti spariti.
Andai a Marsiglia, a chiedere l’intervento dei parenti materni, ma in Francia era venuta
meno ogni fiducia per l’Italia. Mi fermai allora a Genova, e da lì andai a Torino e a
Milano, nella speranza di finanziatori. Infatti il governo di tutto si era ormai stabilito
nell’Alta Italia.
Erano città che conoscevo soltanto di passaggio. I nostri affari erano tutti con Marsiglia,
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con Liverpool, con Trieste e con la Grecia. Lì, come m’aspettavo, la situazione era
molto confusa. Era difettosa la tradizione commerciale e mancava la fiducia con cui a
Napoli facevamo i nostri commerci. Si aveva l’impressione che i negozi finanziari
s’intrattenessero fra banditi, comunque erano tutti per la speculazione. Finalmente a
Firenze trovai un banchiere, il Conte Pandolfi, che fu disposto al mutuo, ma pretese la
fidejussione del nostro amico in tutto, Antoine Leboyer, per finanziarci di tre milioni, e
pure a un tasso d’interesse veramente salato.
Anche l’anno successivo fui costretto ad appoggiarmi su Pandolfi, il quale però rincarò
la mano con gl’ interessi. Al quel punto decisi due cose: fondare una banca nostra e
trovare un appoggio politico. Ormai l’imbroglio politico era tutto. Chi faceva il nostro
mestiere, non poteva sottrarsi. Le cose che fa il governo riguardano persino il più
piccolo e povero atto della nostra vita quotidiana. Possono allargare o rimpicciolire il
pane quotidiano.
La banca che facemmo fu opera di Andrea Camera, un vero esperto. La fece nascere in
pochi mesi e senza molta fatica. In sostanza cedemmo i crediti della Ditta, che
superavano ormai i due milioni, alla Banca di suo padre. Ottenemmo poi l’aiuto del
Principe di Terranova, che ci dette fiducia per un milione, animando così altri grandi
proprietari. In tal modo ci assicurammo il capitale necessario per la campagna olearia.
Sull’altro punto, la politica, la sfortuna volle che io conoscessi Ferdinando Surrenti sin
dalla mia prima permanenza a Napoli. Lo incontrai nel 1873, ancora studente. Aveva
visto l’insegna della Società ed era entrato in ufficio dicendo che era di San Policarpio e
che la sua famiglia ci vendeva l’olio. Facemmo amicizia e andammo qualche volta
assieme a teatro. Spesso l’invitavo a venire a cena da noi, in Sede, avendo a quel tempo
un’ottima cuoca.
Non gli mancava niente. Era un giovane bello, istruito, ricco e serio. Si laureò e io lo
rividi in Calabria qualche anno dopo; faceva già l’avvocato e con gran successo, sia il
penale sia il civile. Era imparentato con i cugini Conforti, avendo Gerardo sposato una
sua cugina.
A quel tempo avemmo una contestazione con un pastificio di Torre. Gli chiesi
consiglio, ed egli mi consigliò di agire con decisione e subito. Siccome la questione era
a Napoli, mi suggerì quale avvocato il nome di un suo ex professore, al quale avrebbe
subito scritto e mandato la procura. Ora, tal tipo di procura poteva sottoscriverla
soltanto mio padre ancora vivente (siamo nel 1877), che era a Capursi. Ferdinando,
disinvoltamente, s’imbarcò sulla prima goletta in partenza, che lo sbarcò a Capursi,
ospite dei miei genitori. Qui conobbe la mia sfortunata sorella Minicuccia e l’anno dopo
si sposarono.
Si presentò alle elezioni del 1886, con la Sinistra, ma non uscì per quaranta voti.
All’elezione successiva, mio fratello Generoso, io e nostro cugino Gerardo facemmo
visita a tutti gli elettori del Circondario, in maggioranza proprietari di oliveti, per
pregarli. Spendemmo anche parecchi soldi di tasca nostra, così che Ferdinando fu eletto
a maggioranza netta.
Speravamo parecchio da lui, ma costui ci tradì sfacciatamente, peggio di Giuda.
Questa è la verità. La racconto al cospetto di Dio Creatore e Artefice dell’Universo, che
presto andrò a raggiungere. Io non ho mandato in rovina nessuno.
Non è giusto confrontarmi con mio padre. I suoi tempi furono diversi dai miei, per il
grande incitamento che ci veniva dalla ricchezza di Napoli e dal commercio con la
Francia e con l’Impero d’Austria. La Ditta era vissuta e aveva prosperato con il
commercio francese, tanto al tempo degli Orleans, tanto al tempo dell’Imperatore
Napoleone, quanto dopo, con la Repubblica. Io, invece, mi trovai a combattere con la
rottura dell’alleanza francese. Il protezionismo doganale, voluto dai banchieri di
Milano, rovinò Napoli e tutto il Napoletano, che vendevano olio e vino alla Francia.
L’esportazione molto si ridusse, il commercio andò in crisi, tanto più che l‘Alta Italia
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Focile, per evitarsi la galera e il di-sonore, si uccisero, lasciando due famiglie sul
lastrico. Fu una lettura controproducente. Tranne la vicenda delle monete false, sapevo
già tutto per averlo orecchiato dai discorsi di questo e di quello. Peraltro la cosa non era
assolutamente credibile. Mi ritrovai dall’altra parte della barricata. Lo stato che avalla i
falsari! Ma dove mai s’era vista una cosa del genere? Neppure un libro che ne parlasse!
Proprio ‘no sorece morto! Mi tornò in mente il nonno seduto allo scrittoio con i suoi
gran fogli di carta non rigata e la penna Waterman che perdeva inchiostro,
macchiandogli le dita. “Papà è un poeta”, diceva mia madre riferendosi al suocero. “Il
nonno era un poeta”, pensai anch’io. Andai in salotto a cercare un album in cui erano
conservate molte sue foto. Ne presi una che ci ritraeva assieme, sette o otto anni prima,
mentre scendevamo le scale della Cattedrale, a Capursi.
“Che cazzo mi contate, nonno? Che pasticcio avete combinato, Voi, papà, zio
Generoso? Vi nascondete dietro il dito, questa è la verità! Voi non siete i vinti di
Giovanni Verga, come sostiene il professore Russo! Voi eravate pieni di soldi! Ve la
siete fifata, questa è la verità! Non vi piaceva Genova? Allora vi armavate, e marciavate
contro! L’olio, l’Impero d’Austria e l’Impero di Germania, Trieste? Ciance! Non avete
voluto combattere! Se foste stati uomini, avreste combattuto la vostra battaglia, come
stanno facendo adesso i partigiani del Nord. Uno sbaglia, fa il fascismo, ma poi si rende
conto d’aver sbagliato e caccia i fascisti. Così si fa, non come voi.
“La Ditta è finita, fai il medico, fai l’ingegnere!… Sì, miei cari, Faccio l’ingegnere,
faccio il medico, non faccio il commerciante! Io amo Vitulia e Vitulia mi ama. E me ne
fotto di voi, di zio Ferdinando e dell’anima sua, du Siccia e du Siccicella….Io voglio
Vitulia…”
*
I contadini entrarono in fermento qualche mese dopo la caduta del fascismo, sotto la
spinta dei vecchi militanti della sinistra, specialmente dei quadri rurali del Partito
Comunista. Le notizie di sommovimenti e di occupazioni di terre erano frequenti. La
situazione era divenuta poco incoraggiante per i gnuri. Il fondamento dell’agitazione
contadina era ancora quello di Caio Gracco, la divisione delle terre. Certamente, la
maggior parte dei contadini capiva che, se non c’era lo stato italiano, c’erano però gli
americani. Perciò si frenavano. Ma qua e là il muro della paura veniva abbattuto.
Nella sezione socialista di San Policarpio il problema non era considerato attuale. I
vecchi del partito erano fermi all’idea che, senza lo sviluppo dell’industria, era
impossibile pervenire a una piccola proprietà coltivatrice. “Sono in troppi e la terra è
poca. Solo lo sviluppo dell’industria può risolvere il problema. Una parte deve passare
all’industria… Si tratta di un movimento naturale, che il fascismo ha frenato… Lo
vedete dai fornaciai…Prima erano contadini, ora sono operai… Come in America.
Avete mai visto che dall’America torni un contadino?… Partono contadini e tornano
operai.”
La rivoluzione di Amendolea scoppiò sul finire del marzo 1945, in corrispondenza con
le notizie che arrivavano dal Nord circa l’azione rivoluzionaria dei partigiani comunisti.
I contadini s’impadronirono del paese, sottoposero i gnuri a dure pene e fondarono una
repubblica rossa. Don Mico e gli altri compagni di San Policarpio giudicavano il fatto
un gesto folle.
Avendo ben altro per la testa, Amendolea m’interessava poco. Frequentavo la sezione
solo per distrarmi. Soffrivo per l’assenza di Vitulia, e non sapevo cosa pensare. Un
amico mi sussurrò che la cameriera dei Surrenti aveva detto al panettiere che Vitulia era
partita per Roma, per rifugiarsi dal nonno Aversano. Ciò mi indusse a pensare al peggio.
A Roma era libera di scrivere, di mandare un telegramma. Eppure non lo faceva. In
realtà niente di ciò era avvenuto. Una sera Pietrino Futia fece capolino alla porta della
sezione e con un segno mi invitò a raggiungerlo. -“Vitulia ti aspetta a casa della maestra
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di pianoforte”.
Quando bussai, Vitulia venne fuori e mi guidò verso la spiaggia. Mi disse che non
sarebbe più tornata a casa. Intendeva fuggire.
offesa…potreste essere delle spie. D’altra parte siamo già in molti al confronto con le
armi disponibili. L’unica cosa utile che potevate fare era di sollevare i contadini di San
Policarpio… Mi dispiace ma dobbiamo arrestarvi.”
Fummo condotti al castello, in cima al paese; un luogo che avevo visto un paio di volte
dall’esterno. Attraversammo un portale senza infisso, poi l’alta galleria che portava al
cortile, quindi il cortile. Entrammo in un lungo corridoio, che appariva persino basso in
rapporto alle misure del luogo, ma che basso non era certamente. Superammo ancora
una decina di portali. “Dove cazzo ci vogliono rinchiudere? Speriamo che non ci buttino
dalle mura!” Salimmo, scendemmo. Non si finiva mai. Arrivammo a un locale munito
di porta. “Ci chiuderanno lì dentro” pensai. Fu così. Era una vecchia sala senza
pavimento e senza intonaci. Un grande apertura dava sulla valle. Il balcone doveva
essere caduto qualche secolo prima. Oltre c’era il precipizio. Ovviamente la porta venne
rinchiusa dall’esterno con un catenaccio. I due militi rossi salutarono con garbo prima
d’andarsene. “Pazienza, compagni…Vedrete che la cosa s’aggiusta.” Per sfuggire alla
polvere, e alla puzza che saliva dal terriccio mosso dai nostri piedi, ci accoccolammo
davanti al balcone. Di tanto in tanto si udiva un colpo di fucile, per il resto regnava un
silenzio campagnolo. La battaglia era finita o doveva cominciare? E quale sarebbe stata
la nostra sorte? Vitulia, era come se non avesse paura. Dissertava di grande politica, ma
io non riuscivo a prestarle attenzione. Mi attraeva di più il ronzio dei calabroni e il volo
delle vespe, che s’avventavano in picchiata sui cespugli cresciuti fra le crepe delle mura.
Forse fra qualche ora mi sarebbe toccato morire. Il mondo era bello. Dall’alto del
castello, le brevi valli, che in primavera andavano riempendosi di verde e di altri colori,
pareva potessero essere toccate allungando appena una mano. Di là a non molto, fra le
margherite sarebbero cresciuti prepotenti i papaveri. Il rossastro della sulla avrebbe
inondato i declivi. I bianchi triangoli delle vele si sarebbero moltiplicati sul mare…I
consi sarebbero andati lontano, oltre il turchino…Morire!…Mio padre…mia madre… la
nonna… gli occhi mesti di zio Gioacchino…Vitulia…il mondo…
A mezzogiorno ci portarono del pane, delle olive e una cuccuma d’acqua. Arrivò il
crepuscolo, poi scese la notte. Già dormivamo per terra abbracciati, allorché sentimmo
aprire la porta. Apparve una persona con una lanterna in mano. Dietro di lui un
campagnolo alto e secco. “Venite con me, domattina arrivano i carabinieri”. In modo
deciso, quasi imperioso, ripeté: “Venite con me”.
Uscimmo dall’abitato. Lentamente scendemmo la collina – un bosco di ulivi contorti.
Finalmente apparve la luna. Giunti a un casolare, l’uomo ci fece fermare. Si allontanò
da solo per qualche minuto. Tornò con una mitraglietta tedesca, leggera e maneggevole.
“P’amuri d’u Signuri, nommu ‘nci sparati d’i carbineri… Sulu p’a signurina… S’i viditi
arrivari, jettatila prima”. Camminammo ancora una ventina di minuti. “Di qua si scende
‘a hjiumara… Il pericolo è quando attraversate. Dopo, non fate il Dromo, adesso ci sono
i carabinieri…Attraversate i campi. E ricordatevi che a San Policarpio soltanto la vostra
famiglia sa che siete venuti qui.” Ciò detto scomparve per un viottolo la cui esistenza
non avevo notato.
In quell’intervento era fin troppo evidente la mano di Giomo. Anni dopo mi fu
confermato. Papà, notata la scomparsa della pistola e della pila, e appurato che ero a
girare in bicicletta con Vitulia, aveva mangiato la foglia. Dopo di che era ricorso
all’unica persona capace di dargli una mano in un frangente del genere.
I carabinieri che cingevano l’assedio avevano piazzato dei fari sulle autoblindo per
intercettare gli eventuali fuggitivi. Mentre scendevamo verso il fiume, si accese un faro,
un fascio di luce violentò il buio e ci inquadrò. Commisi l’errore di sparare. Il faro fu
colpito in pieno. Avvampò per qualche secondo una mitragliera, ma subito s’inceppò.
Altri fasci di luce, per fortuna più lontani, si diressero dalla nostra parte. Scappammo
senza capire dove, inseguiti dallo strepitio di motori e dal frastagliare di mezzi cingolati.
La paura ci mise il vento nelle gambe.
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lavasse in libertà, l’uomo mi guidò in cima alla collina. La zona dell’ulivo finiva lì. Di
fronte a noi si alzava una montagna boscosa. “Io torno da dove venni. Domani, certo
non partite. Siete stanchi. Qui potete stare tutto il tempo che volete, basta che non vi fate
vedere in giro. Quando decidete, mettete una polverina sul fuoco. Ve la mando con il
ragazzo…Una pizzicata per volta, per un’ora di seguito…Fa un fumo giallo. Io lo vedo
e capisco. Quando partite, vi dirigete sempre verso quella frana là…
“Vi do il lapis e la carta, così ve lo scrivete…Prima passate tra la frana e la collina di
fronte…La vedete?… Arrivati al fiume, camminate controcorrente. Però lontano dalla
fiumara, sennò vi vedono. Così evitate i boschi della Serra. Quando il fiume gira in
salita, voi invece andate dritto, e vedete subito, sulla collina di fronte, una casa con le
tegole rosse. Voi andate lì. Lì mangiate e dormite. Non entrate nel paese vicino, invece
scendete a valle e incontrate un altro fiume. Vi fermate lì… Qualcuno verrà a guidarvi
verso un’altra casa. La mattina dopo, tre ore di cammino e sarete alla stazione del Pizzo.
Prima di entrare in paese, una donna vi vede e vi dà due valigie con l’olio. Così passate
per contrabbandieri. Gli sbirri non ci sono. Vengono solo di tanto in tanto. A Napoli e a
Roma stanno morendo di fame, e loro lo sanno. L’olio lo pagate quando tornate. Vi
saluto, la signorina me la salutate voi.”
Quella notte, al tepore del fuoco, i sangui, che non dovevano congiungersi, si
congiunsero. Rimandammo la partenza di giorno in giorno. Il cartoccio con la polvere
gialla era ben in vista sulla credenza, ma il tempo passava e la voglia di aprirlo non ci
veniva. Sono stati i giorni più belli della mia vita. Forse lo furono anche per Vitulia.
Ripresi a chiamarla Lia, un diminutivo che prima non le piaceva. Due corpi e un’anima
sola. Non avevamo più paura della galera, o forse il compenso anticipato che ci
prendevamo poteva farcela apparire un prezzo non elevato. Lo stesso ragazzino
incontrato all’arrivo ci portava qualunque cosa chiedessimo, pure il giornale. Pagavamo
con i soldi che avevo, ma se avessimo chiesto credito, l’avremmo certamente ottenuto.
Eravamo freschi e nuovi all’amore. Stare assieme era un rinascere tutti giorni. Al
mattino, prima che i vapori addensatisi durante la notte evaporassero, uscivamo
all’aperto con una coperta sulle spalle, a vagare fra le querce e i castagni, che
rimettevano foglie di un tenero verde. Sui costoni esposti a mezzogiorno era un tripudio
di ginestre. Ma bastava spostare lo sguardo perché i colori cambiassero. In basso, due,
trecento metri sotto di noi, le siepi di fichidindia disegnavano geometrie fantasiose tra i
campi messi a grano, le vigne, i maggesi. Forse saremmo rimasti lì all’infinito, ma fu
proprio quel vagare per i sentieri boschivi che ci perse. Sempre più spesso scorgevo
delle sagome di ragazzini mal nascosti dalle siepi, intenti a spiare.
Una notte ci svegliò uno sconosciuto. Veniva ad avvisarci che stavano arrivando i
carabinieri. Corremmo nella direzione che l’uomo ci aveva indicato prima di
scomparire, ma – lo seppi molto tempo dopo – a causa del buio, sorpassammo senza
notarlo il sentiero da imboccare. I carabinieri accesero i fari della jeep solo quando
fummo davanti a loro. Ci misero le manette senza fare una sola domanda. Fummo
portati in caserma a Serra San Bruno, e subito separati. Io chiuso in cella di sicurezza,
Vitulia altrove. Non seppi dove. La rividi soltanto undici anni dopo, e soltanto per
qualche ora. Per i fatti di Amendolea non fu denunziata né, tantomeno, processata. Né,
al processo, qualcuno fece parola della sua presenza.
Incriminato con gli altri rivoltosi per insurrezione armata, fui condannato a quattordici
anni, sei mesi e sedici giorni di galera. Uscii dopo undici anni, sei mesi e diciotto giorni,
in virtù di un condono. In carcere ripresi gli studi e conseguii la licenza liceale. L’anno
dopo ottenni il trasferimento a Genova e il permesso di frequentare le lezioni
universitarie sotto custodia pagata. A ventisette anni presi la laurea in ingegneria navale;
un passaporto per espatriare, sull’esempio di zio Paolino Conforti.
I genovesi con me non furono ostili come lo erano stati con la vecchia Ditta. Da
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ragazzino spesso avevo sentito il nonno declamare dei versi che li maledicevano.
Pensavo che la composizione fosse opera sua, che tanto li temeva, ma, arrivato poi in
liceo, appresi che quella invettiva era opera di un poeta ben più illustre. Però io non fui
oggetto di alcuna ”magagna”. Anzi quasi tutti - le guardie e gli altri carcerati - furono
sempre benevoli con me. Forse perché, tutte le volte che veniva a trovarmi, papà non
faceva che distribuire bigliettoni “non falsi” a destra e a manca. Certamente
disinteressata fu la paterna amicizia del professor Valerio Correggio, docente di grandi
macchine navali, il quale mi prospettò, una volta scontata la pena, la possibilità di un
lavoro nei cantieri genovesi. Forse le famose magagne, i genovesi, le mettevano in
essere in materia d’affari. Ma io non potrei affermarlo.
Il 14 dicembre 1956, il mio difensore, professor Mario Gianturco, appositamente
arrivato da Napoli, mi accompagnò “per l’uscita” insieme al direttore del carcere.
Avevo trent’anni. Fuori, ad aspettarmi, c’erano tutti, tranne la nonna, ormai
novantacinquenne: la mamma, papà, Celeste con suo marito, zia Giuditta, zio Filiberto,
Enea e moglie, Lucilla e marito, zia Anita con Mario e Mena, due dei suoi cinque figli.
Accanto a papà vidi Vitulia e il ragazzo, che lei teneva per mano. Fu l’ultima ad
avvicinarsi. Ci salutammo con il rituale accostamento delle opposte guance, in uso tra
parenti. Dentro di me scoccò lo stesso brivido di quindici anni prima.
Poco prima dell’ora di pranzo potemmo rimanere soli: lei, io e Paul. Per l‘anagrafe Paul
Surrenti. La sua enorme bruttezza mi addolorò e mi spaventò. Era una copia du Siccia,
più brutta dell’originale. Mi venne da ridere al pensiero che potesse portare jella come il
nonno. Ma subito inorridii di me stesso.
“Adesso vivo a Bruxelles. Ho paura di venire in Italia…”, dichiarò, quasi a innalzare
una barricata tra presente e passato.
“Sì, lo so. Leggo le corrispondenze che mandi all’Avanti. Ti ho visto con Nenni alla
televisione…”
“Il nonno mi ha salvata. I carabinieri mi portarono a Vibo. Dopo un pò arrivò
l’onorevole Arlotta. Non avevo fatto niente. Non avevo sparato, avevo partecipato al
moto solo con il pensiero. I carabinieri si convinsero, e l’onorevole mi condusse a casa
sua. La mattina dopo venne il nonno. Chiamò papà, ma questi non volle vedermi.
Vennero soltanto la mamma e mio fratello Nandino. Partii per Roma con il nonno. Mi
spiegò che una mia incriminazione non ti avrebbe aiutato, mentre avrebbe molto
danneggiato non solo lui ma anche papà. Il nonno mi accompagnò a Le Havre, dove mi
imbarcai per New York. Da New York andai a Washington, come consulente
dell’ambasciata d’Italia per i problemi dell’emigrazione. Però, dopo la morte del nonno
il contratto non mi venne rinnovato.
“Certo lo sai già. La mia famiglia mi ha voltato le spalle.. Dopo la morte del nonno sono
stati Sara e Genso ad aiutarmi… Buoni e generosi al di là del richiesto e del
necessario… per il bambino…”
“Non lo sapevo. E’ la prima volta che lo sento.” Mi prese la mano e mi fissò
intensamente. “Paolo, io ti ho amato appassionatamente, e tu lo sai. Nostro figlio…un
figlio che non ho rifiutato, che ho voluto per te… per noi, nonostante i contrari
suggerimenti…
“Ti sono stata fedele, fedele nell’anima e nel corpo per anni, poi ho incontrato un altro.
Un uomo assolutamente diverso, Karl Liuvrat…un pianista…Certo lo hai ascoltato
l’altra sera in televisione; uno che ti fa vedere l’armonia del cielo stellato anche quando
il tuo animo è buio.”
In quella circostanza, se fosse stato presente Giomo, avrebbe esclamato: “Vi sta
prendendo per il culo”. Mi caddero le braccia. Proprio letteralmente. Un fendente di
amarezza mi spaccò il cuore: “O sorece morto a rinto ‘o pertuso…”
“Bene… Vitulia… forse… dico…Sei libera…Ognuno è padrone…”
“Genso e Sara vogliono che tu chieda il riconoscimento della paternità. L’avvocato
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della sua pelle sotto il palmo della mano. Undici anni di vani sogni. La notte dormivo
male. Stavo meglio in carcere. Quando uscivo di casa, mi sorprendeva il non vedere più
intorno al fondaco il formicolio di carri, asini, muli, camion, massari con la vertola
appoggiata sulla spalla sinistra, venuti a caricare le mille mercanzie che il negozio
offriva. E poi, a leggere il nome di zio Ferdinando sul cantone di casa, mi giravano le
palle. Ma dovevo su-bire in silenzio. Guai a dir male dei Surrenti in piazza. Tutti grandi
personaggi.
Totò continuava a essere il sindaco del paese, e certamente prima o poi sarebbe stato
eletto deputato. Le poche volte che ci incontrammo, facemmo finta di non conoscerci.
Egualmente con i fratelli di Vitulia. Di Norina seppi che non usciva più di casa. Zia
Minicuccia era morta da tempo.
Nella primavera del 1957 mi imbarcai per l’America con il viatico di una lettera di
papà. A Boston ottenni un buon lavoro. Paul mi raggiunse nel 1963 per chiedermi di
aiutare sua madre. L’anno prima Karl aveva avuto un ictus ed era rimasto paralizzato.
Erano sopraggiunte notevoli difficoltà economiche. Vitulia non riusciva a rientrare nei
quadri del giornalismo, che aveva lasciato per seguire il marito nei suoi spostamenti.
Paul decise di rimanere con me e assunse il mio cognome anche in America, dove era
nato con un cognome diverso. Dopo di che andò a studiare agraria in California.
Quando prese la laurea, volle che ce ne tornassimo in Italia per trasformare ‘a Vasia in
un’azienda moderna. Io trovai lavoro a Messina, nel cantiere Diaz, che costruiva navi-
traghetto.
Dovetti sistemare la posizione economica di Paul, in modo che potesse provvedere ai
bisogni della madre. Barattai con mia sorella il palazzo e il giardino di Capursi, che
erano un legato del nonno a mio favore, con la sua quota sull’eredità di nostra madre e
nostro padre a San Policarpio. Cioè il convento, ‘a Vasia e ‘u Fego. Non fu un buon
affare. Con lo sviluppo del settore turistico, palazzo e giardini valevano ormai
moltissimo. E fu anche un tradimento del nonno che, per lasciarlo a me, aveva
scavalcato mio padre e zia Anita. Ma feci contenta Celeste e suo marito, un irpino bello
e gentile, con studio dentistico a Berna. Naturale che le sue vacanze preferisse farle sul
Tirreno, non lontano dal borgo natio. Guadagnando molto, era altresì naturale che gli
piacesse possedere un palazzo signorile. D’altra parte, se Celeste avesse voluto
trascorrere un giorno, un anno, la vita a San Policarpio, al secondo piano del vecchio
convento, che mi ero riservato, c’era posto ancora per venti persone. Moralmente quella
casa era anche sua.
Giomo capì che con Paul sarebbe stato difficile andare d’amore e d’accordo. Come
liquidazione chiese ‘u Fegu ed io trovai giusta la richiesta. Tranne che per i profitti
annuali, era stato il vero padrone della Vasia. Anzi quella terra era la sua opera d’arte.
Con un atto notarile complesso feci irrevocabile donazione della Vasia a Paul, così
avrebbe aiutato la madre senza ricorre a me, e devolsi a Giomo, a titolo di pagamento
della buonuscita a cui aveva diritto, la proprietà du Fegu, che mia madre aveva ereditato
da suo padre.
*
‘O votta votta. Le generazioni si susseguono. Crisciru i sambuchi e ammucciaru i sipali.
La badante polacca guida il passo claudicante di Karl fino al bordo del caricatoio. L’on.
Vitulia Surrenti, settancinquenne come me, li segue con passo misurato e un golfino
appeso al braccio. E’ una vecchietta elegante. Lì giunti, i tre si siedono su una delle
panchine che il comune ha fatto istallare da poco, e guardano il mare. Mi siedo anch’io
sulla poltrona di vimini che risale a mia madre, e anch’io guardo il mare dal terrazzo: il
lontano orizzonte, il mare dei consi, l’irraggiungibile turchino. Lentamente gli occhi si
chiudono dietro i pensieri. Fole, chimere dalle ali rosate scorrono sotto la fronte. Sogno
d’essere il capitano di una galea. Sul pennone di mezzana sventola il pesante stendardo
della Repubblica. La nave lascia il porto d’Amalfi e veleggia verso le lontane coste di
Normandia. Spiagge infinite, l’immenso verde del mare. Guerrieri dalle nere casacche e
dai forbiti elmi scintillanti al sole, su agili imbarcazioni remano sopravvento. Sulla prua
della più veloce, Vitulia agita uno stendardo che muta colore a ogni soffio di vento. E’
ancora diciottenne, ma non è più bianca. E neppure nera. E’ creola come le donnine che
incantavano ‘u Testazza. Con indosso una corta tunica da schiava, lo stendardo in mano,
balza sulla murata della nave e li si erige, morbida e invitante. Ha impresso in volto il
sorriso mesto e accogliente che ha la statua di Gesù risorto, la mattina di Pasqua. Dai
boccaporti spuntano frotte di topi. Hanno mille facce. Portano fiori artificiali, fabbricati
con gli sfilacci del cordame. Mentre sto a guardare senza capire, sul mio corpo spuntano
i peli immondi del sorcio. Il terrore m’invade. Voglio buttarmi in mare, ma l’alta figura
di zio Paolino mi stoppa con un braccio. “Aspetta, metti il salvagente!” Mi affaccio alla
murata e guardo giù. “Ma, Zio Paolino, non è acqua. E’ olio. Affogheremo!” “No, ti
sbagli. E’ Nutella.E’ grassa, pesante. La nave è perduta. Non c’è più niente da fare, ma
noi ci salveremo. La Nutella ci terrà a galla e ci nutrirà, e noi, piano piano,
raggiungeremo la sponda.