Cantare-la-fede-Mons. Frisina
Cantare-la-fede-Mons. Frisina
Cantare-la-fede-Mons. Frisina
L’arte è un grande dono di Dio per aiutare gli uomini a leggere con più profondità nel loro
cuore e più luminosamente nel cuore di Dio. Tutte le creature portano impressa nel loro intimo la
firma dell’Artista divino, le sue mani hanno plasmato l’universo facendo di ogni creatura la parte di
un capolavoro complesso e meraviglioso in cui tutte le leggi naturali obbediscono al loro Creatore
in una “sinfonia” splendida. La mirabile partitura del creato ha bisogno però di un ermeneuta, di un
interprete che comprenda tutto questo e sappia riconoscerlo, goderne, comunicarlo, viverlo, una
creatura fatta a immagine e somiglianza di Dio, capace di fruire della creazione con la stessa gioia
di Dio, capace di comprenderne i significati nascosti e di riconoscere in tutte le creature quella
firma divina che le rende belle.
“I cieli narrano la gloria di Dio e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento”, così
proclama il salmo 18. Tutte le creature proclamano, annunciano, dicono la gloria del loro Creatore,
ma solo l’uomo intende la loro voce, solo l’uomo può coglierne il significato e addirittura
commentarlo, elaborarlo, dilatarlo scoprendone tutta la profondità e la bellezza. Dio è artista e così
anche l’uomo perché, così come il suo Creatore, può produrre creazioni eloquenti che annunciano la
verità in modo splendido e luminoso. La bellezza è infatti la gloria dell’Essere divino che Egli ha
comunicato alle sue creature e all’uomo, e che è compresa e goduta da quest’ultimo. La bellezza
manifesta il volto di Dio e ne mostra tutta l’amabilità e lo splendore perché è luce che si comunica e
illumina il cuore di ogni uomo.
Per questa ragione non si può fare a meno dell’arte. Ogni epoca e civiltà ha sentito la
necessità di produrre oggetti, opere, scritti che rivelassero l’intuizione dell’Assoluto propria di ogni
uomo. I nostri cinque sensi sono le porte attraverso cui l’anima comunica con il mondo, porte
necessarie a percepire le luci, i colori, gli odori, i sapori, i suoni, le sensazioni delle creature. L’arte
usa gli stessi sensi, ma non in un'unica direzione, bensì sia in entrata che in uscita, ovvero come
strumento non solo per percepire ma anche per comunicare ciò che l’anima elabora e vuole dire
dell’esperienza delle creature.
L’arte dilata i nostri sensi rendendoli capaci di esprimere ciò che va al di là dei sensi stessi.
L’immagine artistica, pur prendendo come base l’immagine percepita dalla realtà creata, la elabora
rivelando ciò che in quell’opera non si vede con gli occhi del corpo ma con quelli dell’anima. Così
per la musica che, elaborando i suoni percepibili dall’orecchio, li trasforma e li rende capaci non
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solo di ascoltare ciò che l’orecchio non sente ma addirittura di far vedere, sentire, a volte persino
gustare e odorare. Il miracolo della musica, come delle altre arti, è quello di allargare la percezione
dell’uomo al di là dei confini sensoriali attingendo ai sensi dell’anima per poi ritornare ai sensi del
corpo, riempiendoli di stupore. Nell’arte i sensi del corpo e dell’anima vivono una simbiosi mirabile
in quanto l’uno è in continuità con l’altro, e insieme colgono l’essere creato in modo più completo e
sempre nuovo. È la meraviglia della bellezza, della contemplazione, anticipo di quella
contemplazione della gloria di Dio che farà la nostra gioia eterna in cielo.
La cultura contemporanea sembra spesso distogliere la nostra attenzione dal sacro, sembra
sempre tesa a profanizzare, banalizzare, squalificare le espressioni sacre per renderle troppo
quotidiane. Certamente questo spesso accade perché il cambiamento repentino delle categorie
culturali ci ha spiazzati, e ciò che il Concilio Vaticano II aveva profeticamente preveduto riguardo
alla necessità di un dialogo culturale vivo con il mondo contemporaneo non lo abbiamo preso molto
sul serio, facendoci così trovare un po’ impreparati a traghettare le forme artistiche del sacro nella
nuova situazione. Ma la storia non torna indietro, la comunicazione di Dio è ancora oggi prioritaria
e le esigenze dell’evangelizzazione non ci permettono di rifugiarci in torri d’avorio più o meno
distaccate dalla realtà che ci circonda: dobbiamo proporre, dobbiamo esprimere, dobbiamo cantare
Dio insieme a questi nostri fratelli, in questo mondo, con questi mezzi che abbiamo.
La musica ha un significato fondamentale nella storia della civiltà e nella cultura religiosa di
ogni popolo. L’arte è capace di riassumere messaggi e significati importantissimi di una civiltà
dando voce all’umanità che la produce in modo talmente profondo e alto da far sì che a volte le
opere artistiche prodotte in un tempo e in un luogo preciso divengano patrimonio universale
dell’umanità di ogni luogo e tempo. Essa è capace di conoscere e far conoscere le profondità del
cuore dell’uomo ad ogni uomo e in ogni tempo: è grande il potere dell’arte, e in modo speciale della
musica che, a differenza delle altre, è la più effimera eppure la più profondamente radicata nella vita
degli uomini, la più “eterea” eppure la più fisica delle arti. Essa è fatta di vibrazioni fisiche a cui
l’uomo associa misteriosamente sensazioni, ricordi, messaggi che derivano spesso dal suo inconscio
più profondo o dalle sue esperienze dimenticate. Il “mistero” della musica sta nel fatto che di tutte
le arti essa è la meno controllabile, la più istintiva, pur avendo una struttura matematica e fisica
fortissima. Si direbbe che il mondo delle sensazioni, dei sentimenti, dei ricordi, si unisca al mondo
delle armonie, delle strutture, delle simmetrie, delle forme. Il piacere estetico della musica risulta,
infatti, dall’incontro perfetto e armonico di queste due realtà, quella sensibile e quella intelligibile,
quella fatta di timbri e sonorità e quella fatta di ritmo, struttura, forma.
La musica entra così a far parte di quell’insieme di realtà simboliche a allusive che,
articolate tra loro, portano ad un linguaggio capace di comunicare e far comunicare. Come ogni
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linguaggio, anch’essa viene espressa attraverso una lingua che, per essere comunicativa, deve essere
compresa dall’ascoltatore e può venire più o meno apprezzata a seconda della capacità e
dell’educazione al linguaggio di chi ascolta. Se il linguaggio, ovvero la struttura e la coerenza
interna della musica, e la lingua, ovvero tutto l’insieme di simbologie e allusioni comprensibili,
sono armonicamente congiunti, abbiamo la comunicazione musicale e di conseguenza la possibilità
che la musica divenga tramite di valori e di pensiero, di poesia e di filosofia, a volte addirittura di
politica o di informazione.
Il potere della musica non è mai stato ignorato nelle diverse civiltà, e il suo uso è stato
sempre tenuto in massima considerazione per la capacità che possiede di penetrare nell’intimità
umana senza problemi di troppe mediazioni culturali o linguistiche. Riassume in sé moltissime cose
e le porta con sé esprimendole in modo convincente al cuore di altri uomini, in modo diretto, senza
bisogno di traduzioni e commenti.
La musica si è così espressa attraverso la vocalità e gli strumenti musicali. La voce umana è
il mezzo principale e immediato della musica, è lo strumento per eccellenza in quanto è simbolo
della comunicazione stessa in cui un uomo canta di sé ad un altro uomo, è la prima musica che
appare in tutte le culture fin dal loro sorgere. Attraverso il canto, l’uomo parla in modo speciale e
distingue la comunicazione banale dalla poesia. Il canto è sempre riservato alle cose alte, alla
preghiera e al rito, alla festa e alla gioia, all’amore che proprio nel canto e nel lirismo ha la sua più
normale espressione. Tutto questo senza però dimenticare tutto l’uso sociale del canto, dalle
acclamazioni dello stadio ai cori politici, dai canti di guerra agli inni nazionali.
Nell’ambito rituale, un posto particolare è occupato dal canto corale: l’unione di voci
diverse ma fuse in un unico evento musicale sono un chiaro simbolo dell’unione del gruppo e del
popolo davanti all’evento celebrato, mentre il canto solistico, individuale, presuppone
un’autorevolezza, un ruolo – diremmo noi oggi un “ministero” – che la comunità accetta e a cui
attribuisce un compito specifico.
Nella Sacra Scrittura l’uso della musica riflette l’uso che se ne faceva mondo antico, ma con
un’interpretazione nuova e fondamentale per il significato che viene ad occupare all’interno della
Liturgia cristiana.
È Dio stesso a suscitare il canto nel cuore dell’uomo e ad innalzarlo con la lode fino a lui, è
sempre lui a suggerire le parole e a sostenere il canto fino ad unirsi egli stesso, in Cristo, al grande
canto della creazione rinnovata. I cantici dell’Antico Testamento sono sempre inseriti in modo
molto preciso all’interno dell’evento narrato.
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Se prendiamo, ad esempio, l’episodio del Miracolo del Mare in Es 14-15, notiamo che il
racconto “in prosa” ci descrive il prodigio e le azioni dei protagonisti per poi fermarsi in una sorta
di stasi contemplativa affidando al canto il commento dell’evento. Il Canto del Mare di Es 15
diviene così, allo stesso tempo, un commento ed un canto, una contemplazione e un inno di
ringraziamento a Dio: in una parola, è il “salmo responsoriale” che segue la proclamazione della
lettura sacra precedente, che l’attualizza e la universalizza mettendo in bocca ad ogni uomo che
viene salvato dalle acque del peccato come Israele le parole “Voglio cantare in onore del Signore,
perché ha mirabilmente trionfato…”. L’evento salvifico si trasforma in canto, la lode nasce dal
profondo della storia di salvezza per allargarsi al mondo.
Così per altri cantici, come quello di Debora di Gdc 5, canto di guerra ed epopea di Israele,
quello di Anna di 1Sam 2, canto di ringraziamento e di gioioso stupore della potenza salvifica del
Signore che “fa partorire la sterile”, i salmi di Davide, sia quelli contenuti nei libri di Samuele che
quelli estrapolati e confluiti nel Salterio, tutti con la loro ambientazione storica e l’evento a cui si
riferiscono, come ad esempio il Miserere (Sal 51).
Il Salterio è, difatti, la raccolta di tutti quei canti che possono riassumere i diversi sentimenti,
le diverse reazioni: le gioie e le sofferenze, la vita e la morte che si alternano nella vita dell’uomo.
Tutto questo è posto dinanzi a Dio, in dialogo con Lui, in preghiera. Il Salmo 150, che chiude il
Salterio, enumera tutti gli strumenti musicali che si uniscono alla lode del credente. I diversi
strumenti sono simboli della creazione stessa: le pelli dei tamburi, le corde dei salterii e delle cetre, i
legni e i metalli dei flauti e dei sistri, il corno d’ariete dello shophar, giacché tutte le creature,
insieme all’uomo e al suo canto, debbono simbolicamente essere presenti nella lode a Dio.
Negli scritti profetici gli oracoli sono composti in poesia ritmica e, probabilmente, in canto.
Così, libri come il Cantico dei cantici, sono impensabili senza il riferimento alle strutture musicali,
interne ed esterne, fondamentali per la loro stessa comprensione.
Anche il Nuovo Testamento si inserisce appieno in questa tradizione, soprattutto con Luca
che, imitando lo stile greco dei LXX, ci mostra Maria cantare il suo Magnificat a commento gioioso
delle parole di Elisabetta, come avevano già fatto nell’Antico Testamento Anna, Debora e Giuditta.
Lo stesso fanno, con tono profetico, Zaccaria nel suo Benedictus e il vecchio Simeone nel suo Nunc
dimittis. Alla nascita del Salvatore, gli angeli cantano il Gloria, loro inno di lode in Betlem, mentre
Paolo di Tarso inserisce inni e cantici nelle sue lettere, canti sicuramente usati nelle liturgie delle
primitive comunità cristiane.
La Scrittura ci insegna quindi a non staccare mai il canto dall’evento salvifico e a non
dimenticare l’importanza di esprimere, con la partecipazione totale dell’uomo, al canto di Dio e
della creazione redenta.
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La musica nella Liturgia
La Liturgia è il rinnovarsi dell’evento salvifico nella storia degli uomini, la porta aperta che
ci mette in comunicazione diretta con la redenzione di Cristo. Cantare questa redenzione è compito
della musica liturgica, che non solo è sempre sacra, ma deve anche rispondere a canoni precisi
dettati dalla Chiesa che ne disciplina e sceglie l’uso nella celebrazione dei misteri. La musica, come
prima si diceva riguardo ai cantici biblici, è il linguaggio che sottolinea, interpreta e traduce in
modo artistico e nello stesso tempo rituale l’evento teologico vissuto.
A questo punto occorre soffermarsi sulla distinzione tra musica sacra e musica per la
Liturgia, poiché negli ultimi secoli le due cose non sono andate insieme sempre in modo pacifico e
chiaro. Se noi volessimo eseguire tutto il repertorio sacro del 1700 / 1800 durante una celebrazione
liturgica, ci troveremmo in difficoltà e a volte addirittura in imbarazzo, poiché le strutture musicali
non sempre sono compatibili con i suoi ritmi e le sue caratteristiche, e la stessa libertà di
espressione di alcune partiture mal s’addice al senso stesso della Liturgia.
Nella Liturgia la musica non deve mai sovrapporsi all’azione liturgica, ma deve formare un
tutt’uno con essa e da essa deve essere governata. La celebrazione del mistero della nostra salvezza
esige che la musica non esibisca sé stessa, bensì il mistero che celebra. A questo scopo, l’esperienza
della Chiesa ha da sempre considerato normativo il canto gregoriano, non per immobilizzare il
repertorio del canto liturgico, bensì per fissarne i canoni in modo tale che ogni produzione musicale
per la Liturgia abbia le medesime caratteristiche per quanto riguarda sia il contenuto che la forma.
Le forme del canto gregoriano sono infatti semplici, chiare e capaci di adattarsi ad ogni tempo e ad
ogni linguaggio musicale sperimentabile nei secoli: l’antifona, la salmodia, il responsorio,
l’acclamazione etc., tutte forme che prevedono interventi molteplici non solo del coro e
dell’assemblea, ma anche del celebrante, del salmista e del piccolo coro in dialogo con gli altri.
Tutto ciò dimostra, a mio avviso, che gli indirizzi del Vaticano II non sono altro che una
riaffermazione di quegli stessi principi che hanno animato la produzione gregoriana, anche se ci si
riferisce ad un’esperienza culturale e storica diversa: la molteplicità delle forme gregoriane si presta
al canto delle lodi di Dio di ogni epoca e luogo. Il gregoriano non mette le parole sulla musica, ma
fa sì che la musica allarghi, dilati il valore di una parola: è musica al servizio della Parola di Dio,
quindi musica al servizio di Cristo.
Nella mia esperienza di musicista ho avuto modo di riflettere spesso sull’importanza del
testo che viene cantato. La musica liturgica è sempre al servizio delle parole che vengono
proclamate, il suo ruolo è quello di esaltarne i significati e di farli penetrare più profondamente nel
cuore dei fedeli. In questo senso il fine della musica liturgica viene raggiunto, e questo fine è
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diverso da quello degli altri generi musicali in quanto si propone principalmente la celebrazione del
mistero di Dio e la comunicazione di esso al cuore degli uomini. Gli altri generi musicali possono
sottolineare altri aspetti ma, certamente, non hanno come scopo principale questa dimensione
verticale e “mistica” propria del genere liturgico.
Nell’esperienza della Chiesa, anche l’uso della polifonia è poi divenuto un modo prezioso
per esprimere il mistero celebrato e per sottolineare l’aspetto contemplativo della celebrazione
liturgica esaltando il testo cantato in modo tutto particolare attraverso il contrappunto e le armonie
che ne derivano, ma questo sempre in funzione dell’azione liturgica: nei momenti giusti, ad esempio
al momento dell’Offertorio o come secondo canto di Comunione, quando tutto il popolo si è
comunicato ed è seduto in raccoglimento, si può pregare tutti insieme con un meraviglioso mottetto
di Palestrina.
Il canto dell’assemblea rientra anch’esso in questa tradizione e deve obbedire al contesto
celebrativo. Non è semplicemente un momento per far partecipare l’assemblea con il canto, ma la
normale espressione del popolo di Dio che si unisce alla preghiera della Chiesa.
La musica liturgica è, dunque, composta dall’equilibrio di tutti gli elementi che la
compongono: il canto della tradizione gregoriana distribuito tra soli, coro e assemblea, il canto delle
parti proprie del presidente dell’assemblea e del salmista, la polifonia antica e moderna propria del
coro, i canti assembleari. A tutto ciò si può aggiungere l’utilizzo degli strumenti per arricchire e
sottolineare alcune celebrazioni secondo le caratteristiche dei diversi tempi liturgici. Credo che
l’uso degli strumenti, pur non essendo essenziale, possa aggiungere colore ed emozione sia alla
musica che all’interpretazione del testo che viene musicato.
Il Concilio ricorda, infine, anche il valore della musica sacra non liturgica che, come
spiegavo sopra, per ragioni funzionali e di struttura interna dei brani musicali, non è possibile
eseguire durante la Liturgia. Per me sono comunque un modo fantastico di recuperare il grande
patrimonio musicale sacro e, d’altra parte, di creare composizioni di più ampio respiro e di più
libera ispirazione in cui le caratteristiche più specificamente musicali possono emergere con
maggiore libertà.
Ribadendo che l’evento musicale non può essere considerato fuori dal contesto celebrativo,
come “ospitato” nella struttura della celebrazione, poiché la finalità che muove la musica nella
Liturgia è quella della lode di Dio e dell’edificazione spirituale ed essa costituisce una delle
espressioni più alte e sentite della fede della Chiesa, proprio il coro viene ad assumere un ruolo
fondamentale, in quanto funge da elemento di mediazione tra il Mistero celebrato e l’assemblea:
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deve innalzare l’assemblea verso il Mistero e tradurre il Mistero per l’assemblea. Ma va detto di
più: non è sufficiente far cantare i fratelli ed animarli, bisogna farli pregare veramente. La difficoltà
più grande non è tanto quella di far cantare, ma di far sì che il cuore di tutti i fedeli riesca a pregare
con il canto e – per mezzo di esso – far loro scoprire o riscoprire la gioia della preghiera e vivere il
momento della celebrazione eucaristica come il più importante nella vita personale e comunitaria
del cristiano.
Ci sono cori bravissimi, che però non aiutano i fedeli a pregare e non perché non cantino
bene o non cantino secondo le regole, ma perché l’atteggiamento del loro cuore non coinvolge dal
di dentro l’assemblea che canta con loro.
Il Concilio ci parla del coro a servizio dell’assemblea, ossia di un coro che, aiutandola a
entrare nel Mistero di Dio, fa partecipare tutta l’assemblea, che non deve essere ridotta a mero
ascoltatore passivo, bensì essere coinvolta il più possibile non solo direttamente, prevedendo suoi
interventi propri, ma anche indirettamente scegliendo brani di autentica religiosità e profonda
spiritualità, nonché di semplice eseguibilità, che siano cioè “alla portata” di tutti i fedeli: durante la
celebrazione non si eseguono canti complicati, né si segue la moda o si offre la propria sintesi
teologica in quanto noi celebriamo un Mistero che, trascendendoci, trascende anche il nostro modo
di fare musica o di scegliere un canto. Nella Liturgia ci accostiamo con umiltà a qualcosa che ci
supera da ogni parte: è la Chiesa stessa che ci insegna a pregare quando ci consegna il messale,
l’innario o la Liturgia delle Ore, e non io che vado ad insegnare alla Chiesa. A noi tocca mettere
tutta la nostra passione e la nostra arte, la nostra attenzione e la nostra capacità per far emergere da
quello che la Liturgia ci offre il massimo della sua bellezza.
Certamente dobbiamo tener presenti le persone che abbiamo davanti a noi: non possiamo
pretendere di far cantare un inno gregoriano a gente che non sa neppure fare il Segno della Croce,
ma se abbiamo chiaro il fine, allora useremo tutti i mezzi adeguati e necessari per condurre a quel
fine i fratelli che abbiamo di fronte.
Ci troviamo in un mondo in cui si devono fare tante cose insieme, e questo avviene spesso
anche nell’ambito del servizio liturgico: a cominciare da noi, uno deve fare questo, quello deve fare
quell’altro, e così l’ansia di far partecipare tutti diventa tale che, alla fine, diventa un “lavoro” anche
andare a Messa. Non bisogna esagerare pensando che, compiendo determinati gesti, la gente
partecipa di più. Certamente ogni gesto ha un suo significato, ed è proprio il significato che è
importante: se non c’è la sostanza, però, il gesto non significa nulla. Se quel gesto non corrisponde
realmente ad un gesto interiore, diventa un teatrino anche per i cantori che forse, dopo aver cantato
un’ora di seguito, non hanno realmente pregato.
Per ovviare a questo, è necessario ritrovare la dimensione contemplativa, occorre essere
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aperti al mistero che ci trascende, tenere sempre aperta verso Dio la porta del cuore, essere sempre
pronti a stupirci di ogni più piccola cosa. In questo modo, quando andremo in Chiesa e aiuteremo i
nostri fratelli a cantare, insegnando loro ad adorare l’Eucarestia, a guardare il Crocifisso e la
Vergine Maria, ricorderemo loro che il cuore deve essere sempre rivolto verso Cristo.
La musica sacra si trova a respirare con due polmoni: da una parte, come musica che parla di
Dio e con Dio, è musica, poesia, canto dell’uomo che vive il suo tempo, che come arte non può non
volare al di là degli orizzonti consueti per scoprire ed esplorare nuove frontiere e nuovi linguaggi;
d’altra parte, se è usata nella liturgia, deve rispondere alle esigenze della celebrazione liturgica, ai
suoi tempi, alle sue strutture e ai suoi limiti, perché è la Chiesa che prega con la musica. Il
compositore non può piegare la preghiera della Chiesa alla sua espressione musicale, ma deve
piegare la sua arte musicale all’uso liturgico che la Chiesa ne fa.
Ciò non significa che non c’è più spazio per la musica sacra di qualità o, addirittura, come a
volte si sente dire, non c’è più la musica in Chiesa. Tutti gli abusi che in questi decenni sono stati
perpetrati nei confronti della musica liturgica nascono da alcuni equivoci che hanno visto
allontanare i musicisti dalla composizione liturgica semplicemente perché non vi trovavano le solite
strutture del “genere sacro”. La Chiesa di oggi, proiettata com’è nel mondo e non semplicemente
incentrata sulla cultura europea come un tempo, respira le culture dei popoli e vive, come tutti noi,
in un mondo totalmente nuovo in cui non abbiamo più gli stessi riferimenti di un tempo. La
comunicazione dei riferimenti simbolici del linguaggio musicale, il senso del passato e della storia,
la tecnologia e l’economia, la comunicazione mediatica invadente, fanno del discorso musicale non
più un fatto elitario, ma di massa, con tutti i vantaggi e gli svantaggi della cosa.
In casi come questi non possiamo fare i “laudatores temporis acti”, non possiamo rifugiarci
nello sterile rimpianto del passato: come dicevo all’inizio, occorre lavorare con i mezzi di oggi, i
linguaggi e le forme di oggi per comunicare la nostra fede e per celebrarla rimanendo in equilibrio
tra la cultura che viviamo e il contenuto di fede che dobbiamo comunicare, fermo restando che nella
liturgia noi viviamo una situazione molto diversa da quella della composizione libera. Nella musica
liturgica la celebrazione ha caratteristiche non semplicemente soggettive, ma di universalità, la
Liturgia respira il tempo della Chiesa, che non è semplicemente la contemporaneità bensì l’ “oggi”
di Cristo risorto, l’ “oggi” di una tradizione sempre viva come testimonianza della fede dei nostri
padri.
A mio parere, il problema più grave è soprattutto l’assenza di autentica musica sacra fuori
della liturgia, e non parlo di musica che vuole cimentarsi sul “genere sacro”, ma di musica che
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esprima autenticamente la fede di chi la scrive. La sincerità del compositore qui è d’obbligo e,
nonostante le dichiarazioni di intenti, non sempre queste composizioni riflettono una fede o un
tormento autentico, una ricerca appassionata e sincera, una lode o una meditazione profonde.
Questo accade non per colpa dell’artista, ma per quell’equivoco che pone il sacro sempre in
“sacrestia” più che nel cuore degli uomini, che relega la musica sacra tra i generi formali e non tra
le ispirazioni poetiche vive anche nel mondo contemporaneo.
Questo tempo che noi viviamo, nonostante le sue contraddizioni, è a mio avviso il tempo
propizio per riproporre un’arte musicale forte in cui Dio sia nuovamente al centro della
comunicazione artistica, dove si può sentire l’uomo di oggi e di sempre cantare il suo essere
creatura con tutta la sua forza e tutto il suo tormento. La musica liturgica ne avrebbe sicuramente un
grandissimo giovamento perché potrebbe interpretare tutto questo purificandolo e semplificandolo,
divenendo autentica sintesi della fede del mondo dinanzi a Dio.