Giovanni Pascoli
Giovanni Pascoli
Giovanni Pascoli
Giovanni Pascoli nacque nel 1855 a San Mauro di Romagna (Forlì), quarto di dieci figli. A otto anni
entrò nel collegio dei padri scolopi a Urbino, dove frequentava la prima liceo quando, nel 1867, il
padre venne assassinato in circostanze misteriose; fu un delitto destinato a rimanere impunito e
che sconvolse il sereno nido familiare: la madre morì l’anno seguente e il fratello maggiore
Giacomo si trasferì con il resto della famiglia a Rimini. Giovanni riuscì a terminare il liceo e, grazie a
una borsa di studio, a iscriversi a Bologna alla facoltà di lettere. Partecipò alla vita culturale
bolognese e venne a contatto con i circoli socialisti, sposando la causa della giustizia sociale; la
partecipazione a una manifestazione di protesta lo privò della borsa di studio e Pascoli dovette
abbandonare gli studi. Intensificò il suo attivismo politico dopo aver conosciuto l’anarchico Andrea
Costa; si impegnò nella propaganda in favore della Prima internazionale e andò in prigione.
Scarcerato, abbandonò la politica attiva temperando i suoi ideali in un umanitarismo interclassista
di stampo contadino, contrario allo scontro sociale e venato di sensibilità evangelica. Ripresi gli
studi, nel 1882 si laureò con una tesi sul poeta greco Alceo.
Dedicatosi all’insegnamento del latino e del greco nelle scuole superiori, fu assegnato prima a
Matera, quindi a Massa e infine a Livorno. Nel 1892 vinse per la prima volta il prestigioso premio
internazionale di composizione poetica in lingua latina indetto dalla Regia accademia di
Amsterdam; passato alla carriera accademica, insegnò prima a Bologna, poi a Messina, quindi a
Pisa. Nel 1905 fu infine chiamato dall’università di Bologna a succedere a Giosue Carducci nella
cattedra di letteratura italiana. L’ossessione di ricostituire il nucleo familiare lo spinse a riunire
attorno a sé le sorelle Ida e Maria rinunciando a sposarsi; visse pertanto il matrimonio di Ida come
un tradimento. Nel 1895 a Castelvecchio di Barga prese in affitto una casa che in seguito acquistò,
facendone il suo nido definitivo assieme alla sorella Maria. In questi anni travagliati nacquero le
raccolte poetiche più celebri: Myricae, Poemetti, Canti di Castelvecchio, Poemi conviviali.
Sono tre i momenti della vita di Pascoli (Myricae, Canti di Castelvecchio e Poemetti): percorso dalla
brevità alla narratività.
Assunto il ruolo di poeta ufficiale impegnato a celebrare la patria, pubblicò le raccolte Odi e inni,
Poemi italici, Poemi del Risorgimento, Canzoni di Re Enzio. Nel 1911 tenne un discorso pubblico
celebrando la guerra coloniale di Libia. Morì di cancro nel 1912, dopo avere vinto per la
tredicesima volta il premio dell’Accademia olandese.
La regressione
Tale regressione, che si manifesta nel simbolo ricorrente del «nido» (luogo al riparo dalle insidie
del mondo sotto la protezione degli affetti familiari), prende tre diverse direzioni:
una regressione anagrafica (la fanciullezza, stagione dell’innocenza, della fantasia e della
spontaneità, come alternativa al mondo adulto dominato dal calcolo, dall’egoismo,
dall’insensibilità);
una regressione sociale (il mondo arcaico e armonico della campagna, regolato dalle
eterne leggi di natura, come alternativa all’universo alienante della modernità tecnologica
e cittadina);
una regressione storico-culturale (il mondo classico, ai primordi della civiltà occidentale,
come alternativa alla cultura borghese contemporanea);
Il fanciullino [1897-1903]
Un autore sincronico
Pascoli fu autore sincronico: portava cioè avanti più opere contemporaneamente, sicché la sua
produzione può essere ricondotta a una medesima poetica, che egli stesso ha illustrato nella prosa
del Fanciullino.
Il fanciullino e il poeta
La riflessione di Pascoli ruota tutta attorno alla figura cardine del «fanciullo eterno», la parte
infantile dell’uomo che ha un approccio conoscitivo con la realtà basato sull’intuizione e la
spontaneità. Il fanciullino riassume la nostra essenza in un tratto della nostra esistenza, ma il
formarsi in noi di un io adulto non comporta la sua scomparsa: pur messo a tacere, il fanciullino
rimane parte integrante della nostra personalità, quella che ci consente di stupirci e di sognare.
Pur albergando nel cuore di ciascuno, chi lo ascolta più volentieri è il poeta, simile in questo a
Omero, il poeta cieco che si fa guidare per mano proprio da un fanciullo. Il fanciullino è dunque
l’anima poetica dell’uomo. Riprendendo la definizione dantesca, Pascoli considera poeta chi
accetta di scrivere ciò che il fanciullino gli «detta dentro».
Il fanciullino per Pascoli designa la sfera irrazionale, dominata da fantasie ed emozioni: la visione
poetica del mondo è diversa da quella elaborata dalla ragione o dalla scienza. Il poeta è un
«veggente» il cui sguardo non considera l’utilità pratica o l’impatto sociale di oggetti e fenomeni,
ma «ci trasporta nell’abisso della verità» celato spesso nelle cose più umili. La conoscenza poetica
è dunque una conoscenza metafisica che avviene per via immediata e intuitiva; il poeta possiede
una facoltà divinatoria grazie alla quale può vedere la rete di somiglianze e relazioni fra le cose che
sfugge all’approccio analitico della ragione e della scienza. Siamo, evidentemente, in pieno
Simbolismo: conoscere infatti è riconoscere, è “illuminazione”. Il fanciullino non impone alle cose
le proprie sovrastrutture mentali, osservandole con la meraviglia di chi vede per la prima volta; il
nuovo, infatti, non si inventa ma si scopre. Per conoscere il fanciullino sfoglia il libro aperto della
natura, di cui bisogna saper decifrare l’alfabeto: nel libro della natura è infatti già scritta la verità.
La natura, oltre che una foresta di simboli, è per Pascoli un’orchestra di suoni; la natura ci parla,
ma solo il fanciullino è in grado di comprenderne la lingua. Tradotte in parole, le voci della natura
diventano onomatopee, il cui scopo tuttavia non è una resa realistica: a Pascoli interessa decrittare
il messaggio in esse implicito, rendere comprensibili le verità che esse oscuramente affermano; si
tratta di un «linguaggio pre-grammaticale» (Contini). Oltre all’onomatopea Pascoli utilizza molte
figure di suono (allitterazioni, assonanze) e mediante un uso peculiare di metro e rima costruisce
un linguaggio fonosimbolico.
Pascoli definisce il fanciullino come «l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente»;
dare un nome alle cose significa dare un nome alle verità in esse celate; ma l’atto poetico del
nominare è un atto di conoscenza, in quanto dare un nome significa riconoscere un senso. Le
verità scoperte dalla poesia simbolista sono di ordine ontologico, riguardano cioè l’essere in sé;
esistono dunque indipendentemente dall’uomo. Pascoli quando deve designare un oggetto sceglie
di usare non un nome generico ma il nome proprio (Contini parla di «linguaggio post-
grammaticale» in relazione ai numerosi termini tecnici anche derivati dal dialetto o dal lessico
contadino presenti nella poesia pascoliana). Al nuovo Adamo spetta dunque il compito di
introdurre per la prima volta in poesia quei termini, anche tecnici, poco diffusi anche nella lingua
comune.
L’analogia
Lo sguardo del fanciullino non si ferma però mai alla singola cosa. A esprimere queste relazioni è
deputata l’analogia, figura che mette in relazione gli aspetti comuni fra le cose: nella poesia
simbolista l’analogia non collega due elementi di pari grado, ma sempre una parte con il tutto. Ma
allora le grandi verità non devono essere cercate nelle grandi, ma nelle piccole cose; anzi il genio
del poeta si riconosce proprio nella sproporzione fra la piccolezza dell’oggetto e la verità che egli
sa cogliervi. Pascoli riesce a nobilitare la materia più umile conferendole un respiro metafisico (è il
cosiddetto «sublime dal basso»). Questa concezione poetica ha anche un risvolto esistenziale: per
Pascoli la ricetta della felicità sta nel saper gioire del poco; questa è la miglior medicina contro il
dolore e l’invidia: a chi sa accontentarsi non manca nulla. A livello sociale ciò si traduce in un
socialismo “addomesticato” che rinuncia alla lotta di classe per vagheggiare una società di piccoli
proprietari terrieri, liberi e contenti di ciò che hanno. Una visione cui non sono estranei echi
classici (in partico- lare della poesia di Orazio e di Virgilio).
Per Pascoli la poesia ha una suprema utilità morale e sociale, ma solo in quanto nasce da una
spontanea inclinazione al bello e al buono: «il poeta è poeta, non oratore o predicatore»; egli può
dunque insegnare, in quanto ci aiuta a riscoprire le verità sepolte nelle piccole cose, ma non deve
atteggiarsi a maestro o a filosofo, altrimenti la poesia diventa vuota retorica. Poeta coltissimo,
Pascoli considerava la tradizione poetica italiana ammalata di troppa cultura: i nostri poeti
avrebbero sempre preferito l’imitazione (rifarsi a questo o a quel modello) rinunciando a restituire
al lettore la naturale freschezza della natura; la cultura dovrebbe in realtà avere lo scopo ultimo di
restituire l’uomo alla sua ingenuità originaria.
Myricae [1891-1911]
Composizione e struttura
Il titolo comparve per la prima volta nel 1890 a raggruppare nove poesie pubblicate sulla rivista
“Vita Nuova”, e quindi l’anno successivo in un piccolo volume a stampa, offerto come dono di
nozze a un amico, comprendente 22 poesie. Pascoli intervenne ancora negli anni successivi con
diverse varianti d’autore: l’ultima edizione è del 1911. Evolutasi di edizione in edizione, in quella
definitiva del 1900 la struttura della raccolta è articolata in 15 sezioni. Prevale il criterio della
varietà e i temi appaiono legati a distanza da un sottile intreccio circolare.
Titolo e genere
Myricae è termine latino (preso a prestito dalla IV Bucolica di Virgilio) per indicare le tamerici,
umili arbusti comuni in area mediterranea, impiegati dai contadini per far ramazze o accendere il
fuoco. Per Pascoli simboleggiano il mondo umile delle piccole cose legate alla terra; inoltre
rappresentano un legame con il luogo natale perché particolarmente abbondanti proprio nei
paraggi di San Mauro di Romagna. La scelta del termine latino è assieme un omaggio a Virgilio, una
specificazione di genere (poesia bucolica) e una dichiarazione di poetica (fondata su semplicità di
materia e stile).
Fin dalla Prefazione Pascoli suggerisce la chiave di lettura del libro, dominato dal tema funebre
della rievocazione dei lutti di famiglia: la morte, nel giro di dieci anni, del padre, della madre e di
tre fratelli. Ma la dimensione privata assurge a visione del mondo, in cui al bene assicurato da
madre natura si mescola il male provocato dalla malvagità dell’uomo. Il nido è il grande archetipo
attorno al quale ruota il mondo poetico pascoliano. Esso è il luogo degli affetti e il rifugio contro la
cattiveria degli uomini; ogni distacco dal nido è un trauma, così come ogni ritorno è una
regressione alla beatitudine della prima infanzia (al nido il fanciullino guarda come al grembo
materno). Il nido è anche simbolo del riparo offerto dalla natura contro la violenza della storia:
pertanto è legato al polo positivo della campagna (ricco di risvolti ideologici, come la celebrazione
della piccola proprietà terriera e della serena semplicità della vita contadina), contrapposto alla
città (dove gli uomini si riuniscono solo per farsi del male). La tensione drammatica che anima la
raccolta è data dal fatto che anche nel nido la violenza si abbatte comunque, trasformando lo
spazio edenico nel teatro di un dramma. Il tema della morte si innesta quindi nell’idillio bucolico
spezzandolo; il nido appare alla fine come il campo in cui il bene, la natura e la vita danno battaglia
contro il male, la storia e la morte.
Simbolismo e frammentismo
Pascoli ha introdotto il Simbolismo in Italia. Non gli interessa dare della campagna una visione
realistica o pittoresca, ma cogliere nella natura (e nel lavoro dell’uomo a contatto con essa) il
senso metafisico del mondo e della vita. Gli oggetti non sono mai solo quello che sembrano, ma
simboli che rimandano ad altro. Pascoli è poeta ellittico, che non descrive ma evoca, non spiega
ma suggerisce; l’espediente più usato a tal fine è l’onomatopea, carattere distintivo del suo
linguaggio poetico. Tale matrice simbolista spiega anche il carattere frammentario di molte poesie,
brevi e concentrate su un’immagine, secondo il principio rimbaudiano dell’illuminazione che
improvvisamente svela la verità nascosta. La poesia essenziale di Myricae, rinunciando allo
sviluppo poematico del tema come alla complessa sintassi della tradizione, ha aperto la strada alle
grandi sperimentazioni poetiche di primo Novecento in Italia.
L’ASSIUOLO:
Il poeta descrive un paesaggio notturno nel quale si distingue il canto lamentoso di un assiuolo,
che è un uccello rapace simile alla civetta. Il canto angoscioso dell’animale diventa l’occasione per
una riflessione sulla vita e sulla morte dell’uomo. Si tratta di tre strofe di sette novenari con che si
chiudono con l’onomatopea «chiù» (che riproduce il verso dell’assiuolo). L’assiuolo si apre con un
interrogativo sulla luna e con la descrizione di un paesaggio in cui essa sta per sorgere, come
dimostra il chiarore dell’atmosfera. L’ «alba di perla» (v. 2) che si prepara all’apparizione della
luna, però, contrasta con i «soffi di lampi» (v. 5) e il «nero di nubi» (v. 6) che appaiono in un
indefinito orizzonte («laggiù», v. 6): questa nuova atmosfera, più cupa di quella descritta
inizialmente, lascia spazio al suono di «voce dai campi» (v. 7), che altro non è il che il verso
dell’assiuolo («chiù»), che non viene citato nel testo ma solo nel titolo. Anche in questo, come in
molti altri testi pascoliani, alcuni elementi e immagini assumono un significato simbolico: qui il
verso dell’animale rappresenta sensazioni di angoscia e di morte. Anche la seconda strofa
presenta immagini di serenità, quali il bagliore delle stelle e il rumore delle onde del mare; dal v.
12, però, prende spazio una sensazione di mistero («un fru fru tra le fratte») e di angoscia (un
«sussulto» nel cuore del poeta che riconduce a un «grido», a un dolore, passato, molto probabile
l’uccisione del padre); di nuovo, in chiusura, torna il verso dell’assiuolo che, però, non è più simile
a un canto, ma a un «singulto», un singhiozzo. La luce lunare torna nella terza strofa, dove illumina
le cime degli alberi, che sono mosse da leggere folate di vento, ma l’innocua immagine delle
cavallette si carica di un significato funebre: infatti il rumore delle loro ali che sbattono ricorda
quello dei sistri, che sono strumenti musicali che producono un suono tintinnante e che erano
usati nell’antico Egitto nel culto della dea Iside, a definire il ritorno alla vita dopo la morte.
Quest’ultima era la dea della fecondità e della resurrezione (grazie a lei il fratello e marito Osiride
è tornato in vita) e la sua divinità era simboleggiata dalla luna. La poesia, però, mette l’accento
sugli elementi più cupi e lugubri, come a stabilire che non è la vita a trionfare: la luna non
compare, il poeta è dubbioso e ciò che rimane è solo il verso dell’assiuolo, non più voce né
singulto, ma «pianto di morte…» (v. 23).
ARANO:
Arano faceva parte di un gruppo di otto madrigali che Pascoli pubblicò in un opuscolo in occasione
delle nozze dell’amico Severino Ferrari nel 1886. Si descrive una scena di lavoro nei campi, con i
contadini che arano e gli uccelli che sorvolando li “spiano”. Si tratta di un madrigale con due
terzine e una quartina in versi endecasillabi. Nella prima strofa lo sguardo osserva un campo
avvolto dalla nebbia mattutina dalla quale traspare («brilla») il «roggio», il colore rossastro, di
alcune foglie di vite. La seconda strofa è aperta dal verbo al plurale «arano», che riprende il titolo,
privo di soggetto: il verbo in enjambement al v. 4 chiude il periodo iniziato nella terzina
precedente ed è seguito da tre verbi che specificano il lavoro dei contadini – soggetto sottinteso
dell’intero componimento – nel campo (uno «spinge» le vacche, un altro «semina», uno infine
«ribatte» le zolle di terra). La strofa conclusiva si concentra sulle immagini del passero – il quale sa
che quando i contadini se ne saranno andati potrà beccare le sementi tra le zolle e gode a questo
pensiero – e del pettirosso, il cui verso squillante ma sottile richiama il tintinno degli oggetti d’oro,
in un’associazione di suono e colore. Quest’ultima immagine è esempio del fonsimbolismo
pascoliano, con i suoni della /i/ e della /t/ che rimandano al “tintinno” descritto.
NOVEMBRE:
Centrale è la descrizione del paesaggio che, come in molte altre liriche di Pascoli, assume una
doppia valenza: dietro un’apparenza di armonia e serenità, è costantemente presente la minaccia
della morte. Una mite giornata autunnale trasmette temporaneamente l’illusione che sia
primavera: è infatti novembre, il mese in cui l’11 cade “l’estate di San Martino”, ma anche la
ricorrenza dei morti (il 2), tant’è che Pascoli parla di «estate, fredda, dei morti». Si tratta di tre
strofe composte ciascuna da tre endecasillabi e un quinario. Nella prima strofa
di Novembre Pascoli descrive un paesaggio limpido, luminoso, che trasmette un’atmosfera
primaverile. La seconda strofa, però, è introdotta dalla congiunzione avversativa ma, che
smaschera l’illusione e riporta alla realtà: non ci sono né albicocchi né biancospini fioriti e
profumati, ma solamente stecchite piante (v. 5); tutto è vuoto e cavo (v. 6) e i rami degli alberi
formano una sorta di intreccio scuro – una sorta di gabbia – rivolgendo lo sguardo al cielo. Ciò che
trionfa è la desolazione che, nella poetica pascoliana, possiamo leggere come un riferimento
simbolico alla morte. Nella terza strofa il silenzio che invade il paesaggio è interrotto dal cadere
delle foglie, che nella tradizione poetica spesso hanno simboleggiato la precarietà umana.
LAVANDARE:
Composizione e Struttura
I Canti di Castelvecchio furono riuniti in volume nel 1903. Due liriche inedite furono inserite, per
volontà della sorella Maria, nella settima edizione del 1914, portando il totale a 59 (cui segue una
sezione a parte di nove poesie: Ritorno a San Mauro). I testi formano un coerente percorso
stagionale da un autunno all’altro, con richiami espliciti a Myricae: in apertura di raccolta è
nuovamente citato l’incipit della IV Bucolica virgiliana, mentre nella Prefazione, alle precedenti
tamerici primaverili sono contrapposte le presenti, autunnali. Un autunno anche biografico, che
coincide con il trasferimento nella casa di Castelvecchio di Barga e la ricostituzione del nido;
sicché, se Myricae è il libro del passato e del nido infranto, Canti di Castelvecchio è il libro del
presente e del nido ritrovato.
Il titolo evoca una discontinuità rispetto al breve respiro delle Myricae, richiamando la tradizione
lirica, più che bucolica, e architetture più distese e compiute. In effetti lo sperimentalismo metrico
pascoliano affronta strutture più complesse: il novenario è concatenato con ottonari, settenari e
quinari; il decasillabo con l’endecasillabo; compaiono anche distici di endecasillabi a rima baciata,
un componimento ispirato alla forma metrica popolare chiamata “rispetto”.
Folclore e vernacolo
Tra le maggiori novità rispetto a Myricae osserviamo nei Canti una componente folclorica legata a
mestieri e abitudini della gente di Garfagnana (dove si trova Castelvecchio), nonché a detti e
credenze romagnole; il poeta infatti va ora cercando nella cultura popolare di zone periferiche,
custodi di una sapienza naturale, le stesse verità esistenziali che nella precedente raccolta il
fanciullino aveva colto solo nelle voci della natura. Compito ulteriore del poeta diviene quello di
preservare le antiche tradizioni, prima che vengano cancellate dal progresso e dalla
modernizzazione. Per le medesime ragioni il «linguaggio post-grammaticale» di Pascoli si
arricchisce ora di inflessioni vernacolari e di termini tecnici ascrivibili all’ambito delle arti e dei
mestieri della tradizione romagnola e garfagnina.
LA MIA SERA:
Ne La mia sera Pascoli coglie la parte finale di una giornata dopo la pioggia, in cui trova spazio un
paesaggio di serenità e armonia tra gli elementi naturali. Ciò che avviene al paesaggio alla fine del
temporale è paragonato alla vecchiaia del poeta stesso: dopo una vita di sofferenza e
preoccupazioni, forse è giunto il momento della quiete. La poesia si conclude con un accenno
all’infanzia, quando i dolori non avevano ancora colpito la sua famiglia e la madre lo cullava per
farlo addormentare. Il testo de La mia sera è costituito da cinque strofe di sette novenari e un
senario. Ne La mia sera Pascoli descrive il paesaggio serale (sera è la parola chiave che chiude ogni
strofa) dopo una giornata di pioggia: dopo i lampi, gli scoppi, il cupo tumulto e l’aspra
bufera ritornano la calma e la pace, che lasciano spazio ai dolci suoni della natura. Il poeta, nella
prima strofa, introduce il passaggio dal temporale al sereno della sera e, nel corso della poesia, lo
paragona a ciò che è avvenuto nella sua esistenza: forse dopo anni di sofferenze e di dolori, la
vecchiaia può rappresentare il raggiungimento della quiete? Il titolo con l’aggettivo
possessivo mia sottolinea che la poesia non si limita a rappresentare un paesaggio naturale, ma
racconta qualcosa della biografia dell’io lirico. Questo diventa evidente nella quarta strofa, dove
Pascoli opera il parallelismo con i rondinini che non hanno potuto ricevere una porzione adeguata
di cibo a causa del temporale: anche lui, da bambino, ha vissuto un’infanzia diversa da come
avrebbe dovuto essere, a causa dei lutti subiti. Nel finale, poi, il suono delle campane riporta il
poeta all’età infantile ed egli si lascia cullare dai ricordi per dimenticare gli affanni che hanno
caratterizzato la sua esistenza.
IL GELSOMINO NOTTURNO:
È composta da sei quartine di novenari. Si ha una narrazione dei piccoli eventi naturali che
scandiscono la notte, dall’arrivo della sera all’alba; tale narrazione è però accompagnata da
riferimenti delicata alla vicenda d’amore dei due giovani sposi. Il gelsomino notturno è un
componimento che mette in evidenza il simbolismo pascoliano, dato che è costruito su un
alternarsi di detto e non detto e sulla corrispondenza tra elementi (oggetti, suoni, odori).
1-4: Al tramonto, l’ora del giorno più adatta per raccogliersi, il poeta si ferma a pensare ai propri
defunti. L’arrivo della notte non è descritto, ma è suggerito attraverso lo schiudersi del gelsomino
e l’apparire delle farfalle notturne.
5-8: la sera si accompagna al silenzio e al riposo; solo in una casa (quella di Gabriele Briganti)
qualcuno è sveglio e bisbiglia. Emerge il tema del nido, del luogo chiuso, che è simbolo dello spazio
affettivo, del rifugio protettivo per eccellenza.
9-12: di notte, quando tutto sembra assopirsi, si sta svolgendo un’attività feconda, in quanto i
gelsomini si stanno aprendo diffondendo nell’aria un profumo che ricorda quello delle fragole
mature, mentre l’erba sta crescendo sulle tombe. Anche nella casa, però, c’è vita, ed è quella degli
sposi. Si ha un parallelismo tra la fecondità della natura e quella degli sposi all’interno della casa.
17-20: la luce che al v. 11 era accesa nella sala, viene spostata, lungo la scala, al piano superiore,
nella camera da letto, dove i due sposi si uniranno e creeranno una nuova vita. Il poeta è reticente
rispetto all’intimità dei due coniugi, come dimostrano i puntini di sospensione al v. 20 che seguono
lo spegnersi della luce.
21-24: all’alba i petali del gelsomino si richiudono e custodiscono al proprio interno l’attesa di una
vita futura; questa attesa riguarda anche i due sposi e il frutto che è destinato a nascere dalla loro
unione. Il mondo naturale e quello domestico sono messi in parallelo tramite le rispettive vicende
sessuali: la fecondazione dei fiori e quella della sposa.
Poemetti [1897-1909]
La raccolta dei Poemetti venne quindi sdoppiata in Primi poemetti (1904) e Nuovi poemetti (1909),
costituenti comunque un dittico unito sin dall’epigrafe comune, paulo maiora, ancora una
citazione dalla IV Bucolica virgiliana, che lascia intendere questa volta un innalzarsi della materia.
Ritornano temi e scenari consueti: il mondo della campagna, il motivo funebre, il sogno di
un’umanità più buona, affrontati però in modo nuovo, con tono più solenne, più scoperta in-
tenzione ideologica, taglio meno lirico-simbolico e più narrativo-descrittivo. Di conseguenza il
linguaggio si fa più aulico e la struttura metrica dominante è ora la terzina dantesca.
Un «romanzo georgico»
Diversi componimenti appaiono concepiti e disposti in sequenza, come singoli episodi del
«romanzo georgico» (Bàrberi Squarotti) che ha come protagonista una famiglia di contadini della
Garfagnana osservata nella sua vita quotidiana, dall’autunno alla successiva estate. Nei Primi
poemetti abbiamo due sezioni dedicate alla semina e all’inverno; nei Nuovi altre due, dedicate alla
fioritura primaverile e alla mietitura. Veniamo introdotti in una società semplice e laboriosa,
radicata nei ritmi e nelle leggi di natura, una società di cui Pascoli rappresenta le modeste
occupazioni come riti e opere d’arte. Siamo di fronte a una celebrazione, ideale e politica, della
civiltà contadina: un mondo armonico, semplice e solidale, arcaico e patriarcale, sobrio e immobile
nella sua circolarità stagionale. Del tutto assenti sono invece gli aspetti negativi (attaccamento alla
roba, mancanza di solidarietà, sfruttamento, miseria, ingiustizia) denunciati dagli scrittori veristi;
Pascoli immagina piuttosto una società di piccoli possidenti terrieri come antidoto alla fame e
all’emigrazione. All’intento celebrativo dell’opera contribuisce il linguaggio, caratterizzato da
registro sublime e patina classica e letteraria, che conferiscono a persone e azioni un profilo epico.
DIGITALE PURPUREA:
1_ Le due amiche ricordano insieme gli anni trascorsi in convento. Sono piccoli anni così
dolci al cuore, ma subito dopo vengono coperti da un alone di cupezza: vengono ricordati i
rovi con le more, i canti misteriosi degli uccelli e v.15/16. La digitale purpurea a cui non
avvicinarsi assolutamente perché emana un intenso odore che causa la morte;
2_ Solo dopo aver citato il fiore, le due riescono davvero a vedere, quanto fino a quel
momento evocato: ricordano la quotidianità del convento, le visite dei parenti, l’aria satura
di incenso e le continue preghiere. Anche la seconda sezione si chiude con l’immagine della
digitale purpurea, i cui fiori vengono umanizzati; Parte fin troppo leziosa, per coprire una
realtà che è l’opposto di quell’innocenza e di quel candore.
3_ Rachele, con grande stupore di Maria, scoppia in lacrime e confessa di aver sfidato la
paura e il divieto e di essersi avvicinata al fiore, che, ribadisce l’ultimo verso, porta alla
morte;
Il titolo richiama la tradizione classica, greca e latina, dei carmina convivalia, poesie composte per
allietare i banchetti; recuperare tale tradizione per Pascoli significa ritornare ai primordi della
poesia, recuperarne l’essenza originaria: la poesia ha infatti avuto origine proprio nei banchetti.
Siamo ancora di fronte a un procedimento regressivo, questa volta di tipo storico-culturale, dal
moderno all’antico. Il poeta riprende miti, leggende, episodi storici del mondo greco e romano, a
volte in funzione metapoetica.
Scopo di Pascoli è istituire un confronto fra antichità e modernità per stabilire che cosa,
dell’antico, rimanga vivo ancora oggi. L’immagine del mondo antico che emerge da queste poesie
non è però idilliaca, ma velata di pessimismo; su tutti gli eroi evocati incombe lo spettro della
morte: solo la poesia, dando sfogo al dolore dell’esistenza, può riconciliare l’uomo con il suo
destino, consolandolo di essere nato.
Quella dei Poemi conviviali è una poesia di “secondo grado”, che nasce cioè da altri testi ed è
intessuta di riprese, allusioni, citazioni. Non manca però un messaggio umano e civile; in par-
ticolare nel componimento dedicato a Esiodo l’antico cantore è definito «poeta degli iloti», cioè
degli schiavi, degli ultimi: è l’emblema di una poesia che rinuncia alla celebrazione delle gesta
eroiche per consacrarsi alle fatiche quotidiane, ugualmente degne di canto, di tanti uomini umili e
ignoti.
ALEXANDROS:
Per la figura di Alessandro Magno Pascoli attinge alle leggende medievali che lo descrivono come
un eroe animato da un grande desiderio di conoscere che lo spinge a cercare e sfidare l'ignoto. Il
poeta, però, gli attribuisce soprattutto le sue inquietudini di uomo moderno: il rimpianto della
giovinezza, quando tutto era ancora da vivere e da scoprire, la perdita delle illusioni, il sentimento
incombente della morte. Alexandros è un eroe romantico che ricerca l'assoluto e rimane sempre
deluso dalla realtà, sempre inadeguata rispetto al sogno; ma è anche un eroe decadente per i
turbamenti che lo agitano e per l'attrazione verso l'ignoto e il mistero. La poesia è percorsa da
continui e sottili rimandi e fa un grande ricorso al non detto, all'indefinito. In Alexandros Pascoli
utilizza parole rare e riproduce i nomi greci nella loro grafia originale, confermando la sua grande
attenzione per i dettagli e per i preziosismi del linguaggio. Alessandro è giunto all'estremo confine
orientale della terra (il Fine): ormai tutto il mondo è suo, l'unico luogo non ancora conquistato è la
luna. Alessandro ricorda il lungo cammino compiuto prima di giungere ai confini della terra. Lo
spazio che appare dalla cima delle montagne non è grande come quello immaginato quando, con
la loro mole, ne impedivano la vista. Sarebbe stato meglio fermarsi, continuare a sognare: la realtà
(Vero) ha confini che la limitano, mentre il sogno, come l'ombra che essa proietta, si dilata
all'infinito. Quando Alessandro, nipote del re Amynta, aveva iniziato le sue conquiste non
conosceva la meta. Timotheo, il suonatore di flauto intonava un canto sacro che, come un soffio
possente lo spingeva a seguire il cammino voluto dal fato, sfidando anche la morte. Accostando
all'orecchio una conchiglia. Alessandro termina il suo discorso ai soldati e tace. Adesso a parlare è
il poeta, che ci descrive l'eroe. Pascoli la riprende e le attribuisce un significato nuovo (occhi di
colore diverso). Gli strani occhi diventano simboli di un conflitto interiore: l'occhio nero
rappresenta la speranza di aver ancora tanto da scoprire e da conoscere, una speranza destinata a
diventare sempre più debole; l'occhio azzurro è l'immagine del desiderio, della voglia di andare
“oltre” che diventa sempre più forte e può solo restare inappagata. Anche per il grande Alessandro
l'unico luogo sicuro è il nido lontano, la casa familiare dove attendono che faccia ritorno. Ma il
tempo e la vita se ne vanno velocemente anche sul nido aleggiano fantasmi di morte: la madre fa
sogni oscuri.
Pascoli latino
I carmina [1914]
Pubblicata postuma (1914) in due volumi a cura della sorella Maria, l’opera raccoglie più di cento
liriche in lingua latina, comprese quelle vincitrici del concorso indetto annualmente dalla Regia
accademia di Amsterdam. Pur trattando vicende e personaggi dell’antica Roma (con particolare
attenzione a figure umili ed episodi marginali rispetto alla grande storia), i componimenti sono del
tutto assimilabili, per stile e tematiche, a quelli in lingua italiana.
Il “poeta vate”