Persio

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Persio

Persio rimase presto orfano di padre, cagionevole di salute, e morì ad appena 28 anni dopo essere
vissuto tra le amorevoli cure della madre, della sorella e della zia. Eppure egli non mostra per nulla
un animo fragile, molle svigorito; anzi. Se le donne di casa gli dettero affetto e probabilmente un
senso rigoroso della dignità umana, egli trovò anche il mondo e il tempo di informarsi sui dettami
del più puro stoicismo e degli ideali atti tirannici e repubblicani.
Secondo alcuni critici la visione del mondo che Persio esprime nelle sue satire è libresca, incapace
di vedere la realtà, come si può immaginare che sia la visione di un ragazzo protetto e “tenuto
stretto” dalle “mamme” in un’atmosfera ovattata e lontana dal mondo.
Ma si è detto il falso, perché nulla del genere appare dalle satire di Persio. Nelle quali invece
l’urgenza morale è tutta assolutamente genuina: nelle sue satire c’è tutta l’amarezza e il
disappunto del poeta di fronte allo sfacelo morale e spirituale del mondo con una potenza
espressiva inusitata nel quadro della poesia romana fino al suo tempo. Tanto potente è la sua
rabbia che egli non può proporre, come Orazio, una qualsiasi soluzione per una società così
corrotta. Questa è la profonda consapevolezza di un occhio spassionatamente critico, capace di
riconoscere, negli anni neroniani, un abisso morale che scoraggiava ogni speranza di redenzione.

La figura morale e gli ideali La formazione stoica di Lucano e Persio è dovuta al grande maestro
Anneo Cornuto. Entrambi morirono giovanissimi e mostrano nelle loro opere la totale adesione
agli ideali stoici di quella cerchia aristocratica e libertaria non propensa a compromessi
morali. Mentre Lucano si mosse sulla linea politica della deplorazione del nuovo potere tirannico
(incarnato nella Pharsalia da Cesare) che aveva distrutto la libertà repubblicana, Persio si rivolse
esclusivamente all’ambito morale, dedicandosi a scrivere Satire.
Un’urgenza essenzialmente etica fu quella di Persio; la sua critica risentita verso la corruzione dei
costumi della società sembra orientata a disprezzare Nerone, il modello di quella società.

L'opera Di Persio ci è giunta una raccolta di sei Satire.


Satira I: Persio critica ferocemente la letteratura e la poesia vuote e ampollose dei suoi tempi: i
poeti cercano il successo facile e il plauso del pubblico, che, incompetente, insulso e inetto, accorre
alle declamationes e applaude alle raffinatezze peregrine, prive di forza morale e di reale talento
poetico. Il mondo delle recitationes appare al poeta come un mondo di idioti arrivisti assolutamente
inconsapevoli di che cosa significhi vera poesia, convinti che per essere poeti basti atteggiarsi
mollemente impostare una voce nasale, recitando versi solo apparentemente altisonanti, ma in realtà
vuoti ed affettati, ed eleganti soltanto per le orecchie pubblico ignorante, dal gusto corrotto e
desideroso di un immediato piacere delle orecchie. Affette dagli stessi mali della poesia sono le
scuole di retorica che insegnano ai loro allievi inutili e vuote declamazioni.
Satira III: Nella parte iniziale Persio racconta il risveglio di uno scioperato. Un amico, un
precettore, si rivolge ad un giovane perdigiorno che rimane a poltrire a letto fino al giorno inoltrato
e che non ha nessuna intenzione di cominciare a studiare, dopo una notte di sbornia, e lo invita a
prendere coscienza di se stesso dedicandosi alla conoscenza e allo studio della filosofia, che sola
può dare i mezzi per liberarsi da una vita superata e viziosa, e ad abbracciare una vita all’insegna
del rigore e dell’austerità. Il poeta critica coloro che disprezzano la filosofia e poi sono vittime di
tutti i vizi; ad essi il poeta oppone gli insegnamenti della vera sapienza. Gli uomini, prede delle loro
passioni, sono anche impauriti dalle malattie e dalla morte: solo la filosofia permette di vedere la
morte con serenità.
La parte finale acquisisce dei toni apocalittici di grande spessore espressionistico, per le immagini
di sfacelo fisico che Persio riesce a dare nella rappresentazione dell’uomo rotto al vizio della
crapula. Ignorando le prescrizioni del medico a moderare il suo vizio e a stare a riposo, quest’uomo
si abbandona di nuovo alla gozzoviglia che alterna con un bel bagno in piscina per stimolare la
difficile digestione. “Ed eccolo che prende il bagno gonfio di cibo e con il ventre giallastro, mentre
la sua gola esala lentamente fiati pestilenziali: ma mentre è intento a bere lo afferra un tremito che
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gli fa cadere di mano il bicchiere pieno di vino tiepido: crocchiano i denti scoperti e dalle labbra
pendule gli escono le bavose pietanze. Poi suono di trombe, fiaccole ed infine il nostro signorino,
ben composto nel catafalco e madido di grassi unguenti, stende i piedi irrigiditi verso la porta (i
cadaveri venivano composti sul letto in maniera che rivolgessero piedi verso l’uscita dalla stanza
perché la loro larva non tornasse a importunare i vivi e la casa): e i Quiriti di un giorno, col
berretto in testa, lo portano via”.
La malattia fisica, in quanto metafora di quella morale, viene descritta dal poeta con una dovizia di
particolari clinici e patologici molto precisi che rasentano l’espressionismo, ma che rispondono in
pieno al gusto per l’orrido e per il macabro, tipico dell’epoca e della letteratura neroniana. Il registro
si fa crudo e violento con il gonfiore esorbitante del ventre biancastro, con quel bagno in piscina
letale, con quel guttur che assimila l’uomo ad una bestia che ingozza tutto; addirittura percepiamo
le esalazioni mefitiche che lentamente fuoriescono dal ventre gonfio dell’uomo. Poi il tremore e i
brividi di freddo con la coppa ricolma di vino caldo che crolla a terra, il battito dei denti e, infine,
un vomitevole rigurgito di cibo, e sicuramente la paralisi. Il poeta tace della morte: si sente un
suono di tromba, si vedono i ceri accesi e infine il catafalco: la descrizione sarcastica fa la parodia
del linguaggio epico con quell’alto / compositus lecto (vv. 103 - 104).
Nella parte finale della satira torna il giovanotto scioperato dell’inizio, che, indispettito dal quadro
di morte, invita il poeta-precettore a verificare come il suo stato di salute sia eccellente. Ma il poeta-
precettore puntualizza che, se il giovane non presenta malattie fisiche, nel suo comportamento è
condizionato da gravi malattie quali l’avidità, la passione erotica, la gola, ira, la paura, malattie che
coinvolgono tutto il fisico dell’uomo e da cui potrà guarire solo con la cura della filosofia.
Satira V: Persio elogia il proprio maestro Anneo Cornuto e di valori storici; poi si concentra sul
tema della vera libertà, la libertà interiore, la libertà dai nostri implacabili tiranni, che sono tutti
dentro di noi: avidità, lussuria, ambizione, superstizione. Nella satira ribadisce anche il suo
programma poetico, avversando la moda del tempo che ama le tronfie e vuote composizioni epico-
mitologiche con cui i poetastri si fanno avanti con le loro recitazioni e si guadagnano il favore e la
gratificazione economica. La poesia di Persio, invece, non va alla ricerca del successo di pubblico, e
parlando in tono dimesso vuole esprimere con sincerità la sua critica alle magagne della società,
anche a costo di essere letto da pochi o addirittura da nessuno.
Satira VI: è un elogio della misura (metriotes) di matrice oraziano: bisogna godere dei propri beni,
ma senza strafare, e non bisogna esitare a privarsi di una parte del patrimonio se serve ad aiutare un
amico in disgrazia: essere l’erede vorrà lamentarsi, si lamenti pure.

Il rapporto di Persio con il genere della satira Rispetto alla tradizione della satira, Persio si professa
seguace dei suoi predecessori. Nella realtà tuttavia egli è innovativo sia nei contenuti che nella
forma espressiva. Nei contenuti, perché mette da parte la sfera personale e le esperienze del
quotidiano, restringendo il campo di azione della satira esclusivamente al biasimo dei costumi
corrotti, ai quali oppone la via della sapienza filosofica: la satira perde il carattere di varietà
tematica, e la soggettività del poeta è presente solo come voce critica, non più come protagonista,
come avveniva in Lucilio e Orazio. Inoltre il cambiamento di contenuti si porta dietro anche un
notevole cambiamento di tono generale, improntato al biasimo severo e al sarcasmo sferzante
(“questo nostro vivere squallido, nostrum istud vivere triste”, I, 9).
La novità dello stile e la cosiddetta “oscurità” Nelle Satire di Persio è significativa l’innovazione
nello stile. Le Satire sono mosse da un’irrequietezza che le spezzetta in continui interventi dialettici
di immaginari interlocutori, in esclamazioni e domande retoriche, in passaggi arditi da un
argomento all’altro che Persio effettua senza darsi pena di chiarirli con procedimenti logici, ma che
compie con salti intuitivi e collegamenti indiretti. In altre parole l’argomentazione, più che seguire
compiutamente un filo logico ben determinato, si affida al libero corso dei pensieri.
La iunctura acris. La novità dello stile di Persio si realizza soprattutto in un uso originale e
“spiazzante” del linguaggio. La base linguistica è certamente il sermo cotidianus di Orazio.
Tuttavia, egli ravviva e “reinventa” quella base linguistica accostando al registro comune termini
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del registro aulico ma soprattutto di quello volgare, facendo uso di hapax, di neoformazioni verbali,
di figure retoriche come metafore ardite, ossimori e ancora arricchendola e articolandola con greci,
forestierismi, volgarismi. Ma soprattutto Persio rende unico il suo linguaggio attraverso quella che
egli stesso chiama iunctura acris: la iunctura, l’associazione di parole, che in Orazio era callida,
“intelligente”, “arguta” in lui diventa acris, aggettivo che può significare insieme “pungente”,
“vigorosa”, “violenta”, “spietata” (V, 14). La potenza espressiva con la quale le parole di Persio
“incidono” il corpo di una società malata è simbolicamente rappresentata dall’uso del repertorio
linguistico di mestieri umili, come quelli del chirurgo o dal barbiere o del fabbro. Cari a Persio, per
esempio, sono verbi come radere, “raspare”, “grattare”, “rasare”, “raschiare”, defigere,
“inchiodare” e revellere, “strappare”, “svendere”, “distruggere”. La iunctura acris consente a Persio
di attribuire al codice linguistico una funzione emotiva: tutti i suoi versi sono pieni di espressioni
inusitate come sartago loquendi (“padella di parole”, I, 80), vaporata aure (“con orecchio riscaldato
a vapore”, I, 125), de gente hircosa centurionum (“dalla razza dei centurioni che puzza di becco”,
III, 77).

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