Storia Delle Dottrine Politiche

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Storia delle dottrine politiche

Montesquieu
1689-1755
Autore dello Spirito delle Leggi (1748). Scrive, lavora e vive prima della Rivoluzione Francese.
È un barone, un aristocratico che vive in un paese che a partire della seconda metà del Seicento ha adottato una forma
di governo tipicamente assolutistica, la Francia. In Francia regna Luigi XIV, che diceva “Lo Stato sono io”.
Ha di fronte a sé un paese molto diverso dal suo, l’Inghilterra. Inghilterra in cui si è compiuta la Gloriosa Rivoluzione,
che ha portato all’instaurazione di una forma di governo monarchico limitato. Mentre in Francia c’è una monarchia
assoluta, in Inghilterra al potere del sovrano si contrappone il potere del parlamento, che detiene il potere legislativo
oltre al potere di controllo sull’operato del monarca. Ecco che Montesquieu scrive, vede e osserva il momento in cui la
storia dello stato giunge ad un bivio: Da un lato ci sono paesi che si sviluppano nella forma dell’assolutismo, dall’altro
c’è il modello di uno stato monarchico limitato. Questo passaggio cruciale viene inquadrata in maniera molto chiara da
M. nell’opera da noi presa in esame.
Paradosso – Tra conservazione ed innovazione: M. non è un moderno costituzionalista, non lo possiamo considerare
come un nostro contemporaneo. È al contrario il paladino di una reazione aristocratico-nobiliare all’assolutismo, è un
conservatore. Guarda con nostalgia all’indietro, non guarda avanti, rimpiange e teorizza un nuovo ruolo per le
aristocrazie di contenimento del potere monarchico. È un autore nostalgico che guarda alla storia passata, al
Medioevo, ai sistemi feudali, tuttavia elabora delle categorie che poi rimangono al cuore della modernità dei sistemi
politici contemporanei e per questo è un innovatore. Guarda al passato ma immagina un’ingegneria costituzionale di
sapore prettamente moderno, non a caso le sue idee diventeranno patrimonio comune di tutte le costituzioni
moderne, a partire dalla prima che è la costituzione americana.
È il teorico per eccellenza della separazione e dell’equilibrio dei poteri, ma è al tempo stesso uno studioso della società
prima ancora che della politica ed è uno dei primi e più grandi scienziati sociali dell’età moderna e contemporanea (Le
tappe del pensiero sociologico).
Lo Spirito delle Leggi
M. ci lavora per vent’anni, rimangono infatti tracce di come le sue opinioni siano cambiate, infatti prima ha una visione
repubblicana della politica che poi soccomberà alla monarchia “limitata”.
Guardando complessivamente a questa grande opera possiamo dire che i suoi temi fondamentali sono tre…
Definizione di “Spirito delle leggi”
Qual è l’approccio di M. all’analisi della politica? A differenza di Platone, Aristotele e di tanti altri che si interrogavano
su quale fosse la migliore forma di governo, di organizzazione sociale, ecc... M. approccia la politica con spirito
empirico, cioè si chiede qual è la forma di governo più adatta a diversi contesti, ha un concetto relativistico della
politica. Non ha un approccio di tipo valutativo alla politica e non ha neanche un approccio di tipo “razionalistico” (!=
Giusnaturalisti). M. con un metodo sperimentale e comparativo e raccogliendo anche una documentazione sul campo,
si interroga sulle forme specifiche che la politica e la società assumono in diversi contesti. Non ha un approccio
razionalistico nella misura in cui ha un approccio sperimentale, non ragiona, non immagina uno stato di natura, ma
osserva e cerca di trarre delle regolarità, dei principi. Diversi popoli che vivono in diverse condizioni devono darsi un
sistema di leggi che non sono le migliori in assoluto ma al più le migliori in quel contesto. In certe condizioni
funzionano determinate forme politiche, in altre, altre. (Es. i popoli nordici più portati della libertà rispetto ai popoli
meridionali). Lo spirito delle leggi è ciò che nei diversi contesti deve ispirare la legislazione e il sistema politico e sociale
a cui di volta in volta ci si riferisce. Non ci sono forme politiche o sociali migliori o peggiori ma semplicemente più o
meno adatte alla realtà e al contesto di cui sono espressione. Ci troviamo di fronte ad una concezione relativistica
della politica, che non teorizza l’unicità di una via di sviluppo alla modernità, ed è la stessa idea che è stata ripresa
negli anni Novanta del Novecento nel libro “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”.
Teoria delle forme di governo
Storia - Teoria che viene elaborata per la prima volta nella tradizione occidentale nell’antica Grecia, in particolare nelle
Storie di Erodoto “Qual è il miglior governo per la Persia?”. Da quel momento questa teoria è entrata nel DNA della
teoria politica occidentale fino a Carl Schmidt. Teoria che si basa su due principi fondamentali, un criterio
quantitativo, ossia il numero dei governanti (monarchia, aristocrazia, democrazia) e un criterio qualitativo, ossia se
coloro che governano, governano in vista del proprio interesse particolare o nell’interesse generale
(monarchia/tirannide, aristocrazia/oligarchia, democrazia/oclocrazia). Gli antichi greci distinguevano le forme di
governo sulla base di questi criteri, individuando così tre forme di governo “a coppie”. In più la domanda tipica che si
facevano i classici era “Qual è la migliore forma di governo?”, le domande erano molto diverse… la democrazia è una
cosa mostruosa (Es. Platone – Epistocrazia). Questa teoria ha conosciuto un importante sviluppo così come viene
formulata tra Erodoto, Platone e Aristotele. Viene poi riformulata da Polibio, storico greco che osservando e
analizzando la Repubblica romana (siamo tra il 200 e il 100 a.C.) teorizza il governo misto, cioè una forma di governo
in cui sono presenti elementi del governo monarchico (consoli), elementi del governo aristocratico (senato) e ancora
elementi del governo democratico (tribunato della plebe). L’idea di Polibio è che il governo misto sia la migliore delle
forme di governo perché spezza una tendenza propria delle forme di governo “pure” a degenerare continuamente le
une nelle altre. C’è per Polibio un ciclo di vita delle forme di governo che porta un’instabilità continua nel governo
della società e il governo misto permette di costruire delle costituzioni durature.
Ci sono delle eccezioni, è il caso di Machiavelli che dice che le forme di governo sono due: repubbliche o principati.
Nel Principe teorizza l’idea che sia necessario riscattare l’Italia che “si trova ad essere battuta, spogliata, lacera, corsa”,
vive una crisi di ampie proporzioni. Per riscattare la penisola Machiavelli invoca un principe, capace di essere volpe e
leone. Machiavelli è ordinariamente legato al “Principe” e ci facciamo l’idea che sia il teorico per eccellenza del
governo del principe, cioè del governo di uno solo che governa col consenso del popolo, tuttavia ne i “Discorsi sopra la
prima deca di Tito Livio” (1521) si scopre il vero Machiavelli, che è un tipico esponente del pensiero repubblicano, fa il
tifo per la repubblica guardando come Polibio al modello della repubblica romana, che è nella descrizione che ne fa
Machiavelli il modello esemplare di reggimento politico perché ha instaurato una forma di costituzione mista che ha
permesso alla repubblica romana di prosperare, di espandersi, di acquisire forza e al tempo stesso di garantire la
libertà dei cittadini. Machiavelli ha un’idea conflittuale della politica, cioè ritiene che la politica sia lotta, conflitto e
riteneva che il conflitto, la lotta tra le parti, avesse una valenza positiva, perché tiene vive le società, le fa progredire,
crescere, le rinforza, spegnere i conflitti porta le società ad ossificarsi, a diventare statiche, tuttavia se il conflitto non
deve essere spento al tempo stesso non deve erompere in guerra civile, in scontro violento ed è qui che si inserisce la
sua teoria repubblicana, cioè la sua teoria del governo misto, perché quello che ha permesso alla repubblica romana
di prosperare è il fatto che le sue istituzioni contenessero elementi monarchici, aristocratici e popolari.
Le istituzioni sono orientate non a spegnere il conflitto ma a controllarlo. Da questo derivano le imprese di Roma. C’è
un’idea nuova nel modo di concepire la politica : Politica = Governo del conflitto: per molto tempo e anche oggi
(Movimento 5 Stelle) c’è l’idea che la politica sia il perseguimento del “bene comune”. Machiavelli dice che non è così,
inizia ad introdurre nel dibattito politico l’idea che la politica sia governo del conflitto, in società che sono
necessariamente conflittuali, non esistono società che siano tenute insieme da un interesse generale, gli interessi sono
sempre particolari e vanno tenuti insieme dalle istituzioni e questo lo fa in modo egregio il sistema repubblicano.
Nella seconda metà dell’Ottocento : Mosca dirà che tutti i governi sono in realtà oligarchici! Il resto è apparenza.
Nel Novecento : Schmidt con la sua teoria pone al cuore della politica la categoria di amico/nemico, la politica è lotta
portata agli estremi.
Siamo partiti dal bene comune e siamo arrivati alla teoria dell’amico/nemico, in mezzo c’è Machiavelli, ci sono i padri
fondatori della costituzione americana che insistono sul fatto che la politica sia governo istituzionale del conflitto, della
differenza, che c’è e non può essere rimossa.
Montesquieu propone una classificazione delle forme di governo a tre voci che sono in parte diverse da ciò che
abbiamo visto fino ad adesso: Dispotismo, Monarchia, Repubblica (Aristocratica, Democratica). Monarchia e
tirannide diventano due forme di governo drasticamente diverse e aristocrazia e democrazia diventano sottospecie
della forma di governo repubblicana.
Come arriva ad individuare queste tre forme di governo? Fissando in linea generale due diversi criteri di classificazione:
natura, che riguarda la specifica struttura che una determinata forma di governo può assumere (numero governanti,
rapporto tra chi governa e le leggi) e principio, che è la passione, il sentimento che muove, che fa agire, che mette in
movimento i meccanismi del comando e dell’obbedienza, cioè i meccanismi del potere, ciò che è usato per tenere a
bada, per comandare.
Teoria della separazione, divisione ed equilibrio dei poteri
I tre temi sono legati da una riflessione sulla crisi della monarchia francese, da una riflessione sui rischi dispotici che il
modello francese porta con sé e sui rimedi che a questo rischio si possono opporre, cioè la teoria della separazione dei
poteri, che nello schema di M. è una teoria della libertà, cioè il presidio della libertà delle singole persone, perché
laddove i poteri sono concentrati nelle mani di un sovrano, oppure nelle mani del popolo, dove i poteri si concentrano
sorge immediatamente il rischio dell’arbitrio e dove il potere può agire a capriccio secondo il proprio arbitrio i
cittadini non hanno più nessuna garanzia della propria libertà. In questo senso M. è uno dei più grandi classici della
tradizione liberale, che proprio sul tema della libertà ha costruito le proprie riflessioni, categorie e concetti.
Ha dei precedenti molto illustri, non se la sta inventando dal nulla:
I. Magna Charta (1215) : , documento che stabiliva che accanto al sovrano dovesse agire un corpo politico
formato dalle grandi famiglie aristocratiche del regno, dai rappresentanti delle città, ecc..
II. Locke : aveva già teorizzato la necessità di separare i poteri nei Trattati sul governo, può essere considerato
come l’ideologo della Gloriosa Rivoluzione, mette in chiaro che il potere esecutivo (Sovrano) e il potere
legislativo (Parlamento) devono essere rigorosamente separati, tuttavia non fa riferimento al potere
giudiziario, che considera come un pezzo del potere esecutivo e al tempo stesso introduce un terzo potere,
che è il potere federativo, che è un pezzo del potere esecutivo che però si applica alla politica estera. Quindi
c’è una teoria della separazione dei poteri in Locke che tuttavia non assume ancora la forma raffinata che
assume in Montesquieu.
Dopo Montesquieu : i matti, autori che portano alla follia, fino alle estreme conseguenze il principio della separazione
dei poteri, saranno i federalisti americani, che sono i più conseguenti e radicali lettori dell’opera di Montesquieu, che
si immagineranno il governo presidenziale, in cui c’è un muro alto e forte tra il potere esecutivo e quello legislativo.
Contro l’idea della separazione dei poteri : si scagliano Hobbes e Rousseau, che appartengono a due mondi
apparentemente diversi ma entrambi ritengono che i poteri non possano essere separati, perché entrambi con
argomenti opposti ritengono che la sovranità debba risiedere in un unico luogo, se la sovranità si spezza, non esiste, o
è nelle mani di un solo soggetto o non esiste.
Argomenti :
 Il principio generale da cui parte è l’idea che ogni potere, ogni forma di potere, tende ad accrescersi senza
limite, chi ha potere tende a consolidare, a concentrare sempre più nelle sue mani quel potere stesso e a
sfuggire ad ogni controllo. Il potere genera ulteriore potere che tende a sottrarsi a qualsiasi tipo di
regolamentazione.
Per spezzare questo circolo vizioso si può contrapporre a potere un altro potere, creando un meccanismo di
pesi e di contrappesi che impediscano a chi ha potere di accrescere ulteriormente il proprio potere. Il potere
ha una tendenza a crescere che non può essere contrastata con parole, formule, bisogna contrapporre a
potere un altro potere, il potere va controbilanciato.
 A partire da questo principio generale M. con un ragionamento molto lucido distingue tre forme, tre ambiti di
potere molto differenti che funzionano in ogni comunità, in qualunque stato di ogni dimensione.
Potere esecutivo: È il potere specifico del governo (Conte, Boris Johnson). Secondo M. questo potere di governo deve
essere attribuito al sovrano, al dinasta, al re, cioè a colui che è legittimato dinasticamente. Questo potere ha dei
margini piuttosto ampi di autonomia ma deve sempre agire nei limiti delle leggi e soprattutto deve essere bilanciato
dal potere legislativo, cioè dal parlamento. Il sovrano non può fare tutto quello che vuole perché deve agire in base alla
legge e al tempo stesso deve essere costantemente tenuto sotto controllo dal parlamento.
Potere legislativo: È il potere di fare le leggi. M. guardando all’esperienza dell’Inghilterra post-Gloriosa Rivoluzione lo
attribuisce ad un parlamento bicamerale, con due camere che sono una la Camera dei Lords (Senato), di nomina regia
e di carattere ereditario e l’altra la Camera dei Comuni, eletta da quella parte di popolo che possiede ricchezza,
cultura, ecc... (voto per censo). Il parlamento è bicamerale, quindi ogni legge per diventare legge dello Stato deve
essere approvata da due assemblee, da due camere separata, deve passare al vaglio di due diverse istanze.
Confronto con oggi ()
o Anche il parlamento americano, il Congresso, è bicamerale, soltanto che la Camera bassa
rappresenta la totalità dei cittadini della nazione, mentre la camera alta, cioè il senato rappresenta i
diversi stati che compongono gli Stati Uniti d’America, in questo senso si parla di bicameralismo
imperfetto, cioè in cui le due camere sono drasticamente diverse per composizione, per
orientamenti e dunque sottopongono la stessa legge a due sguardi differenti.
o In Italia abbiamo il bicameralismo perfetto, cioè abbiamo due camere che sono una la fotocopia
dell’altra, nel senso che la composizione di quelle due camere è identica.
Il bicameralismo ha delle nobilissime tradizioni, perché l’idea è di fare attenzione quando si fa una legge e di guardarla
da diversi punti di vista! In questo modo anche all’interno del parlamento si insinua il principio della separazione dei
poteri! Anche all’interno del potere legislativo è necessario creare dei pesi e dei contrappesi che sono in questo caso
radicati in una società articolata tra ceti aristocratici e ceti borghesi.
Il compito del parlamento non è soltanto quello di fare le leggi, ha altri due compiti cruciali secondo M. e secondo tutti
coloro che teorizzano la forma di governo parlamentare: Controllo dell’esecutivo, controlla il funzionamento
dell’amministrazione (es. Commissioni parlamentari di inchiesta) e al tempo stesso il parlamento bicamerale ha un
altro essenziale potere che è quello di approvare o meno il bilancio dello stato, che stabilisce quante tasse si vanno
prendere e da chi, come quei soldi messi in cassa vengono spesi, quindi è il momento in cui si prendono decisioni
strategiche di vitale importanza. Il parlamento può far inceppare l’esecutivo.
Potere giudiziario: È il potere di amministrare la giustizia in base alle leggi. La magistratura, i corpi giudiziari
amministrano la giustizia sulla base delle leggi che sono state approvate dal potere legislativo, cioè dal parlamento.
I giudici hanno un grandissimo potere, possono togliere la libertà e persino la vita alle persone, ma questo potere ha
due limiti: devono agire sulla base di leggi che sono state elaborate dal parlamento; la giustizia viene sempre
esercitata in relazione a casi singoli, i giudici non hanno il potere di cambiare le leggi o di infliggere pene di carattere
collettivo. M. lo affida ad una magistratura (lui è un magistrato) che sia dotata di forte indipendenza, non può
dipendere né dal potere esecutivo e nemmeno al potere legislativo. È fondamentale come presidio della libertà, è il
grande pilastro su cui si fonda la libertà dei cittadini e se non agisce come il deposito delle leggi, cioè se non è
indipendente, si può cadere in forme dispotiche di potere.
Questi poteri soprattutto negli stati di media grandezza devono essere separati, nel senso che devono essere attribuiti
a soggetti diversi che devono trovare un equilibrio nel loro operato, questi soggetti diversi sono il sovrano, il
parlamento e il corpo giudiziario.
L’Inghilterra di fronte a lui…
Il modello che M. ha davanti quando scrive lo Spirito delle Leggi è completamente diverso da quello appena delineato.
Quando arriviamo alla metà del Settecento l’Inghilterra è diversa da quella che M. teorizzando si immagina.
In Inghilterra non è già più il sovrano ad esercitare il potere esecutivo, poco per volta nello sviluppo di questi sistemi
costituzional-parlamentari il sovrano, il re, il dinasta cessa sempre più di governare in prima persona lo Stato e
comincia sempre più a regnare, cioè a costituire una sorta di potere di garanzia del sistema nel suo complesso.
Il re regna ma non governa (Inghilterra, Spagna). Il re sta sullo sfondo, interviene quando ci sono grandi crisi, ha il
potere di nominare il capo del potere esecutivo. Il sovrano poco per volta si rende conto che la sua funzione non è
tanto quella di governare quanto quella di garantire l’equilibrio di tutto il sistema.
In Inghilterra nasce il cosiddetto governo di gabinetto, cioè nasce per prassi il seguente meccanismo:
ci sono le elezioni per la camera, si elegge il parlamento, vince un determinato partito, il re incarica il capo di quel
partito di assumere le redini del governo, cioè nomina un candidato premier che deve presentarsi alle camere e
ottenerne la fiducia. Si inserisce tra il potere del re e il potere del parlamento, il potere del premier, che di regola è il
capo, il leader del partito che ha la maggioranza in parlamento. Il sistema cambia completamente il suo assetto.
Confronto con oggi:
o I sistemi parlamentari sono sistemi in cui il capo del potere esecutivo, il premier (Johnson) è al tempo stesso
il capo del partito che ha la maggioranza in parlamento. Questo vuol dire che la tanto decantata separazione
dei poteri si attenua molto, i confini tra il potere legislativo e il potere esecutivo si attenuano molto. I sistemi
parlamentari sono sistemi in cui la separazione dei poteri perde notevolmente di forza.
In Italia quando ci sono le elezioni noi non votiamo il capo del governo, come succede in America, ma
votiamo per eleggere due camere, votiamo quindi un’assemblea parlamentare. Quando abbiamo votato e si
vedono i risultati, si forma un parlamento dove ci saranno alcune forze in maggioranza e altre all’opposizione.
A questo punto il nostro capo dello Stato, Mattarella (= Regina Elisabetta) incarica qualcuno, un premier, un
leader, un personaggio, che può anche essere preso fuori dal parlamento (Draghi, Grillo, Conte), di andare in
parlamento, dichiarare il proprio programma e chiedere la fiducia del parlamento. Se la fiducia c’è, quel
leader può iniziare ad operare come capo del governo, se non c’è la fiducia se ne torna a casa oppure decade
appena quella fiducia cessa di esserci. È un meccanismo che alla fine smorza quella rigida separazione dei
poteri che M. immaginava, perché il premier altro non è che il capo del partito che ha la maggioranza in
parlamento e quindi tra potere legislativo ed esecutivo c’è un legame molto stretto. Ecco perché i governi
parlamentari quando funzionano (non in Italia, ma in Inghilterra) sono molto più energici, più forti di un
governo presidenziale, dove potere legislativo ed esecutivo sono rigidamente separati.
o Molto diverso è il caso del sistema presidenziale americano, perché il presidente e il Congresso godono di
legittimazioni indipendenti. Il presidente e il Congresso sono l’espressione di un voto popolare. Il parlamento
non può mandare a casa il premier e il premier non può sciogliere il parlamento. Il presidente e il Congresso
non si possono sciogliere a vicenda. Questo è il modello di Montesquieu, questo è il vero governo diviso,
mentre nei sistemi parlamentari non funziona così.
Nel sistema americano c’è sempre la possibilità senza che cada il governo, senza che se ne vada a casa un presidente,
che il parlamento eserciti un contropotere nei confronti dell’esecutivo, mentre nei governi parlamentari se non c’è più
la fiducia se ne va via anche l’esecutivo, quindi o funziona tutto e l’esecutivo prosegue o non funziona niente e
l’esecutivo se ne va a casa.
Il Federalista
1787-1788
Cos’è
Opera collettiva uscita che è uscita tra il 1787 e il 1788 nel fuoco di un grande dibattito sulla modifica di una vecchia
costituzione americana e dell’elaborazione di quella che è tutt’ora, seppur con un po’ di aggiustamenti, la costituzione
americana.
Gli autori, tutti uomini politici di grandissimo rilievo, sono Hamilton, Madison e Jay. Hamilton appartiene ad una
tradizione conservatrice, mentre Madison è un autore più aperto alle istanze del progressismo.
Non si tratta di un’opera sistematica di teoria politica, non è un testo come il Leviatano di Hobbes oppure il Contratto
Sociale di Rousseau, ma è al contrario una raccolta di articoli di giornale apparsi tra il 1787 e il 1788 finalizzati a
sostenere la causa, le ragioni della nuova costituzione degli Stati Uniti che è stata elaborata nella Convenzione di
Filadelfia nel 1787 e che poi è stata approvata tra il 1787 e il 1788 dai singoli stati americani, entrando in vigore nel
1789. Possiamo dire che si tratta di articoli di “propaganda” orientati a convincere i cittadini degli stati americani circa
la bontà della nuova costituzione che i padri costituenti avevano appena elaborato a Filadelfia. Si tratta di 85 articoli di
giornale di una dozzina di pagine l’uno che vogliono sostenere, di contro ai cosiddetti antifederalisti, le ragioni di
questa nuova costituzione, tuttavia nonostante questo tratto “propagandistico” abbiamo a che fare con una
grandissima opera politica che ha ispirato a fondo la cultura liberale e poi anche la cultura democratica dell’età
contemporanea, in particolar modo proprio per ciò che riguarda la teoria del federalismo. Il federalismo di cui tanto si
parla a proposito dell’Europa che sarebbe in termini americani un federalismo dimezzato, si ispira al federalismo
americano. In particolare, ci troviamo di fronte ad un testo che ragionando sulla costituzione disegna una teoria
politica estremamente originale.
Siamo ancora prima della Rivoluzione francese e quindi quello che questi signori stanno immaginando è un sistema
politico, una forma di organizzazione dello stato, che non ha precedenti da nessuna parte.
Si stanno inventando un modo di organizzare la convivenza civile, sociale, il governo della società, che non ha eguali,
perché se si guarda all’Europa del tempo ci si trova di fronte ad una maggioranza di stati che si reggono con sistemi di
tipo assolutistico (Francia, Prussia) e poi il contro-modello dell’Inghilterra in cui vige la monarchia costituzionale.
Questi signori si immaginano una repubblica federale di grandi dimensioni che non ha eguali da nessuna parte, un po’
se la immaginano studiando i sistemi politici contemporanei e un po’ la costruiscono sulla base di una profonda
conoscenza del mondo classico, sono grandi studiosi dei testi classici, su una base quindi di una cultura politica.
L’elemento che sta al centro del testo costituzionale e dunque dell’opera dei federalisti è un’idea esasperata di
separazione dei poteri. L’architrave che regge un po’ tutta questa riflessione e il sistema politico americano è l’idea di
una radicale separazione dei poteri, che questi signori hanno portato alle estreme conseguenze. Per questa ragione
c’è una forte continuità di pensiero tra Montesquieu e questi pensatori.
Contesto
Ci stiamo occupando di quella grande trasformazione, di quella grande accelerazione della storia che prende corpo in
America con la cosiddetta rivoluzione americana che ha il suo momento culminante nella Dichiarazione di
indipendenza che gli Stati Uniti proclamano il 4 luglio del 1776, dichiarazione di indipendenza delle tredici colonie che
decidono di secedere, di separarsi dalla Gran Bretagna di cui rappresentavano un dominio coloniale seppure sui
generis. Quindi siamo dentro il processo innescato dalla rivoluzione americana, cioè dalla secessione degli Stati Uniti
d’America dalla Gran Bretagna: Questa rivoluzione è stata dettata dalle crescenti frizioni tra le colonie inglesi nel nord
America e la madre patria, alimentate soprattutto da un tema fondamentale : Il diritto alla rappresentanza, cioè la
richiesta che i coloni hanno fatto ripetutamente, prima di arrivare alla rottura, alla Gran Bretagna di cui sono sudditi
ma è vero anche che in qualche modo ne sono parte perché arrivano da lì, è stata quella di essere rappresentati al
parlamento britannico. Questa richiesta non viene accettata in maniera particolarmente ingiusta perché nel ventennio
precedente allo scoppio della rivoluzione americana, i coloni americani avevano dato un contributo molto importante
durante la guerra dei Sette anni da cui la Gran Bretagna esce come la potenza mondiale maggiore e tuttavia quando
poi chiedono che siano riconosciuti loro alcuni diritti fondamentali si trovano di fronte ad un muro invalicabile da
parte della corona britannica ed ecco che le cose si complicano, i rapporti diventano sempre più tesi, si arriva ad atti di
sabotaggio sempre più espliciti (T-Party) fino a quando non si arriva a questa Dichiarazione di indipendenza alla quale
segue una guerra piuttosto lunga tra Stati Uniti e Gran Bretagna (1776-1783) che è stata anche una guerra civile
poiché non tutti i coloni americani erano tutti così decisi a separarsi.
È nel corso di questa guerra che gli Stati Uniti di America, cioè i 13 stati nati dalla Dichiarazione di indipendenza, si
danno nel 1781 una prima costituzione che si chiama Articoli di Confederazione. È un primo tentativo di dare a questi
13 stati una struttura istituzionale che li faccia funzionare insieme. A questa costituzione, finita la guerra, ne segue una
seconda che è la Convenzione di Filadelfia del 1787, di cui questo grande testo rappresenta un gigantesco
commentario.
Si parte da una costituzione che ad un certo punto viene ritenuta inadeguata e se ne redige una nuova che entra in
vigore nel 1789 dopo un ampio dibattito nel paese tra federalisti (liberal-conservatori) e gli antifederalisti
(democratici). Questo testo nasce nel momento in cui si redige la nuova costituzione degli Stati Uniti.
NB gli Stati Uniti allora erano 13 Stati, oggi sono 50, sono stati veri e propri, come lo sono la Francia, l’Italia, ecc…
ci sono stati indipendenti quasi del tutto sovrani che devono trovare un modo di vivere insieme e queste due
costituzioni ruotano intorno al modo di organizzare i rapporti tra gli stati negli Stati Uniti. Gli Stati Uniti non sono una
cosa sola, sono 50 stati che hanno ognuno un suo governo, una propria legislazione, che indubbiamente si
assomigliano molto ma sono diversi e il problema della costituzione è come farli funzionare insieme tramite istituzioni
comuni.
Ogni stato americano ha una sua costituzione, sono stati veri e propri! Queste costituzioni più generali sono un
tentativo di organizzare la loro convivenza.
Questi 85 articoli sono costruiti intorno a due grandi domande, che richiamano il pensiero politico di Montesquieu:
Come si può neutralizzare il rischio della guerra tra gli stati che compongono gli Stati Uniti (?)
Come si può neutralizzare il rischio del dispotismo (?)
I federalisti vedono un nesso stretto tra la guerra e il dispotismo perché sostengono che la guerra porta con sé il
dispotismo, perché porta a rafforzare i poteri del governo, dà molto potere all’esecutivo, rischiando di generare dei
grandi capi che poi controllano tutto. La guerra genera il dispotismo ma a sua volta il dispotismo, cioè quel governo
capriccioso, arbitrario, è particolarmente incline alla guerra, il despota che non incontra nessun ostacolo sulla propria
strada, che agisce a suo capriccio, che spesso opera per ragioni di prestigio personale, tende a fare la guerra. I sistemi
dispotici, lo dirà Kant, tendono a fare la guerra. C’è una sorta di circolarità. Ecco spiegato perché i due temi principali
sono come evitare la guerra e il dispotismo, i due grandi mali.
Questi due grandi mali sono esattamente i due grandi mali che affliggono il vecchio mondo, l’Europa. Qui c’è una
riflessione su come essere diversi dal vecchio continente europeo di cui pure gli americani sono figli.
“Noi non vogliamo diventare come gli stati del vecchio mondo, gli stati europei, che si fanno la guerra sempre e che
sono tutti dispotici!”
Gli americani cambieranno per un attimo idea, intravedranno un’Europa un po’ diversa quando inizia la rivoluzione
francese, poi però la stessa rivoluzione francese con le sue dinamiche farà vedere come di nuovo l’Europa sia
destinata a cadere nelle guerre e nel dispotismo e da lì prenderà avvio una riflessione sulla propria differenza ma
anche sulla necessità di tenersi separati dai guai che affliggono la vecchia Europa e questo sarà il succo della Dottrina
Monroe (1823), dottrina strategica secondo la quale l’America deve perseguire una politica di tipo isolazionistico
tenendosi lontana dall’arena dei grandi conflitti internazionali e farsi i fatti suoi, certo deve esercitare un controllo sul
cortile di casa, cioè l’America centrale, l’America latina, ma non deve immischiarsi nelle faccende del vecchio mondo.
Fino alla Seconda guerra mondiale seguono rigidamente questa regola, con una parentesi all’epoca della Prima guerra
mondiale quando Wilson porta gli Stati Uniti in guerra, ma dagli anni 20 fino all’inizio della Seconda guerra mondiale
praticano una politica isolazionistica che è un po’ quella politica che vorrebbe riprendere Trump e una parte
consistente della tradizione conservatrice. (L’Europa degli americani)
Qual è la ricetta per neutralizzare la guerra e il dispotismo? Qual è la ricetta per essere diversi dalla vecchia Europa
iper-conflittuale e tendenzialmente dispotica?
Dividere, separare e disperdere i poteri
sia sul piano della divisione funzionale dei poteri (esecutivo, giudiziario, legislativo) che sul piano territoriale. Con
questa doppia dispersione secondo i federalisti si può veramente eliminare in radice il pericolo della guerra e del
dispotismo.
Contro la guerra
Come si può organizzare stabilmente la convivenza pacifica tra i 13 stati americani? Quello che fanno è immaginare
una strada per rendere pacifici le relazioni tra i tredici stati che compongono gli Stati Uniti d’America.
L’autore che più si spende su questo tema è Hamilton, che è un tipico realista politico, è un signore che ragiona
tenendo bene a mente le condizioni reali in cui si svolge la vita politica e non immaginando costruzioni utopistiche.
H. soprattutto nell’articolo 6 ragiona sul tema della guerra. La sua posizione è molto semplice:
la guerra tra stati è inevitabile se permane la sovranità assoluta degli stati, cioè il potere di decidere in ultima istanza
su tutto.
In altri termini secondo H. la guerra deriva dalla struttura anarchica del sistema internazionale. La guerra è il
semplice brutale prodotto della cosiddetta anarchia internazionale. Se il sistema di relazioni tra gli stati mantiene una
struttura anarchica, cioè se non ha un ente superiore, un terzo che sta al di sopra degli stati e ne governa le relazioni,
la guerra è inevitabile. Se gli stati possono decidere in ultima istanza, senza che nessuno possa metterci becco, come
comportarsi con altri stati, basta che due stati siano confinanti e prima o poi tra di essi la guerra scoppierà.
H. argomenta in polemica con due posizioni che troveremo espresse da Kant. ( Kant riteneva che
1. gli stati repubblicani, quelli che oggi chiamiamo “stati democratici”, tendono a non farsi la guerra tra di loro,
fanno la guerra con gli stati dispotici, per cui se aumenta il numero degli stati democratici, repubblicani, allora
diminuirà la possibilità che scoppino delle guerra e quindi se tutti gli stati fossero repubblicani, non ci
sarebbero guerre. Secondo K. ci sono delle ragioni di politica interna (forma di governo) che muovono uno
stato o meno verso la guerra.
2. Un’altra tesi che troviamo nel testo kantiano è che con l’avanzare dello sviluppo del commercio le relazioni
tra gli stati si starebbero pacificante. Lo spirito del commercio “oggi” dilagante rende la guerra obsoleta. Gli
stati si relazionano tra di loro non più con le armi, ma competono sul terreno economico che è un terreno per
sua natura pacifico. )
H. che è un brutale realista, che guarda la realtà effettuale della cosa e non l’immaginazione di essa, sostiene che il
fatto che un governo sia di un tipo o di un altro non fa la differenza, abbiamo miriadi di casi in cui stati repubblicani si
sono fatti la guerra tra di loro e il commercio spesso diventa una ragione per l’esplosione dei conflitti e delle guerre.
Insomma,
o gli stati rinunciano in primo luogo sul tema della politica internazionale ad essere i decisiori di ultima istanza e si
sottomettono ad un arbitro terzo, oppure la guerra fatalmente scoppierà.
In questo quadro di guerra inevitabile in un contesto di anarchia internazionale i federalisti introducono la distinzione
cruciale tra confederazione e federazione. La precedente costituzione, quella del 1781, disegnava una repubblica di
tipo confederale. Con la nuova costituzione del 1787 i costituenti propongono il passaggio dalla confederazione alla
federazione.
Confederazione VS Federazione
Sia la confederazione che la federazione sono delle alleanze, tra stati. Mentre in una confederazione ognuno di questi
stati mantiene, pur nel quadro di un accordo con gli altri, la propria sovranità assoluta, nel caso della federazione
questo non accade più.
La Confederazione è un’alleanza tra stati in cui gli stati decidono di praticare delle politiche comuni (es. stessa moneta,
linee di politica estera), tuttavia se dentro questo quadro uno stato decide di adottare una moneta diversa, o di fare la
guerra o contro altri stati o all’esterno della confederazione, mantiene il potere e gli strumenti per farlo. Si mantiene
la sovranità assoluta degli stati, cioè il potere di decidere in ultima istanza per contro proprio su tutto.
Esempio La società delle nazioni (1919) è una tipica confederazione. Tanti stati entrano in essa e si mettono d’accordo
per perseguire delle politiche comuni ma mantengono sempre la possibilità teorica e gli strumenti concreti per farsi la
guerra uno con l’altro. Tant’è che la SDN va in contro a ripetuti fallimenti (es. rimilitarizzazione confine con la Francia
della Germania e nessuno può dire niente; l’Italia scatena la guerra di Etiopia; Il Giappone invade la Cina). Finché va
bene si fanno delle cose insieme ma quando uno stato ritiene che siano in gioco i propri interessi fondamentali, a quel
punto decide di andare per conto proprio e non ci sono strumenti veri per impedirglielo. Questa era la situazione in
cui si trovavano i tredici stati, uniti attraverso gli articoli di confederazione.
NB Anche l’ONU è una confederazione! È una grande assemblea di stati dove ogni stato può decidere di fare la guerra
senza che di fatto gli altri possano impedirglielo oltre una certa misura.
La Federazione è sempre un’alleanza tra stati i quali però decidono su poche ma essenziali materie (politica estera,
moneta, politica commerciale) di rinunciare alla propria sovranità assoluta e delegano questo potere ad un’entità, ad
un’istituzione che sta al di sopra di essi e che decide sovranamente su quelle poche ma importanti materie di cui si è
detto. Questa struttura superiore è l’Unione Federale (Biden, il Congresso). Questo significa che se uno di questi stati
volesse inserire la pena di morte, potrebbe farlo, ma se volesse adottare un’altra moneta o dichiarare guerra, non
potrebbe farlo, perché su quella materia è sovrana soltanto l’Unione Federale, cioè il vertice federale dello stato. In
una federazione gli stati hanno ampissimi poteri sovrani ma su tre, quattro cose non possono dire nulla! Parla soltanto
il vertice federale. Gli stati non hanno gli eserciti per fare la guerra! Esiste l’esercito degli Stati Uniti d’America che è
nelle competenze del vertice federale. Al di sopra degli stati c’è un insieme di istituzioni che non possono dire niente
su un sacco di cose sulla vita interna degli stati ma che su tre, quattro cose che riguardano complessivamente gli Stati
Uniti hanno la voce determinante. Quando c’è stata la Guerra del Golfo nel ’91 e di nuovo nel ’03 e gli Stati Uniti sono
intervenuti in quei conflitti nessuno stato avrebbe potuto sottrarsi, perché su quella materia decide il presidente, cioè
il vertice federale.
In questo modo, secondo Hamilton, si può evitare che gli Stati Uniti diventino stati che si scontrano tra loro. Questa
soluzione federale ha in ampia misura funzionato, perché gli Stati Uniti, tranne una parentesi drammatica (Guerra
civile americana (1861-1865)), sono rimasti in una condizione reciproca non conflittuale.
Ecco che il federalismo è diventata una ricetta che molti teorici, politici, ritengono che possa funzionare quantomeno
su scala europea, ma anche su scala mondiale! Alcuni pensano che se tutti gli stati del pianeta delegassero ad un super
stato mondiale i poteri coercitivi, le guerre non ci sarebbero più. (Il pensiero federalista)
Lo stesso processo di integrazione Europea è stato mosso quantomeno al principio da questa stessa idea, ovvero il
federalismo come ricetta generale per evitare la guerra. Tuttavia, le cose non sono andate come i teorici sognavano.
L’Europa di oggi ha una componente importante di federalismo che è rappresentata dalla Commissione Europea e dal
Parlamento europeo, che sono istituzioni di tipo federale, che stanno al di sopra degli stati, ma un pezzo fondamentale
dell’Europa continua ad avere un carattere confederale, il Consiglio d’Europa. L’Europa è uno strano ibrido tra
federalismo e confederalismo che non sappiamo bene come andrà a finire. Abbiamo una moneta unica (non tutti) ma
non abbiamo un esercito comune europeo. (Storia dell’integrazione europea)
Ciò che viene contestato dagli antifederalisti (Jefferson) è il fatto che così facendo si costruisce un potere molto
distante dai cittadini e che quindi può agire con una libertà di azione che è pericolosa per la democrazia.
Contro il dispotismo
Come si può neutralizzare il dispotismo? Anche qua ritorna in maniera centrale il tema della separazione dei poteri!
Il primo argomento che introducono in diversi articoli è l’esaltazione del governo rappresentativo. I federalisti sono
convinti che i governi debbano essere rappresentativi del proprio popolo, cioè non devono essere affidati ai capricci di
un sovrano. Chi governa deve rispondere al popolo.
Qui gli americani fanno proprio quel principio che già è funzionante nel mondo inglese, cioè ritengono che la società
vada governata attraverso assemblee in cui siedono dei rappresentanti del popolo che tuttavia se da un lato
costituiscono una garanzia che il popolo abbia voce in capitolo nella gestione della società, dall’altro stabiliscono una
distanza significativa tra il governo e il popolo. Tra il popolo e il governo ci deve essere un filtro, che è la
rappresentanza che si esprime nei parlamenti. Questo principio rappresentativo però non implica che il popolo nel suo
complesso debba essere rappresentato. Per i padri fondatori della costituzione americana così come per molti liberali,
soltanto una parte del popolo ha diritto ad esprimere a votare dei rappresentanti, soltanto i ceti ricchi e colti hanno
questa prerogativa. Qui ci troviamo di fronte ad una rivoluzione che è stata fatta in nome del popolo, ma siamo ancora
in un’epoca in cui il diritto di voto è ristretto su base censitaria e le cose cambieranno in America ma non in Europa
soltanto negli anni Trenta dell’Ottocento.
Per marcare questa differenza tra il governo popolare e il governo rappresentativo i federalisti fanno riferimento alla
distinzione tra repubblica, che per loro consiste nel governo rappresentativo, organizzato sulle istituzioni parlamentari
con una rappresentanza limitata dei ceti popolari, e democrazia, che è il vero governo del popolo che si esprime
direttamente nell’assemblea, come accadeva in Atene. La repubblica incarna la democrazia indiretta, mentre la
democrazia incarna la democrazia diretta. La democrazia diretta è quella in cui i cittadini sono chiamati a riunirsi in
assemblea e a prendere immediatamente decisioni politiche per alzata di mano. È l’assemblea che produce
immediatamente provvedimenti, norme, leggi e in alcuni casi è chiamata ad esercitare il potere giudiziario. Nel
governo rappresentativo il popolo non prende decisioni politiche ma elegge coloro che dentro le assemblee
parlamentari prenderanno decisioni politiche, promulgheranno le leggi e via dicendo.
Proprio in questi ultimi anni molti studiosi sono tornati a rimarcare questa distinzione tra repubblica e democrazia.
(Progetto democrazia) La “vera” democrazia sostiene D. Greber non passa attraverso la rappresentanza, ma
attraverso l’autogoverno diretto del popolo. È l’esperimento che hanno cercato di mettere in atto coloro che hanno
partecipato all’occupazione di Wall Street.
I padri fondatori della costituzione americana sono ben lontani da quella democrazia. Perché?
Il popolo è poco affidabile, è passionale, è fatto di poveri che vogliono mettere le proprie mani nelle tasche dei ricchi,
dei produttori, quindi bisogna il più possibile tenerlo lontano dal governo e il filtro per farlo è la rappresentanza che è
un primo pezzo di riflessione contro il dispotismo, perché da un lato fa sì che il governo non possa agire
arbitrariamente ma debba rispondere ad una legittimazione che proviene dal basso, quindi da un lato il meccanismo
rappresentativo istituisce una sorta di controllo su chi governa e quindi frena il dispotismo, dall’altro rappresenta un
freno anche rispetto alle tendenze potenzialmente dispotiche che sono implicite nella democrazia. Madison in
particolare è soprattutto preoccupato dalla prospettiva della cosiddetta tirannide della maggioranza, cioè che si
possano formare dei governi in cui la maggioranza opprime la minoranza.
Riassumendo, una ricetta contro il dispotismo è l’instaurazione di un governo rappresentativo che non sia una
democrazia, ossia la repubblica.
La separazione dei poteri
I federalisti la concepiscono a due diversi livelli.
Da un lato la separazione deve essere funzionale, alla Montesquieu, dall’altro ci deve essere una separazione
territoriale dei poteri. I poteri non devono essere semplicemente separati dal punto di vista delle loro funzioni, ma
anche dispersi sul territorio.
Separazione territoriale
Questa è la ricetta federale dal punto di vista della politica interna, per organizzare all’interno lo stato, che si basa su
un principio di cui si parla molto sia in Italia che a livello Europeo, il principio di sussidiarietà. Il principio di
sussidiarietà è la chiave di volta del federalismo interno, cioè della separazione territoriale dei poteri. Vuol dire che in
ogni comunità politica ad ogni livello di potere devono corrispondere poteri differenziati.
In America ci sono diverse unità politiche fondamentali, la più piccola sono i comuni, salendo ci sono le contee che
contengono più comuni, poi arriviamo agli stati che contengono più contee e infine troviamo l’Unione Federale che
contiene tutti i livelli inferiori di comunità politica. L’idea dei federalisti è che ognuno di questi livelli di comunità deve
autogovernarsi per ciò che è di sua competenza. Ad esempio, se il comune x decide di costruire una scuola o che le
scuole iniziano il giorno x, è il comune ad essere sovrano in questa decisione. Per tutto ciò che sta fuori dal comune le
decisioni vengono prese a livello di contea. Se si vuole scrivere un Codice penale, la decisione spetta agli stati. Se si
tratta di decidere in materia di politica estera, di moneta, la decisione spetta all’unione federale.
Man mano che sale il livello e l’estensione del potere troviamo che chi esercita quel potere lo esercita su materie
generali ma non su tutte le altre.
È vero che il presidente degli Stati Uniti ha dei poteri immensi, tuttavia relativi a pochissime materie. Il potere federale
fa in realtà pochissimo. Questo è il principio di sussidiarietà che mostra come i poteri sono dispersi nel territorio.
In uno stato centralistico, come la Francia, qualsiasi decisione che riguardi le periferie dello stato viene presa dal
centro. In America non c’è un centro ma ci sono tanti centri che si coordinano tra loro su un numero sempre minore di
materie e a questi differenti livelli di potere corrisponde anche la possibilità per i livelli più bassi di estrarre le tasse dai
cittadini. C’è una tassa comunale, una statale e una federale. In questo modo i poteri sono dispersi sul territorio, non
c’è un luogo in cui si concentrino e quindi secondo i federalisti si può contenere in maniera consistente la
concentrazione dei poteri. Il presidente ha poteri enormi nella proiezione all’esterno del paese ma quando deve
prendere decisioni politiche viene bloccato dagli stati, infatti ci sono in America dei conflitti di attribuzione di
competenze tra l’unione federale e gli stati.
I padri fondatori della costituzione americana sono incapricciati con questa idea di disperdere i poteri sul territorio
a questo proposito due osservazioni: Se si guardano le capitali dei singoli stati americani non sono quasi mai le città
più importanti di quelli stati (Es. New York). Le capitali amministrative non devono essere le città più ricche, importanti
e famose. Se si guarda allo statuto di Washington DC che noi consideriamo come il centro del potere politico
americano, non è uno stato! È un distretto in cui risiedono le istituzioni federali (Casa Bianca, Congresso), questo per
evitare che quella concentrazione di risorse, di potere legata ai centri della potenza politica presidenziale e
parlamentare diventasse troppa. Hanno deciso che non dovesse essere all’interno di nessuno stato, altrimenti
qualcuno degli stati americani sarebbe diventato infinitamente più potente degli altri.
NB Se uno vuol fare la rivoluzione basta prendere la capitale, mentre se la si vuole fare in America non basta assaltare
la Casa Bianca e il Congresso, perché accanto ad essi ci sono una miriade di istituzioni dotate di poteri indipendenti
che bilanciano qualsiasi tentativo di controllo dall’alto dell’intero paese.
Questa è una risorsa essenziale per disperdere i poteri e quindi per frenare il rischio del dispotismo. Naturalmente la
situazione è molto cambiata rispetto all’epoca di cui stiamo parlando. L’America che sceglie l’isolazionismo è
un’America in cui la politica estera è ridotta a poca cosa e dunque i poteri presidenziali sono stati per lungo tempo
molto limitati. Poi però quando l’America comincia a diventare una grande potenza industriale, economica, finanziaria
e ad entrare nel gioco della politica internazionale, la scena cambia completamente, il ruolo di Washington e la figura
del presidente diventano molto più importanti.
Disperdere i poteri sul territorio è una risorsa fondamentale per frenare il rischio del dispotismo.
Separazione funzionale
Si aggiunge la separazione funzionale dei poteri che in America è interpretata in forma molto rigida, ben di più di
quanto non lo sia nei sistemi parlamentari. Nella letteratura politologica viene definito come “governo diviso”.
Abbiamo di fronte un meccanismo di funzionamento del potere politico che è completamente diverso da quello a cui
siamo abituati noi. NB Questa rigida separazione dei poteri non vale soltanto a livello dell’unione federale, ma anche
nei singoli stati, che hanno un loro governatore e dei loro parlamenti, cioè replicano la struttura dell’Unione Federale.
Come funziona concretamente questa separazione funzionale dei poteri?
Ci sono tre grandi corpi istituzionali: la presidenza, che detiene il potere esecutivo; il Congresso che si compone di due
camere, un Senato e una Camera dei rappresentanti e che detiene il potere legislativo; la Magistratura, che esercita
un rilevante potere politico. Gli americani hanno immaginato questa architettura in maniera diabolica!
Già soltanto l’elezione di queste istituzioni (Presidente e Congresso) avviene con tempistiche completamente diverse:
il presidente sta in carica 4 anni, i deputati che siedono nella Camera dei rappresentati hanno un mandato che dura
due anni, i senatori hanno un mandato che dura 6 anni ma il Senato ogni due anni si rinnova di 1/3. Quindi insieme al
presidente si elegge una nuova camera dei rappresentanti e anche 1/3 dei senatori. Il dato più rilevante che
caratterizza il sistema politico americano è che il Presidente viene eletto direttamente dal popolo e questa è una
delle principali differenze che separano i sistemi parlamentari da quelli presidenziali. Il Presidente gode di una sua
personale legittimazione popolare, dunque non c’è niente per quattro anni che lo possa far decadere dalla sua carica,
niente tolto l’impeachment che è una procedura giudiziaria che si svolge all’interno del Congresso: la Camera dei
rappresentanti mette in moto l’impeachment e poi il Senato giudica il Presidente che, se viene dichiarato colpevole
perde la carica e finisce sotto il giudizio di un tribunale ordinario. Tuttavia, questa è una procedura giudiziaria e non
politica, perché il Presidente non può in alcun modo essere sfiduciato dal parlamento, in quanto gode di una sua
autonoma legittimità. Mentre il capo di un governo parlamentare ha un potere che è il riflesso della maggioranza
parlamentare, quindi un capo di governo parlamentare non può sopravvivere al voto di sfiducia del parlamento, il
Presidente si può trovare di fronte ad un parlamento ostile che non può fare niente per mandarlo a casa tolto
l’impeachment.
Presidente e Congresso hanno poteri separati perché si fondano su una legittimità autonoma.
Presidente che viene eletto direttamente dal popolo ma tramite il meccanismo dei grandi elettori. Succede che i
cittadini americani non votano direttamente il presidente, ma votano per dei grandi elettori che a loro volta poi
voteranno il presidente. Chi sono i grandi elettori (?) Dei rappresentanti, dei membri dei due partiti che sostengono i
due candidati presidenti e che vengono eletti in un numero che è pari alla somma dei deputati e dei senatori, quindi
qualche centinaio di persone. Gli americani votano per un centinaio di persone che immediatamente dopo votano per
il Presidente. È come se i cittadini eleggessero un parlamento che a sua volta elegge il Presidente, ma eleggono un
parlamento che fa una sola cosa, eleggere il presidente e lo fa senza mai riunirsi. È una specie di parlamento virtuale
che senza mai riunirsi ha il solo compito di votare il Presidente. Il ragionamento dei padri costituenti è che bisogna
evitare di far votare direttamente il Presidente al popolo perché c’è il rischio che in questo modo il voto popolare
diretto possa accendere passioni, che possano vincere le elezioni dei demagoghi capaci di raccogliere il consenso
popolare. In una elezione diretta del presidente ci sono dei rischi. Per queste ragioni mettono in piedi il sistema dei
grandi elettori, che non si riuniscono nemmeno poiché se si riunissero, si potrebbero creare dinamiche demagogiche,
esacerbare gli animi, eccetera. Questi grandi elettori votano per il Presidente, cosa che possono fare senza alcun
vincolo di mandato. I padri costituenti prevedono che il grande elettore che rappresenta il candidato Presidente A
possa cambiare idea e votare il candidato Presidente dell’altra parte ed ecco che rappresentano un filtro vero nelle
intenzioni dei padri costituenti. Poi poco per volta, soprattutto quando si è dispiegata pienamente la democrazia e i
partiti americani si sono consolidati, questo passaggio dai grandi elettori all’elezione del Presidente è diventato quasi
automatico seppur non necessario. Qui abbiamo a che fare con un’elezione indiretta del Presidente.
L’elezione del Presidente è resa ancora più complicata dal particolare meccanismo elettorale che governa le elezioni
americane. In America, così come in Gran Bretagna, vige un sistema elettorale di tipo maggioritario. Gli americani
quando vanno ad eleggere i grandi elettori votano nei singoli stati, che hanno a disposizione un numero diverso di
seggi. Il partito che ottiene la maggioranza dei voti, si prende tutti i seggi dello stato, quindi se in California i cittadini
votano al 51 % il presidente A, tutti i seggi che sono in palio in quello stato, vanno al presidente A. Questo spiega
perché molto spesso il cosiddetto voto popolare, cioè il voto che i cittadini danno per i grandi elettori (per un
candidato presidente), sia poi molto diverso dal voto elettorale, cioè dal voto che danno i grandi elettori. Nelle
elezioni del 2016 Clinton ha preso 3 mln di voti popolari in più rispetto a Trump, ma le diavolerie di quel sistema
elettorale e in particolar modo questo principio maggioritario hanno completamente alterato il risultato nei termini
del voto elettorale, cioè c’è stata un’enorme discrepanza tra voto popolare e voto elettorale. Al netto di queste
diavolerie il Presidente incarna nella sua figura un mandato popolare che dura quattro anni.
Accanto a questa prima elezione se ne svolge un’altra che riguarda il Congresso e anche qui le cose non sono meno
diaboliche. Il Congresso tanto per cominciare è un parlamento bicamerale, questo di nuovo perché i padri fondatori
ritenevano che fosse necessario che una legge prima di entrare in vigore venisse discussa da tutti i possibili punti di
vista. Questo sistema bicamerale, a differenza di quello britannico a cui pensava Montesquieu, non prevede una
divisione delle due camere, l’una ereditaria e l’altra elettorale, ma prevede l’esistenza di due camere che
rappresentano il popolo degli Stati Uniti, la Camera dei rappresentanti e gli stati che compongono gli Stati Uniti, il
Senato. Nella Camera siedono i rappresentanti del popolo degli Stati Uniti, è una camera nazionale, mentre il Senato
è una camera statale, in cui siedono due senatori per ogni stato (oggi sono cento). Rappresentanza nazionale in seno
alla Camera e rappresentanza statale in seno al Senato. Tra l’altro i due senatori per ogni stato non vengono
inizialmente eletti, ma nominati dai governi o dai parlamenti dei singoli stati, cioè nel Senato siedono i rappresentanti
degli stati. Il Senato organizza, dà forma ad una rappresentanza che è paritaria, mentre la Camera no! Perché lì si
guarda alla popolazione degli Stati Uniti e non agli stati che compongono l’unione federale. Il mandato popolare ha
una durata molto breve, due anni. La Camera è l’unica istituzione in cui i rappresentanti sono eletti direttamente dal
popolo! Questa durata breve controbilancia un po’ il grande potere che conferisce una vera elezione popolare. I padri
costituenti pensavano che la chiave di volta del sistema politico americano fosse il Senato, che tra l’altro è l’organo
che insieme al Presidente forma tutti i ranghi dell’amministratore e quindi ha un forte potere amministrativo. Il Senato
ogni sei anni, perché i senatori sono persone con grandi meriti, grande cultura e quindi mettono al servizio del paese
la propria esperienza.
NB In America il Presidente non è solo il capo del governo ma anche il capo dello stato (Draghi + Mattarella).
I due poteri, Congresso e Presidente, possono contrastarsi molto facilmente! Ad esempio, il Presidente può porre un
veto su una legge elaborata, formulata e approvata dal Congresso e quindi può rallentarne l’entrata in vigore, tuttavia
il Congresso ha il diritto dopo un certo periodo di ripresentare anche la stessa legge contro la volontà del Presidente e
a quel punto il Presidente la deve controfirmare. Il Congresso ha il potere di approvare o meno il bilancio dello stato,
che è il momento più alto della politica nazionale. Un Congresso ostile ad un Presidente lo mette in difficoltà e di solito
il Presidente ne fa le spese. Se il parlamento non approva il bilancio e io Presidente voglio andare in guerra, io non
posso comprare le armi; se il parlamento non approva la legge di bilancio e io Presidente sono democratico e voglio
dare a tutti un accesso universale alla sanità pubblica, non posso fare niente.
Il Sistema è pensato per bloccarsi, per inceppare continuamente l’azione di questi corpi che costituiscono gli attori
fondamentali del sistema politico.
NB i senatori prima venivano nominati poi ad un certo punto hanno cominciato ad essere eletti, come i deputati.
Dipendeva dalla legislazione dei singoli stati se sono nominati dal governo oppure dal parlamento. Oggi i senatori
vengono eletti direttamente dai cittadini.
Come è possibile che cambino di 1/3 i senatori? È scritto nella costituzione! (art.1, sez.3). Nella prima nomina del
senato era previsto che 1/3 avesse un mandato di 2 anni, 1/3 di 4 anni e 1/3 di 6 anni.
Ogni volta che questo sistema è stato esportato altrove è accaduto che esso si inceppasse e desse luogo a momenti di
anarchia, di disordine o a esperienze di tipo dittatoriale e questo è successo molte volte in America Latina.
Molti in Italia sostengono con forza l’idea che si dovrebbe arrivare ad un sistema di tipo presidenziale, perché i sistemi
presidenziali sono i sistemi che “funzionano”, una volta che il presidente viene eletto finalmente fa, invece che sfinirsi
nei giochetti, negli inganni, nei trucchi e soprattutto nelle chiacchiere parlamentari. Vero, un presidente eletto
direttamente dal popolo ha una grandissima autonomia, ma occorre considerare tutto il sistema di pesi e contrappesi
che costituiscono un forte limite a questo potere.
“Funziona” molto meglio il sistema semipresidenziale francese. In Francia oggi c’è un sistema bicefalo in cui c’è un
presidente eletto direttamente dal popolo ma contemporaneamente c’è un’assemblea parlamentare che esprime un
governo. È come se fosse un sistema presidenziale innestato su un sistema parlamentare. C’è un presidente e un capo
del governo. È un sistema a due teste in cui il potere esecutivo è condiviso tra il presidente e il capo del governo e
spesso è capitato che il presidente fosse socialista e il capo del governo repubblicano, si ha in quel caso la cosiddetta la
coabitazione. Vige la regola che il capo del governo si occupa degli affari interni, mentre il presidente degli affari
esterni, tuttavia quando si inceppa il meccanismo parlamentare a quel punto interviene il presidente, che assume il
controllo totale della politica nazionale. Quella francese è una via di mezzo tra un sistema parlamentare e un sistema
di tipo presidenziale.
I federalisti europei originariamente pensavano ad un’Europa in cui ci fosse un parlamento eletto da tutti i cittadini
europei, un senato (attuale consiglio europeo) dove siedono i rappresentanti degli stati e poi un capo dell’esecutivo
che godesse della fiducia di questi due rami del parlamento, quindi non eletto direttamente dal popolo. Le cose
funzionano diversamente. Il parlamento europeo non è un vero parlamento perché condivide con la commissione
europea e col consiglio europeo lo stesso potere legislativo.
Il potere giudiziario per Montesquieu è un potere spaventoso che ha la forza di togliere la libertà e la vita alle
persone. In America questo potere ha anche un risvolto politico molto forte perché i costituenti hanno previsto che i
giudici non soltanto a livello della corte suprema degli Stati Uniti che veglia sulla costituzionalità delle leggi in via
preventiva, ma hanno previsto che tutti i corpi giudiziari (tribunali, giudici) potessero emettere sentenze orientate al
controllo costituzionale. Poniamo che lo stato del Texas approvi a maggioranza in parlamento una legge che sancisce
l’emarginazione di una certa classe di persone, per esempio i neri. È una legge che fa si che il primo nero incontrato
per strada venga arrestato, portato in carcere e sottoposto a processo. Quando si svolge il processo succede che, se
c’è un bravo avvocato, può appellarsi alla costituzione che è una legge sovraordinata alla legge ordinaria per
dichiarare non valida la legge ordinaria approvata da un parlamento e quindi il nero viene immediatamente liberato e
così sarà per chi incorrerà in futuro nelle sanzioni di quella legge non costituzionale. La magistratura esercita qui in
modo indiretto un potere politico, di controllo, un bastone fra le ruote messo tra gli ingranaggi del potere legislativo in
questo caso. Attenzione, la magistratura non ha il potere di abolire una legge, perché altrimenti avrebbe un potere
abnorme, tuttavia indirettamente l’effetto politico c’è perché agendo sul caso singolo in un singolo processo rendono
quella legge, una legge inefficace che poi grazie al sistema dei precedenti diventerà inefficace in tutti i casi che si
ripeteranno, fino a quando il parlamento del Texas non cancellerà la legge in questione. Si nota come il potere
giudiziario esercita un controllo sulle azioni sia del potere esecutivo che del potere legislativo.
C’è esattamente la situazione di Montesquieu in cui i poteri sono separati ma soprattutto intrecciati l’uno all’altro e si
bilanciano in un sistema di pesi e contrappesi che risulta essere molto efficace.
Sistemi elettorali
La letteratura politologica distingue tre sistemi elettorali differenti:
 Sistemi proporzionali
 Sistemi maggioritari a turno unico (Italia) …
 Sistemi maggioritari a doppio turno (Francia, Italia (Regioni)): Funziona così per le elezioni dei presidenti delle
regioni in Italia. C’è un primo turno in cui se un candidato prende più del 50 % dei voti la faccenda finisce lì,
mentre se nessuno prende più del 50 % dei voti, dopo 15 giorni si fa un ballottaggio e chi a quel punto prende
più del 50 % dei voti vince le elezioni.
Non è mai molto chiaro come funzionano questi sistemi. Per comprenderli occorre osservare che la gran parte degli
esiti di un sistema elettorale, degli effetti che esso produce, dipende dal tipo di entità territoriale entro cui siamo
chiamati a votare. Da questo punto di vista ci possono essere o dei collegi uninominali, in cui vince un solo candidato
oppure delle circoscrizioni plurinominali, in cui ci sono più seggi in palio e quindi vincono più candidati.
Qui sta la differenza fondamentale tra sistemi maggioritari e i sistemi proporzionali.
Esempio Immaginiamo di dover eleggere un parlamento di cento deputati.
In un sistema maggioritario noi prendiamo l’Italia la dividiamo in territorialmente in cento collegi elettorali e in
ognuno di questi collegi si svolge una competizione elettorale tra partiti e quindi candidati, che però viene vinta
soltanto solo da un soggetto. Per fare i cento deputati dobbiamo fare cento collegi, cento competizioni elettorali e i
primi che vincono in ogni collegio sono coloro che vanno in parlamento. Questo è un sistema disrappresentativo
perché poniamo il caso che ci siano due partiti e che in ognuno di questi collegi vinca sempre di un voto o di un punto
percentuale il candidato del partito A, mentre i candidati del partito B perdono sempre per un punto percentuale. In
questo caso avremo un paese in cui il 51 % delle persone sono orientate verso il partito A e il 49 % verso il partito B,
ma in parlamento ci vanno solo i candidati del partito A. Se ci fossero tre partiti, in parlamento entrano soltanto i
candidati del partito A con il 33 % delle persone votanti a suo favore, e così a continuare.
Nel caso di un sistema proporzionale dividiamo l’Italia in cinque grandi circoscrizioni elettorali in cui sono disponibili
20 seggi per circoscrizione. In una competizione di questo tipo il partito A può conquistare il 51 % dei seggi in ognuna
delle circoscrizioni, ma il partito B si becca il 49 %. Quindi in parlamento troviamo sia rappresentanti del partito A che
del partito B. Questo proprio per il numero dei seggi che vengono messi in palio, chi vince non prende tutto, chi vince
prende quello che può prendere rispetto agli altri partiti in lista. I sistemi proporzionali, quindi quelli basati sulla
circoscrizione plurinominale con molti seggi in palio, possono essere modificati in senso maggioritario, cioè possono
produrre degli effetti maggioritari, ad esempio se decidiamo di mettere una soglia di sbarramento per l’accesso al
parlamento (ultime elezioni) i partiti che prendono meno del x %, non entrano in parlamento, oppure il partito che ha
più di x % di voti, ha un premio di maggioranza, cioè in parlamento ha x + y di seggi, oppure si possono fare delle
circoscrizioni elettorali molto piccole, cioè in cui sono in palio pochi seggi, se uno fa una circoscrizione molto piccola
con cinque, sei, seggi in palio, quei seggi vengono presi tutti quanti dai partiti maggiori.
In America ci troviamo in una situazione intermedia tra queste due. Ci sono dei collegi plurinominali in cui ci sono 50
seggi in palio, ma il partito che ha la maggioranza dei voti, anche di un solo punto, se li prende tutti e 50 (Es. California)
Il sistema è altamente disrappresentativo! (Ingegneria costituzionale comparata)
Pluralismo
Tutto questo ragionamento sull’architettura dello stato, delle istituzioni, che riprende molti temi della riflessione sul
governo misto in realtà ha poi un elemento più profondo, soprattutto in Madison, radicato in una concezione della
società tipicamente pluralistica che sta un po’ alla base di tutto ciò che abbiamo visto. C’è un’idea di società che si
basa sul principio secondo cui le società devono essere plurali, sono sempre divise in parti, in fazioni. Qui c’è un
cambio di passo nel modo di concepire la politica.
Art. 10: Sposta l’asse del ragionamento. È dedicato al tema delle fazioni, che nella storia del pensiero politico
occidentale sono sempre state considerate in maniera negativa dai grandi teorici della politica sia nel mondo greco
che nel mondo romano, poiché gli interessi particolari non sono visti con buon occhio. Madison dice che le fazioni
sono un male necessario dei governi liberi e non si possono sopprimere perché sopprimerle vorrebbe dire spegnere
un incendio scoppiato in una casa togliendo l’ossigeno. Le fazioni sono pericolose ma sono un male necessario perché
senza di esse, provando a sopprimere le fazioni, gli interessi particolari, si spegnerebbe la libertà. Madison mette
l’accento su un punto, dice che in tutte le società esistono delle parti contrapposte, delle fazioni. La più significativa è
la grande frattura che separa i ricchi dai poveri. I ricchi sono sempre una minoranza e i poveri costituiscono sempre la
maggioranza. Dare libero sfogo allo scontro tra le fazioni e in particolare modo tra queste due fazioni, rischierebbe di
portare alla tirannide della maggioranza, cioè la tirannide dei ceti meno fortunati, ma al tempo stesso meno
meritevoli, sulla minoranza dei ceti ricchi e colti. La ricetta per risolvere questo grande problema, questa grande
questione che affligge tutte le società è la repubblica federale di grandi dimensioni. “Repubblica” vuol dire governo
rappresentativo, quindi rappresentanza politica e al tempo stesso vuol dire separazione funzionale dei poteri.
“Federale” vuol dire federalismo, cioè la separazione dei poteri riguarda anche la distribuzione dei poteri sul territorio
in base al principio di sussidiarietà. “Di grandi dimensioni” è l’elemento di grande novità, Montesquieu limitava
l’adeguatezza della forma repubblicana agli stati di piccole dimensioni, qui Madison dice che è possibile costruire una
repubblica federale di grandi dimensioni e questo non solo è possibile attraverso il trucco del federalismo ma è anche
necessario per moltiplicare le fazioni. Una piccola repubblica finisce per essere preda delle due fazioni (ricchi, poveri)
che si contrappongono anche con la violenza, in una repubblica di grandi dimensioni è verosimile che le fazioni si
moltiplichino, ci sono tante forme di aggregazione che hanno l’effetto di stemperare il grande contrasto tra ricchi e
poveri e dunque di rendere più difficile che si affermi la tirannide della maggioranza. Tradizionalmente le grandi
dimensioni sono legate ai dispotismi, qui Madison sta rovesciando questo principio affermato da Montesquieu,
dicendo che le grandi dimensioni sono quelle che meglio si adattano ad un ordinamento repubblicano.
Più una società è plurale, più può essere governata in maniera efficace, senza cadere nel dispotismo che sarebbe il
prodotto della soppressione delle fazioni.
C’è un punto di partenza, il mondo greco, in cui la politica è intesa come realizzazione del bene e c’è un punto di arrivo
nel Novecento con Carl Schmidt, in cui la politica viene intesa come conflitto in senso stretto, come guerra, come
relazione amico/nemico. In mezzo, in una posizione intermedia, troviamo autori come Machiavelli e i federalisti, che
sostengono che la politica non deve essere l’annullamento, il superamento, la compressione degli interessi particolari,
perché essi ci sono e non possono essere compressi, ma la politica deve essere una forma di istituzionalizzazione del
conflitto, la politica deve lasciare che i conflitti ci siano, si moltiplichino, ma deve al tempo stesso impedire che questi
conflitti diventino distruttivi e quindi deve contemperare, deve tenere insieme e far sviluppare in maniera non
distruttiva il conflitto stesso. Cominciano ad affermarsi concezioni conflittualistiche della politica e questo è il terreno
su cui poi si sono sviluppati e sono stati accettati i partiti politici, che per secoli vengono considerati delle fazioni
pericolose, adesso cominciano ad essere valutati positivamente come un elemento fondamentale delle democrazie.
I partiti soltanto alla fine dell’Ottocento hanno cominciato ad essere accettati dall’opinione pubblica, oggi sono di
nuovo sotto attacco, sotto accusa, non hanno più militanti, la gente non va più a votare, c’è un rigurgito antipartitico in
cui riemergono delle cose antiche che però si collocano in una situazione molto diversa (M5S).
Rousseau
1712-1778
Ci troviamo di fronte ad un filosofo che rappresenta sicuramente uno snodo fondamentale nella storia del pensiero
politico Sette-Ottocentesco.
E’ importante perché ha rimesso in circolazione un tema che era un po’ scomparso dalla riflessione politica e che sta
per riemergere con le rivoluzioni americana e francese. Rimette in circolo il grande tema della democrazia e della
sovranità popolare guardando con grande predilezione i modelli antichi. Di fatto questo grande tema rimane un po’
sottotraccia, oppure oggetto di critiche feroci da parte un po’ di tutti e R. lo rimette in pista. E’ un tema quello della
democrazia che assumerà la sua concretezza attraverso le rivoluzioni americana e francese e da lì resterà centrale
nella riflessione politica. Ha rimesso in circolazione questo tema guardando ad un modello di democrazia antica.
Contesto : Vive nel secolo dei lumi, partecipa delle cultura illuministica e per certi aspetti può essere classificato tra i
grandi autori dell’illuminismo Settecentesco, ma allo stesso tempo è un autore un po’ ambiguo che per molti aspetti
anticipa alcuni temi, argomenti, che costituiscono la sensibilità tipica della successiva cultura romantica. Sta a cavallo
tra l’illuminismo, epoca di progresso, di esaltazione della ragione e il romanticismo, che esalta gli aspetti irrazionali
della vita sociale e individuale. In particolare R. dedica uno spazio significativo della sua opera al tema della nazione
che è un elemento caratteristico della cultura romantica, contrapposta alla cultura cosmopolitica dell’illuminismo. E’
uno dei primi autori che ragiona su questo concetto, il concetto di nazione.
E’ stato al centro di un vastissimo dibattito interpretativo, in particolare tra chi lo considera come uno dei padri della
democrazia moderna e chi come uno degli antesignani di concezioni assolute della politica, che hanno alimentato il
dispotismo e soprattutto il totalitarismo del Novecento. (Le origini della democrazia totalitaria)
NB Constant già negli anni immediatamente successivi all’epoca della Rivoluzione francese, agli inizi della
Restaurazione, nel 1819 parlerà di Rousseau come il babbo spirituale del giacobinismo, di quella forma di dispotismo
che ha segnato in profondità la Rivoluzione francese.
E’ un autore estremamente ambiguo, tra romanticismo e illuminismo e tra totalitarismo e democrazia.
Conduce una vita di relativo isolamento tra Parigi, la Svizzera e l’Inghilterra. Le sue opere sono condannate in Francia e
in Svizzera. Sono due i suoi testi politici fondamentali: Il Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli
uomini e Il contratto sociale.
Progresso e disuguaglianza
Rappresentano l’antefatto, il prologo in cielo del contratto sociale.
A differenza dei filosofi dell’Illuminismo (Es. Voltaire) R. ritiene che il progresso della civiltà umana che si è
manifestato nel campo delle scienze e delle arti in verità non abbia affatto migliorato l’esistenza dell’uomo, ma al
contrario il progresso è stato un motore fortissimo di corruzione delle società umane.
La tesi che attraversa tutta l’opera di R. è che l’uomo dalla bontà originaria che lo caratterizzava nella sua esistenza
primitiva è passato ad uno stato di profonda corruzione con il progressivo affermarsi delle società più complesse.
L’uomo naturale era naturalmente buono, l’uomo civile è profondamente corrotto.
In questo contesto R. introduce la sua ipotesi razionale, teorica, astratta circa lo stato di natura. Quella bontà
originaria si traduce nello schema di R. quando parla dell’uomo nello stato di natura in due caratteri originari che è
compito della società civile, della vita politica, restaurare. Gli uomini nel loro stato naturale vivevano in una condizione
di sostanziale libertà ed eguaglianza, erano liberi ed uguali. Gli uomini nascono liberi ed eguali e si trovano a causa del
progresso in catene, quindi non liberi, e al tempo stesso divisi da insormontabili disuguaglianze. Su questa nozione
negativa del progresso delle società umane si incentra il Discorso sulle scienze e sulle arti, il quale si approfondisce con
ulteriori importanti elementi nell’Discorso sulle origini e i fondamenti della disuguaglianza, perché è proprio in questo
testo che R. spiega cosa accade con il progredire delle civiltà umane. Accade che poco per volta, l’uomo che
originariamente coltivava l’amore di sé, comincia a coltivare l’amor proprio, perde quel sentimento di compassione
che caratterizzava le società primitive, che erano società in cui gli uomini vivevano in una condizione di isolamento, e
proprio per questa via cominciano a sorgere le disuguaglianze tra gli uomini. Quando l’amore di sé e la compassione
originaria che ogni uomo provava verso i propri simili, lasciano lo spazio all’amor proprio, che è la variante egoistica
dell’amore di sé, cominciano a sorgere le grandi distinzioni, ossia tra i ricchi e i poveri, tra i potenti e i deboli e tra
padroni e schiavi. Man mano che cresce la complessità della vita sociale, man mano che gli uomini stringono relazioni,
queste disuguaglianze prendono sempre più consistenza e le leggi pietrificano queste relazioni che sono all’origine di
tutti i mali. Per questa strada quegli uomini che erano liberi ed eguali in origine, poco per volta diventano sempre più
diseguali tra loro e contemporaneamente illiberi.
Per R. c’è una stretta relazione tra libertà ed eguaglianza. La libertà si realizza soltanto laddove c’è un’eguaglianza tra
gli uomini. In questo percorso un ruolo decisivo è giocato, secondo R., dalla proprietà privata. Da quando si è
consolidata la proprietà privata e in seguito alla divisione del lavoro, che porta gli uomini a differenziare le proprie
occupazioni e ad alcuni di essi ad accumulare ricchezze a discapito di altri, il percorso verso una società ineguale e
illibera non ha avuto più sosta. Da qui tutti i mali del presente, che R. proietta anche sul piano delle relazioni
internazionali, cioè le guerre tra gli stati sono figlie di questa profonda corruzione delle società più sviluppate.
E’ a partire da questo quadro, in cui è raffigurata una società che si è andata corrompendo con il cosiddetto progresso,
che R. prova ad immaginare un nuovo e diverso modello di società politica, che è il tema che sta al centro del suo
contratto sociale, che è proprio un tentativo astratto, filosofico di ragionare su come si possa ripristinare dentro ad
una società sviluppata, quindi non ritornando alle condizioni dello stato di natura, un sistema politico e sociale che
garantisca la libertà e l’eguaglianza originaria . Come si può organizzare una convivenza sociale che dia a tutti gli
uomini la libertà e l’eguaglianza che caratterizzano la natura umana (?) La risposta a questa domanda è la
democrazia e attraverso la democrazia, o meglio attraverso la repubblica, si può costruire una società moderna di
questo tipo, in cui la libertà e
l’eguaglianza possono tornare ad essere dei pilastri.
Il contratto sociale
1762
Per fare questo ragionamento R. come molti suoi contemporanei utilizza il modello di analisi della politica che va sotto
il nome di contrattualismo, cioè immagina una condizione originaria naturale, il cosiddetto stato di natura, in cui gli
uomini vivono in origine; prova ad immaginare un contratto sociale attraverso cui questi uomini di natura provano ad
uscire dalla loro condizione naturale per dare vita ad una società civile e al tempo stesso prova a descrivere il
funzionamento di questa stessa società. Il contrattualismo funziona attraverso questi tre concetti fondamentali (Stato
di natura, patto, società civile). Questa è una tradizione che avuto un lunghissimo corso nell’epoca moderna. Il
linguaggio standard della politica in età moderna è un po’ questo, Montesquieu rappresenta un’eccezione.
Questa è una tradizione che verrà messa definitivamente in soffitta, criticata in radice, dal più grande e complicato
filosofo dell’Ottocento in Germania, che è Hegel, che dirà che non si può ragionare sulla politica, cioè su quelle forme
di relazioni tra individui, famiglie, gruppi sociali che si organizzano nello stato, attraverso queste nozioni astratte che
appartengono alla sfera del diritto privato più che a quella del diritto pubblico. La tesi di Hegel è che lo stato, la società
politica, non nasce da un contratto consapevole, deliberato tra gli individui, quando mai sarebbe avvenuta una cosa
del genere (?) Lo stato è il frutto della storia, delle tradizioni che si sedimentano nei costumi, nelle abitudini, nelle
istituzioni di un popolo e dunque tutti questi ragionamenti razionalistici che i contrattualisti da Grozio a Rousseau
hanno portato avanti non hanno nessuna ragione d’essere. E’ una critica importante che per almeno un secolo e
mezzo ha posto fine a questo modo di pensare la politica. Tuttavia R. questo modo di pensare lo utilizza a piene mani e
allora per capire più chiaramente come viene costruito da R. questo discorso ci riferiamo a Locke ed Hobbes, che
hanno utilizzato questo stesso modello.
Hobbes : Siamo intorno alla metà del Seicento nel pieno della rivoluzione dei santi, che ha fatto rotolare la testa di un
sovrano per grazia divina e ha portato al potere Cromwell al prezzo di una lunga e sanguinosa guerra civile.
Hobbes ha un’antropologia innanzitutto poco ottimistica, come Machiavelli, tende a considerare l’uomo come un
predatore pericoloso pronto a sopraffare i suoi simili. La sua tesi è che nello stato di natura, che è l’immagine di come
sarebbe l’uomo senza le istituzioni di una società articolata, l’uomo è portato a prevaricare, ad offendere gli altri
uomini e a confliggere con tutti gli altri. Questo significa che lo stato di natura è uno stato di guerra incessante di tutti
contro tutti, è uno stato di conflittualità diffusa, molecolare e talvolta estrema, che condanna gli individui ad una
condizione di continua precarietà e di timore reciproco, perché l’uomo teme di perdere il bene più prezioso che è la
sua stessa vita. NB Sarà ripreso e studiato con molta attenzione da Carl Schmidt.
In questa condizione originaria non esiste il diritto, cioè il diritto in quanto sistema di regole condivise, che esiste solo
una volta che viene istituita la società politica, perciò di fatto il diritto coincide con la potenza del singolo individuo.
Ognuno ha diritto di appropriarsi, di ottenere ciò che riesce con la forza, con l’astuzia ad ottenere. Nello stato di
natura non esiste un diritto, che poi Locke riconoscerà come il diritto naturale, quale il diritto di proprietà. E’ una
condizione in cui non esiste neanche il diritto alla vita, nel senso che non esiste un qualcosa che punisca, che sanzioni
una cosa di questo genere. In questa condizione di assenza di diritto, o meglio in cui il diritto coincide con la potenza,
non si può parlare nemmeno del diritto del più forte perché è vero che i più forti prevalgono generalmente, ma anche
il più forte ad un certo punto può essere ingannato, sopraffatto anche da chi più forte non è. In una condizione di
questo genere in cui ogni uomo è lupo per l’uomo, regna il timore reciproco, di perdere il bene più prezioso e cioè la
propria vita. NB Non tutti gli uomini sono così, ma basta che alcuni lo siano perché la convivenza umana risulti
complicata.

Questa condizione è intollerabile, allora gli uomini decidono di abbandonare lo stato di natura e di costruire
attraverso un patto sociale una qualche forma di convivenza ordinata. C’è il patto sociale, che Hobbes concepisce in
una maniera particolare, ossia è al tempo stesso di unione e subordinazione, cioè è un patto in cui nel momento
stesso in cui gli individui si associano, da moltitudine diventano popolo, gli individui si sottomettono ad un sovrano,
cioè un soggetto terzo che avrà il compito di usare in forma monopolistica la forza fisica e potrà creare il diritto, dare
regole alla società e farle rispettare. Il sovrano non è la controparte giuridica del patto, non c’è questo momento in
cui esiste già una comunità di persone che si reca da un sovrano per siglare il contratto, ma ci si mette d’accordo per
delegare il potere ad un terzo che non è la controparte giuridica del patto e quindi non ha alcun obbligo nei confronti
di coloro che si associano. Proprio in virtù di questo patto, lo stato è assoluto, ossia in cui il sovrano è solutus ab,
sciolto da ogni controllo da parte degli individui, dei gruppi; stato assoluto di cui Hobbes è stato uno dei primi e grandi
teorici.
La sua tesi è o c’è l’assolutismo o c’è la moltitudine dispersa degli uomini che si perseguitano tra di loro in questa
guerra di tutti contro tutti, o il caos o il potere concentrato in maniera assoluta nelle mani di un sovrano.
Il sovrano detta legge a tutti gli effetti e nei suoi confronti non è possibile esercitare il cosiddetto diritto di resistenza,
perché costituirebbe un vulnus per questa sovranità che farebbe riprecipitare la società nel suo disordine originario.
Locke : E’ testimone e osservatore della Gloriosa Rivoluzione. Lo stato di natura è una condizione di solo relativa
conflittualità, gli uomini possono scontrarsi ma non sono in una condizione di guerra tutti contro tutti e di timore
reciproco. In più secondo Locke già nello stato di natura esistono e gli uomini se li riconoscono reciprocamente dei
diritti naturali, cioè che sono connaturati alla stessa natura umana. Questi diritti sono il diritto alla vita, alla libertà e
alla proprietà. Una condizione meravigliosa (?) No! Perché anche in una condizione tale possono sempre sorgere dei
conflitti tra gli individui che pure si riconoscono vicendevolmente questi diritti (Es. albero da frutta al confine).
Quello che manca è il terzo, un soggetto che stia al di sopra delle parti che abbia la legittimità e al tempo stesso la
forza per risolvere in un modo o nell’altro quella controversia che pure può sorgere in una condizione di assenza di
istituzioni politiche e leggi.
E’ una situazione solo potenzialmente conflittuale, in cui ci riconosciamo reciprocamente dei diritti fondamentali, ma è
una situazione esposta a possibili conflitti in cui perciò si avverte la mancanza di un terzo, di un giudice che al di sopra
delle parti sciolga questa controversia.
Per questa ragione, per questa assenza di un terzo, gli uomini decidono di uscire dallo stato di natura e lo fanno con
un patto sociale, con un contratto che è molto diverso da come lo aveva pensato Hobbes. In questo caso il patto di
unione o di associazione con gli altri individui precede il patto di soggezione, di assoggettamento ad un sovrano.
Prima gli individui si trasformano da moltitudine a popolo e poi in quanto società in ampia misura strutturata si recano
dal sovrano dicendogli “Noi ci assoggettiamo alla tua sovranità a patto che tu faccia rispettare quei diritti che già
esistono per natura”. E’ un patto in cui il sovrano non ottiene dei poteri illimitati, ma in cui si impegna a far rispettare e
anzi a dare maggiore vigore a dei diritti che già esistono per natura. Quindi se Hobbes può essere considerare come il
teorico dello stato assoluto, Locke può essere considerato come il teorico dello stato costituzionale, esattamente nei
modi in cui esso ha preso forma nella Gloriosa Rivoluzione. Locke ammette il diritto di resistenza proprio perché il
sovrano è vincolato ad un patto che ha siglato con i cittadini, quindi quando fa ciò che va contro i diritti naturali degli
uomini, cioè agisce illegittimamente, è legittimo il cosiddetto “appello al cielo”, ossia il diritto alla rivoluzione. Se il
sovrano viola le norme, i contenuti del patto sociale, la società può appellarsi al diritto di resistenza, può fare la
rivoluzione. Locke è diventato per queste sue riflessioni uno dei primi e principali campioni moderni della tradizione
liberale, della cultura politica liberale.
Rousseau : Ragiona in maniera completamente diversa, più vicina a Hobbes che non a Locke. Lo stato di natura è uno
stato in cui gli uomini non se la passano malaccio, sono liberi ed eguali, fino a quando il merito, l’intelligenza, la
furbizia non vanno a complicare la faccenda. Questa condizione originaria che è positiva e primitiva, cioè
improponibile alle condizioni attuali della società, si trasforma in una condizione di illibertà e disuguaglianza poco alla
volta e per questo bisogna attraverso un contratto sociale provare a ristabilirla. Occorre immaginare una forma di
contratto sociale in cui agli uomini sia consentito riguadagnare quella libertà e quella eguaglianza dentro società che
sono sempre più complesse. Cosa si può fare (?) Che tipo di contratto deve essere (?)
Deve essere un contratto sociale attraverso cui gli individui si sottomettono ad una forza collettiva che è data da loro
stessi, un contratto in cui gli individui non fanno altro che sottomettersi a se stessi e alle leggi che essi stessi
promulgano; soltanto in questo modo essi possono rimanere liberi ed eguali. Questa è la teoria della sovranità
popolare.
Gli individui per restare liberi ed eguali devono costruire un’organizzazione sociale in cui essi sono i sudditi delle leggi
che essi stessi in qualche modo elaborano tutti insieme, sono sudditi come individui nel senso che devono obbedire alle
leggi, ma sono sovrani perché sono loro stessi a formulare quelle leggi che poi valgono per l’intera comunità.
E’ il popolo che si autogoverna. Se il popolo si autogoverna, cioè si dà delle leggi a cui poi obbedisce, le persone
rimangono libere perché stanno obbedendo semplicemente a se stesse ed eguali perché partecipano in egual misura
alla formulazione della legge, che per R. è l’atto sovrano per eccellenza. In quanto sovrani i cittadini hanno un potere
assoluto sui singoli, che però sono essi stessi, cioè c’è una forma di assolutismo che però riguarda la collettività politica
che si autogoverna secondo leggi che non si possono disattendere. E’ un passaggio molto ambiguo!
Questo ragionamento si complica ulteriormente nel tema della volontà generale, che è uno dei più ambigui della
filosofia di Rousseau. Una comunità si deve amministrare attraverso la volontà generale, ma che cos’è (?) Presa in
senso generico ci convince, è la volontà di tutti che deve regolare il funzionamento di una determinata società che si
autogoverna. Ma che cos’è esattamente (?) R. dice che innanzitutto non è affatto la volontà della maggioranza e non
è neanche la volontà di tutti, perché non è la somma di volontà particolari. E allora che cos’è e chi ne è portatore (?)
R. dice che è la volontà che si orienta al bene comune, all’interesse generale di una data collettività, è quella volontà
che riesce ad attingere a questa nozione di bene comune, di interesse generale che a suo giudizio è sempre implicito,
sempre presente nella vita concreta di una collettività politica. Esempio Può anche darsi che noi 48 persone vogliamo
fare lezione dalle 18 alle 20, ma la cosa più consona per noi sia fare lezione dalle 16 alle 18. Se la maggioranza o tutte
le persone ragionano sulla base dei propri interessi particolari, non si arriva alla volontà generale e quindi può darsi
che sia meglio che queste persone si pieghino, debbano essere costrette ad essere libere e cioè a seguire i dettami
della volontà generale. Se stiamo decidendo in modo sbagliato vuol dire che stiamo annebbiando dietro ai nostri
interessi particolari il vero interesse generale, allora ci vuole qualcuno che ci faccia capire davvero quale è il bene
comune e in qualche modo costringa tutti gli altri, anche la maggioranza, anche tutti ad essere liberi.
Storicizzazione : Ci sono due casi in cui questo modello di riflessione è stato messo concretamente in pratica, i
giacobini e i bolscevichi.
o I giacobini sostengono che il loro obiettivo sia costruire il regno della virtù, ma le persone ancora non
capiscono in cosa consiste e allora noi dobbiamo essere il motore e l’anticipatore di ciò che sarà e quindi
dobbiamo ricorrere al terrore; il regno della virtù si può instaurare nelle condizioni date soltanto tramite il
terrore, l’uso della violenza messa in opera da un’avanguardia di rivoluzionari che hanno ben chiaro qual è il
bene comune di una determinata società.
o Le società segrete che si sviluppano nel corso dell’Ottocento non erano segrete solo perché la polizia li
arrestava tutti, la segretezza non era soltanto una necessità imposta dallo stato repressivo, ma era una
segretezza di obiettivi che dava per scontato che soltanto piccole avanguardie illuminate potessero davvero
comprendere da che parte sta il bene comune di una determinata società e che la segretezza servisse anche a
coprire in vista della rivoluzione questo sapere che doveva essere proprio di pochi.
o I bolscevichi ragionavano grossomodo allo stesso modo. Lenin era contrario a costruire un partito socialista,
comunista di massa, ma voleva un partito di rivoluzionari di professione. Poi il capolavoro è stata la breve
vicenda dell’elezione dell’Assemblea costituente, in cui si va alle elezioni generali in Russia per l’Assemblea
costituente e succede quello che i bolscevichi temevano, ossia le elezioni vengono vinte dai
socialrivoluzionari, quindi il partito che è molto vicino al mondo rurale che nella Russia dell’epoca era
decisamente preponderante. I bolscevichi dicono “Voi avete vinto, ma noi abbiamo ragione e possediamo
quegli strumenti di scienza sociale che ci permettono di dirlo”, sciolgono l’Assemblea costituente e da quel
momento la storia del bolscevismo poi comunismo in Russia è stata caratterizzata dal partito unico, che è
diventato il depositario di un presunto bene comune da implementare anche contro la volontà dei singoli,
contro le volontà individuali che possono essere ottenebrate dagli interessi particolari.
Rousseau pur essendo un paladino della libertà lo dice di brutto nel contratto sociale che bisogna eliminare gli
interessi particolari e seguire soltanto gli interessi generali della comunità e soprattutto bisogna costringere le
persone ad essere libere, a liberarsi il cervello dagli interessi particolari che sono quanto di peggio possa esistere e
avere come unica bussola l’interesse generale. Costringere ad essere libere è un qualcosa che non funziona tanto bene
perché se qualcuno mi costringe, le cose non stanno funzionando. E’ su questo nodo che esplode l’idea di una
comunità di persone che si sottomette alla volontà generale, cioè alla volontà di quelle stesse persone che si stanno
sottomettendo. E’ il paradosso dell’autogoverno, ci diamo delle leggi tutti insieme e poi obbediamo a quelle leggi, ma
se io non sono d’accordo (?) Per R. il problema non c’è perché le vere leggi che sono sempre orientate al bene comune
vanno a vantaggio dei singoli anche se essi non se ne accorgono, non lo capiscono, non lo sanno.
Questo passaggio è ulteriormente complicato dalla polemica, dalla critica che R. muove al concetto di rappresentanza,
qui entriamo proprio nella piattaforma del M5S. La tesi è che questa volontà generale non si deve formare nei
parlamenti, nelle assemblee rappresentative. Le leggi che non sono state approvate direttamente dal popolo non
hanno valore di legge, non possono essere costruite da un ceto di rappresentanti, di persone che agiscono con la loro
testa, devono essere approvate da tutto il popolo altrimenti non hanno valore di legge.
Come si fa ad individuare la volontà generale (?) Questo è il mistero del pensiero politico di Rousseau. R. introduce la
figura del legislatore, che interpretando la volontà del popolo redige le leggi giuste per una determinata comunità.
R. ha in mente il modello greco, il modello della democrazia ateniese. Ha in mente una piccola comunità di uomini,
d’altronde è ginevrino, dove tutti si conoscono e dove è chiaro qual è l’interesse generale e in più ha in mente una
comunità omogenea dal punto di vista della nazione, che condivide cioè cultura, storia e tradizioni. Quindi c’è la
piccola dimensione e l’idea di nazione che effettivamente rendono la comunità di cui sta parlando R. omogenea e
non eterogenea. R. non vede che le grandi società sono eterogenee, cioè la sua indagine non riguarda esse.
Il punto è che il suo discorso trasportato fuori da quell’orizzonte è potenzialmente pericoloso! Rousseau è un
convinto democratico ma alcuni elementi nella sua opera possono portare a delle conseguenze antidemocratiche.
In sede d’esame : La volontà generale è quella volontà che è finalizzata, orientata la bene comune, all’interesse
generale di una determinata società.
La rappresentanza : R. è in linea di principio ostile all’idea del governo rappresentativo, a suo giudizio la volontà
generale non può essere in alcun modo rappresentata, così come non può essere alienata o divisa. O è direttamente
la volontà del popolo o è la volontà di qualcun altro, nel caso delle istituzioni rappresentative sarebbe la volontà dei
rappresentanti e questo non può funzionare. Sostiene che “Il popolo Inglese crede di essere libero, ma in realtà lo è
ogni 3 o 4 anni quando vota i suoi rappresentanti e poi ritorna ad essere schiavo”. Fa diversi riferimenti al modello
antico di governo della società, dove il popolo si riuniva nell’ecclesia e prendeva in comune immediatamente delle
decisioni politiche. Dopodiché aggiunge un ulteriore elemento, dice che i deputati non possono essere i
rappresentanti del popolo, al limite possono essere i loro delegati, cioè possono agire come loro delegati secondo il
principio del mandato imperativo, cioè per governare una società complessa ad un certo punto bisogna
necessariamente selezionare delle persone che si occupino della “cosa” pubblica, tuttavia quelle persone devono
sottomettersi continuamente, ogni volta che elaborano una legge, al giudizio del popolo. I delegati possono essere
soltanto i mandatari del popolo e niente di più.
Qui R. tocca un tasto che sta prendendo forma, soprattutto attraverso l’esperienza inglese, del libero mandato del
parlamentare. E’ un principio che oggi è alla base di tutte le istituzioni rappresentative, di tutti gli organismi
parlamentari. Cosa vuol dire libero mandato (?) Il deputato viene sì eletto dai cittadini, ma una volta entrato in
parlamento non deve seguire alla lettera le indicazioni che gli sono date dai suoi elettori, è libero di agire secondo la
sua coscienza e poi alla successiva elezione sarà premiato o punito dai suoi elettori, ma senza interferire sulla
necessaria libertà che il rappresentante deve avere dentro le istituzioni parlamentari. Questa è la teoria del libero
mandato prevista in tutte le costituzioni dei paesi liberal democratici. R. invece sostiene che colui che rappresenta il
popolo in un’assemblea deliberativa deve essere sempre immediatamente revocabile dal popolo stesso e deve agire
secondo un mandato imperativo. Edmund Burke : Uno dei primi teorici del principio del libero mandato. Sosteneva, in
una lettera agli elettori di Bristol nel 1778, in cui dice “Cari miei elettori, vi ringrazio per avermi eletto ma non pensiate
che andrò in parlamento a rappresentare gli interessi della città di Bristol”, perché quando un deputato entra in
parlamento cessa di essere il rappresentante di coloro che lo hanno eletto e diventa il rappresentante della nazione,
non rappresenta più un segmento particolare dell’elettorato. Burke spiega anche perché questa teoria del libero
mandato ha un senso, dice “Se in parlamento sedessero delle persone che rappresentano con un mandato imperativo i
propri elettori, se fossero gli avvocati, gli ambasciatori, se fossero i semplici portavoce dei propri elettori in parlamento,
il parlamento cesserebbe di funzionare perché se ogni deputato avesse un vincolo così rigido, non si potrebbe
sviluppare all’interno del parlamento quel dibattito e poi quel necessario compromesso tra le diverse posizioni che fa
emergere l’interesse generale di un corpo politico”. Se il deputato non avesse la libertà di mandato, i parlamenti
cesserebbero di funzionare e non potrebbero esserci quelle assemblee in cui i rappresentanti di diversi interessi,
visioni del mondo, discutono tra di loro per riuscire a mettere insieme con spirito di compromesso l’interesse generale
di un paese. C’è proprio l’idea molto diversa da quella di R. che l’interesse generale non è qualcosa che esiste prima
di qualsiasi discussione, che si tratta semplicemente di portare alla luce costringendo alcuni ad essere liberi, ma si
forma attraverso la deliberazione che si svolge in quelle assemblee rappresentative, parlamentari che fanno
funzionare la macchina del governo della società. La volontà generale non viene prima di questa discussione, ma viene
dopo la deliberazione nell’assemblea rappresentativa.
Attualità : Questo è un tema molto importante perché è riemerso con forza a cavallo tra il XIX e il XX secolo quando
sono sorti i partiti organizzati di massa con forti apparati di funzionari, con leader che decidono e quando si afferma la
piena dipendenza del deputato dal proprio partito. Si instaura un rapporto quasi di sudditanza del parlamentare
rispetto al partito, cioè un mandato imperativo tacito che il rappresentante di un determinato partito deve rispettare,
pena l’essere buttato fuori. Basta guardare sul sito della Camera dei deputati per vedere quante persone ci sono nel
cosiddetto gruppo misto. Sono i deputati eletti con un partito che ad un certo punto entrano in rotta di collisione con
esso, ma non se ne tornano a casa, rimangono sempre in parlamento ma entrano nei gruppi misti, che ad oggi sono
sempre più ciccioni. Il gruppo misto è il luogo in cui si manifestano gli effetti della libertà di mandato, non c’è la revoca
perché l’idea è che il rappresentante non rappresenta i suoi elettori o la sua parte politica ma la nazione. Questo per R.
non va assolutamente bene!
Polemica nei confronti dei corpi intermedi : Rousseau ha in mente l’idea di una società omogenea in cui non ci sono
interessi particolari e quindi in cui non possono esistere corpi intermedi. Se c’è un autore che possiamo considerare
ante litteram antipartitico, questo è Rousseau.
Forme di governo : Tutto ciò di cui abbiamo parlato fino ad ora ha a che fare con quella sfera di potere decisiva, che è
il potere legislativo, quindi si svolge non al livello del governo, ma al livello dello stato, della repubblica che ha il suo
cuore nel potere legislativo, il compito fondamentale di una società che di fatto si autogoverna. Dopodiché non
bastano le leggi, ci vuole anche un governo che metta in pratica quelle leggi, che agisca in base alle leggi. Vanno
sottolineati due punti: Il governo ha una funzione meramente esecutiva, cioè ha semplicemente il compito di far
funzionare una comunità politica sulla base delle leggi che la volontà generale ha prodotto, è il braccio esecutivo del
potere legislativo. Distingue tre diverse forme di governo. Qui troviamo finalmente la parola “democrazia”.
Può essere democratico, laddove è l’intero popolo a esercitare il potere esecutivo; aristocratico o addirittura
monarchico. La forma dello stato è una sola, la repubblica, mentre le forme di governo possono essere invece tre.
La cosa interessante è che innanzitutto la democrazia è una forma di governo, non dello stato e che in secondo luogo
è scettico proprio sulla democrazia e a proposito della democrazia scrive “E’ una forma di governo che si addice agli
Dei e non agli uomini”. R. in qualche modo sconsiglia, è scettico nei confronti della forma di governo democratica
perché essa realizzerebbe una sorta di conflitto di interessi. Quando in R. si parla di potere legislativo, parla sempre di
leggi generali, le leggi non sono leggi su cose particolari ma che affermano principi generali e poi il governo che ha il
compito di applicare ai casi particolari quelle leggi generali.
Se le leggi generali devono essere elaborate o quantomeno approvate dal popolo nella sua totalità, è rischioso che sia
lo stesso popolo ad applicare quelle leggi generali a fattispecie particolari.
La democrazia rischia di creare un cortocircuito tra il principio della produzione legislativa e il principio del governo, in
ogni caso è una forma di governo che può funzionare soltanto in certi contesti.
NB Quando si legge quella frase bisogna fare attenzione! R. sta parlando di una cosa specifica, perché di fatto quando
parla di volontà generale sta parlando di ciò che noi oggi chiamiamo democrazia ma che si riferisce col lessico
dell’epoca alla repubblica.
Differenza tra forma di stato e forma di governo : Lo stato è il depositario della sovranità all’interno di una
determinata comunità politica, cioè è quell’insieme di istituzioni che nel loro insieme definiscono il luogo della
decisione politica. Lo stato è quell’insieme di istituzioni attraverso cui si dispiega il meccanismo della decisione politica .
Dopodiché uno stato può darsi forme di governo diverse senza cessare di essere lo stesso stato, cioè una modalità di
esprimere complessivamente la sovranità in maniera differente. Cambia il modo di amministrare da un punto di vista
esecutivo ma lo stato rimane sempre la stessa cosa. (Ingegneria costituzionale comparata)
Il governo è quel pezzo dell’agire complessivo dello stato in cui e attraverso cui si esercita il potere meramente
esecutivo e quindi le sue forme possono cambiare.
Per R. La democrazia è una delle forme che in campo esecutivo può assumere la repubblica, ma niente di più.
Oggi : la parola democrazia è sacra, ma in realtà per un sacco di tempo dall’antica Grecia fino all’Ottocento inoltrato la
democrazia è una cosa che non piace a nessuno. Tutti o quasi considerano la democrazia come un regime in cui
dominano le folle, spesso i più poveri, i più stupidi, i più incompetenti, è una parola carica di significati peggiorativi.
Lo stesso R. che è un pensatore iper-democratico usa la parola “repubblica” per le cose che gli interessano e la parola
“democrazia” solo per discutere un pezzo in secondo piano della sua teoria politica, cioè la parte specificamente
dedicata alla forma di governo. Il governo non ha tanta importanza quanto il potere legislativo per Rousseau.
Forme di governo (oggi): Presidenziale, semi presidenziale, parlamentare.
Forme di stato (oggi): Centralistico, federale.
Nel 2013 dopo le elezioni il sistema politico italiano si è un po’ impasticciato perché c’è stato per la prima volta un
grande exploit del M5S che ha portato ad un parlamento diviso in tre grandi minoranze: 26 % M5S, 25 % Centro
destra e 25 % Centro sinistra. Si è arrivati in una situazione in cui c’erano cani, gatti e stelle. Forze politiche
difficilmente coalizzabili per formare un governo e c’è stata una sufficientemente lunga vicenda prima che si giungesse
alla formazione di un governo, non è stato facile in quelle condizioni fare un governo. Proprio allora a fronte di questa
situazione che non si risolveva mai, di un parlamento che non esprime il governo, Vito Crimi intervistato da un
giornalista risponde “A noi cosa interessa del governo, il vero potere risiede nel parlamento, è il potere di fare le
leggi”, in quel caso ha espresso un concetto tipicamente rousseauiano.
La nazione
Il tema della nazione ci fa ritornare alla questione della volontà generale, ci fa capire un po’ meglio che tipo di
comunità sociale Rousseau sta immaginando. Questo tema emerge in maniera particolare in due opere successive al
Contratto Sociale, ossia il Progetto di costituzione per la Corsica e nelle Considerazioni sul governo della Polonia.
Occorre tenere presente che la Corsica e la Polonia sono due realtà politiche la cui storia è stata segnata in maniera
profonda dal dominio delle potenze straniere, si tratta di due paesi che hanno sperimentato una forte mancanza di
libertà politica. E’ proprio qui che il tema della nazione emerge in maniera molto forte, collegandosi al tema che R.
sviluppa soprattutto nell’Emilio, dell’educazione, della pedagogia.
L’idea generale è che una comunità politica qualsiasi così come è definita può essere tenuta insieme non solo dalle
istituzioni politiche (potere di fare le leggi, volontà generale, ecc…), ma deve essere tenuta insieme da una sorta di
sentimento prepolitico di appartenenza o di identità nazionale. L’idea è che i sistemi politici anche i meglio strutturati
non funzionano se i cittadini non condividono e quindi non esiste un sentimento di comune appartenenza ad una
nazione. Visto che questo sentimento di fratellanza, di solidarietà spesso non sorge in maniera spontanea, è
necessaria una pedagogia nazionale che lo sviluppi nella maniera più adeguata. Per esempio nel caso della Polonia R.
sostiene che i bambini devono imparare la , conoscere la storia del proprio paese, bisogna che ci sia in tutti i campi in
atto una specie di pedagogia nazionale onnipervasiva che sviluppi questo senso di appartenenza, perché se esso viene
a mancare anche le migliori istituzioni del mondo tendono a non funzionare.
Storicizzazione : Questo è un tema che prenderà vigore nel corso dell’Ottocento quando inizierà a svilupparsi l’idea di
nazione, di cui però Rousseau insieme ad Herder può essere considerato come uno dei primi pionieri. (Chabod –
L’idea di nazione). Questo tema è riemerso in Italia negli anni Novanta quando si è posto il problema della secessione
del Nord di cui allora era paladina la cosiddetta Lega Nord (per l’indipendenza della Padania). Nel 1995/96 la Lega
Nord, che teorizzava l’idea di un riassetto federale molto forte della penisola italiana, che reclamava una forte
autonomia per le province del Nord, si è incapricciata con l’idea della secessione e c’è stata una famosa e pagliaccesca
festa semi-celtica che ha portato alla dichiarazione da parte del Nord dell’indipendenza. Hanno fatto una serie di cose
abbastanza forti che poi sono finite nel nulla e la Lega poco per volta è tornata nei ranghi. Quello è stato un momento
molto forte in cui di nuovo si è ripreso a discutere sulla nazione italiana, sulla debolezza di questo sentimento di
appartenenza nazionale, che molti studiosi hanno posto un po’ alla radice di tutti i malfunzionamenti del nostro
sistema politico, esattamente con uno schema che ci riporta a Rousseau. Sono usciti alcuni libri interessanti sul tema,
uno di questi è di Rusconi e si intitola “Se cessiamo di essere una nazione”; un altro è “La morte della patria”; un altro
ancora è “L’identità italiana”.
Quando parlavamo di volontà generale, di una comunità omogenea in cui c’è un senso di coesione molto forte che
permette di ragionare sul bene comune, in tutto quel tipo di riflessione questa idea di nazione, di appartenenza
nazionale, il vincolo di fratellanza che l’identità nazionale produce, conta molto perché è proprio a queste comunità
nazionali piccole e coese a cui R. guarda e tutto questo rende meno diaboliche le conseguenze che dal suo pensiero si
possono trarre.
Riprende questo tema Fitche che nei Discorsi alla nazione tedesca in cui esalta l’identità nazionale dei popoli
germanici, comincia a prendere vigore l’idea di una via peculiare tedesca della storia di quel paese e comincia anche a
manifestarsi nell’Europa centro orientale, quindi nel mondo tedesco e nel mondo slavo. Successivamente l’idea
nazionale assume dei tratti fortemente etnoculturali, cioè l’idea che nell’Europa centro orientale prende forza è
un’idea che si basa su connotazioni etniche, culturali per certi aspetti su un’idea quasi razziale della nazione, l’idea
che la nazione sia una comunità di stirpe. Invece, in Occidente si sviluppa, grazie a Mazzini che ha una concezione più
volontaristica della nazione, la nazione ha dei connotati culturali ma è una nazione che si fonda sulla volontà di essere
nazione più che sul sangue, la stirpe, la razza, la religione, si fonda su una volontà di vivere insieme che fa della
nazione un plebiscito di tutti i giorni. Rousseau è uno degli autori più importanti che danno avvio a questo tipo di
riflessione, che prima non c’era e che nell’Ottocento soprattutto con la rivoluzione francese e la rivoluzione americana
decolla diventando un tema molto importante.

Kant
Introduzione
Uno dei principali illuministi tedeschi. Ha cambiato in radice la storia della filosofia. A noi interessa il Kant politico e ci
interessa in una prospettiva molto peculiare, ossia ci interessa Kant che ragiona in materia di relazioni internazionali.
Innanzitutto occorre tenere presente che Kant è il primo autore che incontriamo che assiste alla grande rottura della
Rivoluzione francese. Kant ci interessa per quanto riguarda il tema della pace e delle relazioni internazionali.
Kant è l’autore che per primo ha immaginato un modo non tradizionale rispetto all’epoca di pensare le relazioni
internazionali. Fino all’epoca di Kant, ma poi anche oltre perché molti autori successivi criticheranno le sue posizioni,
la dottrina dominante nel campo delle relazioni internazionali era la dottrina dell’equilibrio di potenza, cioè tutti gli
autori, in particolare quelli che si riconoscono nella tradizione del realismo politico, ritenevano che l’unico modo per
costruire un ordine internazionale almeno relativamente politico fosse quello di creare un equilibrio tra le grandi
potenze, alcuni si alleano con altri, altri si alleano con altri ancora, si guardano minacciosamente, ma se questi due
schieramenti sono in equilibrio, se i rapporti di forza sono equilibrati, il sistema internazionale riesce a svilupparsi in
modo pacifico. Kant osserva come in tutta la storia dell’età moderna siano susseguite senza sosta guerre su guerre,
conflitti su conflitti. Le grandi potenze sono state in guerra tra di loro per circa sessanta-settanta anni al secolo nei tre
secoli prima dell’Ottocento. Questo è il tema che sta a cuore a Kant nell’opera che ci interessa. Kant, visto che la teoria
dell’equilibrio di potenza non funziona, si interroga su quale può essere un’alternativa per realizzare un ordine
internazionale pacifico ed elabora l’idea apparentemente ingenua, irrealistica, utopica, secondo la quale le relazioni
internazionali è necessario che si sottomettano al diritto.
Per la pace perpetua (1795)
L’idea di Kant è che bisogna giuridicizzare le relazioni internazionali, che non devono essere regolate dalla forza come
capita sempre e come è implicito nella teoria dell’equilibrio di potenza. Kant è uno dei principali teorici, paladini di
quello che poi diventerà il diritto internazionale, che c’è già in altri autori a lui precedenti, peccato che in linea di
massima è pieno di teorici della forza nel campo delle relazioni internazionali che continuano tutt’ora ad essere molto
persuasivi. Kant appartiene ad una tradizione culturale diversa, ottimistica, e ritiene che sia possibile giuridicizzare le
relazioni internazionali, sottomettere i rapporti tra gli stati a regole di diritto comune che tutti devono rispettare.
Questo è il tema del celebre opuscolo Per la Pace Perpetua, che Kant scrive e pubblica nel 1795, negli unici due mesi in
cui le potenze europee non guerreggiano tra di loro in quella stagione turbolenta che ha caratterizzato l’epoca della
rivoluzione francese e poi dell’età napoleonica. Ricordiamoci che dalla celebre battaglia di Valmy nel 1792 fino al 1815
le potenze europee combattono ininterrottamente tranne che in queste tregue, tra cui i due mesi della pace di Basilea
in cui Kant scrive il suo opuscolo. Tra l’altro combattono guerre veramente pesanti perché con e dopo la rivoluzione
francese la guerra non è più una guerra di soli apparati militari, che coinvolge soltanto militari di professione, eserciti,
e lascia in pace le popolazioni civili; qui la guerra diventa guerra di massa, guerra di popolo attraverso un dispositivo
che cominciano ad utilizzare i rivoluzionari francesi che è la leva in massa, tutti i maschi adulti abili a portare le armi
vanno a combattere, gli eserciti non sono più eserciti di professionisti, ma sono eserciti di massa, il che vuol dire che
quando si combatte una battaglia rimangono sul campo tantissimi uomini, ogni grande battaglia soprattutto in epoca
napoleonica diventa una carneficina in cui muoiono decine e decine di migliaia di persone. Da qui l’urgenza di
ragionare sul tema della pace e da qui questo piccolo testo di Kant, che ha un fuoco particolare sulle relazioni
internazionali.
Il modello che Kant costruisce per ragionare su come si possa costruire la pace perpetua è esattamente il modello che
poi prenderà corpo con la società delle nazioni e poi con l’ONU. Il modello che si realizza con queste grandi
organizzazioni internazionali nel suo fondamento è proprio kantiano ed è il meccanismo della sicurezza collettiva, in
cui tutti gli stati che compongono la comunità internazionale aderiscono ad una società delle nazioni, che si dà un
diritto comune e poi quando scoppia un conflitto non sono alcune potenze contrapposte ad altre ad intervenire
contro chi sta violando la legalità internazionale, ma sono tutte le potenze che appartengono all’organizzazione
internazionale. Si parla di meccanismo di sicurezza collettiva, non ci sono più alcuni contro altri, equilibrio di potenza,
ma ci sono tutti contro chi o coloro che violano il diritto internazionale, cioè le regole di convivenza che la comunità
internazionale si è data.
Come Kant ha immaginato la costruzione della pace perpetua (?) Secondo K. Per costruire un ordine internazionale
pacifico si debbano fare tre cose, la prima riguarda la politica interna ed è adottare la forma di governo repubblicana, i
governi devono darsi una forma repubblicana; bisogna immaginare un federalismo di liberi stati; bisogna dar seguito al
diritto cosmopolitico, cioè il diritto di qualsiasi cittadino, di qualsiasi paese di entrare il qualsiasi altro paese. Se si
realizzano insieme questi tre elementi, si può costruire la pace perpetua.

Contesto e attualità : Sullo sfondo di questa riflessione ci sono la rivoluzione americana e soprattutto la rivoluzione
inglese; Guardando anche all’America, egli ha fissato un modo di intendere le relazioni internazionali assai diverso da
quello tipico del “realismo politico”. In sintesi, la sua idea è quella di assoggettare progressivamente i rapporti tra gli
stati al diritto, sottraendoli alle ragioni della forza e alla strutturale fragilità delle politiche di equilibrio. Queste tesi
ispireranno le politiche novecentesche della sicurezza collettiva: SDN e ONU. Kant rappresenta il tipico punta di vista
delle filosofie cosmopolitiche e ad oggi è di particolare inattualità o attualità in un’epoca in cui esplodono
nuovamente i nazionalismi, i sovranismi, le chiusure che tutti ben conosciamo.
Come funziona questa riflessione (?) Innanzitutto, nella seconda parte del testo, cioè prima ancora di introdurre
questa riflessione sui tre dispositivi che rendono possibile la pace perpetuea, c’è una riflessione di carattere più
generale che introduce una convinzione profonda che Kant ha e che lo rende un uomo del suo tempo, cioè un
illuminista. Kant scrive che comunque la si voglia mettere a prescindere dalla volontà degli uomini, delle classi
dirigenti, dei singoli stati, il mondo sta procedendo di fatto e comunque verso la pace perpetua. C’è un ottimismo
profondo in questa visione, il mondo procede verso una progressiva pacificazione delle relazioni internazionali perché
sta prevalendo sempre di più presso tutti i popoli quello che Kant chiama lo spirito del commercio, sta trionfando una
civiltà sostanzialmente orientata alla pace che interpreta le relazioni tra gli stati non più come relazioni conflittuali ma
come relazioni basate sulla competizione economica.
Sostenitori : Questa è una tesi che dopo Kant sarà fatta propria da molti autori, l’idea che il primato dell’economia sia
un motore di pacificazione delle relazioni internazionali, soprattutto nella tradizione liberale, la ritroveremo in
Constant, la ritroviamo nella cultura del positivismo francese nell’Ottocento laddove alcuni filosofi teorizzano la
progressiva eclissi degli stati militari a favore degli stati industriali, la potenza economica stempera lo spirito guerriero,
si ritroverà in Schumpeter che scrive un libro intitolato “Sociologia degli imperialismi”, in cui dice che il mondo sta
diventando pacifico e spiega che la prima guerra mondiale è stato il frutto della prevalenza di élite premoderne, cioè il
grande dramma della guerra a cui “stiamo assistendo” non è il frutto del capitalismo moderno che per sua natura è
pacifico, ma è il frutto di quelle elitè ancora feudali pre-moderne che governano la Germania che hanno portato il
paese e poi l’Europa e poi il mondo intero nella catastrofe del conflitto. E’ una tesi che viene espressa nel 1989 da un
signore che si chiama Francis Fukuyama, che alla vigilia della caduta dell’Impero sovietico scrive un famoso articolo
intitolato “Fine della storia (?)” in cui dice che si sta diffondendo su scala planetaria il modello liberal-democratico e
al tempo stesso capitalistico, proprio degli Stati Uniti d’America, cioè dei paesi più sviluppati del mondo e che questo
porterà verso la pace. Lo si trova un po’ dappertutto questo grande tema, lo si trova anche in Polanyi, che sostiene
che nel corso dell’Ottocento ci sia stato un lungo periodo di pace, la pace dei cento anni, in cui prima la Santa Alleanza,
i meccanismi della politica di equilibrio delle potenze conservatrici, ma poi soprattutto la grande finanza, la grande
unificazione del mondo in un unico mercato globale, ha pacificato il mondo fino a quando però non è successo il
pasticcio nel 1914. Insomma, è un’idea che attraversa un po’ tutta la riflessione su questi temi in età contemporanea e
che in Kant si trova già espressa in maniera molto chiara.
Critici : Man mano che la crescita economica diventa la bussola che orienta la politica degli stati, automaticamente le
relazioni internazionali tendono a pacificarsi, a stabilizzarsi. Questa è un’idea che era stata aspramente contestata
qualche anno prima dai federalisti, da Hamilton, il quale da buon realista politico sosteneva che non funziona così,
anzi spesso è proprio lo spirito del commercio, la corsa ai mercati delle grande potenze che produce la guerra e che
sarà contestata da Lenin, che nel 1916 scrive “l’Imperialismo fase suprema del capitalismo”, in cui sostiene che
l’incapacità del sistema capitalistico di riprodursi pacificamente sul terreno dell’economia internazionale porta alla
corsa alle colonie che è tipica all’età degli imperi e dunque alla guerra.
E’ un tema fortemente dibattuto. Kant la vede in maniera ottimistica e ritiene che lo spirito del commercio sia un
potente motore di pacificazione delle relazioni internazionali. Nonostante il fatto che il mondo stia procedendo verso
la pace perpetua è necessario mettere in atto alcune importanti trasformazioni perché questa tendenza alla pace
possa essere garantita nel senso di una pacificazione stabile delle relazioni tra gli stati e a questo proposito Kant fissa
tre articoli definitivi per la pace perpetua che sono quelli riconducibili a quei dispositivi già citati.
Repubblica
Il primo articolo definitivo per la pace perpetua recita
“La costituzione civile di ogni stato deve essere repubblicana”
Cosa vuol dire (?) Vuol dire che la prima importante mossa per andare verso la pacificazione internazionale riguarda
anzitutto la sfera delle forme di governo, ci sono delle forme di governo che sono più inclini alla guerra e altre che lo
sono di meno. Quindi se tutti gli stati si danno una forma di governo meno incline alla guerra, moltiplicandosi gli stati
che vanno in questa direzione si fa già un progresso fondamentale nella direzione della pacificazione universale.
Qui Kant contrappone due fondamentali forme di governo, ossia la repubblica e il dispotismo.
Repubblica : Quella che Kant chiama repubblica ha due caratteri fondamentali che ci richiamano immediatamente
l’esperienza americana e i ragionamenti e le riflessioni dei federalisti, la repubblica è una forma di governo basata in
primo luogo sul principio della rappresentanza, cioè sull’idea che chi governa, chi decide, chi fa le leggi, debba
rappresentare la volontà popolare, non immediatamente, ossia non come accade nella democrazia alla Rousseau, che
per Kant rappresenta direttamente una forma di dispotismo, ma come accade nelle repubbliche come quella
americana, dove c’è una rappresentanza che dà sì la voce ad una parte più o meno consistente del popolo, cioè
legittima il potere dal basso, senza però che ci siano meccanismi di direttismo che emergono, quindi la repubblica è un
sistema basato sulla rappresentanza che avvicina ma al tempo stesso allontana dal popolo. Inoltre, la repubblica deve
basarsi sulla separazione dei poteri.
Governo rappresentativo e separazione dei poteri sono per Kant i caratteri salienti della repubblica.
Dispotismo : Il dispotismo invece è una forma di governo in cui il despota non si sente rappresentante di nessuno,
cioè agisce in prima persona a capriccio, a suo arbitrio e in cui al tempo stesso non c’è nessuna separazione dei poteri,
perché il despota concentra nelle sue mani tutti i poteri.
La tesi di Kant è che i governi dispotici, cioè che non rappresentano sia pure indirettamente la volontà popolare e non
sono costruiti sulla separazione dei poteri, sono molto più inclini alla guerra di quanto non lo siano le repubbliche. In
un sistema dispotico il sovrano può muovere guerra e lo fa abitualmente per suo capriccio personale, per ragioni di
prestigio, senza dover ascoltare la volontà di nessuno, senza dover consultare il popolo, che poi è quello che
concretamente fa la guerra e secondo Kant non ha alcun interesse a farla. Insomma, il sovrano può fare la guerra a
capriccio senza rappresentare nessuno e senza incontrare sulla sua strada dei dispositivi istituzionali che frenino il suo
potere. Per questo i sistemi dispotici sono a suo avviso molto più inclini alla guerra. Nel caso delle repubbliche invece
dove chi governa deve comunque ascoltare quali sono i sentimenti che provengono dal basso e dove comunque non si
possono prendere decisioni improvvise, perché chi governa si deve confrontare con altre istituzioni che possono
frenarne il potere, le repubbliche sono assai meno inclini alla guerra.
Già con un ricetta di politica interna si può porre un freno, neutralizzare in parte il rischio della guerra. Questa è una
teoria che è stata anch’essa già criticata preventivamente da Hamilton nel Federalista, ma che è stata ripresa nel
Novecento nella cosiddetta teoria della pace democratica, ossia l’idea secondo cui le democrazie tendono a non farsi
la guerra tra di loro, sono bellicose quando hanno a che fare con i regimi dispotici, quando hanno a che fare con
Guglielmo II, con Hitler, con Stalin, con Saddam Husayn e via discorrendo, quando si confrontano con i regimi dispotici
sono portate al conflitto e di regola prevalgono, tuttavia tra due stati democratici è più difficile che insorgano conflitti
e questo è un pezzo del ragionamento che Kant fa per la pace perpetua.

Federalismo
Il secondo articolo definitivo fissando da Kant recita
“Il diritto delle genti deve essere fondato su un federalismo di liberi Stati”
Il diritto delle genti è il diritto che governa il rapporto tra gli stati. Questo è un punto davvero decisivo nella riflessione
kantiana. Cosa vuol dire (?) Anche se Kant nel corso della sua riflessione ha ipotizzato l’idea di un super stato mondiale
sul modello federalistico americano che concentra in sé il monopolio della forza e quindi disarma gli stati impendendo
loro di confliggere, in realtà Kant la vede un po’ diversamente e immagina una struttura di tipo confederale, un patto
tra liberi stati, cioè tra stati che comunque mantengono la propria sovranità, per rimuovere la forza dall’orizzonte
delle relazioni internazionali, cioè gli stati si devono accordare tra di loro per rinunciare all’uso della forza nelle loro
relazioni reciproche e all’uso della forza devono sostituire il ricorso al diritto, gli stati si devono confederare tra di loro,
darsi delle regole di convivenza, cioè fissare delle norme giuridiche che regolino i loro rapporti e quindi condurre
un’esistenza guidata dal diritto e non dalla forza, in analogia con quello che accade all’interno degli stati in cui i
rapporti tra gli individui sono regolati dal diritto, i conflitti li risolviamo sulla base del diritto, raramente in base alla
forza, quindi tutta la punizione del reato, dell’uso improprio della forza è interamente normata dal diritto; la stessa
cosa secondo Kant deve valere anche per i rapporti tra gli stati, con l’unica fondamentale differenza che nel caso delle
relazioni internazionali non ci sono carabinieri, non c’è un giudice, non c’è un tribunale internazionale che funziona
bene, non c’è quel terzo che può imporre una effettiva soluzione ad una controversia e questo è il punto debole del
pensiero di Kant. Per Kant è importante fare questo passo in avanti verso una sempre più piena giuridicizzazione delle
relazioni internazionali, bisogna che gli stati si abituino a risolvere le loro controversie non ricorrendo alla forza, alla
violenza, magari secondo gli schemi della tradizionale politica dell’equilibrio di potenza, ma attraverso il diritto, il
rispetto di regole che valgono per tutti e in questo modo c’è la possibilità che le relazioni internazionali vadano
progressivamente pacificandosi.
Storicizzazione : Questo è un po’ il principio che è stato alla base del funzionamento della SDN e che tutt’ora sta alla
base del funzionamento dell’ONU, che sono delle grandi organizzazioni internazionali che in linea di massima
ricomprendono e rappresentano l’intera comunità degli stati del pianeta e fissano delle regole di convivenza che nel
caso in cui non vengano rispettate autorizzano eventuali conflitti che vengono a configurarsi non più come guerre nel
senso tradizionale del termine, ma come operazioni di polizia internazionale. La guerra del golfo del 1991 è stata per
l’appunto dal punto di vista formale un’operazione di polizia internazionale. L’Iraq aveva invaso il Kuwait per avere
uno sbocco sul mare; l’ONU ha condannato quell’azione di Saddam Husayn; ha cominciato ad infliggere sanzioni a quel
paese; Saddam Husayn si è rifiutato di ritirarsi dal Kuwait, l’ONU ha autorizzato l’uso della forza. C’è una guerra vera e
propria che dal punto di vista formale si è configurata come una operazione di polizia internazionale. E’ stata
approvata da alcuni grandi progressisti e filosofi della politica come Norberto Bobbio e Habermas, l’idea è che bisogna
lentamente provare a sottomettere la volontà degli stati di agire sulla base dei propri interessi ricorrendo alla forza e
bisogna sottoporre gli stati al diritto internazionale esattamente come la nostra vita di cittadini è sottoposta al diritto
positivo, senza che questo porti però alla costruzione di un terzo, cioè di una struttura che poi abbia poteri effettivi,
qui questo patto tra gli stati è un patto in cui gli stati semplicemente si dichiarano disposti a rinunciare all’uso della
forza senza conferire il proprio potere di farlo a nessuno. Questo è lo schema kantiano che i federalisti novecenteschi
tra cui Einaudi ritenevano insufficiente anche sulla base dell’esperienze negative della SDN. Da qui è andata crescendo
quella materia estremamente interessante e complessa, che è il diritto internazionale.
Kant immagina un confederalismo rafforzato in cui gli stati si mettono d’accordo per rispettare delle regole comuni,
ossia riconoscono seriamente un diritto internazionale che deve governare i rapporti. Non è un confederalismo perché
non è una mera alleanza tra stati ma non è nemmeno un federalismo perché non c’è un terzo che impone con la forza
il diritto che regola i rapporti tra gli stati. E’ un confederalismo rafforzato. Kant parla di federalismo di liberi stati,
rimangono liberi ma si federano nel senso che si danno un orizzonte giuridico comune pur rimanendo in ultima analisi
sovrani.
Diritto cosmopolitico
Il terzo articolo definitivo per la pace perpetua recita
“il diritto cosmopolitico deve limitarsi alle condizioni di un’ospitalità universale”
Ogni uomo in quanto cittadino del mondo ha il diritto di visita e di ingresso in tutti gli stati ai quali non appartiene. Se
tutti gli stati riconoscessero questo diritto cosmopolitico e quindi abbassassero le proprie frontiere, i propri confini, la
virulenza con cui confini e frontiere vengono presidiati, questo favorirebbe quello spirito di fratellanza universale
verso cui peraltro il mondo sempre più intrecciato con il commercio, sempre più a stretto contatto, si sta avviando.
Il diritto cosmopolitico rafforza questa spinta verso la pace perpetua che in parte è nei fatti e in parte deve essere
conquistata con azioni consapevoli.
Constant
1767-1830
Vive tra la seconda metà del Settecento e il 1830, muore poco dopo la rivoluzione di luglio e attraversa la
grande turbolenta epoca della rivoluzione francese e poi dell’età napoleonica. L’opera a cui facciamo
riferimento è un piccolo libretto “La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni”, che è il testo
di una conferenza tenuta da Constant nel 1819.
Appartiene ad una schiera piuttosto nutrita di liberali della restaurazione, dove per restaurazione si
intende la restaurazione che ha luogo dopo l’esperienza napoleonica sia a livello Europeo, il Congresso di
Vienna, che in particolare nella Francia che dopo il 1815 ritorna sotto il dominio legittimo dei Borbone. E’
più in generale uno dei principali esponenti della tradizione liberale tout court. E’ un classico autore
liberale che insieme a Tocqueville e a Mill rappresenta una specie di santissima trinità del pensiero liberale
ottocentesco. Constant è soprattutto un liberal conservatore, orientato nel senso del conservatorismo,
scettico nei confronti delle aperture alla democrazia; Tocqueville possiamo considerarlo un liberal
democratico, in quanto ritiene che la democrazia sia un fatto inevitabile che prima o poi arriva dappertutto;
Mill viene considerato uno dei precursori del cosiddetto liberal socialismo perché è un autore sensibile,
aperto ai temi della questione sociale che negli stessi anni trovano il loro massimo e radicale interprete e
lettore, ossia Marx. Son tutti liberali che condividono il grande tema della libertà.
Essenziale, nel caso di Constant, è la duplice esperienza che egli fa durante la R. francese del giacobinismo
e poi del dominio napoleonico che nello schema di questo autore rappresentano due tipici frutti pericolosi
o perversi della democrazia e della sovranità popolare. Quando si apre il governo alla piena legittimazione
dal basso, finisce male, come hanno dimostrato in Francia l’esperienza giacobina e poi quella napoleonica;
Napoleone ha sì instaurato un regime autoritario ma ha sempre governato attraverso i plebisciti, cioè ogni
volta che ha cambiato la costituzione ha sempre fatto ricorso a queste forme di consultazione popolare che
hanno conferito al suo autoritarismo una coloritura dal basso, popolare, democratica di grande interesse,
tant’è che poi quella del Bonapartismo è diventata e rimasta stabilmente una categoria precisa delle teorie
politiche contemporanee.
Ancora, Constant è particolarmente importante per noi perché ha fissato e reso celebre una dicotomia su
cui gli studiosi del pensiero politico hanno continuato a riflettere, cioè la grande dicotomia tra antichi e
moderni. Attraverso questa riflessione sul carattere strutturalmente diverso dell’esperienza antica rispetto
a quella moderna Constant ragiona sulle forme antiche della democrazia, in primo luogo Atene, e invece la
forma di governo che è propria dei moderni che non può essere quella degli antichi e che si identifica
essenzialmente con il governo rappresentativo. E’ uno dei principali teorici del governo rappresentativo, il
quale non è da confondersi con la democrazia rappresentativa. Noi oggi parliamo di democrazie
rappresentative perché le nostre forme di governo più tipiche sono quelle basate sui parlamenti, sulle
istituzioni rappresentative che però esprimono una rappresentanza realmente popolare, cioè tutti i maschi
e le femmine votano dei rappresentanti che poi fanno le leggi, il parlamento, eccetera. Questa è una cosa
che sta fuori dall’orizzonte di Constant, che è sì favorevole alla rappresentanza ma al tempo stesso è
persuaso che questa rappresentanza non deve essere aperta ai ceti popolari, cioè alla democrazia in questo
senso, perché sennò succedono delle cose sgradevoli. E’ il teorico del governo rappresentativo ma non
della democrazia rappresentativa e attraverso questa dicotomia tra antichi e moderni fissa una separazione
netta tra liberalismo e democrazia.
Quando all’inizio dell’Ottocento si parla di democrazia, ci si riferisce sempre non alla democrazia
rappresentativa che ancora non esiste, ma alla democrazia così com’era concepita nell’antica Grecia, quindi
democrazia è sinonimo di democrazia diretta che è un’espressione che comincia a circolare nel lessico
politico soltanto alla fine dell’Ottocento, cioè quando si sviluppa la democrazia rappresentativa o indiretta
e per contrasto si diffonde anche l’espressione democrazia diretta. La democrazia diretta è la democrazia in
cui i cittadini prendono direttamente decisioni politiche; la democrazia rappresentativa o indiretta è la
democrazia in cui i cittadini eleggono coloro che prenderanno decisioni politiche.
Constant è il teorico del governo rappresentativo e quando parla di democrazia si riferisce al modello degli
antichi, ecco perché antichi e moderni diventano decisivi nel suo modo di ragionare.
La vita
Ha una intensa attività politica, non è un teorico allo stato puro ma partecipa alle vicende del proprio
tempo. Ha avuto un rapporto controverso con Napoleone al quale si oppone nel passaggi tra il XIII e il XIX
secolo, poi però quando ci sono i cento giorni di Napoleone nel 1814 collabora con lo stesso Napoleone
durante i 100 giorni, redigendo l’Atto nazionale alle costituzioni dell’impero. Dopodiché, terminata
l’esperienza napoleonica quando ritornano sul trono di Francia i Borbone, prima con Luigi XIII che ancora è
tollerabile e poi con Carlo X che è invece intollerabile perché è un re reazionario, super conservatore, che
vuole ridare potere ai vecchi ceti aristocratici, da liberale quale è, si schiera all’opposizione del nuovo
regime borbonico restaurato e si trascina fino al 1830 quando viene nominato da Luigi Filippo D’Orleans
presidente del Consiglio di Stato, ma muore poco dopo. Constant è un autore che non si mette a tavolino a
scrivere opere teoriche di politica ma che soprattutto nella sua attività parlamentare, discorsi, lettere,
eccetera, ha sviluppato un pensiero politico di una significativa coerenza.
I temi
Sono tre essenzialmente i temi che sono importanti per fissare un profilo complessivo di questo autore. Il
primo è la dicotomia tra antichi e moderni che ha sviluppato nell’operetta che prendiamo in
considerazione. Il secondo riguarda il tema della sovranità popolare e del braccio pratico di essa, cioè il
diritto di voto e qui si vedrà come Constant si schiera contro il suffragio universale, contro qualsiasi forma
di allargamento del suffragio universale e teorizza un suffragio ristretto ai ceti ricchi e colti con alcuni
argomenti che stanno anche tornando di moda in questa epoca di populismi dilaganti in alcuni autori tra
cui Jasos Brennan “Contro la democrazia”, un libro contro la democrazia in cui sostiene che non è affatto
necessario che ognuno abbia il diritto a votare, sono importanti i diritti politici e sociali ma il diritto di voto è
una cosa a parte che andrebbe rimessa in discussione e usa degli argomenti che hanno molto a che fare con
ciò che dice Constant e che ci fanno capire il disorientamento che oggi produce il dilagare di movimenti
populisti un po’ dappertutto. Il terzo tema è quello del potere neutrale, Constant, facendo tesoro di una
riflessione che si può riportare a Montesquieu o comunque all’esperienza concreta della monarchia inglese,
teorizza l’idea secondo cui è necessario che esista, per il buon funzionamento delle istituzioni politiche, un
potere che non discenda dalle elezioni ma discenda dall’appartenenza ad una dinastia e che possa, senza
esercitare forme politiche di potere, costituire un elemento di garanzia, il potere neutrale è il potere del
sovrano che garantisce il funzionamento del potere politico nel suo insieme, cosa che fanno di norma le
monarchie. Tutta questa riflessione si svolge naturalmente sullo sfondo della grande rivoluzione francese
che ha sollevato tutte le innumerevoli questioni a partire dalla sovranità popolare con cui Constant si
confronta.
Antichi e moderni
In quel testo Constant come Kant insiste sul fatto che era tipica degli antichi la propensione alla guerra e al
conflitto, invece è tipica dei moderni la propensione al commercio che porta con sé il raziocinio, il calcolo e
ha quindi un effetto pacificatore sul complesso delle relazioni internazionali. Questo tema lo ascriviamo a
Kant e ce lo togliamo di torno. Qui ci interessa un’altra riflessione che riguarda il confronto tra le due forme
della comunità politica in relazione a due temi, libertà e democrazia. In questo testo Constant non parla
solo della libertà ma parla anche della democrazia e mette a confronto alcuni elementi essenziali
dell’esperienza antica con quello che si può realizzare nel mondo moderno. L’idea di fondo che Constant
vuole esprimere è che il progetto di riproporre l’esperienza politica degli antichi nel mondo moderno è al
tempo stesso impossibile ed estremamente pericolosa, cioè se ci si prova, come è accaduto in maniera
drammatica con l’esperienza del giacobinismo, quel tipo di progetto si rivela essere estremamente
pericoloso. Constant lo dice incidentalmente, il vero obiettivo polemico di tutta questa riflessione è la
filosofia politica che in qualche modo ci sta suggerendo questa riproposizione dell’antico nel moderno.
Constant quando parla degli antichi, dell’esperienza della democrazia ateniese, non sta facendo un’analisi
storica, non ci sta spiegando per davvero come andavano le cose, ma quello che è importante non è il
livello dell’analisi storica ma il tipo di riflessione che attraverso questa analisi egli vuole veicolare. E’ un
modo di ragionare attraverso gli antichi che porta a determinate conclusione che sono quelle che
interessano a Constant. Inoltre, questo tema antichi e moderni è stato poi sviluppato. A questo proposito…
(Democrazia. Storia di un’ideologia) In questo libro Canfora sostiene apertamente che Constant se li è
proprio inventati gli antichi, cioè che l’idea della democrazia, che a suo giudizio non è mai stata così
democratica, Constant se l’è inventata. La democrazia greca è un’invenzione dei moderni a cui Constant ha
dato un importante contributo.
(Democratia) Ricostruisce il modello di democrazia ateniese tra V e IV secolo a.C., cerca di ricostruire
quanto quel modello abbia pesato nella rappresentazione che i moderni si sono fatti della democrazia e
delle sue trasformazioni.
Quali sono le principali differenze tra il mondo politico degli antichi e il mondo politico dei moderni con un
riflettore puntato sul tema della libertà e della democrazia.
La prima grande differenza riguarda un elemento quasi antropologico, Constant dice che l’uomo antico si
realizzava nella sfera pubblica, era interiormente proiettato a realizzarsi nella sfera della vita associata, si
sente pienamente realizzato nella misura in cui partecipa al destino della propria comunità politica e quindi
si dedica interamente alla vita pubblica; al contrario l’uomo moderno è un tipo di uomo che si realizza,
tende a realizzarsi a sentirsi pienamente compiuto, felice della propria esistenza laddove si realizza nella
sfera della vita privata, nella ricerca del guadagno, nel coltivare i propri interessi, non si sente portato alla
vita pubblica ma si sente portato e si vuole realizzare principalmente nella sfera privata della propria
esistenza e considera come un bene primario della propria vita il fatto che lo stato non metta il naso nei
suoi affari, l’uomo moderno persegue in primo luogo l’indipendenza, vuole sentirsi indipendente da
qualsiasi controllo della società sull’individuo, mente l’uomo antico si voleva realizzare nella sfera pubblica
e in questo senso c’era molto meno libertà secondo Constant e al tempo stesso l’ambito della vita collettiva
pesava enormemente sulla vita privata, attraverso il controllo dei costumi, l’ostracismo. Insomma, mentre
nel mondo antico l’uomo si realizzava nella sfera collettiva ma, al tempo stessa era nella sua indipendenza
privata messo sotto il controllo stretto della collettività medesima; nel mondo moderno l’uomo si realizza
nella sfera privata e vuole essere libero da qualsiasi controllo da parte dello stato, l’indipendenza privata è
il bene primario dell’uomo moderno.
Bisognerebbe leggere in controluce Rousseau che diceva che una volta gli uomini erano virtuosi perché si
realizzavano nella vita pubblica, partecipavano alle assemblee, prendevano le armi per difendere il proprio
paese, invece adesso gli uomini sono degenerati e fanno fare la guerra ai mercenari e mandano a decidere
per loro i rappresentanti. Qui Constant gli fa le pulci e gli dice che non funziona così, erano gli antichi che
avevano quel sentimento, i moderni vogliono fare cose diverse. Nel pensiero del cittadino partecipante
minuto per minuto del M5S c’è l’idea che il cittadino debba essere un cittadino onnipartecipativo, che vuole
esserci a tutti i costi nel dibattito pubblico, vuole intervenire, vuole fare. Se ci guardiamo intorno tutta
questa spinta alla partecipazione in giro non c’è. L’uomo moderno tende a farsi i fatti suoi e in più è anche
costretto a farlo perché altrimenti non può campare. L’idea che Constant vuole esprimere è questa, l’idea
di un uomo moderno come un uomo che è proiettato verso l’indipendenza privata, di contro all’uomo
antico che invece si sente realizzato prevalentemente nella sfera pubblica. In più, gli antichi potevano
contare sull’esistenza della schiavitù, non avevano necessità di lavorare quotidianamente perché c’erano
gli schiavi che lavoravano per loro e quindi il cittadino benestante poteva dedicarsi a tempo pieno alla
politica, perché la politica è un esercizio che implica una continuità; oggi, i moderni devono lavorare, noi
dobbiamo ora studiare, poi troveremo un lavoro e la maggior parte del tempo a disposizione lo passeremo
a lavorare, quindi le esigenze stesse del lavoro moderno rendono gli uomini moderni indisponibili alla
politica che diventa un esercizio professionale, può essere praticata a tempo pieno dalle persone laddove
diventa un mestiere, che in quanto tale deve essere remunerata perché altrimenti la politica diventerebbe
un esercizio di tipo plutocratico, cioè riservato ai ricchi, a chi dispone del tempo per dedicarsi alla politica.
Anche un imprenditore capitalistico, dirà Weber, non può dedicarsi alla politica perché deve seguire la sua
azienda, quindi soltanto i redditieri, che guadagnano in borsa o che sono grandi proprietari terrieri possono
dedicarsi professionalmente alla politica. Qui abbiamo una seconda condizione importante, le esigenze del
lavoro in assenza di schiavitù che spingono verso un allontanamento dalla dimensione onnipervadente
della politica che era propria degli antichi.
In più, c’è una grossa differenza dimensionale tra l’esperienza politica degli antichi e quella dei moderni nel
senso che l’esperienza antica era tipicamente cittadina, le dimensioni della comunità politica erano le
dimensioni della piccola città, delle poleis, Atene aveva circa 30.000 cittadini attivi, poi ci sono schiavi,
donne e stranieri, circa 6000 persone partecipavano all’ecclesia, ai lavori dell’assemblea popolare e finiva lì;
nel mondo moderno non ci sono più le poleis, la comunità politica è una comunità statale di medie o
grande dimensioni che impedisce quell’esercizio locale della politica, in quale piazza riuniamo i cittadini per
prendere decisioni politiche (?) In nessuna. Sono cambiate le dimensioni della comunità politica e quindi le
condizioni di possibilità della partecipazione politica. E’ per questo che gli antichi hanno potuto
sperimentare forme di democrazia diretta e invece i moderni possono esercitare la politica in maniera
diversa nella forma del governo rappresentativo, che permette di aggirare il fatto che l’uomo moderno
voglia farsi i fatti suoi, il fatto che debba lavorare e quindi debba farsi i fatti suoi, il fatto che una comunità
politica è di medie o grandi dimensioni. Il governo rappresentativo permette di aggirare tutte queste
difficoltà che i moderni incontrano nell’esercizio antico della politica e offre loro una diversa modalità di
esercizio della politica stessa.
La tesi di questa conferenza che fissa in maniera esemplare queste differenze tra antichi e moderni è che
l’esperienza degli antichi è irriproducibile nelle condizioni del mondo moderno ed è anche pericolosa! Nella
misura in cui può alimentare forme apparenti di direttismo che producono guai, si sta riferendo
all’esperienza dei giacobini, che hanno incarnato quest’idea della democrazia radicale, dal basso che si è
poi si è tradotta nel dispotismo terroristico di pochi nella terribile esperienza della Grande Terrore tra il
1792 e il 1795. C’è una coda in questo discorso che è la riflessione su guerra e commercio, che sono le
tipiche modalità con cui i popoli rispettivamente antichi e moderni si relazionano tra di loro.
Diritto di voto
Constant è il teorico del governo rappresentativo! Perché democrazia rappresentativa non va bene (?) Nel
lessico politico dell’Ottocento possiamo iniziare a parlare di democrazia rappresentativa solo quando il
principio del governo rappresentativo si allarga tramite il diritto di voto alle masse popolari, quando si
parla di governo rappresentativo non si riferiscono mai alla totalità della popolazione ma alla parte più colta
e abbiente di essa che attraverso il diritto di voto limitato di regola su base censitaria hanno diritto a
produrre la rappresentanza politica che poi prende decisioni politiche nelle assemblee rappresentative. Noi
parliamo di democrazia rappresentativa soltanto quando i meccanismi della rappresentanza si allargano
alla totalità o alla quasi totalità della popolazione adulta attraverso il diritto di voto. Che questa sia una
semplice evoluzione del governo rappresentativo è un’affermazione fortemente contestata, sia i vecchi
liberali conservatori che i democratici più radicali tutt’oggi ritengono che il principio della rappresentanza
sia incompatibile col principio della democrazia. Se c’è rappresentanza non c’è democrazia, ricorda l’idea di
Rousseau. La stessa espressione “democrazia diretta” non compare mai nel lessico politico del tempo,
bisogna aspettare la fine dell’Ottocento per trovare questa espressione. Il primo autore che l’autore che la
usa massicciamente è Giuseppe Rensi, che scrive nel 1902 un volumetto intitolato “La democrazia diretta”.
Prima, la parola “democrazia” senza aggettivi stava già ad indicare il concetto della democrazia diretta. Noi
oggi riteniamo naturale che la democrazia implica il concetto di rappresentanza, ma questo è uno sviluppo
moderno perché fino all’inizio del Novecento la parola “democrazia” significava soltanto la democrazia
degli antichi, assembleare in cui tutti prendono la parola. Questa democrazia non piace a Constant, che
quando parla del governo rappresentativo ne elabora un concetto o immagine che è significativamente
ristretto nella sua base di riferimento. Quando parla di governo rappresentativo e si chiede chi devono
rappresentare i governi rappresentativi e chi devono essere i rappresentanti la sua posizione è che il diritto
di voto non debba essere allargato alle masse popolari. Il governo rappresentativo non deve assumere una
legittimazione democratica. Qui c’è una polemica contro tutte le teorie che cominciano in questi anni a
formulare l’esigenza dell’allargamento del diritto di voto che a lungo resterà in tutta Europa un problema.
Prima che si arrivi a qualcosa che assomiglia vagamente al suffragio universale bisogna aspettare la fine
dell’Ottocento. Dove riesce questo processo che allarga il diritto di voto (?) Il suffragio universale arriva in
Francia nel 1848 e in Germania per volontà di Bismark, il quale concede il suffragio universale per l’elezione
del Reichstag e anche questa è una cosa che fa un po’ pensare perché sembra essere una regola che siano
grandi leader, Napoleone III e Bismark, a giovarsi dell’esistenza del suffragi, perché effettivamente si è
sperimentato nel corso dell’Ottocento che il diritto di voto allargato a tutti rischia di generare e ha generato
governi autoritari, invece dove il suffragio universale è arrivato poco per volta le cose sono state
relativamente differenti.
Constant mette nel piatto questo tema chiaramente teorizzando l’idea che il diritto di voto dev’essere
limitato ai ceti abbienti e colti, coloro che hanno ricchezze e che attraverso la tassazione contribuiscono al
bilancio dello stato e a coloro che sono colti e quindi hanno una preparazione per comprendere la
complessità della politica. Perché queste due affermazioni (?) Sono essenzialmente due le ragioni.
Una, estremamente urticante e assolutamente distante dalla nostra sensibilità contemporanea, secondo
cui soltanto chi effettivamente contribuisce al sostentamento dello stato pagando delle tasse ha il diritto a
far valere il proprio peso nella direzione del processo politico. Non si possono far pagare le tasse ai ricchi,
che di regola sono pochi, poi far votare tutti, quindi la maggioranza di poveri e affidare a loro stessi al
gestione dei soldi che ci hanno messo i ricchi. E’ un po’ il principio che rivendicavano come misura
rivoluzionaria gli americani che soltanto la tassazione, il fatto di contribuire ad essa dà il diritto ad essere
rappresentati. Solo chi paga le tasse ha il diritto di amministrare quel bilancio stesso.
Due, i ceti meno abbienti sono i ceti meno colti e quindi meno capaci di comprendere la complessità del
governo di una società che richiede delle competenze elevate, quindi bisogna fare attenzione a dare il voto
alle masse perché esse nella loro ignoranza tendono a cadere nelle trappole del demagogo di turno, di
coloro che con argomenti semplici ma poco realistici, di spettacolari parole d’ordine e promesse, riescono a
conquistare il consenso popolare. Gli impreparati rischiano di cadere nelle grinfie dei demagoghi, i quali
una volta conquistato il potere e legittimati ad esercitarlo in nome del popolo finiscono per concentrare
nelle proprie mani poteri giganteschi. Chi può dire che governa in nome del popolo tende a concentrare in
sé poteri immensi e ad avere la possibilità quindi di esercitare il potere in maniera arbitraria. Qui c’è il tema
della demagogia, del carattere plebiscitario che la politica può assumere nell’età della democrazia laddove
si facciano entrare le masse nel circuito della politica. Questo è un tema che esploderà massicciamente tra
Otto e Novecento quando la politica comincia a diventare politica di massa attraverso gli allargamenti del
diritto di voto ed è allora che autori come, in primo luogo, Weber ragioneranno su questo tema dicendo un
po’ quello che diceva Constant. Quando arriva la democrazia, arrivano i demagoghi, i dittatori del campo di
battaglia elettorale, coloro che dotati di capacità di trascinamento delle folle riescono ad ottenere enorme
consenso. (La psicologia delle folle).
Potere neutrale
Constant riteneva anche che fosse necessario a un sistema politico funzionante avere al proprio vertice
come detentori di poteri di garanzia una monarchia ereditaria e qui emerge il tema del potere neutrale.
Che cos’è il potere neutrale (?) E’ il potere di un monarca, quindi di un soggetto la cui legittimazione è
dinastica, ereditaria. La monarchia non deve governare, esercitare poteri esecutivi, ma il monarca con la
sua legittimità inscalfibile perché non viene dal basso può esercitare autorevolmente un ruolo di garanzia,
cioè vegliare sul funzionamento complessivo delle istituzioni del proprio paese. E’ un potere che in Italia
oggi ha Mattarella, veglia sul funzionamento complessivo del sistema. Il problema che Mattarella è un
presidente eletto dal parlamento quindi il suo potere neutrale è un potere che in una situazione di crisi
profonda un po’ vacilla perché la sua legittimazione proviene dal basso, mentre il potere del monarca è
l’unico potere che nelle società moderne non deriva da un’elezione ma da una legittima discendenza
dinastica.
Questa idea della monarchia come garante dell’equilibrio delle istituzioni è stata riproposta in Italia
recentemente da autorevoli studiosi che hanno detto che le elezioni moderne sono dominate dalla potenza
del denaro, che bisogna stare attenti ai demagoghi e l’unica cosa che può frenare questo rischio della
plutocrazia, cioè del potere del denaro e la demagogia, il potere dei leader trascinatori, l’unica opzione è la
monarchia. Peccato che le monarchie bisogna che siano legittimate da una lunga tradizione e che siano
all’altezza del loro ruolo. La monarchia non si può inventare a tavolino.

Tocqueville
1805-1859
Si muove nel solco delle riflessioni di Constant e sarà seguito dal terzo grande liberale ottocentesco che è
John Stuart Mill. Ricordiamo che se Constant è un tipico liberal consevatore, Tocqueville possiamo definirlo
più chiaramente come un liberal democratico e Mill per certi aspetti può essere definito come un liberal
socialista in quanto molto attento al tema della riflessione sociale. T. è l’autore de “La democrazia in
America” che esce una prima volta nel 1835 quando T. ha solo trent’anni e in una seconda edizione
allargata nel 1840.
In generale possiamo dire che T. è uno dei massimi campioni della cultura liberale e al centro della sua
opera campeggia un tema già visto molto chiaramente in Montesquieu, il problema della libertà, su cui
ragiona in relazione alla democrazia. Il grande tema che sta al centro dell’opera di T. è il rapporto tra
democrazia e libertà e sta al centro della sua opera prendendo, la democrazia, quasi il posto del
dispotismo di Montesquieu. La democrazia è una forma di assetto sociale-politico che minaccia la libertà
anche se è al tempo stesso inevitabile. Al centro dell’opera di questo ragazzo c’è questo grande tema che
sostituisce il rapporto tra dispotismo e libertà che c’è in Montesquieu.
Seconda cosa, T. è importante perché negli anni Trenta dell’Ottocento introduce nel dibattito politico
dell’epoca il tema del modello americano, è uno dei primi autori europei che guarda con interesse
all’America che è un paese relativamente poco conosciuto, introduce nel dibattito europeo un’attenzione
peculiare allo sviluppo sociale e politico americano con una tesi per l’epoca rivoluzionaria, cioè sostenendo
che l’America rappresenterebbe il modello di una democrazia pienamente realizzata la quale
rappresenterebbe il futuro dell’Europa. Normalmente gli Europei guardano, in questo periodo, all’America
come un paese giovane che diventerà con il tempo come l’Europa. T. dice il contrario, è l’Europa che
diventerà come l’America e non viceversa.
Terzo elemento, T. osserva l’America degli anni Trenta ma più che vedere ciò che ha sotto gli occhi,
intravede negli Stati Uniti un modello di società somigliante alle novecentesche società di massa,
descrivendo l’America descrive le moderne società di massa del Novecento ed è per questo che T. ha
conosciuto nel Novecento, quando sono sorte quelle società di massa che egli ha quasi involontariamente
descritto guardando all’America dell’Ottocento, una nuova fortuna riattivata dal solito Raymond Aron che
in quel libro “Le grandi tappe del pensiero sociologico” considera T. come uno dei più grandi scienziati
sociali dell’Ottocento all’altezza di Marx, Weber e Montesquieu.
La vita
E’ importante fissare alcuni dati biografici. Innanzitutto, è il rampollo di una grande e potente e ricca
famiglia aristocratica, filoborbonica scampata all’uragano della Grande Rivoluzione e poi del Terrore.
Questo rampollo quando scoppia nel 1830 la rivoluzione di luglio, cioè quella che porta alla caduta del
regime borbonico e alla sua sostituzione con la monarchia “borghese” di Luigi Filippo D’Orleans,
Tocqueville prende le parti del nuovo sovrano e quindi rompe i rapporti con la sua famiglia e con la sua
cerchia sociale. In occasione di questa rottura, decide di allontanarsi dalla Francia e di intraprendere un
consistente viaggio in America che farà insieme al suo amico, viaggio che dura quasi un anno, con l’idea di
scrivere un libro sul sistema penitenziario americano che all’epoca era all’avanguardia e visto che anche in
Francia si stava discutendo della riforme delle carceri, delle modalità di detenzione, era di estremo
interesse. Si reca in America con questo scopo, nel corso di questo viaggio matura un progetto più ampio
che è quello di scrivere un grosso libro sulla democrazia in America. Scrive questo libro ma scrive anche il
libro sul sistema penitenziario, che è un piccolo capolavoro perché durante quel viaggio visita un sacco di
carceri, intervista condannati, direttori e sviluppa una riflessione di grande interesse sul tema carcerario,
che per certi aspetti anticipa i contenuti de “La democrazia in America”. Scrive anche dei diari che sono
interessanti perché rivelano la capacità di capire delle cose viaggiando che poi sbocciano in riflessioni
teoriche di grande rilievo. Ad ogni modo, pubblica questo capolavoro che gli dà un enorme successo, T.
diventa accademico di Francia e come se non bastasse dal 1839 trascinato dalla sua passione per la politica
diventa parlamentare, siamo nell’orizzonte della monarchia di luglio che durerà fino al 1848, e fino agli anni
Cinquanta ha un’intensa attività politica che si manifesta per lo più in discorsi, interventi che sono stati tutti
pubblicati nell’opera completa che raccoglie tutti i testi di quest’autore.
Negli anni di Napoleone, Luigi Bonaparte, diventa ministro degli esteri e avrà un ruolo importante nella
repressione della repubblica romana che i francesi hanno fatto nel contesto delle rivoluzioni del 1848.
Dopodiché entrerà in contrasto con Napoleone e si ritirerà a vita privata dove si dedicherà alla lettura di
documenti della storia francese e alla composizione della seconda grande opera che ha scritto e che è
rimasta incompiuta “L’antico regime e la rivoluzione”. In questo testo sostiene l’idea che tra l’antico
regime e la rivoluzione, gli elementi di continuità prevarrebbero su quelli di frattura. Noi siamo abituati a
pensare alla rivoluzione francese come un momento di rottura netto nella continuità della storia della
Francia e non solo, T. rovescia il tavolo e mostra come il regime rivoluzionario e poi quelli post-rivoluzionari
abbiano ripreso e anzi ulteriormente rafforzato alcuni elementi caratteristici della storia francese, tra i quali
in primo luogo la spinta verso il centralismo amministrativo.
I Temi
Il primo grande tema è l’America che egli non vede in maniera lucida se non con una proiezione al
Novecento. Il secondo è la democrazia, che per T. costituisce una forza universale inarrestabile che però
pone problemi alla libertà degli individui. Il terzo è il tema della tirannide della maggioranza o dispotismo
democratico, questo è l’elemento è il più originale della sua riflessione. Una cosa che già Madison
nell’articolo 10 del Federalista aveva intravisto e che qui viene argomentato in maniera ampia e classica.
Questi sono tre temi strettamente correlati tra loro, cioè gli interessa l’America perché è la patria della
democrazia; gli interessa la tirannide della maggioranza perché è l’esito verso cui tendono senza adeguati
contrappesi le democrazie. Tre temi correlati che hanno sullo sfondo un duplice interesse. Primo, un
interesse sui caratteri fondamentali che definiscono le società democratiche; due un’attenzione tipica
della cultura liberale sul rapporto tra democrazia e libertà, ovvero tra eguaglianza e libertà. Il tema della
libertà e dell’eguaglianza era il grande tema che stava alla radice del pensiero di Rousseau, per il quale
questi due grandi principi si implicano reciprocamente; mentre per T. vivono in un’intima tensione, dove c’è
l’eguaglianza la libertà comincia ad entrare in una zona di rischio, l’eguaglianza è una minaccia alla libertà e
in questo consiste il dispotismo democratico.
America
Compie un viaggio in cui scrive un diario e non solo (vedi sopra). Nel restituire l’immagine dell’America che
ha sotto gli occhi ne costruisce un’immagine molto filosofica, vede oltre le cose che ha sotto gli occhi e
questo è evidente soprattutto nella seconda edizione dell’opera che ha una parte aggiuntiva in cui parla
della società americana, cioè entra in osservazioni da scienziato sociale con inclinazioni filosofiche. E’ un
immagine un po’ sfalsata, letteraria e filosofica ed è questo il rimprovero che gli muoverà un altro grande
studioso europeo degli Stati Uniti che si chiama James Bryce, il quale nel 1888 scrive un gigantesco libro
che si intitola “La repubblica americana” in cui prova a restituire un quadro complessivo della politica e
della società americana del suo tempo ed è proprio lì che muove questa critica, è un grande autore, ma
l’America non è esattamente la cosa che ha visto. In particolare, non lo è su due punti. Che cosa T. non vede
in maniera netta o adeguatamente dell’America che ha sotto gli occhi (?) (Le stelle, le strisce, la democrazia)
Le due cose più importanti che non vede sono, da un lato il carattere plutocratico della società americana,
non vede come quella società si stia già allora polarizzando tra gli estremamente ricchi e gli estremamente
poveri e si sta trasformando in una società in cui il potere del denaro è enorme, molto più di quanto non lo
sia stato in Europa nel corso dell’Ottocento, beninteso anche in Europa il denaro conta e straconta ma qui
conta quello e basta, mentre in Europa conta anche altro, c’è il prestigio di ceto, l’aristocrazia. Insomma,
questa è un società brutalmente plutocratica che sta già prendendo forma “adesso” e questo suo aspetto
non viene colto da T. L’altro elemento che non coglie sono i partiti politici, non vede come la politica
americana stia assumendo un carattere fortemente partitico che ancora non esiste in Europa e gli sfugge
una riflessione sul partito politico, non vede come l’America stia diventando un paese in cui i partiti politici
di massa che irregimentano le folle stiano diventando attori politici decisivi. Non vede queste cose ma ne
vede mille altre che hanno decretato la sua fortuna in vita e, soprattutto, nel Novecento. T. non li vede
mentre altri autori americani che sono in mezzo a questa grande trasformazione li vedono con grande
chiarezza. T. dedica un capitolo della democrazia in America al tema dei partiti in cui da un lato esalta i
“grandi” partiti perché perseguono grandi ideali e dall’altro lato parla dei “piccoli” partiti criticandoli di non
perseguire grandi ideali se non quello di conquistare il potere.
Ricordiamoci che nell’America dell’Ottocento non c’è una burocrazia professionale come in Europa, dove
l’amministrazione dello Stato è selezionata, la classe amministrativa viene selezionata attraverso esami,
concorsi anche ai livelli più bassa (anche per fare il postino). In America c’è il cosiddetto sistema delle
spoglie per cui ogni volta che c’è l’elezione di un Presidente cambia tutta la classe amministrativa fino
all’ultimo postino dal grande funzionario di stato, questo vuol dire che in ogni grande elezione ci sono in
palio centinaia di migliaia di posti di lavoro che poi vengono distribuiti a coloro che appartengono ai partiti,
coloro che si distinguono più per la loro fedeltà al partito che non per le loro competenze.
Un’amministrazione dilettantesca che solo molto lentamente nel corso della seconda metà dell’Ottocento
è stata superata con la progressiva abolizione di questo sistema delle spoglie, poco per volta si arriverà ad
un’amministrazione burocratica sul modello europeo. I “piccoli” partiti sono quei partiti che non hanno
nessun ideale e combattono tra di loro per conquistare posti di potere, direttivi al vertice dello stato ma
anche per i posti nell’amministrazione pubblica. Ecco cosa sono gli squallidi piccoli partiti di T.
Ha veramente capito l’America (?) Secondo Bryce no, ma ha attraverso la sua visione e descrizione
dell’America ha intravisto il profilo delle moderne società di massa, qualcosa che ancora non esiste
nell’America dell’epoca ma che presto diventerà la norma delle società più avanzate, da qui la fortuna che
T. tornerà ad avere nel corso del Novecento.
Democrazia
Siamo al cuore della riflessione teorica.
Che cosa intende con “democrazia” (?) Anzitutto, T. guarda la realtà americana con lenti tipicamente
aristocratiche, è particolarmente predisposto a cogliere i caratteri originari della società americana perché
nella sua formazione mentale ha impresso il modello di società aristocratica di cui egli fa parte, che
continua a caratterizzare le società europee e in particolare la Francia. Guarda alla democrazia americana
con lenti aristocratiche. Tuttavia, intende la democrazia in maniera molto diversa è stata intesa
genericamente dagli autori precedenti, in generale quando parla della democrazia non fa riferimento in
primo luogo ad un assetto politico, ad una forma di governo come di tradizione ma fa un ragionamento
diverso, la democrazia è anche una forma di governo ma è in primo luogo una forma della società, è un
particolare assetto sociale che ha il suo elemento essenziale nell’eguaglianza delle condizioni, la quale non
va intesa in maniera rigida, una società democratica non è rigorosamente egualitaria perché in essa ci sono
i ricchi e i poveri, è una società egualitaria ma relativamente alle condizioni entro cui si può sviluppare la
corsa per la vita, cioè eguaglianza delle condizioni è l’eguaglianza delle opportunità. L’idea è che in una
società pienamente democratica ogni individuo anche se parte da punti di partenza sociali differenti, cioè
anche se alcuni sono avvantaggiati e altri no, tutti hanno l’opportunità di realizzarsi come ritengono nella
corsa della o per la vita, questo non accade nelle società aristocratiche, nelle società di antico regime che
sono rigorosamente divise in ceti, gruppi sociali sostanzialmente chiusi, quasi caste potremmo dire, da cui
non si può scappare, nelle società aristocratiche gli individui hanno un valore che si basa sulla loro
appartenenza ad un ceto, si è prigionieri del proprio ceto; nelle società demcoratiche non ci sono ceti, sono
caratterizzate da una strepitosa mobilità sociale, si ascende e si discende nella scala sociale a seconda delle
proprie capacità. L’eguaglianza delle condizioni non è eguaglianza materiale ma eguaglianza delle
opportunità. Le società aristocratiche sono immobili, le società democratiche sono mobili.
Quindi, la democrazia è in primo luogo un assetto sociale, una forma della società che è caratterizzato
dall’eguaglianza delle condizioni, ovvero dall’eguaglianza delle opportunità.
Il secondo passaggio nella riflessione di T. è il seguente. Ritiene che tutte le società tendano alla
democrazia, ossia verso questo assetto sociale. La democrazia è il destino di tutte le società umane, non si
scappa. L’unica avvertenza che sottolinea è che il processo della rivoluzione democratica è un processo di
cui bisogna essere consapevoli e che va governato nel migliore dei modi, altrimenti procede in maniera
disordinata e dunque pericolosa, ma l’avvento di questo particolare assetto sociale è un fatto inevitabile.
Nelle società europee è stato il clero il primo ceto capace di rendere possibile la scalata sociale, è stato fin
dalle origini un gigantesco ascensore sociale perché permette anche a persone di umili origini di ascendere
ai gradini più altri della carriera ecclesiastica e per quella strada comincia a prendere forma la democrazia.
Il terzo passaggio è che questa inevitabile rivoluzione democratica mette potenzialmente a rischio la libertà
degli uomini, infatti la democrazia è compatibile tanto con un regime liberale, in cui la libertà è garantita
quanto con un regime dispotico, anche sotto un despota tutti gli uomini possono essere eguali. Scrive
apertamente che la democrazia è un destino e si tratta di vedere se riusciremo ad avere una libertà
democratica oppure se avremo una tirannide o un dispotismo democratico.
La democrazia è un destino, la libertà è un problema.
Questo ci porta a sottolineare una differenza fondamentale rispetto all’impianto argomentativo di
Rousseau, il quale riteneva che libertà ed eguaglianza fossero due assetti che si implicano vicendevolmente,
per T. eguaglianza e libertà vivono in una intima e pericolosa tensione reciproca.
Date queste tre assunzioni, ossia la democrazia è un assetto sociale (1); la democrazia è il destino di tutte le
società (2); la democrazia man mano che avanza mette a rischio la libertà degli uomini (3) si capisce perché
l’America diventa importante in questa discussione. E’ importante per due ragioni. La prima, ha già
realizzato totalmente la rivoluzione democratica, è un paese compiutamente democratico e dunque
costituisce una specie di laboratorio sperimentale che ci può far capire il funzionamento di un regime
sociale e politico pienamente democratico. In questo senso l’America costituisce non il passato dell’Europa,
ma è il contrario. La seconda, ha sviluppato fortissimi anticorpi contro la prospettiva della tirannide
democratica, cioè è un paese in cui lo sviluppo estremo dell’eguaglianza delle condizioni si è mostrato
compatibile con la libertà, è un esperimento riuscito di coniugazione di eguaglianza e libertà, è stata in
grado di neutralizzare le spinte verso il dispotismo democratico che sono insite nel processo stesso della
rivoluzione democratica. Quindi, l’America rappresenta un duplice laboratorio sperimentale, ci fa vedere la
democrazia pienamente dispiegata anche con i suoi rischi dispotici e ci fa vedere come questi rischi
dispotici possano essere neutralizzati perché in America c’è la libertà democratica e non il dispotismo.
Perché l’America si trova in questa condizione (?) C’è un bellissimo capitolo con cui si apre il testo di T. che
si intitola “Il punto di partenza degli americani” che spiega le condizioni che hanno permesso all’America
questo sviluppo della democrazia nella sua forma compiuta. L’America era all’origine del processo coloniale
la culla ancora vuota di una grande nazione. Perché in questa storia molto veloce le colonie americane che
poi diventano Stati Uniti d’America sviluppano questo peculiare assetto che porta alla democrazia (?)
Intanto, T. mette il dito in uno degli elementi più significativi dell’autorappresentazione che gli americani
fanno di se stessi, cioè insiste molto sull’eccezionalismo della storia americana. Quella americana è una
storia che ha dei tratti eccezionali, peculiari e T. insiste molto su questo che per gli americani è essenziale,
tutt’ora credono di essere più bravi degli altri, hanno una concezione universalizzante della propria vicenda
storica, ritengono di essere il punto di arrivo dello sviluppo di tutti gli altri popoli. Per una serie di caratteri
storici particolari che possono essere ricondotti in qualche modo a quattro elementi. Il primo, riguarda lo
stesso processo di colonizzazione dei futuri Stati Uniti. Qui T. osserva quanto sia stato diverso il destino di
questa parte delle colonie americane rispetto alle altre colonie americane dell’America Centrale e dell’Sud
America, territori che sono stati conquistati in primo luogo da spagnoli e portoghesi. La colonizzazione
dell’America Latina (America Centrale e America del Sud) è avvenuta come una gigantesca opera di
conquista e poi di sfruttamento dei territori coloniali, c’è la grande epopea dei conquistadores cattivissimi
guerrieri di professione che vengono mandati a conquistare questi territori e ci vanno soli uomini, militari di
professione. Nel giro di pochi anni si consuma un vero e proprio genocidio delle popolazioni meso e latino-
americane. Negli Stati Uniti succede una cosa completamente diversa, coloro che vanno a colonizzare
l’America del Nord sono dei dissidenti religiosi puritani perseguitati in patria che nella prima metà del
Seicento scappano recandosi in questa terra altamente inospitale per ricostruire la propria vita e per
ricostruire una comunità ispirata a precetti religiosi, per costruire una società migliore di quella da cui sono
scappati. Qui non partono guerrieri ma famiglie intere che cercano una nuova fortuna in questi territori
assolutamente inospitali. Ci sono i padri pellegrini che arrivano sulle coste orientali degli Stati Uniti nel
1835 e da lì cominciano a colonizzare il territorio, a coltivare la terra, a costruire villaggi e poco per volta
costruiscono una società dal basso, nuova società che ha già in questo dei caratteri peculiari rispetto a
quello che accade nel resto del continente americano.
Secondo, questi coloni che si insediano negli Stati Uniti appartengono tutti ad una classe media che dà
luogo ad una società omogenea, quindi fin dal principio impregnata di quella eguaglianza delle condizioni
che poi sarà tipica dell’ulteriore sviluppo della società americana.
Terzo, questi coloni portano con sé nella costruzione della loro convivenza civile il modello del self-
government inglese, ossia una forma di governo dal basso che si è sviluppata soprattutto nelle campagne
inglesi.
Quarto, questi coloni appartengono alle sette di tipo puritano, cioè hanno una religiosità che è ispirata al
calvinismo e, come Weber mostrerà in maniera più ampia, il puritanesimo è una forma di religiosità che
spinge ed è particolarmente compatibile con lo spirito di intrapresa economica, il capitalismo e con lo
spirito democratico. T. scrive in maniera impressionistica che il puritanesimo ha esercitato un ruolo nello
sviluppo della mentalità americana sia per quanto riguarda il capitalismo che per quanto riguarda la
democrazia. Weber scrive “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” (1904-05) in cui fa vedere come
l’etica che si sviluppa sul terreno del protestantesimo ha moltissime analogie con lo spirito del capitalismo
e questo spiega a suo giudizio perché i paesi protestanti del nord dell’Europa si sono sviluppati di più.
Inoltre, in altri libri che scrive, Weber mostra come anche la democrazia abbia le sue origini nelle sette
protestanti e questo si vede già nel modo in cui i protestanti celebrano la messa in un luogo pubblico senza
la distinzione tra i sacerdoti e i laici, c’è una stretta analogia tra democrazia e puritanesimo. Quindi, Il
puritaneismo ha fatto sì che fin dall’inizio questo paese fosse proiettato in maniera molto robusta verso la
costruzione di una società democratica. Dopodiché, la rivoluzione americana che si fa in nome del popolo
contro l’oppressione straniera ha cementato questo quadro. Ecco perché l’America è una democrazia
pienamente realizzata.
Ora, aldilà del punto di partenza questa democrazia pienamente dispiegata mostra in maniera evidente
secondo T. tende a portare alla tirannide della maggioranza o al dispotismo democratico. L’America ci fa
vedere in che cosa consiste la tirannide della maggioranza e in che cosa possono consistere i rimedi a
questa tirannide.
La tirannide della maggioranza
Conviene distinguere due diversi piani di analisi: il piano più propriamente politico dell’assetto democratico
dal piano più propriamente sociale di esso. E’ su ciascuno di essi che gli americani hanno immaginato e
fatto funzionare dei rimedi. Sul piano politico, la tirannide della maggioranza si manifesta in due modi
diversi. La prima manifestazione della tirannide della maggioranza sul piano politico è quella che individua
questa tirannide nella pressione sempre più forte e intensa che gli elettori esercitano sugli eletti, che la
maggioranza degli elettori esercita sulla minoranza degli eletti. Che cosa vuol dire (?) Gli eletti una volta
eletti sono completamente indipendenti dal mandato degli elettori, lo abbiamo visto con Rousseau che
rigettava questo sistema, diventano rappresentanti della nazione e agiscono secondo la propria coscienza
senza farsi condizionare da coloro che lo hanno eletto poi se non piace gli elettori alle elezioni potranno
non votarlo più. T. fa vedere che laddove il governo rappresentativo assume dei tratti democratici perché il
parlamento viene eletto con un ampio suffragio, gli elettori cominciano ad esercitare indirettamente o
informalmente una pressione fortissima sugli eletti e quella libertà di mandato poco per volta nelle
democrazie rappresentative tende ad indebolirsi, gli eletti si trovano sempre più in balia dei propri elettori,
è come se il principio della democrazia diretta andasse ad alterare la dinamica classica del governo
rappresentativo, la sovranità popolare diventa sempre più lo spirito complessivo di tutto il sistema.
Tuttavia, non è questo il punto dirimente perché questa tirannide della maggioranza sul piano politico si
manifesta soprattutto in un altro modo, nel fatto che chi ottiene la maggioranza attraverso un’elezione
popolare tende poi ad esercitare il proprio potere in maniera sempre più intensa, mettendo a rischio
l’esistenza stessa delle minoranze, chi vince un’elezione e le vince a maggioranza (di solito non
all’unanimità) si comporta come se detenesse un potere assoluto che può mettere a rischio l’esistenza
stessa delle minoranze, può introdurre leggi o misura a questo scopo. Questo è sul piano politico il
principale rischio che si manifesta in una democrazia. Chi vince decide, bisogna però porre dei limiti a
questo potere della maggioranza, che deve governare ma non può fare in modo che una minoranza non
abbia domani la possibilità di diventare una maggioranza, questo è un difetto insito nella democrazia che
può procurare seri problemi. L’originalità di T. non sta tanto qui, perché questa riflessione la troviamo
anche in altri autori, ma sta in quanto dice ragionando della tirannide della maggioranza sul piano sociale.
Qui usa prevalentemente l’espressione “dispotismo democratico”. In che cosa consiste (?) In una miscela
esplosiva di conformismo, mediocrità e individualismo che può sfociare nell’egoismo dei singoli individui. Il
conformismo è la cosa principale, le società democratiche sono caratterizzate da un profondo
conformismo, sono società in cui gli individui vogliono fare quasi tutti le stesse cose, la spinta
fondamentale di una moderna società democratica è quella di stringere un cerchio intorno al pensiero delle
persone, tutti vogliamo fare le stesse cose, indossare le stesse cose, leggiamo gli stessi libri, vediamo gli
stessi film e chi tenta di sottrarsi a questa morsa conformistica, chi tenta di distinguersi viene emarginato,
non viene più tenuto in nessun conto dalle persone e questo rappresenta un modo di esercitare potere
sulle minoranze da parte delle maggioranze. Il conformismo è il contrario della spinta a distinguersi che
caratterizza le società aristocratiche, che sono caratterizzate da una spinta continua a distinguersi (Es.
castello-vicino). In più questa spinta al conformismo non muove gli uomini verso un più elevato standard di
vita, ma è una spinta verso la mediocrità, le moderne società democratiche sono mediocri, in cui gli
individui perseguono piccoli e mediocri piaceri, ricercano benessere nei beni materiali ed è su questo che si
esercita la spinta conformistica, sono società che abbassano il livello della maturità del consenso sociale. In
più, sono società in cui si dissolve quasi il legame sociale, cioè c’è una spinta all’individualismo, a chiudere
la propria esistenza dentro alla propria famiglia e una ristretta cerchia di amici lasciando fuori il resto della
società. Sono società profondamente individualistiche e conformistiche, tutti facciamo le stesse cose ma le
facciamo perdendo quasi il contatto sociale con le altre persone. Sono società in cui tende a dissolversi lo
spirito di comunità, per cui gli individui si sentono affratellati da una solidarietà di fondo che rende la
comunità una specie di grande famiglia e ad affermarsi lo spirito di società, spirito per cui gli individui sono
competitivi per appropriarsi di beni materiali che li mettono l’uno contro l’altro. La società democratica
tende ad essere una società di individui egoisti che pure fanno tutti quanti le stesse cose.
Ci sono alcuni studiosi (Gelner) del nazionalismo che spiegano l’insorgere del nazionalismo nel corso del
Ottocento proprio con lo sviluppo dell’industrialismo moderno. Nelle società industriali orientate alla
crescita i legami sociali si spezzano, legami che tenevano uniti gli uomini nei villaggi rurali dell’epoca pre
moderna, c’è l’urbanesimo che rinchiude in famiglie mononucleari tutte le persone e tra le persone viene
meno qualsiasi solidarietà ed è proprio in queste società in cui è a rischio il legame sociale, disgregate,
atomizzate che si sente il bisogno del nazionalismo, che è un tentativo artificiale di ricostituire un senso di
comunità, la comunità nazionale, che faccia sentire affratellate le persone in un’epoca in cui la solidarietà
tra le persone viene meno. Il nazionalismo sarebbe il surrogato di uno spirito di comunità che è andato
perduto con l’avvento dell’industrialismo moderno e T. si sta muovendo su questo terreno, sta dicendo di
fare attenzione perché nelle società democratiche il legame sociale è a rischio, tendono a spezzare i
rapporti tra gli individui e per questo uno dei principali rimedi sta nell’associazionismo, cioè nella spinta
delle persone ad associarsi tra di loro. Nelle “Origini del totalitarismo” di Arendt si trova che tra i principali
motivi che spiegano l’avvento di questa forma totalitaria di dittatura c’è proprio l’idea della società
completamente atomizzata, esprime questo concetto parlando di società senza classi, ma non nel senso di
Marx, è una società in cui non c’è più alcuna solidarietà tra gli individui. E’ un po’ come quello che succede
oggi, si spappolano i gruppi sociali e ognuno corre per sé. Questa idea della contrapposizione tra comunità
solidale e società è resa anche da un romanzo di Apton Sinclair, che è un socialista americano che all’inizio
del Novecento ha scritto “La giungla”, fece scalpore perché il presidente Theodor Roosvelt dopo averlo
letto si convinse ad intervenire su alcune cose importanti della politica industriale americana dell’epoca.
Sullo sfondo della cultura dell’epoca c’è l’idea che la democrazia e il capitalismo distruggano i legami sociali,
ci rendano atomi, soli in una società ostile di individui competitivi e questo tema lo troviamo già in T.
La sua idea è che una società di questo tipo è particolarmente disponibile ad esser governata in modo
dispotico, parla di un immenso potere tutelare che poco per volta si impadronisce delle vite delle persone e
limitandosi a dare ad esse un minimo di benessere e qualche piccolo piacere materiale le tiene in uno stato
di continua minorità. Il potere dispotico delle società democratiche è una specie di potere paterno ma non
temporaneo, il potere tutelare, che è il rischio delle società democratiche, non perde mai la presa e che
vuole tenere perennemente i cittadini in una condizione di minorità. Usa anche una metafora, paragona gli
individui delle società democratiche ad un gregge di pecore che si lascia dirigere da un pastore. Questo è il
dispotismo sul piano sociale che T. intravede nel futuro delle società democratiche. C’è un passo molto
famoso in cui scrive “Se devo immaginare come sarà il dispotismo delle società democratiche del futuro,
vedo una folla innumerevole di uomini che ruotano incessantemente su se stessi alla ricerca di qualche
piccolo e banale piacere materiale”. Su un terreno di questo genere è facile che si instauri un tipo di
dispotismo nuovo, mite che però non è certo meno duro del dispotismo tradizionale. Su questo tema c’è
un libro “La democrazia dispotica” che vedeva in alcuni termini del berlusconismo una forma
contemporanea del dispotismo di cui aveva parlato T.
Rimedi : Quali rimedi si possono porre a questi rischi politici e sociali (?) Sul piano politico i rimedi sono
abbastanza classici, sono essenzialmente tre: l’esistenza di una costituzione rigida e sovraordinata alla
normale legislazione prodotta nei parlamenti e che fissi delle regole che nessuna maggioranza può violare;
il federalismo e la separazione dei poteri, attraverso cui gli americani hanno disperso territorialmente e
funzionalmente i poteri in modo tale che da nessuna parte si formi una maggioranza che può prendere
tutto. C’è tutto un sistema di separazione dei poteri che insieme ad una costituzione rigida impedisce sul
piano politico che una maggioranza possa fare tutto ciò che vuole. Sul piano sociale, gli americani hanno
trovato altri rimedi attraverso dispositivi, i più importanti sono l’associazionismo, la libertà di stampa e le
giurie popolari. L’associazionismo è il più importante nella misura in cui contrasta direttamente quella
spinta all’atomismo sociale che lascia l’individuo da solo di fronte al potere, se gli individui sono soli sono
assolutamente impotenti e quindi non possono resistere alla pressione del potere e della maggioranza
sociale, se invece si associano e gli americani lo fanno per ogni cosa, sette religiose, partiti politici, tagliatori
di alberi, questa spinta è un contrappeso molto forte al dispotismo democratico. T. arriva a dire che nelle
società democratiche le associazioni esercitano lo stesso ruolo di freno del potere politico e sociale che i
corpi intermedi esercitavano nelle società aristocratiche. Dopodichè, anche per spezzare la cappa del
conformismo è importante la libertà di stampa, più sono i giornali, le voci, più i cittadini hanno disposizione
modi diversi di vedere le cose, la libertà di stampa è un grande presidio del pluralismo sociale e politico, è
un presidio contro il conformismo, contro il pensiero unico che è uno dei grandi rischi della società
democratica. Ancora, le giurie popolari che vengono estratte a sorte tra i cittadini sono una scuola di
crescita culturale e politica perché dentro la società americana, composta di uomini medi il giudice
rappresenta una aristocrazia dello spirito, le giurie popolari costituiscono da questo punto di vista una
scuola importante di educazione civica, abituano i cittadini a pensare in maniera meno mediocre, a
confrontarsi con la complessità della vita delle persone, della vita complessiva della società, rappresentano
una vera propria scuola entro cui i cittadini possano maturare a contatto col corpo dei giuristi.
Tutti questi rimedi funzionano in America, in cui eguaglianza e libertà si sono conciliate, ma non è affatto
detto che la stessa cosa possa accadere anche in Europa, anzi, soprattutto nella 2a edizione, esprime il suo
pessimismo rispetto all’idea che democrazia e libertà possano conciliarsi nel vecchio mondo e una delle
ragioni principali del suo pessimismo è che in Europa, in particolare in Francia, esiste una tradizione di
centralismo amministrativo e politico, una spinta all’accentramento dei poteri che rischia di produrre la
tirannide democratica. T. non si sogna di esportare il modello americano in Europa in quanto è consapevole
da lettore di Montesquieu che storia, tradizioni, culture differenti producano istituzioni differenti. Ritiene
che non tracopiato o duplicato, la lezione che l’America fornisce in materia di rimedi alla tirannide della
maggioranza possa dare dei suggerimenti da rimodellare nel contesto del vecchio mondo.

Tra l’altro è proprio su questo tema del centralismo amministrativo, veicolo di dispotismo a suo giudizio,
che costruisce la sua ultima opera, è significativo che quello è il rischio individuato nella democrazia in
America per lo sviluppo della democrazia in Europa ed è quello l’interesse su cui in ultima istanza si
concentra. T. rappresenta il punto in cui si compie un passaggio importante nella teoria politica
ottocentesca e novecentesca. Fa vedere che il dispotismo nelle società democratiche non derivi dal rischio
del potere di uno solo, ma stia diventando il rischio sottostante che non si spegne mai sotto il fuoco delle
società democratiche, le accompagna e minaccia costantemente, non è più il dispotismo di uno o di pochi
sui molti ma al contrario è il dispotismo dei molti sui pochi.
L’idea di T. è che l’uomo democratico non aspira all’indipendenza ma è pronto a piegarsi a chiunque gli
prometta quel minimo di benessere e tranquillità che rendono la sua squallida vita una vita di piccoli
piaceri e di isolamento a cui aspira. Le società democratiche sono fatte da persone di questo tipo ed è facile
che in forme diverse queste persone vengano conquistate da despoti, il despota può essere anche una
persona, è da tenere presente a questo proposito che nell’ultima parte della sua vita T. sperimenta il
bonapartismo, quindi l’uomo che col suo autoritarismo garantisce una certa tranquillità alle plebi, ma
questo potere dispotico si può anche manifestare in una società regolata in ogni suo minimo dettaglio dal
potere tutelare, una burocrazia che tutela i cittadini ma li tiene in uno stato di immaturità, cioè le società
democratiche si tirano dietro un padre che non vuole mai che i suoi figli crescano a fin di bene.

John Stuart Mill


1806-1873
Assomiglia molto per l’impostazione del suo pensiero a Tocqueville. Scrive due lunghissime recensioni de
“La democrazia in America” in cui dice le stesse cose che dice Tocqueville. Vive nel pieno dell’Ottocento e a
differenza sia di T. che di C. è molto attento alla questione sociale che in Inghilterra matura prima che
altrove. Non è soltanto un filosofo politico, ma è un filosofo a tutto tondo, uno dei più grandi
dell’Ottocento. Scrive un sacco di cose. Per quanto riguarda le sue opere politiche ne citiamo tre: la prima,
un piccolo saggio “On liberty” (1859) che è uno dei più noti manifesti del pensiero liberale in cui M. esalta
il pluralismo, la libertà d’opinione ed è un piccolo libretto che riassume in modo pieno e rapido i grandi
capisaldi del pensiero liberale, in particolar modo quest’idea del pluralismo, le società sono plurali e le
istituzioni hanno il compito di rispettare questo pluralismo senza farlo erompere in conflitto aperto; la
seconda, “Considerazioni sul governo rappresentativo” (1861); la terza, “Sull’asservimento delle donne”
(1869) la cui tesi è che non si può dire che una società è libera se una metà di essa, cioè le donne, sono
asservite sia nella sfera della vita pubblica che in quella della vita privata.
Temi
I tre temi che stanno al cuore di queste opere sono l’elogio della libertà e della varietà contro la mediocrità
e il conformismo; l’emancipazione politica e sociale delle donne; il problema del diritto di voto:
proporzionale e voto plurimo per la tutela delle minoranze.
Sul tema del diritto di voto che cosa dice (?) Sostiene che ogni uomo e anche ogni donna ha in teoria diritto
a partecipare alla formazione della volontà politica complessiva del proprio paese, cioè teorizza l’idea del
suffragio universale, dopodichè comincia a mettere alcuni paletti e a specificare che se questo diritto è
potenzialmente di tutti, di fatto dev’essere subordinato al possesso di certi requisiti e tra questi ritorna il
tema delle capacità, bisogna che il diritto di voto sia concesso laddove chi poi ne farà uso abbia
effettivamente quelle capacità minime che gli permettano di utilizzarlo consapevolmente. Dev’essere dato
a tutti ma non in maniera indiscriminata. Viene di solito definita questa peculiare teoria del suffragio
universale come suffragio universale potenziale. Per capire quello che dice richiamiamo la legge Zanardelli
del 1882, la quale stabiliva che poteva accedere al voto in parti chi avesse dei requisiti censitari particolari,
ossia pagasse certe tasse e dall’altra parte chi avesse frequentato la scuola elementare obbligatoria istituita
nel 1877 con la legge Coppino. Anche chi è povero, chi non paga le tasse se ha un limite minimo di
istruzione garantita dalla scuola elementare obbligatoria, può accedere al voto.
Questa è la logica del ragionamento di Mill, è importante il nesso che Mill stabilisce tra diritto di voto e
educazione. Al tempo stesso, mentre teorizza il suffragio universale potenziale, è ossessionato dall’idea, la
stessa di Tocqueville, che la mediocrità montante delle società democratiche, che sempre più avranno
accesso col voto alla direzione politica della società, faccia sparire dall’orizzonte i ceti più elevati
intellettualmente, quelle minoranze più eccelenti che la democrazia che tende a spazzar via nella misura in
cui fa prevalere la forza del numero, le masse che sono per definizione mediocri. Quindi per garantire la
rappresentanza delle minoranze si immagina due dispositivi che introduce nella sua riflessione sul diritto di
voto. Il primo è il sistema proporzionale, sistema che permette alle minoranze di entrare in parlamento e
quindi il più adeguato alla difesa e alla rappresentazione delle minoranze. L’altro dispositivo è quello del
voto plurimo, cioè per garantire che i ceti intellettuali abbiano un adeguato peso si immagina questo
meccanismo che consiste nell’attribuire a questi ceti eminenti, coloro che hanno dei meriti particolari, il
voto plurimo, cioè mentre il poveraccio mette una sola scheda nell’urna, l’eminente ne mette quindici, cioè
ha più peso e questo per permettere di controbilanciare quella spinta alla mediocrità propria delle società
democratiche. Questo ci fa vedere di nuovo questo terrore per la mediocrità della democrazia che per Mill
va contrastata anche sul piano della legislazione elettorale affinché questa mediocrità non si traduca anche
in rappresentanza politica.

Da ricordare di Mill : Suffragio universale potenziale, sistema elettorale proporzionale e voto plurimo.
Marx
1818-1883
Marx è un personaggio estremamente complesso. Il primo elemento di complessità è dato dalla difficile
collocazione disciplinare di questo autore che in parte è stato un grande filosofo, in parte è da considerarsi
come un economista, in parte ancora come uno scienziato sociale ed è stato anche un valente storico in
quanto ha scritto due libri in particolare che sono dei piccoli capolavori storiografici “Le lotte di classe in
Francia” e “Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte” che raccontano quello che è successo in Francia tra la
rivoluzione del 1848 e l’avvento al potere di Luigi Napoleone. Filosofo lo è soprattutto il giovane Marx, che
va dai primi scritti fino al Manifesto ed è legato alla filosofia classica tedesca, ad Hegel con cui ha un
confronto serrato, Marx appartiene alla sinistra hegeliana. Dagli anni Cinquanta in avanti dopo il ’48 in
Europa Marx si trasferisce in Inghilterra e si mette a studiare nella terra del capitalismo più avanzato i
meccanismi dell’economia capitalistica e da lì in avanti il suo impianto è quello di uno scienziato economico
e sociale. E’ difficile talora mettere insieme questi diversi approcci all’osservazione della società che Marx
mette in campo.
Secondo elemento di complessità è la strepitosa potenza teorica, la capacità di scrittura, scrive migliaia di
pagine con estrema facilità e cambia spesso idea su quello che ha scritto. Uno dei testi di riferimento
“L’ideologia tedesca” lo elabora in pochi mesi ma arrivato alla fine non è convinto e abbandona quel testo
“alla critica roditrice dei topi”, lo mette da parte e poi lo abbiamo riscoperto a fine Ottocento e su quello
abbiamo costruito un Marx in cui lo stesso Marx non si riconosceva più. Questa enorme capacità di scrittura
è una sfida perché ci troviamo di fronte ad un autore che cambia idea di continuo, che scrive moltissimo,
infatti l’opera completa di Marx ed Engels è una roba in centinaia di volumi perché oltre ai libri c’è l’attività
giornalistica, l’attività politica e poi un numero impressionante di lettere.
Quindi, è un autore difficile da collocare sul piano delle discipline e un autore che scrive ininterrottamente
un’opera che complessivamente non è quasi più controllabile dall’essere umano in cui Marx dice e si
contraddice spesso.
Inoltre, sa coniugare ma spesso dissociare categorie teoriche molto forti, ha un’attenzione per le situazioni
contingenti molto attenta e molto acuta, per cui ci troviamo di fronte a testi che contraddicono altri testi.
In più, a differenza di molti autori incontrati, dedica una parte significativa della sua vita ad un’attività
militante dapprima presso la Lega dei comunisti per la quale scriverà il Manifesto, poi soprattutto per tutti
gli anni Sessanta per la Prima Internazionale, di cui sarà uno dei fondatori, uno dei protagonisti e in guerra
costante da un lato con gli anarchici di Bakunin e dall’altro con i democratici di stampo mazziniano. Questo
elemento dell’attività militante introduce un’ulteriore variante nella lettura di Marx che spesso scrive dei
testi che hanno più che una valenza teorica, una valenza programmatico-politica. Insomma, Marx mette in
campo tanti approcci che rendono la sua opera un’immensa prateria a cui si può attingere in modi molto
diversi.
Ancora un elemento, a differenza di tutti gli autori incontrati Marx e la sua opera hanno avuto un’efficacia
storica pazzesca su grandi correnti e movimenti politici e sociali che hanno segnato la storia dell’Ottocento
e del Novecento. L’opera di Marx non è rimasta nel chiuso delle biblioteche, non ha sollecitato studi, analisi
ma è diventata una forza storica molto possente che ha influenzato in qualche modo la storia di alcuni dei
più potenti e significativi, sul piano storico, movimenti politici e sociali contemporanei, la storia del
socialismo e del comunismo che è in ampia parte la storia del marxismo su cui esiste una letteratura
davvero spaventosa. Abbiamo di fronte a noi uno dei grandi profeti sociali dell’età contemporanea perché i
suoi lavori, le sue idee diventano influentissime, così come Mazzini ha esercitato un ruolo molto simile sul
piano dell’idea nazionale, dei nazionalismi. Sull’opera di Marx si sono sviluppati i marxismi. In una celebre
lettera Marx diceva di non essere marxista, cioè non si riconosceva in quelle sette che volevano appropriarsi
della sua opera.
Possiamo dire che sul corpo della sua opera si sono sviluppati almeno due marxismi molto differenti, due
varianti del marxismo straordinariamente influenti nella storia del marxismo dopo Marx.
Il primo marxismo che sorge legittimamente sul terreno dell’opera marxiana è il marxismo che ha
alimentato teoricamente la lunga esperienza della socialdemocrazia. Dopo la morte di Marx una parte del
movimento operaio che si sta organizzando soprattutto nella SPD tedesca si appropria dell’opera marxiana
torcendola nella direzione del riformismo, dando inizio alla tradizione socialdemocratica che entra in crisi
nel 1914 ma che poi continuerà nel socialismo e nel comunismo democratico di tutto il Novecento. Le
figure importanti di questa lettura sono due autori, personaggi cruciali della SPD che si chiamano Kautsky e
Bernestein. Kautsky è l’autore di riferimento della Seconda Internazionale, Bernstein è il riformista per
eccellenza, è il grande teorico del gradualismo riformistico della socialdemocrazia che continuerà ad essere
letto negli anni successivi. Bernstein scrive un testo teorico molto importante che esce nel 1899 intitolato “I
presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia” in cui critica frontalmente alcune conclusioni
della teoria di Marx, in particolare l’idea che il capitalismo sia destinato ad un crollo imminente e
costruisce teoricamente l’orizzonte di un socialismo profondamente intrecciato con lo sviluppo da un lato
della democrazia e dall’altro dello stesso capitalismo. Il capitalismo non crolla e per questo il compito dei
partiti socialisti dev’essere quello di riformarlo dall’interno.
Il secondo marxismo che si sviluppa sempre sul tronco della teoria marxiana che però non esiste nel senso
che è aperta, piena di aporie e di contraddizioni, è quello ha interpretato a partire dall’inizio del Novecento
Lenin che da Marx ha preso soprattutto l’ideale rivoluzionario, l’idea che l’involucro del capitalismo debba
essere spezzato, che si debba far saltare per aria la società capitalistica ed è all’origine dello sviluppo del
comunismo che si affermerà su scala planetaria dopo la rivoluzione bolscevica del 1917 che porterà alla
nascita dell’URSS e di un socialismo che si sviluppa in un solo paese che sarà al centro di tutta la storia del
Novecento inteso come secolo breve, cioè quella storia che inizia tra il 1914 e il 1917 e termina tra il 1989 e
il 1991 con la crisi e poi con la caduta di tutti i comunismi. Questa esperienza del comunismo ha dominato
la storia del Novecento e anche attraverso di essa la figura di Marx ha continuato ad esercitare una
profonda influenza.
Quindi, un’opera già complessa come quella di Marx è stata resa ancora più complicata e difficile da
leggere proprio perché tradizioni politiche potenti e molto diverse tra loro, i marxismi, se ne sono di volta in
volta appropriate.
Ora, possiamo osservare che Marx è diventato in qualche misura inattuale alla fine dell’Ottocento e qui
Bernstein ha giocato un ruolo importante nella misura in cui ha fatto vedere come il capitalismo che Marx
si immaginava come un sistema che alla fine del suo sviluppo polarizza le società e che sarebbe crollato,
alla fine dell’Ottocento quel Marx catastrofista diventa inattuale, tutto mostra che le sue previsioni
catastrofiche non erano destinate ad avverarsi. Poi la rivoluzione comunista c’è stata ma in Russia nel
paese più arretrato del mondo cosa che per Marx era pressoché impensabile, lui pensava che la rivoluzione
dovesse aver luogo nei paesi capitalisticamente più avanzati, quindi il successo di quella rivoluzione non
incide sull’attualità del pensiero di Marx. Perde il suo mordente e però il pensiero marxiano sta conoscendo
in questi ultimi anni una rinnovata fortuna, in particolar modo dopo gli effetti catastrofici che le società
contemporanee hanno sperimentato all’indomani della crisi economica finanziaria e poi sociale del 2008
perché quella crisi ha fatto tornare attuale quell’immagine di una società sempre più polarizzata e si può
registrare in questi ultimi anni, anni della globalizzazione che Marx aveva intravisto perfettamente, un
ritorno di attualità che sta producendo tanti nuovi utilizzi e tanti nuovi studi sul pensiero di Marx.
Rimane il fatto che Marx rappresenta un punto di riferimento ineludibile della storia del pensiero politico e
sociale contemporaneo. E’ un pilastro della storia del pensiero politico economico e sociale
contemporaneo.
Noi faremo riferimento al Manifesto del partito comunista, il quale è uno scritto chiaramente
programmatico, che ha un chiaro intento politico, ma che tuttavia mette in linea quelli che possiamo
considerare i grandi temi della sua opera. E’ un testo breve ma molto denso. Il Manifesto è un’opera di
transizione, che Marx scrive in due mesi nel 1848, tuttavia ci permette di toccare i grandi temi che hanno
segnato l’opera di Marx nel suo complesso. Faremo una doppia operazione. Innanzitutto andremo a vedere
le principali fonti del pensiero di Marx che sono la filosofia hegeliana, l’economia classica e il socialismo
utopistico. Poi indicheremo alcuni dei grandi temi intorno ai quali si sviluppa il pensiero di Marx e intorno ai
quali si è sviluppata la tradizione del marxismo, che in qualche modo riproducono in maniera scheletrica lo
schema del Manifesto.
Fonti
Il primo grande punto di riferimento soprattutto del giovane Marx è la filosofia classica tedesca e in
particolare la filosofia hegeliana. Marx negli anni giovanili è fortemente legato ad Hegel, infatti i suoi primi
scritti si sviluppano attraverso una lettura, rilettura, critica e rovesciamento della filosofia hegeliana.
Possiamo dire che Marx riprende da Hegel l’idea del movimento dialettico della storia, cioè Marx come
Hegel ritiene che la storia si sviluppi non in maniera lineare per evoluzione continua, ma che si sviluppi
attraverso una riproposizione di opposizioni che dimostrano il carattere essenzialmente conflittuale della
storia stessa. La storia è per Marx, come per Hegel, urto di opposti, tesi e antitesi, che vengono superati in
nuove sintesi che diventano poi il punto di partenza di un’opposizione successiva. La storia è mossa dal
conflitto, un po’ coma la pensava Eraclito, il divenire è sempre frutto di un urto tra opposti che si scontrano
tra di loro e poi si superano tramite una sintesi. La storia è un divenire di sintesi che sorgono da opposizioni
senza fine, in realtà per Marx la fine della storia è l’avvento della società senza classi. Ora, posto che come
per Hegel la storia è movimento dialettico, è urto di opposti, è conflitto, Marx rovescia la teoria hegeliana
nel punto fondamentale. Mentre per Hegel questo movimento dialettico si sviluppa in una concezione che
è essenzialmente idealistica della storia, per Marx si sviluppa in una concezione materialistica della storia.
In sostanza ci dice che la storia è mossa dalle condizioni materiali entro le quali si svolge l’esistenza umana,
non è l’idea, la ragione o lo spirito che muove la storia ma sono le condizioni materiali di esistenza che
producono il movimento storico e per condizioni materiali di esistenza Marx intende le condizioni sociali ed
economiche. La storia è mossa sostanzialmente dai particolari rapporti che si instaurano tra gli uomini
dentro la società e dall’urto che questi rapporti producono, da qui la concezione materialistica della storia.
NB Gli studiosi hanno osservato che Marx usa sempre l’espressione “concezione materialistica della storia”
e non usa mai “materialismo storico”, cioè nel pensiero Marx ci sarebbe un elemento costruttivistico, cioè
Marx non dice davvero e fino in fondo che la storia è mossa esclusivamente dal conflitto sociale che si
instaura tra gli uomini, tra i gruppi, tra le classi, ma ci dice che quello è il punto di osservazione più
importante per comprendere lo sviluppo storico.
Riassumendo, Marx come Hegel ha una concezione conflittualistica della storia ma ritiene che la storia si
sviluppi sulla base dei rapporti materiali, cioè sociali ed economici, che si instaurano tra gli uomini, i gruppi,
le classi e via discorrendo.
I rapporti sociali, di produzione, muovono la storia. La storia è mossa dalle condizioni sociali ed economiche
dell’esistenza. Questo è il vero motore della storia e su questo si modellano a loro volta tutti i rapporti che
poi fuoriescono da questo orizzonte materiale, ossia le idee, le religioni, la filosofia, la politica, tutte queste
cose sono un rispecchiamento delle condizioni materiali e cioè socio-economiche, di esistenza dentro cui
gli individui si ritrovano a vivere. Da qui arriviamo all’affermazione con cui si apre il Manifesto secondo cui
la storia è sempre stata lotta tra le classi. La storia è messa in moto dal conflitto tra le classi sociali, cioè tra
quei gruppi che sono determinati da peculiari condizioni economiche e sociali di esistenza.
Prende Hegel e lo rovescia in una concezione non più idealistica ma materialistica della storia, in cui
materialismo sta ad indicare i rapporti sociali dentro cui gli uomini conducono la propria esistenza.

L’altra grande tradizione con cui si confronta è quella dell’economia classica. Smith, Ricardo, Matlhus, tutta
quella serie di pensatori che hanno analizzato con categorie economiche il funzionamento
dell’ordinamento capitalismo. Marx legge con molta attenzione gli economisti classici, quelli che oggi
chiameremmo i padri del neoliberismo attuale, li studia e prende pezzi importanti della loro teoria ma ha
un approccio diverso dagli economisti classici stessi:

mentre gli economisti classici tendono a considerare l’ordinamento capitalistico come un fatto naturale,
come una modalità di riproduzione dell’economia che funziona in modo naturale, Marx dice che non è un
ordinamento naturale, l’economia capitalistica non è il modo naturale di produrre merci, di consumarle, di
distribuirle sui mercati, ma è un prodotto della storia e di peculiari rapporti economici e sociali e in quanto
tale così come ha avuto inizio è destinato ad avere una fine. L’occhio con cui Marx si legge gli economisti
classici è questo: storicizza il carattere presuntivamente naturale dell’ordinamento capitalistico, è di nuovo
un rovesciamento delle teorie di una grande scuola di pensiero in questo caso economico.

Infine, il socialismo utopistico. Marx utilizza questa espressione per riferirsi a tutta una serie di pensatori
che nell’epoca delle rivoluzioni, tra rivoluzione francese e rivoluzione industriale, cominciano a porsi il
problema della questione sociale, che è soprattutto la rivoluzione industriale a sollevare. Mentre la parola
comunismo ha una lunga storia, la parola socialismo è una parola che emerge nel contesto della questione
sociale. Il socialismo è una ricetta per risolvere la questione sociale. E’ pieno di questi pensatori ed è Marx a
chiamarli socialisti utopisti, è Marx che usa questa espressione un po’ sprezzante nei loro confronti perché
questi non si ritenevano affatto utopisti. Quindi, Marx usa questa espressione per riferirsi a tutta una serie
di pensatori che gli studiosi oggi mettono sotto l’etichetta di “socialismo prima di Marx”. Anche in questo
caso Marx legge questi autori, li apprezza e li approva, perché molti di essi sono per abolire la proprietà
privata, per creare forme comunitarie di esistenza comune, di produzione, apprezza questi autori per
l’immagine che hanno costruito della società futura, ma critica il fatto che questi socialisti concepiscano il
socialismo come un ideale, come un qualcosa che si dovrebbe realizzare perché le società perfette che essi
delineano sono migliori e contrappone al socialismo utopistico il socialismo scientifico. Il socialismo per
Marx non è un’utopia, non è l’immagine di una buona società che con la buona volontà bisogna cercare di
realizzare, ma al contrario è il prodotto necessario delle contraddizioni dello sviluppo del capitalismo
moderno. E’ qualcosa che arriverà necessariamente perché la società socialista è il frutto delle
contraddizioni che si possono scientificamente analizzare del capitalismo. Quindi, il socialismo non è
un’utopia ma è una scienza, la scienza sociale per eccellenza nel senso che applicandosi alla conoscenza
scientifica della società non si può che concludere che il capitalismo porterà alla società socialista. Questa è
una definizione politica dietro cui sta l’idea molto arrogante che il socialismo non sia un’utopia ma una
scienza, la vera scienza sociale che ci fa capire come dal capitalismo si arriverà ad una società di carattere
completamente diverso.

Vediamo i principali snodi teorici della riflessione di Marx così come prendono forma nel Manifesto, che ci
permette di mettere in fila le cose più importanti.
Concezione materialistica della storia
La storia non è mossa da motivi spirituali, dalle idee, ma è mossa dalle condizioni materiali, ossia
economico-sociali, in cui si svolge l’esistenza degli uomini, l’esistenza delle classi. Marx insiste soprattutto
su due espressioni che rendono l’idea di questo tipo considerazione. La prima è “modo di produzione”, la
seconda è “rapporti di produzione”. Il modo di produzione è il modo in cui un sistema economico e sociale
funziona complessivamente. Marx fa riferimento a diversi modi di produzione: capitalistico, asiatico,
feudale, antico. Questa espressione indica la struttura complessiva tramite la quale in una determinata
società gli uomini producono, distribuiscono e consumano merci e risorse. I rapporti di produzione sono
gli specifici rapporti che in ognuno di questi modi di produzione si instaurano tra i gruppi principali della
società, cioè tra le classi. La parola “classe” è centrale ma non precisamente definita da Marx, tuttavia è
una parola che anche nel linguaggio sociologico ha un significato preciso che è affine ma non coincide del
tutto col significato della parola ceto, così come non coincide del tutto con la parola casta. Il ceto è un
gruppo sociale che è tendenzialmente chiuso a cui si appartiene fin dalla nascita. La classe invece è un
gruppo sociale tendenzialmente aperto che, nello schema di Marx, definisce la posizione che gli uomini
hanno dentro un determinato modo di produzione.
Mentre il ceto sta ad indicare soprattutto dei privilegi positivi o negativi che hanno sì a che fare con la
posizione economico e sociale delle persone ma anche con la sanzione di una tradizione, addirittura della
legge; le classi sono brutalmente dei contenitori economico-sociali, indicano la specifica posizione
economica-sociale a cui gli individui appartengono.
Ancora due parole, “struttura” e “sovrastruttura”. La struttura è data dall’insieme di modi di produzione e
rapporti di produzione. E’ nella struttura che si verificano quei cambiamenti che danno un senso e
imprimono movimento alla storia. La sovrastruttura è il rispecchiamento di questi elementi strutturali nella
sfera del mondo delle idee, delle rappresentazioni. La politica rispetto alla struttura economico e sociale è
sovrastruttura, così come il diritto, la religione, la filosofia. Sono tutti rispecchiamenti, dice Marx, della
particolare situazione dei rapporti materiali che si svolgono nella sfera dei modi di produzione e dei
rapporti di produzione tra gli uomini.
Questa concezione materialistica della storia non esclude che queste sovrastrutture possano giocare un
ruolo importante nel movimento storico e questo è uno dei temi rimasti un po’ indecisi e scivolosi nel
vasto corpus marxiano e proprio su questo si andranno a distinguere le letture da un lato positivistiche e
meccanicistiche della teoria di Marx, ossia quelle letture che ritengono che la logica stessa dei rapporti
economico-sociali muova la storia in una determinata direzione e le letture di carattere volontaristico, cioè
più giocate sul ruolo che l’azione cosciente degli individui possono giocare in questo stesso movimento.

Da questa concezione materialistica della storia, cioè da questo ruolo primario dei fattori economico-
sociali nel cambiamento storico, si approda all’idea esplicitata all’inizio del Manifesto, secondo la quale la
storia è sempre stata storia della lotta tra le classi.

Lotta di classe
Il movimento storico nelle diverse fattispecie in cui si è di volta in volta cristallizzato è stato sempre
caratterizzato dallo scontro, dal conflitto tra le classi. Non è mai esistita una storia pacificata, la storia è
sempre stata lotta tra gruppi di uomini che Marx distingue tra classi dominanti, cioè che detengono gli
strumenti del potere economico e sociale e dunque del potere politico e ideologico e classi dominate, che
sono sfruttate dal potere detenuto dalle classi dominanti. Sono cambiate nel corso del tempo queste classi,
però questo elemento conflittuale soprattutto sul terreno dei rapporti di produzione è un dato costante
della storia del genere umano, dato che sarà, secondo Marx, superato soltanto con l’avvento della società
socialista e poi del comunismo in cui le classi cessano di esistere. Marx ha l’idea che il proletariato sia una
sorta di classe universale, il proletariato è la classe che liberando se stessa libera l’intera società da ogni
forma di dominio, quindi l’avvento al potere del proletariato che si realizza con la costruzione della società
socialista darà luogo ad una società senza classi da cui prenderà l’avvio una nuova fase della storia umana.

Ora, la storia è sempre stata storia della lotta tra le classi. Nel mondo contemporaneo le due classi
fondamentali che emergono sulla scena del conflitto sociale sono la borghesia e il proletariato.

Borghesia e il proletariato
Marx ha l’idea che con l’emergere di queste due classi si semplifichi nettamente la dinamica complessiva
del conflitto sociale. Nel mondo antico, medievale e moderno sono tante le classi che confliggono tra di
loro, fermo restando la distinzione tra classi dominanti e classi dominate, sono parecchie e articolate. Con il
trionfo del capitalismo moderno industriale, cioè nella sua versione industrialistica, cioè così come prende
forma nell’epoca della rivoluzione industriale, quando arriva il sistema di fabbrica in cui il lavoro è sempre
più standardizzato, il panorama sociale si semplifica e rimangono sulla scena queste due grandi classi che
sono borghesia e proletariato. A queste due classi è dedicato un breve ma significativo capitolo del
Manifesto in cui Marx innalza una vera e propria lode al carattere rivoluzionario della borghesia.

Per Marx il grosso del lavoro che prepara l’avvento della società socialista è fatto dalla stessa borghesia, è la
borghesia che costruisce le premesse per la costruzione del socialismo e anche in questo senso è una classe
rivoluzionaria. Teniamo presente che Marx è convinto che la rivoluzione socialista e poi comunista possa
avere luogo solo in una società molto sviluppata dal punto di vista capitalistico. L’idea è che la borghesia fa
sviluppare ricchezze straordinarie che poi vengono socializzate dal corpo sociale nel suo complesso. Il
novanta per cento del lavoro di costruzione del socialismo è fatto dalla stessa borghesia. E’ una classe
rivoluzionaria perché ha trasformato in radice con la sua intraprendenza le società tradizionali, ha creato il
sistema di fabbrica, il lavoro standardizzato; ha messo in movimento uno strepitoso movimento dalle
campagne alle città, ha dato uno stimolo forte allo sviluppo dell’urbanesimo che si va strutturando intorno
a grandi e sempre più grandi centri industriali che attirano i vecchi ceti rurali che si trasformano i ceti
proletari; ha messo in crisi, criticato le tradizioni, ha anche una cultura rivoluzionaria, ha messo in angolo il
prete con i suoi catechismi, ha creato una società che si va laicizzando; e poi soprattutto ha esportato il suo
sistema di produzione, distribuzione, consumo, i suoi stili di vita, la sua stessa cultura, negli angoli più
dispersi del pianeta, la borghesia sta costruendo un pianeta a propria immagine e somiglianza. E’ una classe
rivoluzionaria che sta dotando la società di capacità produttive assolutamente impensabili nel mondo
tradizionale.
Tuttavia, questa classe così rivoluzionaria ha anche creato un’altra classe destinata prima o poi a
soppiantarla, il moderno proletariato di fabbrica. Attenzione, quando Marx parla del proletariato non sta
parlando genericamente delle classi povere, dei nullatenenti, ma si riferisce in maniera specifica al
moderno proletariato di fabbrica, cioè quel proletariato che si sta formando dentro il moderno sistema di
fabbrica, quindi un proletariato sempre più asservito ai ritmi della macchine con cui la borghesia sta
potenziando la produzione, che lavorando nello stesso contesto poco per volta assume coscienza di sé.
Questa classe sta diventando maggioritaria nella società, viene sfruttata in estrema misura, diventa una
delle tante merci che sono al centro dei traffici capitalistici. Il proletario viene trattato non come persona
ma come una forza-lavoro, come una merce particolare che produce altre merci e che consente quindi alla
borghesia di accumulare quella ricchezza che viene reinvestita nelle fabbriche stesse in una corsa folle
verso l’accumulazione dei capitali. E’ una merce che produce altre merci, che però viene pagata con un
salario di sussistenza. Il salario dell’operaio serve al proletario per continuare a vivere e mantenere una
piccola famiglia. Tuttavia, tra questo salario di sussistenza e il valore prodotto, cioè che l’operaio col suo
lavoro produce, c’è una enorme differenza tramite la quale si può calcolare lo strepitoso processo di
accumulazione capitalistica che ha luogo attraverso questo meccanismo.
Il proletariato nella sua mera esistenza all’interno della fabbrica capitalistica tende a sviluppare in forme
rudimentali una specie di coscienza minima di classe. Il proletariato che si trova a vivere nella stessa
fabbrica, nelle stesse condizioni di lavoro, vivendo in questo cosmo terrificante dello sfruttamento che è la
fabbrica moderna, sviluppa una primitiva coscienza di classe, che però non riesce ad assumere fino in
fondo una valenza rivoluzionaria.

Marx ha l’idea che nel sistema di fabbrica il proletario acquisti una sufficiente coscienza della propria
condizione di classe ma fino a un certo punto, coscienza che non è quasi mai rivoluzionaria, cioè il
proletariato che entra in contrasto con l’imprenditore capitalistico è in grado da solo di organizzarsi per
lottare per avere un salario più alto, un orario più breve, per migliorare la condizione in cui si svolge il
lavoro di fabbrica, ma non riesce ad avere coscienza del meccanismo più complesso dentro cui si trova ad
operare. E’ qui che Marx introduce i proletari e i comunisti.

Proletari e comunisti
Affinché il proletariato possa sviluppare un’autentica coscienza rivoluzionaria di classe, cioè possa capire
davvero dentro quale sistema è inserito e verso che cosa porta questo stesso sistema, ha bisogno
dell’intervento dei comunisti.
Il proletariato non è in grado fino in fondo di sviluppare una coscienza di classe rivoluzionaria se non con
l’apporto di quelle minoranze coscienti che spesso non vengono nemmeno dal mondo del proletariato ma
vengono dal mondo dell’intelligenza, dell’intellettualità borghese, che sono i comunisti. La coscienza di
classe deve arrivare dall’esterno. Se lasciato a se stesso il proletario sviluppa una coscienza di tipo
sindacale, vede non molto distante dal proprio naso e quindi lotta per piccole concessioni di carattere
materiale. Se invece dall’esterno, attraverso l’azione dei comunisti, viene portata al proletario un’autentica
coscienza rivoluzionaria di classe, le cose cambiano completamente ed è in questo modo che quella che
originariamente è una massa amorfa di persone che vivono in una condizione di sfruttamento e che ad un
certo punto rafforzano dei legami di solidarietà per resistere ai padroni, quella solidarietà si trasforma in
azione cosciente in vista della rivoluzione socialista. Questo è un punto fondamentale che sta a segnalare
che ci vuole l’azione cosciente della classe proletaria perché il processo assuma quella direzione
rivoluzionaria ritiene che porterà all’avvento della società senza classi. Quindi, il proletariato è la classe
destinata a diventare dominante, ma in questo percorso ha bisogno di un’avanguardia cosciente di
“rivoluzionari di professione”, come li chiamerà Lenin, che sono i comunisti. Teniamo presente Marx sta
spiegando qual è il ruolo dei partiti comunisti devono avere nel processo rivoluzionario.

La rivoluzione: crisi distruttive, proletarizzazione e miseria crescente


La borghesia fa già tutto il lavoro di costruzione delle fondamenta della società comunista, tuttavia il
capitalismo nel porre le premesse di questa società che arriverà soltanto con la rivoluzione, è destinato a
passare attraverso crisi sempre più distruttive. Quando Marx si metterà a studiare il funzionamento
dell’economia capitalistica, osserverà come essa sia afflitta in maniera ciclica e sempre più forte da terribili
crisi economiche che gettano la gente nella disperazione, che generano disoccupazione, che fanno un sacco
di disastri, grandi crisi che sono sempre crisi di sovrapproduzione. Il capitalismo è afflitto da questa cosa
paradossale, che è la crisi di sovrapproduzione, ha una capacità di creare beni, ricchezze, risorse enormi che
poi però non riescono ad essere assorbite dal mercato, non vengono comprate perché tutti hanno solo
salari di sussistenza. Se si verifica una crisi di sovrapproduzione, si verificano delle crisi generali distruttive
che portano la società in uno stato di vera e propria fibrillazione. E’ vero, dice Marx, che una volta che si
tocca il fondo, le società si riprendono ma subito dopo seguiranno delle crisi che saranno sempre più
distruttive e sempre più insensate nella misura in cui dimostrano da un lato la straordinaria capacità del
capitalismo di produrre in abbondanza e dall’altro tenendo ai livelli di mera sussistenza la gran parte della
popolazione, costruisce una ricchezza che non viene assorbita dal mercato. Qui si vede come il modo di
produzione capitalistico entra in contraddizione con i rapporti di produzione che si consolidano sul terreno
dell’economia capitalistica, perché da un lato c’è un gruppo sempre più piccolo di persone che diventano
sempre più ricche e dall’altro c’è la massa crescente della miseria, della disperazione, della derelizione, che
mostra come quel modo di produzione stia confliggendo con i modi in cui all’interno di quel modello
produttivo ci si appropria della ricchezza. Questa polarizzazione della società non funziona, ed è qui che
suona l’ora della rivoluzione socialista, soltanto quando questo processo ha raggiunto il suo livello
massimo di tenuta, oltre il quale tutto salta per aria, quello è il momento in cui si gioca concretamente il
destino della rivoluzione. Queste crisi continue, cicliche, producono due effetti fondamentali. Innanzitutto
miseria crescente, cioè attraverso queste crisi la stragrande maggioranza delle persone si trova in una
condizione di miseria crescente; al tempo stesso la società tende continuamente a proletarizzarsi, cioè
attraverso queste crisi devastanti succede che tutti quei residui di ceti intermedi che appartenevano ad
un’altra epoca e che in qualche modo fanno anche parte sia pure in maniera non decisiva del mondo
capitalistico (piccoli artigiani, commercianti, ecc..), vengono distrutti dal meccanismo della concorrenza e
della crisi e coloro che ne facevano parte confluiscono nella classe proletaria. Questo processo di
proletarizzazione della società genera a sua volta una crescente polarizzazione della società. Questo è il
modo in cui Marx intravede il percorso che porta alla rivoluzione. Che cosa succede quando questo
processo si è sviluppato al massimo (?) Cioè quando ci sono i beni, ma siamo tutti lavoratori al servizio di
quattro gatti nascosti che si appropriano di queste enormi ricchezze mentre noi tiriamo la carretta.
La produzione di ricchezza è già sociale. La ricchezza è già prodotta dalla società nel suo complesso e in
particolare dai lavoratori che vendono la propria forza-lavoro, il punto è che una piccola classe di super
ricchi si appropria di tutto, allora bisogna andare a prendere questi quattro super ricchi e socializzare la
produzione, cioè bisogna che questa proprietà che è di pochi ma che è prodotta dalla società nel suo
complesso venga abolita e quello è il momento della rivoluzione. Arrivati a questo punto, in cui abbiamo
una società in grado di produrre una grandissima quantità di beni ma al tempo stesso misera, scocca l’ora
della rivoluzione. Attenzione, può scoccare soltanto qui l’ora della rivoluzione e non prima, quindi quando
Lenin fa la rivoluzione in Russia sta giocando un azzardo, l’idea di fare la rivoluzione in Russia è un’idea
eterodossa, tant’è vero che Gramsci subito dopo la rivoluzione bolscevica scriverà un famoso articolo “La
rivoluzione contro Il Capitale”, lì i veri marxiani erano i menscevichi russi che ritenevano che la Russia
dovesse prima della rivoluzione passare attraverso una fase di rivoluzione borghese e sviluppo del
capitalismo. Per Marx la rivoluzione socialista matura solo quando queste condizioni strutturali sono
effettivamente disponibili: grande ricchezza ma appropriazione privata.

Quando succede questo si arriva al momento della rivoluzione, che si può realizzare in diversi contesti in
differenti modi. Si può arrivare alla rivoluzione anche attraverso una via legale, democratica, attraverso la
vittoria elettorale dei partiti che fanno gli interessi del proletariato moderno. Non è necessariamente un
atto violento. Anche qui si è acceso negli anni successivi a Marx un dibattito molto ampio. Il problema
diventa quello della conquista dello stato da parte del proletariato.

Il problema dello stato


Quando maturano quelle condizioni, il proletariato deve impadronirsi della macchina dello stato, abolire lo
stato borghese, istituire uno stato proletario, cioè che sia dominato dalla nuova classe dominante che è il
moderno proletariato di fabbrica e da lì si possono compiere gli ultimi passi che ci portano nella rivoluzione
socialista. Si pone il problema dello stato. La rivoluzione consiste nella conquista del potere statale. Quindi,
si apre il problema di che cosa sia lo stato per Marx. Lo stato per Marx è innanzitutto l’espressione del fatto
che esiste la lotta di classe, dove c’è lo stato vuol dire che c’è lotta tra le classi nella misura in cui lo stato è
l’insieme di strumenti coercitivi attraverso cui una classe dominante opprime una classe dominata. Lo
stato in generale per Marx è l’insieme di quegli strumenti coercitivi (forze armate, forze di polizia, diritto,
carceri) attraverso cui una classe dominante opprime una classe dominata. Attenzione, la classe dominata è
già oppressa sul piano economico e sociale, l’oppressione è già nella società secondo Marx, tuttavia lo stato
ci aggiunge del suo, è lo strumento con cui la classe che è già dominante nella società opprime una classe
dominata. Quando si arriva al momento della rivoluzione succede che il proletariato che di fatto è la classe
potenzialmente dominante della società poiché tutti ormai sono in una condizione di proletarizzazione,
deve impadronirsi dello stato per via elettorale o violenta, deve abolire lo stato borghese, creare uno stato
proletario e attraverso quello stato proletario deve distruggere gli ultimi residui del potere della borghesia
secondo il motto “espropriare gli espropriatori” e da lì si mette in moto il processo di costruzione dello
stato socialista.
Marx ha anche individuato ad un certo punto una forma statuale all’altezza della nuova classe dominante
che è il proletariato nella Comune di Parigi. Poco dopo l’insurrezione di Parigi e il breve esperimento della
Comune, dice che la forma della Comune che è una specie di democrazia diretta con caratteristiche tipiche
del direttismo potrebbe essere la forma statuale dello stato proletario e questa è quella che poi nel lessico
del socialismo della cultura socialista e comunista contemporanea è stata poi indicata come la dittatura del
proletariato. La fase della dittatura del proletariato è una fase intermedia tra l’epoca del capitalismo e
l’epoca del socialismo.
Il proletariato conquista le leve dello stato, istituisce una propria dittatura e attraverso questa fase di
oppressione deve mettere in atto tutte le ultime trasformazioni che portano alla società socialista e quindi
alla società comunista. Sostanzialmente bisogna che il corpo sociale si appropri di tutti i mezzi di
produzione, dev’essere abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione e attraverso questa
appropriazione si pongono le basi della futura società socialista e poi comunista. Attenzione, secondo lo
schema di Marx che poi sarà sviluppato in maniera ancora più chiara da Lenin in “Stato e Rivoluzione”, il
proletariato al potere distruggendo le ultime resistenze della classe borghese crea una società senza classi.
Una volta che il proletariato ha preso il potere e ha distrutto gli ultimi residui della classe borghese, si arriva
alla costruzione di una società senza classi e una società senza classi è una società in cui non c’è più bisogno
dello stato. Se non ci sono più le classi non ha più ragion d’essere lo stato che infatti si estingue. Si arriva
all’estinzione dello stato nella misura in cui si entra in una fase in cui al dominio dell’uomo sull’uomo, che è
la dimensione della politica e della statualità fondata su una società divisa in classi, subentra la semplice
amministrazione delle cose. Gli uomini non avranno più bisogno di opprimersi a vicenda, dovranno
armonicamente organizzare l’amministrazione delle cose.
Quindi, il proletariato si impadronisce dello stato, abolisce lo stato borghese e costruisce la propria
dittatura, dopodiché costruita una società senza classi lo stato perde la sua ragion d’essere e si estingue.
Questo è il quadro che Marx costruisce.
Riteneva che a una fase in cui viene statalizzata la produzione, subentra una fase in cui i mezzi di
produzione vengono socializzati ed è lì che prende vigore una società che si autogoverna nelle sue unità
produttive ed è solo a questo punto che si entra in questa società comunista in cui ognuno darà secondo le
proprie capacità e riceverà secondo i suoi bisogni.
Gaetano Mosca
1858-1941
Uno dei tre grandi padri fondatori della teoria delle élite ed è un seguace dell’approccio realistico alla
politico che ha raggiunto una delle sue massime espressioni con Machiavelli. La teoria dell’élite afferma che
in qualsiasi società, ordinamento politico, al di là delle forme, degli aspetti formali della politica stessa, sono
sempre piccole minoranze a tenere nelle proprie mani le leve reali del potere. E’ la teoria secondo cui in
qualsiasi contesto in tutta la storia delle istituzioni politiche sono sempre le oligarchie, le élite, le minoranze
a tenere nelle proprie mani il potere.
Pareto, Mosca e Michels affermano cose simili.
Pareto affronta questo tema ragionando in generale sul sistema sociale, è uno dei più importanti scienziati
sociali italiani, scrive un’opera colossale che si intitola “Trattato di sociologia generale” che esce nel 1916 e
che poi ha avuto una fortuna molto rilevante nel dibattito scientifico internazionale.
Mosca invece si concentra più specificamente sull’ambito politico-istituzionale e anche lui ha una fortuna
molto rilevante, anche la sua opera principale viene tradotta negli Stati Uniti verso la fine degli anni Trenta
e diventa un testo che influenza in profondità anche la scienza politica americana.
Entrambi questi due autori sono dei liberal-conservatori che osservano e discutono criticamente quello che
hanno sotto gli occhi, cioè l’avvento della democrazia, l’estensione del suffragio, l’irruzione delle masse
sulla scena della politica.
Michels è un caso interessante nella misura in cui appartiene ad una tradizione culturale molto diversa da
quella di Mosca e di Pareto, è un socialista radicale, è un membro della Seconda Internazionale, è iscritto
alla SPD tedesca e al partito socialista italiano e francese e partendo da queste posizioni di radicalismo di
sinistra arriva alle stesse conclusioni di Mosca e di Pareto teorizzando la famosa legge ferrea
dell’oligarchia, secondo la quale in ogni gruppo di uomini si sviluppano inevitabilmente per tante ragioni
tendenze di tipo oligarchico. Quindi, partendo gli uni dal liberalismo-conservatore, l’altro dal socialismo
radicale, arrivano alla stessa conclusione. Di Michels citiamo “Sociologia del partito politico” uno dei primi
grandi studi novecenteschi dei grandi partiti politici che esce in una prima edizione tedesca nel 1911, poi
esce in italiano, in francese, in inglese, conoscendo una fortuna davvero straordinaria.
E’ singolare osservare come Mosca da un lato e Michels dall’altro che vedono l’ascesa del Fascismo in Italia,
il socialista e il conservatore, quando il socialismo comincia ad affermarsi finiscono di nuovo su posizioni
opposte, Mosca si schiera contro il regime fascista, prende le distanze da Mussolini, mentre Michels al
contrario aderisce al fascismo, rimane innamorato di Mussolini e in diversi suoi testi esalterà il modello
mussoliniano di rapporto tra il leader e le masse come una forma di rapporto autentico tra il capo e la folla,
il capo che sa parlare all’anima delle folle è un leader più autentico dei normali leader parlamentari che si
avvicendano al potere tenendosi lontani dalle masse stesse. Il conservatore diventa antifascista, mentre il
socialista radicale o sindacalista rivoluzionario diventa fascista. Questo è un po’ il destino di tanti seguaci
della sinistra radicale del primo Novecento, questo è il caso dello stesso Mussolini.
La teoria delle élite è andata ad un certo punto fuori di scena nella scena politica euro-americana, ma è un
caso molto significativo dell’enorme influenza che la cultura italiana di questi anni ha esercitato in Europa
e poi negli stessi Stati Uniti, diventando per un certo lasso di tempo una teoria mainstream che sarà poi al
cuore della grande scienza politica americana così come prende forma con autori come Merriam, Lassuel e
tanti altri.
Vita e opere
Per quanto riguarda la vita e le opere, Mosca è un grande studioso, scrive benissimo, ma ha avuto un
costante impegno politico prima ancora di diventare prof. a Torino di diritto costituzionale e di storia delle
dottrine politiche, è stato per 10 anni segretario della camera dei deputati e ha potuto vedere, toccare con
mano il funzionamento della vita parlamentare, dopodiché ha cambiato mestiere, ha scritto un libro
importante con cui di fatto entra nel circuito accademico andando ad insegnare a Torino. Dopodiché dal
1908 fa proprio il politico, si dedica intensamente alla vita politica prima come deputato e poi come
senatore, che è una carica a vita nel senato del regno d’Italia. Bobbio considera Mosca come il fondatore
della scienza politica italiana. Per inquadrarlo, Mosca è un autore tipicamente liberale e altrettanto
tipicamente anti-democratico, prende posizione contro il sistema parlamentare nella forma che esso ha
assunto con l’avvento del suffragio universale, ma critica già il sistema parlamentare all’indomani della
legge Zanardelli del 1882, che introduce dei criteri capacitari per il diritto di voto, è convinto che
l’allargamento alle masse del suffragio non possa che portare a una caduta della qualità della classe
politica, tant’è vero che Mosca è uno dei pochi parlamentari che nel 1912 votano contro la legge
sull’allargamento del suffragio voluta in quell’anno da Giolitti e Mosca sarà un grande critico della politica
filodemocratica giolittiana, però quando dopo la crisi del dopoguerra arriva il fascismo in Italia, fa un passo
indietro, critica duramente il fascismo, fa un ultimo discorso al senato nel 1925 quando Mussolini fa
approvare le leggi fascistissime e continua un po’ come Benedetto Croce una silenziosa opera di critica del
regime fascista, rivalutando in quel contesto quel sistema parlamentare che aveva aspramente criticato
negli anni precedenti e arriverà a vedere nel parlamentarismo e nel pluralismo politico e sociale il vero
presidio della libertà. Mosca scrive tante opere, è stato studiato prevalentemente da Giorgio Sola, scrive
moltissime opere che spaziano tra molti temi, però le principali da ricordare sono “Teorica dei governi e
governo parlamentare” che esce nel 1884, cioè esattamente due anni dopo la legge Zanardelli che allarga il
diritto di voto secondo criteri capacitari, opera in forte polemica rispetto a questa svolta importante della
vita politica italiana e scrive poi il suo capolavoro che si intitola “Elementi di scienza politica” che esce in
due edizioni, una prima risale al 1896 ed è ancora lo specchio delle sue convinzioni anti-democratiche, una
seconda edizione molto ampliata rispetto alla prima esce nel 1923 quando il fascismo comincia ad
affacciarsi sulla scena e già in questa seconda edizione si percepisce questa svolta verso una rivalutazione
profonda del sistema parlamentare di cui Mosca continua a registrare le molteplici imperfezioni, dicendo
però che la forma di governo rappresentativo anche col suffragio allargato rimane la formula politica, il
modello politico-istituzionale più alto che gli uomini abbiano saputo inventare, e far funzionare.
Attenzione, proprio quest’ultimo Mosca è l’autore che pur mantenendo un forte impianto elitistico nella
sua opera, comincia a mettere i presupposti della teoria schumpeteriana, è considerato come uno dei
padri del cosiddetto elitismo democratico, cioè è uno di quegli autori che ritengono che la democrazia non
debba essere intesa come il governo del popolo, la democrazia è una sorta di circolazione delle élite che
sulla base del consenso popolare si alternano al potere, il pluralismo, la circolazione continua delle élite che
si avvicendano al potere è il vero presidio della libertà e anche della democrazia, se dobbiamo dare una
definizione realistica della democrazia, la democrazia non è altro che conflitto, competizione regolata in
maniera adeguata e circolazione di élite che si alternano al potere, non è il governo del popolo, ma è il
governo di quelle élite che sanno ottenere attraverso libere elezioni il consenso popolare, una definizione
che mette fine al grande ideale rousseauiano e ne introduce uno più modesto ma comunque importante.
Da tenere presente che sia Mosca che Schumpeter hanno di fronte a sé un’epoca in cui si affermano in
tutt’Europa i regimi a partito unico, cioè regimi in cui questa circolazione dell’élite, in cui l’opposizione tra
chi governa e chi è in minoranza è completamente scomparsa, da qui una teoria meno entusiasmante ma
altrettanto importante della democrazia.
Per quanto riguarda Mosca, ci occupiamo della critica della teoria classica delle forme di governo, del
concetto di classe politica e le sue implicazioni e del concetto di formula politica. Il tutto immerso nel
concetto di difesa giuridica che questa riflessione ha sullo sfondo e che altro non è che quel bagaglio di
convinzioni tipiche della cultura liberale che comprendono la separazione dei poteri, la rappresentanza, il
pluralismo sociale e politico, che sono dei punti di riferimento che Mosca condivide con tutta la cultura
liberale da Montesquieu in avanti.
Critica della teoria classica delle forme di governo
Viene formulata già in maniera molto chiara in “Teorica dei governi e governo parlamentare” che è
un’opera divisa in due parti, in cui prima discute la teoria classica delle forme di governo, quella teoria che
distingue le tre grandi forme di governo che sono l’oligarchia, la monarchia e la democrazia, cioè in una
prima lunga parte si occupa e critica questa teoria classica, nella seconda parte critica violentemente la
forma di governo parlamentare e le due cose sono nel ragionamento di Mosca strettamente correlate.
Qual è il succo di questa critica alla teoria classica delle forme di governo (?) Allora, a questa critica Mosca
oppone l’idea secondo la quale tutte le forme di governo al di là degli aspetti più esteriori, più formali, sono
riconducibili alla forma oligarchica, cioè non è mai esistito e mai esisterà il governo di uno solo così come
non è mai esistito e mai esisterà il governo dei tutti o dei molti. Mosca mostra come i governi nelle loro leve
essenziali, non sulla scena ma nel retroscena, sono sempre nelle mani di ristrette minoranze e cerca di
mostrarlo scrivendo una storia delle istituzioni politiche del mondo in senso ampio occidentale per arrivare
fino al governo parlamentare, Mosca ricostruendo la storia di queste istituzioni politiche fa vedere come
dietro la facciata del potere di uno o del potere di molti si nasconde sempre il governo delle minoranze che
definisce con questa espressione: “La classe politica”, che è quella minoranza organizzata che in ogni forma
di governo di fatto detiene realmente le leve del potere. Ora, se tutte le forme di governo sono riconducibili
al governo dei pochi, possiamo dire che si equivalgono le une alle altre (?) No! E’ qui che si inserisce la
seconda parte dell’opera.
Attenzione, è vero che tutti i governi sono oligarchici ma cambiano e anche in maniera consistente i
meccanismi di selezione della classe politica, le minoranze vengono selezionate in modo differente e
soprattutto hanno una qualità molto differente nella misura in cui una classe politica si può selezionare in
base al principio ereditario o alla cooptazione o al meccanismo delle elezioni. Il punto è che Mosca cerca di
mostrare che quanto più i meccanismi di selezione della classe politica si aprono al consenso delle masse,
del moto popolare, attraverso gli allargamenti del diritto di voto, tanto più la classe politica perde di qualità,
cioè diventa scadente, più è selezionata dal basso e più è di scarsa qualità. L’allargamento del diritto di
voto produce una classe politica di irresponsabili, di corrotti, di persone che perseguono i propri interessi
particolari, e via discorrendo. Fa una requisitoria contro il sistema parlamentare, contro la sua corruzione,
che è veramente possente. Attenzione, Mosca è un pensatore realista ed è convinto che l’innesto della
democrazia sul governo rappresentativo stia dando luogo ad un mostro, dice che da un lato le masse si
lasciano conquistare facilmente dai demagoghi, ma il problema non è tanto una selezione sbagliata dei
leader da parte delle masse, il problema è che quando si attivano i meccanismi della politica di massa, con il
suffragio allargato, coloro che si fanno avanti sulla scena della politica sono i peggiori. Mosca sa benissimo
che in una qualunque elezione non sono gli elettori che eleggono determinati candidati, sono i candidati
che si fanno eleggere dagli elettori. Il difetto sta nella radice nella misura in cui quando si allarga il consenso
popolare si fanno avanti i peggiori, l’elezione popolare fa emergere proprio coloro che piacciono alle masse,
scendono in campo non più come accadeva una volta grandi intellettuali, il notabile, il grande aristocratico,
il competente, ma scendono in campo gli imbroglioni, i pifferai magici, i demagoghi, che poi conquistano il
consenso delle masse, quindi fin dal principio c’è una selezione verso il peggio della classe politica.
Quindi, tutte le forme di governo sono oligarchiche, tuttavia cambia spesso in radice la qualità di una classe
politica che è tanto peggiore quanto più essa è selezionata dal basso, dalle masse popolari.
Il concetto di classe politica e le sue implicazioni
La classe politica, quella che Pareto chiama élite e che Michels chiama oligarchia, secondo Mosca
infallibilmente detiene il potere di fatto nei sistemi politici e sociali. Quali sono le ragioni per cui questo
potere di fatto della classe politica per Mosca è assolutamente inaggirabile, perché dobbiamo escludere che
sia possibile il governo dei molti sui pochi (?) Il potere delle minoranze, della classe politica, discende dal
fatto che la classe politica, queste minoranze che cambiano nel corso della storia possiedono delle risorse
particolari che permettono questa preminenza, questo loro predominio sulle maggioranze. Queste risorse
sono essenzialmente quattro. Innanzitutto la capacità di esercitare la forza, in particolare la forza militare,
per una gran parte della storia delle istituzioni politiche contemporanee chi era in grado di esercitare l’arte
della guerra aveva in quella risorsa le ragioni del proprio potere. La seconda risorsa che ha giocato un ruolo
molto importante anche nelle società più primitive è la ricchezza, la capacità finanziaria della classe politica,
delle minoranze, è stata ed è una risorsa essenziale delle minoranze ed è una risorsa che non è propria di
tutti, è una risorsa attraverso la quale le minoranze riescono a controllare le maggioranze. La terza risorsa è
la cultura, la capacità di sapere, di comprendere e governare la complessità dei problemi sociali, dell’agire
politico e di nuovo la cultura è una risorsa che non è mai di massa ma è sempre nelle mani di ristrette
minoranze. Grossomodo nella storia queste tre risorse si sono manifestate nell’ordine citato pur
mantenendo ognuna una certa permanenza in contesti differenti. La risorsa più importante per Mosca è la
quarta, l’organizzazione, che ha segnato l’esistenza di tutte le classi politiche nel corso della storia, le
minoranze, le classi politiche sono minoranze organizzate e coese che proprio in quanto tali, proprio perché
organizzate e coese hanno sempre ragione, riescono sempre a prevalere sulla maggioranze disorganizzate,
cioè l’organizzazione è una risorsa fondamentale che finisce per decretare la superiorità delle minoranze
sulle maggioranze nella misura in cui le maggioranze per definizione non hanno gli strumenti per
organizzarsi, le minoranze sì, oltre ad essere coese e grazie alla loro organizzazione prevalgono sempre sulle
maggioranze disorganizzate.
Questo è un tema che poi Michels riprenderà in grande stile nella sua opera sulla sociologia del partito
politico formulando la sua legge ferrea dell’oligarchia in questi termini, cioè Michels che in quell’opera sta
ragionando sul naufragio del socialismo nel corso del primo decennio del Novecento dice che la classe
operaia, le classi proletarie, hanno un unico strumento per emanciparsi veramente, che è il partito politico,
le masse lasciate a se stesse non sono in grado di ottenere nulla, le masse per emanciparsi hanno bisogno di
organizzarsi e questa forma organizzativa che mira alla loro emancipazione si è incarnata nei grandi partiti
socialisti della sua epoca, in particolar modo nell’SPD che era un partito molto organizzato. Peccato che se
da un lato senza organizzazione le masse non si emancipano, dall’altro lato succede che quando vengono
irregimentate dentro i partiti organizzati le necessità dell’organizzazione, il fatto che bisogna prendere delle
decisioni subito, che ci sia bisogno di capi, produce tendenze oligarchiche che poco per volta snaturano
questi partiti proiettati all’emancipazione della classe operaia e li fanno diventare dei normali partiti
borghesi che competono in parlamento per ottenere il massimo numerico, sul terreno elettorale per avere
più voti degli altri, quindi di nuovo questo tema dell’organizzazione come risorsa delle minoranze, ma
anche come motore dello sviluppo di tendenze oligarchiche è un tema un po’ condiviso.
Queste sono le ragioni principali per cui in ogni istituzione politica che si sia mai manifestata nel corso della
storia sono sempre le minoranze ad emergere.
Il concetto di formula politica
Secondo Mosca ogni classe politica tende ad elaborare una formula politica che in qualche modo giustifichi
il suo potere, ogni classe si ammanta di un’ideologia, fa ricorso ad un’ideologia con cui tenta di giustificare
il proprio potere agli occhi delle masse.
Le minoranze non si affermano solo in virtù della pura forza, della pura ricchezza, della superiorità culturale,
ma si affermano anche perché riescono a costruire delle formule politiche, ossia delle ideologie che
giustificano il proprio potere agli occhi delle masse. Punto importante, Mosca ci sta dicendo che il potere
non è mai un potere che si esercita in forma brutale, ma ha sempre bisogno di legittimarsi e si legittima
attraverso delle formule politiche che possono essere di due tipi, possono essere formule sovrannaturali,
ossia formule che giustificano il potere richiamando elementi metafisici, religiosi, così come accade con la
teoria del diritto divino dei re, l’idea che il monarca governi perché discende dal potere che Dio ha dato ad
Adamo, eccetera; oppure possono essere formule razionali, che però per Mosca sono altrettanto
sovrannaturali, come la teoria della sovranità popolare. La teoria della sovranità popolare è quella teoria
che viene invocata da coloro che sostengono di governare in nome del popolo perché sono stati eletti
mentre si sono fatti eleggere con mille manipolazioni dal popolo stesso, anch’essa è una formula politica, ci
sta dicendo che non corrisponde a nessuna realtà di fatto, ma è una formula, una ideologia con cui alcune
persone che conquistano il potere attraverso le elezioni giustificando la propria preminenza. Mosca
aggiunge ancora un punto, dice che la formula politica, questa necessità di giustificare in termini astratti il
potere di chi comanda, non risponde soltanto a un bisogno dei governanti, cioè di coloro che governano,
non è solo un trucchetto con cui i governanti si giustificano agli occhi delle masse, ma risponde anche ad un
bisogno sociale da parte dei governati, da parte delle masse, delle maggioranze. Le masse, chi obbedisce,
coloro che sono governati obbediscono più volentieri a persone che si ammantano attraverso principi
generali che non a persone concrete. Quindi, questo bisogno della formula politica è un bisogno sia dei
governanti che dei governati nella misura in cui è più facile obbedire a persone sulla base di principi astratti
che non a persone concrete in virtù della loro superiorità per la forza, per la cultura o per la ricchezza.

Quando rivaluta il sistema parlamentare, quando comincia a considerare il fascismo come un pericoloso
salto nel buio capace di trascinare nel baratro l’intera civiltà moderna, Mosca fa riferimento soprattutto
all’elemento del pluralismo. E’ importante che le classi politiche siano plurali e siano in competizione tra
loro perché solo attraverso questa competizione si può rispecchiare il pluralismo che è proprio di qualsiasi
società. Quindi, il parlamentarismo diventa il presidio di questo tipo di società che a giudizio di Mosca va
preservata.

Da ricordare: In che termini critica la teoria classica delle forme di governo; perché ritiene che una
selezione dal basso della classe politica porti ad una sue decadenza; quali sono le risorse che rendono una
classe politica in grado di dominare sulle maggioranze; che cos’è il concetto di formula politica

Max Weber
1864-1920
E’ uno degli autori più interessanti della riflessione sui meccanismi moderni della politica. E’ un autore
molto molto complesso che di nuovo come altri autori, in particolare come Marx, è difficilmente collocabile
su un piano disciplinare preciso. E’ per certi aspetti un grande filosofo ma soprattutto uno scienziato sociale
che elabora anche una compiuta teoria politica, scrive di qualunque cosa, si occupa di musica, delle
religioni. E’ un uomo universale che si occupa veramente di un’infinità di cose che paradossalmente in un
celebre testo che si intitola “La scienza come professione” teorizza lo specialismo, la necessità per la
scienza di specializzarsi il più possibile per ottenere dei risultati apprezzabili. In senso ampio, possiamo
considerarlo come un grande scienziato storico-sociale che per quanto riguarda la storia del pensiero
politico ha fissato alcuni concetti che sono poi diventati centrali nella scienza politica contemporanea. In
particolare, ha analizzato in maniera molto lucida i processi di massificazione che investono la politica tra
Ottocento e Novecento, è uno studioso delle trasformazioni profonde che investono la politica nell’età
dell’avvento della democrazia che ha concentrato in maniera particolare la sua riflessione su queste
trasformazioni sul tema del partito politico.
Possiamo considerarlo come uno dei primi autori che ci fanno vedere come i partiti politici siano gli attori
principali, indispensabili, inaggirabili della politica democratica. E’ uno dei grandi teorici del nesso
inestricabile tra partiti e democrazia. E’ uno di quegli autori che ha contribuito a definire la democrazia
come democrazia dei partiti. La democrazia non può che essere una democrazia dei partiti. Al di là di
questo Weber è un personaggio molto controverso. Il maggiore studioso del pensiero politico di Weber lo
ha considerato come un anticipatore per certi aspetti del nazismo e quindi è stato oggetto di un sacco di
studi, di riflessioni, che si sono protratti per moltissimo tempo. La tesi è che Weber avrebbe con le sue
teorie reso meno resistibile l’avvento del fascismo in Germania.
Vita e opere
Per quanto riguarda la vita e le opere, vive tre stagioni diverse della storia tedesca, l’età bismarkiana, ossia
l’età del grande cancelliere tedesco che unifica la Germania, l’età guglielmina e vede anche i primi inizi del
Repubblica di Weimar. Tra l’altro, è un grande intellettuale del suo tempo, un giurista, un economista, uno
scienziato sociale, sarà chiamato come esperto a dare il suo contributo alla stesura della costituzione
weimeriana e sarà uno dei principali artefici dell’articolo 48 di quella costituzione che attribuiva poteri di
emergenza al presidente del Reich in caso di crisi politica del paese, quindi qualche elemento che può
giustificare un accostamento di Weber all’avvento del nazismo c’è. Scrive un sacco di opere, i suoi due
capolavori sono “La sociologia delle religioni” e poi “Economia e società”. Il primo è un grande testo in cui
Weber ha raccolto tutta una serie di saggi che ha dedicato al rapporto tra religione e società a partire dal
celebre libro sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo del 1904-05 la cui idea è che alcuni elementi
dell’etica propria del calvinismo e dalle sette che da esso sono sorte hanno alcune analogie con la mentalità
tipica del capitalismo moderno. Dopo aver scritto quell’opera, Weber si mette a studiare la Cina, l’India,
l’antico Israele e scrive altri saggi in cui affronta le grandi religioni universali cercando di capire che cosa mai
ha permesso alla civiltà occidentale di svilupparsi come una civiltà tipicamente razionale, mentre tutte le
altre civiltà rimangono un po’ dei giardini incantati, la religione continua a giocare un ruolo molto
importante in esse, la civiltà occidentale ha sviluppato una sorta di disincantamento del mondo, ha
elaborato una visione quasi meccanicistica del mondo le cui radici Weber cerca di studiare attraverso
questo lavoro comparativo sulle religioni. La seconda opera è un testo in cui Weber analizza i rapporti tra
economia e ordinamenti sociali e politici, che però è rimasto incompiuto. E’ importante nella misura in cui
ci sono alcuni capitoli che sono dedicati alla sociologia del potere. Weber non scrive un’opera di teoria
politica, ma scrive questo testo da cui noi attingiamo moltissimo e poi scrive un sacco di piccoli scritti
contingenti, scrive sui giornali esprimendo giudizi e proposte di riforme, non ha mai scritto un testo di
teoria politica e quindi è complicato ricostruire un profilo del suo pensiero politico. Il testo a cui faremo
riferimento è il testo di una conferenza che Weber ha tenuto agli studenti dell’Università di Monaco in cui
parlando della politica come professione ha fissato una teoria abbastanza coerente della politica moderna
che è ciò di cui noi ci dobbiamo occupare.
Il potere e le sue forme
In generale, Weber abbandona completamente la riflessione sulla teoria classica delle forme di governo e
avvia una riflessione molto importante sul tema del potere, più che il governo in senso stretto a Weber
interessa il fenomeno del potere, che investe la sfera della politica ma investe anche la dimensione pre-
politica dell’agire collettivo, cioè è un fenomeno che innerva prima ancora che i gruppi politici, i gruppi
sociali, è una tipica forma o tipo di relazione che si stabilisce in generale, prima ancora che nella politica,
nella società.
Come possiamo definire il potere (?) Che cos’è il potere nella definizione weberiana (?) Per rispondere
conviene mettere a confronto due concetti affini ma non coincidenti, che sono da un lato il fenomeno della
potenza e dall’altro il fenomeno del potere. Sono due parole che indicano due fenomeni molto differenti.
La potenza è, nello schema di Weber, quel fenomeno per cui una persona riesce ad imporre ad un'altra
persona un determinato comando a prescindere dalla volontà di quella persona di obbedire. Se un ladro,
un delinquente ci punta una rivoltella alla tempia e ci chiede di consegnargli il nostro portafoglio, questa è
una forma di relazione di potenza, ossia attraverso la forza qualcuno impone il proprio comando a qualcun
altro costringendolo ad agire in un determinato modo.
Il potere, invece, implica in colui che riceve il comando una disposizione ad obbedire. Mentre nel caso della
potenza c’è una relazione brutale di forza, in una relazione di potere c’è da parte di chi esegue il comando
c’è sempre la volontà di obbedire. Weber dice che in una relazione di potere chi obbedisce assume il
contenuto del comando come massima del proprio agire, ossia obbedisce in modo volontario. Quando si
pagano le tasse, si sta obbedendo a quel comando che ci chiede di pagare le tasse in maniera volontaria.
Quindi, il potere è un tipo di relazione tra individui che presuppone sempre una volontà di obbedire.
Diventa fondamentale la volontà di obbedire.
Ora, se per capire come funzionano i meccanismi del potere bisogna guardare ai meccanismi che
presiedono all’obbedienza, allora il ragionamento si sposta su un versante differente. Weber si chiede,
infatti, quali sono le principali ragioni che inducono gli uomini ad obbedire ed è per questa via che arriva a
classificare le forme del potere. Enumera diverse ragioni possibili dell’obbedienza che può essere dovuta
all’abitudine, all’ipotesi di una minaccia, all’interesse, ma dice che la ragione che spinge per davvero gli
uomini ad obbedire in modo costante e sistematico è la credenza nella legittimità di chi impone un
determinato comando. Tra le ragioni che spiegano l’obbedienza c’è innanzitutto questa credenza nella
legittimità di un determinato potere, per cui quando ragioniamo di potere, ragioniamo sempre di potere
legittimo. Il potere funziona nella misura in cui è potere legittimo.
Di conseguenza è proprio di questi poteri legittimi che bisogna occuparsi. Questi sono classificabili in diversi
modelli a seconda del tipo di credenza nella legittimità che essi presuppongono. Ragionando su queste
forme della credenza nella legittimità di un potere, Weber ne individua tre. Individua tre tipi puri del potere
legittimo. Che cosa vuol dire (?) Tipo puro è una specie di modello concettuale che non si trova mai nella
realtà nella coerenza che è propria del modello. Sono tre modelli che nella realtà concreta si possono
trovare in vario modo mescolati, però, dice Weber, è proprio ragionando su modelli astratti che noi
possiamo comprendere effettivamente la realtà. La storia e le scienze sociali si costruiscono attraverso
concetti, tipi ideali, che ci permettono di comprendere quanto poi la realtà concreta dei fatti dello sviluppo
storico, i rapporti di causalità, si dispongono effettivamente nella varietà della realtà storica. La storia si
costruisce attraverso i concetti, si parte sempre da un’ipotesi che poi si va a verificare nella realtà nella
misura in cui se uno si mette a studiare la realtà senza una bussola si muove attraverso una serie infinita di
dati che poi non è più in grado di ordinare. Per ciò che riguarda il potere, i concetti sono fondamentalmente
tre.
Il primo tipo puro del potere legittimo è il potere tradizionale, che può assumere diverse configurazioni ma
che in linea di massima è quella forma di potere che ha caratterizzato per un tempo lunghissimo i più
diversi gruppi sociali. E’ un potere ordinario che è in parte personale e in parte impersonale. Questo vuol
dire che è innanzitutto un potere che tende a riprodursi nel tempo, che tende ad avere una durata. Esso si
fonda sulla autorità dell’eterno ieri. E’ una forma di potere in cui c’è un signore che formula dei comandi e
viene obbedito non tanto per la sua persona ma perché attraverso il comando che egli sta formulando si
manifesta qualche cosa che si ritiene valido da sempre. Il signore, che può essere il detentore di un potere
patriarcale o la dinastia, viene obbedito nella misura in cui esprime nei suoi comandi qualche cosa che è
sempre stato in quel modo e che in quanto tale viene considerato legittimo. Quindi, si obbedisce ad una
persona concreta ma si obbedisce non alla persona vera e propria ma all’autorità tradizionale che
attraverso di essa si rivela. In questo senso il potere tradizionale è ordinario e al tempo stesso
personale/impersonale.
Diverso è il caso del potere razionale-legale. E’ un potere ordinario, cioè che tende a durare nel corso del
tempo, ma che ha al tempo stesso un carattere assai più fortemente impersonale. In questa relazione di
potere che, secondo Weber, ha il suo tipo puro nella burocrazia dello stato moderno, quindi è una forma di
potere che si manifesta da un certo punto in avanti nella storia, c’è non più un signore che formula il
proprio comando ma un superiore, una persona gerarchicamente sovraordinata ad altre che formula i suoi
comandi e viene obbedito facendo riferimento non più all’autorità dell’eterno ieri ma ad un cosmo di
regole statuite razionalmente, non una tradizione ma un cosmo di regole statuite razionalmente.
Il tipico esempio lo si trova nell’organizzazione gerarchica di un apparato militare in cui il tenente deve
obbedire al capitano nella misura in cui il capitano è un suo sovraordinato, ossia in una scala gerarchica a
prescindere dalla persona e in base a delle regole che lo stabiliscono razionalmente il capitano al comando
e chi gli sta sotto gli deve obbedire. La burocrazia, che secondo Weber è una forza onnipervadente, è il
luogo in cui si manifesta il tipo puro del potere razionale-legale. Attenzione, questo potere non è il potere
delle leggi contrapposte al potere delle persone ma è questo cosmo che incatena gli uomini in rapporti
gerarchici di sovra e subordinazione che fanno funzionare nella maniera più razionale possibile una
macchina amministrativa sia essa dello Stato, della Chiesa, dell’esercito, dei partiti.
Il terzo tipo di potere è il potere carismatico. E’ una relazione di potere di carattere straordinario da un lato
ed eminentemente personale dall’altro. E’ un potere che emerge in situazioni particolari di crisi ed è un
potere legato sempre ad una persona concreta, quindi in questo senso è eminentemente personale, che
viene creduta, viene obbedita per le sue presunte qualità straordinarie e che naturalmente si propone
come colui o colei che è in grado di affrontare e superare la situazione straordinaria di crisi. In questo caso
abbiamo non più un signore, non più un superiore, ma un duce. La parola duce da noi suona molto male ma
se facciamo riferimento all’Inglese le cose si appianano un po’ perché l’equivalente di duce è leader. I tipi
puri di questa figura del capo carismatico sono l’eroe, il profeta, il demagogo della città antica e in epoca
moderna il capopartito che viene ritenuto capace di cose eccezionali. Attenzione, il signore e il superiore
vengono obbediti perché esprimono e comandano in virtù di norme stabilite da una tradizione millenaria o
razionalmente, quindi se un capitano ordina ad un tenente una cosa che non sta né in cielo né in terra non
viene obbedito perché sta dando un comando che è al di fuori delle regole di ingaggio; un capo carismatico,
che non ha alle sue spalle né l’autorità dell’eterno ieri e nemmeno un cosmo di regole statuite
razionalmente, viene ritenuto tale e quindi obbedito attraverso un continuo meccanismo di prova e
riconoscimento, cioè deve dimostrare di essere effettivamente dotato di poteri straordinari e sulla base di
questa prova continua che il capo dà delle sue doti eccezionali viene ritenuto carismatico e dunque
obbedito, non c’è nessun cosmo di norme o di regole razionali o tradizionali su cui si può poggiare il suo
potere. Questo rende precario il potere del capo carismatico, se comincia a perdere guerre, elezioni e via
dicendo, il suo potere si dissolve nella misura in cui non viene più ritenuto dotato di quelle qualità che
fanno carisma. Per questa ragione, Weber dice che da un lato il potere carismatico è rivoluzionario, mette
in moto la storia perché si oppone a quelle due forme ordinarie di potere, è sempre un potere
rivoluzionario. Pensiamo a Gesù, una delle formule che più ricorrono nel nuovo testamento inizia sempre
con “E’ scritto ma io vi dico”, ecco così agisce il capo carismatico, dovete credere nella mia persona anche
se è scritto così per tradizione o per ragione. Dall’altro lato questa forma di potere tende ad avere una
durata limitata, è molto intenso ma al tempo stesso altrettanto effimero. Può dissolversi in due modi, da
un lato se il capo carismatico non è in grado continuamente di confermare le sue doti eccezionali, ossia se
perde alla lunga il suo potere tende ad evaporare; dall’altro, anche nel caso in cui il capo riuscisse a
mantenere le sue presunte doti eccezionali, c’è il problema della durata biologica della vita del capo,
essendo un potere eminentemente legato a quella persona che si ritiene eccezionale, quando quella
persona muore, la cosa finisce lì e si innestano alcune importanti trasformazioni del potere carismatico di
trasformazione del carisma in pratica quotidiana, ovvero di quotidianizzazione del carisma, che portano a
ritenere, per esempio, che le doti eccezionali del capo possano trapassare attraverso il sangue in una
dinastia, quindi alla credenza secondo cui la sua discendenza in quanto tale ha delle qualità straordinarie,
oppure può accadere che si sviluppi la credenza che quelle doti eccezionali trapassino nella istituzione a cui
il capo carismatico dà vita, il caso più spettacolare di questa quotidianizzazione del carisma è la Chiesa che è
ritenuta un’istituzione straordinaria che dispensa doni di grazia in virtù del fatto che le doti straordinarie di
Gesù sono passate in quell’istituzione che è in grado di dispensare beni di grazia. La prima forma di
trasformazione del carisma dà luogo al carisma del sangue, una successione ereditaria che spesso si
traduce in forme di potere di tipo tradizionale; la seconda dà luogo al carisma d’ufficio.
Il punto da fissare è che nella sua forma genuina il potere carismatico dura poco, è esposto a mille rischi di
evaporare e soprattutto con la morte biologica del capo scompare mettendo in moto altri meccanismi.
La politica moderna
Mettiamo il fuoco sulla conferenza “La politica come professione”. E’ il testo che tiene un po’ insieme gli
elementi di quella che possiamo considerare la teoria politica weberiana. Ci sono degli elementi di
contingenza, siamo dopo la fine della prima guerra mondiale, bisogna riorganizzare la Germania e Weber si
fa fautore di una repubblica di tipo presidenziale e questo gli è costata l’accusa di aver reso meno resistibile
l’ascesa del nazismo in Germania. Questi sono elementi contingenti perché in un’opera di un anno prima
sosteneva che la migliore forma di governo fosse la monarchia parlamentare. Scrostata da questi
riferimenti contingenti alla situazione tedesca, la conferenza è il testo che ci fa accedere alla teoria
weberiana della politica moderna.
Com’è strutturata questa conferenza (?) Innanzitutto il titolo “La politica come professione”. La parola
“professione” ha due significati diversi. Per un verso sta ad indicare il mestiere, il lavoro, l’attività
professionale e infatti Weber parla proprio del mestiere della politica; però sta ad indicare anche la
vocazione, la sfera più vocazionale della politica. Effettivamente questi due piani nello sviluppo complessivo
di questo testo sono presenti. Weber parla della politica come mestiere e si chiede che tipo di uomo
dev’essere colui che ha la vocazione per la politica.
Questa conferenza possiamo dividerla in tre parti. Una prima parte in cui Weber dà alcune definizioni
generali per inquadrare il problema della politica, prova a dire che cos’è la politica, che cos’è lo stato e quali
sono le forme del potere. Dopodiché Weber per la gran parte di questo testo si interroga sulla politica
come mestiere e fa prima una carrellata sui principali tipi di professionisti della politica, poi arriva a dire
che “oggi” la politica come professione si fa dentro i partiti e da lì sviluppa un discorso sulla democrazia.
Infine, dopo aver detto che in democrazia sono fondamentali i capi, i cesari, i dittatori del campo di
battaglia elettorale, si chiede quali sono le qualità che dobbiamo aspettarci da un uomo politico degno di
questo nome. Da questa domanda parte un discorso su etica e politica che viene richiamata ogni volta che
questo problema riemerge. Si apre la questione dei rapporti tra etica e politica.
Partiamo dalla prima parte. La definizione di politica non è particolarmente significativa. Weber spiega che
la politica è un’attività direttiva autonoma, in cui si esercita una direzione su un determinato gruppo di
uomini, che si svolge sempre nell’orizzonte dello stato. La politica ha sempre a che fare con lo stato. Che
cos’è lo stato (?) Formula una definizione che è rimasta celebre che recita esattamente così “Lo stato è una
istituzione ovvero una associazione di uomini che, entro i confini di un determinato territorio (e questo
riferimento al territorio è fondamentale), pretende con successo il monopolio della forza fisica legittima”.
Lo stato è quell’istituzione che pretende di esercitare in modo esclusivo, e questo vuol dire avere il
monopolio, l’uso della forza legittima. Lo stato è un’istituzione che pretende di avere il monopolio della
forza fisica legittima. Questa definizione deriva da un ragionamento preliminare, Weber dice che non
possiamo definire lo stato a partire dai fini che uno stato si propone nella misura in cui gli stati nel corso
della storia si sono posti gli obiettivi più diversi, possiamo definire lo stato solo attraverso il mezzo tipico
che lo stato ha a sua disposizione e questo mezzo è il monopolio della forza fisica legittima, nessuno può
usare legittimamente la forza se non lo stato, i membri dello stato oppure coloro a cui lo stato devolve
determinati poteri. E’ il mezzo della forza fisica legittima che definisce lo stato. Questo riferimento alla
legittimità richiama quello che abbiamo detto prima. A questo punto prende la definizione dello stato e
prova a trasformarla da fotografia ad una specie di filmato, cioè la sviluppa storicamente dicendo che lo
stato moderno, e qui coglie un processo storico estremamente complesso, nasce nel momento in cui un
principe riesce a espropriare i ceti aristocratici o feudali, che prima utilizzavano in proprio la forza, di quei
mezzi di amministrazione civili o militari che il principe concentra nelle proprie mani. Lo stato nasce da un
processo di concentrazione del potere amministrativo e del potere militare nelle mani di un principe, di un
sovrano. Questo è il meccanismo che ha dato origine allo stato e che poi ha prodotto lo stato come
istituzione che pretende il monopolio della forza fisica legittima. Ora, è proprio nel corso di questo processo
di formazione dello stato moderno, che è al tempo stesso un processo di espropriazione di quei ceti che
esercitavano in proprio poteri amministrativi e militari, che cominciano a comparire diverse figure di politici
di professione.
E’ qui che cominciano a fare la loro comparsa i mestieranti della politica, coloro che fanno della politica il
proprio mestiere. Qui Weber passa in rassegna una serie di figure che hanno fatto della politica la propria
professione e cita i chierici nel Medioevo, i letterati umanistici, i cortigiani, l’aristocrazia di corte, il ceto dei
giuristi, i giornalisti, passa in rassegna tante figure storiche fino a quando arriva al mondo contemporaneo e
dice che “oggi” la politica come professione la si esercita esclusivamente nei partiti politici. Introduce
questo tema dei partiti politici, che è un po’ il tema cruciale di questa conferenza nella misura in cui è
strettamente incrociato al tema della democrazia. Cosa dice Weber sui partiti politici (?) Distinguere tra
vivere per la politica e vivere di politica. Vivere per la politica vuol dire fare della politica il proprio
orizzonte ideale di vita, mentre vivere di politica significa far dipendere la propria vita materiale dai
guadagni che si possono ottenere attraverso la politica e non è che chi vive di politica è per forza un
disgraziato, anzi spesso è il contrario e dice in questo contesto che la politica come attività professionale
deve essere pagata perché altrimenti potrebbero fare politica solo coloro che hanno grandi risorse e tra
l’altro nemmeno i grandi capitalisti che devono seguire le proprie aziende, potrebbero fare politica i
latifondisti oppure coloro che vivono di rendite finanziarie, cioè persone che non devono lavorare.
Il punto è importante è questo fuoco sui partiti, luoghi in cui la politica “oggi” si esercita come professione,
Qui Weber introduce una distinzione tra due diversi modelli di partito. Da un lato c’è il partito dei notabili e
dall’altro il partito di massa ed è qui che si gioca tutta la faccenda. Qual è il discrimine (?) E’ il diritto di voto.
Weber dice che i partiti di notabilato sono partiti che si sviluppano quando ci sono le elezioni ma quando
ancora il suffragio è ristretto a pochissime persone, sono partiti che si sviluppano sul terreno del suffragio
ristretto e sono partiti per modo di dire nella misura in cui sono partiti di notabili, ossia persone eminenti,
ricche, colte, che non svolgono quotidianamente attività politica, sono partiti volatili che si formano
sostanzialmente quando si tratta di eleggere un candidato per farlo andare in parlamento, i notabili per
tutto il resto della loro giornata fanno altro, svolgono altri mestieri e poi quando ci sono le elezioni a
suffragio ristretto si attivano per sostenere la candidatura di qualcuno che vuole andare a rappresentare
loro stessi dentro le istituzioni rappresentative. La politica può essere praticata come una attività
secondaria da persone che fanno altre cose e che ad un certo punto si impegnano per sostenere qualcuno
che entrerà in parlamento. Questa è l’epoca d’oro dei parlamenti moderni nella misura in cui queste
persone estremamente indipendenti una volta che entrano in parlamento non devono rendere conto ad un
partito volatile che di fatto non c’è, quindi in quest’epoca il parlamento è per davvero il luogo delle
decisioni politiche, non ci sono partiti, che stanno fuori dal parlamento che tesserano milioni di uomini, che
hanno uffici, ma ci sono delle galassie di persone che sostengono dei candidati che entrano in parlamento e
poi si comportano da figure completamente indipendenti. Per capirci, noi restiamo sempre un po’
disturbati dal famoso trasformismo di Depretis, che si manifesta in un’epoca in cui non ci sono ancora i
partiti, ma ci sono delle galassie di opinioni, di uomini che stanno in parlamento come personalità
indipendenti, che possono stare da una parte oppure dall’altra, quindi quel trasformismo si manifesta in
una condizione in cui destra e sinistra storica sono partiti notabilari ed è questa la situazione di cui parla
Weber, è una situazione in cui il parlamento è l’unico luogo in cui si manifesta la volontà politica. Tutto
cambia con l’avvento della democrazia, quando arriva la democrazia, ossia quando arriva il suffragio
allargato o universale, questa situazione idilliaca dei partiti di notabilato cambia totalmente. Succedono
sostanzialmente quattro cose.
Primo, arrivano i partiti veri e propri. Quando arriva la democrazia i partiti di notabilato tendono ad
eclissarsi e arrivano i partiti veri e propri, i partiti organizzati di massa. La democrazia quando si arriva si
manifesta come democrazia dei partiti. I partiti, mentre prima erano gruppi persone che sostenevano una
volta ogni tot tempo la candidatura di qualcuno, adesso diventano delle strutture solide, non sono più
leggeri ma diventano pesanti, diventano delle macchine da guerra che hanno il compito di disciplinare le
masse, di costruire il consenso di milioni di persone e dunque diventano delle strutture super solide, si
devono radicare sul territorio, devono mettere sedi ovunque dove devono lavorare dei funzionari che
tengono aperte la sede, che organizzano la sessione, bisogna organizzare la propaganda di massa, che vuol
dire fondare dei giornali, pagare dei giornalisti perché facciano questo mestiere, bisogna insomma creare
una struttura possente che ha bisogno di tante risorse economiche per funzionare e da qui il tesseramento
degli iscritti ai partiti, il tesseramento nasce con i partiti di massa e fornisce al partito un contributo
finanziario con cui si pagano i giornalisti, le sedi entro cui si fa politica giorno per giorno. I partiti diventano
il luogo in cui si esercita un mestiere quotidiano, la politica diventa un’attività primaria che si esercita
dentro i partiti stessi.
Seconda conseguenza, spariscono le vecchie aristocrazie degli uomini colti e ricchi ma questo vuol dire che
sono le masse a decidere tutto (?) Si arriva al potere del popolo (?) Nemmeno per idea, cambia l’oligarchia
che ha in mano le redini della politica. Se prima erano i notabili a tenere in mano le redini del potere,
adesso chi le tiene sono i mestieranti della politica, le oligarchie dei professionisti della politica che
lavorano dentro i partiti. Viene fuori un’oligarchia di mestieranti della politica che tiene in mano le redini di
tutto l’agire politico. Nei partiti ci sono sempre i simpatizzanti, che semplicemente vanno a votare, i
militanti, che distribuiscono il volantino, attaccano il manifesto, poi ci sono gli ufficiali che sono sempre
nelle sedi, organizzano i dibattiti e poi c’è la segreteria del partito dove c’è un leader col suo staff ed è lì che
si prendono le decisioni. Questa struttura gerarchica non è dettata da nessuna legge, semplicemente chi si
dedica costantemente a questa attività può entrare a far parte di quella ristretta oligarchia di mestieranti
della politica che rappresenta quella classe di persone che nell’epoca della democrazia detiene le redini del
potere.
Succede ancora un’altra cosa, i partiti, che hanno come scopo quello di vincere le elezioni tendono a
sottomettersi a leader dotati di forti capacità demagogiche che sanno incendiare le masse, conquistarne il
consenso e farsi votare e questo è naturale nella misura in cui un partito che non ha un leader plebiscitario
è un partito che perde, che non ha nessuna ragion d’essere e dunque la democrazia assume sempre più
tratti cesaristico-plebiscitari, diventa sempre più il luogo in cui si lascia spazio a quelli che Weber chiama i
dittatori del campo di battaglia elettorale, ossia coloro che sanno imporsi nel campo di battaglia elettorale.
La politica con l’avvento della democrazia assume inevitabilmente un carattere cesaristico-plebiscitario.
Quarta conseguenza, termina l’epoca d’oro del parlamentarismo moderno. Ancora oggi siamo abituati a
pensare il parlamento come la cattedrale dentro cui si prendono le decisioni politiche, Weber fa vedere
come ormai i parlamenti non siano nient’altro che la cassa di risonanza di decisioni che vengono prese
altrove, che vengono prese nelle segreterie dei partiti. Il parlamentare diventa una figura di seconda
istanza e i parlamenti sono semplicemente quei luoghi in cui le decisioni prese nei partiti vengono validati
da un voto parlamentare. Weber dice che i parlamentari mentre prima erano il cuore dell’agire politico,
ora non sono altro che un gregge di votanti ben disciplinato. Non devono avere grandi qualità, devono
essere semplicemente fedeli al partito e votare in parlamento secondo le indicazioni dei partiti. Nel nostro
parlamento spesso i parlamentari non sanno di cosa stanno parlando ma c’è sempre una figura di
funzionario di partito parlamentare che indica ai suoi parlamentari se votare a favore o contro o astenersi. I
parlamentari diventano un gregge di votanti ben disciplinato e termina l’epoca d’oro del parlamentarismo.
Certo, i parlamenti mantengono un ruolo fondamentale perché sono il luogo in cui si può esercitare un
controllo consapevole sull’operato del governo, sono delle palestre per la formazione degli uomini politici,
anche un dilettante allo sbaraglio buttato dentro ad un parlamento impara un sacco di cose, cresce, matura
dal punto di vista politico e si addestra. Quindi, i parlamenti per Weber hanno un ruolo importante come
controllo dell’esecutivo e come palestra politica ma non è più al loro interno che si prendono le decisioni
politiche, che si prendono nei partiti, rispetto ai quali i parlamentari hanno una specie di mandato
imperativo. Quando arrivano i partiti di massa, il deputato non vota più secondo la propria coscienza al
servizio dell’interesse generale, ma vota secondo le indicazioni dei partiti politici nell’interesse dei partiti
politici stessi e quindi cambia completamente la dinamica della politica moderna.
Etica e politica
Dopo aver insistito soprattutto sul ruolo del leader, del grande capo partito, nel nuovo assetto democratico
della politica Weber si chiede quali qualità deve avere un leader politico degno di questo nome e dice
subito che un uomo politico deve possedere tre grandi qualità. Primo, deve avere una causa nella misura in
cui se fa il politico per pura ricerca del potere, per vanità, è un politico che non vale niente, un grande
uomo politico è sempre un uomo che si pone al servizio di una causa quale che sia.
Deve poi avere un senso forte di responsabilità nei confronti di questa causa stessa e quindi deve avere
una capacità di avvicinarsi ai suoi obiettivi in maniera responsabile e ancora deve possedere la dote della
lungimiranza, non deve ragionare sui risultati immediati ma deve saper sviluppare il proprio agire in
maniera lungimirante badando sempre ai grandi paradossi etici che l’agire politico impone. E’ qui che
Weber introduce dei rapporti tra etica e politica. Dice che i rapporti tra etica e politica sono rapporti
sempre di grandissimo attrito per una ragione molto semplice, ossia la politica ha a che fare in ultima
istanza sempre con la forza, con la violenza, con la simulazione, la dissimulazione, tutta una serie di cose
che dal punto di vista etico sono sempre molto sospette. Dice che chi fa politica stringe un patto con
potenze diaboliche, esiste una tensione profonda tra etica e politica, soprattutto se intendiamo l’etica nel
senso cristiano del termine, si può porgere l’altra guancia se un nemico mi invade (?) Bisogna sempre dire
la verità (?) Nemmeno per idea, bisogna saper mentire quando è necessario. Tuttavia, anche la politica ha
una sua etica, non si muove in un orizzonte completamente privo di etica, anzi Weber dice che l’etica del
politico è spesso assai più impegnativa e forte di quella del singolo uomo che vive nella sua dimensione
individuale. Ad ogni modo Weber dice che ci sono due modi di agire etico in politico, che sono l’etica dei
principi e l’etica della responsabilità. La politica ha una sua propria etica che può essere o dei principi o
delle responsabilità. L’etica dei principi o della convinzione o dell’intenzione è quell’etica di chi agisce
badando soltanto ai propri ideali, per tenere accesa la fiamma dei propri ideali e in nome di questi ideali
non calcola le conseguenze prevedibili del proprio agire. Al pacifista non interessa l’uso della forza e non
calcola le conseguenze prevedibili di questa azione. Se le cose vanno male, la colpa non è mia che ho tenuto
la barra dritta sui miei ideali, la colpa è del mondo che fa schifo che è irrazionale dal punto di vista etico, la
colpa è dell’irrazionalismo etico del mondo. L’etica della responsabilità è l’etica di chi calcola le
conseguenze prevedibili del proprio agire a costo di entrare in contraddizione con le sue convinzioni, è
l’etica di chi è disposto a scendere a compromessi con i propri ideali pur di mettere in sicurezza il destino
della propria comunità politica ed è l’etica soprattutto di chi si assume la responsabilità del proprio agire. Io
calcolo le conseguenze prevedibili delle mie azioni, piego i miei ideali alle esigenze della realtà e mi assumo
le responsabilità delle mie azioni invece di scaricarle sull’irrazionalismo etico del mondo. Weber propende
per questa etica, specificando però che non è affatto un’etica priva di principi, c’è un punto oltre il quale chi
assume l’etica della responsabilità non scende, cioè se va troppo contro i propri principi bisogna saper dire
no altrimenti sarebbe un’etica del puro compromesso.
Schumpeter
1883-1950
L’opera più importante a cui facciamo riferimento è “Capitalismo, socialismo e democrazia” del 1942. Ne
indichiamo anche un’altra importante per gli studi politici, “Sociologia degli imperialismi” del 1919.
Quest’ultima è un’opera che S. scrive durante il primo conflitto mondiale. E’ importante perché rappresenta
l’esatto capovolgimento della tesi di Lenin fissata nel libro “L’imperialismo fase suprema del capitalismo”
nel quale Lenin sosteneva che l’imperialismo e la guerra erano il frutto del capitalismo maturo, cioè per
Lenin il capitalismo quando è pienamente sviluppato non è in grado di riprodursi pacificamente e da qui la
guerra mondiale, che Lenin immaginava di poter trasformare da guerra tra nazioni in guerra internazionale
di classe per dare l’avvio alla rivoluzione proletaria mondiale. Questa la tesi di Lenin, è il capitalismo che
produce l’imperialismo e dunque la guerra. Ecco, S. sostiene la tesi opposta, secondo cui il capitalismo non
ha nulla a che fare con la guerra, è per sua natura pacifico e se è scoppiato il grande conflitto mondiale, la
Grande Guerra, questo è da ascriversi alla persistenza alla testa delle grandi potenze europee, in
particolare della Germania, di strati sociali precapitalistici ma il capitalismo in quanto tale è
sostanzialmente pacifico, l’imperialismo e la guerra sono per S. residui atavici o anacronismi che
appartengono ad un’epoca trascorsa. E’ una tesi che richiama le tesi di Kant sullo spirito del commercio che
fatalmente pacifica le relazioni internazionali.

Gettiamo uno sguardo molto rapito a “Capitalismo, socialismo e democrazia” nella quale S. negli ultimi
capitoli affronta in maniera diretta il tema della democrazia in due capitoli fondamentali di quest’opera,
fissando quello che poi è diventato un canone delle teorie della democrazia del secondo Novecento, è un
canone che viene ripreso da Bobbio nelle sue riflessioni sulla democrazia procedurale e da autori americani,
tra cui Robert Dahl e Samuel Hantinton. E’ un canone che ha spostato su un terreno completamente
diverso la riflessione sulla democrazia, in qualche modo riprendendo in chiave democratica alcuni pezzi
fondamentali della teoria dell’élite, in particolare la teoria dell’avvicendamento al potere dell’élite così
come era stata formulata in modo particolare da Mosca e in termini più generali anche da Pareto.
In questi due capitoli, S. prima critica la dottrina classica della democrazia e poi elabora una nuova teoria
della democrazia. Smonta la dottrina classica sostanzialmente facendo riferimento alle teorie che
potremmo definire etimologiche della democrazia, ossia che interpretano le democrazie come il governo
del popolo. Cosa dice contro queste teorie (?) Spiega come le due nozioni che stanno al centro di questa
teoria, cioè la nozione di bene comune e la nozione di volontà generale siano prive di qualsiasi
fondamento. Cos’è il bene comune e in che cosa può consistere la volontà generale (?) Sono nozioni
metafisiche, che non hanno nessun fondamento nella realtà nella misura in cui tutte le società non sono
attraversate da nessuna volontà generale, ci sono volontà di gruppi contrapposti, di uomini che hanno
visioni del mondo diverse e che quindi immaginano il bene comune di una determinata società in maniere
differenti, le società sono strutturalmente pluralistiche, dunque parlare di potere del popolo, potere
indirizzato alla costruzione del bene comune, indirizzato ad esprimere una volontà generale, sono nozioni
che a suo giudizio non hanno alcun senso. Demolite le teorie classiche della democrazia come governo del
popolo, S. non intende opporre alla teoria democratica una nuova teoria antidemocratica, intende
piuttosto provare a riformulare in maniera realistica una teoria della democrazia, cioè mantiene la parola
“democrazia” e ne cambia il significato. Dice che la democrazia una volta spogliata di quest’aura
fondamentalistica esagerata di governo del popolo, può essere intesa come un metodo per giungere a
decisioni politiche che si basa sostanzialmente sul meccanismo elettorale, cioè sul principio del consenso
che il popolo riconosce di volta in volta a élite, a leader politici, a gruppi politici diversi, attraverso elezioni
libere e periodiche. La democrazia consiste essenzialmente nelle elezioni, nella dinamica elettorale. Si può
considerare democratico un regime in cui ci siano libere elezioni e in cui competono per il potere più forze
politiche, almeno due. Quindi, è un metodo per arrivare a decisioni politiche che si basa sul principio delle
libere elezioni plurali e periodiche. Questo è un concetto procedurale e competitivo della democrazia. La
democrazia è una procedura competitiva che porta a formare quei soggetti che detengono nelle proprie
mani il potere di decidere. Il popolo rimane un soggetto essenziale, ma non è mai il popolo che si
autogoverna, il popolo sceglie quelle élite che poi prendono decisioni politiche. Naturalmente questo
meccanismo può andare incontro a forti distorsioni, la propaganda elettorale, i meccanismi pubblicitari
attraverso cui si svolgono le elezioni moderne possono alterare questa procedura competitiva, ma a
conferire a qualcuno il potere di decidere è sempre il popolo. S. che è un economista paragona il mercato
politico al mercato economico. Come nel mercato economico vale la legge della domanda e dell’offerta,
così nel mercato politico, in cui c’è da un lato l’offerta politica delle élite che si mettono in campo per
realizzare programmi, visioni del mondo, per difendere interessi di una certa classe piuttosto che di un'altra
e dall’altro ci sono i cittadini che acquistano, che mettono in campo una domanda di politica che si risolve
nella scelta di una qualche élite governante, ma il punto è che a governare sono sempre élite, la cosa
importante è che siano scelte dal popolo e che siano plurali nella misura in cui dove non c’è il pluralismo,
non c’è la democrazia. Se c’è una sola élite del potere, allora non siamo in democrazia.
Samuel Hantinton nel 1990 ha scritto un libro molto importante, “La terza ondata della democratizzazione”
che è un libro che ha avviato una riflessione sulle transizioni dai regimi autoritari ai regimi democratici. La
tesi è che dalla metà degli anni Settanta fino agli anni Novanta quando cominciano a cadere i regimi
comunisti nell’Est europeo ci sarebbe stata una ondata di processi di democratizzazione, cioè di passaggi
dai sistemi autoritari a sistemi pienamente democratici. Cosa usa per misurare il grado di democraticità di
un regime (?) Usa lo schema di S. dicendo che noi possiamo parlare di democrazia laddove ci sono libere
elezioni. Hantinton subito dopo aver detto che democrazia = elezioni, dice che se queste elezioni danno
troppo potere a chi le vince, allora non siamo più in democrazia. Poi introduce una seconda specificazione,
bisogna fare attenzione che coloro che vincono le elezioni e quindi ottengono il potere di decidere non
devono essere marionette nelle mani di forze, di soggetti, che non siano a loro volta stati eletti. Quindi, da
un lato il rischio del potere esorbitante, dall’altro il potere delle marionette.
Tutti è due estremamente attuali, per quanto riguarda il secondo siamo in un’epoca in cui il vero potere di
decidere non è più nelle mani di chi fa politica, di chi viene eletto, ma è nelle mani di coloro che governano
le grandi imprese multinazionali, delle tecnoburocrazia, della grande finanza internazionale, tutti soggetti
che condizionano la vita concreta delle persone e che non sono eletti da nessuno. Molti governi di questi
ultimi anni su scala planetaria sono stati nelle mani di queste forze impersonali, non elette, politicamente
irresponsabili, è un po’ il destino che si è abbattuto su tutti i sistemi politici nell’età della globalizzazione.
Già la teoria di S. indebolisce molto il concetto di democrazia, perché la democrazia non è più il governo del
popolo ma di quelle élite che ottengono il consenso del popolo, ma noi oggi siamo ben oltre. Oggi ci
troviamo in una situazione in cui ci sono le libere elezioni periodiche ma poi chi governa o concentra nelle
sue mani troppi poteri, come è accaduto in molti regimi democratici ma fortemente personalistici in questi
ultimi anni, oppure governano persone che in realtà sono marionette mosse dalle grandi forze impersonali,
incontrollabili, politicamente irresponsabili della globalizzazione.
Quindi, siamo in un orizzonte che va al di là dello stesso Schumpeter. Citiamo qui un libro di Colin Crauch
dell’inizio del 2000 che si intitola “Post democrazia”. La sua tesi è che oggi nei paesi più sviluppati di
tradizione democratica tutte le istituzioni formali della democrazia restano in piedi, eppure c’è qualcosa
che non va, cioè non sono né il popolo, né l’élite scelte dal popolo a governare, ma forze che trascendono la
dimensione statal-nazionale. Per esempio, ogni anno uno stato deve fare il bilancio, quando si arriva a
quella resa dei conti i governi guardano non più tanto al gradimento dei cittadini, ma guardano al
gradimento dei mercati. Dopo che si è fatta una legge di bilancio il timore è quello del giudizio dei mercati,
che hanno il potere di mettere in ginocchio qualsiasi paese del mondo tramite una spinta aggressiva ed
ostile. E’ una forza strepitosa, inaudita che ci getta in un contesto molto diverso da quello entro cui
abbiamo tradizionalmente ragionato sui sistemi democratici.
Un’altra considerazione, quest’idea secondo cui la democrazia consiste semplicemente nell’esistenza di
libere elezione è una cosa che abbiamo dentro di noi, non riusciamo a sganciare il concetto di democrazia
dal concetto delle elezioni. Citiamo qui un libro di Manin intitolato “Principi del governo rappresentativo”
che fa la storia della democrazia e fa vedere come questa nostra convinzione secondo cui la democrazia
coincide col processo elettorale si è affermata solo alla fine del Settecento nella misura in cui prima di
allora è stata sempre associata non alle elezione ma al sorteggio, cioè gli autori classici da Platone fino a
Madison ritenevano che lo strumento principe del funzionamento di una democrazia fosse il sorteggio
perché il fatto che venga estratto per governare x sta a significare che noi siamo eguali, uno vale uno, è il
sorteggio il vero strumento della democrazia perché le elezioni tendono a produrre delle élite, ossia a far
prevalere coloro che si distinguono dagli altri. Il sorteggio sta ad indicare quell’uguaglianza sostanziale delle
persone che è alla base della teoria classica della democrazia.
Un altro libro che prova a riproporre oggi seriamente questo tema del sorteggio è di Van Reibruch che si
intitola “Contro le elezioni”. L’autore è un anarchico che ritiene che se oggi le democrazie sono così post
democratiche, non funzionano, sono inefficaci, sempre più percepite come illegittime, la colpa di tutta la
crisi contemporanea della democrazia è da ricercarsi nelle elezioni e quindi propone un ritorno ai
meccanismi del sorteggio come strumento per ridare vigore alle democrazie contemporanee.

K. Polany
1886-1964
E’ un autore straordinario, uno scrittore talentuoso e un personaggio interessante perché si muove su
diversi orizzonti disciplinari, la storia, l’antropologia, l’economia, le scienze sociale. E’ un intellettuale
progressista, vicino al socialismo ma non marxista, molto prossimo al laburismo inglese. Scrive un sacco di
libri e nel 1944 scrive questo grande testo, “La grande trasformazione”.
E’ un libro che ci dà delle chiavi di lettura importanti per comprendere il mondo attuale anche se per molti
aspetti è un libro superato. Lo scopo di questo testo è quello di spiegare sostanzialmente quella grande
trasformazione che si verifica in Europa negli anni Trenta e Quaranta del Novecento che ha portato al New
Deal, al nazismo, al fascismo, allo stalinismo. Cerca di spiegare le radici di quello che ha sotto gli occhi nella
prospettiva che si poteva avere negli anni Quaranta di tutti questi processi.
La sua tesi è che negli anni Trenta del Novecento si è verificato un vero e proprio collasso, una vera e
propria crisi della civiltà del XIX secolo. Tutto quello che si è costruito dall’Ottocento in avanti, tutta una
serie di cose che hanno segnato in profondità gli equilibri della storia contemporanea collassano negli anni
Trenta del Novecento, prendendo come riferimento i due grandi catastrofici eventi che sono stati la Grande
Depressione del 1929 e poi il secondo conflitto mondiale.
Questi due eventi e le risposte che ad essi sono state date hanno segnato il collasso definitivo della civiltà
del XIX secolo. Una civiltà che era fondata su quattro essenziali elementi. In primo luogo entra in crisi il
meccanismo dell’equilibrio delle potenze, che aveva garantito una pace di cento anni tra il 1815 e il 1914;
entra in crisi il sistema aureo, ossia il gold standard che aveva permesso una inaudita unificazione
dell’economia mondiale; entra in crisi soprattutto l’economia di mercato e in particolare l’idea dei mercati
che si autoregolano, dei mercati autoregolantesi che sono stati a suo giudizio il vero motore della civiltà
dell’XIX secolo; entra in crisi anche lo stato liberale, tipico prodotto a suo giudizio istituzionale del mercato
che si autoregola, lo stato liberale è concepito come lo stato minimo, lo stato che fa il guardiano notturno
della borghesia, che non interviene se non minimamente nei meccanismi dell’economia e della
redistribuzione delle ricchezze. Questi quattro elementi costituivano il cuore della civiltà dell’XIX secolo e
collassano negli anni Trenta del Novecento. Questo è l’oggetto dell’argomentazione di Polanyi.
Ora, Polanyi per spiegare la crisi della civiltà dell’XIX secolo mette in campo due argomenti essenziali che
aprono un orizzonte enorme di riflessione. Il primo è che per comprendere l’avvento dei fascismi, dello
stalinismo, il New Deal, bisogna non guardare a fatti contingenti, immediati, ma risalire alle radici di quella
civiltà dell’XIX secolo che si possono trovare nell’Inghilterra ricardiana, cioè nell’Inghilterra che viene
riplasmata per prima tra Sette e Ottocento dall’avvento della rivoluzione industriale e soprattutto
dall’avvento dell’economia di mercato. Per capire perchè arrivano i fascismi, il New Deal, eccetera…
bisogna fare un salto indietro e andare a studiare che cosa accade nell’Inghilterra della rivoluzione
industriale con la nascita dell’economia di mercato.
Al tempo stesso, per capire quale devastante sconvolgimento sociale, economico, ha prodotto l’avvento
dell’economia di mercato al principio dell’Ottocento, bisogna ulteriormente allargare il campo
d’osservazione e provare ad osservare in termini generali come si sono configurati nella storia dei gruppi
sociali, delle comunità umane, dei popoli, i rapporti tra economia, società e politica.
Per capire gli anni Trenta del Novecento, dobbiamo risalire all’Inghilterra del primo Ottocento e per capire
che cosa è successo nell’Inghilterra del primo Ottocento, ossia quale enorme novità è stata introdotta con
l’avvento dell’economia di mercato, bisogna guardare a tutto campo come si sono tradizionalmente
configurati i rapporti tra economia, società e politica nella storia del genere umano.
E’ proprio questa seconda mossa che rende questo libro davvero ricchissimo nella misura in cui è attraverso
questa seconda mossa che Polanyi parla un po’ di tutto, dell’Inghilterra dei Tudor, di un libro di Malinovski,
si occupa delle comunità primitive, del colonialismo europeo in Africa e chiama in causa un numero
impressionante di autori che hanno riflettuto su questo nesso tra economia, società e politica. E’ un
gigantesco affresco, ragionamento sui modi di funzionare dell’economia nel suo rapporto con la società e
con la politica prima e dopo l’avvento dell’economia di mercato.
In estrema sintesi, quello che Polanyi ci mostra è che fino all’XIX secolo i meccanismi economici sono
sempre stati subordinati alla politica, alla religione e soprattutto ai rapporti sociali. L’economia è il prodotto
della società, è la società che imprime il suo marchio sui modi di funzionamento dell’economia. L’economia
è incorporata e subordinata alla società e i principi che governano in senso ampio il funzionamento
dell’economia sono la reciprocità, la redistribuzione delle risorse e poi l’economia domestica, ossia la
produzione per l’uso proprio oppure del proprio gruppo di riferimento.
Quindi, fino all’XIX secolo nei contesti più diversi l’economia è sempre stata subordinata, si è sviluppata in
funzione dei rapporti, è sempre stata incorporata dalla società e dalla società si è fatta dettare i suoi
principi.
A partire dal XIX secolo quando arriva la rivoluzione industriale e la divisione del lavoro arriva l’economia di
mercato, cioè si afferma l’idea che diventa una specie di religione secolare portata avanti da alcuni
intellettuali che vanno da Malthus, da Ricardo fino al Novecento e oltre. Si rovescia il meccanismo e si
afferma la credenza secondo cui questo rapporto va invertito, cioè è l’economia che deve dettare le sue
leggi alla società. La logica dell’economia si impone e ha il primato sulla logica dei rapporti sociali. Questa
teoria dell’economia di mercato ha la sua espressione più pura nell’idea del mercato si autoregola, cioè le
leggi dell’economia diventano le leggi della società e la vita sociale dell’uomo è ridotta ad una finzione del
mercato, diciamo nell’idea presunta o immaginaria che in base al principio della cosiddetta mano invisibile
per cui ognuno perseguendo il proprio profitto, agendo per il proprio interesse, fa il bene della società ne
sarebbe derivata una diffusione crescente del benessere. In questo processo la terra, dice Polanyi, cioè la
natura, il lavoro, cioè l’uomo e la moneta, che originariamente era concepita come un semplice mezzo di
scambio, diventano merci il cui sviluppo, la cui circolazione, sono regolate dall’idea del mercato capace di
riprodursi da sé e che deve imporre alla società le sue leggi. Non è più la società che governa l’economia,
ma è l’economia che governa la società. La terra, il lavoro, la moneta, diventano delle merci e prende corpo
quella astrazione di cui poi si è tanto discusso nella teoria economica successiva, dell’uomo economico,
orientato al profitto, al guadagno, alla ricchezza, che è un po’ il fulcro di questa concezione.
Ora, questa grande bugia secondo Polanyi, che è l’economia di mercato, il mercato che si autoregola, è una
bugia innanzitutto nella misura in cui non è vero che il mercato si autoregola, ha sempre bisogno che lo
stato, che la politica e dunque che la società abbattano delle barriere, impongano delle regole, ma la cosa
più importante è che lasciato a se stesso questo meccanismo dell’economia di mercato che diventa società
di mercato produce dei costi sociali altissimi. L’economia di mercato è tale da distruggere l’uomo e il suo
ambiente, asservendo la società alle sue gelide logiche tende a distruggere l’uomo e il suo stesso ambiente
naturale e da qui, con l’avvento dell’economia di mercato, si produce un doppio movimento. Questo teoria
del doppio movimento è proprio il cuore della tesi di Polanyi. Che cosa succede (?)
Da un lato c’è il movimento di assoggettamento della società alle logiche del mercato, che sono logiche
insocievoli perché hanno dei costi sociali enormi, dall’altro lato, ed è questa la cosa importante, a fronte di
questa spinta all’assoggettamento della società da parte del mercato si sviluppa un contro movimento di
difesa della società dai pericoli e dalle instabilità del mercato, che si manifesta essenzialmente sul terreno
di un ritorno robusto a tratti violento con implicazioni antidemocratiche al controllo e alla regolazione dei
meccanismi economici da parte della politica e dello stato. La storia di tutto l’Ottocento e fino agli anni
Trenta del Novecento, la storia della civiltà dell’XIX secolo è presa tra questi due mostri, tra queste due
spinte contraddittorie, i mercati che vogliono assoggettare le società, le società che si difendono che
cercano di ristabilire il controllo della società sui meccanismi di riproduzione economica, attraverso un
ritorno in grande stile delle politiche economiche governate dallo stato. Sono due tendenze entrambe
distruttive. La prima tendenza porta direttamente alla distruzione della società, ma il secondo movimento
di difesa della società finisce a sua volta per disarticolare i meccanismi della produzione e mette così in
pericolo la società in un altro modo. La civiltà dell’XIX secolo è stata stritolata da queste due spinte
contraddittorie che alla fine l’hanno distrutta.
Che cosa è successo (?) Il principio dell’economia di mercato ha avuto dei costi sociali spaventosi, si è
attivato il meccanismo di difesa della società ed è successo e poco per volta si sono diffuse le legislazioni
sociali, la difesa sindacale e anche politica dei lavoratori, ha cominciato a diffondersi il protezionismo,
quindi all’idea del libero scambio delle merci che mette in ginocchio interi paesi si comincia a contrapporre
l’idea di alzare le tariffe doganali, si scatena la corsa alle colonie, trionfano gli imperialismi e si arriva alla
prima guerra mondiale che mette fine tanto per cominciare a quel balance of power che costituiva uno dei
pilastri della civiltà dell’XIX secolo. Il momento davvero di svolta si ha quando arriva la Grande Depressione
del 1929, che ha mostrato in maniera estrema il carattere distruttivo dell’economia di mercato, è stata una
crisi che ha fatto emergere in maniera lampante, ha prodotto, quei fenomeni di difesa della società che si
sono materializzati in forma democratica con il New Deal, che comincia ad introdurre i principi del Welfare
State, i principi dello stato imprenditore che sostiene e finanzia grandi opere pubblica nel contesto di una
democrazia che continua funzionare, ma in Europa e soprattutto in Germania la difesa della società ha
prodotto il nazismo, quindi una forte reazione dello stato interventista, del cosiddetto capitalismo diretto
dall’alto, dallo stato, che ha avuto ancora un’ulteriore manifestazione in un contesto molto diverso nel
passaggio dell’Unione Sovietica alla dittatura staliniana. Sono fenomeni molto diversi New Deal, stalinismo
e nazismo, ma che tradiscono tutti quanti quella spinta a sua volta distruttiva, New Deal escluso, prodotta
dalla difesa della società. Si rialzano le barriere doganali, gli stati entrano in tensione tra di loro e si arriva
alla seconda guerra mondiale.

Infondo quello a cui noi oggi stiamo assistendo dagli anni Ottanta ad oggi è esattamente quello che Polanyi
descrive, cioè c’è stato un momento in cui a partire dagli anni Novanta i mercati cominciano di nuovo ad
esercitare un ruolo pesantissimo nella vita delle società contemporanee, si arriva ad una grande crisi, quella
del 2008, paragonabile a quella del ’29 e si sviluppano in relazione a questi meccanismi distruttivi spinte di
difesa della società. Se ci guardiamo intorno, i populismi che abbiamo visto esplodere un po’ dappertutto,
prestiamo attenzione al successo del Movimento 5 Stelle, della Lega, i movimenti sovranisti in Francia e
nell’Europa del Nord, alla Brexit, all’elezione di Trump, alle ultime due elezioni del parlamento europeo che
hanno portato in quella sede fortissimi movimenti sovranisti, gente che vuole il protezionismo, che vuole
alzare le barriere. Ci stiamo ritrovando per una seconda volta nella situazione che Polanyi in qualche modo
ha cercato di descrivere, quindi la spinta al mercato mondiale unificato che si autoregola, la spinta alla
difesa della società che, ecco la differenza, all’epoca di Polanyi si è tradotto in un rigurgito di ogni potenza
dello stato e allora lo stato c’era, esercitava un ruolo importante come è stato in Italia, in America,
nell’URSS e in Germania. Oggi la situazione è diversa nella misura in cui da un lato ci sono le logiche globali
di mercato, dall’altro c’è la spinta alla difesa della società che tuttavia si scontra con la crescente impotenza
dello stato e della società nel contesto dei processi di globalizzazione, cioè abbiamo lo stesso meccanismo
che Polanyi ha individuato, il doppio movimento, in un’epoca in cui gli stati non contano più come una
volta, tranne alcune eccezioni come la Cina, quindi la stessa difesa della società risulta essere totalmente
inefficace.

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