Diritto Pubblico in Europa
Diritto Pubblico in Europa
Diritto Pubblico in Europa
Esame: esame scritto con due domande aperte (una domanda per ogni modulo). Nel caso fosse a distanza, l’esame sarà
orale. È previsto un pre-appello.
PRE-APPELLO: 13 dicembre
Giovedì 22 Settembre
Per forma di stato si intende un’organizzazione (lo stato) che si è affermato in Europa nel periodo compreso tra il ‘600 e
il ‘700. La consacrazione vera e propria della centralità dello stato si ha con il Trattato di Vestfalia (1648).
Secondo Mortati (costituente democristiano) lo Stato è un ordinamento giuridico a fini generali esercitante il potere
sovrano su un determinato territorio. Qui sono subordinati in modo necessario i soggetti ad esso appartenenti. Nella
definizione offerta da Mortati gli elementi centrali sono: ordinamento giuridico, potere sovrano su un territorio e soggetti
subordinati a questo territorio.
Weber invece definisce lo stato come quell’ente che ha il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica nell’ambito di
un determinato territorio.
Considerando queste definizioni, è possibile individuare gli elementi “classici” che costituiscono lo Stato: il popolo, il
territorio e la sovranità.
Il popolo è il cosiddetto “elemento personale” dello stato: il popolo viene identificato come insieme di tutti
coloro che posseggono lo stato giuridico di cittadino;
Il territorio è invece il cosiddetto “elemento materiale”: esso comprende lo spazio terrestre chiuso dai confini,
lo spazio aereo, il sottosuolo e una parte di mare territoriale. Il territorio comprende anche lo spazio
“extraterritoriale” (ossia le sedi delle ambasciate, i consolati e le navi da guerra);
La sovranità è infine il cosiddetto “elemento giuridico”: la sovranità oggi risiede nel popolo, ma nel corso
dell’evoluzione delle forme di stato è stata posta, in alcuni casi, nell’autorità divina e in altri casi è stata definita
“sovranità nazionale”. Oggi si ragiona sul concetto di “sovranità popolare”.
Le definizioni di forme di stato sono plurime, e variano a seconda degli elementi che si intendono mettere in risalto:
1. Una prima definizione di “forma di stato” pone l’accento sul modo in cui è risolto il rapporto tra rapporto tra
autorità e libertà (potremmo anche dire il rapporto tra lo stato e la società civile);
2. Una seconda definizione di “forma di stato” pone invece l’attenzione sul rapporto che esiste tra il contesto storico
e il modo in cui sono esercitate le funzioni del diritto. Le funzioni del diritto sono individuate nella repressione
dei comportamenti socialmente pericolosi, nell’allocazione di beni e servizi e nell’allocazione dei pubblici poteri.
Questa definizione è una definizione che guarda soprattutto al rapporto tra diritto e ambiente;
3. Altre definizioni di “forme di stato” guardano alle finalità che lo stato si ripone di raggiungere e ai valori a cui
lo stato ispira la propria azione;
4. Altre definizioni ancora, pongono invece l’attenzione sul rapporto tra gli elementi dello stato (territorio, popolo
e sovranità).
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Le diverse forme di stato:
All’interno delle “Storie” di Erodoto vi è un passaggio in cui tre persiani discutono sulla forma di governo da instaurare
dopo la morte del sovrano Cambise. Durante la discussione, Otane sostiene il governo dei molti (la democrazia), Megabizo
sostiene il governo dei pochi (l’oligarchia), mentre Dario sostiene il governo di uno solo (la monarchia).
Anche Platone ragiona sulle diverse forme di stato; in particolare nelle “Leggi”, egli distingue la monarchia dalla politeia.
Secondo Platone, la monarchia è quella dove il potere spetta ad un’autorità sovrana, la quale è tale per proprio diritto,
mentre nella politeia il potere spetta al popolo ed è esercitato da autorità che lo esercitano per conto del popolo.
Un altro autore che ragione sulle diverse forme di stato è Aristotele. Aristotele nella “Politica” distingue le diverse forme
di stato a seconda dei soggetti titolari della sovranità; in particolare egli distingue tra monarchia, aristocrazia e politeia.
A queste tre forme di stato, Aristotele affianca tre forme degenerative: la tirannide (forma degenerativa della monarchia),
l’oligarchia (forma degenerativa dell’aristocrazia) e la democrazia (forma degenerativa della politeia).
Machiavelli invece distingue tra i principati e le repubbliche. Nei principati il potere spetta ad un solo soggetto, mentre
nelle repubbliche il potere è ripartito tra più organi collegiali collegiali.
Ancora, Montesquieu distingue tra governi dispotici (monarchie assolute), governi monarchici (monarchie costituzionali)
e governi repubblicani (suddivisi a loro volta in governi aristocratici e governi democratici).
Per molto tempo, di fatto la classificazione prevalente era quella che distingueva monarchia e repubblica. Oggi, quando
ragioniamo sulla distinzione tra forme di stato, quella più immediata è tra democrazia e autocrazia.
Per democrazia intendiamo una forma di stato caratterizzata da pluralismo, pluripartitismo e ripartizione del potere. Lo
stato democratico è fondato su una titolarità collettiva del potere, e in esso le decisioni sono basate sul consenso popolare
(oltre al consenso, è fondamentale anche la tutela del dissenso in una democrazia). Quando invece parliamo di autocrazia,
intendiamo una forma di stato la cui struttura è monolitica, mono-partitica e dove il potere è concentrato. In autocrazia
non c’è titolarità collettiva del potere ma una titolarità ristretta a un gruppo o un singolo, e le decisioni non si basano sul
consenso ma sull’imposizione.
Esistono diverse definizioni di democrazia. Una delle prime distinzioni che si può fare è quella che pone a confronto la
democrazia degli antichi e la democrazia dei moderni.
La democrazia degli antichi fa riferimento alle città stato della Grecia classica (e in particolar modo all’Atene del V- IV
secolo a.c.). Con l’espressione “democrazia degli antichi” ci si riferisce ad una forma di democrazia dove le decisioni
fondamentali venivano assunte dai cittadini in assemblea e rese esecutive dalla Bulè (o Consiglio dei 500, i cui membri
erano eletti o sorteggiati dai cittadini). Potremmo dire che la democrazia degli antichi era una forma di democrazia diretta,
basata sulla partecipazione immediata. Era poi una forma di democrazia che non ammetteva la contrapposizione degli
interessi (il conflitto): era una forma di democrazia che si basava su una nozione ristretta di cittadinanza (non rientravano
nella categoria di “cittadino” le donne, i meteci e gli schiavi).
La democrazia dei moderni è una democrazia di tipo rappresentativo: in questo caso, le decisioni politiche sono adottate
da organi rappresentativi. La democrazia dei moderni è una forma di democrazia basata sul principio della rappresentanza
(in questa forma di democrazia la società è una società disomogenea: questo fa si che venga riconosciuto il pluralismo,
l’eterogeneità della società e la presenza di interessi conflittuali). La democrazia dei moderni è una forma di democrazia
in cui dunque si riconosce il pluralismo, sul riconoscimento del conflitto e sulla rappresentanza (per poter però parlare di
democrazia, la rappresentanza deve fondarsi sul principio del suffragio universale).
Autori come Mill e Rousseau hanno ragionato a lungo sul concetto di rappresentanza. Secondo Mill, per raggiungere
l’ideale democratico è necessario che la rappresentanza si basi sul riconoscimento del pluralismo e ritiene essenziale che
tutti gli interessi possano ricevere una rappresentanza, affinché nessuno venga escluso dalla partecipazione politica.
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Al contrario, Rousseau rifiuta l’idea stessa di rappresentanza perché sostiene che sia un’idea che priva gli uomini della
loro libertà. L’ideale di Rousseau è quella costruzione in cui ogni uomo, pur unendosi a tutti gli altri, non obbedisca che
a se stesso e resti libero.
Venerdì 23 Settembre
Un ulteriore distinzione che si può fare è quella che pone a confronto la democrazia formale (o procedurale) e la
democrazia sostanziale.
Il termine “sostanziale” viene utilizzato viene utilizzato in relazione a due elementi distinti: da un lato, con il termine
sostanziale si intende la forma di stato socialista (ossia quel sistema che tende a garantire i diritti economico-sociali.
Questa forma di stato la si intende come opposta alla democrazia liberale, ed è ad oggi un’accezione ormai superata).
Oggi, infatti, quando parliamo di democrazia sostanziale, ragioniamo su una forma di democrazia che non è più quella
dei paesi socialisti; ad oggi, la democrazia sostanziale è quella democrazia sociale del costituzionalismo del secondo
Novecento, cioè una democrazia che, agli aspetti di democrazia liberale, ha sommato quelli di democrazia sociale.
La democrazia sostanziale oggi è intesa quindi come una democrazia che non si limita alle garanzie procedurali, ma
presuppone e richiede che la democrazia garantisca anche i diritti quali i diritti di libertà (i diritti di libertà sono quei diritti
che implicano una sfera di autonomia da parte dello Stato), i diritti sociali (i diritti sociali sono quei diritti che implicano
delle prestazioni da parte dello Stato, ad esempio istruzione e sanità) e i diritti politici.
Per democrazia procedurale si intende un sistema in cui sono garantite libere elezioni periodiche, il suffragio universale,
un pluralismo partitico e il rispetto dei diritti delle minoranze.
Un concetto oggi legato a quello di democrazia è il concetto di sovranità popolare. La sovranità popolare implica il
riconoscimento della sovranità come appartenete al popolo, che può essere declinata in maniera diversa (può essere infatti
declinata sia nelle forme della democrazia rappresentativa che nelle forme della democrazia diretta). La sovranità popolare
si esprime anche attraverso l’esercizio dei diritti costituzionali, e in particolare attraverso l’esercizio di diritti come la
libertà di riunione o di manifestazione del pensiero.
Ferraioli ha coniato l’espressione di “sovranità popolare frammentata” per sottolineare che la sovranità è effettivamente
riconosciuta in capo al popolo, ma riconoscerla in capo al popolo significa riconoscerla in capo a ciascun appartenente al
popolo (e dunque a ciascun cittadino).
Esiste ancora un altro modo di espressione di sovranità popolare, rintracciabile in un’altra definizione di democrazia: la
cosiddetta “democrazia dal basso”.
Per democrazia dal basso si intende l’esercizio da parte dei cittadini di partecipazione in forme che non sono
istituzionalizzate, come ad esempio la partecipazione messa in atto attraverso i movimenti sociali - es. movimento NO
TAV. I movimenti sociali sono espressione della democrazia dal basso, cioè di una forma di partecipazione che si
concretizza in manifestazioni che non sono direttamente previste dalla costituzione.
La partecipazione è l’essenza della sovranità popolare e, più in generale, della democrazia: la democrazia è essenzialmente
partecipazione effettiva, ed è sempre conflitto perché si basa sul riconoscimento dei vari pluralismi e dei conflitti che
attraversano la società.
Un’altra accezione che possiamo ancora citare è quella di “democrazia partecipativa”. Per democrazia partecipativa si
intende una forma di democrazia in cui i cittadini partecipano alle scelte e alle attività compiute dalle istituzioni. La
democrazia partecipativa è una forma “ibrida” di democrazia rispetto alla democrazia dal basso e alla democrazia
rappresentativa (in altri termini, la democrazia partecipativa sta a metà strada tra queste altre due forme di democrazia),
e assume forme diverse in base all’origine delle sedi di confronto tra la società civile e le istituzioni (la forma che assume
tale democrazia dipende dunque se le sedi di confronto nascono dal “basso”, cioè da pressioni esercitate da movimenti
presenti all’interno della società, o dall’”alto”, e cioè dunque da decisioni assunte da parte delle istituzioni).
Un’ulteriore forma di democrazia è la cosiddetta “democrazia sociale”. Per democrazia sociale si intende una democrazia
che riguarda anche la sfera economica e sociale.
È una forma di democrazia che include l’esigenza di andare oltre la sfera della democrazia politica e estendere le
caratteristiche della democrazia anche ad altri ambiti, e in particolare quello economico.
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Le diverse forme di Stato presenti sul continente europeo nel corso della storia:
Oggi, la maggior parte degli stati presenti in Europa rientra nel concetto di democrazia.
Il primo passaggio fu l’ordinamento feudale. In questo momento non è ancora possibile parlare di vera e propria forma
di stato perché non c’era lo stato: si trattava infatti di un tipo di organizzazione sociale basata sul principio dello scambio.
L’istituto fondamentale di questo periodo è il rapporto di vassallaggio, un rapporto di natura privatistico-contrattuale tra
il signore feudale e il vassallo. Si tratta di una società di tipo patrimoniale-privatistico, con un estremo frazionamento del
potere e con una struttura di tipo piramidale molto gerarchizzata. Le caratteristiche predominanti di questo primo
passaggio sono:
Solo con la nascita dello stato assoluto si può iniziare a parlare di una vera e propria forma di stato. Lo stato assoluto è
una forma di stato che caratterizza la scena europea dal XVI al XVII secolo.
Nella forma di stato assoluto, i poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario) sono accentrati e concentrati nelle mani del
sovrano. Quando accade con lo stato assoluto può essere definito come un “processo di monocratizzazione”, perché il
potere si concentra nelle mani di uno solo – il sovrano. Le caratteristiche principali di questa forma di stato sono:
Una variante della forma di stato assoluto è lo stato di polizia, che si sviluppa in Austria e in Prussia nel tardo ‘700). Le
caratteristiche dello stato di polizia sono:
Il compito del sovrano viene individuato nel perseguimento del benessere collettivo (polizia, infatti, deriva da
“polis”);
Il sovrano viene concepito come un funzionario dello stato.
La terza forma di stato che prende forma nel contesto europeo è lo stato liberale. Lo stato liberale si afferma ovunque sul
continente europeo, ma in maniera differente sia nel modo in cui si instaura che nelle sue caratteristiche (in Germania e
in Italia, ad esempio, lo stato liberale non si afferma tanto per una forte spinta da parte dei ceti – potremmo dire che in
queste due aree si afferma uno stato liberale creato “dall’alto”). Le caratteristiche comuni dello stato liberale sono:
È uno stato di diritto: con lo stato liberale si afferma il principio della supremazia della legge, intesa come atto
generale e astratto;
Si afferma la presenza del Parlamento come organo collegiale, che rappresenta il corpo elettorale;
Lo stato liberale non è definibile una democrazia perché il voto non è garantito a tutti (non c’è il principio del
suffragio universale);
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Con lo stato liberale si parla dunque di “rappresentanza omogenea”, perché ad essere rappresentata in Parlamento
è la borghesia. Per questo, Lo stato liberale è stato definito uno stato “monoclasse”, in quanto solo una classe
sociale è rappresentata e partecipa alle scelte politiche;
Lo stato liberale si fonda sul principio della separazione dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario. Si tratta
di una separazione che non avviene in maniera eguale in tutti i paesi; nel Regno Unito, ad esempio, è
tradizionalmente forte l’indipendenza del potere giudiziario, mentre in paesi come la Francia i giudici vengono
percepiti come parte dell’apparato amministrativo-statale (e quindi come soggetti subordinati al potere
esecutivo);
Con lo stato liberale si inizia a parlare di costituzioni; si tratta tuttavia di costituzioni concesse (lo Statuto
Albertino è un esempio di costituzione concessa) e flessibili (dunque modificabili dal Parlamento attraverso il
normale procedimento di adozione di una legge ordinaria);
Con lo stato liberale vengono riconosciuti i diritti di libertà negativa, cioè quei diritti che garantiscono una sfera
di autonomia dallo Stato (es. libertà personale, libertà di circolazione, libertà di opinione, libertà di iniziativa
economica privata e diritto di proprietà);
Con lo stato liberale, la sovranità viene definita “sovranità nazionale”: la sovranità appartiene alla nazione, ma
anche in questo caso si tratta di una sovranità omogenea perché la nazione che viene rappresentata coincide con
la classe della borghesia.
Agli inizi del ‘900, lo stato è di fatto uno stato sempre più “pluri-classe”: sempre più classi rivendicano maggiore spazio
politico, ed è in questo contesto che nascono quelli che vengono definiti “sindacati di massa” e i “partiti di massa” (non
più rappresentativi del solo ceto borghese ma anche della classe operaia).
Con il secondo dopo guerra si afferma una nuova forma di stato, la forma di stato democratico-pluralistico (o forma di
stato sociale).
Tra lo stato sociale e quello liberale si crea un rapporto di continuità, in quanto vengono ripresi alcuni principi e istituti
propri della forma di stato liberale; si crea tuttavia anche un rapporto di discontinuità, nel senso che vengono introdotti
valori e principi differenti. In alcuni casi, la discontinuità è una discontinuità di tipo storica (ad esempio in Italia o in
Germania non c’è un passaggio diretto da stato liberale a stato sociale, ma c’è un periodo di stato autocratico – il regime
fascista in Italia e il regime nazista in Germania). Le caratteristiche dello stato sociale sono:
Con lo stato sociale si afferma il principio che separa stato - società e politica – economia;
Muta il modo di intendere la società: la società non è più concepita come somma di individui singoli, ma viene
concepita come insieme di gruppi organizzati e portatori di propri interessi;
L’individuo viene concepito come parte dei vari gruppi sociali: si afferma una nuova immagine dell’individuo
come di un soggetto che si rapporta con la società. L’idea dell’individuo come parte di una rete di rapporti sociali
si riflette anche nel principio di solidarietà (che si afferma proprio con lo stato sociale);
Lo stato sociale è uno stato interventista, non nel senso in cui lo era lo stato liberale (il quale doveva limitarsi a
garantire le condizioni del libero mercato), ma è uno stato che si propone di limitare gli effetti del libero mercato
e che si propone di realizzare un progetto di redistribuzione del reddito (progetto di eguaglianza sostanziale —>
per eguaglianza sostanziale si intende l’attuazione di trattamenti diversi in situazioni diverse per raggiungere
un’uguaglianza effettiva);
La sovranità è concepita come appartenente al popolo, inteso come insieme dei cittadini;
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La rappresentanza non è più una rappresentanza omogenea o “mono-classe” come nello stato liberale, ma è una
rappresentanza che riflette il pluralismo e il conflitto sociale;
Nello stato sociale cambia il concetto di separazione dei poteri: in particolare, permane la separazione tra potere
esecutivo, legislativo e giudiziario ma si moltiplicano i poteri e le funzioni. È in questo contesto, infatti, che
nascondo ad esempio alcuni organi di garanzia, quali la Corte Costituzionale, e le prime autorità amministrative
indipendenti. Con lo stato sociale nascono organi terzi che vanno ad articolare in maniera più complessa la
separazione dei poteri;
Lo stato sociale è uno stato di diritto come lo stato liberale, ma è anche uno stato di diritto costituzionale: nello
stato sociale non c’è solo il principio di legalità (dunque il principio per cui la legge è un atto generale e astratto
che prevale nei confronti degli altri atti amministrativi), ma c’è anche il principio di costituzionalità, un principio
attraverso il quale vengono fissati dei limiti al legislatore;
Le costituzioni nello stato sociale sono costituzioni rigide e lunghe. Si tratta poi di costituzioni che in alcuni casi
vengono definite “aperte”, in quanto contengono una serie di principi e valori che devono essere bilanciati.
Oggi, la forma di stato presente non è la stessa forma di stato che ha caratterizzato la seconda metà del Novecento. I primi
cambiamenti sono avvenuti a partire dagli anni ’80, periodo in cui si assiste ad una trasformazione in senso neoliberista
e neoliberale.
A partire dagli anni ’80 si assiste ad un cambiamento di contesto generale: pensiamo ad esempio al crollo dell’Unione
Sovietica nel 1989, che comporta un cambio di prospettiva sia negli equilibri politici che sul versante economico, cambio
che si riflette sulla struttura e i fondamenti dello stato sociale (in questo contesto, oltre ad assistere ad una regressione
nella tutela dei diritti sociali, cambia anche l’equilibrio tra i poteri, generando il cosiddetto processo di
“presidenzializzazione della politica” o “verticalizzazione del potere” - processo attraverso cui il potere viene concentrato
nell’esecutivo).
Giovedì 29 Settembre
Quando parliamo di forme di governo guardiamo ai rapporti che intercorrono tra gli organi di vertice dell’apparato statale.
La classificazione di una forma di governo dipende da due elementi fondamentali: la distribuzione formale del potere e
la considerazione dei fattori esterni che influenzano il concreto svolgersi di una forma di governo (es. il sistema politico,
quindi il sistema partitico e l’insieme dei soggetti che rappresentano interessi sociali).
1. La natura del rapporto tra Parlamento e Governo uno dei criteri per classificare le diverse forme di governo,
è la presenza o meno di un rapporto di fiducia tra il Parlamento e il Governo. Nella forma di governo
parlamentare c’è un rapporto di fiducia, mentre non c’è un rapporto di fiducia nella forma di governo
presidenziale (si parla infatti di separazione rigida dei poteri).
Quando c’è un rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo, la fiducia può essere espressa di diversi modi: in
alcuni casi, la fiducia può essere espressa attraverso la votazione di una mozione di fiducia esplicita; in altri casi,
la fiducia può essere implicita (questo è il caso della Francia, dove l’Assemblea nazionale francese può adottare
la cosiddetta “mozione di censura”, detta anche mozione di sfiducia).
Il rapporto di fiducia porta all’instaurazione di un meccanismo di responsabilità politica del Governo nei
confronti del Parlamento. Questo rapporto di fiducia può essere verificato tramite la posizione della questione di
fiducia (= se il Parlamento non approva un determinato atto su cui è posta la questione di fiducia, il governo ha
l’obbligo giuridico di dimettersi). In origine, questo strumento nasce come uno strumento eccezionale; tuttavia,
nel corso degli anni, il significato di questo strumento è mutato profondamente (una vera e propria eterogenesi
dei fini), in quanto è diventato uno strumento attraverso cui il Governo costringe il Parlamento ad approvare un
determinato atto.
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Altro elemento che intercorre nel rapporto di fiducia è la cosiddetta mozione di sfiducia, cioè la possibilità di
adottare una vera e propria mozione attraverso cui si provoca la caduta del governo. La mozione di sfiducia è
uno strumento presente in Italia, in Francia (dove prende il nome di “mozione di censura”) ma anche in altri
contesti quali ad esempio la Germania o la Spagna.
In Francia, così come in Germania, la mozione di sfiducia è costruita su uno schema che rende difficile adottare
tale mozione; ad esempio, in Germania si parla di “mozione di sfiducia costruttiva” (= si può sfiduciare il
cancelliere in carica solo se contestualmente viene proposta la nomina di un nuovo cancelliere. È un meccanismo
di razionalizzazione che mira a garantire la stabilità dell’esecutivo).
2. Il ruolo del capo dello stato il capo dello stato può essere un capo di stato monarchico (es. Regno Unito)
oppure può essere un Presidente, che può essere eletto da un organo ristretto o direttamente dal popolo. Il
presidente della repubblica può essere poi un presidente titolare di un indirizzo politico (es. Stati Uniti) oppure
un presidente che esercita una funzione di garanzia (in questo caso, parliamo di un presidente della repubblica
neutro e super partes). La figura del presidente della repubblica neutro, insieme alla presenza di un rapporto
di fiducia tra Parlamento e Governo, è tipica della forma di governo parlamentare, mentre il presidente
titolare di indirizzo politico, insieme all’assenza di un rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento, è tipico
della forma di governo presidenziale. La forma di governo semipresidenziale è un ibrido, in quanto mescola
elementi tipici della forma di governo parlamentare ed elementi tipici della forma di governo presidenziale: nella
forma di governo semipresidenziale, infatti, c’è un rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento ed è prevista
l’elezione diretta del presidente. La forma di governo semipresidenziale è un ibrido caratterizzato da un esecutivo
“bicefalo”, in cui il potere esecutivo è condiviso tra il Presidente della Repubblica e il Primo Ministro.
In base a questo duplice criterio è possibile distinguere tra forma di governo parlamentare, quella semi-presidenziale e
quella presidenziale. Nel contesto europeo, ragioniamo principalmente sulla forma di governo semipresidenziale (Francia)
e su quella parlamentare (Italia, Germania, Regno Unito). Quando parliamo di forma di governo parlamentare, è bene
distinguere tra forma di governo parlamentare assembleare (in cui il ruolo centrale è svolto dal Parlamento) e forma di
governo parlamentare di gabinetto (dove invece l’organo centrale è il Governo). Oggi, quasi tutte le forme di governo
parlamentare sono caratterizzate dalla centralità del governo (quindi prevalenza della forma di governo parlamentare di
gabinetto). Esiste poi la forma di governo direttoriale (Svizzera).
Il principio di ripudio della guerra nella Costituzione è frutto di una sostanziale unanimità tra le forze politiche presenti
in Assemblea costituente.
A favore dell’istanza pacifista, ancor prima dell’Assemblea costituente, si pronunciano i maggiori partiti politici: tra il
’45 e il ’46 i maggiori partiti politici si riuniscono in un loro congresso in cui emergono tali istanze pacifiste. Ad esempio,
il Partito Comunista nel 1946, in una dichiarazione del Comitato Centrale, afferma che uno degli scopi concreti della
politica estera italiana deve consistere nel procurare la garanzia della pace al popolo italiano (quindi la pace come uno
degli obiettivi della politica estera).
Altro partito a favore delle istanze pacifiste è la Democrazia Cristiana: la DC insiste soprattutto su motivazioni di carattere
etico; se infatti leggiamo le parole di Don Sturzo, notiamo come egli sottolinei la necessità di dichiarare la guerra come
un atto immorale, illegittimo e proibito.
L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle
controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie
ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni
internazionali rivolte a tale scopo.
Nella stesura dell’Art. 11, un argomento su cui si è a lungo dibattuto è stato quale verbo utilizzare per rifiutare la guerra.
In Assemblea costituente si discusse a lungo se utilizzare il verbo “rinuncia”, il verbo “ripudia” o il verbo “condanna”;
alla fine, è stato scelto il verbo “ripudia” perché questo verbo ha un accento energico, che implica la condanna come la
rinuncia alla guerra (si è scelto dunque il verbo che meglio esprimesse la presa di distanza dalla guerra).
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L’Art. 11 rappresenta uno dei principi fondamentali della Costituzione: l’Art. 11 fa parte quindi di quei principi
fondamentali che secondo la Corte Costituzionale costituiscono un limite alla revisione costituzionale (sono principi che
non possono essere modificati nemmeno con il procedimento aggravato previsto dall’Art. 138 della Costituzione) e
fungono da contro-limiti (cioè non possono essere intaccati da norme appartenenti dall’ordinamento dell’Unione
Europea).
L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle
controversie internazionali in questo passaggio dell’Art.11, si ribadisce che l’Italia non adotta la guerra come
strumento per risolvere le controversie internazionali, le quali invece devono essere risolte attraverso le vie della pace. Su
questo aspetto, l’Italia è perfettamente in linea con quanto affermato dallo Statuto delle Nazioni Unite, il quale ammette
solo la guerra per legittima difesa di fronte ad un attacco armato (Art. 51 della Carta delle Nazioni Unite).
Il caso dell’Ucraina:
In un primo momento, è stato previsto esclusivamente l’invio di armi difensive (nel successivo Decreto-legge scompare
il riferimento alla natura difensiva delle armi - quindi si parla solo di invio alle armi).
Da un punto di vista giuridico, l’Ucraina non fa parte del territorio dell’Unione Europea e nemmeno della NATO, dunque
non viene chiamato in causa l’Art. 5 della NATO, il quale prevede per i paesi membri l’obbligo di intervenire in caso di
attacco armato ad uno degli altri paesi membri.
Nel discorso sull’Ucraina, entra in gioco anche l’elemento dello sviluppo della NATO: a partire dal 1999, la NATO ha
previsto la possibilità di mettere in campo azioni militari anche al di fuori della portata dell’Art. 5 del Trattato. Si tratta
di azioni volte a tutelare i cosiddetti interessi strategici o vitali che non riguardano la reazione ad un attacco armato ad un
territorio di uno stato membro.
A partire dal 1999 dunque, si assiste di un’evoluzione del concetto di difesa, che da difesa nei confronti di un attacco
armato diventa un concetto di difesa preventiva.
Venerdì 30 Settembre
Il manifesto di Ventotene, “Per un Europa libera e unita” di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi.
Spinelli ed E. Rossi, nell’immaginare uno stato federale europeo, si riferiscono anche ad un processo storico contro la
disuguaglianza e i privilegi sociali: essi ragionano di un processo federale europeo che contenga anche quelle che sono le
basi del costituzionalismo del secondo dopoguerra. Quella del manifesto di Ventotene è un’idea di un Europa politica e
sociale.
Un altro testo fondante dell’Unione Europea è la dichiarazione Schuman (1950). La dichiarazione proponeva la
creazione di una Comunità europea del carbone e dell’acciaio, i cui membri avrebbero messo in comune le produzioni di
carbone e acciaio: l’obiettivo, quindi, è creare un’integrazione economica, un’integrazione del mercato.
Se guardiamo alla storia dell’Unione Europea, vediamo che la sua storia non è quella auspicata dal manifesto di
Ventotene, ma quella auspicata dalla dichiarazione Schuman. Infatti, l’integrazione su cui nasce l’Unione Europea è
un’integrazione prevalentemente di tipo economico.
1. Il primo passo fu il Trattato di Parigi (1951), ratificato da Francia, Italia, Germania, Olanda, Paesi Bassi,
Lussemburgo e Belgio. Con il Trattato di Parigi nasce la CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio).
2. Nel 1957 vengono ratificati, dagli stessi paesi che avevano ratificato il Trattato di Parigi, i Trattati di Roma,
con i quali nascono l’EURATOM (Comunità dell’energia atomica) e la CEE (Comunità Economica Europea)
L’obiettivo di queste comunità è la creazione di un mercato comune (l’integrazione che si prospetta dunque, è
un’integrazione di tipo economico).
3. Nel 1965 si verifica una fusione degli esecutivi delle comunità europee: dal 1965, gli esecutivi delle tre
comunità non sono più distinti, ma si fondono in un unico esecutivo. Inoltre, vengono creati un Consiglio unico
e una Commissione unica.
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4. Nel 1979, per la prima volta, si ha l’elezione diretta a suffragio universale del parlamento europeo. Questo
segna un passaggio importante anche nella direzione di un’integrazione maggiormente politica.
5. Nel 1986 nasce l’Atto Unico Europeo, il quale amplia le competenze riconosciute agli organi comunitari e
potenzia, attraverso la procedura di cooperazione, il ruolo del Parlamento (il ruolo del Parlamento è un ruolo che
dal 1979 in poi è in costante crescita.
7. Nel 1990 viene firmata una convezione che riguarda la libertà di circolazione, con l’eliminazione progressiva
dei controlli alle frontiere interne (permangono tuttavia i controlli alle frontiere esterne dell’Unione Europea).
8. Nel 1992 nasce il Trattato di Maastricht, che istituisce l’Unione Europea e struttura i “tre pilastri” (l’unione
delle tre comunità europee; l’inizio di una costruzione di una politica estera e di sicurezza comune – la cosiddetta
PESC; una cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni). Si tratta di pilastri tematici, che
prevedono un diverso metodo di decisione: nel primo pilastro, che riguarda sostanzialmente l’integrazione
economica, le decisioni vengono assunte attraverso la compartecipazione dei vari organi (= in altri termini, le
decisioni sono assunte direttamente dall’Unione Europea), mentre nel secondo e nel terzo prevale il metodo
intergovernativo, il quale prevede l’unanimità dei vari governi nazionali.
9. Con il trattato di Maastricht viene varata anche l’Unione Monetaria, la quel porterà all’introduzione dell’euro
nel 2002, con un opting out (cioè una riserva) di Regno Unito e Danimarca.
10. Nel 1992 viene anche introdotta la cittadinanza europea: si tratta di una cittadinanza derivata, in quanto si è
cittadini dell’Unione Europea in quanto si è cittadini di un paese membro dell’Unione Europa. Lo status di
cittadino europeo comporta una certa forma di eguaglianza nel trattamento dei diritti, il diritto di petizione (è un
diritto politico che viene esercitato insieme da tutti i cittadini europei), il diritto di votare e di essere eletti nelle
elezioni per il Parlamento Europeo e in quelle comunali del paese di residenza.
11. Nel 1997 viene firmato il Trattato di Amsterdam, il quale introduce la figura dell’Alto Rappresentante per la
politica estera e di sicurezza (una sorta di Ministro degli esteri dell’Unione Europea).
12. Nel 2000 viene adottata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, per ovviare a quella che era
un delle principali critiche mosse all’Unione Europea, ovvero quella secondo cui si trattasse di un’integrazione
solo economica che non tenesse conto della tutela e della garanzia dei diritti. La Carta dei diritti fondamentali
inizialmente ha un valore giuridico solo per le istituzioni comunitarie, e successivamente viene incorporata nel
trattato di Lisbona (2007).
13. Nel 2004 ci fu un tentativo di introdurre una costituzione per l’Europa. Questa costituzione viene respinta dai
referendum francese e olandese. Sull’eventuale introduzione di una costituzione per l’Europa si aprì un grande
dibattito: gli stessi costituzionalisti dell’epoca cominciarono a domandarsi come si fa a costruire una costituzione
se manca il suo presupposto, cioè il popolo (non esiste infatti un popolo europeo). Il rischio legato alla
costruzione di una costituzione senza che questa abbia il suo presupposto è quello di creare una costituzione
artificiale. Quindi, la prima critica mossa al tentativo di introdurre una costituzione per l’Europa fu che non si
può creare una costituzione se prima non viene creato un popolo.
Questo tentativo fu criticato anche da coloro che assumevano posizioni di tutela della propria sovranità nazionale
(ad esempio questo tentativo di introdurre una costituzione per l’Europa è stata criticata da destra), in quanto
essi sostenevano che un tale progetto tendeva ad evolvere e a prevedere che in futuro siano devoluti sempre più
poteri alle istituzioni comunitarie, espropriando la sovranità propria di ciascuno stato.
Questo progetto in realtà fu criticato anche da sinistra, in quanto si trattava di una costituzione “neoliberista” che
annoverava tra i principi fondativi quello della libera e non falsata concorrenza. Per questo, il progetto fu criticato
da sinistra, in quanto si riteneva che una costituzione simile stravolgesse il modello di costituzione degli stati
membri a favore di un modello di costituzione meno liberista.
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Dunque, il progetto di introdurre una costituzione per l’Europa naufraga ma il suo contenuto, parzialmente
modificato, viene traslato nel trattato di Lisbona.
14. Dopo il Trattato di Lisbona, che è l’ultimo grande trattato costitutivo dell’UE, gli ultimi sviluppi nel processo di
costruzione dell’Unione sono segnati dall’introduzione del Trattato sull’Unione Europea (TUE) e del Trattato
sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Si tratta di due trattati che danno indicazioni sulla struttura
dell’Unione e su quali sono i poteri e le competenze dell’Unione.
15. Nel 2012 viene adottato il Fiscal Compact, ovvero il trattato sulla stabilità, coordinamento e governance
economica e monetaria. Parallelamente, vengono adottati una serie di atti di soft law, il cui atto più eclatante è
la lettera di Trichet e Draghi (conosciuta anche come lettera della BCE all’Italia) inviata il 5 agosto 2011 al
Governo italiano.
Per aderire all’UE, il singolo paese deve dimostrare di poter soddisfare tutti i criteri previsti per essere ammesso
all’Unione Europea.
Il paese che intende aderire all’UE sottopone la sua candidatura al Consiglio, il quale a sua volta chiede alla Commissione
di valutare la capacità del paese candidato di soddisfare i criteri di Copenaghen. Sulla base del parere della Commissione,
il Consiglio decide quindi un mandato negoziale, e da questo momento iniziano ufficialmente i negoziati. I criteri di
adesione all’UE sono:
o Economia di mercato;
o Stabilità della democrazia;
o Stato di diritto;
o L’adozione della legislazione europea.
Quando si ragiona di struttura dell’Unione Europea è necessario tenere presente del fatto che l’Europa presenta un deficit
democratico: l’Unione Europea, infatti, non ha una struttura democratica. Le istituzioni dell’Unione Europea sono:
1. Parlamento europeo → il Parlamento europeo è l’unico organo direttamente rappresentativo dei cittadini
dell’Unione. I deputati del Parlamento europeo vengono eletti ogni cinque anni; ogni paese elegge non meno di
6 deputati e non più di 96, e il numero concreto di deputati è determinato in base alla popolazione dello stato.
Il Parlamento europeo, nel corso degli anni, ha visto un progressivo potenziamento del suo ruolo, ad esempio, il
Trattato di Lisbona da ultimo ha ampliato le ipotesi di codecisione tra Parlamento e Consiglio. Tuttavia, il
Parlamento europeo è privo del potere di iniziativa legislativa (questo potere è nelle mani della Commissione).
Il parlamento europeo condivide l’adozione della legislazione con il Consiglio dell’Unione Europea: il
Parlamento, dunque, non ha un vero potere legislativo poiché non è indipendente nell’esercizio di tale potere. Il
Parlamento partecipa ma non è titolare del potere legislativo.
Il Parlamento, ad esempio, adotta delle risoluzioni e tra le sue competenze rientra anche l’approvazione del
bilancio. Il bilancio è predisposto dalla Commissione, ma il potere del Parlamento di approvazione del bilancio
è condiviso con il Consiglio dell’UE (quindi anche in questo caso, quello di approvazione del bilancio non è un
potere che spetta in proprio al Parlamento europeo, ma vede una compartecipazione con l’esecutivo.
Esiste poi un rapporto di Fiducia tra Parlamento e Commissione, ma con un ruolo guida del Consiglio Europeo:
il Presidente della Commissione europea viene scelto dal Consiglio Europeo, deve godere del sostegno del
Parlamento e quest’ultimo deve poi approvare collettivamente i membri della Commissione. Dopo
l’approvazione del Parlamento, i membri della Commissione sono nominati dal Consiglio Europeo a
maggioranza qualificata (anche qui quindi c’è un ruolo dominante del consiglio europeo).
Il parlamento può poi muovere mozione di censura, la quale produce l’obbligo della Commissione a dimettersi
(è richiesta tuttavia una maggioranza elevata, in particolare i 2/3 dei voti, molto difficile da raggiungere).
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2. Commissione Europea→ è composta da 27 membri (uno per ogni paese membro) e un Presidente nominato per
cinque anni. La Commissione Europea è il centro motore del sistema:
È l’unico organo ad avere potere di iniziativa legislativa;
È l’organo che attua le decisioni del Parlamento europeo e del Consiglio;
È l’organo che stabilisce le proprietà di spesa dell’Unione Europea;
È l’organo che rappresenta l’Unione Europea sulla scena internazionale, in particolar modo gestendo
quello che è uno dei settori più importanti dell’Unione Europea (settore della politica commerciale).
3. Consiglio europeo → è composto dai capi di stato e di governo, dal Presidente, dal Presidente della Commissione
e dall’Alto rappresentante per gli affari esteri. Il Consiglio Europeo:
Ha un potere di nomina nei confronti della Commissione;
Delinea gli orientamenti e le proprietà politiche generali;
Può richiedere l’intervento della Commissione e del Consiglio dell’Unione Europea.
5. La corte di giustizia dell’Unione Europea ha sede a Lussemburgo e si compone di un giudice per ogni stato
membro dell’UE e di otto avvocati generali nominati di comune accordo dai governi nazionali con un mandato
di sei anni rinnovabile. Il ruolo della corte è quello di garantire che il diritto dell’UE venga interpretato e applicato
allo stesso modo in ogni paese europeo e garantire che i paesi e le istituzioni dell’Unione rispettino la normativa
dell’UE.
6. La banca centrale dell’Unione Europea è in una posizione di totale indipendenza ed esercita rilevanti poteri
(esercita sia poteri che le vengono assegnati dai trattati dell’Unione Europea sia poteri “ultra-vires”, cioè poteri
che vanno al di là delle competenze della Banca Centrale Europea).
7. Euro-gruppo è un coordinamento dei paesi dell’area euro. È composto dai ministri delle economie e delle
finanze dei paesi dell’area euro.
Osservando la struttura dell’Unione Europea è evidente che mancano quelli che sono gli elementi base del
costituzionalismo: manca una separazione dei poteri, generando così una concentrazione del potere nell’esecutivo
comunitario e nell’esecutivo degli stati membri nel caso di decisioni assunte all’unanimità (verticalizzazione del potere).
I valori dell’Unione Europea sono contenuti nell’Art. 2 del Trattato sull’Unione Europea.
L'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello
Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori
sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza,
dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini.
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6. Rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze.
Gli scopi e gli obiettivi dell’Unione Europea sono invece definiti dall’Art. 3 del TUE. Tra gli obiettivi dell’UE si
ricordano:
1. L’Unione si propone di costruire uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, in cui sia assicurata la libera
circolazione delle persone;
2. Creare un mercato interno;
3. Favorire lo sviluppo sostenibile dell’Europa, uno sviluppo sostenibile basato su una crescita economica
equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva che mira alla
piena occupazione e al progresso sociale e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità
dell’ambiente;
Il nucleo fondante dell’Unione Europea è il riferimento a quell’economia sociale di mercato fortemente competitiva:
questa espressione si rifà al filone teorico dell’ordoliberismo, il quale teorizza un’economia di mercato fortemente
competitiva, dove centrale è quel principio della libera concorrenza e non falsata. L’elemento “sociale” entra in gioco
nel momento in cui si afferma che il libero mercato con una concorrenza libera e non falsata può produrre un surplus
che può generare dei benefici a livello sociale. La base di questo modello economico è dunque il principio della
competitività (in un modello costituzionale il principio invece è quello di solidarietà e di giustizia sociale), ed è un
modello economico che nel tempo è diventato anche un modello antropologico (il cosiddetto modello dell’homo
oeconomicus, un modello che si contrappone a quello dell’homo dignus, che è invece il modello della costituzione.
L’homo dignus è colui che vive in un sistema fondato sull’uguaglianza e sulla solidarietà, mentre l’homo oeconomicus
può essere definito come “l’imprenditore di sé stesso”).
Uno degli aspetti più rilevanti in tema di politica estera dell’Unione Europea è il tentativo, nel 2016, di adottare una
strategia globale dell’Unione Europea per la politica estera e di sicurezza. È una delle tante strategie che vengono lanciate
nel corso degli anni, ma questa è una delle più significative. In particolar modo l’Unione Europea, in questo documento,
sottolinea la necessità di assumere un proprio ruolo come fornitore di sicurezza globale, cioè assumere un ruolo come
attore indipendente sulla scena internazionale: ciò avrebbe consentito all’Unione Europea di avere un’interazione
flessibile con i diversi partner internazionali e di rilanciare il multilateralismo, e quindi di far assumere all’Unione Europea
una posizione definita nella scena internazionale, accrescendo l’autonomia strategica dell’UE (l’UE rivendica anche
un’autonomia strategica da altri attori internazionali come NATO e USA).
Sempre nel 2016 viene firmata una dichiarazione congiunta tra Unione Europea e NATO in cui si afferma la necessità di
rafforzare la cooperazione in un periodo di particolari sede per la sicurezza. Quindi, se da un lato si afferma che l’Unione
Europea deve svolgere un ruolo autonomo e indipendente sulla scena internazionale, dall’altra parte si ragiona sulla
necessità di rafforzare la partnership tra NATO e UE.
Quindi, questa nuova strategia europea in realtà si basa sul riconoscimento del ruolo della NATO per la difesa collettiva
(questo perché l’Unione Europea può avere una politica estera ma non ha una difesa comune; chi garantisce la difesa
comune è infatti la NATO).
Tra gli stati che non sono favorevoli allo sviluppo di una posizione politica autonoma dell’UE c’è il Regno Unito, in
quanto il Regno Unito ha sempre visto una difesa dell’Unione Europea come subordinata all’Alleanza Atlantica (il Regno
Unito, quindi, non è favorevole alla costruzione di una difesa più indipendente dalla NATO).
L’art. 42 del TUE prevede che la politica estera e di difesa comune costituisce parte integrante della politica estera e di
sicurezza comune. Quindi, nell’Art. 42, si contempla la possibilità nell’ambito della politica estera di istituire anche una
politica di difesa comune.
Tuttavia, sempre nell’art. 42, si afferma che gli impegni e la cooperazione in questo settore (= settore della difesa comune)
rimangono conformi agli impegni assunti nell’ambito dell’Organizzazione del trattato del Nord-Atlantico che resta, per
gli Stati che ne sono membri, il fondamento della loro difesa collettiva e l’istanza di attuazione della stessa.
Quindi, la posizione della politica estera dell’Unione Europea è una posizione ambivalente, perché da un lato si rivendica
una maggiore autonomia dell’Unione Europea, ma dall’altro si ritiene necessario mantenere una forte partnership con
l’Alleanza Atlantica.
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Confronto tra la Costituzione Italiana e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea:
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea è un documento adottato nel 2000, mentre la Costituzione Italiana
è stata adottata nel 1948. Per il periodo che intercorre tra l’adozione dei due documenti, è chiaro che la Carta garantisca
la tutela di nuovi diritti non previsti dalla Costituzione Italiana.
1. Confronto tra Art. 3 della Costituzione Italiana e Art. 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea Entrambi i documenti hanno come oggetto il tema dell’uguaglianza, ma nella Carta dei diritti manca
l’eguaglianza sostanziale come fondamento e legittimità dei diritti sociali. Rispetto all’evoluzione del
linguaggio, è possibile osservare come nella Costituzione Italiana si usa il termine “razza”, mentre nella Carta si
usa il termine “origine etnica”.
L’art. 21 afferma poi che è vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata sul patrimonio: se si afferma che
è vietata ogni forma di discriminazione fondata sul patrimonio nell’ambito di un’uguaglianza concepita come
formale, questo può voler dire che un sistema di tassazione progressivo possa essere considerato come
discriminatorio rispetto al patrimonio. L’Art. 21 presenta elementi di incompatibilità con l’Art. 52 della
Costituzione, il quale prevede il criterio di progressività e delle discriminazioni in relazione al patrimonio (in
altri termini, è previsto che chi ha un reddito più elevato è soggetto ad un’aliquota più elevata. Questo perché il
fine ultimo non è l’uguaglianza formale, bensì l’uguaglianza sostanziale).
2. Confronto tra Art. 4 della Costituzione Italiana e Art. 15 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea
l’oggetto dei due articoli è il lavoro. Se confrontiamo i due articoli, notiamo che nell’Art. 4 è riconosciuto il
dovere del cittadino di lavorare, ma al tempo stesso è riconosciuto il dovere dello Stato di promuovere le
condizioni che rendano effettivo questo diritto. Invece, nell’Art. 15 della Carta non è previsto nessun obbligo da
parte delle istituzioni dell’Unione Europea di rendere effettivo il diritto al lavoro (nella Carta è prevista la libertà
negativa di cercare un lavoro e di lavorare, ma manca un diritto positivo al lavoro).
3. Confronto tra Art. 41 della Costituzione Italiana e Art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea nella Costituzione Italiana l’iniziativa economica privata è sancita come limitata e come soggetta ad
attività di indirizzo e programmazione (la Legge infatti può determinare programmi e controlli opportuni
affinché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali).
Nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea invece l’iniziativa economica privata è sancita come
assoluta.
4. Confronto tra l’Art. 32 della Costituzione Italiana e Art. 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea l’Art. 32 della Costituisce afferma che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto
dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Invece, l’Art. 35 della Carta
afferma che ogni individuo ha il diritto di accedere alla prevenzione sanitario e di ottenere cure mediche alle
condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi nazionali. Da un alto c’è un diritto sociale a veder garantita la
propria salute (Cost.), dall’altro c’è un diritto ad accedere alle cure se queste sono previste (Carta). In questo
secondo caso, dunque, non c’è un diritto alla salute, e questo deriva anche dal fatto che l’Unione Europea
presenta una debolezza nella tutela dei diritti sociali.
5. Confronto tra l’Art. 40 e 41 della Costituzione Italiana e Art. 28 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea l’oggetto degli articoli in questione è lo sciopero. La Carta mette sullo stesso piano lavoratori e datori
di lavoro, focalizzando nuovamente l’attenzione su un’uguaglianza di tipo formale e non sostanziale, mentre la
Costituzione Italiana tutela in maniera privilegiata i lavoratori, i quali in un rapporto di lavoro costituiscono la
parte debole (=tentativo di garantire una forma di uguaglianza sostanziale).
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Giovedì 6 Ottobre
Il diritto “Liquido”:
Oggi, ragioniamo di uno spazio giuridico che è oggetto di una trasformazione sempre più evidente, nel senso che al diritto
del Costituzionalismo si sta affiancando un nuovo diritto che è difficile da definire, che cambia sia nel contenuto che nella
forma: cambiano i modi di produzione giuridica e cambiano i principi di riferimento.
Oggi, si assiste ad uno “scontro” tra l’orizzonte del Costituzionalismo e l’orizzonte della global economic governance,
cioè uno spazio di mercato dove la grundnorm è la competitività e la massimizzazione del profitto.
Prendiamo in esempio le parole di un report della J.P. Morgan del 2013: in questo report si evince le costituzioni
democratico-sociali dei paesi del Sud Europa sono costituzioni che devono essere cambiate perché 1) tutelano troppo il
diritto di protesta, 2) tutelano troppo il lavoro e 3) non garantiscono la stabilità degli Esecutivi.
In altri termini, si attacca dunque il Costituzionalismo sociale del secondo dopoguerra, basato sulla tutela del lavoro e
sull’idea di democrazia fondata sul consenso così come sul dissenso, e si auspica sempre più ad una verticalizzazione del
potere.
Sulla scena internazionale si affermano quelli che sono stati definiti da Massimo Luciani “anti-sovrani” o “nuovi sovrani”,
per cui si da una nuova struttura a livello globale che è caratterizzata dalla governance (con governance si indica un
complesso, molto più fluido del government, che comprende soggetti pubblici ma anche soggetti privati). Alcuni dei
soggetti di questa “governance” mondiale sono le corporations transnazionali; le organizzazioni economiche
internazionali (quali Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Organizzazione Mondiale del Commercio, Banca
Centrale Europea); le agenzie di rating (le più importanti agenzie di rating a livello globale sono la Moody’s, la Standard
& Poor’s e la Fitch); le corti internazionali, specie quelle arbitrali; gli Stati.
Con la global economic governance lo stato è depotenziato (nel senso che lo stato ha sempre meno margine di intervento)
divenendo sempre più un mero recettore di norme prodotte altrove. In questo senso, allo stato rimane la funzione di
erogare quei servizi che sono necessari, la funzione di gestire l’ordine sociale e la funzione di intervenire nei casi di crisi.
Con la global economic governance, gli stati dunque hanno sempre più il compito di garantire un terreno fertile dove gli
attori economici possano liberamente muoversi e massimizzare i propri profitti.
Questa governance mondiale è quindi caratterizzata dalla presenza di un mélange di soggetti pubblici e privati e
dall’egemonia degli attori economici. Ciò che ne consegue è l’estromissione degli stati e, conseguentemente, anche della
sovranità popolare. Possiamo ragionare in questo senso di una delocalizzazione della sovranità: il potere diviene sempre
più impalpabile e inafferrabile, nonché difficile da mettere in discussione.
Con la global economic governance ci sono sempre meno luoghi fisici deputati alla produzione del diritto e sempre meno
conta il territorio nell’ambito dell’applicazione, perché potenzialmente è un diritto che può essere applicato ovunque; per
questo, oggi si parla dunque di un diritto che è sempre più “aterritoriale” o “deterritorializzato”: è il diritto del “non
luogo”.
È un diritto che, oltre essere senza luogo, è anche un diritto atipico (cioè che non ha una forma predeterminata), gestito
privatamente e che spesso si esprime nella forma del contratto oppure della consuetudine. Ragioniamo dunque di un
processo di contrattualizzazione e privatizzazione del diritto, un diritto che sempre più viene a surrogare gli spazi del
diritto politico (questo può accadere in vari modi: accade innanzitutto perché questa nuova forma di diritto occupa
direttamente gli spazi del diritto, cioè si sovrappone a quelle che sono le norme esistenti, portando ad una disapplicazione
di fatto di quello che è il diritto statale). Parliamo dunque di una sovrapposizione del diritto globale al diritto statale,
una sovrapposizione giustificata dal fatto che il diritto vigente è considerato un diritto inadeguato. Questa sovrapposizione
è giustificata anche dal fatto che l’evoluzione scientifico-tecnologica è molto veloce, e le norme di Hard law non riescono
a stare a passo di questa evoluzione.
Con l’affermazione della global economic governance, le norme di origine politica vengono dequalificate, ovvero
demansionate: queste non sono più adibite alla produzione giuridica attraverso la mediazione politica, ma sono ridotte
alla ratifica di quanto deciso in altre sedi. Quindi, il diritto politico viene ad essere sempre più surrogato e demansionato,
e il suo spazio viene progressivamente occupato da questo nuovo diritto. In questo contesto, scompare sempre di più la
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legge, intesa come atto generale ed astratto, lasciando il posto ad un diritto che potremmo definire “fluido” e che è basato
sull’autonomia privata ( produzione del diritto direttamente dai privati).
In questo senso, possiamo citare la lex marcatoria. La lex marcatoria può essere definita come:
un diritto spontaneo creato dal ceto imprenditoriale, senza la mediazione del potere legislativo degli stati, al fine
di regolare i rapporti commerciali sui mercati.
Il diritto della business community per disciplinare i rapporti reciproci e risolvere eventuali controversie.
Il diritto politico si basa sul principio di validità (una norma è valida e produce effetti giuridici vincolanti in quanto è
prodotta secondo il meccanismo previsto per la sua produzione). Il “nuovo diritto” invece si fonda sul principio di
effettività, secondo cui un atto è valido in quanto produce degli effetti e dei risultati, e in virtù di ciò è considerabile
efficace (a differenza del diritto politico, nel nuovo diritto è irrilevante chi ha adottato l’atto o quale procedura è stata
seguita per la sua adozione. Quello che importa è il risultato). In questo caso quindi, il fatto si impone come fonte del
diritto extra ordinem.
Le norme prodotte dal diritto globale sono norme la cui durata non è formalizzata: è una durata mobile, in quanto una
norma vige fino a quando essa è in grado di essere efficace (tale norma, dunque, è subordinata alla sua effettività). Questo
significa quindi che il diritto globale, oltre ad essere “senza luogo”, è anche “senza tempo” (è dunque un diritto in moto
perpetuo).
Per le sue caratteristiche, il nuovo diritto può essere definito come “il diritto della dittatura del presente”, perché è un
diritto “di fatto”, creato in quel momento e valido in quel momento.
Inoltre, non è un diritto strutturato secondo un modello rigido e a piramide (come il modello kelseniano), ma è un modello
a rete.
Per riassumere quindi, possiamo definire il diritto globale come un diritto contrattualizzato, privatizzato, fluido,
aterittoriale e in moto perpetuo. Dal punto di vista sostanziale, la grundnorm di questo diritto è la massimizzazione del
profitto (un orizzonte che si contrappone a quello del costituzionalismo).
Un elemento importante di questo diritto globale, è la Soft law. Un atto di Soft law è un atto che non è giuridicamente
vincolante (un esempio di Soft law è la lettera inviata da Trichet e Draghi - conosciuta anche come lettera della BCE
all’Italia - inviata il 5 agosto 2011 al Governo italiano).
La locuzione Soft law si riferisce ad un insieme di atti eterogenei che esercitano effetti giuridici vincolanti pur zenza
possedere efficacia giuridica vincolante. Gli atti di Soft law si distinguono in:
Atti di pre-law sono gli atti che precedono l’adozione di fonti formali. Esempi di atti di pre-law sono: i libri
bianchi, libri verdi, programmi. Sono atti che non sono giuridicamente vincolanti, ma anticipano le linee guida
a cui l’Unione Europea intende attenersi.
Atti di post-law sono atti che tendono ad interpretare veri e propri atti di Hard law (ad esempio, sono atti che
intendono interpretare una legge o una direttiva dell’Unione Europea).
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Atti di para-law sono atti come comunicazioni o pareri che intervengono quando non vi è un atto di Hard
law: sono atti quindi che intervengono negli spazi vuoti e che rappresentano un’alternativa rispetto all’Hard law.
Gli atti di para law sono l’esempio più forte di Soft law.
1. Secondo la teoria binaria, la Soft law non è “ancora diritto”. È una teoria che accentua la contrapposizione tra
Hard law e Soft law, escludendo dall’area del diritto la Soft law.
2. Secondo la teoria gradualistica, la Soft law è una forma diversa di diritto (per questa teoria, dunque, la Soft law
è “già diritto”).
La diversa prospettiva adottata dalle due teorie dipende dal punto di vista che si intende adottare: dal punto di vista della
costituzione del sistema delle fonti legali, la Soft law può essere qualificata come fonte extra ordinem (quindi non è
diritto). Se invece si adotta un punto di vista che guarda all’effettività di ciò che produce la Soft law, questa è diritto.
In alcuni casi, la Soft law può essere qualificata anche come fonte contra constitutionem.
Nell’ambito dell’UE, il ricorso agli strumenti di Soft law è un ricorso molto diffuso, sia che questi atti abbiano un qualche
riferimento nei trattati comunitari, sia che si ragioni di atti che non hanno nessuna base legale.
Il sistema delle fonti dell’UE è costruito ab origine, e poi è stato interpretato dalla Corte di Giustizia, in maniera molto
meno rigida di quando avviene negli ordinamenti statali. Prevale un approccio sostanzialista, ovvero si guarda non tanto
alla definizione dell’atto, quanto soprattutto al contenuto di quell’atto.
La presenza di un sistema delle fonti meno rigido in UE è evidente anche se si osservano i trattati dell’UE, dove spesso
ci si riferisce all’adozione di misure o di azioni (il riferimento all’adozione di misure compare ad esempio nell’art. 5 del
TFUE).
Se si osserva il Libro Bianco sulla governance europea del 2001, ci si rende conto che l’Unione Europea stessa concepisce
il proprio sistema normativo come composto in parte da norme di Hard law e in parte da norme più fluide. Questo dimostra
dunque come nell’Unione Europea sia particolarmente forte il ricorso all’utilizzo di atti di Soft law (tra gli atti di Soft law
utilizzati dall’UE ricordiamo raccomandazioni, pareri*, Libri Bianchi, Libri Verdi, Programmi di azione, codici di
condotta, risoluzioni, comunicazioni, conclusioni dei Vertici, lettere e agende – ad esempio, la materia dell’immigrazione
è disciplinata nelle sue linee essenziali dall’Agenda sull’immigrazione del 2015, la quale delinea quelle che sono le linee
della politica europea in materia di immigrazione).
*Le raccomandazioni e i pareri sono contemplati esplicitamente all’Art 288 TFUE, il quale qualifica questi atti come
giuridicamente non vincolanti: sono atti che possiedono una base legale, che non conferisce tuttavia loro un’efficacia
giuridica vincolante, e per questo ricadono nella definizione di Soft law. Le raccomandazioni esercitano un’efficacia
vincolante di fatto, che spesso è ultra vires, cioè al di fuori dei poteri attribuiti all’autorità che li adotta.
Quanto detto finora, ci consente di avanzare alcune constatazioni sull’uso massiccio di Soft law da parte dell’Unione
Europea:
1° constatazione: l’uso di atti di Soft law si basa soprattutto sull’efficienza che tali atti sono in grado di produrre,
tralasciando dunque la questione della legittimazione democratica.
2° constatazione: la Corte di Giustizia riconosce l’adottabilità degli atti di soft law, ovvero la possibilità di
adottare atti atipici che producano effetti giuridici. Al di là del riconoscimento dell’adottabilità degli atti di soft
law, non si può non notare come la Corte di Giustizia si auto-attribuisca poteri rilevanti: in tal senso, la Corte si
pronuncia sulla validità dell’atto, non solo verificando la conformità dello stesso al quadro normativo
comunitario, bensì anche in difformità rispetto al dato formale, effettuando un riconoscimento della possibilità
per l’atto di produrre effetti giuridici ( la Corte di Giustizia si pone, nei confronti di questi atti, quasi come
una fonte sulla produzione). Qui entra in gioco anche il discorso sul principio di separazione fra i poteri, in
quanto la Corte di Giustizia si pone quasi come organo creatore di diritto, anche se non spetta alla Corte produrre
il diritto.
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3° constatazione: analizzando gli atti di Soft law che in concreto vengono adottati, è possibile notare come la
maggior parte di essi siano adottati dalla Commissione Europea. Come affermato precedentemente, la
Commissione Europea costituisce “il centro del motore” dell’Unione Europea, ed è l’unico organo ad avere un
potere di iniziativa legislativa; se a questo si aggiunge anche il fatto che la Commissione è la principale artefice
degli atti di soft law nell’ambito comunitario, si accresce ancor di più il ruolo dominante della Commissione
all’interno della struttura dell’Unione Europea.
4° constatazione: la soft law comunitaria influenza il diritto degli stati membri. Rispetto a questo, è possibile
distinguere tra due interpretazioni. Da un lato, vi è la tesi che interpreta la soft law comunitaria come un metodo
per incrementare la cooperazione con gli Stati attraverso procedimenti non impositivi e che garantiscono un
maggior coinvolgimento. Dall’altro, vi è la tesi che interpreta la soft law come uno strumento opaco, che assicura
ampia discrezionalità e possibilità di eludere le procedure formali, con una estensione delle facoltà degli organi
esecutivi e/o comunque dell’intervento di organi e soggetti che agiscono senza una legittimazione democratica
(come la BCE).
La Soft law, come accennato in precedenza, è molto utilizzata in materia di immigrazione. Quindi, la disciplina
dell’immigrazione è in gran parte gestita attraverso atti di Soft law.
Rispetto a questo, importante è citare la Dichiarazione tra Unione Europea e Turchia del 18 marzo 2016, cioè
quell’accordo per cui in cambio dell’accoglienza di un certo numero di profughi siriani sul territorio europeo, la Turchia
accettava un respingimento immediato di tutti coloro che non rientravano in questi parametri (un classico accordo di
riammissione).
Questa Dichiarazione è un accordo informale; eppure, per gli accordi in materia immigrazione e per gli accordi di
riammissione, il diritto comunitario richiede, ai sensi degli Art. 77 e 78 del TFUE, che si adotti la procedura legislativa
ordinaria oppure, nel caso si tratti di un trattato internazionale, che si segua il procedimento previsto dall’Art. 218 del
TFUE. Tuttavia, nel caso riportato, questa procedura prevista per gli accordi di riammissione e per gli accordi in materia
di immigrazione non viene seguita. In ragione di ciò, due cittadini Pakistani e un cittadino Afghano richiedenti asilo in
Grecia fanno ricorso al Tribunale Europeo perché temono, in ragione dell’accordo, di essere rinviati in Turchia. Il
Tribunale Europea afferma di non essere competente in materia perché non considera l’accordo un atto dell’UE.
Venerdì 7 Ottobre
Il catalogo dei diritti non è qualcosa di fisso e immutabile, ma è qualcosa di dinamico nel tempo: pensiamo ad esempio a
come nel tempo si siano aggiunti al catalogo i diritti libertà, i diritti politici e sociali e, più recentemente, i diritti di terza
e quarta generazione.
Generalmente, le costituzioni contengono al loro interno una parte, generalmente la prima, dedicata al catalogo dei diritti
(pensiamo ad esempio alla Legge fondamentale tedesca del 1949, che ai diritti fondamentali dedica il Titolo I).
I diritti, oltre ad essere una parte fondamentale di ogni Costituzione, costituiscono un presupposto ineliminabile per
caratterizzare la forma di Stato in senso democratico.
La proclamazione dei singoli diritti è in genere preceduta dalla proclamazione di alcuni principi fondamentali (ad esempio,
nella Costituzione italiana vengono proclamati il principio di eguaglianza e il principio di solidarietà; nella Costituzione
tedesca viene proclamato, nell’art. 1, il principio della dignità della persona; nella Costituzione francese viene proclamato
il principio della laicità).
All’interno delle Costituzioni, i diritti sono qualificati come inviolabili e fondamentali, per ribadire il fatto che questi
sono sottratti alla discrezionalità del legislatore (spesso poi, i diritti fanno parte di quella sezione della Costituzione che
non può essere modificata nemmeno con una revisione costituzionale). Questo nasce dall’idea che i diritti preesistono
rispetto allo stato e dall’idea secondo cui, in uno stato democratico, le istituzioni siano funzionali alla tutela dei diritti (es.
Art. 2 della Costituzione italiana: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo […] “riconosce”
allude a qualcosa di preesistente).
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A chi sono riconosciuti i diritti?
I diritti sono riconosciuti a volte con una formula impersonale (si pensi ad esempio all’Art. 13 della Cost. Italiana: La
libertà personale è inviolabile. Questa è una formula impersonale, vale a dire che il diritto è riconosciuto a tutti).
Altre volte, i diritti sono garantiti “a tutti”, “a ognuno” o “a nessuno” (Nessuno può essere detenuto arbitrariamente –
Art. 66 della Cost. francese); altre volte, i diritti sono riconosciuti in campo ai cittadini (Tutti i tedeschi possono
liberamente circolare nell’intero territorio federale – Art. 11 della Legge fondamentale tedesca).
In generale, dunque, è possibile distinguere tra due categorie di titolari dei diritti: la persona umana e i cittadini.
Tendenzialmente, i diritti di libertà negativa (libertà personale, libertà di riunione, etc.) sono riconosciuti a tutti senza
distinzioni in relazione alla cittadinanza (è sufficiente la qualità di persona umana). Un discorso particolare va affrontato
per libertà di circolazione e soggiorno: tale libertà è riconosciuta ai cittadini, ma anche agli stranieri che hanno un titolo
legale di ingresso e soggiorno nel territorio dello Stato (la libertà di circolazione e soggiorno è quindi un diritto sotto
condizione).
I diritti sociali (il diritto alla salute, all’istruzione, etc..) sono tendenzialmente riconosciuti a tutti, ma sono graduati nel
loro godimento (ad esempio, il diritto alla salute, riconosciuto dall’Art. 32 della Costituzione Italiana, è in capo ad ogni
individuo. Se però si considera il godimento di tale diritto, è possibile notare che vi sono delle differenze: il cittadino,
infatti, ha diritto alla tutela piena del diritto alla salute – così come lo straniero presente regolarmente e che si è iscritto
Al SSN – mentre lo straniero presente irregolarmente sul territorio ha diritto solo ad una tutela minima del diritto alla
salute, quello che viene considerato il nucleo essenziale ed irriducibile del diritto alla salute, e cioè le cure di pronto
soccorso. Un’eccezione è riservata al caso dei minori e delle donne in stato di gravidanza).
I diritti politici sono riconosciuti ai soli cittadini (in alcuni casi, i diritti politici sono estesi anche agli stranieri regolari
per le elezioni amministrative).
Tendenzialmente, le Costituzioni prevedono delle garanzie a fronte della limitazione dei diritti, cioè dei modi che
garantiscano che i diritti non siano limitati o ristretti arbitrariamente. Le garanzie previste sono essenzialmente due:
La riserva di legge: la riserva di legge è l’istituto giuridico in base al quale una determinata materia può essere
regolata soltanto dalla Legge o da un atto avente forza di legge. La riserva di legge tutela contro l’arbitrio
dell’esecutivo, configurandosi la legge come uno strumento di imparzialità ed eguaglianza e come atto adottato
dai rappresentanti dei cittadini, e dunque ad essi riconducibile.
La riserva di giurisdizione: la riserva di giurisdizione è un principio giuridico che prevede che per la disciplina
di particolari materie, soprattutto per decisioni che attengono alla restrizione della libertà dell’uomo, possa
intervenire solo ed esclusivamente l’autorità. La riserva di giurisdizione contribuisce a rafforzare la tutela contro
possibili abusi del potere esecutivo e, in particolar modo, delle forze di polizia, richiedendo l’intervento di
un’autorità indipendente ed imparziale per restringere l’esercizio dei diritti.
Le Costituzioni contengono al loro interno un catalogo di diritti fisso; tuttavia, non è esclusa la possibilità che nuovi diritti
possano sorgere nel corso della storia. Ciò, in alcuni casi, è espressamente previsto con l’introduzione di “clausole di
apertura”.
Nuovi diritti possono sorgere attraverso modifiche del catalogo, ovvero attraverso l’inserimento di nuovi diritti, oppure
attraverso interpretazioni degli organi di giustizia costituzionale. È anche vero che gli organi costituzionali, nella loro
interpretazione, possono portare a regressione nella tutela del diritto (vedi il caso dell’aborto negli Stati Uniti).
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Gli strumenti di protezione:
Oltre a offrire interpretazioni, gli organi di giustizia costituzionale sono anche gli organi preposti a proteggere i diritti.
Per tutelare i diritti, gli organi di giustizia costituzionale giudicano leggi contrarie alla Costituzione e leggi che violano e
non rispettano i diritti della Costituzione.
Gli organi di giustizia costituzionale, in alcuni casi, intervengono direttamente a fronte di violazioni di diritti. Questo, ad
esempio, accade su ricorso del singolo cittadino che lamenta la violazione dei propri diritti fondamentali (è il cosiddetto
“ricorso diretto al Tribunale Costituzionale” – presente in Germania – o “Recurso de amparo” – presente in Spagna).
Il primo soggetto a cui il cittadino si rivolge in caso di violazione o non attuazione di un diritto, è il giudice, che per
antonomasia è il garante dei diritti.
A livello statale/nazionale, un ruolo primario della tutela e nella protezione dei diritti spetta ai parlamenti. Un ruolo di
garanzia è poi esercitato, specie nelle forme di governo parlamentari, dal capo dello Stato, tenuto ad assicurare il rispetto
della Costituzione.
In alcuni ordinamenti, vi è poi un’autorità che si occupa delle possibili violazioni dei diritti e degli interessi dei cittadini
compiuti dalle pubbliche amministrazioni. È il caso dell’Ombudsman, introdotto per la prima volta in Svezia nella
Costituzione del 1809, che ad oggi è un organo di nomina politica, ma parzialmente indipendente, che esercita un controllo
di legittimità principalmente nei confronti della pubblica amministrazione e dei giudici.
Un altro strumento preposto alla protezione dei diritti è il diritto di resistenza, cioè il diritto di intervenire a tutela dei
diritti quando essi sono violati e quando il sistema di garanzia non funziona. È un diritto che ha radici molto antiche,
rintracciabili ad esempio nell’ “appello al cielo” di Locke o nel gesto di Antigone che viola, in nome di un diritto superiore,
le regole poste dal re Creonte. Il diritto di residenza oggi è esplicitamente espresso all’Art. 20 della Legge fondamentale
tedesca: “Tutti i tedeschi hanno diritto di resistere a chiunque tenti di rovesciare questo ordinamento, qualora non vi sia
altro rimedio possibile”. Nella Costituzione italiana non è previsto il diritto di resistenza.
Il Regno Unito.
Il Regno Unito ha una lunga tradizione in materia di diritti (pensiamo ad esempio alla Magna Charta Libertatum del
1215). Nonostante la lunga tradizione in materia, nel Regno Unito manca un catalogo organico dei diritti: in ragione di
ciò, occorre rintracciare libertà e diritti nei documenti esistenti e nella loro interpretazione giusprudenziale.
La Francia.
Anche la Francia, nella sua Costituzione in vigore, non ha un vero e proprio catalogo dei diritti. La Costituzione del 1958,
da un lato, si limita a sancire esplicitamente il diritto di voto (Art. 3), la libertà di adesione ad un partito (Art. 4), la libertà
individuale (Art. 66), il principio di eguaglianza (Art. 2) e quello di laicità (Art. 1); dall’altro, nel Preambolo della
Costituzione, si richiama la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e il Preambolo della Costituzione
del 1946 (quest’ultimo contiene il riferimento ai diritti economico-sociali). Nel catalogo, dal 2005, sono infine da
annoverare diritti e doveri riguardanti l’ambiente, con l’incorporazione nel testo costituzionale della Carta per l’ambiente
del 2004.
La Germania.
La Legge fondamentale tedesca del 1949 presenta una parte (la prima) specificamente dedicata ai diritti, dove è possibile
trovare elencati le libertà negative, i diritti politi e i diritti sociali. Nel 2002 è stata apportata una revisione al catalogo,
con l’inserimento in capo allo Stato della “responsabilità nei confronti delle generazioni future” e la tutela dei “fondamenti
naturali della vita e degli animali”.
La tutela dei diritti in Germania è significativamente correlata al fatto che la Germania è uno Stato di democrazia
protetta, per cui in Germania i diritti si possono esercitare sempre che non siano contro la forma di stato tedesca.
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A livello europeo, l’organo preposto alla tutela dei diritti è la Corte europea dei diritti dell’uomo. Essa si pronuncia su
tutte le questioni che riguardano l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU – 1950). La Corte europea dei diritti dell’uomo è un vero e proprio
organo giudiziario a cui ciascuno Stato, ciascuna persona fisica, ciascuna organizzazione non governativa o ciascun
gruppo di individui può far ricorso nei confronti di uno Stato per violazione di un diritto garantito dalla Convenzione.
La Corte giudica attraverso comitati composti da tre giudici che si esprimono sulla ammissibilità o meno del ricorso; se
il ricorso è ammesso, questo verrà trattato da Camere composte da sette giudici. Vi può essere ancora l’intervento della
Grande Camera, composta da 17 giudici, qualora si tratti di una soluzione che può dar vita a gravi contrasti.
La Corte adotta delle vere e proprie sentenze e, quando accoglie il ricorso, accerta la violazione della Convenzione e
obbliga lo Stato che ha commesso la violazione a rimuovere gli effetti dannosi prodotti dalla violazione commessa
attraverso il ripristino del diritto violato, ove è possibile, o attraverso un risarcimento pecuniario.
La sentenza Hirsi Jamaa e altri contro l’Italia è una sentenza del 23 febbraio 2012 adottata dalla Grande Camera della
Corte europea dei diritti dell’uomo.
Il 6 maggio 2009, circa 200 persone vengono intercettate da motovedette italiane in acque internazionali e vengono portate
a bordo delle navi italiane miliari per essere riportate in Libia (questo è uno dei primi casi che applica la politica di
respingimento).
Il ricorso viene presentato da 24 cittadini somali ed eritrei che facevano parte delle 200 persone riportate in Libia. La
Corte europea dei diritti dell’uomo ammette il ricorso, e riconosce che in questo caso i fatti sono avvenuti in acque
internazionali, ma a bordo di navi militari battenti bandiera italiana: secondo il diritto del mare, una nave in acque
internazionali è soggetta alla giurisdizione dello stato di cui batte bandiera. Inoltre, la Corte riconosce che nel periodo in
cui i naufraghi sono stati a bordo delle navi militari italiane, questi erano sotto esclusivo controllo delle autorità italiane.
Per queste ragioni, gli eventi ricadono sotto la giurisdizione italiana.
La Corte europea condanna l’Italia per doppia violazione dell’Art. 3 della Convenzione europea (l’art. 3 della
Convenzione prevede il divieto di torture e di trattamenti inumani o degradanti). I motivi per cui l’Italia viene condannata
sono molteplici: 1) l’Italia viene condannata perché il Governo italiano, riportando i naufraghi in Libia, li ha esposti al
rischio di subire trattamenti inumani o degradanti; 2) l’Italia ha violato il principio di non-refoulement indiretto: gli eritrei
e i somali, una volta riportati in Libia, rischiavano di essere rinviati dalla Libia in Eritrea e in Somalia (due Stati che non
garantiscono contro la tortura o contro i trattamenti inumani o degradanti); 3) l’Italia ha violato l’Art. 4 del Protocollo n.
4 alla Convenzione europea, il quale contiene il divieto di espulsioni collettive. Come affermato dalla Corte stessa, lo
scopo del Protocollo è evitare che gli Stati espellano gli stranieri senza considerare le loro circostanze personali; 4) l’Italia
ha violato l’Art. 13, il quale prevede l’esistenza di un rimedio effettivo capace di esaminare la sostanza di un ricorso.
Il quadro costituzionale riconosce che il vaccino può essere considerato un trattamento sanitario obbligatorio quando
coesistono insieme l’interesse dell’individuo e l’interesse della collettività, e quando sia rispettato in ogni caso il limite
imposto dal rispetto della persona umana. Il vaccino viene dunque concepito come elemento dell’interesse del singolo ma
anche come elemento con doveri di solidarietà del singolo nei confronti della collettività.
La pandemia da Covid-19 ha avuto effetti sulla libertà di circolazione: nel tentativo di rallentare la pandemia, è stata
limitata la libertà di circolazione per tutelare il diritto alla salute (è stato dunque compiuto un bilanciamento tra i diritti in
virtù del principio di ragionevolezza e proporzionalità).
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Giovedì 13 Ottobre – Losana OGGETTO: Tutela dei diritti fondamentali
Ordinamento è un’espressione che allude al complesso delle norme di diritto che reggono un determinato stato o una
determinata istituzione. Quando facciamo riferimento all’ordinamento italiano, facciamo quindi riferimento al complesso
di leggi e norme, Costituzione inclusa, sul quale si fonda lo stesso Stato.
Una parte essenziale, e quasi caratterizzante, delle Costituzioni contemporanee sono i diritti fondamentali. Storicamente,
nelle Costituzioni si sono cristallizzati contenuti tipici delle costituzioni, contenuti che potremmo definire quasi come
tratti caratterizzanti delle costituzioni. Uno dei contenuti tipici delle costituzioni è la garanzia dei diritti fondamentali.
La parte della Costituzione in cui sono contenuti i diritti è la stessa parte che definisce la forma di stato. La forma di stato
definisce quel rapporto verticale che lega lo Stato alle persone soggette alla sovranità dello stato. Questo rapporto è
definito dai diritti fondamentali, che stabiliscono cosa può/non può fare e cosa deve/non deve fare lo Stato verso le persone
soggette alla sua sovranità.
Limitare i diritti è necessario perché 1) la libertà di un individuo incontra un limite nella libertà degli altri – è quindi
necessario limitare i diritti per garantire la convivenza - e perché 2) non tutti i diritti hanno lo stesso contenuto, e il diverso
contenuto dei diritti fa si che spesso essi siano naturalmente in conflitto tra di loro.
Con lo stato liberale, l’idea prevalente era quella secondo cui il custode dei diritti fosse lo Stato. Con lo stato liberale la
tutela dei diritti era dunque legata a concezioni stato-centriche, che ponevano al centro lo Stato e la sua sovranità.
Questa concezione, nel corso del tempo, è venuta progressivamente meno per le seguenti ragioni: l’idea che i diritti fossero
un patrimonio naturale della persona era un’idea forte che a un certo punto è tornata ad essere rilevante. Se i diritti sono
della persona in quanto tale, allora i diritti sono come qualcosa che vanno al di là dei confini nazionali.
Questa idea è stata alimentata alcune vicende storiche: a cavallo tra 800 e 900, e in particolare il 900, si afferma l’idea
secondo cui le costituzioni nazionali non fossero in grado di scongiurare tragedie come le guerre, le discriminazioni e le
persecuzioni. Per questo, torna in auge l’idea dei diritti naturali doveva trovare un loro sviluppo oltre i confini nazionali
(non a caso, dopo la 2GM prendono piede le iniziative di stilare cataloghi di diritti a livello di diritto internazionale per
accumunare tutti gli stati democratici in un orizzonte comune di diritti e valori).
Oggi, l’idea per cui i diritti fondamentali siano strettamente legati alle costituzioni nazionali è stata superata, e l’idea
attuale è che la tutela dei diritti fondamentali non è una questione che si può affrontare esclusivamente all’interno dei
confini nazionali (è una questione che deve essere affrontata su più livelli, da quello nazionale a quello internazionale.
Da qui l’espressione “tutela multilivello” o “tutela integrata”).
Poiché dunque la questione della tutela dei dritti è una questione che va affrontata su più livelli, è possibile distinguere
almeno quattro ambiti nei quali la protezione dei diritti fondamentali si realizza: 1) Trattati di diritto internazionale; 2)
Trattati dell’Unione Europea; 3) Costituzione; 4) Statuti regionali.
L’UE nasce come un’organizzazione di diritto internazionale; progressivamente, mediante i trattati istitutivi, l’UE diventa
un ambito con una propria connotazione.
I Trattati dell’Unione Europea sono trattati particolari in quanto, a differenza dei comuni trattati che possono essere
definiti “statici”, quelli dell’UE sono “dinamici”: attraverso i trattati, gli stati membri hanno dato vita ad una
organizzazione con proprie istituzioni dotate di autonomi poteri normativi. Una volta create le istituzioni, in virtù dei
poteri normativi che sono ad esse riconosciuti, queste sono legittimate dal trattato a produrre a loro volta delle norme
giuridiche (a loro volta, queste norme produrranno effetti negli ordinamenti nazionali).
La struttura che tiene insieme i suddetti ambiti non è tanto gerarchica quanto più “a rete”: quella che lega i diversi ambiti
non è una vera e propria relazione di gerarchia, perché in questo caso un ambito dovrebbe prevalere su un altro. Quella
che lega dunque i diversi ambiti è più una struttura “a rete”, dove la relazione che si crea tra gli ambiti è una relazione
che potremmo definire di interferenza/reciproca contaminazione.
Ciascuno di questi ambiti entra in relazione con gli altri ambiti secondo determinate regole e secondo determinati
meccanismi.
A che cosa ci riferiamo quando parliamo di tutela dei diritti fondamentali? I diritti fondamentali si possono proteggere
in tanti modi. La forma più immediata di tutela dei diritti fondamentali è quella offerta dagli organi giurisdizionali. La
Corte costituzionale si occupa di verificare la compatibilità delle leggi con la Costituzione e con i diritti contenuti in essa,
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e questa interviene solo e soltanto se interpellata dai giudici, cioè da coloro ai quali i cittadini si rivolgono per tutelare i
propri diritti (i cosiddetti “giudici comuni”). Se la Corte costituzionale accerta l’incompatibilità della legge con la
Costituzione, la legge verrà rimossa dall’ordinamento. Se invece la Corte rigetta la questione, la legge continuerà ad
essere applicata.
Secondo alcuni, i diritti esistono se e nella misura in cui esistono dei giudici in grado di garantirli: è una prospettiva che
fa coincidere il concetto di diritto con il concetto delle sue garanzie, ed è un’idea fortemente sbilanciata dei diritti a favore
della giurisdizione. Il diritto, quindi, è tale se è un diritto che può essere realizzato e protetto da parte di un giudice.
D’altra parte, c’è chi invece sostiene che far coincidere i diritti con le loro garanzie comporta un rischio: i diritti non sono
solo le loro garanzie, ma sarebbero innanzitutto decisioni politiche, cui poi segue la tutela giurisdizionale. Questa seconda
concezione dei diritti fondamentali esalta dunque il momento dell’attuazione politica dei diritti fondamentali. Chi sostiene
questa seconda ipotesi, sostiene che i diritti fondamentali sarebbero quindi innanzitutto le leggi che danno attuazione alla
Costituzione, rendendola regola concreta e immediatamente spendibile in giudizio. Quindi, secondo questa concezione, i
diritti fondamentali sarebbero innanzitutto principi che si rivolgono direttamente al legislatore che, traducendo quel
principio in regole più dettagliate, permettono al giudice di risolvere i casi concreti.
La prima concezione si basa sull’idea secondo cui, sin dal principio costituzionale sia possibile trarre la regola che
permette si applicare tale principio al caso concreto, anche senza l’intermediazione del legislatore. Secondo la prima
concezione c’è quindi un legame diretto tra giudice e Costituzione ( il giudice applica la Costituzione), mentre secondo
la seconda concezione questo legame diretto non c’è, perché è il legislatore che determina il contenuto dei diritti
fondamentali.
Oggi tende a prevalere la concezione individualistico-giurisdizionale (cioè la prima).
Giovedì 20 Ottobre
Originariamente, il problema della tutela dei diritti fondamentali non era considerato rilevante per l’ordinamento dell’UE
perché si riteneva che i 3 trattati istitutivi dessero vita a ordinamenti particolari, ciascuno con un suo specifico obiettivo
e un quadro di competenze limitato nel quale non era necessario tutelare i diritti fondamentali. A questo ci avrebbero
pensato gli ordinamenti nazionali, che continuavano a essere ordinamenti generalisti e le loro costituzioni sarebbero state
sufficienti a garantire la tutela dei diritti fondamentali. Originariamente, erano tre i trattati istitutivi: il trattato CECA
(1951), il Trattato CEE e il trattato EURATOM (1957).
L’ottica, in questo contesto, è quella secondo cui attraverso l’integrazione economica si sarebbe raggiunta una progressiva
integrazione politica. Successivamente, le tre comunità originarie si sono poi progressivamente unificate.
Grazie all’attività fondamentale dell’organo giurisdizionale delle comunità (Corte di giustizia), si affermano quelli che
sono i principi “costituzionali” dell’ordinamento dell’UE. Sono quei principi che permetteranno all’ordinamento delle tre
comunità, e poi all’ordinamento dell’UE, di affermarsi con una forza sua propria negli ordinamenti degli stati membri. I
principi sono due:
- Il principio del primato del diritto dell’Unione sui diritti nazionali —> nell’ipotesi di conflitto tra il diritto
nazionale e il diritto dell’UE, prevale il diritto dell’UE. Una norma può prevalere su un’altra in tanti modi: un
modo è quello per cui la norma che sta sopra è gerarchicamente sovraordinata, e per questo è più forte e rende
invalida quella che sta sotto e che ne subisce le conseguenze (questa sarebbe una prevalenza di tipo gerarchico.
È quello che accade nel nostro ordinamento tra Costituzione e Legge).
Nei rapporti tra ordinamento UE e ordinamento nazionale non vige una prevalenza di tipo gerarchico, perché la
gerarchia è concepibile solo tra norme che appartengono allo stesso sistema. Dunque i due ordinamenti, quello
statale e quello dell’UE, sono autonomi. La prevalenza quindi si manifesta nel seguente modo: i due ordinamenti
sono separati ma coordinati da quelle materie che gli stati membri, attraverso il principio di attribuzione, hanno
devoluto all’UE: in queste materie prevalgono le norme dell’UE (tuttavia, la norma dell’ordinamento nazionale
non viene né annullata né abrogata. Tra le due norme in conflitto si sceglie quella più competente, e l’altra viene
messa da parte, semplicemente non viene applicata. E come se, dall’ambito di applicazione della legge interna,
l’ordinamento dell’UE ne sottraesse un pezzo e per esso prevale la norma dell’UE. La norma interna non viene
abrogata/annullata perché se venisse meno la norma UE, torna ad applicarsi la norma interna che era stata messa
da parte precedentemente – se fosse stata abrogata/annullata, in un caso come questo, si sarebbe verificato un
vuoto normativo).
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- Il principio dell’effetto diretto —> è legato al principio di supremazia, ma non sono la stessa cosa.
Tradizionalmente, gli atti tipici attraverso cui le istituzioni producono diritto sono i regolamenti e le direttive. I
regolamenti dell’UE sono la fonte più forte perché sono disciplinati dal trattato e sono un’equivalente delle leggi
nazionali. Una volta prodotti, entrano negli ordinamenti nazionali come se fossero leggi (si applicano
direttamente e contemporaneamente in tutti gli Stati membri al pari di una legge nazionale). Se c’è una legge
che è in contrasto con il regolamento, prevale il regolamento. Questo principio della diretta applicabilità riguarda
solo i regolamenti.
Le direttive sono un atto di altra natura, in quanto esse si rivolgono agli Stati membri, indicando loro gli obiettivi
che devono raggiungere in una determinata materia di competenza dell’unione. Gli stati membri, con i propri
strumenti e le proprie leggi, daranno attuazione alla direttiva e raggiungeranno quei determinati obiettivi.
Spesso gli stati non attuavano le direttive entro il termine prestabilito, il che significa che l’obiettivo imposto
dalla direttiva non sarà raggiunto dallo stato membro ritardatario nei tempi previsti, e l’efficacia della direttiva
non sarà la stessa in tutti gli stati (“applicazione a macchia di leopardo”). Lo stato inadempiente viene sanzionato
attraverso le procedure di infrazione.
Per fronteggiare il problema dell’inadempienza, la corte di giustizia ha introdotto il principio dell’effetto diretto:
l’effetto diretto è quindi quell’effetto per cui una volta scaduto il termine di adozione delle direttive, se questa
direttiva si presta ad essere usata come regolamento (“direttiva self-executive”), verrà applicata negli stati
membri come regolamento. Attraverso questo principio, la corte di giustizia evita che ci siano eccessive disparità
nell’attuazione della direttiva e si assicura l’efficacia contestuale di quella direttiva in tutti gli ordinamenti (sia
in quelli che hanno dato attuazione, che in quelli che non hanno dato attuazione).
L’affermazione di questi due principi è stata una necessità per la corte di giustizia: è solo in ragione di questi due principi
che l’ordinamento dell’UE ha potuto sopravvivere; se non si fossero affermati infatti, sicuramente l’UE come la
conosciamo non ci sarebbe e non sarebbe sopravvissuta (per questo vengono considerati principi fondativi
dell’ordinamento dell’UE).
Il principio del primato e il principio dell’effetto diretto, combinati insieme, diventano uno strumento attraverso cui l’UE
è in grado di inserirsi negli ordinamenti nazionali. Questi principi non sono stati ben accetti dalle corti costituzionali
nazionali: supponiamo che un giudice si trovi ad applicare una legge nel nostro ordinamento e ritenga che quella legge
possa ledere un diritto fondamentale scritto nella costituzione. In questo caso, il giudice deve sollevare la questione
davanti alla Corte costituzionale. Supponiamo ora che il giudice debba applicare un regolamento o una direttiva dotata di
effetto diretto; nel caso in cui il giudice ritiene che questi due provvedimenti contrastino con un principio interno alla
costituzione, il giudice non può andare davanti alla Corte costituzionale (la quale giudica la compatibilità tra le leggi
nazionali e la costituzione – norme del medesimo sistema), ma deve sollevare la questione davanti alla corte di giustizia.
Come affermato in precedenza però, la tutela dei diritti fondamentali non era una questione rilevante agli occhi
dell’ordinamento dell’UE: il giudice, quindi, può rivolgersi alla corte di giustizia, ma l’ordinamento dell’UE non prevede
la tutela dei diritti fondamentali, ed è quindi probabile che la corte di giustizia non riconosca il problema
dell’incompatibilità tra la direttiva/regolamento e i diritti fondamentali contenuti nella costituzione nazionale.
Le corti costituzionali hanno quindi elaborato la “dottrina dei contro-limiti”, secondo cui la norma dell’UE dotata di
effetto diretto e direttamente applicabile non deve ledere i diritti inviolabili e i principi supremi della costituzione. Le
corti costituzionali hanno ceduto parte della loro sovranità all’UE, ma questa cessione non può legittimare l’Unione a
produrre un diritto che leda i principi costituzionali fondamentali e i diritti fondamentali. Sul piano pratico, la
conseguenza di questa dottrina è che nell’ipotesi in cui il giudice si trovi ad applicare un regolamento che egli ritiene
contrario ai diritti fondamentali della costituzione, egli dovrà andare dalla corte costituzionale, la quale dice ai giudici di
impugnare la legge di esecuzione* del trattato nella parte in cui quella legge autorizza il singolo regolamento/direttiva ad
avere effetti nel nostro ordinamento (la parte su cui il giudice ha il dubbio che sia in contrasto con i principi della
costituzione).
La corte deciderà a questo punto se quell’atto/regolamento/direttiva effettivamente viola principi/diritti fondamentali della
costituzione (= la corte si appropria del controllo sulla legittimità costituzionale di atti di cui non potrebbe avere
conoscenza, perché apparterrebbero naturalmente alla giurisdizione della corte di giustizia).
La dottrina dei contro-limiti, così come elaborata dalle corti costituzionali, non è ben accetta agli occhi della corte di
giustizia perché l’applicazione della dottrina dei contro-limiti è come se limitasse l’applicazione contestuale della
direttiva/regolamento, rendendo tale atto inefficace nell’ordinamento nazionale (rischierebbe di innescare
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un’applicazione a macchia di leopardo del diritto dell’UE negli stati membri). È la reazione delle corti costituzionali
nazionali al principio dell’effetto diretto e al principio del primato.
*Legge di esecuzione: legge che da esecuzione ai trattati istitutivi. Autorizzando i trattati, la legge di esecuzione autorizza
anche la produzione del diritto derivato previsto nei trattati.
Giovedì 27 Ottobre
Nei confronti di questa dottrina dei contro limiti, la corte di giustizia dell’UE ha reagito: ha provato a trovare una soluzione
per disinnescare il rischio che le corti costituzionali nazionali applicassero la dottrina dei contro limiti.
Per provare a disinnescare questo rischio, la corte di giustizia ha cominciato a tutelare i diritti fondamentali: se la corte di
giustizia controlla la compatibilità degli atti europei con i diritti contenuti nelle costituzioni, non c’è più bisogno che le
corti costituzionali nazionali verifichino loro che i singoli atti siano compatibili con la loro costituzione (perché questo
controllo è stato effettuato a livello europeo dalla corte di giustizia).
Nei trattati istitutivi (in principio, origine settoriale ed economicistica) non era previsto che l’Unione Europea si facesse
garante dei diritti fondamentali: dunque, la corte di giustizia si inventa una competenza in precedenza non prevista dai
trattati. La corte di giustizia comincia a ritenersi autorizzata a tutelare i diritti fondamentali in nome dei principi
generali dell’ordinamento comunitario.
Primo problema: Quali diritti fondamentali tutela la Corte di Giustizia? Poiché non è presente un catalogo di diritti
fondamentali tutelati dall’UE, è stato necessario individuare le fonti dalle quali trarre i diritti tutelati. La Corte ha
individuato due fonti da cui trarre i diritti fondamentali da tutelare:
1. I cataloghi già presenti a livello di diritto internazionale —> tra questi cataloghi, un ruolo particolare è
rappresentato dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
(—> CEDU – la CEDU formalmente non c’entra nulla con l’UE. In Europa, non c’è solo come organizzazione
internazionale l’UE, ma ci sono anche altre organizzazioni internazionali, una di queste è il Consiglio d’Europa.
Nell’ambito del consiglio d’Europa è stato redatta la CEDU: gli stati che aderiscono si impegnano a rispettare i
diritti fondamentali scritti nella CEDU. Inoltre, esiste anche la Corte Europea dei diritti dell’Uomo (sede a
Strasburgo) che si occupa di giudicare se uno stato che ha aderito al Consiglio d’Europa viola in qualche modo
uno dei diritti fondamentali sanciti dalla convenzione). Quindi, la corte di giustizia dell’UE tutela i diritti
contenuti all’interno della CEDU. La CEDU tutela principalmente i tradizionali diritti di libertà (circolazione,
soggiorno, manifestazione del pensiero, libertà personale) ma non contempla quelli che sono i cosiddetti “diritti
sociali” (—> diritto alla salute, all’istruzione, etc..). Quindi anche l’UE non tutela i diritti sociali (in quanto è
essa tutela i diritti contenuti all’interno della CEDU).
2. Tradizioni costituzionali comuni —> questa formula allude al fatto che il diritto che la corte di giustizia vuole
tutelare è un diritto condiviso, e quindi già riconosciuto dalle costituzioni degli stati membri. La questione delle
tradizioni costituzionali comuni pone alcuni interrogativi, uno di questi è se scegliere come modello
l’ordinamento che prevede una tutela maggiore dei diritti o l’ordinamento che prevede una tutela minore dei
diritti (scegliere il livello più basso potrebbe indurre gli ordinamenti con un livello più alto ad abbassare il proprio
livello in materia di tutela dei diritti). In linea di massima, sembrerebbe essere preferibile la scelta del modello
con un livello più alto di tutela. Tuttavia, è difficile dire con certezza se una costituzione tutela i diritti in modo
più intenso o meno intenso rispetto ad altre costituzioni: paradossalmente, un ordinamento con un livello di
protezione alto sulla carta, presenta un livello di protezione a livello concreto molto basse.
Alla fine, per individuare i diritti da tutelare ispirandosi alle tradizioni costituzionali comuni, la corte di giustizia
non si basa sul livello di protezione contenuto nei testi costituzionali. La corte di giustizia utilizza un approccio
critico: la corte si accontenta infatti di valutare che quel determinato diritto sia tutelato dagli ordinamenti
nazionali, senza porre l’attenzione sul livello di protezione adottato. Si tratta dunque di un criterio molto elastico,
perché è sufficiente che quel diritto sia tutelato in alcuni/nella maggior parte degli stati membri.
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Secondo problema: Stabilire di volta in volta il contenuto dei diritti
Questo problema sembra essere più rilevante quando la Corte di Giustizia trae ispirazione dalle tradizioni costituzionali
comuni.
Il giudice si riserva la possibilità di definirne i contenuti:la Corte di Giustizia sottolinea l’idea che il contenuto in concreto
del diritto sia qualcosa che lei stessa definisce nel caso concreto. Rispetto ai contenuti, essa afferma che i diritti
fondamentali che lei riconosce non sono prerogative assolute, ma sono prerogative che devono essere bilanciate con altri
diritti fondamentali (la corte è consapevole che riconoscere un diritto significa necessariamente limitarne un altro).
Realizzare un diritto è strutturalmente un’attività che per forza di cose significa limitarne un’altra (=conflitto tra diritti).
Il conflitto tra diritti può avvenire o tra uno stesso diritto o tra diritti naturalmente confliggenti.
Il legislatore ha una possibilità ampia di far convivere i diritti confliggenti, perché potrebbe decidere di valorizzare un
diritto più di un altro (il giudice gode di un ampio margine di discrezionalità). Il legislatore, tuttavia, non può scegliere
una soluzione che si colloca interamente nel diritto A o nel diritto B perché collocarsi nei punti estremi significherebbe
individuare una regola che non apporta nessun bilanciamento, ma che massimizza per intero uno dei diritti in conflitto e
sacrifica per intero l’altro diritto.
La corte di giustizia afferma non solo che i diritti non sono prerogative assolute, ma anche che i diritti che lei tutela sono
bilanciabili con gli obiettivi fondamentali dell’Unione Europea. Questi obiettivi sono quelli contenuti nei trattati originali
(dove non si parla di tutela dei diritti ma solo dell’idea di costruire il mercato unico). Nella prospettiva della Corte, a
limitare un diritto e a giustificare operazioni di bilanciamento non vi sarebbero solo altri diritti fondamentali ma anche
gli obiettivi economici contenuti nei trattati. Per questo, per tali diritti è prevista la possibilità di essere posti in
bilanciamento con grandezze che non sono tipiche dei diritti fondamentali ( bilanciamento tra grandezze eterogenee).
Con riferimento a questo meccanismo di riconoscimento operato dalla Corte, le perplessità sono notevoli. Il punto critico
è il seguente:
Troppa autonomia riconosciuta al giudice: è la Corte, infatti, che può scegliere a quale fonte ispirarsi, che può
operare dei bilanciamenti e che può bilanciare un diritto fondamentale con interessi di natura economica. Per
arginare questa critica, la soluzione adottata è stata quella di dotare l’Unione di un catalogo scritto di diritti
fondamentali (—> CARTA DI NIZZA).
Giovedì 3 Novembre
Come si può arginare il problema dell’ampia discrezionalità dei giudici e della Corte? Dotando l’UE di un suo catalogo
di diritti fondamentali in modo tale che la Corte di Giustizia sia vincolata ad un testo scritto (in questo modo la sua
discrezionalità è limitata).
Ecco che si apre ben presto nell’UE un ampio dibattito su come dotare l’UE di un suo catalogo di diritti fondamentali: il
dibattito è molto articolato, perché le sensibilità costituzionali nell’UE sono diverse (sono diverse perché sono tanti gli
stati membri). Già solo nell’individuare quali diritti fondamentali meritino tutela, non tutti gli stati membri hanno la
medesima sensibilità: alcune costituzione sono più inclini a riconoscere i diritti sociali, mentre altre costituzioni
tradizionalmente sono invece più inclini a riconoscere i diritti di libertà. Quindi, alcuni stati privilegiano alcuni diritti,
mentre altri stati ne privilegiano altri. Quindi trovare un accordo sul catalogo di diritti fondamentali da riconoscere è stato
sempre un percorso tormentato.
Il percorso è ritenuto necessario da tutti gli Stati membri ma l’accordo su quali diritti riconoscere ha reso il percorso
tortuoso. Le tappe di questo percorso risentono delle diverse sensibilità costituzionali degli stati: il primo tassello
significativo di questo percorso si ha con il trattato di Maastricht (1992). Con il trattato di Maastricht si modifica l’art. 6
del Trattato sull’Unione Europea, trasponendo il punto di arrivo della giurisprudenza della corte di giustizia nel testo del
trattato e recependo che la tutela dei diritti fondamentali fa parte dei principi generali dell’ordinamento comunitario e che
tra i diritti fondamentali ci sono la Convezione Europa dei diritti dell’uomo (CEDU) e le tradizioni costituzionali comuni.
Si dedica in questi termini un articolo, precedentemente assente nei trattati, sulla tutela dei diritti fondamentali. È come
se da questo momento si costituzionalizzasse la giurisprudenza della corte di giustizia. Dal punto di vista del diritto
dell’UE si fornisce la Corte di giustizia di una base legale per il suo agire a tutela dei diritti fondamentali.
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Dopo che la tutela dei diritti fondamentali diventa competenza della giurisprudenza della corte di giustizia, il problema
ora si sposta sull’individuazione dei diritti. La CEDU, a cui si ispira l’UE su quali diritti tutelare, riconosce esclusivamente
i tradizionali diritti di libertà.
Ecco che allora, il successivo trattato di Amsterdam (1997) spinge in modo sempre più marcato sui diritti sociali perché
arricchisce il testo dei trattati con un esplicito rinvio a due ulteriori documenti: la Carta sociale europea (1961) e la carta
comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori (1989). Questi due documenti sono cataloghi di diritti
fondamentali che riguardano principalmente (anzi, esclusivamente) la tutela dei diritti sociali.
Il trattato di Amsterdam fa esattamente quello che il Trattato di Maastricht aveva fatto in riferimento alla CEDU: il
Trattato di Amsterdam arricchisce il testo dei trattati con un esplicito rinvio alla Carta Sociale Europea e alla Carta
comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori.
Anche con Amsterdam quindi, altri due cataloghi esterni ai trattati vengono richiamati: ecco che allora nell’UE non solo
i diritti di libertà ma anche quelli sociali entrano a far parte del patrimonio costituzionale dell’UE a controbilanciare la
spinta determinata dai diritti li libertà tradizionalmente tutelati.
Con i due trattati abbiamo un riconoscimento indiretto e frazionato: indiretto perché i trattati assumono i diritti riconosciuti
da altri documenti e frammentato perché non abbiamo ancora l’idea che i diritti fondamentali siano una categoria unitaria
di diritti ma che siano categorie separate.
Il problema giuridico —> Qual è l’efficacia che ha il rinvio che il trattato fa a questi cataloghi esterni di diritti
fondamentali? Il diritto richiamato (nel nostro caso i documenti contenenti i diritti fondamentali) gode delle stesse
caratteristiche di cui godono tutte le altre norme del diritto dell’UE, tra cui anche i principi costitutivi (primato ed effetto
diretto). È una conseguenza piuttosto rilevante, perché si intende in modo così forte il rinvio, si può affermare che il diritto
scritto nei documenti richiamati è a tutti gli effetti una norma del diritto dell’UE, che dunque prevarrà sulle leggi degli
ordinamenti nazionali e potrà essere applicata direttamente.
Se invece interpreto in modo debole questo rinvio, allora questi documenti sono esterni e non varranno come vere e
proprie norme del diritto dell’UE. Verranno dunque usati come dichiarazioni di principi o come ausilio interpretativo.
Ancora, questi documenti possono essere utilizzati dalle istituzioni dell’UE come fonte di ispirazione per interventi
normativi che abbiamo lo scopo di realizzare un diritto sancito da questi documenti e sempre che l’intervento normativo
rientri nelle competenze dell’unione.
Questa è la prospettiva del cosiddetto rinvio debole, cioè un rinvio che non incorpora il documento esterno nei trattati ma
attribuisce loro questa efficacia meramente orientativa. La prospettiva del rinvio forte prevede invece un rinvio che
incorpora nei trattati quei documenti esterni e una volta incorporati godranno dei principi generali di cui godono tutte le
norme giuridiche dell’UE.
Alcuni studiosi hanno ritenuto che già in queste tecniche di rinvio potesse rintracciarsi un rinvio forte, con tutte le
conseguenze del caso. Prima con Maastricht e poi con Amsterdam i diritti, seppur ancora differenziati per categoria, sono
entrati formalmente nell’ambiente giuridico dei trattati, e quindi da questo momento andrebbero trattati come tali.
La tesi del rinvio forte non è stata seguita dalla stessa corte di giustizia: ha lei stessa avallato l’idea del rinvio debole, e
cioè ha utilizzato nella propria giurisprudenza questi documenti come strumento di ausilio interpretativo per leggere il
vero diritto dell’UE alla luce dei diritti domandamelo sanciti da questi documenti (non ha attributo quell’efficacia a questi
documenti che la lettura del rinvio forte avrebbe voluto riconoscere).
Quindi, fino al 1997 il sistema dei diritti fondamentali nell’ordinamento dell’UE ha funzionato nel seguente modo:
- Riconoscimento giurisprudenziale, quello operato dalla Corte di Giustizia, che continua ad operare;
- CEDU;
- Riconoscimento diritti sociali tramite rinvio debole alla Carta sociale europea e alla carta dei diritti sociali
fondamentali dei lavoratori.
Dal punto di vista dei contenuti, con i diritti sociali il livello di garanzia prestato da questi documenti è spesso ritenuto
inferiore a quello riconosciuto dalle costituzioni nazionali. Su questo versante, la critica radicale a questi documenti è che
non solo il rinvio è debole, ma anche il livello di garanzia garantito da questi documenti è insufficiente.
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La carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea:
Dopo Amsterdam, la questione del riconoscimento dei diritti fondamentali si fa sempre più impellente e in qualche modo
urgente. Si avverte dunque la necessità di dare una sistematizzazione complessiva a questo modello un po’ disorganizzato
di tutela dei diritti fondamentali. Le ragioni di sistematizzarlo sono sostanzialmente 2:
1. La prima ragione ha a che fare con l’idea di riportare a unità la tutela dei diritti fondamentali (la distinzione tra
diritti sociali e diritti di libertà va superata), e dunque con la necessità di un riconoscimento unitario dei diritti
fondamentali.
2. Sul finire degli anni ’90, l’idea che si era fatta strada era quella di far progredire il processo di integrazione
europea in modo significativo, il che avrebbe avuto come traguardo l’istituzione di una vera e propria
costituzione dell’UE (il fatto di rinominare in modo simbolico i trattati, accorparli in un unico testo, per
trasformarli in un unito trattato che istituisse la costituzione dell’UE). La costituzione evoca una dimensione
federale dell’UE.
In questa prospettiva, anche la stesura del catalogo dei diritti andava ripensata: l’idea è la stesura di un solo catalogo di
diritti che accorpasse insieme con pari dignità sia i diritti sociali che le tradizionali libertà. Nasce così l’idea della Carta
dei diritti fondamentali dell’UE (proclamata a Nizza nel 2001).
Le istituzioni incaricano un’apposita convenzione con un preciso mandato: stendere un documento unitario che definisse
in modo omogeneo e unitario il catalogo dei diritti fondamenti da porre a fondamento dell’UE.
Originariamente, la carta viene proclamata come documento dall’incertezza natura (nel 2001 viene proclamata “solenne
dichiarazione” perché la carta sarebbe confluita dentro al trattato che istituisce una costituzione per l’UE – il cosiddetto
trattato costituzionale).
Durante i lavori per il trattato costituzionale, si decise di far confluire la carta come parte del trattato: a quel punto la
natura giuridica dei diritti sanciti non sarebbe stata più incerta. Si trattò però di un progetto che fallisce: il trattato viene
stipulato ma non entrò in vigore perché non fu ratificato da tutti gli stati membri (alcuni stati membri, in particolare
Francia e Olanda, introducono un referendum a seguito del quale vincono i voti contrari, provocando così la non entrata
in vigore del trattato costituzionale).
Soluzione —> Trattato di Lisbona (2007). Il trattato prende atto della carta, abbandona la prospettiva costituzionale
precedente e si adegua alla tradizione del riconoscimento tramite rinvio. Quindi il trattato recepisce la carta con la
procedura di rinvio (si modifica l’art. 6 del trattato sull’Unione Europea – TUE - introducendo esplicitamente un rinvio
anche alla carta dei diritti fondamentali dell’UE. La novità è che, a differenza dei precedenti rinvii, il trattato prende
posizione sul rinvio perché lo stesso Articolo 6 viene modificato dicendo che la Carta dei diritti fondamentali dell’UE
assume il medesimo valore giuridico dei trattati (= rinvio forte).
Lo scenario della tutela dei diritti cambia: per la prima volta l’UE si dota di un catalogo scritto di diritti fondamentali
unitario (perché accoglie al suo interno sia i diritti sociali sia i diritti di libertà); si tratta di un catalogo sulla cui efficacia
giuridica non si può più discutere perché quel documento ha il medesimo valore giuridico dei trattati (= d’ora in avanti,
quello scenario del rinvio forte diventa realtà. Ora, con Lisbona, i diritti sanciti dalla carta dei diritti fondamentali dell’UE
devono essere trattati come tutte le altre norme giuridiche dell’UE e dunque, sono dotati di quelle caratteristiche che sono
costitutive dello stesso ordinamento dell’Ue, ossia il primato e l’effetto diretto). A questo punto, con il trattato di Lisbona,
i diritti possono essere a tutti gli effetti utilizzati direttamente negli ordinamenti nazionali dai giudici nazionali per
soddisfare pretese mentre risolvono casi concreti, esattamente cose applicassero un regolamento o una direttiva.
Alcuni Stati membri hanno accettato che l’UE facesse dei passi avanti sul punto dei diritti fondamentali, ma altri stati
membri no: come già detto precedentemente, all’interno della Carta dei diritti sono contenuti anche i diritti sociali e non
tutti gli Stati all’epoca avevano la stessa sensibilità rispetto ai diritti sociali (in particolare Regno Unito e Polonia). Proprio
in ragione di ciò, il Protocollo n.30 allegato al Trattato di Lisbona introduce misure specifiche per il Regno Unito e la
Polonia. In particolare, viene previsto che la sezione IV, ovvero la sezione che riconosce i diritti sociali, non sia loro
applicata. Per tutti gli altri Paesi che non hanno negoziato il protocollo n.30, la carta vale in tutte le sue parti.
La Carta dei diritti fondamentali ha il merito di aver accorpato tutti i diritti in un unico documento, al fine di dare pari
riconoscimento e pari peso a tutti i diritti. Essa comprende un preambolo introduttivo e 54 articoli suddivisi in 7 capi: 1)
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dignità, 2) libertà, 3) uguaglianza, 4) solidarietà, 5) cittadinanza, 6) giustizia e 7) disposizioni generali che disciplinano
l’interpretazione e l’applicazione della Carta.
La tradizionale diffidenza nei confronti dei diritti sociali, non solo ha spinto alcuni Stati a “tirarsi fuori” (vedi caso del
Protocollo), ma ha anche inciso anche nella tecnica redazionale con cui tali diritti sono stati scritti. Per questo, alcuni
ritengono la Carta insoddisfacente dal punto di vista della tutela offerta ai titolari della pretesa.
Giovedì 10 Novembre
La funzione dei diritti fondamentali ha a che fare con una una questione particolare, ovvero la cosiddetta questione della
meritocrazia.
Oggi, il criterio del merito è un criterio utilizzato per distribuire beni e risorse nella società. La meritocrazia può
interferire con il godimento dei diritti fondamentali? La risposta a questa domanda sembra scontata ma non lo è.
Prendiamo ad esempio in considerazione i seguenti esempi:
1. Nel mondo del lavoro, è possibile lasciare per intero l’autonomia negoziale tra privati il compito di stabilire chi
merita retribuzioni dignitose e chi merita retribuzioni meno dignitose?
2. In un contesto pandemico, è possibile ritardare, sulla base di criteri meritocratici, le cure necessarie a preservare
la salute di tali soggetti?
3. In un contesto economico sempre più competitivo, si può lasciare per intero alla scuola, alla formazione
professionale e all’acquisizione di skills il compito di selezionare chi merita successo?
4. In un contesto di forte sfiducia nei confronti della politica, è possibile pretendere il possesso di requisiti
meritocratici dalla classe politica?
5. In molti contesti, oggi, le disuguaglianze sociali crescono. In questo contesto, è possibile ridistribuire il carico
fiscale premiando chi, anche per meriti personali, già dispone di ricchezze maggiori?
La meritocrazia è un concetto ambiguo e, per molti versi, anche abbastanza insidioso. Il termine entra nel dibattito
pubblico con il celebre romanzo di Jung “The raise of meritocracy”. L’obiettivo dell’autore è utilizzare il termine non per
esaltare i valori del principio meritocratico, ma metterne in luce i pericoli.
La tesi di fondo del libro è che il principio meritocratico avrebbe accresciuto le disuguaglianze sociali, e che il tutto si
sarebbe concluso con una rivoluzione contro la meritocrazia nel 2033 (“la grande rivolta finale contro la meritocrazia”).
L’originaria accezione polemica e negativa del termine “meritocrazia”, si è in brevissimo tempo persa: il termine presto
si è caricato di una connotazione quasi esclusivamente positiva e apparentemente inappuntabile.
*Lettera indirizzata da Young a Tony Blaire dal titolo “Down with meritocracy”: Young critica Blaire di aver utilizzato
il suo termine in un’accezione diversa da quella che egli stesso aveva attribuito al temine.
“La tirannia del merito” (Michael Sandel – 2020) spiega le ragioni della trasformazione dell’accezione del termine
“meritocrazia”: dietro c’è una concezione particolare della società che si vuole render dominare (la concezione mira a
dividere la società in vincenti e perdenti – dietro c’è un obiettivo politico, ovvero quello di giustificare le disuguaglianze
prodotte e sempre più marcate all’interno della società).
Nella prospettiva fortemente meritocratica, il successo è sempre frutto del merito, mentre invece l’insuccesso è sempre
una colpa individuale. Questa prospettiva non tiene conto dei punti di partenza né dei vincenti né dei perdenti. Ciò che
veramente conta e permette di separare i meritevoli dai non merito e li è solamente il risultato finale. In questo modo,
possiamo definire il merito una dottrina politica volta a giustificare lo status quo e a tramutare in pretese meritocratiche
quelli che possiamo definire privilegi. Sono quindi dottrine conservative dello status quo: questo è un modo di concepire
la società in un modo non coerente con il modello di società stabilito dall’Art. 3 comma 2 (la nostra Cost., come scelta di
fondo, ha deciso di considerare i punti di partenza —> Uguaglianza sostanziale).
Quando detto finora, farebbe pensare ad una incompatibilità assoluta tra il criterio del merito e l’idea di giustizia sociale.
Merito e giustizia non solo possono, ma devono convivere: bisogna trovare un modo per farli convivere, e questo modo
sono i diritti fondamentali.
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Una proposta che si muove nella direzione di far convivere merito e giustizia è quella avanzata dal filosofo politico
americano Walzer, che ha scritto “Sfere di giustizia”. È un testo che tenta di far convivere i due principi, ed è incentrato
sul concetto di uguaglianza complessa: non si tratta di dare sempre e in ogni caso a tutti le stesse identiche opportunità
oppure la medesima quota di beni (come vorrebbe l’uguaglianza formale), bensì di impedire che il successo in un
determinato ambito, ad esempio la politica, non si traduca automaticamente nel successo in un altro e diverso ambito,
come ad esempio quello economico.
L’idea fondamentale è che ciascun bene (es la carica politica) possiede un suo criterio distributivo, che Walzer chiama
intrinseco, che non può valere per altri beni —> in altri termini, se sono un politico influente è perché ho saputo ottenere
consenso e non perché ho ottenuto ricchezza in ambito economico.
Bisogna quindi individuare gli ambiti riservati a ciascun bene, quelle che Walzer chiama “sfere di giustizia”, per poi
mantenerli separati affinché siano impedite concentrazioni di potere pericolose e contrarie al principio meritocratico.
Walzer sposta l’attenzione dai soggetti titolari di diritti sugli oggetti dei diritti, affermando che sono gli oggetti a
determinare chi ha diritto a una determinata prestazione e non viceversa. In ciascun ambito, secondo Walzer,
vengono scambiati determinati beni (ad esempio nella scuola, il bene scambiato è l’istruzione): ciascun bene ha un suo
“criterio distributivo intrinseco” che determina a cascata chi ha diritto a ricevere quel bene. È il criterio distributivo del
bene a determinare chi ha diritto a ricevere quel determinato bene, e non possono valere altri criteri.
Nell’ambito politico, ad esempio, il criterio distributivo delle cariche politiche è il consenso, mentre il criterio per accedere
nel mercato è la disponibilità di ricchezze (ciò che non deve accadere è la possibilità di ricoprire una carica pubblica
grazie alla propria ricchezza – in questo caso le due sfere non sarebbero separate).
Nella prospettiva di Walzer non c’è più una regola universale, ma ci sono tante regole quanti sono gli ambiti in cui si
vuole realizzare una giustizia particolare che vale solo per quell’ambito.
L’uguaglianza complessa sembra essere quella nella quale si muove la nostra Costituzione nel momento in cui separa,
attraverso diritti e doveri, i diversi ambiti e individua in ciascuno di essi uno specifico e autonomo criterio distributivo.
Riprendendo gli interrogativi iniziali da cui siamo partiti, proviamo a dare una risposta attraverso la Costituzione:
1. Nell’ambito del lavoro, l’art. 36 della Costituzione prevede che beni quali la retribuzione dignitosa, il riposo
settimanale e le ferie retribuite andrebbero distribuiti solo e soltanto secondo il criterio del bisogno; altri beni,
quali ad esempio gli aumenti retributivi, andrebbero invece distribuiti solo attraverso il criterio del merito;
2. Nell’ambito della salute, il criterio distributivo consentito dalla Costituzione è il criterio del bisogno (art. 32);
3. Nell’ambito dell’istruzione, il criterio distributivo previsto dalla Costituzione per quanto concerne l’istruzione
obbligatoria è il criterio del bisogno. Il criterio del merito interviene a valle dell’accesso al bene istruzione
obbligatorio, necessario per valutare il percorso degli studenti (ma non può essere considerato un criterio di
accesso). Il criterio del merito può rientrare nell’ambito dell’istruzione anche per consentire agli indigenti per
accedere ai più alti livelli di studio, ma niente di più;
4. Nell’ambito delle cariche politiche, la Costituzione ammette come criterio distributivo delle cariche politiche il
criterio del consenso. Nell’ambito delle cariche pubbliche invece si accede per concorso pubblico e quindi il
criterio distributivo in questo caso è il merito;
5. Nell’ambito del carico fiscale, i criteri distributivi sono la capacità contribuiva e il criterio della progressività
(Art. 53). Nessun rilievo in questo ambito dovrebbe assumere il merito.
Giovedì 17 Novembre
La Costituzione distingue tra luoghi sociali diversi e a seconda di ciascun luogo, il problema della giustizia è risolto
secondo una regola propria di quel determinato luogo: uno dei luoghi più considerati dalla Costituzione è il luogo di
lavoro. Rispetto ad esso, la Costituzione mette in relazione diretta il datore di lavoro e il lavoratore, i quali sono in una
relazione diretta perché entrano direttamente in contatto. La Costituzione entra materialmente in questa relazione diretta,
garantendo, con diritti specifici, la parte che nel rapporto è tradizionalmente più debole.
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La Costituzione entra direttamente in questo rapporto perché anche con il consenso eventuale del lavoratore, certi
contenuti negoziali non si potrebbero assumere. Questi contenuti negoziali vietati sono quelli contrari alla dignità del
lavoratore: il lavoratore, dunque, deve avere una retribuzione dignitosa, che sia si proporzionata al lavoro svolto, ma
comunque sufficiente a garantirgli una vita dignitosa.
Certi contenuti negoziali, dunque, non si potrebbero assumere neanche con il consenso del lavoratore, perché un consenso
che viene meno alle caratteristiche dignitose del lavoro, è un consenso prestato per ragioni di bisogno (se io ho bisogno
di lavorare, pur di farlo sarei disposto a negoziare condizioni di lavoro indignitose).
Il presupposto su cui si fonda l’intervento della Costituzione nella relazione tra lavoratore e datore dunque è che, dinanzi
al bisogno, il lavoratore debba essere difeso anche da sé stesso.
Diritti all’uguaglianza commutativa sono diritti che entrano direttamente in un rapporto privato e ambiscono a
ridefinirlo secondo condizioni di giustizia. In questo modo, l’autonomia dei privati viene limitata poiché, in assenza di
limitazioni, questa potrebbe ritorcersi contro la parte debole del rapporto.
Diritti all’uguaglianza distributiva sono diritti più complessi rispetto ai precedenti; in questo caso, la pretesa della
Costituzione non è entrare direttamente nei rapporti tra privati, ma realizzare le condizioni materiali e gli strumenti per
vivere una vita libera e dignitosa (l’obiettivo in questo caso, quindi, è creare ad esempio le condizioni economiche,
culturali e sanitarie per garantire a tutti la possibilità di vivere una vita dignitosa).
La struttura di questi diritti è diversa, in quanto essi non implicano una relazione diretta tra due soggetti. In questo caso,
è più appropriato parlare di “relazione indiretta”, dove i soggetti coinvolti sono tre: 1) i titolari dei diritti, 2) lo stato - che
deve realizzare le condizioni necessarie per far si che il diritto sia concretizzato e 3) la collettività – dalla quale vengono
reperite le risorse, attraverso il prelievo fiscale, per sostenere i costi previsti per la creazione delle condizioni economiche,
sanitarie e culturali.
Nel caso dei diritti all’uguaglianza distributiva, lo stato è una sorta di intermediario, in quanto ha il compito di recuperare
le risorse necessarie dalla collettività tramite prelievo fiscale e, una volta recuperate le risorse, organizzare quei servizi
attraverso i quali si concretizza l’attuazione di questi diritti.
Sono quindi diritti che, a differenza dei diritti all’uguaglianza commutativa che mettono in relazione diretta due soggetti,
mettono in relazione “mediata” il titolare del diritto con la collettività, e l’opera di mediazione è svolta dallo stato.
L’art. 53 è il corrispettivo, sul versante dei doveri, di ciò che sono i diritti all’uguaglianza distributiva (Tutti sono tenuti
a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva).
La relazione mediata tra soggetti è una relazione indiretta e invertita: ad usufruire maggiormente dei diritti all’uguaglianza
distributiva è tendenzialmente chi ha meno. Dunque, al diminuire delle risorse, aumenta il ricorso al diritto all’uguaglianza
distributiva.
Sul versante dei doveri è esattamente il contrario: al diminuire delle risorse, diminuisce il carico fiscale, mentre
all’aumentare delle risorse, aumenta il carico fiscale (ciò significa che tendenzialmente chi ha di più, finanza
maggiormente diritti che tendenzialmente utilizzerà di meno; viceversa, chi ha di meno utilizzerà di più diritti
finanziandoli di meno).
Il principio appena illustrato è quello in base al quale opera il sistema fiscale progressivo mediante il meccanismo
redistributivo: l’obiettivo è prelevare quote di ricchezza da chi ha di più per finanziare servizi e prestazioni, che sono
oggetto di diritti costituzionali, che andranno a vantaggio di chi ha di meno. L’idea di fondo che sta alla base di questo
meccanismo è che una comunità politica è salda quando sono saldi i vincoli solidaristici tra i suoi componenti.
All’interno dei diritti all’uguaglianza distributiva, è possibile distinguere due differenti pretese. Prendiamo in esame il
diritto alla salute: la prima pretesa, che vale per tutti indipendentemente dalla condizione di ognuno, è la pretesa che il
“bene” cure sia prodotto e sia disponibile. Sullo Stato, in quanto intermediario, esiste dunque l’obbligo a far si che le cure
esistano, e sarebbe un’omissione costituzionale se lo Stato non si occupasse di fare in modo che qualcuno offra il “bene”
cure. La seconda pretesa riguarda invece gli indigenti, cioè di coloro che non hanno mezzi economici, di poter comunque
accedere a quel bene che lo stato ha garantito ci sia per tutti. Chi è indigente, ha la pretesa (Art. 32) ad accedere alle cure
gratuitamente (La Repubblica […] garantisce cure gratuite agli indigenti).
Queste due pretese devono essere, per Costituzione, lette alla luce del principio di uguaglianza formale: dal punto di vista
del bene cui si accede, tutti dovrebbero essere messi nella stessa identica posizione (quindi i soggetti andrebbero
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diversificati per quanto riguarda l’accesso al bene necessario, ma poi tali soggetti andrebbero trattati allo stesso modo per
quanto riguarda il bene considerato). Ciò significa che sia chi ha mezzi sia chi non ha mezzi deve accedere allo stesso
tipo di bene perché altrimenti non sarebbe rispettato il principio di uguaglianza formale.
Problemi aperti…
Oggi, la tutela dei diritti fondamentali è una tutela integrata, in quanto è una tutela che avviene su diversi livelli. La
questione della tutela integrata pone degli interrogativi di coordinamento e conflittualità perché non sempre il
riconoscimento dei diritti da tutelare è omogeneo (questo vale soprattutto per quanto riguarda la questione dei diritti
sociali).
Poiché dunque il riconoscimento dei diritti da tutelare non è sempre omogeneo, l’integrazione tra i due ordinamenti (il
diritto dell’UE e il diritto interno) può essere un’integrazione conflittuale. Dinanzi al conflitto, ci possono essere due modi
per risolverlo:
Affermare che a prevalere sia l’ordinamento dell’UE dire che prevale l’ordinamento dell’UE, è
l’atteggiamento di chi ritiene che debba sempre e comunque prevalere l’ordinamento dell’Unione Europea.
Questo atteggiamento si rifà alla dottrina del primato e dell’effetto diretto del diritto dell’Unione Europea sui
diritti nazionali.
Affermare che a prevalere sia l’ordinamento interno è atteggiamento di chi sostiene che, nell’ipotesi di
conflitto, deve prevalere l’ordinamento nazionale.
La dottrina dei controlimiti può essere considerata una soluzione di compromesso tra queste due soluzioni estreme; la
dottrina dei controlimiti riconosce che il diritto dell’UE prevale, ma questo non prevale in modo incondizionato: il diritto
dell’UE, secondo la dottrina, prevale e si applica fin tanto che non leda i principi supremi dell’ordinamento nazionale e i
diritti inviolabili della persona. Qualora fossero lesi i principi supremi e i diritti inviolabili della persona, la supremazia
del diritto dell’UE sull’ordinamento nazionale cessa di essere riconosciuta.
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