Promessi Sposi: Analisi e Spiegazione Capitoli 16-24
Promessi Sposi: Analisi e Spiegazione Capitoli 16-24
Promessi Sposi: Analisi e Spiegazione Capitoli 16-24
La spiegazione del sedicesimo capitolo de I promessi sposi si svolge lungo quattro punti di
analisi.
La maturazione di Renzo, che dimostra di aver imparato che le osterie sono dei luoghi pericolosi
e che, di conseguenza, occorre comportarsi con discrezione, senza attirare l’attenzione ed
evitando la morbosa curiosità degli osti.
L’analisi del capitolo 16 evidenzia alcuni particolari storici che Manzoni trae da un trattato di
Giuseppe Ripamonti, da lui utilizzato anche per i capitoli 31 e 32 dedicati alla peste.
Il racconto del mercante sottopone la vicenda di Renzo ad una vera e propria deformazione
grottesca. La lettera di raccomandazione di Renzo diviene un fascio di carte in cui sono spiegati
gli intrighi internazionali alla base della sommossa; mentre nel discorso tenuto da Renzo alla
folla, il ragazzo avrebbe incitato il popolo ad ammazzare tutti i signori.
L’analisi del racconto del mercante permette di evidenziare il punto di vista borghese sulla
sommossa. La visione di questa classe sociale è egoista, in quanto condanna la sommossa solo
perché mette in pericolo i loro affari. Il mercante, inoltre, nei confronti delle cause della carestia
dimostra la stessa ignoranza dei popolani e degli aristocratici, reputando i fornai colpevoli di
nascondere la farina. Nell’analisi viene spiegata anche la posizione di Manzoni nei confronti della
classe sociale borghese.
L'analisi del capitolo si svolge attraverso sei punti, ampiamente spiegati nel video.
Dal capitolo 11 al capitolo 17 si assiste ad un vero e proprio percorso formativo di Renzo che,
durante le sue avventure, fa esperienza del mondo ed apprende dai suoi errori.
Renzo, in questo percorso di formazione, indossa anche i panni dell'eroe fiabesco. Il capitolo 17,
infatti, ricalca la struttura narrativa della fiaba, presentando molte analogie con alcuni suoi
elementi.
In questa prospettiva, se la città di Milano in rivolta si connota come paese di Cuccagna, la città
di Bergamo, posta oltre il fiume Adda, diviene il simbolo di un nuovo inizio e di una nuova vita.
La figura del pescatore, che aiuta Renzo nell'attraversamento dell'Adda, si contrappone alla figura
del barcaiolo incontrato nel capitolo 8. Quest'ultimo, infatti, ha aiutato Renzo, Lucia e Agnese
disinteressatamente. Al contrario, il pescatore del capitolo 17 svolge il servizio di traghettamento
in cambio di denaro.
Bortolo spiega a Renzo che i bergamaschi sono soliti chiamare i milanesi con l'appellativo di
"baggiani", ossia sciocchi. Si tratta di un'usanza ancora in uso all'epoca di Manzoni.
Col capitolo 17 si chiude una sequenza compatta del romanzo, nella quale Renzo è stato
protagonista assoluto. Infatti, la macrostruttura de I promessi sposi vede, dal capitolo 11 al
capitolo 17, Renzo come unico personaggio principale di cui si narrano le vicende; dal capitolo 18
al capitolo 27, invece, l'attenzione si sposterà sulle disavventure di Lucia.
Renzo tornerà in scena solo nel capitolo 26, quando dovrà abbandonare il paese cambiando
nome.
Alessandro Manzoni conduce una polemica contro l'iniquità della giustizia attraverso la figura del
podestà, complice e amico di don Rodrigo. Infatti, il podestà, ricevuto il dispaccio del capitano di
giustizia, avvia immediatamente le indagini nei confronti di Renzo.
La casa di Renzo viene meticolosamente perquisita. Manzoni dimostra così come la giustizia sia
inerte con i nobili prepotenti, mentre risulta spietata contro i poveri, anche quando questi sono
innocenti.
Nel capitolo 18 si ha la conferma di come sia l'orgoglio nobiliare a spingere don Rodrigo a
proseguire nella persecuzione di Lucia.
Appreso dal Griso che Lucia e Agnese sono nascoste in un monastero, il signorotto prende
addirittura in considerazione l'idea di contattare l'Innominato, un famigerato bandito capace di
azioni inaudite.
L'idea che i suoi amici lo possano deridere e il timore di perdere prestigio davanti ai popolani
spingono don Rodrigo verso la decisione di contattare l'Innominato.
Infatti don Rodrigo teme che possa essere deriso per non essere stato capace di sfruttare alcune
circostanze favorevoli: il ritorno al paese della madre di Lucia, ossia Agnese; e l'allontanamento
di fra Cristoforo dal convento di Pescarenico.
Nel capitolo 18 trova rappresentazione anche il legame affettivo tra la monaca di Monza, ossia
Gertrude, e Lucia. La signora prova a volte irritazione per il riserbo di Lucia a parlare del suo
amore per Renzo, ma contemporaneamente trae sollievo dall'idea di star facendo del bene ad
un'anima innocente.
Lucia, appresa da Gertrude la storia della monacazione forzata, comincia a provare compassione
e comprensione nei confronti della monaca di Monza.
Il conte zio, membro autorevole del Consiglio Segreto di Milano, è lo zio di don Rodrigo e del
conte Attilio. Contattato da quest'ultimo per portare aiuto al nipote don Rodrigo, il conte zio
dimostra di essere un politico tronfio e vanaglorioso, il cui successo politico è basato sull'arte
della simulazione e della dissimulazione.
Fra Galdino, nel suo colloquio con Agnese, dimostra di essere non tanto una persona
estremamente semplice e ingenua, quanto una persona dedita ad una trascendenza assoluta.
Fra Galdino è fedele al convento come istituzione e, in quanto tale, si sente estraneo alle passioni
umane e alle curiosità mondane.
Il conte Attilio si palese nel capitolo 18 come l'effettivo motore degli intrighi del romanzo, almeno
fino a questo punto della storia. Egli è il rappresentante di una nobiltà oziosa e annoiata, che non
esita a prendersi gioco dei più deboli per trovare dei diversivi alla propria vita vacua e noiosa.
Per il conte Attilio la persecuzione di Lucia, infatti, è solo un turpe oggetto di burla e divertimento.
Egli è dunque indifferente ai problemi reali di don Rodrigo, e sceglie di aiutarlo solo perché vuole
continuare a divertirsi.
Il conte Attilio è un maestro della simulazione, della menzogna e della manipolazione. Infatti, nel
colloquio con il conte zio, il conte Attilio dimostra di essere abilissimo a sfruttare a proprio
vantaggio i punti deboli del suo interlocutore.
Il conte Attilio è anche capace di distorcere la realtà, al fine di far apparire in una luce positiva
don Rodrigo.
Il conte zio e il padre provinciale si fronteggiano in un colloquio durante il quale fanno sfoggio di
tutte le armi della retorica. Il conte zio è abilissimo nel padroneggiare l'arte della simulazione e
della dissimulazione e, attraverso un linguaggio allusivo e la diplomazia, riesce a convincere il
padre provinciale a trasferire fra Cristoforo.
Fra Cristoforo accoglie l'ordine del suo trasferimento con umiltà e ubbidienza, dispiacendosi solo
di abbandonare Renzo, Lucia e Agnese al loro destino, ma confidando anche nell'aiuto della
Divina Provvidenza.
Manzoni tratteggia nel capitolo 19 il ritratto dell'innominato, la cui figura appare dotata di una
sinistra grandiosità e di una solenne magnificenza, pur essendo caratterizzata da una grande
energia vendicatrice volta al male.
Don Rodrigo, confrontato all'innominato, appare come un malvagio di mezza tacca. Infatti, se
l'innominato tende agli estremismi e si distingue per coraggio e temerarietà, don Rodrigo è un
vile, pronto a scendere a compromessi e a patteggiare con le forze politiche e pubbliche.
L'innominato e il paesaggio in cui si trova il suo castello hanno soprattutto in comune il fatto di
essere inaccessibili e isolati. La solitudine tragica dell'innominato e quella del paesaggio
costituiscono un'unica immagine.
I nomi dei bravi che accompagnano don Rodrigo al castello dell'innominato sono
straordinariamente espressivi: il Tiradritto, il Montanarolo, il Tarabuso e lo Squinternotto. La loro
espressività ha ricordato ad alcuni critici quella dei diavoli di Malebranche dell'Inferno dantesco.
L'innominato e don Rodrigo hanno un colloquio che Manzoni riporta sinteticamente sotto forma
di discorso indiretto. Nell'edizione del Fermo e Lucia, invece, tale colloquio era rappresentato
ampiamente e in maniera particolareggiata. In seguito, Manzoni ha deciso di eliminarlo quasi del
tutto.
Egidio e Gertrude hanno un dialogo che nel Fermo e Lucia era riportato ampiamente, con molti
riferimenti all'omicidio della conversa di cui si parla al capitolo 10. Nella redazione definitiva,
però, Manzoni riporta sinteticamente questo colloquio e fa solamente una velata allusione
all'omicidio della conversa. Questo perché Manzoni segue una poetica della reticenza nella
rappresentazione del male.
L'innominato ha dei dubbi circa la sua condotta. Alla base del suo tormento interiore vi è l'idea
dell'avvicinarsi della morte e del successivo giudizio divino. Tutto ciò di cui non si era mai
preoccupato in gioventù, come la morte, Dio e la legge morale, sono adesso per lui elementi di
preoccupazione.
Nel capitolo 20 troviamo quegli elementi da cui scaturirà la successiva crisi di coscienza e
conversione dell'innominato. La presenza di tali elementi rendono il cambiamento dell'uomo un
fatto verosimile e credibile. Infatti, la crisi di coscienza e la conversione non sono improvvise,
bensì frutto di una lenta maturazione interiore.
La spiegazione del capitolo ventunesimo de I promessi sposi si svolge attraverso sette punti
d'analisi.
Il capitolo 21 del capolavoro di Alessandro Manzoni ricopre un importante punto di svolta nel
romanzo. Dall'incontro tra Lucia e l'innominato scaturirà la successiva conversione
dell'innominato, il quale deciderà di liberare Lucia.
Il voto di castità di Lucia, invece, rappresenterà un'ulteriore difficoltà all'unione tra Renzo e Lucia.
Importante notare anche il ruolo svolto dalla Provvidenza in questo capitolo. Alla Provvidenza,
infatti, è riconducibile anche la conversione dell'innominato, la cui anima è stata illuminata dalle
preghiere di Lucia.
Il voto di castità di Lucia, che promette alla Madonna di rimanere vergine in cambio della
salvezza, è perfettamente coerente con il personaggio di Lucia. La ragazza, infatti, è oppressa e
sconvolta da quanto sta vivendo, e pertanto si rifugia nelle preghiere e, in seguito, nel voto alla
Vergine Maria.
Il Nibbio riveste un ruolo secondario ma decisivo nel capitolo ventunesimo. Infatti è dal suo
racconto riguardo la compassione provata per Lucia che l'innominato avrà la curiosità di vedere
la ragazza, l'incontro con la quale, in seguito, provocherà la crisi di coscienza del bandito e la
conseguente conversione.
La vecchia del castello, invece, si rivela definitivamente come macchietta comica vera e propria.
Nel capitolo 21 troviamo un riferimento alla tragedia Macbeth di Shakespeare. Manzoni già nel
capitolo 4 aveva citato direttamente tale tragedia, in occasione del racconto del padre di
Lodovico, il quale vedeva sempre davanti a sé il proprio passato da mercante così come
Macbeth vedeva l'ombra di Banco.
Il capitolo 22 è diviso in due parti. Nella prima, l'innominato decide di vistare il cardinale,
sperando che questo possa porre fine alla sua angoscia interiore; nella seconda, l'autore compie
una digressione sulla vita del cardinale Federigo Borromeo.
Federigo Borromeo, inoltre, era un'appartenente all'aristocrazia, ossia a quella classe sociale che,
secondo Manzoni, aveva il compito di guidare e governare la società. Pertanto l'autore fornisce
del cardinale un ritratto estremamente positivo, sottacendo i vari difetti ed errori di Federigo
Borromeo.
La figura del cardinale Federigo Borromeo costituisce un'eccezione nel sistema dei personaggi.
Federigo Borromeo, infatti, è l'unico personaggio storico che entra in contatto con i protagonisti
della storia, influenzando le loro vite; è l'unico personaggio ad essere virtuoso, nonostante possa
disporre di grande potere; ed è l'unico personaggio la cui biografia occupa quasi un capitolo
intero.
Federigo Borromeo fu autore di circa un centinaio di opere, tutte conservate nella Biblioteca
Ambrosiana.
Nessuna di queste opere, però, gli diede fama letteraria e di nessuna di esse si è conservata
memoria. Il narratore non ne spiega chiaramente il motivo, dicendo che le spiegazioni sarebbero
troppo noiose e prolisse per il lettore.
Il narratore, dunque, utilizza un espediente che ha già messo in atto nell'Introduzione, quando,
ricorrendo alla stessa giustificazione, non ha fornito spiegazioni riguardo le scelte linguistiche
adottate nel romanzo.
La monacazione forzata era una pratica molto diffusa nei secoli XVII e XVIII; pratica a cui il
cardinale Federigo Borromeo aveva tentato di opporsi.
La spiegazione del capitolo ventitreesimo del romanzo di Alessandro Manzoni si basa sui
seguenti punti di analisi.
Il capitolo 23 de I promessi sposi presenta una struttura composta da due parti. Nella prima
parte, il cardinale Federigo Borromeo si confronta con l’innominato.
La conversione dell’innominato è l’esito finale del colloquio tra il famigerato bandito e il cardinale
Borromeo.
La seconda parte del capitolo 23 è dedicata alla figura di don Abbondio, che attribuisce al
capitolo una connotazione comica.
La conversione dell’innominato costituisce un momento centrale del romanzo. La conversione è
l’esito di un confronto tra due personaggi di altissima levatura morale, il cui dialogo è
rappresentato da Manzoni con toni elevati, ma senza cadere mai nel patetico.
Il cardinale Federigo Borromeo non si mette mai su un piano di superiorità quando si rivolge
all’innominato, bensì mostra nei suoi confronti un atteggiamento benevolo e paterno, ricco di
spirito evangelico.
Il capitolo 23 presenta il ritorno in scena di don Abbondio, che il lettore non incontrava fin dal
capitolo 8, dopo l’episodio del matrimonio a sorpresa.
Don Abbondio svolge una duplice funzione narrativa: da un lato ricollega l’episodio del rapimento
di Lucia al piano delle vicende dei personaggi principali; dall’altro costituisce una contrappunto
comico alla tragicità dei capitoli precedenti, incentrati sul tormento interiore dell’innominato.
Don Abbondio si presenta nel capitolo 23 con i tratti che caratterizzano la sua figura, ossia la
paura e l’egoismo. La sua grettezza non gli consente di comprendere la straordinaria esperienza
della conversione dell'innominato.
Don Abbondio si tratteggia come una figura comica non tanto per la sua paura nei confronti della
situazione che sta vivendo, quanto per il suo modo di evitare le responsabilità e per la sua
indifferenza verso le pene altrui.
Nel Fermo e Lucia, l’innominato, durante il viaggio di ritorno, si preoccupava di istruire don
Abbondio su come comportarsi con i bravi, temendo una possibile reazione negativa dei suoi
uomini alla notizia della conversione.
Il capitolo 24 presenta uno snodo narrativo fondamentale nel romanzo. Esso, inoltre, è il capitolo
più lungo e narrativamente complesso dell’intero romanzo.
Don Abbondio, durante il viaggio di ritorno dal castello dell’innominato, tiene con sé un monologo
interiore. Il curato ha paura della reazione di don Rodrigo e dei rimproveri del cardinale Federigo
Borromeo.
Agnese e Lucia rivelano al cardinale Borromeo alcuni fatti sostanziali della vicenda. Agnese
racconta che don Abbondio è venuto meno al suo dovere; Lucia confessa di aver tentato di
compiere il matrimonio a sorpresa ai danni di don Abbondio.
Nel capitolo 24 incontriamo la figura del sarto che, pur essendo un personaggio minore, è ritratto
sapientemente dall’autore.
Nel capitolo 24 leggiamo che il sarto ha due bambinette e un fanciullo, ma nel capitolo 29
leggeremo che egli ha due ragazzi e una bambina. Si tratta ovviamente di una svista dell’autore o,
come è stata definita, di una curiosità manzoniana.