I Profeti
I Profeti
I Profeti
Chi è il profeta?
Nella Bibbia il termine profeta è normalmente riservato a personaggi che parlano
in nome di Dio-Jahvé. Il termine ebraico più comune per designarli è nabì (309
volte), che significa «il chiamato o chi annuncia». Più rare sono le espressioni di
"hozéh", «veggente» e «indovino» (17 volte). L’etimologia greca di profeta «prophétes»
deriva dal verbo fēmí («parlare») e dal prefisso pro («per, al posto di»). I profeti sono,
pertanto, uomini ispirati che trasmettono i messaggi ricevuti, dei «porta-parola»
che annunciano e interpretano gli ordini di Jahvé. I loro vaticini si qualificano come
responsi divini e sono introdotti e conclusi da
formule convenzionali: «Così dice il Signore»,
«Oracolo di Jahvé».
La sacra Scrittura, da Abramo a Mosè, da
Samuele a Giovanni Battista e fino all’ultima
rivelazione dell’Apocalisse, è piena di profeti. I più
antichi vivevano in gruppi itineranti; nei loro
comportamenti esaltati, si lasciavano andare a
danze estatiche (il verbo «nibbā», oltre a
profetizzare, significa anche cadere in estasi,
impazzire). Appaiono in Israele dal secolo XI a.C.;
nella loro vita arcaica e nella loro esaltazione, il
popolo riconosceva la presenza di Jahvé.
I profeti, di cui la Bibbia tramanda le imprese, hanno piena coscienza d’essere
strumenti nelle mani del Signore (Is 50,4s). Sono stati chiamati direttamente da
Dio in un preciso momento storico per trasmetterne la parola, che giudica il
presente e illumina il futuro. Sanno di essere mandati per rivendicarne le esigenze e
richiamare gli uomini all’obbedienza e all’amore. «Il profeta non è chiamato a parlare
per condannare, ma il senso profondo di ogni profezia sta nell’indicare al popolo la
strada della libertà, della fedeltà» (Ravasi: Nuova…). Non manca, tuttavia, il fenomeno
dei falsi profeti, denunciati e condannati dalla Scrittura; essi si attribuivano
rivelazioni non avute e si comportavano da uomini venali, adulatori dei potenti e
opportunisti. Il Nuovo Testamento li giudica con altrettanta severità.
Il profetismo, in Israele come negli altri popoli dell’Oriente, nasce dal bisogno
costante dell’uomo di scoprire il futuro e di ricordare il progetto di Dio sulla storia,
soggetta ad ingerenze o deformazioni umane. Quell’ebrea, poi, si basava su un patto
d’alleanza stipulato tra Dio e il suo popolo. Ogni messaggero di Dio, coinvolto nelle
vicende del suo tempo è, per eccellenza, coscienza critica della società in cui vive e
della politica che vi si esercita.
In tal senso, ognuno ha un messaggio personale da proporre: Elia ed Eliseo, per
esempio, difendono la fede di Jahvé contro il culto di Baal, Amos condanna il lusso
sfrenato e le ingiustizie d’Israele, Osea richiama all’amore divino, meditato
attraverso la sua tragica vicenda familiare, Isaia è il profondo interprete della
santità di Dio, della fede, del «resto» d’Israele, della salvezza universale, delle
promesse messianiche e del “Servo di Jahvé”, Geremia, spettatore e giudice del
crollo della nazione ebraica sotto le armate babilonesi, fa sperare nella “nuova
alleanza” ed esorta alla fiducia, Ezechiele, vicino al popolo esiliato, sostiene una tale
speranza ormai fiaccata e pone l’accento sulla responsabilità personale, Aggeo e
Zaccaria esortano a ricostruire Gerusalemme e il tempio e via dicendo.
I PROFETI
Messaggio dei profeti
L’alleanza stipulata da Israele ai piedi del monte Sinai fu considerata ed era un
dono e un impegno per tutto il popolo. A questa realtà è rivolta tutta l’attenzione dei
profeti; la comunità doveva restare fedele all’alleanza contratta ed imitare
l’agire del suo Dio giusto, retto e «santo». La rottura di questo patto avrebbe
provocato il castigo divino e l’esigenza di un cambiamento di vita o «conversione». È
bene ricordare che, all’interno di una punizione minacciata ed attuata, Jahvé di
solito faceva balenare una luce di speranza.
Le colpe attribuite dai profeti ad Israele sono prevalentemente di due tipi:
1. La pratica dell’idolatria e dei culti pagani locali, vale a dire il baalismo che
riproduceva i ritmi della natura (di pioggia e fecondità);
2. L’ingiustizia sociale e l'oppressione dei poveri e dei deboli. I maggiori
responsabili dell’infedeltà all’alleanza erano i sacerdoti e la monarchia che, sebbene
ferocemente contestata, fu ritenuta necessaria come istituzione, secondo il disegno di
Dio.
Il protendersi dei profeti verso l’avvenire con un futuro di speranza, si chiarirà
con l’andar del tempo. Essi spingevano lo sguardo verso un'era innovatrice o
messianica e la descrivevano a colori vivaci, come l’avvento di una rigenerazione.
Tutti i popoli si sarebbero incamminati verso Gerusalemme, per abbracciare la fede
del vero Dio e vivere nella pace e nella concordia.
C’era, però, un passaggio obbligato da compiere: acquisire la consapevolezza
dell’incapacità dell’uomo ad osservare la Legge. San Paolo dirà: la Legge ti fa
conoscere il peccato, ma non ti dà la forza per eliminarlo. Illuminati dal Signore,
Geremia (31,31-34) ed Ezechiele (36,25-27) aprono un nuovo orizzonte e
preannunciano un cambiamento. Dio stesso scriverà la Legge nei cuori ossia nelle
coscienze, trasformando il cuore umano pietrificato in cuore di carne, per garantire
l’ubbidienza ai comandamenti, grazie ad un impulso interiore dello Spirito. La
novità di questi testi consiste nell’assegnare a Dio la modificazione radicale
dell’uomo per salvarlo. Perciò, la salvezza o liberazione dal male è dono di Dio, non
un premio per i meritevoli; essa non è condizionata alla fedeltà dell’uomo. Il
pentimento sarà la conseguenza e non la causa di questo favore offerto da Jahvé,
non per riguardo ad Israele, ma per glorificare se stesso davanti a tutte le genti.
Nella persona di Gesù confluiscono e si realizzano tutte le speranze vaticinate dai
profeti: egli, Figlio incarnato dell’Altissimo, assume su di sé e cancella il peccato del
mondo, compiendo il piano di riconciliazione e di salvezza voluto dal Padre.
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Gli Ebrei leggono i profeti per commentare e rinvigorire gli insegnamenti della
Torah e trarne lezioni di vita. In un primo momento, i cristiani li usarono per
trovarvi riscontri sulla vita, morte e risurrezione di Gesù Messia; in seguito
n’approfondirono l’intero messaggio.
Non va dimenticato che, per il popolo ebraico, i libri da noi chiamati storici sono
considerati profetici e detti «profeti anteriori». La storia, infatti, è vista come
fedeltà o tradimento dell’alleanza secondo l’interpretazione fornita dal Libro del
Deuteronomio con relativo premio o castigo. In questo quadro rientrano i cosiddetti
libri storici (Giosuè, Giudici, 1 e 2 Samuele, 1 e 2 Re).
Attualità
Oggi, si sente spesso parlare di profeti. Lo è davvero chi è docile all’ascolto della
Parola di Dio (Bibbia) e si lascia guidare dallo Spirito Santo per recare ai fratelli un
messaggio di fiducia e di conforto. Nel Nuovo Testamento, oltre a Giovanni Battista,
non mancarono profeti a sostegno delle prime comunità cristiane. Paolo, nella Prima
Lettera ai Corinzi (c 14), chiarisce il valore e l’uso del carisma profetico.
Alcuni interpretano i fatti inquietanti che accadono come castigo divino. È
certo che il male commesso nelle diverse latitudini del mondo costringe Dio ad
intervenire per salvare gli uomini e la storia; tuttavia, i rapporti tra causa ed effetto
rimangono misteriosi.
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I PROFETI
forza d’Elia» (Lc 1,17), a portare a compimento quella predizione (Mt 11,14; 17,11-
13). Elia partecipò con Mosè alla Trasfigurazione di Gesù (Lc 9,33-36).
Il racconto dei suoi miracoli è di grande significato; le sue imprese punitive hanno
del violento, tanta è l’indignazione per l’apostasia del popolo dal suo Dio. Condanna le
ingiustizie politico-sociali come l’usurpazione della vigna di Nabot (1Re c 21). Il libro
del Siracide, scritto verso il 180 a.C., ne tramanda una sintesi folgorante: “Sorse Elia
profeta, simile al fuoco; la sua parola bruciava come fiaccola” (48,1). Chiuse la vita in
Transgiordania.
Eliseo, ossia «Dio ha salvato» era discepolo d’Elia, dal quale ricevette due terzi
dello spirito profetico, al pari dei primogeniti che ricevevano i due terzi dell’eredità.
Esercitò il suo mandato dall’855 all’800 circa a.C. Il Secondo Libro dei Re (cc 2-13)
ne riferisce le imprese. Si accompagna ai «figli di profeti» per i quali compie anche
dei miracoli (il pane moltiplicato e l’acqua purificata: 4,38-44). I prodigi da lui operati
sono in parte paralleli a quelli di Elia. Uno dei più noti si riferisce alla guarigione dalla
lebbra di Naaman, generale dell’esercito di Siria, dando così alla fede in Jahvé un
senso universalistico.
Il gruppo dei profeti che tratteremo nei nostri “incontri”, sono i cosiddetti «profeti
scrittori», i cui testi furono raccolti nel Libro dei Profeti. Vi appartengono i quattro
profeti maggiori (Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele) e dodici minori. In un periodo
particolarmente travagliato, vale a dire dall’VIII secolo a.C. fino al dopo esilio
babilonese, essi ricevettero da Dio l’incarico di consolare ed ammonire il popolo
eletto. Nel IV/III secolo a.C. il profetismo si estinse e intorno alla stessa epoca gli
oracoli tramandati e più o meno già rimaneggiati, dai successivi revisori della
Bibbia, assunsero la forma definitiva che oggi possediamo.
I PROFETI MAGGIORI
La Bibbia cattolica attribuisce ad alcuni dei “profeti scrittori” il titolo di
«maggiori». Sono Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele (il quale non è un profeta, ma
il protagonista dello scritto di un autore del II secolo a.C.). Isaia e Geremia
proclamano i loro vaticini prima dell’esilio di Babilonia (586 a.C.); Ezechiele
annuncia il messaggio di Dio fra i deportati. I primi richiamano all’alleanza;
Ezechiele, invece, esorta a sperare nel ritorno.
1. LIBRO d’ISAIA
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Il Libro del profeta Isaia non è unitario. Nell’opera si ritrovano anche gli scritti di
almeno due profeti posteriori. Al gran profeta sono attribuiti i soli capitoli 1-39 e non
completi, se si escludono le interpolazioni aggiunte. I capitoli dal 40 al 55, sono
assegnati ad un profeta anonimo, di stile diverso, che accompagna gli esuli nel ritorno
in patria dopo l’editto del re persiano Ciro (538 a.C.). È detto dagli studiosi “Secondo
Isaia” o “Deutero-Isaia”. Il “Terzo Isaia” (cc 56-66) è ancora più recente. Profetizza
dalla ricostruzione del tempio (515 a.C.) in qua ed inneggia allo splendido futuro di
Gerusalemme e all’universalità della salvezza.
Tra i reperti antichi trovati di recente, va annoverata una copia integra del libro
d’Isaia appartenente al I secolo a.C. e scritta su pergamena. È stata rinvenuta a
Qumran, presso il Mar Morto, nel 1947. Apparteneva al monastero omonimo ubicato
nei dintorni e distrutto dai Romani nel 72 d.C.
Il libro d’Isaia non è sorto dall'unione di tre libri indipendenti, ma è una composizione
complessiva, stratificata, avente dietro di sé una lunga storia, con due snodi principali:
l'attività del profeta Isaia nella seconda metà dell'VIII secolo e la collezione degli oracoli
di un anonimo profeta o predicatore della fine dell'esilio babilonese. Attorno all'annuncio
di salvezza di quest'ultimo, si raggruppò una grandiosa raccolta di messaggi dell’esilio e
del post-esilio, come risposta alle previsioni del grande Isaia.
Il personaggio Isaia
Isaia che significa «Jahvé è salvezza» o «Jahvé
salva», è il più famoso profeta del regno di Giuda. Nato
verso l’anno 765 a.C., ricevette nel tempio di
Gerusalemme la vocazione profetica il 740 a.C., l’anno
della morte del re Ozia. Esercitò il suo ministero per una
quarantina d’anni sotto i regni di Iotan (740-736 a.C.),
d’Acaz (736-727 a.C.) ed Ezechia (727-697a.C.).
Lo stile d’Isaia è tra i più elevati della poesia ebraica; è
detto il “Dante di Giuda”. Apparteneva all’alta classe
sacerdotale ed era consigliere del re. La sua posizione
distinta non gli impedì di denunciare le ingiustizie sociali,
la pratica di un culto senz’anima, cui si accompagnava
una vita disordinata. Incrollabile era la sua fede in Jahvé,
più potente d’ogni nemico d’Israele. Scomparve dalla
scena verso il 700 a.C.
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Ambiente storico
Ai tempi d’Isaia, la Palestina era in lotta contro l’Assiria;
quest’ultima tendeva ad espandere il suo territorio con la forza irresistibile degli
eserciti e la smania di dominio dei monarchi. Tiglat-Pilèzer III (745-727 a.C.)
sottomise la Giudea. Salmanassar V (726-722 a.C.) nel 724 assediò Samaria. Sargon
II (721-705 a.C.) terminò l’assedio con la conquista della Samaria e la deportazione
dei suoi abitanti (721 a.C.). Dopo la morte di Sargon, il re Ezechia si ribellò all’Assiria.
Per tutta risposta, il nuovo re Sennàcherib (704-681 a.C.) devastò le città di Giuda
nel 701 a.C., ma non entrò in Gerusalemme, secondo la profezia di Isaia ad Ezechia,
per intervento divino.
Durante il regno d’Acaz, vassallo dell’Assiria, scoppiò la guerra siro-efraimitica
(735-734 a.C.). Il re di Siria (capitale Damasco) e quello d’Israele (Samaria) volevano
scuotere il giogo assiro con l’aiuto de re di Giuda. Al rifiuto d’Acaz, i due re insorti
decisero di marciare contro Giuda per deporre il re e provocare l’estinzione della
dinastia davidica. Acaz chiese l’intervento di Tiglat-Pilèzer contro il parere d’Isaia,
che lo esortava a non temere la coalizione perché il loro progetto sarebbe fallito (7,7-
9) e gli garantiva, da parte di Dio, che sia la dinastia sia la capitale della Giudea
sarebbero state salve. Acaz rifiutò con disprezzo il consiglio e si gettò nelle mani
dell’Assiria, aggravando ancor più lo stato di sudditanza allo straniero.
Il profilo d’Acaz, dal punto di vista religioso è riprovevole. Per opportunismo o per
convinzione si allontanò dalla fede dei padri. All’inizio della guerra siro-efraimitica,
sacrificò il suo figlio primogenito a Moloch, facendolo bruciare vivo a Tofet, nella valle
della Geenna (2Re 16,3). Poco dopo, fece installare nel tempio di Gerusalemme un
altare assiro al posto dell’altare degli olocausti. Nel libro delle Cronache è detto che
distrusse gli utensili del tempio, ne chiuse le porte e fece costruire are sacre all’angolo
di ogni strada della città (2Cr 28,24s).
Ezechia, «Jahvé è mia forza» (727-697 a.C.), il figlio promesso ad Acaz dal
vaticinio d’Isaia, è passato alla storia come riformatore religioso. Distrusse i
santuari di Baal (2Re 18,4) e restaurò il culto divino. La sua epoca è contrassegnata
da un’intensa attività letteraria. Dopo la distruzione del regno del Nord (721 a.C.),
sacerdoti e scribi provenienti dai santuari devastati affluirono a Gerusalemme. Con
i colleghi di Giuda, dettero inizio alla fusione delle tradizioni jahvista ed
elohista in una sola opera.
Oltre a ciò, non si ebbero eventi di rilievo fino al 705 a.C. In quell’anno,
approfittando della morte di Sargon, la Giudea si ribellò all’Assiria nel tentativo di
svincolarsi dal suo dominio. Sennàcherib intervenne tempestivamente e soffocò la
rivolta; poi fu richiamato urgentemente in patria prima di entrare a Gerusalemme.
Messaggio
Isaia, fedele al suo nome, fu il profeta dalla fede incrollabile in Jahvé, l’Essere
invincibile, superiore all’Assiria e a tutti i nemici. Il suo ministero si specifica per un
richiamo costante alla conversione, al fine di evitare il castigo dell'esilio. Rivolgeva al re
e al popolo l’invito all’osservanza della Legge, a confidare in Dio anziché affidarsi a
mezzi puramente umani, quali le alleanze con potenze straniere. La sua predicazione
abbracciava la totalità della sfera umana: il culto e la morale, la politica e la vita
sociale, le attività economiche e gli stati di povertà.
Condannava con veemenza il culto liturgico del tempio, staccato dall'osservanza
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concreta della Legge e, soprattutto la presunzione di appartenere al popolo di Dio e
praticare l’ingiustizia, la disonestà e la sopraffazione dei deboli.
Sullo sfondo della guerra siro-efraimitica, Isaia annunciò ad Acaz la nascita di un
figlio (Ezechia); in lui sarebbe sopravvissuta la dinastia davidica e l’avveramento
dell’antica profezia di Natan (2Sam c 7). Isaia fu il primo ad accendere la speranza
nella venuta di un re giusto e liberatore, per i cristiani, il Gesù Messia.
Aveva predetto la deportazione d’Israele in terra straniera, ma assicurava che
sarebbe scampato alla distruzione. Una parte di esso, ossia un «resto», avrebbe
continuato a praticare un culto sincero e a vivere con pienezza e gratitudine
l'appartenenza a Jahvé (15,9; 16,14; 21,17). Su questo resto Isaia concentra le
speranze future.
LETTURE
«Lavatevi, purificatevi» (1,16-20)
Nel primo capitolo il profeta scaglia due requisitorie contro Giuda per le
violazioni degli impegni derivanti dall'alleanza con Dio. Esse sono pronunciate in
forma di un autentico processo accusatorio o (rib).
Con la prima Jahvé rimprovera il suo popolo per averlo dimenticato e tradito. Con
la seconda smaschera la vanità dei molti sacrifici del tempio: sono una farsa, dal
momento che le mani degli offerenti grondano sangue di poveri e d’oppressi.
Infine, rivolge un’esortazione pressante al ravvedimento: «Lavatevi, purificatevi,
allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni»; agite con giustizia soccorrendo
la vedova e l’orfano. In tal modo riuscirete ad evitare il pericolo della spada.
L’invasione nemica con tutti i mali che l’accompagnano è ancora una lontana
minaccia, ma la conversione o il ritorno a Dio può ancora bloccarla.
Gerusalemme, centro del mondo (2,1-5)
Si discute sull’autenticità di questo testo, che si ritrova anche in Michea
(4,1-3) e sarà ripreso e ampliato al c 60. La visione che esso offre è splendida.
Gerusalemme, su un alto monte di luce per significare la presenza di Dio e il
bagliore della sua parola, diventa meta di tutte le genti che vi accorrono: «Saliamo
sul monte del Signore, perché ci insegni le sue vie». Il gran raduno avverrà nei tempi
stabiliti da Dio. Questo pellegrinaggio è indice di un nuovo modo di vita:
«Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci e non
impareranno più l’arte della guerra». Questo piccolo gioiello, termina con l’invito ad
Israele e a tutti: «Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore».
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I PROFETI
Il canto della vigna (5,1-7)
Il carme della vigna, forse ispirato ad una canzone di vendemmia, si
pone agli inizi del ministero isaiano. La vigna è simbolo del popolo d’Israele non
soltanto per i profeti, ma anche per Gesù (Mt 21,33-44; Mc 12,1-10; Lc 20,9-18).
Jahvé non risparmia amore e impegno per fare di questa vigna una realtà stupenda,
carica di frutti saporosi e abbondanti, vale a dire d’opere di giustizia. È comprensibile
la sua delusione quando, in luogo della giustizia «ecco spargimento di sangue» e in
cambio della rettitudine «ecco grida di oppressi». Il monito è rivolto ai violenti, agli
speculatori, ai trasgressori di ieri e d’oggi.
La vocazione del profeta Isaia (6,1-9)
Trattandosi della chiamata d’Isaia a profeta verso l’anno 740
a.C., questo testo dovrebbe trovarsi all’inizio del libro. Va, però, ricordato che la
raccolta degli oracoli è avvenuta più tardi, collegando insieme brani di varia
provenienza. Isaia, appartenente alla classe sacerdotale si trovava nel tempio; là ebbe
una visione durante la liturgia. «Vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato…
Sopra di lui stavano dei serafini». Questi esseri misteriosi, da Ezechiele chiamai
“cherubini”, avevano figura umana con sei ali; a loro era demandata la custodia della
zona sacra. Inneggiavano con gioia e vigore al tre volte santo; uno di loro si avvicinò ad
Isaia per cancellare l’impurità delle sue labbra e abilitarlo alla missione di profeta di
Jahvé ad Israele. Dio gli anticipa purtroppo che la sua parola sarà disattesa.
L’Emmanuele, il segno di Dio (7,10-14)
Era scoppiata la guerra siro-efraimitica.
Acaz aveva sacrificato a Moloch il suo unico figlio. I re
di Siria e di Damasco lo invitarono a ribellarsi contro
l’Assiria e ad allearsi con loro. Al suo rifiuto, decisero
di sbalzarlo dal trono e sostituirlo con un altro,
sopprimendo così la discendenza davidica, dalla
durata illimitata secondo la promessa di Dio (2Sam 7).
Isaia si presentò al re esortandolo a chiedere un prodigio
a Jahvé, come espressione di fiducia in lui. Acaz che
confidava nell’Assiria non lo fece (2Re 16,5-9). Il profeta
ebbe un moto d’indignazione, poi aggiunse: «Il Signore
stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e
partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele». Oggetto
immediato del vaticinio è la nascita di un figlio (Ezechia),
erede al trono e continuatore della dinastia davidica, che
sarebbe stato partorito dalla giovane moglie del re.
Il titolo di Emmanuele, «Dio con noi» dato ad
Ezechia, è una tappa del lungo cammino per arrivare al re ideale promesso alla
stirpe di Davide. Nella pienezza dei tempi, Gesù di Nazaret porterà a compimento
l’antica predizione. La versione greca della Bibbia detta dei Settanta, traduce il
termine ebraico “almah” ossia «giovane donna» (o moglie d’Acaz) con la parola
«vergine» “parthénos”. Questa lettura tradizionale servì a Matteo (1,23) per attestare
l’origine del Figlio della “vergine” Maria ed attribuire a Gesù il titolo di vero
“Emmanuele”. Isaia fu il primo profeta ad occuparsi del futuro messianico, spuntato
come “germoglio” dalla discendenza davidica.
L’Epifania (8,23-9,6)
«Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande
luce». Matteo (4,12-16) usa questo brano per ricordare la predicazione di Gesù in
Galilea, l’antica terra di Zabulon e di Neftali, miscela di Ebrei e pagani. Al suo
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passaggio, segnato dalla luce del Vangelo e dal messaggio di pace, si stemperavano le
memorie belliche e le violenze del passato e si espandeva l’invito alla fraternità e alla
riconciliazione. Tutto ciò era imperniato sull’annuncio seguente: Un bambino è nato per
noi. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio potente,
Padre per sempre, Principe della pace». L’oracolo si riferiva alla nascita del bambino
promesso ad Acaz; ma all’interno di questa notizia, con espressioni sublimi è
tratteggiata la figura del discendente di Davide per eccellenza, cioè del Messia destinato
a portare una pacificazione e una giustizia universale.
Il regno messianico della pace (11,1-10)
Isaia, proiettandosi nel futuro della storia, traccia le caratteristiche del
protagonista della trasformazione già preannunciata e ce ne parla in questo poema
messianico pieno di pace e di gioia. Eccone i tratti essenziali: “Discenderà dal tronco di
Iesse, padre di Davide come «un virgulto. Su di lui si poserà lo spirito del Signore» per
rivestirlo di sapienza e d’intelletto, di consiglio e di fortezza, di conoscenza e di timore
del Signore. Queste sei doti a cui sarà annessa anche la pietà diventeranno i «sette
doni dello Spirito Santo» offerti ad ogni credente. Il germoglio di Davide sarà ripieno
dello Spirito del Signore per compiere la sua missione e far regnare tra gli uomini la
giustizia e la pace. L’era messianica, infatti, è descritta simbolicamente come un
ritorno alla felicità originale nel giardino dell’Eden (Gen 2). Solo l'intervento di Dio,
mediante il suo rappresentante, realizzerà queste aspirazioni.
Annuncio del Messia (22,19-23)
L’oracolo qui esposto si riferisce ad una persona privata, ed è
l’unico testo isaiano di tale portata. Un certo Sebna, forse un arrivato straniero, era
giunto alla più alta carica nel regno di Ezechia (727-697 a.C.), quella di ministro
plenipotenziario, i cui simboli erano la tunica con la cintura e le chiavi del palazzo
reale. Per la sua presunzione fu sostituito da Eliakìm, che ricevette l’investitura
indossando la tunica e la sciarpa del predecessore e prendendo «sulla spalla la
chiave della casa di Davide. Se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno
potrà aprire». La chiave per aprire e chiudere, sono simboli di potere. Nell’Apocalisse
(3,7) questa facoltà è attribuita a Gesù. L'immagine, divenuta famosa, è stata usata
anche per esprimere i poteri di vicario conferiti da Cristo a Pietro (Mt 16,19), primo
responsabile della sua Chiesa.
Un banchetto preparato a tutti (25,6-10)
Riprendendo e ampliando concezioni universalistiche già presenti
nella Bibbia, il carme parla di un gran banchetto preparato da Dio sul monte Sion, al
quale sono invitati tutti i popoli. Per i semiti, il banchetto era un importante atto di
culto. Esso divenne simbolo abituale del convito messianico ed esprimeva la gioia
senza fine promessa agli umili rimasti fedeli al Signore. Gesù ricorre spesso a
quest’immagine (Mt 22,2-10; Lc 14,16-24).
La gloria di Gerusalemme (35,1-10)
«Questo capitolo è divenuto nella tradizione successiva una specie di annunzio
dell’era messianica, segnata da una piena e perfetta armonia di tutto l’essere» (Ravasi:
Nuova…). «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio. Egli viene a salvarvi». L’annuncio
della salvezza per Israele rende partecipe la natura e gli uomini all’intervento divino.
Ogni malattia sarà eliminata e il deserto trasformato in sorgenti d’acqua; in mezzo a
questo territorio risanato, vi sarà una pianeggiante «via sacra», per la quale
incederanno processionalmente i redenti da Jahvé. «Su di essa ritorneranno i
riscattati del Signore e verranno in Sion con giubilo».
Malattia e guarigione d’Ezechia (38,10-20)
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Il brano di preghiera rivolta a Dio dal re Ezechia in una sua grave
infermità, è inserita nel Libro delle Ore come cantico di lode. Dipinge l’angoscia
dell’uomo che sente sfuggirgli la vita a metà del suo cammino: «Dal giorno alla notte
mi riduci all’estremo». Rivolge una supplica accorata per avere l’aiuto dal cielo: «Sono
stanchi i miei occhi di guardare in alto». Sente la tristezza di non poter più lodare il
Signore nello sheol o regno dei morti: «Non sono gli inferi a renderti grazie, né la
morte a lodarti».
Al quadro fosco della morte imminente subentra la gioia. Isaia gli ordina, da parte
di Dio, di spalmare un impiastro di fichi sulla ferita e la sua vita sarà prolungata di
quindici anni. Può, quindi, tornare felice a celebrare le lodi del Signore. Il Secondo
Libro dei Re (20,1-11), racconta il fatto, ma ignora la preghiera. È ritenuta «un salmo
postesilico che esprime il lamento di un fedele colpito da una grave e improvvisa
malattia» (BJ).
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Quanto al luogo dall’attività profetica del Secondo Isaia, le ipotesi sono diverse e
nessuna è definitiva. In ogni caso, la maggioranza degli studiosi ritiene che il
ministero del profeta sia da situarsi in Babilonia tra gli esiliati. Non manca chi
propone altre località possibili quali la Giudea, la Fenicia e l’Egitto.
Autore
Nel periodo dell’ascesa di Ciro (anno 553-539 a.C.) un profeta anonimo, forse un
lontano discepolo del grande Isaia, si rivolse in nome del Signore ai Giudei che
vivevano prigionieri come lui a Babilonia. Le sue parole, raccolte in 16 capitoli (40-55),
sono cariche di speranza. «Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio». La
tradizione le ha inserite nel Libro d’Isaia.
La Bibbia non dice nulla della persona di questo profeta. Soltanto alcuni versetti
del capitolo 40,1-11 lasciano indovinare che fu chiamato da Dio ad una missione
profetica. Dal testo emerge la figura di un uomo dotato di forte personalità. Provato
dalla sofferenza, egli superò l'odio e il rancore grazie alla fede in Dio, creatore
dell'universo e signore della storia, e grazie anche alla conoscenza che aveva
dell'amore di Dio e della paziente misericordia divina. Con delicata sensibilità e
incrollabile ottimismo, servendosi d’immagini spesso ricavate dalla vita familiare e
coniugale, egli parla insistentemente al suo popolo dell'amore e della consolazione
divina, di cui sembra aver avuto una profonda esperienza personale.
Messaggio
Jahvé è l'unico Dio e il Signore della storia che predispone gli
avvenimenti per il bene del suo popolo; nessuna potenza potrà opporvisi. Le sue
promesse sono sempre valide e nel futuro si racchiude l’inebriante esperienza di un
nuovo esodo. Il re Ciro, con tutto il suo potere, non è altro che uno strumento nelle
sue mani. A camminare alla testa della carovana dei rimpatriati non c’è un profeta o
un condottiero, ma Dio stesso.
Il compito di questo profeta è appunto quello di sollecitare il ritorno a Sion e di
cantarlo come intervento divino. Nella sua opera appare anche la figura del “Servo di
Jahvé”, celebrata in quattro canti e letta poi in chiave messianica dal cristianesimo.
Per Ezechiele Jahvé aveva lasciato Gerusalemme per vivere tra gli esiliati in
Babilonia. Secondo questo profeta anonimo Dio, dopo aver condiviso le angosce e le
sofferenze dei deportati, ritorna con loro a Gerusalemme.
11
I PROFETI
LETTURE
Consolate il mio popolo (40,1-11)
Nel 538 a.C. Ciro il Grande autorizzò gli Ebrei deportati a Babilonia a tornare
in patria. Il nostro profeta è elettrizzato dalla sorprendente notizia e la comunica agli
esiliati con parole di gioia: «Consolate, consolate il mio popolo». Ora che il peccato è stato
espiato, l’esortazione a tornare nella terra dei padri è pressante. Dio stesso alla testa
d’Israele, si comporta da pastore sollecito e pieno d’attenzioni per ciascuno. Con la sua
guida, il deserto sembrerà una strada pianeggiante, al pari di quelle preparate per
le processioni d’accesso ai santuari. «Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli
uomini insieme la vedranno». L’uomo, infatti, dura quanto un filo d’erba e i suoi
progetti svaniscono; nessuna potenza, invece, potrà impedire i disegni di Dio.
La voce che grida: «Nel deserto preparate la via al Signore», torna ad echeggiare alle
soglie del Nuovo Testamento nella persona di Giovanni il Battezzatore; egli annuncia il
Messia.
Primo canto del Servo di Jahvé (42,1-7)
La parola “Servo di Jahvé” è un titolo onorifico. Abramo,
Mosè, Davide e altri grandi personaggi di ieri e di oggi si fregiano di una tale
qualifica. Il “Servo di Dio” è presentato come profeta, pieno dello Spirito divino e
destinato ad insegnare a tutte le genti con amabilità e fermezza. È compassionevole
di fronte alla debolezza e fragilità. Il suo compito è quello di ridare vigore e vita. Chi
è questo Servo? Israele, lo stesso profeta o il Messia? La tradizione cristiana, nella
lettura complessiva dei quattro «carmi», vi scorge la figura e l’opera del Messia, che
identifica con la persona di Gesù di Nazaret.
I prodigi del nuovo esodo (43,18-25)
“Jahvé ama il suo popolo”, per questo vuole liberarlo dall’esilio
babilonese e sta preparando un secondo esodo che farà impallidire e dimenticare il
primo. «Ecco, io faccio una cosa nuova. Aprirò anche nel deserto una strada,
immetterò fiumi nella steppa». Poi, si rivolge ad Israele per rimproverare le sue
infedeltà. Tra le tante colpe che hanno provocato l'esilio, non vanno escluse quelle
di carattere cultuale e liturgico: «Ti sei stancato di me, o Israele, e non mi hai onorato
con i tuoi sacrifici». Le immolazioni e i doni offerti dagli Ebrei mancavano di sincerità
e di buona condotta. Ora, però, tutto è perdonato.
Ciro, strumento di Dio (45,1-6)
Il Dio dei Giudei è talmente potente e autorevole da chiamare per
nome Ciro di Persia, un idolatra inconsapevole e destinarlo a dominare i potenti e
liberare il suo popolo. Esiste un testo babilonese, chiamato il “cilindro di Ciro” dove
si dice che Marduch, un dio non persiano, ha «nominato il nome di Ciro e lo ha
chiamato al dominio su tutta la terra». La data dello scritto per opera di sacerdoti
babilonesi, è pressoché identica all’oracolo del Secondo Isaia, risalente al 538 a.C.
circa.
Secondo canto del “Servo di Jahvé” (49,1-7.14-15)
«Il Signore dal seno materno mi ha chiamato». L’Onnipotente
prepara il suo eletto e lo segue con amorevole cura già prima di affidargli la
missione concreta d’essere «spada affilata» e «freccia appuntita». In sostanza, qui gli
12
I PROFETI
si conferma il mandato del “primo canto”: annunciare con forza la parola del
Signore, senza badare al successo che avrebbe avuto.
L’aggiunta del versetto 3: «Mio servo tu sei, Israele», come a significare che il Servo
di Jahvé sarebbe stato lo stesso popolo di Dio, è una glossa posteriore e si riferisce
a quanto scritto in 44,21. Nei successivi versetti 5-6, anche Israele rientra nella
missione del Servo insieme a tutte le nazioni.
I versetti 14-15, contengono una tenerissima dichiarazione di tipo materno.
Jahvé, rivolto al suo popolo, dice: “Può una donna dimenticare la propria
creatura? Ammesso che ciò possa avvenire, io non ti dimenticherò mai”.
Terzo canto del Servo di Jahvé (50,4-11)
Il Servo, in questo canto, appare come il discepolo attento all’ascolto
del suo Signore, per «indirizzare una parola allo sfiduciato » allo scopo di
incoraggiarlo ed aprirlo alla speranza. Il personaggio ha qui una precisa qualifica
individuale: «Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi
strappavano la barba, non ho sottratto la mia faccia agli insulti e agli sputi». È
trattato da stolto, venditore di fumo, degno d’ogni vilipendio. Il brano è carico
d’intensa drammaticità. Grazie però al coraggio che lo anima e all’aiuto divino che
lo sostiene, egli sopporta tutto e resta saldo, sicuro del trionfo finale.
Il Signore, luce di salvezza (51,4-6)
Dal 51,1 al 52,12 ha inizio l’esteso poema della restaurazione di
Gerusalemme; non sappiamo se il testo fu composto di getto o a più riprese. Nel
passo in questione, Dio invita tutti i popoli ad ascoltarlo: «Da me uscirà la legge,
porrò il mio diritto come luce dei popoli». C’è un accostamento tra questo programma
e quello del Servo; infatti, stabilire il diritto e la salvezza fra le genti è il compito a
lui demandato. Di fronte al deterioramento e alla caducità delle realtà esistenti, la
salvezza offerta da Jahvé «durerà per sempre, la mia giustizia non verrà distrutta».
Annuncio della salvezza (52,7-10)
Nel clima d’attesa per il ritorno dei deportati, le sentinelle di
Gerusalemme avvistano all’orizzonte i messaggeri che annunciano il rientro.
Esplode la gioia. Questi messaggeri portano il «vangelo», vale a dire la lieta notizia
di Dio che torna a regnare su Sion in compagnia del suo popolo. «Prorompete
insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo
popolo». Rientrino pure i leviti processionalmente e riportino le suppellettili del
tempio, che i Babilonesi avevano sottratto nel 586 (Esd 1,7-11). Sta per compiersi
un evento di valore universale: «Tutti i confini della terra vedranno la salvezza del
nostro Dio».
Quarto canto del Servo di Jahvé (52,13-53,12)
La misteriosa figura del Servo si staglia ora in tutta la sua grandezza e
fa di questo brano uno dei più celebri dell’Antico Testamento. Pur attraverso una
serie agghiacciante di sofferenze, l’esito della sua missione sarà trionfale: «Il mio
servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente».
Dopo il preambolo, i re e i popoli prendono la parola per narrare le vicissitudini
del Servo. È un germoglio che spunta nel deserto da una radice secca, simbolo
usato per descrivere il Messia davidico, umile e disprezzato. Su lui si abbatte un
castigo non meritato; egli soffre e muore per espiare le colpe altrui, come l’agnello
del sacrificio. «Si arriva al paradosso di una liberazione dal male che non giunge
attraverso l’espiazione del peccatore, ma attraverso quella di un giusto» (Ravasi). «Il
castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati
guariti».
13
I PROFETI
È condotto come pecora muta al macello e, dopo un’ingiusta sentenza, «fu
eliminato dalla terra dei viventi e con il ricco fu il suo tumulo». Probabilmente si allude
al sepolcro prestato da Giuseppe d’Arimatea, “uomo ricco” (Mt 27,57-60) o al fatto
che personalmente non aveva niente da spartire con i ricchi. A questo punto rientra
in scena Jahvé per annunciare il trionfo del Servo: «Dopo il suo intimo tormento
vedrà la luce; io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché
ha spogliato se stesso fino alla morte» ed ha espiato il peccato del mondo.
Grandissima è l’importanza teologica di questo canto, soprattutto per
l'impressionante affinità con la tragica fine di Gesù. Egli interpretò la sua morte alla
luce di questo testo. Tutti i racconti evangelici sulla passione vi fanno allusione.
Gerusalemme, sposa del Signore (54,5-14)
Alcuni profeti, cominciando da Osea, avevano parlato di Dio
come sposo d’Israele. L’immagine nuziale riemerge adesso per affermare che, dopo
l’espiazione del peccato con l’esilio, il Dio dei padri è tornato al suo popolo con
una passione più veemente di prima: «Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti
raccoglierò con immenso amore». Gerusalemme, sposa di Jahvé, diventa il simbolo di
questa riconciliazione. Giura che manterrà l’alleanza rinnovata come mantenne
quella fatta a Noè. «Inizia così, per Gerusalemme una nuova èra gloriosa che è
tratteggiata con una serie d’immagini di pietre preziose destinate ad evocare lo
splendore della città santa risorta» (Ravasi). La descrizione sarà ricuperata da
Giovanni per tratteggiare la nuova Gerusalemme (Ap 21,18-21).
Invito finale (55,1-11)
A conclusione, il profeta anonimo, esorta a partecipare ai beni della nuova
alleanza. Innanzitutto è necessario mettersi in ascolto della parola di Dio: «Ascoltate e
vivrete. Io stabilirò per voi un’alleanza eterna» destinata non soltanto a voi, ma a tutti i
popoli. In secondo luogo è urgente convertirsi a Dio, finché si è in tempo: «L’empio
abbandoni la sua via e ritorni al Signore che avrà misericordia di lui». Jahvé è
certamente un Dio misterioso e imperscrutabile nei suoi pensieri; la sua parola deve
essere accolta con fede e amore, essendo destinata a fecondare lo spirito che l’accoglie,
come l’acqua rende fertile la terra su cui cade. È parola che non invecchia secondo
Gesù: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» (Mt 24,35).
14
I PROFETI
grama e non era facile la riedificazione della città e del tempio. La realtà prospettata
da quegli antichi oracoli era ben più radiosa dello squallido presente. Sicuramente
non rinunciavano alle attese esaltanti che racchiudevano, ma si scontravano con la
penuria e le aggressioni provenienti da popoli vicini, gelosi del loro ritorno e delle
loro speranze. Pertanto serpeggiava lo scoraggiamento e la solidarietà veniva a
mancare.
Autore
Riguardo all’autore, abbiamo detto che potrebbe trattarsi di uno o più discepoli del
Secondo Isaia da collocare nel V e IV secolo a.C. Le notizie piuttosto lacunose di quel
periodo sono ricavate dai profeti contemporanei Aggeo e Zaccaria e dai libri di Esdra
e Neemia. I protagonisti di questi ultimi, ossia di Esdra e Neemia, avevano sciolto e
proibito matrimoni con stranieri. «Diverso è l’atteggiamento del nostro profeta, che
definisce il tempio “casa di preghiera per tutti i popoli» (Ravasi: Nuova…). D’altra
parte gli scritti dei personaggi menzionati contengono slanci patriottici e fiducia
nel futuro «messianismo», un’amalgame che mette d’accordo il trionfalismo del Primo
Isaia con quello umile del Deutero-Isaia.
Messaggio
All’interno del Terzo Isaia riecheggia un cantico di gioia per il ritorno
dall'esilio, visto come un secondo esodo che fa rivivere l’esultanza e i prodigi dell’
uscita dall’Egitto. Punto di partenza e d’arrivo dell’annunzio è Gerusalemme o Sion,
epicentro della salvezza totale. Tutti sono invitati a mettersi in cammino (esodo), ad
uscire (anche da se stessi) al fine di sperimentare la grazia del Signore e la gioia che
scaturisce dalla liberazione promessa.
Gerusalemme è intesa come il cuore dell'universo, la città di Dio, la capitale della
pace, il trono del re messianico. Ad essa si riferirà Giovanni nell'Apocalisse (c 21) per
descrivere la città celeste, dimora definitiva dei figli di Dio. Il Messia non sarà soltanto
un re potente e vittorioso, ma anche e soprattutto portatore di pace e di salvezza.
LETTURE
Promessa agli stranieri (56,1-7)
Il Terzo Isaia s’introduce con un testo di largo respiro
universalistico in cui stranieri ed eunuchi, contrariamente a quanto stabilito nel
Deuteronomio (23,2-9), possono partecipare ai benefici della salvezza. Il principio
d’appartenenza razziale a Israele – tanto enfatizzato nei libri delle Cronache, Esdra e
Neemia – passa in secondo ordine, rispetto all'adesione sincera all'alleanza, di cui
Israele era depositario. «Agli eunuchi che osservano i miei sabati, io concederò nella
mia casa un monumento e un nome, che non sarà mai cancellato. Gli stranieri, che
15
I PROFETI
hanno aderito al Signore per servirlo, li condurrò sul mio monte santo».
Il digiuno gradito a Dio (58,4-10)
Il digiuno, prescritto per la festa dell’espiazione o del Kippûr
(Lv 23,26-32), si era andato a poco a poco estendendo ad altri giorni, come
anniversari di lutto e circostanze varie. Questi giorni penitenziali d’avvicinamento a
Dio, non dovevano assolutamente essere separati dalla pratica della giustizia e dalla
generosità verso i poveri. «Nel giorno del vostro digiuno – ecco il rimprovero di Jahvé
-, curate i vostri affari, angariate tutti i vostri operai, digiunate tra litigi e alterchi». Tali
comportamenti gridano vendetta davanti a Dio, che all'opposto vuole amore e
compassione: «Questo è il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, rimandare
liberi gli oppressi, dividere il pane con l’affamato, vestire uno che vedi nudo». A questi
poveri e oppressi, nel Vangelo di Matteo (c 25), si affianca Gesù.
La nuova alleanza (59,19-21)
Il peccato è da sempre l’ostacolo della salvezza. Dio sarà come un
vento distruttore per chi lo commette, ma «per quelli di Giacobbe, convertiti
dall’apostasia», si presenterà come redentore. Così si chiude il capitolo. Poi, in prosa
è aggiunta una postilla (versetto 21) che annuncia un’alleanza eterna tra Jahvé e
Israele, segnata dall’effusione dello Spirito sulle varie generazioni.
Lo splendore di Gerusalemme (60,1-8)
Il Primo Isaia (2,1-5) aveva predetto un incontrarsi di popoli a Gerusalemme per
camminare nelle vie del Signore. Il nuovo profeta amplia la visione e descrive
l’esultanza di Gerusalemme che si guarda d’attorno e contempla l’avvicinarsi di figli
che «vengono da lontano», carichi delle risorse del mare e della «ricchezza delle genti».
Al corteo glorioso partecipano i popoli del mare su navi fenicie o greche, le carovane
del deserto provenienti dall’Egitto, Arabia e Siria. È tutta l’umanità che si reca al
monte di Sion per adorare e ascoltare il Dio d’Israele. Matteo (2,1-12),
nell’adorazione dei Magi vede avverarsi la profezia e cita i dromedari che da Saba
portano «oro e incenso».
La missione del Messia (61,1-11)
Il profeta, in prima persona, dice che lo spirito del Signore lo ha
consacrato a portare un annuncio di liberazione a tutti i sofferenti, come avveniva nel
giubileo. A secoli di distanza, Gesù rilesse nella sinagoga di Nazaret lo stesso brano e,
chiudendo il rotolo affermò: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato»
(Lc 4,18-21). L’obiettivo finale e completo della profezia era quindi il Nazareno,
mentre il profeta in questione n’era il segno. A Gesù spettava affrancare da ogni
male e dalla stessa morte l’umanità; egli personificava il “lieto annuncio” o vangelo
di Dio.
Un altro motivo di gioia proveniva dalla ricostruzione delle «rovine antiche» e dagli
stranieri che sostituiranno nei lavori materiali gli Israeliti, diventati popolo
sacerdotale. Nei versetti 10-11, il profeta ringrazia il Signore per Gerusalemme
tanto da lui beneficata.
La nuova Gerusalemme (62,1-12)
Alla città distrutta e adesso in ricostruzione, Jahvé dice: «Nessuno ti
chiamerà più Abbandonata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra avrà uno
sposo». L’esilio è ormai alle spalle; Dio si rivolge con immutato amore alla sua città
per stringere con essa un patto nuziale, vegliandola come sentinella e colmandola di
benessere e di pace.
Dio nostro Padre (63,16-64,8)
16
I PROFETI
Dio nell’Antico Testamento non è quasi mai chiamato padre; qui,
per tre volte risuona un tale appellativo. «Tu, Signore, sei nostro padre». Al Dio dei
padri, clemente e misericordioso, Israele si rivolge fiducioso per chiedergli: «Ritorna
per amore dei tuoi servi»; rinnova come nel passato i prodigi a nostro favore. Con la
frase: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Davanti a te sussulterebbero i monti», si
domanda a Dio di manifestarsi con una teofania per ridare coraggio agli sfiduciati.
Tuttavia, la consapevolezza del male che ha causato la tragedia, è sempre presente:
«Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato; ma, Signore, tu sei nostro padre».
Gerusalemme nostra madre (66,10-21)
I capitoli 65-66 sono una raccolta di testi apocalittici dell’epoca
postesilica. L’immagine di Gerusalemme come una mamma ricca di latte,
simboleggia la prosperità e l’abbondanza di cui sarà ricolma. In essa ha posto la
sua dimora l’Onnipotente, il quale incoraggia e conforta il suo popolo, «come una
madre consola il figlio».
L'ultimo oracolo pare un’aggiunta conclusiva alla raccolta isaiana, pervaso da un
grandioso afflato universalistico. Con gli Israeliti, tutti i popoli della terra sono
chiamati alla salvezza e all’alleanza con Dio: «Anche tra loro mi prenderò sacerdoti
leviti». Si evidenzia così un meraviglioso progetto divino per rinnovare l’umanità, fino
all’eliminazione totale del male e la cui meta finale sarà la creazione di «nuovi cieli e
di nuova terra» (65,17; vedi anche Ap 21,1) dove regnerà per sempre la giustizia.
17
I PROFETI
Collaborò alla riforma religiosa promossa dal re Giosia (622 a.C.), per riportare il
popolo all’osservanza sinaitica. Dopo la morte del sovrano (609 a.C.), dovette
affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica. Si
profilava all’orizzonte la minaccia di una deportazione a Babilonia; egli tentò ogni
via per evitare il pericolo e scuotere Israele dal torpore, esortandolo ad una radicale
conversione e all’abbandono delle pratiche idolatriche. In compenso ottenne dai
compatrioti derisione, beffe, disprezzo, prigione e flagellazione pubblica. «La vicenda
personale del profeta è testimoniata da una specie di diario intimo, che gli studiosi
chiamano le “confessioni di Geremia”, distribuito nei capp. 10-20 del suo libro,
l’opera più lunga dell’Antico Testamento» (Ravasi: Nuova…).
Compiutasi la predizione circa l’esilio a Babilonia (586 a.C.), Geremia non fu
intruppato con i relegati, ma gli si consentì di rimanere a Gerusalemme insieme alla
gente di minor conto. I capi di questi residenti assassinarono Godolia, il governatore
ebreo imposto dai babilonesi. Poi ripararono in Egitto, trascinando con sé il profeta.
D’allora Geremia uscì di scena, ucciso, secondo la tradizione ebraica, dalla sua
stessa gente.
I cristiani lo ritengono il profeta più somigliante a Cristo per la vita travagliata. È
difficile ricostruire il testo di Geremia nella forma originaria. Il rotolo dei suoi vaticini,
bruciato dal re Ioiakìm nel 604, fu riscritto dal segretario Baruc con delle aggiunte
(cc 2-19 e 30-31). Nell’edizione del 598 a.C. s’introdussero i capitoli 21,11-24,10.
Dopo la morte del profeta, Baruc inserì altri racconti biografici (19,1-20,3; 26; 28-
29; 32; 34-45). Dall’inizio dell’esilio al 570 a.C. circa, il testo fu sottoposto ad una
revisione deuteronomista. L’ultima rielaborazione si ebbe tra il 570 e il 555 a.C.
Ambiente storico
La missione profetica di Geremia, che va dal 626 all’esilio
babilonese del 586 a.C., comprende due periodi del regno di Giuda, distinti tra loro
per la condotta dei due re Giosia e Ioiakìm.
Durante il regno di Giosia1 (640-609 a.C.), proprio a causa della riforma religiosa
che egli aveva intrapreso, si respirava ottimismo; erano stati riconquistati i territori
perduti e anche gran parte del regno del nord.
1
Giosia morì a Meghiddo, mentre combatteva contro l’esercito egiziano del faraone Necao I, accorso
a sostenere l’Assiria ormai prossima alla rovina. È una triste vicenda che la Bibbia non ama ricordare,
forse per i meriti religiosi acquisiti dal re con la riforma.
18
I PROFETI
A Giosia successe Ioiakim2 (609-598 a.C.) e la situazione del regno di Giuda
cominciò a peggiorare. Accantonata gradualmente la riforma di Giosia, riprese a
crescere la corruzione, il disfacimento dell’esercito, l’aumento dell’oppressione.
Sullo scenario politico del Medio Oriente si era intanto affacciata una nuova grande
potenza: Babilonia o l’impero caldeo. Il suo dominio si consolidava, mentre
l’ascendente dell’Assiria era in declino. I Babilonesi non persero tempo ad
approfittare di tale debolezza per imporsi. Israele continuava a confidare negli
Assiri. Geremia, nel 604, annunciò che il tracollo di Gerusalemme era vicino e
consegnò questo messaggio al re Ioiakìm, il quale, per tutta risposta, ne bruciò il
rotolo e ordinò l’arresto del profeta e del suo segretario. Nel 602, senza tenere conto
degli avvertimenti del profeta, Ioiakìm si ribellò a Nabucodonosor, che di
conseguenza nel 598 assediò la città santa. Il re morì all’età di trentasei anni, cioè
tre mesi e dieci giorni prima della caduta di Gerusalemme (16 marzo 597 a.C.). Gli
successe il figlio Ioiachìm, che regnò nel breve periodo che precedette la prima
deportazione.
All’inizio del regno di Sedecia3 (597-586) avvenne la prima deportazione dei
Giudei. Geremia mise in guardia i deportati dalla falsa illusione di un imminente
ritorno. Nel 588 il re Sedecia si ribellò a Nabucodònosor, che intervenne con forza
assediando e occupando Gerusalemme (luglio 586), distruggendo città e tempio.
Seguì la deportazione e il compimento del castigo annunciato. Da quel momento, gli
oracoli di Geremia presero gli accenti della speranza: Dio non aveva abbandonato il
suo popolo e gli avrebbe offerto ancora un’occasione di riscossa.
Messaggio religioso
Geremia è paragonato a Mosè; porta ai massimi livelli la
comprensione del ministero profetico e agisce come portavoce di Dio agli uomini. Il
richiamo costante alla conversione provocava un atteggiamento di rifiuto in chi lo
ascolta e inaudite sofferenze a chi lo trasmetteva. Il profeta sentiva tutto il peso
dell’ingrata missione e se ne lamentava con Dio (15,10-21 e 20,7-18). Il suo
contegno era di rispetto e insieme di contestazione radicale verso le istituzioni. Nel
capitolo settimo imbastì un processo contro gli Israeliti che si concluse con la
minaccia della distruzione del tempio. Non saranno certo le pietre del tempio a salvare
Israele, ma unicamente la fiducia e il ritorno a Dio.
Il fallimento della riforma di Giosia (ucciso in battaglia nel 609 a.C.), che s’ispirava
al Deuteronomio, lo aveva deluso. Costatando il rifiuto alla sua predicazione, aveva
capito che nel cuore umano esisteva una malvagità connaturale, che solo Dio poteva
sradicare. Da sé, l’uomo non era capace di osservare la Legge. Propose arditamente il
2
IOIAKIM re di Giuda dal 609 al 598, ascese al trono dopo la morte del padre Giosia e al posto di
suo fratello Ioacaz, per volere del faraone Necao II. Sappiamo che esercitò il potere in maniera
tirannica e oppressiva; intraprese anche una politica fiscale molto rigida – resasi peraltro necessaria
per il pagamento del tributo imposto dall’Egitto – che gli attirò la fama di sovrano avido. Favorì
inoltre l’ingresso e la diffusione di culti idolatrici in seno ad Israele, vanificando così gli obiettivi delle
riforme di Giosia. Nei confronti del profeta Geremia, Ioiakìm mantenne sempre un atteggiamento di
distacco e d’ostilità, e manifestò perfino il suo disprezzo verso gli oracoli che questi gli aveva inviato,
bruciandone il rotolo (36,21-27).
3
SEDECIA ventunesimo e ultimo re di Giuda, regnò dal 597 al 586. Nabucodonosor lo elevò al
trono a soli 21 anni al posto del nipote Ioiachìm e gli impose il nome di Mattania. Con somma
incoscienza ruppe il trattato di vassallaggio con i babilonesi provocando l’irata reazione di
Nabucodonosor, che inviò il suo esercito ad assediare Gerusalemme. La città fu espugnata nel luglio
del 586, il tempio fu saccheggiato e incendiato, e a quest’assedio seguì una seconda deportazione,
nella quale anche lui fu condotto in Babilonia, dove morì.
19
I PROFETI
superamento dell'antico patto sinaitico con una nuova alleanza (31,31-34),
sostituendo alle tavole della Legge (scritte su pietra), una trasformazione interiore del
cuore umano, operata da Dio per mezzo del suo Spirito.
La circoncisione rimaneva un rito esteriore, se non era accompagnata dalla
“circoncisione del cuore” (4,4; 9,24).
Sintesi di GEREMIA
LETTURE
Vocazione di Geremia (1,1-10. 17-19)
«Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto e ti ho
stabilito profeta delle nazioni». Un disegno a lungo accarezzato da Dio sta per compiersi
nel giovane Geremia, sacerdote del tempio di Gerusalemme. Il beneficiario, però, ne
sente tutto il peso quasi ad esserne schiacciato: rimane sgomento, spaventato e chiede
l’esonero. Dio, assuefatto a servirsi di strumenti deboli e inadatti, lo incalza e lo
incoraggia a non temere quelli ai quali annunzierà l’esigente parola del Signore. È
sottoposto alla purificazione della bocca per pronunciare oracoli di sventura e di
salvezza, per “demolire” ed “edificare”. Su di lui e sulle difficili situazioni da affrontare,
veglierà la potenza dell’Altissimo: «Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io
sono con te per salvarti».
Attacco contro il tempio (7,1-15)
All’occhio del pio israelita, il tempio santificato dalla presenza e dalla
gloria di Jahvé, appariva intangibile. Lo aveva dimostrato l’avvenimento di
Sennàcherib, re d’Assiria che, dopo aver devastato nel 701 a.C. le città della Palestina
e sconfitto l’esercito egiziano, aveva assediato Gerusalemme senza prenderla. Il
motivo probabile fu o il richiamo urgente a Ninive o una falcidia dei suoi soldati
colpiti da peste. Per gli Ebrei era conferma dell’imprendibilità del luogo sacro.
Geremia, in nell’oracolo del 608 a.C., all’inizio del regno di Ioiakìm, disse chiaro e
tondo che Jahvé avrebbe abbandonato il suo tempio se chi lo frequentava non
esercitava la giustizia e non osservava la Legge. Anzi, aggiunse: «Io tratterò questo
tempio sul quale invocate il mio nome e in cui confidate, come ho trattato Silo. Vi
scaccerò dalla mia presenza, come ho scacciato tutti i vostri fratelli», ossia gli abitanti
del regno del nord. Nella città di Silo, una quarantina di km a nord di Gerusalemme,
si trovava il Santuario con l’arca santa; fu distrutto dai Filistei al tempo dei Giudici.
Massime sapienziali (17,5-11)
20
I PROFETI
«Maledetto l’uomo che confida nell’uomo… Benedetto l’uomo che confida
nel Signore» (17,5.7). Alla fragilità e caducità dell’uomo, cangiante nei pensieri e
instabile nel tempo, si contrappone la saldezza e l’eternità di Dio. Il tamerisco che
stenta a vivere nella steppa e l’albero che è rigoglioso vicino ai corsi d’acqua,
richiamano alla mente il Salmo numero uno.
«Niente è più infido del cuore e difficilmente guarisce!». Per cuore s’intende tutto
l’uomo, il centro della personalità con il groviglio di volizioni e di sentimenti che
spingono al bene o al male: com’è complicato analizzarlo e guidarlo.
Estratti dalle «Confessioni» (20,7-13)
Geremia ritorna con la mente alla sua prima chiamata e pone
un’obiezione a Dio: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre». Come a dire:
“Ero tanto giovane e tu ha approfittato della mia inesperienza, per addossarmi un
peso insostenibile”. Perciò «sono diventato oggetto di derisione ogni giorno; ognuno si fa
beffe di me». Chiaramente, la tentazione di abbandonare il suo ministero era continua.
Nel cuore, però, sentiva un fuoco che lo spingeva avanti.
Queste «Confessioni», o confidenze sono disseminate qua e là nella prima parte del
libro. Non mancano però motivi di fiducia: «Tutti i miei amici aspettavano la mia
caduta: ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso». Confortato da questa
presenza e dalla forza che ne scaturiva, scomparivano paura e protesta: sarebbero
stati i suoi avversari a vacillare e a cadere.
21
I PROFETI
Israele.
L’alleanza sinaitica non aveva raggiunto lo scopo. Quindi Jahvé, nella sua bene-
volenza, ne propone un’altra: «Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa
d’Israele dopo quei giorni: Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro
cuore. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: “Conoscete il Signore”, perché
tutti mi riconosceranno, perché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro
peccato4». Il Signore sa che l’uomo non è capace di liberarsi dal peccato. Per questo
presenta una nuova iniziativa per eliminare il peccato e favorire l’osservanza dei
precetti. Nella Nuova guida di Ravasi è detto: «La nuova alleanza è possibile quando
l’individuo e il popolo confessano la propria radicale impotenza a fare il bene; e la
nuova alleanza si realizza perché Dio promette e concede il suo perdono, che è grazia
sorgiva e rigenerante: “Io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato”.
Una tale novità sta nel fatto che l’uomo riconosce davanti a Dio la propria incapacità
di evitare il peccato e l’ammette; dal canto suo il Padre manda il Figlio a prendere su
di sé l’umana fragilità e miseria e a cancellarla, nella sua misericordia. La nuova
alleanza apparirà in tutta la sua evidenza nell’ultima cena, dalle parole sacrificali
di Gesù pronunciate sul pane e sul vino (Lc 22,20).
Geremia condannato a morte (38,1-10)
La minaccia dell’invasione è vicina. Geremia grida forte: «Chi
rimane in questa città morirà di spada, di fame e di peste; chi si consegnerà ai Caldei
vivrà». Tra l’Egitto, allora in guerra contro i Babilonesi, il profeta esorta ad affidarsi a
questi ultimi per sopravvivere. Ai cortigiani e allo stesso re Sedecia, filo-egiziani, un
annuncio del genere aveva il significato di tradimento, oltre a seminare lo spavento.
Gli si scagliarono contro, «presero Geremia e lo gettarono nella cisterna di Malchia».
Anche il capitolo precedente parla di un passato imprigionamento del profeta in una
casa-cisterna.
Ebed-Mèlech, straniero e funzionario di corte, si presentò al re e chiese e ottenne
che Geremia fosse liberato e tirato su dalla cisterna fangosa. Nel seguito del racconto,
il re farà del tutto per ottenere dal profeta una risposta favorevole alle sue scelte
politiche. La risposta è sempre la stessa: solo consegnandosi ai Babilonesi si avrà la
salvezza.
Il ritorno degli Israeliti dall’esilio (50,4-20)
Verso la conclusione del suo libro, Geremia ci fa sapere che non era
affatto filo-caldeo; anzi lancia gli strali più velenosi sulla città nemica e si esalta nella
descrizione della caduta di Babilonia. «In realtà Babilonia cadrà sotto Ciro solo nel 539
a.C. La descrizione del crollo di quella potenza e delle sue divinità principali, Bel e
Marduk, o è un annunzio libero di Geremia nei confronti di un evento sperato o è una
rielaborazione posteriore di un testo del profeta sulla base degli eventi del 539 a.C.»
(Ravasi). L’Apocalisse di Giovanni attingerà abbondantemente a questi brani per
descrivere la rovina di Babilonia-Roma.
Sulla strada del ritorno, gli Ebrei guardavano fisso verso Gerusalemme e nel cuore
coltivavano la fiducia di un’alleanza perenne per sottrarsi nel futuro ad una tragedia
4
«Al rapporto Dio-uomo di stampo “politico” e, quindi, un po’ esteriore che era stato stipulato al Sinai,
ora si sostituisce una relazione basata sul «cuore», cioè sulla persona, sull’intimità e la comunione. Alle
tavole di pietra subentrano le tavole di carne del cuore umano trasformato; dall’imposizione si passa
all’adesione (la “conoscenza” d’amore), alla legge si accompagna e domina la grazia, al peccato succede
il perdono, al timore l’unione intima. Questo oracolo verrà ripreso integralmente nel Nuovo Testamento
dalla Lettera agli Ebrei (8,8-12), verrà evocato da Cristo nell’ultima cena (Lc 22,19s) e da Paolo ai
Corinzi (1Cr 11,23-25; 2Cr 3,3-6)» (Ravasi).
22
I PROFETI
come quella appena sofferta. «Venite, uniamoci al Signore con un’alleanza eterna, che
non sia mai dimenticata». Naturalmente si fa riferimento alla nuova alleanza di cui si è
detto sopra, con effetti analoghi: «Si cercheranno i peccati di Giuda, ma non si
troveranno, perché io perdonerò al resto che lascerò».
23
I PROFETI
4. LIBRO di BARUC: liturgia penitenziale
Il Libro di Baruc è scritto in greco e al pari degli altri redatti nella stessa lingua (i
due libri dei Maccabei, Tobia, Giuditta, Sapienza e Siracide), non fa parte della Scrit-
tura ebraica. Nella Bibbia dei Settanta è inserito tra Geremia e le Lamentazioni; nella
Vulgata latina e nella Bibbia CEI segue le Lamentazioni. L’autore è anonimo e la data
di composizione è piuttosto recente: fra il 200 e il 100 a.C. Dà uno spaccato sulle co-
munità della diaspora in contatto con Gerusalemme, dei pellegrinaggi e del culto.
Autore
Il vero autore del libro attribuito a Baruc,
«benedetto», amico e segretario di Geremia, è un
ignoto compilatore che mette i brani raccolti sotto la
protezione di un personaggio famoso. Sappiamo che
Baruc rimase accanto al gran profeta durante la sua
prigionia, decretata dal re Sedecia (Ger 32,12-16), ne
scrisse sotto dettatura gli oracoli per leggerli al
popolo e ai capi (Ger c 36). Però, tra lui e questi brani
attribuitigli dalla tradizione, c’è la distanza di almeno
quattro secoli. Si tratta piuttosto di una raccolta di
scritti tardivi risalenti al II secolo a.C.; è probabile
che provengano da qualcuna delle comunità della
diaspora che sviluppava rapporti epistolari e cultuali
con la città santa, centro delle speranze di un destino glorioso.
L’opuscolo, pervenutaci solo in lingua greca, è rifiutato da Ebrei e Protestanti,
mentre i cattolici l’accettano nel canone come libro «deuterocanonico».
Ambiente storico
Lo scritto appartiene ad un’epoca storica molto posteriore all’esilio babilonese cui
si riferisce. Per darsi ragione di quell’avvenimento catastrofico, l’autore rilegge in
chiave sapienziale il passato e si convince che le cose non potevano andare di -
versamente da com’erano andate. I vaticini dei profeti addossavano all’empietà
d’Israele la responsabilità principale della catastrofe. Tuttavia, quell’incidente di
percorso non annullava l’elezione del popolo di Dio. Il dono della sapienza rima neva
in ogni caso una sua prerogativa e si concretizzava nella conoscenza di ciò che era
gradito a Dio. Su questo dato della fede ebraica poteva fondarsi ogni attesa di
rinascita. Nella diaspora la fede e la vita religiosa era mantenuta viva dai contatti
con Gerusalemme, dalla preghiera, dal rispetto alla legge, dallo spirito di rivalsa e
dai sogni messianici. Nel prologo, di valore storico, si evoca l’uso del pellegrinaggio
annuale a Gerusalemme da parte degli Ebrei fuori patria.
Contenuto
Cinque anni dopo la distruzione di Gerusalemme (581 a.C.), Baruc
commuove i deportati leggendo loro un libro. Essi pregano e digiunano; poi
mandano a Gerusalemme una somma di denaro per celebrare olocausti, sacrifici
espiatori e oblazioni, allo scopo di render serena la loro permanenza a Babilonia. I
sacerdoti presenti compilano un testo e lo inviano a Gerusalemme; in esso è
contenuta una lunga preghiera penitenziale comprendente la confessione pubblica
delle infedeltà d’Israele verso il Dio dei padri, causa dell’ignominia dell’esilio. Si
passa ad elogiare la sapienza che Dio ha concesso ad Israele e che non gli sarà
tolta. Appare, infine, una Gerusalemme trasfigurata che promette agli esiliati, da
parte di Dio, soccorso e il ritorno in patria.
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I PROFETI
Un capitolo a parte completa il libro; è intitolata «Lettera di Geremia» inviata ai
fratelli deportati. Ridicolizza il culto prestato agli idoli; ha sapore polemico .
Messaggio
L'autore ricorda il passato d’Israele per risvegliare la fiducia del popolo e orientarla
verso un promettente futuro. La Gerusalemme che vi si intravede non è la città che i
Giudei stanno ricostruendo dopo l'esilio, ma è la Gerusalemme della fine dei tempi.
Sintesi si BARUC
Prologo storico (1,1-14);
liturgia penitenziale (1,15-3,8);
inno sapienziale (3,9-4,4);
oracolo di restaurazione (4,5-5,9);
cosiddetta “Lettera di Geremia” (6,1-72).
LETTURE
La sapienza, prerogativa d’Israele (3,9-15.32-4,4)
Nell’attuale condizione d’esilio, Israele non dimentica la sua origine e
la saggezza delle sue leggi derivate da Jahvé. «Se tu avessi camminato nella via di
Dio, avresti abitato per sempre nella pace». Al rimpianto di aver abbandonato Dio e
del castigo presente, si unisce la continua consapevolezza della permanenza del
dono ricevuto: «Egli ha scoperto ogni via della sapienza e l’ha data a Giacobbe, suo
servo». Grande è pertanto la beatitudine di questo popolo, perché gli è stato rivelato
«ciò che piace a Dio».
Invito alla gioia (5,1-9)
«Con lo stesso linguaggio del Secondo Isaia (52,1; 61,10), Gerusalemme è
invitata a deporre la veste rituale del lutto e ad assumere quella gloriosa delle
nozze» (Ravasi). I suoi figli ritornano a lei «in trionfo, come sopra un trono regale» e la
madre è colma d’esultanza.
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I PROFETI
era composta dal re Joiakìn e da «tutti gli uomini di valore in numero di 7000, i
falegnami e i fabbri in numero di mille, e tutti gli uomini validi alla guerra» (2Re 24,16) e
da altri. Trovandosi a Babilonia sulle rive del fiume Chebàr, affluente dell’Eufrate, in
una grandiosa visione scenografica sentì la chiamata di Jahvé (593 a.C.).
Cominciò subito a predicare la conversione e la penitenza, ben consapevole che
l’esilio era il castigo del peccato. Allo stesso tempo, ammoniva i correligionari
rimasti in Palestina a cambiare vita, altrimenti la punizione si sarebbe abbattuta
anche su di loro. La profezia non tardò ad avverarsi; il resto degli Ebrei fu deportato
nel 586 a.C. Frattanto, in terra straniera, Ezechiele era diventato la guida morale e
spirituale degli esuli. Gli stessi anziani del popolo si radunavano nella sua casa,
apprezzandone lo spirito profetico e l’influenza incoraggiante.
La morte della moglie del profeta, coincise con caduta di Gerusalemme; egli restò
muto per sei mesi, poi riprese a vaticinare, sia contro le nazioni straniere (cc 25-32)
sia a conforto del popolo sfiduciato, promettendo il ritorno in patria e il soccorso da
parte di Jahvé (cc 33-48).
Ezechiele è un personaggio fuori del comune sotto l’aspetto spirituale e psichico; la
sua complessità è resa ancora maggiore dagli avvenimenti che dovette affrontare. Il
suo ministero profetico si pone tra il 593 e il 571 a.C.
Caratteristiche dell’opera
Il centro del Libro d’Ezechiele è la caduta di Gerusalemme.
Prima di quest’avvenimento le sue profezie hanno lo scopo di esortare i Giudei al
pentimento, ad aver fiducia in Dio e non nell'Egitto. Dopo la caduta di
Gerusalemme, invece, sono volte a dare conforto agli esuli. Promette la liberazione,
il ritorno in patria e l'inizio del nuovo regno messianico, descritto con simboli
affascinanti.
Ezechiele si distingue per le visioni. Quattro di esse occupano un posto rilevante
(cc 1-3; 8-11; 37; 40-48). Amante dei colori accesi e delle visioni surreali, il veggente
usa un linguaggio barocco, carico d’immagini complicate, spesso caratterizzato da
azioni simboliche. Data la sua origine sacerdotale, Ezechiele ha un senso molto vivo
della sacralità di Dio, vale a dire della sua distanza e superiorità di fronte ad un
popolo impuro e peccatore. Prevede un nuovo Israele e una nuova Gerusalemme, in
cui Dio e uomo possono coesistere nella purezza e nella santità.
Ambiente storico
Il quadro internazionale che fa da scenario alla sua attività, si
può tratteggiare a grandi linee: nel 605 a.C. Nabucodònosor sconfisse a Carchemis
il faraone Necao. Il regno di Giuda passò così sotto la sovranità babilonese e fu
gravato da un forte tributo. Pochi anni dopo Ioiakìm, re di Giuda, si ribellò ai
babilonesi e si alleò con l’Egitto, provocando così l’intervento di Nabucodònosor.
Gerusalemme fu assediata una prima volta (597 a.C.) e la parte migliore della
popolazione fu condotta in esilio. Tra i deportati c’era anche Ezechiele. Non pochi di
questi notabili abbandonarono progressivamente la fede in Jahvé.
Gli Ebrei rimasti in Palestina si sentivano sicuri. Per loro Gerusalemme e il suo
tempio, dimora di Dio, erano inespugnabili. I governanti continuavano a stringere
alleanze con Tiro e con l'Egitto per scuotere il giogo dei caldei. La reazione di
Nabucodònosor non si fece attendere assediò e distrusse definitivamente la città
santa e il tempio nel 586 a.C. A catastrofe avvenuta, i figli d’Israele si sentirono
totalmente finiti e disorientati: «La nostra speranza è svanita, noi siamo perduti»
(37,11). Ezechiele li rincuorava e prometteva un futuro migliore.
È probabile che Ezechiele abbia svolto il suo ministero soltanto a Babilonia, ma
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I PROFETI
senza dimenticare gli Israeliti rimasti in patria, con i quali, come risulta dal testo,
aveva frequenti contatti. Spesso riceveva a Babilonia connazionali che gli recavano
notizie su quanto accadeva a Gerusalemme.
Il Libro d’Ezechiele è stato sempre di grande conforto per gli Ebrei sparsi ogni dove;
anche il cristianesimo vi ha attinto largamente, soprattutto nell’Apocalisse.
Contenuto e messaggio
Ezechiele, al pari degli altri profeti, combatté l'idolatria, le ingiustizie
sociali, l’oppressione dei poveri. Realtà che provocavano l’ira di Jahvé ( cc 8-11).
La dura missione che gli era stata affidata, gli imponeva di cancellare la falsa
illusione degli Israeliti circa l’intervento di Dio per salvare Gerusalemme e l’attesa di
un prossimo ritorno dei deportati. Senza illuderli, li predisponeva all'accettazione
dell’esilio e anche al peggio.
Riemerge in Ezechiele il tema della "Nuova Alleanza" (c 36) già elaborato da
Geremia; essa è centrata sul rinnovamento interiore. Bisogna dotarsi di un “cuore
nuovo” ossia di sentimenti di obbedienza verso Dio, o piuttosto sarà Dio stesso a
dotare l’uomo di un cuore «nuovo», perdonandone il peccato e infondendo il suo
spirito.
Il messianismo d’Ezechiele non è più glorioso: egli annunzia che il futuro
rampollo di Davide sarà il «pastore» del suo popolo (34,23; 37,24). Rimprovera i
pastori infedeli d’Israele: Dio stesso si sostituirà a loro (34). Dichiara la responsabilità
personale e la retribuzione individuale delle azioni buone o cattive, senza
nascondersi dietro una malintesa solidarietà (c 18).
Sintesi di EZECHIELE
LETTURE
Visione del carro del Signore: simboli degli Evangelisti (1,10)
Nel descrivere gli elementi della grande visione avuta per
la sua chiamata a profeta, Ezechiele introduce «una figura
composta di quattro esseri animati. Avevano facce d’uomo;
poi tutti e quattro facce di leone a destra, tutti e quattro facce
di toro a sinistra e tutti e quattro facce d’aquila». «Questi
animali ricordano i kâribu assiri (il cui nome corrisponde a
quello dei cherubini dell’arca, vedi Es 25,18+), esseri dalla
testa umana, corpo di leone, zampe di toro e ali d’aquila, le
cui statue custodivano i palazzi di Babilonia. Questi servi
di dèi pagani sono qui legati al carro del Dio d’Israele:
vivace espressione della trascendenza di Jahvé. I “quattro
viventi” dell’Apocalisse (4,7s) riprendono le caratteristiche
dei quattro animali d’Ezechiele. La tradizione cristiana ne
ha fatto i simboli dei quattro evangelisti» (BJ).
27
I PROFETI
Missione d’Ezechiele (2,2-5)
«Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli…
Ascoltino o non ascoltino, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro».
“Figlio dell’uomo” significa semplicemente uomo. In Ezechiele è usato più di
novanta volte e denota la distanza esistente tra il Dio trascendente e il suo profeta.
Ben diverso contenuto ha il termine “figlio dell’uomo” tratto dal Libro di Daniele
(7,13s) e che Gesù si applica.
Allegoria del cedro (17,22-24)
Il Signore prenderà un ramoscello di cedro per piantarlo sul
monte d’Israele, ora spoglio e abbandonato. Crescerà e «diventerà un cedro
magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno». Una chiara immagine per indicare
l’avvenire meraviglioso d’Israele; è prevista la restaurazione frutto di un’era
messianica ed alimentata la speranza di una rinascita della dinastia davidica,
mediante il germoglio che spunta dalla sua radice.
Responsabilità personale (18,1-32)
Nel popolo d’Israele c’era la convinzione che i figli pagassero per i
peccati dei padri: «Perché andate ripetendo questo proverbio: “I padri hanno mangiato
uva acerba e i denti dei figli si sono allegati?». La persuasione veniva da lontano. Nel
Libro dell’Esodo (20,5) era scritto: «Sono un Dio geloso che punisce la colpa dei padri nei
figli, fino alla terza e alla quarta generazione». Tali piagnistei di auto giustificazione
erano frequenti tra i deportati. Jahvé ispirò ad Ezechiele la proclamazione chiara del
principio della responsabilità individuale: ognuno pagherà per il male che ha
commesso. «Chi pecca morirà; il figlio non sconterà l’iniquità del padre, né il padre
l’iniquità del figlio. Sul giusto rimarrà la sua giustizia e sul malvagio la sua malvagità».
Di conseguenza, gli Ebrei deportati dovevano guardarsi dentro con sincerità e
camminare sulla via della Legge; quelli rimasti liberi a Gerusalemme erano invitati a
convertirsi a Jahvé, per stornare il pericolo imminente. Davanti a Dio non conta la
condotta passata, ma la conversione presente.
Una vita perversa e disordinata può essere riscattata da un ravvedimento in atto e
viceversa. Dio, infatti, non vuole la morte del peccatore ma che desista dalla sua
iniqua condotta e viva: «Convertitevi e vivrete».
Il profeta come sentinella (33,7-9)
Dopo la parentesi dedicata ai vaticini di condanna contro le
nazioni straniere (cc 25-32), Ezechiele si occupa di nuovo d’Israele. Frattanto
Gerusalemme era stata distrutta e il profeta si apprestava a confortare i fratelli
smarriti; allo stesso tempo dichiarava che tutto può, anzi deve ricominciare. Il suo
compito era quello della sentinella: dare l’allarme, mostrando i pericoli e preparare la
difesa che, fuori di metafora, significa denunciare il peccato e ad esortare alla
conversione. «O figlio dell’uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d’Israele.
Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia». Il suo
compito era quello di distogliere l’empio dalla sua malvagia condotta, altrimenti ne
sarebbe stato responsabile davanti a Dio. Qualora non fosse stato ascoltato, il peccato
sarebbe ricaduto su chi lo compie. Questo è il ruolo del profeta, ieri come oggi.
Il pastore5 d’Israele (34,11-17)
5
«L’immagine del re-pastore è antica nel patrimonio letterario dell’Oriente. Geremia l’ha applicata ai
re d’Israele, per rimproverarli di aver adempiuto male i loro compiti (2,8), e per annunziare che Dio
darà al suo popolo nuovi pastori, che lo guideranno nella giustizia (3,15); tra questi pastori vi sarà un
«germoglio» (23,5s), il Messia. Ezechiele (34,1-6) riprende il tema di Geremia, che più tardi sarà
altresì ripreso da Zaccaria (11,4-17). Egli rimprovera ai pastori – qui i re e i capi laici del popolo – i
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I PROFETI
Il capitolo si apre con una denuncia contro i pastori d’Israele, ossia
dottori della Legge, sacerdoti ed anziani che hanno abbandonato Israele al suo
destino, sfruttandolo e non guidandolo sulle vie di Dio. Il Signore si sostituirà a loro:
«Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna». Il testo elenca le
attenzioni di cui egli circonda il suo gregge e come veglia su di esso con totale
dedizione. Il richiamo alla parabola del «buon pastore» di Giovanni (10,11-18) è
d’obbligo.
«Io vi darò un cuore nuovo» (36,16-28)
Jahvé era giustamente adirato con Israele che lo aveva
dimenticato prestandosi ai culti idolatrici. N’aveva profanato il nome in mezzo alle
genti dove era esiliato, facendolo credere impotente e incapace a salvarlo. Ora stava
per mettere in atto qualcosa di straordinario: «Santificherò il mio nome grande,
profanato fra le nazioni, profanato da voi in mezzo a loro». Prima di tutto li
ricondurrà in patria e là li purificherà con acqua da tutti i peccati, mondandoli da
ogni idolatria. Poi annuncia: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno
spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio
spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi». «C’incontriamo, così, con
una famosa pagina che, ricalcando l’annunzio dell’«alleanza nuova» proclamato da
Geremia (31,31-34) e riprendendo un altro passo d’Ezechiele (11,19s), delinea la
radicale trasformazione del cuore e dello spirito dell’uomo, che il Signore sta
compiendo. L’acqua purificatrice cancellerà i peccati e rigenererà l’umanità, dalla
quale sarà strappato il «cuore di pietra», segno dell’ostinazione nel male, e nella
quale si infonderà lo stesso Spirito di Dio» (Ravasi).
La visione delle ossa aride (37,1-14)
La visione delle ossa umane rinsecchite, dagli aspetti surreali, il
profeta la ebbe a Babilonia dove, dopo il lungo esilio, gli Ebrei avevano perso ogni
speranza. Tutto era rimasto sepolto sotto le macerie di Gerusalemme e l’Israele di Dio
faceva parte dell’archeologia. Di fronte ad uno scoramento così radicale e in mezzo ad
una valle immensa disseminata di scheletri, Jahvé rivolge al profeta questa domanda
provocatoria: «Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere? Io risposi: “Signore Dio, tu
lo sai». Poi, il Dio dei padri impartì una serie di comandi ad Ezechiele che li fece
risuonare nella valle degli scheletri. Ed ecco, tra un rumore fragoroso di scricchiolii, le
ossa si ricomposero e si rivestirono di nervi e di carne. La valle era piena di cadaveri
muti. Ancora un comando di Jahvé, riecheggiato dal profeta e quei morti balzarono in
piedi: formavano un esercito. «Figlio dell’uomo, queste ossa sono tutta la casa
d’Israele». Non si poteva trasmettere un messaggio più chiaro di questo per ridare
fiducia e far intuire la futura restaurazione con l’appoggio di Jahvé. «Riconoscerete che
io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri». In
queste parole, la tradizione ha visto pure un accenno alla risurrezione finale.
Il ritorno dei prigionieri (39,25-29)
In questa breve sezione è condensato l’insegnamento
d’Ezechiele. Tutte le genti devono sapere che è stato Jahvé stesso a punire il suo
popolo con l’esilio e non altri. «Ora io ristabilirò la sorte di Giacobbe, avrò compassione
loro crimini. Il Signore si riprenderà il gregge che essi strapazzano e farà lui stesso da pastore al suo
gregge: in effetti, al ritorno dall’esilio, la monarchia non sarà più ristabilita. Solo più tardi Jahvé darà
al suo popolo un pastore di sua scelta (vv 23s), un “principe”, nuovo Davide. La descrizione del regno
di questo principe e il nome di Davide che gli viene dato suggeriscono un’era messianica, in cui Dio
stesso, mediante il Messia, regnerà sul suo popolo nella giustizia e nella pace. Si trova, in questo testo
d’Ezechiele, l’abbozzo della parabola della pecorella smarrita (Mt 18,12-14; Lc 15,4-7) e soprattutto
dell’allegoria del buon pastore (Gv 10,11-18) che, confrontata con Ezechiele, appare come una
predicazione messianica di Gesù» (BJ).
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I PROFETI
di tutta la casa d’Israele e sarò geloso del mio santo nome». Placato il suo sdegno,
Jahvé riconduce in patria i deportati con mano potente, li ricolma di beni ed
effonderà il suo «spirito sulla casa d’Israele». Ripieni del dono dello spirito, il loro
cuore sarà trasformato e vivranno nella fedeltà e nell’abbondanza.
La gloria del Signore nel tempio (43,1-7)
Ezechiele aveva visto la “gloria del Signore”, ossia la presenza di Dio,
abbandonare la città santa e il tempio, alla vigilia della loro distruzione (10,18s). Ora
la vede tornare a Gerusalemme in un tripudio di gioia: «Il suo rumore era come il
rumore delle grandi acque e la terra risplendeva della sua gloria». Jahvé tornava a
Gerusalemme con i deportati a prendere di nuovo possesso della terra che aveva dato
ad Israele, popolo da lui prediletto.
6. LIBRO di DANIELE
Daniele non è un profeta, ma il personaggio principale dello scritto di un ignoto
autore del tardo giudaismo. Narra episodi edificanti del passato ed anche visioni
apocalittiche con sogni e previsioni di un futuro di gloria. Si prefiggeva di soccorrere i
combattenti per la libertà d’Israele, durante la persecuzione d’Antioco IV Epìfane
(intorno al 164 a.C.).
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I PROFETI
tradivano. In alcuni documenti di Qumran si rinvengono convincimenti affini a
questo.
La corrente apocalittica cui lo scritto s’ispira fiorì nel giudaismo dal III secolo a.C. in
qua. Una tale letteratura leggeva il creato in modo pessimistico. «La sua
rappresentazione del mondo è divisa tra terra e cielo in modo netto, quella
dell’umanità in bene e in male, quella della storia tra il presente dominato da
Satana e il futuro retto dal Signore con i giusti» (Ravasi: Nuova…). Ogni epoca è
peggiore della precedente. Il regno del male cesserà soltanto con l’intervento del
Messia, che guiderà il mondo verso una nuova e definitiva creazione.
Gli Ebrei inclusero il Libro di Daniele nel loro canone biblico intorno al 90 d.C. e
gli assegnarono un posto tra gli Scritti o Ketubìm (la terza sezione della loro Bibbia).
La Bibbia cattolica, invece, accolse Daniele tra i profeti, inserendo nel suo canone
anche gli ultimi capitoli scritti in greco e considerati «deuterocanonici». Nelle grotte di
Qumran (1947), furono trovati alcuni frammenti ebraici del libro in questione.
Contenuto
Protagonista del libro è un saggio ebreo di nome Daniele e di tre suoi
amici alla corte del re di Babilonia (VI secolo a.C.). Per mantenersi fedeli alla Legge e
alle tradizioni dei padri, essi sfidarono il potere imperiale e subirono vari tormenti.
Daniele fu addirittura gettato in pasto ai leoni.
Nella prima parte del libro (cc 1-6), compilata secondo il genere letterario del
«midràsh» o rilettura attualizzata del testo sacro a scopo edificante, sono riportate le
vicende burrascose di Daniele e compagni. Tali racconti vogliono dimostrare che gli
uomini fedeli a Dio prevalgono sempre sulla malvagità umana. Nella seconda parte
(cc 7-12), l’autore si esprime mediante visioni di stile «apocalittico» per completare in
maniera efficace quanto esposto in precedenza. Il messaggio conclusivo è molto
originale: chi subisce persecuzioni, tormenti e perfino la morte per restare ancorato
alle proprie convinzioni religiose, sarà certamente ricompensato. Tuttavia, il premio o
il castigo delle azioni umane è rinviato ad una vita ultraterrena, oltre i confini della
stessa morte. La redazione del libro si colloca tra il 167 e il 164 a.C.
Ambiente storico
Verso la metà del II secolo, la Palestina viveva un momento difficile.
Antioco IV Epifane (215-164 a.C.) re di Siria, dapprima favorì gli Ebrei, poi li
perseguitò. Combatté l’Egitto dal 171 al 168 a.C. e sconfisse non in modo definitivo
Tolomeo VI e Tolomeo VII. Di ritorno dall’impresa, essendo scoppiata una sedizione
a Gerusalemme, la invase. Proibì la religione ebraica e impose di sostituirla con i
culti e i costumi greci. L’attacco alla fede dei padri scatenò la rivolta degli Asmonei,
(il sacerdote Mattatia e i suoi figli tra cui Giuda Maccabeo), che furono seguiti da
una gran moltitudine di popolo. Si ribellarono al re e innescarono una guerriglia
che li portò alla proclamazione dell’indipendenza nel 160 a.C. Le gesta di questi eroi
sono narrate nel Primo libro dei Maccabei che descrive gli avvenimenti accaduti dal
175 al 134 a.C.
Messaggio
Il Dio d’Israele, pur consentendo agli uomini l’esercizio della loro libertà che provoca
ingiustizie, patimenti e devastazioni, si riserva un tempo per pronunciare la parola
definitiva su tutte le prevaricazioni della storia. Jahvé permette la sofferenza e
l’oppressione dei suoi seguaci, ma non li abbandona mai nelle mani dei nemici.
Le visioni apocalittiche, in cui c’è la sfiducia nel presente e il bene e male si
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I PROFETI
contrappongono in maniera netta, intendono suscitare l'attesa del nuovo regno di Dio
in sostituzione del mondo invecchiato. La salvezza proviene dal «Figlio d'uomo» (7,13),
vale a dire dal Messia escatologico cui è delegata ogni autorità, insieme ad un regno
che non avrà mai fine.
Il Libro di Daniele si rifà alle idee degli antichi profeti per ricordare che Dio si
serve delle nazioni pagane per castigare Israele.
Sintesi di Daniele
LETTURE
Daniele alla corte di Babilonia (1,1-20)
In una cornice storica piuttosto approssimativa, si narra la vicenda
di Daniele e tre suoi compagni deportati a Babilonia. Furono avviati agli studi per
essere d’aiuto nel governo del regno. Si dette loro un nome nuovo, essi però
giurarono di rimanere fedele all’alleanza e di non contaminarsi con vivande proibite
dalla Legge. Rifiutarono cortesemente la mensa regia e l’esperimento andò a buon
fine.
Il sogno di Nabucodònosor (2,31-45)
Dal capitolo 2,4b fino al capitolo 7,28, il testo passa dall’ebraico
all’aramaico, lingua diplomatica dell’epoca; più tardi, ossia ai tempi di Gesù,
diventerà lingua d’uso corrente. Il racconto intende mostrare la sapienza superiore
di Daniele nei confronti degli altri saggi di corte.
La statua composta di materiali diversi, per indicare le varie epoche storiche in
continuo degrado, era un espediente usato anche da autori pagani come Esiodo (Le
Opere e i giorni) ed Ovidio (Le Metamorfosi). Per quel che concerne l’identificazione e
la successione dei vari imperi (eccetto quello di Nabucodònosor, ossia la testa d’oro),
i contorni permangono sfumati. La novità è costituita dal masso che, staccatosi dal
monte, abbatte la statua e diventa montagna, «un regno che non sarà mai distrutto».
Forse si allude al Messia.
I giovani nella fornace ardente (3,14ss)
Capitolo lunghissimo che, nelle varie redazioni, ha subito varie
inserzioni, preghiere e suppliche. Il racconto
riporta il fatto di Daniele e compagni che, non
essendosi prostrati in adorazione davanti alla
grande statua fatta erigere da
Nabucodònosor, furono condannati ad essere
arsi vivi in una fornace ardente. Dio
intervenne e li salvò. Il prodigio destò stupore
e gesti d’ammirazione anche da parte del re.
Il banchetto di Baldassar (5,1-28)
I personaggi evocati, a quattro secoli di
distanza, sono resi in modo vago.
32
I PROFETI
Nabucodònosor aveva sottratto preziosi e vasi sacri al tempio di Gerusalemme nel
586 a.C. Baldassàr se ne servì per un banchetto ai notabili della corte. Subito una
mano tracciò tre lettere sulla parete.
Sono i nomi di tre monete orientali, ma rimandano a ben altro. «Mene indica il
verbo “misurare” (mnh), Teqel evoca il verbo “pesare” (tql), Peres richiama il verbo
“dividere” (prs). Le frasi risultanti sono chiare: Dio «ha misurato» il regno di
Baldassàr e gli ha posto fine, l’«ha pesato» sulla bilancia trovandolo mancante, il
regno ormai «è stato diviso» e consegnato ai Medi e ai Persiani. La condanna è
lapidaria e messa in esecuzione dal narratore in quella stessa notte» (Ravasi).
Daniele nella fossa dei leoni (6,11-28)
L’episodio, largamente conosciuto, esalta il
potere divino per salvare dalle fauci dei leoni
Daniele, il giusto calunniato e condannato. Si
vuole far capire ai perseguitati da Antioco Epìfane
che Jahvé non li abbandonerà e in qualche modo
usciranno indenni dalla bufera.
La visione del Figlio dell’uomo (7,13-14)
«Ecco venire con le nubi del cielo
uno simile ad un figlio d’uomo; giunse fino al
vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno». L’espressione
«figlio d’uomo» vuol dire semplicemente uomo. Qui però si vede avanzare sulle nubi
del cielo una figura misteriosa; essa riceve un potere universale da parte di Dio, il cui
significato trascende grandemente quello di un uomo qualsiasi. «La tradizione
giudaica, ma soprattutto quella cristiana, hanno interpretato questo passo in chiave
messianica. Certo, qui il Messia avrebbe una dignità straordinaria, quasi divina»
(Ravasi). L’interpretazione collettiva suggerita dai versetti 18 e 22, che si riferisce ai
santi israeliti fedeli al Signore, non fa altro che ampliare il senso personale; di essi il
Messia è l’esponente maggiore ed il modello.
La risurrezione e la retribuzione (12,1-3)
«Molti di quelli che dormono nella regione della polvere, si risveglieranno: gli
uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna». Questo è uno dei grandi
testi sulla risurrezione dell’Antico Testamento; ad esso va aggiunto quanto scritto nel Secondo
Libro dei Maccabei (7,9+). Forse il vocabolo «molti» si riferisce alla moltitudine e quindi alla
totalità. Il “risvegliarsi” è il termine tecnico della risurrezione. Appare in piena evidenza la
disparità tra i buoni e i cattivi, la cui sorte è diametralmente opposta. L’invito a mantenersi
fedeli a Dio, è rivolto a tutti gli Israeliti sottoposti alla persecuzione del momento.
33
I PROFETI
Bibbia in uso, segue la successione della Bibbia ebraica e della Volgata.
34
I PROFETI
scagliate contro il regno dai profeti Amos e poi da Osea. I governanti israeliti
perseguivano una politica dissennata d’alleanze e non credevano più in Jahvé. Il nostro
profeta sa che l’Egitto o l’Assiria, assurte a divinità, non potevano assolutamente salvare
il regno d’Israele. Buona parte dei vaticini d’Osea si accentra Osea profeta
sull'avanzata degli eserciti assiri, per richiamare alla gravità della situazione sociale e
politica e alla necessità di una radicale conversione.
Messaggio
Dall'esperienza personale dell'infedeltà della sua donna, Osea fu il
primo a parlare del distacco d’Israele dal suo Dio come di una infedeltà coniugale,
che ferisce profondamente e provoca il rigetto. Lui vede i rapporti tra Dio e il popolo
sotto l’aspetto di una relazione d'amore sponsale. In altri termini, la teologia dell’
amore di Dio è modellata sul linguaggio dei sentimenti umani.
Israele ha tradito Jahvé suo sposo, al quale è legato da un’alleanza, offrendosi
ad altri “amanti” (le varie divinità cananee). La speranza di una ripresa del rapporto
primitivo sta solo in una sincera conversione: «Ritornerò al mio marito di prima,
perché stavo meglio di adesso» (2,9), che può riaprire una prospettiva di luce e di
speranza. Ne è simbolo il cambiamento dei nomi dei «figli di prostituzione» che
diventano Amata, Popolo mio, Seme di Dio benedetto.
I disordini che Osea denuncia hanno due radici: mancanza di «conoscenza» di
Jahvé (4,1) e malizia «atavica». Da esse proviene lo «spirito di prostituzione» (4,12) o
d’infedeltà. Era quindi necessario «ritornare a Dio», quantunque fosse Dio stesso per
primo a voler tornare ad Israele, ricordandogli l’antica tenerezza del periodo del
fidanzamento nel deserto e parlando al suo cuore.
Vano è il culto religioso non unito alla vita e alla giustizia. «Voglio l'amore e non il
sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti», afferma Osea (6,6), e Gesù farà suo
quest’appello (Mt 9,13 12,7).
Sintesi di Osea
LETTURE
Israele, sposa infedele (2,16-22)
«Io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore». Dio,
sposo tradito e, nonostante tutto, innamorato di sua moglie (Israele). Dapprima sfoga
il suo risentimento, poi usa il linguaggio della seduzione per convincere la donna a
tornare a lui.
Tutto il discorso è condotto sulla falsariga della vicenda personale d’Osea, sulla
quale il profeta interpreta il sentimento divino. Il deserto è il luogo della giovinezza
d’Israele. «La vita nel deserto, durante l’esodo, appare come un ideale perduto (12,10);
Israele, ancora bambino (11,1-4), non conosceva gli dèi stranieri e seguiva fedelmente il
Signore, presente nella nube» (BJ). Il ritorno alla solitudine, per creare un clima
d’intimità, fa cantare di gioia la sposa. Essa si rivolgerà a Dio chiamandolo «marito mio»
e non «Baal, mio padrone». «Ti farò mia sposa per sempre, nella giustizia e nel diritto».
Con questo gesto Jahvé intende cancellare l’infedeltà coniugale d’Israele per farne una
creatura nuova nella “giustizia”. Non le propone prosperità e benessere, come nel
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I PROFETI
passato, ma giustizia e benevolenza. Si tratta di disposizioni interiori che, in filigrana,
richiamano la nuova alleanza preconizzata da Geremia ed Ezechiele.
La falsa e la vera conversione (6,3-6)
Dopo aver minacciato l’invasione assira nel capitolo precedente,
Osea esorta Israele a rivolgersi a Jahvé per stornarne l’ira. La reazione del popolo è
piuttosto velleitaria: «Il vostro amore è come la rugiada che all’alba svanisce». Per
questo, le predizioni dei profeti si avvereranno. Jahvé, infatti, come segno di reale
conversione, si aspetta «l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli
olocausti».
La tenerezza paterna di Dio (11,1-9)
Affiorano ricordi dolcissimi, quelli di un padre che ripensa
all’infanzia del figlio. «Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato». Con lui si
baloccava, lo prendeva fra le braccia, gli insegnava a camminare e si chinava per
dargli da mangiare. «La risposta di quel figlio così amato e curato fu solo
l’ingratitudine. Per questo ciò che l’attende sarà il ritorno alla schiavitù: è l’esilio in
Assiria, dopo la distruzione di Samaria (721 a.C.) e la fine del regno settentrionale
d’Israele» (Ravasi). Questa tragedia muove a compassione il Signore, pronto a
perdonare Israele, se glielo chiedesse.
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I PROFETI
Sintesi di GIOELE
LETTURE
Invito alla penitenza (2,12-18)
«Ritornate al Signore, vostro Dio. Chi sa che non cambi e si ravveda?». La
devastazione compiuta dal passaggio delle cavallette aveva distrutto raccolti e
speranze. Il profeta esorta a convocare un’assemblea penitenziale con la
partecipazione di tutto il popolo, dagli anziani ai bambini. Il verbo “ritornate a me”
equivale a «convertirsi», cambiando sentimenti e comportamenti di vita; soltanto così
si poteva allontanare il castigo di Dio e tramutarlo in benedizione e prosperità.
Davanti all’altare piangano i sacerdoti e preghino: «Perdona, Signore, al tuo popolo e
non esporre la tua eredità al ludibrio e alla derisione delle genti»; è, infatti, il popolo
da lui scelto.
L’effusione dello Spirito (3,1-5)
Guardando nel futuro, Gioele dice: «Io effonderò il mio spirito sopra ogni
uomo». Il giorno di Pentecoste, dopo la morte e risurrezione di Cristo, successe un
evento straordinario. Gli Apostoli ricevettero lo Spirito Santo. Pietro rivolse la parola
al popolo e citò per intero questo brano, commentandolo (At 2,16-21). Si stava
avverando quanto annunciato dal profeta e lo Spirito che era sceso su di loro era
destinato a tutti, indistintamente.
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I PROFETI
Si esprimeva in modo spontaneo ed incisivo; usava un linguaggio duro e ricco
d’esempi concreti. Di fronte ad una religiosità esteriore ed ipocrita che addormentava le
coscienze, rendendole insensibili alle esigenze della giustizia sociale, il suo
insegnamento si rivelava inflessibile ed essenziale. Jahvé, il Dio che lo aveva inviato,
era giusto ed interveniva dove si conculcava la giustizia e il diritto. La pretesa d’Israele
di essere sempre difeso dal Signore perché popolo dell’alleanza, era un’illusione. Jahvé
lo avrebbe castigato duramente, dal momento che la chiamata di Dio lo impegnava ad
una più elevata integrità morale.
Ambiente storico
La predicazione d’Amos si svolse durante il regno di Geroboamo II
(787-747), terzo re d’Israele. Sul piano politico il regno del nord godeva di un ultimo
periodo di tregua, dovuto principalmente al declino della vicina Siria, vittima
dell’espansione assira. Geroboamo aveva riconquistato i territori israeliti oltre il
Giordano; ma gli eserciti assiri si avvicinavano sempre più alla Palestina. Sul piano
economico, gli scambi commerciali con l’estero apportavano prosperità al paese, ma
accentuavano gli squilibri sociali tra poveri e ricchi. La miseria dilagava e il grido dei
poveri saliva al cielo. A Samaria si faceva sfoggio di lusso e fioriva lo snobismo degli
arricchiti (6,4-7). Sul piano religioso, il culto rivaleggiava con quello di Gerusalemme,
ma il suo splendore mascherava l’assenza di una religione vera e non convinceva il
profeta (5,4ss).
Amos si scagliò contro l’aristocrazia samaritana, le cui lussuose residenze erano
“accumuli di violenza e rapina” (3,10), ne disprezzò gli splendidi divani damascati
(3,12) e svergognò le nobildonne dell’alta società (4, 1-3).
Messaggio
La religione non ha senso se è priva della giustizia; il culto è magia se
non è sostenuto da un impegno sociale d’onestà: «Io detesto le vostre feste solenni;
anche se voi mi offrite olocausti, io non gradisco le vostre offerte» (5,21s). Il messaggio
d’Amos era caratterizzato da un forte richiamo alle urgenze dell'alleanza e alla
costante difesa dei poveri di Samaria, contro i molti abusi nei loro confronti.
L’espressione «giorno di Jahvé», appare per la prima volta in Amos (5,18-20),
che lo qualifica come giorno di “tenebre e non di luce” per Israele, che viveva nella
presunzione dannosa di essere il "popolo eletto". Per "giorno di Jahvé", gli Ebrei
intendevano l’intervento punitivo di Dio verso le nazioni pagane e il trionfo d’Israele.
Amos la pensava diversamente. Ai suoi occhi il popolo ebreo si era reso colpevole di
crimini (2,6-15) e quindi passibile di condanna. Dopo aver espiato il castigo, Jahvé
avrebbe fatto brillare la luce di una salvezza futura (9,8).
Sintesi di Amos
LETTURE
Contro la falsa sicurezza dei gaudenti (6,1-7)
Gli Assiri, la cui potenza militare era travolgente, avanzavano
38
I PROFETI
distruggendo città importanti come Calne e Calmat in Siria, Gat nella Filistea. Gli
Israeliti credevano forse di poter resistere all’Assiria? Amos, deridendoli, ne metteva
in risalto la mollezza: «Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani, mangiano
agnelli e vitelli. Canterellano al suono dell’arpa come Davide», ritenendosi migliori di
lui. Si profumano abbondantemente e non si accorgono di quanto stava per
succedere. Infine, piombò su questi incoscienti la terribile minaccia: «Ora andranno
in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti».
Amos espulso da Betel (7,12-15)
«Vattene, veggente, ritirati nella terra di Giuda, ma a Betel non
profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno». Il brano
citato è la risposta all’oracolo del profeta contro il paese: «Di spada morirà Geroboamo,
e Israele sarà condotto in esilio». Registra la reazione violenta d’Amasia, sacerdote del
re. Egli temeva l’avverarsi della predizione, perché riteneva Amos vero profeta e voleva
allontanare la minaccia. L’interpellato rispose con distacco. Egli non apparteneva a
nessuna congrega di profeti allora in voga e non aveva bisogno di vaticinare per
mestiere, avendo già il lavoro di mandriano e contadino. Profetizzava perché il
Signore glielo aveva imposto. Prima di andarsene, anche contro Amasia scagliò un
infausto presagio.
Davanti ai frodatori e sfruttatori (8,4-7)
Il profeta si rivolge a un uditorio cinico e sprezzante e dice: «Ascoltate!».
Poi inveì contro gli oppressori dei poveri e degli umili, contro gli affaristi che durante il
giorno di festa pensavano al modo di frodare gli indigenti e farli schiavi per un paio di
sandali. Insieme con la sua, cresceva l’ira di Dio contro costoro, tanto da
preannunziare: «Non dimenticherò mai tutte le loro opere».
39
I PROFETI
Messaggio
Al centro della predicazione d’Abdia c’è un solo tema: il destino
degli Edomiti dai rapporti sempre conflittuali con Giacobbe. Potrebbe forse
trattarsi di un’allegoria sui nemici d’Israele.
Il «giorno del Signore», vede la rivincita gloriosa d’Israele su Edom e il sorgere di una
nuova era di gioia per il popolo di Dio, ritornato sul monte di Sion.
Sintesi di ABDIA
Versetti 1-15: condanne contro Edom, giustificate dalla legge del taglione.
Versetti 16-21 annunciano il ristabilirsi di Giuda in Sion.
LETTURE
Contro Edom (1-7)
La visione d’Abdia contro Edom, sembra una dichiarazione di guerra. Sarà
stanato dalle montagne in cui confidava, sarà ripulito dei suoi beni, sarà ingannato e
deriso dagli alleati.
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I PROFETI
Composizione. Questo testo, pur avendo trovato sistemazione tra i dodici profeti
minori, appartiene in realtà al genere sapienziale o didascalico. Basti dire che la
vicenda narrata nel libro riguarda fatti risalenti alla metà dell’VIII secolo, come
suggeriscono la menzione di Ninive e l’identità del protagonista, mentre l’epoca
della redazione, fatta risaltare dallo stile più recente della lingua ebraica, si
colloca tra il V e il III secolo a.C.
Messaggio
Giona è un racconto allegorico in prosa per trasmettere un importante
insegnamento: la salvezza è destinata a tutti i popoli. Israele non può presumere di
salvarsi per il privilegio dell’elezione da parte di Dio.
Elezione e salvezza sono cose diverse. L’ elezione è una libera scelta di Dio; la
salvezza è la libera collaborazione dell’uomo a compiere il volere di Dio. Probabilmente
lo scritto si proponeva di reagire alle prospettive eccessivamente particolaristiche
d’Esdra e Neemia, come lo scioglimento dei matrimoni con partner stranieri. Tutti gli
uomini sono chiamati alla salvezza, anche i nemici.
Sintesi di Giona
LETTURE
La disobbedienza di Giona (1,1-2,1)
Il comando di Jahvé era perentorio. Giona doveva recarsi a
Ninive, capitale dell’Assiria, in mezzo a un popolo guerriero e
spietato nemico d’Israele ed esortalo alla conversione, per
ottenere il perdono da Dio. La reazione fu di rigetto della
missione e fuga. «Giona si mise in cammino per fuggire a
Tarsis, lontano dal Signore». Imbarcatosi a Giaffa, scelse
l’itinerario opposto a quello di Ninive navigando verso
Gibilterra o la Sardegna. Scoppiò una tempesta disastrosa: la
ciurma pregava, offriva sacrifici e cercava il colpevole della
sciagura; la sorte cadde su Giona. Il quale confessò la sua
colpa e con rincrescimento dei naviganti fu gettato in mare,
dove, secondo lo stile acceso dei racconti popolari, un grosso
pesce lo inghiottì. «Giona restò nel ventre del pesce tre giorni e
tre notti». Gesù, riferendosi a questo brano, vi legge la sua permanenza di tre giorni
nel sepolcro (Mt 12,40).
La preghiera di Giona (2,2-11)
La preghiera è un mosaico di testi salmodici per ringraziare il Signore dello
scampato pericolo: «Dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce».
Naturalmente, le immagini che accompagnano la supplica sono di tipo marittimo. A
conclusione è detto: «Il Signore parlò al pesce ed esso rigettò Giona sulla spiaggia». In
forma allegorica si parla del ritorno alla vita. Nei confronti di Gesù la morte, qui vista
sotto l’aspetto di un mostro vorace, non può trattenerlo e lo restituisce alla vita con la
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I PROFETI
risurrezione.
La conversione di Ninive (3,1-4,11)
Accadde ciò che Giona temeva. Dio è troppo buono per non lasciarsi
commuovere. Il profeta iniziò a percorrere l’estesa città di Ninive, gridando: «Ancora
quaranta giorni e Ninive sarà distrutta». I Niniviti accolsero con sorpresa e sgomento
un tale messaggio. Ne parlarono al re che impose a tutti un periodo di penitenza e
di preghiera. «Dio vide le loro opere e si ravvide riguardo al male che aveva
minacciato di fare e non lo fece».
Giona, irritato dalla conversione dei Niniviti, se ne lamentò con Dio perché era
«misericordioso e pietoso». Sconfortato, gli chiese di morire: non era giusto il suo
agire. “È il tuo che non è giusto, gli rispose Jahvé”. Uscito poi dalla città, sostò sotto
una pianta di ricino che lo proteggeva dall’arsura e che seccò all’improvviso. Alle
nuove rimostranze del profeta, il Signore gli rivelò finalmente tutto il suo pensiero:
«Tu hai pietà per quella pianta di ricino, e io non dovrei aver pietà di Ninive, nella
quale ci sono più di 120.000 persone, che non sanno distinguere tra la mano destra e
la sinistra?». È chiaro che Dio vuole la salvezza di tutti e con questo siamo alle soglie
del Nuovo Testamento.
42
I PROFETI
citavano di lui un oracolo contro Gerusalemme (Ger 26,18). Il Nuovo Testamento ha
soprattutto evidenziato il testo sull’origine del Messia in Betlemme di Efrata (Mt 2,6;
Gv 7,42).
Contenuto
Il libro di Michea contiene un messaggio presentato letterariamente come un
«processo». Dio ammonisce e condanna il suo popolo di entrambi i regni per le
colpe d’idolatria e d’ingiustizia. Tra le trasgressioni d’ordine sociale vanno poste
l’accumulo della ricchezza, l’oppressione dei poveri, l’abuso del potere, lo sfascio
della famiglia, la venalità dei profeti, giudici e sacerdoti. Il castigo potrebbe essere
evitato se Israele si pentisse e cambiasse modo di vivere.
Il testo è stato largamente rimaneggiato dai successivi revisori del libro. È difficile
determinare l’estensione delle rielaborazioni subite. Anche il capitolo quinto è stato
rivisto durante e dopo l’esilio, lasciando però intatto parte di esso. Non c’è ragione
apprezzabile per rifiutare a Michea l’annunzio messianico di 5,1-5, che poi concorda
con quanto faceva sperare Isaia nella stessa epoca (Is 9,1s; 11,1s).
Ambiente storico
La fase storica in cui si svolse il ministero di Michea, vide l’espandersi
dell’Assiria con Tiglat-Pilèzer III, che inglobò nella compagine del proprio impero la
Siria e la Palestina, facendone delle province tributarie. Israele tentò di svincolarsi
da un tale vassallaggio in due riprese, entrambe mancate. Il regno del Nord si
ribella a Salmanassar V, figlio e successore di Tiglat-Pilèzer, ma subì l’assedio e la
deportazione (721 a.C.). Anche il regno del Sud si sollevò contro Sennacherib (701
a.C.) e fu invaso dai suoi eserciti.
Sintesi di Michea
LETTURE
Il Messia nascerà a Betlemme (5,1-4)
Michea è giustamente famoso e
ricordato per l’annuncio della nascita del
Messia a Betlemme, borgata insignificante nei
confronti di Gerusalemme, fastosa dimora di
re. Da quell’umile villaggio sarebbe iniziata
una nuova era del mondo (5,1). Ecco il testo
citato da Matteo (2,6): «E tu, Betlemme, terra di
Giuda, non sei davvero l’ultima delle città
principali di Giuda da te infatti uscirà un capo
che sarà il pastore del mio popolo, Israele».
Matteo riferisce l’oracolo parlando dei «Magi»
che, raggiunta Gerusalemme, chiesero al re
Erode il Grande dove fosse nato il re dei Giudei. Di fronte alla costernazione del
43
I PROFETI
sovrano, alcuni dottori della Legge risposero che, secondo la Scrittura, doveva nascere
a Betlemme. Indubbiamente, la profezia di Michea aveva chiari connotati messianici.
«Popolo mio che cosa ti ho fatto?» (6,1-8)
L’ira del Signore per il formalismo religioso d’Israele e l’apatia nei
suoi confronti è davvero grande. Allora chiama in giudizio il suo popolo e comincia
ad arringarlo con queste parole: «Popolo mio, che cosa ti ho fatto?». Enumera le
grandi imprese da lui compiute per liberarlo dalla schiavitù egiziana, i prodigi e le
vittorie per condurlo alla “terra promessa”, il suo perenne stargli accanto con amore
e l’indifferenza e il distacco attuale, sul quale cadono le tristissime e laceranti
parole: “Che cosa ti ho fatto per trattarmi così?”. Un popolo talmente dimentico
della santità e della grandezza del suo Dio da immolare “il primogenito per la colpa”
davanti a lui che aborre e rigetta ogni sacrificio umano. Sembra toccare con mano
l’abisso in cui era precipitato Israele. E il suo è un lamento accorato di un Padre
che assiste alle deviazioni dei figli degeneri.
Benché non sia oggetto di lettura liturgica, è utile ricordare il resto fedele di cui
parla il profeta. Quasi alla fine del libro, scrive: «Quale Dio è come te, che toglie
l'iniquità e perdona il peccato al resto della sua eredità? Egli non serba per sempre la
sua ira, ma si compiace di manifestare il suo amore» (7,18). Il «resto» è quella parte del
popolo che, superata ogni prova, continuerà a vivere servendo fedelmente il suo
Signore.
44
I PROFETI
Il vaticinio di Naum riguarda il declino, ormai imminente, dell’impero
assiro e la liberazione dei popoli oppressi. Assurbanipal, l’ultimo gran re d'Assiria
(identificato con Sardanapalo), regnò dal 668 al 629 a.C. Ereditò un vasto territorio che
si estendeva dall'Egitto settentrionale alla Persia. Alla sua morte (627 a.C.) ci fu una
rivolta di corte. Nel 626, un caldeo di nome Nabopòlassar si autoproclamò re di
Babilonia. Alleatosi ai Medi, combatté per distruggere la potenza assira. I Medi presero
la città d’Assur nel 614 a.C. e la capitale Ninive nel 612, con l'aiuto dei caldeo-
babilonesi. Gli Assiri, guidati dall'ultimo re Assur Uballit II (612-609 a.C.), si ritirarono
a Harran, a nordovest della capitale, dove subirono la sconfitta che segnò la fine
dell'impero.
La gioia per la caduta di Ninive fu di breve durata; sulla scena mediorientale era
apparso un altro colosso militare: l’impero caldeo-babilonese. Distruggerà il regno
di Giuda deportandone gli abitanti a Babilonia.
Contenuto e messaggio
Il vaticinio di Naùm è rivolto alla città di Ninive, capitale dell’impero assiro e
simbolo d’ogni potere dispotico, dell’orgoglio e dell’autosufficienza umana. Sarà
inutile ogni apparato difensivo, dal momento che Dio ha già decretato la sua
sconfitta. Naùm, quindi, esulta per l’intervento di Jahvé a rovina dell’Assiria e a
salvezza d’Israele. L’annuncio della distruzione di Ninive (2,4-3,19), è uno dei testi
più belli di tutta la letteratura biblica. La descrizione ha toni sarcastici e di
compiacimento per l’opera punitrice di Dio. Più che una profezia, sembra un testo
liturgico composto per cantare la caduta della città fortificata. L’evento è considerato
il giusto giudizio di Dio sul nemico più feroce d’Israele.
«Le parole severe del giudizio divino si accompagnano alle promesse di una sicura
salvezza. Il Signore, che regge il cosmo e la storia, si schiera dalla parte degli oppressi
e assicura loro la liberazione e la possibilità di ritornare ad essere in festa (2,1),
mentre sugli oppressori cala il silenzio della morte (3,18)» (Ravasi).
Sintesi di Naùm
1,1-11: Dio è pronto a vendicarsi degli avversari
1,12-2,2: Oracoli su Giuda e Ninive
2,3-3,19: Assedio e distruzione di Ninive
LETTURE
Oracolo su Giuda (2,1-3)
Esplode la gioia per la caduta di Ninive. Gli Ebrei tornano felici a celebrare le loro
feste e a vendemmiare le loro vigne un tempo devastate; il nemico «è del tutto
annientato». Forse ci si abbandona al sogno di restaurare il regno del nord e la sua
capitale Samaria, distrutta nel 721 a.C. Il versetto tre fa parte dell’attacco sferrato
dai Caldei a Ninive.
Oracolo su Ninive (3,1-7)
«Guai alla città sanguinaria piena di menzogne». Si rinfacciano a Ninive
i molti peccati che «faceva mercato dei popoli con le sue tresche». Merita la punizione
della donna adultera ed è costretta ad umiliarsi davanti a tutti. Lo spettacolo della
città maliarda dei popoli ed abile in politica è imbarazzante. Meglio allontanarsi.
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I PROFETI
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I PROFETI
vincere alla fine è sempre il bene.
La sola condizione della sopravvivenza del giusto nelle difficoltà della vita è la
fedeltà (in ebraico «emunah» o «fermezza» / «stabilità»). La frase «Il giusto sopravvive
per la sua fedeltà!» (2,4) sarà usata da Paolo come il fondamento della sua riflessione
teologica sulla fede e sulla grazia (Rm 1,17 Gal 3,11 vedi anche Ebrei 10,38).
L’«emunah» di Abacuc diventa così il principio stesso che stabilisce i credenti nella
verità e nella lealtà, mettendoli in una relazione d’amicizia con Dio.
Seguono cinque «Guai» contro il tiranno che opprime le nazioni egli sarà votato
alla rovina e i popoli ritroveranno la loro libertà (2,6-20). Lo scritto termina con un
salmo, forse più antico, in cui si esalta la manifestazione gloriosa e potente del Signore
che giudica e salva.
Sintesi di ABACUC
LETTURE
La fede salva (1,2-3; 2,2-4)
«Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore
dell’oppressione?». Ad opprimere Israele è l’impero caldeo. E allora: “Perché il
Signore tollera il trionfo dell’empio sugli Ebrei che, per quanto peccatori sono pur
sempre il suo popolo?”. Per tutta risposta Jahvé dichiara che è stato lui a suscitare
i Babilonesi, perché mettano a ferro e fuoco la sua eredità. Israele deve pagare la
sua infedeltà a Dio. In seguito dà una risposta più profonda del problema del male
che si scatena nel mondo, da incidere e da ricordare sempre. «Ecco, soccombe colui
che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede» o fedeltà. Ci sarà
un limite per i malvagi ed i violenti; mancando di rettitudine la loro iniquità sarà
punita dal Signore che li farà soccombere. La fedeltà del giusto, invece, sarà
premiata. San Paolo parte da questa frase per stabilire la dottrina della
giustificazione per mezzo della fede.
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I PROFETI
Giosia, appena entrato nella pienezza delle sue funzioni, iniziò la riforma religiosa
prendendo lo spunto dalla predicazione del profeta. Sofonia denunciava la situazione
d’idolatria in cui si trovava il popolo ebraico e il degrado religioso di Gerusalemme;
tra le altre liturgie pagane era molto diffusa quella astrale al dio Assur (1,5).
Sofonia, nel primo versetto del libro, si dichiara d’origine
etiopica, benché sia perfettamente integrato nella vita e
nelle consuetudini di Gerusalemme e schierato a difesa
dell’autentico jahvismo. Il testo è privo di vaticini
messianici; pertanto, l’influenza sul Nuovo Testamento è
solamente implicita.
Ambiente storico
Il libro di Sofonia ha per sfondo un’epoca
drammatica: è il tempo dell’espansione assira,
accompagnata da distruzioni e crudeltà. Gli Stati aramei,
situati tra l’Eufrate e il Mediterraneo, cadono uno dopo
l’altro; Damasco è conquistata nel 732. Al tempo del
profeta, la Giudea sottomessa all’Assiria da circa un
secolo, aveva consentito la pratica di culti idolatrici e la
penetrazione di divinità straniere con la conseguenza di
sincretismi religiosi. Giosia, quindi, aveva ereditato un regno bisognoso di profonde
riforme; e questo fu proprio l’obiettivo principale del suo programma politico.
Gli oracoli del profeta Sofonia sono perlopiù destinati alla classe dirigente: principi,
sacerdoti, consiglieri, grandi commercianti. Su queste categorie di persone grava la
maggiore responsabilità. Subiranno un giudizio severo nel «giorno del Signore», mentre
gli umili saranno salvati.
Contenuto e messaggio
Dio che vive «in mezzo» al suo popolo esige comportamenti conformi alla
legge dell’alleanza (1,2-11; 3,1-5). Il giorno del Signore, preannunciato dal profeta
(come già fecero Amos, Naum e Gioele), è il momento nel quale Jahvé farà giustizia
al suo popolo, fisserà il suo destino e lo salverà come al tempo dell’esodo.
Simultaneamente è il tempo del castigo che si abbatterà sulle nazioni straniere e
sullo stesso Israele per le colpe religiose e morali, ispirate dall’orgoglio e dalla
rivolta. Parte dei suoi abitanti, ossia gli «umili della terra» (3,9-13), che ricercano la
giustizia e osservano le leggi del Signore, formeranno un piccolo «resto», un popolo
umile e «povero» che vivrà in pace e sarà salvato.
Tuttavia tale giorno non appariva essenzialmente come fine del mondo e della
storia, ma come metamorfosi e rigenerazione del popolo di Dio, la fine di un’era di
peccato. E tutto sfociava nei canti di gioia del «resto» (c 3). Sofonia presenta gli
oracoli che gravitano intorno al giorno del Signore con una terminologia
drammatica che coinvolge tutto il creato: uomini, cielo e terra.
«Giudizio e salvezza, terrore e felicità si accostano in questo libretto che rivela la
ripresa di temi già noti (il «giorno di Jahvé» e i «poveri» del Signore), ma anche
l'inserzione d’elementi posteriori d’epoca post-esilica, come quello sulla conversione
delle «isole» (2,11), cioè dei popoli lontani, sulla scia del Secondo Isaia. Un libretto che
mostra, quindi, come la parola di Dio veniva conservata e applicata a nuovi contesti e
prospettive, per offrire a tutti il dono della salvezza» (Ravasi).
Sintesi di Sofonia
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I PROFETI
LETTURE
Il resto d’Israele (2,3; 3,12-13)
«Cercate il Signore voi tutti, poveri della terra; forse potrete trovarvi
al riparo nel giorno dell’ira del Signore». Il profeta esorta Israele a prevenire il “giorno
nel Signore” per evitarne il castigo. Sa che l’invito sarà raccolto dagli «umili della
terra», quelli che la Bibbia chiama anawîm, vale a dire poveri e oppressi che
ripongono in Dio ogni fiducia e sono circondati di speciale benevolenza da parte di
Jahvé. Si distinguono per l’osservanza di quanto è scritto nei versetti indicati dal
capitolo terzo e appartengono a quel «resto» d’Israele: «Non commetteranno più
iniquità e non proferiranno menzogna».
Salmo di gioia per il futuro di Sion (3,14-20)
Sono due brevi inni in forma salmodica, forse aggiunti a conclusione di
tutta la collezione. Nel primo si esalta la presenza del Dio forte che, revocata la
condanna dell’esilio, torna a riconciliarsi con il suo popolo e a salvarlo. Vi è l’eco
lontana del cantico di Zaccaria che predice la missione del figlio Giovanni Battista.
Nel secondo, Jahvé assume l’immagine umanissima del pastore che raduna e guida i
dispersi, liberati dalla schiavitù, verso la patria dei loro sogni e delle loro speranze,
per un futuro di pace e di benessere.
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I PROFETI
s’impegneranno a riedificare il tempio e la terra tornerà ad essere feconda e
favorevole. L’ammonimento fu raccolto e sorretto dal governatore Zorobabele e dal
sommo sacerdote Giosuè, tanto che dopo un mese si riprese a lavorare con lena. I
messaggi di sprone e d’incoraggiamento del profeta risuonarono per lo spazio di
circa quattro mesi (fine agosto-metà dicembre). Poi tacque; le sue parole raccolte in
questo breve scritto non d’alto livello letterario, sono cariche del dramma vissuto dai
rimpatriati. Per gli Ebrei, la ricostruzione del tempio di Gerusalemme e il ripristino
dei rituali aveva un gran valore religioso; senza di essi si perdevano le antiche
credenze e le pratiche cultuali. Non abbiamo altri elementi per offrire un profilo del
profeta.
Ambiente storico
Di questo periodo piuttosto difficile, Aggeo e Zaccaria sono gli unici a
sollevarne il velo. La testimonianza d’Aggeo è riportata anche nel libro d’Esdra
(6,14). Esercitò il suo ministero durante il secondo anno di regno dell’imperatore Dario
(522-486), ossia dall’agosto al dicembre del 520 a.C.
Erano passati 18 anni dal ritorno degli Ebrei a Gerusalemme; i lavori di ripristino
del tempio erano stati interrotti a causa della stanchezza, del malessere e delle cattive
annate. In pochi mesi di continue esortazioni Aggeo riuscì a rianimare il popolo
avvilito. La riedificazione del santuario assunse un’importanza capitale per il
presente e il futuro d’Israele. Quel tempio, ancorché meno splendido di quello di
Salomone, avrebbe avuto una gloria maggiore (2,7) e tutti vi dovevano contribuire.
Bastarono cinque anni d’intenso lavoro per ricostruire e inaugurare il tempio (515
a.C.).
Contenuto e messaggio
Il messaggio profetico d’Aggeo cerca di interpretare i segni dei tempi: la
povertà, i cattivi raccolti e le calamità sono la punizione dell’avvilimento e della
mancanza di fede in Jahvé. Bisognava rimettersi a lavorare per ottenere il favore del
Signore, mentre dal tempio si sarebbe percepito l’odore dell’incenso mescolato a
quello dei sacrifici. La salvezza era addirittura a portata di mano per il profeta: in
Zorobabele, di stirpe davidica, si potevano avverare le speranze messianiche.
Sintesi di Aggeo
LETTURE
Appello alla ricostruzione del tempio (1,1-11)
Nell’agosto del 520 il tempio, sede del Dio d’Israele, non era stato
ricostruito. Aggeo rivolse un invito pressante ai suoi concittadini: bisognava superare
egoismi e stanchezze e riprendere il lavoro. Ciò facendo avrebbero allontanato le
calamità, scongiurato la scarsità dei raccolti e sarebbero usciti dalla povertà e dalla
sfiducia. L’appello fu accolto dai capi e dal popolo; Jahvé riprese a benedirli e il
benessere agricolo tornò a rallegrare i rimpatriati. Dopo cinque anni il tempio era già
ricostruito.
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I PROFETI
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I PROFETI
greca. La fede ne risentiva il contraccolpo. In tale situazione il profeta, ispirato da
Jahvé, tratteggiò la venuta di un pastore rifiutato e di un trafitto pianto dal popolo.
Presentò altresì un Messia davidico umile, che annunciava la pace a tutti i popoli
della terra.
Contenuto e messaggio
Il libro di Zaccaria raccoglie testi scritti in epoche diverse e ben
distinguibili per stile, contenuto dottrinale e temi. Il primo libro coincide con i primi
otto capitoli, che riguardano il periodo immediatamente successivo al rimpatrio da
Babilonia. È una raccolta di discorsi pronunciati dal Primo Zaccaria a Gerusalemme
tra il 520 e il 518 a.C. Il testo è redatto con uno stile abbastanza scialbo e parla
spesso del tempio.
Al Secondo Zaccaria si assegnano i capitoli 9-14. È un insieme composito, redatto
da un autore sconosciuto molto posteriore al Primo. Gli studiosi suddividono questa
seconda parte in due sezioni: la prima (9-11), l’attribuiscono al Secondo Zaccaria, la
seconda (12-14), al Terzo Zaccaria. Lo stile è poetico e semplice. Non si parla della
ricostruzione del tempio. Il messaggio è centrato sul tema della salvezza messianica
per rianimare la speranza del popolo giudaico. Il Messia è presentato come re umile e
pacifico appartenente al casato di Davide (9,9s); come un buon pastore rifiutato
(11,4-14) e un essere misterioso «trafitto» (12,10s). Il Vangelo secondo Matteo (21,5-
8) nel descrivere l’ingresso di Gesù in Gerusalemme, cita il primo testo; gli altri
evangelisti ricorrono spesso a questi oracoli.
Sintesi di Zaccaria
LETTURE
Il Messia (9,9-10)
«Esulta grandemente, figlia di Sion. Ecco, a te viene il tuo re. Cavalca un
asino». Nel descrivere l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, Matteo (21,4-7)
vede in queste parole l’avveramento della profezia di Zaccaria, che manifestava il
carattere umile e pacifico del regno che Gesù veniva ad instaurare. «Il suo dominio
sarà da mare a mare e dal Fiume fino ai confini della terra». In senso geografico
s’intende la ricomposizione d’Israele con la reintegrazione del regno del Nord. Più in
profondità si afferma la supremazia universale di Dio, portatrice di pace e di
salvezza a tutte le genti, di cui la Pentecoste sarebbe stata immagine eloquente.
Trenta sicli d’argento (11,12-13)
«Pesarono trenta sicli d’argento come mia paga. Ma il Signore mi
disse: “Porta al fonditore questa grandiosa somma». Il profeta, sotto l’allegoria del
pastore, si mette al servizio del popolo d’Israele che gli si rivolta contro. «Per
segnalare la sua dissociazione con il gregge ribelle, il pastore spezza il bastone detto
“benevolenza”: si rompe, così, l’alleanza tra pastore e gregge. I mercanti, che prima
sfruttavano il gregge, cioè i falsi pastori, versano al profeta incaricato di guidare il
gregge ribelle un indennizzo di trenta sicli d’argento, il prezzo di uno schiavo (Es
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I PROFETI
21,32)» (Ravasi). Una somma ironica nei confronti del profeta pastore. Questa
profezia è riportata dall’evangelista Matteo e applicata a Giuda Iscariota il quale,
prima vendé il suo Maestro per trenta monete d’argento (26,14s); poi le restituì ai
sommi sacerdoti gettandole nel tempio (27,3-10).
Lamento su colui che hanno trafitto (12,10-11)
«Guarderanno a colui che hanno trafitto. Lo piangeranno come si piange
il primogenito». È presentato qui un personaggio misterioso e trafitto, davanti al
quale il popolo pentito si abbandona ad un lutto sincero e profondo. In lui, Giovanni
evangelista vede il Cristo crocifisso (19,37), trapassato con un colpo di lancia al
costato.
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I PROFETI
disapprovò quelli che ripudiavano le proprie mogli per sposare donne straniere. Tali
prevaricazioni provocavano l’ira divina, la scarsità di raccolti e l’invasione delle
cavallette. Infine, perché ogni trasgressione fosse esemplarmente punita, il profeta
annunciò il “giorno del Signore” per la condanna degli empi e il trionfo per i
giusti, un «giorno» preceduto da un misterioso personaggio.
L’ebraismo vive ancora oggi sui valori religiosi ed etici evidenziati da Malachia.
Contenuto e messaggio
Malachia prende di mira le colpe cultuali dei sacerdoti e
dei fedeli (1,6-2,9 e 3,6-12) e lo scandalo dei matrimoni misti e dei divorzi (2,10-16).
Su tutto incombe il «giorno di Jahvé» che purificherà i membri del sacerdozio,
divorerà i cattivi e assicurerà il trionfo dei giusti (3,1-5.13-21). La venuta del Messia
o “angelo dell’alleanza”, sarà preparata da un inviato speciale (3,1), detto poi Elia
(3,23). In Matteo (11,10 e 17,10-13), Gesù identifica Elia con Giovanni Battista. Si
accenna, inoltre, ad un’oblazione pura, gradita a Dio, che sarà offerta in ogni luogo
della terra (1,11); il brano è interpretato dai i cristiani in senso eucaristico.
Malachia è citato ben dodici volte nel Nuovo Testamento.
«Questo libro, che talvolta può apparire molto duro, ci ammonisce che prima
della venuta del «giorno grande e terribile», cristiani ed ebrei, entrambi eredi del
medesimo messaggio, dovranno affrontare ancora numerose opposizioni tanto
all’interno che all’esterno» (TOB).
Sintesi di Malachia
LETTURE
Accuse contro i cattivi sacerdoti (1,14b-2,2b.8-10)
L’Onnipotente lancia contro i sacerdoti una terribile minaccia:
«Manderò su di voi la maledizione e cambierò in maledizione le vostre benedizioni» , a
causa della vostra malvagità e degli insegnamenti fallaci che pervertono i semplici.
Compito del sacerdote è custodire la parola di Dio e annunciare con sapienza la sua
verità; se queste caratteristiche vengono a mancare è inutile la loro opera e perfino
la loro presenza.
Il «giorno del Signore» (3,1-4.13-20a)
«Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e
subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza che voi
sospirate, eccolo venire». Jahvé interverrà nella storia per liberare il suo popolo. La
sua venuta sarà preparata da un messaggero ed egli lo seguirà all’istante. A
quest’inviato, il profeta dà i connotati d’Elia (3,23), mentre Gesù nel vangelo lo
identifica con Giovanni Battista (Mt 11,10). Nella Bibbia, “l’angelo dell’alleanza”
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I PROFETI
indica, «in genere, Dio stesso fatto agire attraverso un intermediario» (Ravasi); la
tradizione è concorde nel riconoscervi il Messia promesso.
«Avete affermato: “È inutile servire Dio: che vantaggio abbiamo ricevuto nell’avere
osservato i suoi comandamenti?». Gli Ebrei contestano l’agire divino, giacché
sembrava favorire i malvagi lasciando impunite le loro colpe e rendendoli floridi e
ricchi, mentre chi osservava la Legge non ne riceveva beneficio, anzi era sottoposto
ai soprusi dei violenti. La tentazione di imitare la loro condotta era forte. A breve
termine, risponde il Signore, può sembrare che gli empi siano destinati a trionfare,
ma non è così. Ogni azione, buona o cattiva, è scritta nel libro della vita e nel
“giorno del Signore” «vedrete la differenza tra il giusto e il malvagio». Quel «giorno»
sarà «rovente come un forno» e incendierà superbi e disonesti da non lasciarne «né
radice né germoglio». Sui giusti, invece, cioè «per voi, che avete timore del mio nome,
sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia». Il titolo “sole di giustizia” è stato
applicato a Cristo e ha dato origine alle feste liturgiche del Natale e dell’Epifania.
Il ritorno d’Elia (3,22-24)
«Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e
terribile del Signore». Secondo la tradizione, Elia non era morto ma rapito al cielo
(2Re 2,11) (di solito eufemismo per parlare del decesso) e si credeva in un suo
ritorno; anche il testo citato, avvalorava quest’attesa. Gli stessi discepoli chiesero a
Gesù: «Perché dunque gli scribi dicono che prima deve venire Elia?». Il Maestro
rispose che Elia era già venuto nella persona di Giovanni Battista (Mc 9,11-13; Mt
17,13).
BIBLIOGRAFIA
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I PROFETI
INDICE
Premessa: Il profeta e i suoi messaggi 1
Profeti scrittori e attualità 2
Ciclo di Elia ed Eliseo 3
I profeti maggiori 4
1.1. “Primo Isaia” (cc 1-39): l’«Emmanuele»
Personaggio, ambiente storico, messaggio 5
Letture 7
1.2. “Secondo Isaia” (cc 40-55): «Il Servo di Jahvé»
Ambiente storico, autore, messaggio 10
Letture 11
1.3. “Terzo Isaia” (cc 56-66): la salvezza è per tutti
Ambiente, autore, messaggio 14
Letture 15
2. Geremia: «Nuova alleanza»
Personaggio, ambiente storico, messaggio 17
Letture 20
3. Libro delle Lamentazioni 22
4. Libro di Baruc: liturgia penitenziale
Autore, ambiente storico, messaggio 23
5. Ezechiele: responsabilità personale
Personaggio, ambiente storico, messaggio 25
Letture 27
6. Libro di Daniele
Autore, contenuto, ambiente storico, messaggio 30
Letture 31
56
I PROFETI
12. Michea: da Betlemme il Messia
Personaggio, contenuto, ambiente storico 42
Letture
13. Naùm: caduta di Ninive
Personaggio, ambiente storico, messaggio 44
14. Abacuc: è la fede che salva
Personaggio, ambiente storico, messaggio 45
Letture 46
15. Sofonia: «Giorno del Signore»
Personaggio, ambiente storico, messaggio 47
Letture 48
16. Aggeo: ricostruzione del tempio
Personaggio, ambiene storico, messaggio 49
17. Zaccaria: Messia umile e mansueto
Personaggio, ambiente storico e messaggio 50
B. Secondo Zaccaria e Letture 51
18. Malachia: contro l’avarizia
Personaggio, ambiente storico e messaggio 52
Letture 53
Bibliografia e Indice 54
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