Angioni - A Fogu Aintru

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GIULIO ANGIONI
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A fogu aintru
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A fuoco dentro
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Scrittori di Sardegna
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Giulio Angioni

A FOGU AINTRU
A FUOCO DENTRO

nota introduttiva di Franco Manai

Stampa: Lito Terrazzi, Firenze

© Copyright 2008
Ilisso Edizioni - Nuoro
www.ilisso.it - e-mail [email protected]
ISBN 978-88-6202-023-7
NOTA INTRODUTTIVA

A trent’anni dalla sua prima pubblicazione A fuoco den-


tro – A fogu aintru è ormai un classico della letteratura regio-
nale sarda non solo perché, come voleva Italo Calvino, non ha
mai finito di dire quel che ha da dire, ma anche per l’alto pro-
filo che la figura del suo autore ha via via acquistato nel corso
di questi anni nel mondo letterario e culturale.
Questo volumetto, uscito per i tipi della Edes di Cagliari,
casa editrice specializzata soprattutto in saggistica antropologica
e a diffusione prettamente regionale, raccoglieva dei testi già
pubblicati in rivista tra il 1975 e il 1976 e proponeva a un
pubblico più ampio alcuni altri testi letterari di un autore già
noto agli specialisti per i suoi saggi legati all’attività di docente
di antropologia culturale all’Università di Cagliari. Angioni
ha costantemente affiancato alle sue copiose pubblicazioni di
carattere scientifico quelle altrettanto numerose di segno lettera-
rio, mantenendo beninteso ben distinti i due ambiti di scrittu-
ra. È stato un modo di partecipare con le parole e con i fatti al
dibattito internazionale (si pensi a Clifford Geertz e a James
Clifford) sulla natura della scrittura etnografica, cioè su come
parlare di modi di vita diversi. Tenendo separati i campi, An-
gioni non riduce (o promuove) il rapporto etnografico a puro
racconto, creazione retorica dell’etnografo, ma dimostra la sua
fiducia nel grande e comunque maggiore potenziale comunica-
tivo della letteratura rispetto all’etnografia. Tutta l’opera di An-
gioni gravita tematicamente sulla Sardegna, o meglio sul cam-
biamento epocale e vertiginoso che vi ha avuto luogo a partire
dagli anni Cinquanta del Novecento e che in parte continua
ancora oggi. Ma il continente Sardegna è sempre per Angioni
la base e lo spunto per un discorso ben più ampio, che inserisce
le tematiche propriamente sarde all’interno di un contesto na-
zionale e soprannazionale.

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Come la successiva raccolta Sardonica (Edes, 1983), A fuo- volumetto che contiene venti brevi “quadri”. Tale definizione
co dentro – A fogu aintru è intimamente legato alla temperie per i singoli pezzi della raccolta è dello stesso Angioni, che evi-
culturale degli anni Settanta, e vi sono infatti evidenti i segni di dentemente avverte come problematici i termini racconto o no-
quello che allora si chiamava lavoro intellettuale impegnato. vella. Se molti dei pezzi di A fuoco dentro – A fogu aintru po-
Non solo i temi trattati sono quelli tipici di una letteratura che trebbero tranquillamente essere considerati alla stregua di classici
vuole analizzare la realtà per trovare il modo di cambiarla (con- racconti, molti altri sfuggono decisamente a questa definizione e
dizioni di vita delle classi subalterne, dialettica città-campagna, d’altra parte non è possibile neanche farli rientrare nell’altra fat-
problematiche dell’emigrazione), ma soprattutto il modo in cui tispecie tradizionale del bozzetto. Alla maniera dell’Acitrezza di
questi temi sono trattati e in specie il linguaggio usato sono carat- Verga o della Mineo-Rabbato di Capuana, Angioni sceglie di
teristici di una letteratura che rifiuta l’ortus conclusus degli ad- rappresentare la vita sociale, durante il trentennio successivo alla
detti ai lavori e si pone come terreno di confronto per un pubbli- fine della seconda guerra mondiale, di un immaginario paese
co potenzialmente vasto di lettori. In coraggiosa controtendenza contadino della Sardegna meridionale, cui dà il nome di Nu-
Angioni ritiene importante pagare un doveroso tributo ai model- raddei. Immaginario ma realissimo, improntato com’è sul paese
li del verismo e del neorealismo, entrambi ormai lontani e fuori natale dello stesso Angioni, Guasila. A questo mondo Angioni
moda. Il suo particolare problema, tuttavia, consiste nel trovare intende rimanere fedele e non caricarlo di elementi allotri, senza
il modo di dare voce a un mondo in fase di trapasso, in cui lui però offrirne un’immagine stereotipa e sterilizzata, appunto boz-
stesso e la sua storia personale erano strettamente implicati. C’era zettistica. Così inserisce tra i vari racconti di tipo tradizionale
il rischio di dare di questo mondo, contadino e pastorale, una dei “quadri” che fungono da raccordo non tanto o non solo tra
rappresentazione viziata dalla lunga e pervicace tradizione lette- un racconto e l’altro, ma soprattutto tra il mondo narrativo del-
raria del bozzettismo e dell’idillio agreste. È anche vero che il pa- la raccolta nel suo complesso e la realtà sociale e politica di chi
norama letterario italiano offriva validi esempi di rappresenta- narra e di chi legge. In questi quadri cerniera (4 “Chi ha visto il
zioni per niente idilliache del mondo subalterno, dal calabrese mondo”, 7 “Il reddito”, 8 “L’ultimo carrettiere”, 9 “Città e cam-
Saverio Strati di Noi lazzaroni del 1972, ai sardi Salvatore pagna”, 10 “Voltaire e il gendarme”, 13 “Trent’anni dopo”, 18
Mannuzzu di Un Dodge a fari spenti del 1962 e Gavino Led- “A fuoco dentro”, 19 “Zicchirìa”, 20 “Controtempo”) viene nar-
da di Padre padrone del 1975. Angioni può essere accostato a rativizzato, in diversi modi e a diversi livelli, il tema della figu-
tali scrittori per la volontà di descrizione antropologica di una ra dell’intellettuale e del suo problematico ruolo nella società. Al-
realtà sociale in via di estinzione, tuttavia non ne condivide le lo stesso tempo vi è introdotta la figura del narratore, che quindi
soluzioni narrative, a cominciare dalla scelta dei personaggi nar- presenta se stesso come qualcuno che per un verso fa parte di
ratori, ovviamente determinante rispetto al linguaggio e alla quel mondo rustico e contadino, subalterno e superato, per un
prospettiva del testo. altro partecipa a tutti gli effetti della cultura urbana dal cui
Il carattere distintivo della scrittura di Angioni è l’ironia che punto di vista quel mondo è superato. In questo modo Angioni
investe e coinvolge tutto e tutti, autore e lettore compresi. Anche evita il pericolo di presentare la sua narrazione come una descri-
autoironia dunque e, beninteso, senza compiacimenti. Un mo- zione oggettiva, impossibile per definizione, senza con ciò rica-
dello forte di ironia è sicuramente costituito da Emilio Lussu, e dere in un autobiografismo solipsistico, del tutto e solamente in-
Angioni dichiara il suo debito con uno dei maggiori scrittori terno alla cultura dominante.
sardi già nel titolo della raccolta, il cui significato viene spiegato È significativo che nel titolo della raccolta, A fuoco dentro
con il racconto eponimo A fuoco dentro, collocato, con elegante venga immediatamente glossato col suo originale sardo A fogu
understatement, in posizione debole, al diciottesimo posto del aintru e che poi il tutto sia nuovamente “glossato” da un racconto

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in cui italiano e sardo sono amalgamati in una forma partico- consapevolezza, senza cioè che venga formulata una condanna
lare di italiano. Tutta la raccolta, con una notevole eccezione, è davvero esplicita contro chi quella violenza ha esercitato. Scrive-
scritta in questo linguaggio ricchissimo di calchi di luoghi co- re in sardo significava per Angioni additare anche un’altra pos-
muni, di espressioni idiomatiche, di regionalismi a tutti i livelli, sibilità di soluzione alla questione della lingua in Sardegna,
dalla sintassi, al lessico alla morfologia. Numerosi sono anche presto diventata questione di identità. “Arrichetteddu” è la pri-
gli inserti di espressioni o intere frasi in dialetto basso-campida- ma novella a essere pubblicata in sardo, fino a allora linguaggio
nese. Lo stile è piano, il periodare scorrevole, la lingua non ri- letterario riservato ai poeti. Incoraggiata dall’istituzione nel
chiama con prepotenza l’attenzione su se stessa, anche quando 1979 del premio letterario Casteddu de sa fae a essa riservato,
mescola nel suo impasto moduli dell’italiano regionale o addi- la narrativa sarda è poi fiorita e ha dato notevoli frutti, a co-
rittura del dialetto. Non si vuole con questo dire che si tratti di minciare dal primo romanzo di Lorenzo Puxeddu, S’arvore de
una scrittura banale e corriva. Al contrario, siamo in presenza sos tzinesos (1982) e poi con Sos sinnos (postumo, 1983) di
di una scrittura estremamente sorvegliata, che raggiunge altis- Michelangelo Pira, Mannigos de memoria (1984) e A tem-
simi livelli di perspicuità senza per questo cedere in complessità pos de Lussurzu (1985) di Antonio Cossu, Pro cantu Bidda-
e suggestione. noa di Benvenuto Lobina (1987) e tanti altri. Non ci si può
L’eccezione linguistica cui si è fatto cenno è data dal raccon- non rammaricare del fatto che Angioni non abbia voluto prose-
to “Arrichetteddu”, l’unico scritto interamente in sardo (campi- guire egli stesso, certo accanto a quella che solum è sua dell’ita-
danese), peculiare anche per la stretta aderenza alla struttura liano letterario regionalizzato, quella strada sarda che aveva
classica della novella, in cui ogni elemento, accuratamente scel- tanto magistralmente indicato con la sua novella. Si può sempre
to, è finalizzato al raggiungimento di un obiettivo rivelato dal- sperare che lo faccia in futuro.
la pointe finale. L’uso del sardo contribuisce a rafforzare la pe- Nel gioco a incastri che presiede alla composizione della rac-
culiarità della focalizzazione interna della voce narrativa. Chi colta, tra sardo e italiano, tra narrare spiegato e “quadri” che
parla è uno qualunque del paese e il modo in cui racconta la contaminano scrittura documentaria e finzione, impegno politi-
vicenda è quello in cui è verosimile ci si aspetti che la comu- co e ripiegamento esistenziale, Angioni mette anche se stesso in
nità l’abbia vista. È un discorrere piano, chiaro, che fa un lar- gioco, come scrittore e come intellettuale che inevitabilmente fa-
go uso di frasi brevi e di espressioni colloquiali ma non rifugge tica a svolgere il proprio ruolo, fatica cioè a individuare con
all’occorrenza da un periodare un po’ più ampio in cui è co- chiarezza le linee di sviluppo della società all’interno della quale
munque privilegiata la paratassi. Man mano che ci si avvicina egli sarebbe chiamato a svolgere opera di mediazione culturale.
alla tragica conclusione, questo periodare si fa più secco e mar- Come l’io poetico plurale di Montale, egli forse non sa ciò che è,
tellante, fino al climax dell’ultimo, asciuttissimo, drammatico ciò che vuole, ma di certo sa che, nonostante ogni fascinazione,
capoverso, in cui sembra risuonare l’ellittico finale del Werther il concentrare l’attenzione su particolari staccati del passato e del
goethiano: presente, sui frammenti di una squallida modernità o sui relitti
sparsi di un’infanzia irrevocabilmente trascorsa, comporta l’im-
S’est cumprendiu ca Arrichetteddu est abarrau cassau ain- possibilità di cogliere, insieme ai pericoli, le opportunità offerte
tru [il locale della motocicletta]. In foras hant agattau
unu bratzu suu cun sa maniga de fustainu. De cussa arro- da un contesto nuovo e in continua evoluzione. L’elegia arcadica
ba dd’had connotu sa mamma. e il pianto funebre sono le strade alle quali l’autore di A fogu
aintru caparbiamente si rifiuta.
Contro Arrichetteddu è stata esercitata una violenza spaven-
tosa, che però è raccontata, perché così viene vista, quasi senza Franco Manai

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RICERCA SUL CAMPO

La vecchia lo guardava fissa e curiosa, come si divertis-


se di lui e delle sue domande. Accoccolata per terra placida
e comoda, una mano su un sasso piatto e l’altra su un gi-
nocchio, le gonne tutt’attorno sulla polvere, stava badando
a un tubo lungo di plastica gialla che partiva dal rubinetto
della fontana pubblica e oltre un muretto scompariva a in-
naffiare verdure invisibili, dopo una ventina di metri di
serpentine nella polvere.
Anche lei accennò a Sidoru Friarosu. Era già la terza
persona del paese che gli indicava ziu Sidoru Friarosu co-
me il più capace di informarlo su come andavano le cose,
prima, per la festa annuale di Sant’Isidoro. Non quello di
Siviglia, ma anch’egli spagnolo, patrono dei contadini in
Sardegna come in Spagna.
Prima, in tutti i nostri paesi per questa festa si faceva
la benedizione e la processione degli animali da lavoro,
ornati di collane ricamate, gutturadas, fiori, limoni e aran-
ce piantate in punta delle corna dei buoi, specchietti sulla
fronte, briglie multicolori, puliti e strigliati dalla coda agli
zoccoli, alle corna.
Decise di andare a trovare questo ziu Sidoru Friarosu,
vicino alla chiesa, a fianco dell’officina meccanica dove sta
ancora scritto fabro con una sola bi.

Si trovò di fronte un portoncino a steccato, una gecca


a costallas, che lo separava da un cortile acciottolato, con
molte gibbosità e lordo di immondizie. Alcune galline vi
razzolavano e in un angolo grugniva un maialino che lo
guardò diffidente quando cercò di farsi sentire da qualcu-
no di casa, sul lato opposto in fondo al cortile.

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Finalmente un femminile «e chi è sa genti?». Entrò e si Improvvisamente tacque e svelta abbandonò la scopa
avvicinò verso l’uscio scolorito e rugoso della lolla tutta in un angolo, senza dirgli nulla entrò in una delle tre stan-
chiusa. Aspettò finché apparve una vecchietta con una ze che davano nella lolla.
scopa di saggina in mano. Lo guardò anche lei placida- Riapparve poco dopo e lo invitò a seguirla, a entrare
mente fissa, quando salutò, poi lo invitò a entrare, borbot- con lei di là. Le tenne dietro, e si trovò subito in una stan-
tando qualcosa su un certo dottorino nuovo. za buia, senza finestre.
Lo invitò a sedere su uno scranno e lei continuò a
scopare lenta. In un modo strano: raccolta un poco d’im- A poco a poco distinse con sufficiente chiarezza un let-
mondizia, la spingeva con piccoli tocchi rapidi dentro gli to con spalliere alte, di quelli che un tempo avevano la cor-
interstizi tra le lastre di pietra che formavano il pavimento tina, un comò con uno specchio e una sedia vicino al letto.
della lolla. Ogni tanto lo guardava attenta. La donna si avvicinò al capezzale e vi sistemò la sedia, che
Si rese conto, imbarazzato, che lei stava aspettando che pulì con due colpi del grembiule.
dicesse il motivo della visita. Voleva parlare con ziu Sido- Ubbidì impacciato al suo invito a sedersi e si trovò di
ru, se era in casa, per sapere da lui ogni cosa sulla festa che fronte un vecchio pallido, faccia di lucertola, con una
si faceva prima per Sant’Isidoro. chioma bianca scarmigliata, un fazzolettone a pallini rossi
Suo marito stava a letto ammalato, gli disse conti- intorno al collo, riverso su due cuscini grigiastri.
nuando a scopare. Uscì e tornò subito dopo con un catino Il malato lo guardava in tralice. Gli domandò se era il
slabbrato da cui versò spruzzi d’acqua sul pavimento, per figlio di un tale, uno del paese. No, era forestiero, di un
non sollevare polvere scopando. Al marito era venuto un paese vicino, venuto per vedere come stava. E se stava me-
colpo, una gutta, quattro giorni prima. glio, come gli sembrava, era lì per sapere da lui qualcosa
Allora era meglio che se ne andasse, per non disturba- sulla festa di Sant’Isidoro.
re. Ma lei non era disposta a lasciarlo andare, quando an- Si fece ripetere il motivo della visita. Lo guardò con at-
cora non era nemmeno entrato in casa sua. tenzione, fisso, e poi senza badare più a lui si diede a bor-
Incolpò del suo imbarazzo quei paesani che gli aveva- bottare a lungo cose incomprensibili, con gesti lenti e am-
no indicato ziu Sidoru come informatore. Certamente sa- pi della destra, come a indicare vaghe lontananze.
pevano della malattia del vecchio, e lo avevano ugualmen- Il borbottio del vecchio si bloccò di colpo, quando la
te mandato in quella casa a parlare di feste. moglie intervenne per dire qualcosa. Divenne brusco: che
Ma la vecchia scopava sempre pacifica e lenta. c’entrava lei?
Certo che suo marito sapeva tutto della festa di Sant’Isi-
doro, diceva con orgoglio. Perché lui è stato priore di Ormai nella penombra ci vedeva bene. Sul volto di ziu
Sant’Isidoro per una ventina di volte e obriere per più di Sidoru scorse una lacrima che ogni tanto si detergeva col
cinquant’anni. E quando lui era priore la festa era sem- dorso della mano.
pre più bella delle altre volte: con spari di mine all’eleva- Improvvisamente, con voce altissima che lo fece sussul-
zione della messa grande, con sermone del miglior frate tare, il malato gridò un «Peppinedda!». La moglie, ancora lì
del convento di Sanluri, e fuochi artificiali la sera nell’or- a trafficare col letto e coi cuscini, chiese rude e breve che co-
to grande del parroco, senza contare banchetti e rinfre- sa volesse. Che andasse finalmente a prendere un po’ di mo-
schi per i membri del comitato organizzatore. scato da offrire all’ospite, che diavolo, non le sembrava ora?

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La vecchia uscì sempre calma e lui ricominciò il bor- e variopinto. Avevano attaccate le campanelle dei buoi e
bottio di prima. Lo studente ritornò nel suo imbarazzo. tante palline gialle, rosse e verdi. All’estremità pendevano
Di quel farfugliare non capiva né i suoni né il senso. fettucce verdi per legare le collane alle cervici dei buoi. Lo
La povertà della casa lo feriva. studente le prese sulle ginocchia e le osservò. Odoravano
Notò come le mattonelle del pavimento, in quella di basilico secco.
stanza buona, traballassero tintinnando sotto i passi della Ziu Sidoru gli spiegava con tutti i particolari che ser-
vecchia che rientrava con una bottiglia e un solo bicchiere vivano per ornare i buoi per la benedizione e la processio-
di vetro. Glielo mise in mano e lo riempì fino all’orlo. ne: davanti al santo i cavalli, dietro i buoi, il prete in mez-
Assaggiò il moscato. Avvertì l’attenzione compiaciuta zo con la confraternita del rosario.
del vecchio che lo guardava bere e lodò con entusiasmo,
benché il moscato fosse piuttosto asprigno. Ambedue lo Il vecchio malato appariva sempre più stanco, ma non
sollecitarono a bere ancora e la donna gli riempì il bicchie- lo lasciava andare. Voleva raccontare tutto, a volte con
re appena vuotato, con determinazione quasi minacciosa: grande fatica, a volte con una rudezza che non capiva.
poteva fidarsi del loro vino, fatto in casa dal vecchio, senza Tutto, anche i bisticci coi vari parroci su come organizza-
medicine. re la festa.
Ed ecco che scoppia in singhiozzi, gli afferra una ma-
Ziu Sidoru incominciò a parlare con chiarezza. Che co- no, la tiene stretta a lungo e continua a raccontare, chia-
sa voleva sapere di preciso? Molte erano le cose che si face- mandolo figlio, di quando ai suoi tempi era meglio ed era
vano per Sant’Isidoro. Lo studente incominciò con le do- peggio, era peggio ed era meglio: come un ritornello.
mande previste dal questionario datogli dall’assistente del D’un tratto cacciò un altro dei suoi urli, ma stavolta
professore con cui aveva la tesi di laurea sulle feste tradizio- più irato, chiamando sua moglie che rientrò immediata-
nali della nostra zona, su quelle religiose e su quelle profane. mente, questa volta preoccupata.
Man mano che si intrattenevano, la confidenza di ziu Le ordinò di porgergli subito i pantaloni perché vole-
Sidoru aumentava. Rinunciò a fare mostra ogni tanto di va alzarsi. Lei cercava di dissuaderlo: ma perché mai vo-
volersene andare, perché ogni volta che lo faceva il vecchio leva alzarsi, in quello stato? Lo sapeva ben lui perché, ri-
si eccitava e annaspava con le braccia per tenerlo sulla se- peteva scontroso. Bisticciavano, e ziu Sidoru cercava di
dia. Lo interrogò a lungo e lui rispondeva, spesso divagan- farlo intervenire a suo favore, contro la donna testarda.
do sui tempi della sua gioventù, sul lavoro duro dei campi Ma infine capirono. Voleva andare ad accudire ai buoi
e sui viaggi nel Sarcidano per comprare i gioghi di buoi. che a quell’ora dovevano abbeverarsi, dopo aver mangiato
Ancora del tutto inaspettato il vecchio cacciò un altro paglia e fave tritate.
urlo, chiamando la moglie che non era più nella stanza. Lo tenevano a forza in letto, mentre lui implorava e
Ricomparve subito, calma, aspettando i desideri del mari- imprecava e minacciava la moglie. Finché ricadde di
to. Che portasse subito lì le gutturadas che teneva conser- schianto sui cuscini.
vate nella cassapanca di là. Perché doveva vederle il giova- Da quindici anni ziu Sidoru non aveva più buoi.
notto studente.
Udì avvicinarsi un tintinnìo di campanelle e la vecchia Mentre la moglie era via per un momento, ziu Sidoru
rientrò nella stanza con due collane ricamate in modo fitto si riscosse, gli fece capire di avvicinarsi di più a lui e gli

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domandò come in segreto perché mai, secondo lui, essen- La vicina che stava seduta tenendo la mano di ziu Si-
doci un morto in casa, la moglie non accendesse le cande- doru chiese di fare silenzio, guardò da vicino il malato,
le, non si dicessero le orazioni per i defunti. ascoltando, e sentenziò che rantolava.
E chi è questo morto? Lui era il morto, no? Non si Era lì già da più di tre ore quando si sentirono suona-
vedeva? re le campane: is agonias mormorarono le donne. La mo-
E si mise lui stesso a recitare preghiere per i morti. Poi glie di ziu Sidoru fece con le mani un gesto come di of-
incominciò a implorare Sant’Isidoro, con uno scarto del ferta. Si sistemarono intorno al letto e incominciarono a
capo che diventava sempre più frequente e stanco. pregare sommessamente. Una che gli stava più vicina dis-
Lo studente si levò e poggiò sul letto le gutturadas va- se allo studente che stava per arrivare il prete.
riopinte. Ziu Sidoru le afferrò e se le tenne strette al petto,
grattandole con le dita magre. Non arrivò nemmeno il prete, prima che ziu Sidoru
morisse, dopo un’oretta dall’arrivo delle vicine. Lo studen-
Alla moglie chiese del medico e si offrì di andare a te capì subito quando spirò, perché le donne incomincia-
chiamarlo. Lei spiegò che un dottorino nuovo stava nel rono improvvisamente a piangere a voce alta.
paese vicino, a sette chilometri, e doveva badare a quattro Una disse che bisognava avvertire il figlio finanziere a
paesi, perché i due medici condotti erano in vacanza. Ma Genova.
tanto era già stato avvertito. Quando era arrivato lo stu- Ziu Sidoru ora giaceva col viso affilato, le gutturadas al-
dente, lei aveva creduto sulle prime che il dottorino nuovo legre e multicolori sul petto. La moglie le prese, le campa-
fosse lui. Ma gli passerà anche stavolta, lo tranquillizzò. nelle tintinnarono un poco, prima che le sue mani soffo-
Rimase nella stanza a guardare, per la prima volta in cassero rapide quel suono di festa.
vita sua, un malato grave. Gli sembrava che ne fosse anche
lui responsabile.
Due donne, due vicine di casa certamente, entrarono
silenziose nella stanza, richiamate da chissà chi, o da chis-
sà che cosa. Efficienti e svelte si diedero da fare col mala-
to. Nella stanza si diffuse un odore forte di aceto.

Ziu Sidoru non mollava le gutturadas, le teneva stret-


te con le due mani e resistette al tentativo di una delle
donne di portargliele via.
Lo studente stava lì come messo da parte. Sulla seg-
giola stava seduta ora una delle vicine e teneva nelle sue
una mano del malato.
In piedi dall’altra parte del letto, appoggiato al comò,
stupidamente inutile guardava, con gesti insoliti in quella
casa, ora l’orologio, ora il malato, ora le carte dei suoi ap-
punti sulla festa.

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L’ULTIMA TRANSUMANZA rintracciare «le scaturigini di quel fiume profondo, che
oggi si interra per resistere al deserto che avanza in Sarde-
gna dietro il nuovo Attila, e va ad aprirsi oltremare polle
sorgive della nostra cultura pastorale, purificata nel trava-
glio dell’ultima transumanza».
A volte è stato lì lì per precisare che si tratta del nuo-
Da molto tempo prima aveva progettato di iniziare la vo Attila petrolchimico, ma è riuscito sempre a trattener-
sua inchiesta nel Lazio, nel Lazio arido del Viterbese co- si, per non compromettere il suo progetto, se avesse qua-
stiero, per andare gradualmente: poi sarebbe salito verso la lificato così male la Proprietà del suo giornale, nella tana
Toscana e la Liguria, sulle tracce dei molti pastori sardi del lupo. Perché la proprietà del giornale è passata da
emigrati con le loro greggi sul Continente. Anzi in Italia. tempo dall’olio al petrolio, come si sussurra motteggian-
Perché quando va sul continente italiano lui dice di andare do in redazione.
all’estero, e anche quando va all’estero veste di velluto a Distratto e straniero, ma ormai convinto, il direttore
coste color muschio e porta il bonete. del giornale ha commentato, come sempre a sproposito
dopo l’ultima sua perorazione, che sì, effettivamente, va
Ottenere quest’incarico dal direttore del suo giornale bene: diciamo che è tempo di andare a vedere se è poi ve-
non è stato facile. Si era dovuto fare una regola di ricordar- ro che i pastori sardi sono come i cavoli, che vengono su
gli ogni settimana che è tempo ormai di informare e rende- meglio quando trapiantati in terra diversa. D’accordo: set-
re conto di questo modo nuovo di emigrazione sarda. tembre, andiamo, è tempo di migrare. Per il primo servi-
Il direttore ripeteva di andarci piano, di non esagerare. zio ti prometto la foto a colori in prima pagina. Se non ti
In Sardegna ci sono tante novità più grosse: lasci accecare dall’amor di patria, ci può scappare il Muflo-
«Voi sardi siete come il sonnambulo che viene destato ne d’oro per il miglior servizio giornalistico dell’anno.
mentre passeggia sul cornicione. Vi accorgete di ciò che
siete stati quando siete diventati altra cosa. E vi fissate su A Vetralla è riuscito a trovare un cavallo che poteva
cose vicine, per non guardare la distanza vertiginosa che vi anche essere cavalcato, e lo ha preso in affitto per andare
separa dal suolo… Ma non è che essere sardi sia più diffi- verso i suoi pastori. L’idea gli è venuta lì sul posto. Ma an-
cile di una volta. Anzi, diciamo che lo è di meno adesso». dare a cavallo alla ricerca dei pastori sardi è ovvio, anche
Lui capiva troppo bene che il direttore petrolifero face- senza pensarci.
va solo finta di non sapere che da più di due millenni e E un mattino, all’alba, è partito sulle tracce di alcune
mezzo non è mai stato agevole essere sardi, nel mezzo di un greggi che sapeva già svernanti sulle colline spoglie del Vi-
mare di guai. E tanto meno adesso, quando si vede chiaro terbese.
e senza vertigini che è meglio puzzare di pecora che di pe-
trolio. Ma certo, che un agente coloniale intenda questo, è Quel giorno, in Sardegna, usciva sul giornale il suo
pretendere troppo, si sa. primo articolo introduttivo sui nostri pastori emigrati al-
Ora finalmente c’era riuscito. Aveva progettato tutto l’estero con tutto il loro apparato produttivo. Vi sono defi-
seriamente, con taglio scientifico, dopo aver convinto niti «vitali spore vaganti oltre i nostri spazi, che racchiudo-
tutta la redazione della grande importanza di andare a no in sé l’archetipo cosciente della sardità, quella coscienza

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innata della propria identità che noi sardi abbiamo sempre greggi non sarde. E non si sbagliava: certe cose o si sento-
contrapposto a tutti i civilizzatori d’oltremare». no o altrimenti non si capiscono.
Avrebbe voluto scrivere «vaganti oltre i nostri confi- Il sole del mattino autunnale gettava ombre lunghe del
ni», se non fosse stato certo che il direttore petrolchimi- cavallo e del cavaliere su per il colle, verso il tintinnare dei
co l’avrebbe censurato e anche sgridato. Tuttavia non ha sonagli del gregge per lungo tratto invisibile. Il cavallo ten-
nessuna vergogna a dichiararsi separatista. E siccome è deva da una parte, dove a un certo punto anche lui ha
cristiano e creazionista, fonda questa sua aspirazione le- scorto una buona strada asfaltata. Ma ormai era arrivato.
gittima sulla volontà manifesta del Creatore, che la Sar- Alla custodia del gregge c’era un ragazzotto, che traffi-
degna l’ha voluta separata. cava con la marmitta di una Honda enorme, e ascoltava
Ma è più ragionata la sua certezza che una qualche musica da un radioregistratore appeso in cima a una per-
forma di indipendenza politica sia condizione necessaria, tica biforcuta, piantata al suolo.
anche se non sufficiente, per conservare quanto ancora «Sardu ses, o zovoneddu?» gli ha gridato tutto allegro.
resta del patrimonio culturale sardo. Per questo scopo si Il ragazzo l’ha guardato di sotto in su, intento alla
può scendere anche a compromessi e ad autocensure sul marmitta della moto luccicante al primo sole, e gli ha fat-
giornale e col direttore, che al massimo sogna il trofeo del to un rapido cenno affermativo, montando poi lesto sulla
Muflone d’oro anch’esso sporco di petrolio. sella dei suoi cinquanta cavalli.
Battaglia su fronti arretrati, quella di oggi in Sardegna, «De Sardigna ses benniu?» ha insistito.
premette sempre nelle sue conferenze. Intanto, a edifica- «Eh…».
zione di certa sinistra sarda refrattaria e poco patriottica, «De cantu tempus ses in Continente?».
ha pronto un saggio inedito dove si dimostra come il sar- «In Continente? A ’st’antro mese sarebbero du’ anni.
do Gramsci sia stato separatista fino al suo ultimo respiro Che, pure te sei sardegnolo?».
(e un suo segreto motivo d’orgoglio è che il SID lo ha te- Il ragazzotto ha approfittato del silenzio subitaneo
nuto d’occhio a lungo come persona pericolosa per l’inte- dello strano cavaliere per provare il tuono della marmitta.
grità dello stato italiano). Il cavallo ha scartato e lui è caduto.
E partecipa in prima fila alla «battaglia parziale» per La sua prima e ultima intervista incomincia e finisce
promuovere la lingua sarda, questa viva materializzazione così.
dell’anima nazionale, a lingua ufficiale dei sardi nella vita
privata e pubblica. Anche in quel primo articolo introdut-
tivo sull’ultima grande transumanza, è riuscito a infilarci
l’idea-forza che «la coscienza della propria identità e le
grandi strategie di liberazione si aprono spazi espressivi so-
lo col linguaggio ereditato dai padri» (autocensura: «e non
in quello dei patrigni e degli espropriatori d’Oltretirreno»).

Ha sentito un nodo alla gola quando lontano, su un


colle solitario, ha intravisto il primo gregge nostrano in
terra straniera: un gregge per lui inconfondibile con altre

20 21
DOMINO l’accelerata puzzolente del motorino, e un vecchio, su un
tram che passava, mettersi le mani nei capelli con la boc-
ca aperta in un grido che lei non ha sentito.
Nel verbale c’è l’elenco delle cose rubate dentro la bor-
setta: carta d’identità, cinquantamila lire, una foto di Ba-
chisio… Efisietta si spaventa della sua sbadataggine, per
Senza la borsetta sente come il fastidio di essere nuda, aver ficcato in borsetta quelle cinquantamila lire vicino alla
e di mostrare le sue colpe di fronte alla giustizia, anche foto di Bachisio.
quelle che non ha. «Un Leonardo nuovo» aveva detto l’avvocato deposi-
La faccia impassibile del poliziotto mostra un’indiffe- tando discretamente sul comodino tutti quei soldi che
renza al suo caso, che a Efisietta pare provenire dalla cer- non s’aspettava:
tezza che è giusto che chi la fa l’aspetti. Il diavolo fa le «Per il taxi per tornare a casa» aveva aggiunto accarez-
pentole, ma non i coperchi, e la sua farina va in crusca. zandola.
Il verbale è finalmente terminato: Le viene voglia di piangere, e l’agente se ne accorge:
«Senza che ci facciamo illusioni, non è vero, signori- «Qualche volta si ritrovano perfino i soldi» dice indi-
na… Murrù» dice l’agente di servizio estraendo il foglio candole dove firmare. «Anche se illusioni non bisogna
del verbale dalla macchina e sbirciandovi il cognome di farsene».
Efisietta, ma pronunciandolo sbagliato, con l’accento sulla «Io quei soldi non li voglio» sbotta Efisietta, cercando
u, come fanno sempre a Roma. invano il fazzoletto nella borsetta che è stata rubata.
Ma Efisietta non sta lì a sforzarsi di capire quali siano «Come sarebbe, non li vuole?».
le illusioni che non deve farsi. «Non li voglio» ripete con meno forza.
«Vuole firmare il verbale, qui?». «Be’, anche se li volesse, ormai…» dice l’agente alzan-
«Firmare, io, perché?». dosi per accompagnarla alla porta. «Nel caso ci faremo vi-
L’agente la guarda annoiato: vi noi, non si preoccupi».
«È lei che è stata scippata, no?».
«Sì, io». Solo appena in strada si rende subito conto della situa-
«Ma sembra che lo scippo lo abbia fatto lei…». zione. A piedi, senza un centesimo, dall’altra parte di Ro-
Efisietta ha un brivido. Adesso le sembra che quell’uo- ma. E alle cinque deve essere dalla sua Signora, al Villag-
mo in divisa le stia ordinando di firmare la scrittura della gio Olimpico.
storia vera di quelle cinquantamila lire. Fin lì l’aveva portata l’avvocato sulla sua Jaguar.
«Vuole leggere, prima di firmare?». Si mette in cammino. Se tutto fosse capitato a un’altra
Prende il foglio. Mica l’ha voluto lei, di denunciare lo ci sarebbe quasi da ridere.
scippo al commissariato. Passanti e un vigile urbano ce Quella cosa con l’avvocato l’aveva fatta, ma solo la pri-
l’hanno portata quasi di peso. ma e l’ultima volta! l’aveva fatta per aiutare Bachisio a ver-
L’agente la guarda, tamburellando sul tavolo. Per gen- sare finalmente l’acconto per la Cinquecento: per potersi
tilezza verso di lui si mette a leggere il verbale. vedere più spesso, spostandosi su da Ciampino dove fa
Ha potuto raccontare ben poco all’agente. Ricorda l’aviere; e qualche volta uscire magari fuori Roma, il gio-
solo lo strappo violento, che l’ha fatta girare su se stessa, vedì e la domenica pomeriggio.

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Passandogli davanti riconosce il cancello del villino CHI HA VISTO IL MONDO
dell’avvocato. Solo due ore fa ne è uscita confusa e avvilita.
«Più siete giovani e fresche di campagna e più mi pia-
cete, voialtre forosette» aveva detto l’avvocato. «Ciascuno
ha il suo debole, io ci ho questo».
Efisietta ritorna indietro. Ripassa per tre volte di fron-
te al cancello del villino dell’avvocato e infine si decide a Il sindaco, in questo periodo, è molto indaffarato. C’è
suonare: gli chiederà solamente i soldi per il bus. molto lavoro arretrato, perché è stato in vacanza.
Quest’anno è andato all’estero, per due settimane, in
macchina con la famiglia. Ma una vacanza modesta, a bas-
so costo, sul Mar Nero in Romania, dove la lira vale ancora
qualcosa. È stato anche un viaggio di studio, per lui ammi-
nistratore e capo di una giunta di sinistra, per vedere un
poco le realizzazioni del socialismo reale. Non ha visto mol-
to, bellissimi posti e quasi solo turisti tedeschi e francesi.
Qualche volta ha bisticciato con la moglie, che si la-
mentava del servizio e dello stile dei camerieri romeni:
non è questione di non ostentare servilismo, ma di fare
bene quello che c’è da fare, rispondeva lei alle sue spiega-
zioni, che partivano da considerazioni molto generali, sui
grandi passi avanti di un paese in via di sviluppo rapido.
Ma tutto sommato son tornati contenti.
Ora ci sono di nuovo le preoccupazioni ingrate del
quotidiano. Stasera c’è consiglio comunale. Il consiglio
sarà lungo, e non potrà essere a casa per la cena.
Prima che incominci la seduta del consiglio, il sindaco
fa una capatina alla bottega di Benniu, per mangiare un
panino al prosciutto.
«Che cosa ci preparate oggi al consiglio?».
«Oggi ci sarà battaglia per il regolamento edilizio».
«Già ti sei preso un incarico, fratello mio!» commen-
ta Benniu, abbondando col prosciutto cotto nel panino.
«Ci sono le leggi fatte in alto. Non è come con te, che
mi dai sempre razione doppia di prosciutto, perché sono
il sindaco».
«Be’, ma ora che sei stato fuori, un po’ di rinnovamen-
ti forestieri, di quelli buoni, li metterete anche qui».

24 25
«A poco a poco, piano piano, a forza di viaggi a Ca- conoscerò anche quelli tedeschi, quando verrà in licenza
gliari…». mio figlio Peppinu. L’altro è venuto già due volte dall’Olan-
Mentre mangia, entra ziu Mundicu, che si scappella da. Peppinu pare più risparmiatore, e viene poco».
solennemente di fronte al sindaco nuovo: «Starà risparmiando per tornare qua per sempre» dice
«E allora, ce l’aggiustate presto la strada nostra?». il sindaco a bocca piena.
«Se dipendesse solo da noi, anche subito. Ma c’è tutta «Magari fosse. Ma che ci fa qui?».
la burocrazia…». «A cercare lumache e germogli d’asparagi» dice Benniu.
«Io lo dico così, per ricordarlo. È una cosa necessaria. Ziu Mundicu si fa serio:
D’inverno bisogna passare a guado, quando piove». «Se almeno non stessero così lontano. Col mestiere
Il sindaco tira fuori i soldi per pagare il panino. Cerca che hanno imparato, forse, cercando, potrebbero trovare
soldi spiccioli, altrimenti Benniu finge di non avere resto, lavoro più vicino, in Italia, e forse anche in Sardegna, qui
e dice alla prossima volta, anche se sa che il sindaco si di- a Villacidro in quelle fabbriche nuove».
menticherà, con tutto quello che ha in testa. «Ce ne sono di cani pronti per quei posti di Villacidro,
Dalla tasca cade una moneta che rotola fra i piedi di come intorno a una macelleria» borbotta Benniu.
ziu Mundicu. Lui gliela raccoglie, ma la guarda sorpreso, «I figli li allevi e poi se ne vanno lontano. È peggio
dopo averla tastata un poco: della guerra. Tutti scappano da casa, come se ci fosse il ter-
«Ma questa che cos’è? Non pare nemmeno antica, di remoto. E come il tempo passa, si dimenticano anche di
quelle che si trovano nelle tombe». scrivere, almeno ogni tanto, come questi miei…».
«E già, guarda un po’. È una moneta romena, dieci «Qualcuno ogni tanto torna» azzarda il sindaco.
centesimi della Romania. Rimasti in tasca per caso». «Pochini. Ma i miei stanno bene dove sono. Guai se
«Della Romania? Allora, aspetta… sono dieci bani, tornano qui, adesso. Anzi, io vi dico una cosa, che se avessi
no?». qualche anno di meno me ne andrei anch’io».
«Giusto, dieci bani. E come mai voi sapete queste cose?». «E dove volete andare?» domanda Eugenio appena en-
«Eh be’, io non sono andato in vacanza in Romania… trato, come saluto.
Ma lo so. Prima non erano così le monete da dieci bani». «In Olanda magari. Mio figlio più grande dice sempre
«Prima quando?». che non c’è da paragonare tra qui e l’Olanda. Lì le cose
«Prima, durante la guerra». funzionano, tutti hanno il necessario e anche di più. Le ca-
«In guerra siete stato in Romania?». se sono tutte di proprietà della regina, e lei le dà in affitto a
«Solo di passaggio. Ma con noi c’erano romeni, in Rus- prezzi giusti, stabiliti dal governo, che non è vigliacco come
sia, i bani e i lei ce li avevano loro». il nostro. In Olanda anche le terre sono della regina, e lei le
«Ne sa di cose ziu Mundicu» scherza Benniu. dà a gente che se non le fa fruttare come si deve, gliele por-
«Aspetta, aspetta… C’erano anche ungheresi: quelli ta via di nuovo».
avevano i pengö. E i volontari spagnoli avevano le pesetas». «Ce n’è di posti migliori di qui» s’intromette Eugenio
«Ognuno compra i ravanelli coi soldi suoi» fa Benniu. con foga. «E se non fosse per quell’incidente che mi è ca-
«E ziu Mundicu può andare a comprarli dove vuole». pitato con quell’autocisterna, sicuro che qui non sarei tor-
«Eh, magari non le sapessi, queste cose. Adesso cono- nato nemmeno io. Anche se quando passavo con l’auto-
sco anche i soldi olandesi. Si chiamano gulden. E fra poco treno vicino a Civitavecchia, e vedevo scritto sui cartelli

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Traghetti per la Sardegna, mi scendevano le lacrime come sindaco, «non coi cantieri di rimboschimento e basta, che
chicchi d’uva di pergolato. E dov’ero, in Emilia, c’è la dopo tre mesi il lavoro se lo mangia il fuoco».
gente più simpatica d’Italia». «Ce n’hai di fuoco dentro, tu, Eugenio!» Benniu si ri-
«Che cos’hanno di speciale?» chiede Benniu. corda del suo dovere di bottegaio di fronte ai clienti, anche
«Sono gente cordiale da quelle parti. E ti sanno aiutare se sono focosi come Eugenio. «Ce n’hai di fuoco in petto,
e consigliare, e poi non rompono sempre le tasche con tu. Vieni che andiamo qui al bar tutti quanti, a berci una
tutte le storie dei terroni e dei meridionali, che in molte birra: per me è ora di chiudere bottega».
parti non ci possono vedere. Quelli là, in Emilia e Roma-
gna, sono veri compagni. Non è come qui. Io nemmeno «Ce ne vorrebbero di birrette per spegnere il fuoco
ci credevo che ci sono padroncini di autocarri, e anche pa- che ci ho dentro» dice Eugenio quando saluta il sindaco,
droni grandi, che sono compagni… Anche le donne lì so- porgendogli la destra devastata e scolorita dopo l’inciden-
no compagne, dicono pane al pane e vino al vino. E non te in cui ha rischiato di bruciare insieme con la sua auto-
sono disoneste, come dicono certi ignoranti. Sono altri cisterna bolognese.
modi di vivere. Qui le donne vanno ancora poco poco nei
bar, ma lì si fanno grandi bevute e grandi discussioni, tutti
insieme, uomini e donne. E non c’è la gelosia che c’è qua.
Forse anche in Russia dev’essere così, la stessa cosa».
«Tu la rovesci sempre in politica» ride Benniu un po-
co agro.
«Tu non puoi parlare, che non hai visto mondo, e cono-
sci solo la strada da casa tua alla bottega» replica Eugenio.
«Lasciamo perdere» dice ziu Mundicu per mettere pa-
ce «che anche Benniu il suo mestiere lo sa fare. In Russia,
quando c’ero io, le donne ci davano da mangiare a noi
italiani. Sì, erano proprio cordiali».
«Girare e vedere il mondo bisogna». Eugenio si sta
scaldando. «E io ti dico, Benniu, che se continua così, an-
che tu un giorno ti metti un mazzo di lattuga sotto il brac-
cio e te ne vai di là dal mare. Là almeno la verdura cresce
meglio di queste schifezze che vendi tu».
«Ne deve girare di mondo il povero, legato alla catena
del ricco» s’intromette ancora ziu Mundicu, pacatamente,
da anziano sensato.
«A poco a poco le cose si devono aggiustare anche qui»
aggiunge il sindaco.
«Ma presto però, non con l’ordinaria amministrazio-
ne» incomincia Eugenio tutto voglioso di discutere col

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I CONTI DELLA RINASCITA Peggio era quando parlava al telefono. Ma per quanto
riguardava il telefono, c’è stata la storia dell’apparecchio sul
suo tavolo. Il comune aveva allora un numero unico in du-
plex con la segreteria della scuola media, e un solo apparec-
chio sul tavolo del sindaco. Al ragionier Cavalla sembrava
una grave menomazione del suo prestigio non avere anche
È sicuro che nessuno ha mai detto o pensato che il ra- un apparecchio sul suo tavolo. Non perché dovesse alzarsi e
gionier Cavalla era fesso perché continentale, o che si da- andare a rispondere nell’altra stanza, ogni volta che il sinda-
va arie perché piemontese. E benché lui fosse pieno di co non c’era, tanto era sempre qualche altro impiegato che
spirito di patate, solo qualche volta, ma non per offender- andava a rispondere. Ma perché era questione di importan-
lo perché non ne valeva la pena, se lui la tirava troppo per za delle sue funzioni di segretario comunale. E poi lui ogni
le lunghe storpiando i nomi sardi del paese, qualcuno cer- tanto doveva comunicare con Cuneo, mentre gli altri al
cava di rimetterlo in sesto, e notava per esempio che quel massimo con Cagliari. Il sindaco, pro bono pacis, aveva
suo cognome qui da noi vuol dire puttana. Però lui crede- fatto piazzare sul tavolo del ragioniere un apparecchio di
va di non potere accettare la rivalsa spiritosa, perché dalle derivazione interna. Ma non bastava, era un contentino
sue parti è la vacca che serve a significare puttana. quasi offensivo, per lui che per comunicare con Cuneo do-
E benché non perdesse occasione per ricordare che lui veva sempre spostarsi ugualmente nella stanza del sindaco.
veniva da Cuneo, e fin dal primo giorno avesse appeso nel Alla fine il ragionier Cavalla, di sua e illegittima inizia-
suo ufficio al comune un grande manifesto colorato con tiva, ha fatto installare sul suo tavolo un apparecchio con
montagne verdi e la scritta Visitate Cuneo e le sue valli, una numero autonomo. Ma con delibera della giunta, ratifica-
volta sola è successo che la donna addetta alle pulizie dei ta all’unanimità dal consiglio comunale, accompagnata da
locali comunali gli ha detto che questo non era niente di mozione di censura su iniziativa della minoranza, il ragio-
speciale, perché tutti siamo usciti da quel posto lì, per leg- nier Cavalla fu costretto a pagarsi le spese di quella instal-
ge di natura; e che non c’era bisogno di esporre un mani- lazione. Il capo dell’opposizione avrebbe voluto o lo sman-
festo con quella scritta, per invitare la gente di qua a visita- tellamento dell’impianto nuovo, oppure che il segretario
re quelle parti, perché è cosa che si è sempre fatta e quelli vanesio pagasse anche le bollette relative a quel suo nuovo
sono luoghi noti e frequentati. numero di prestigio, oltre che di ogni telefonata a Cuneo.
Siccome non capiva, dovette spiegarglielo il sindaco,
che allora era un professore di scuola media. Gli fece una Agli occhi del ragionier Cavalla fu un’offesa aggravata
lezione di latino e di etimologia, prendendo a base gli eti- da misconoscenza. Perché lui veniva da quel Nord d’Italia
mi cuneus e cunnus, per poi passare ai relativi esiti italiani che stava per accollarsi le spese del finanziamento del Pia-
e sardi. Ma per queste cose il ragionier Cavalla non aveva no di Rinascita della Sardegna.
il gusto. Era venuto nel Sessanta come segretario comunale ad
Del resto il suo parlare lasciava molto a desiderare. interim, nel periodo quando era in ballo la questione dei
Non era solo il sindaco a pregarlo di parlar chiaro, senza miliardi del Piano di Rinascita, e lui non perdeva occasione
troppe piemonteserie di pronuncia e di lessico, quando per lamentarsi di quel progetto, come se i soldi li dovesse
apriva bocca in seduta di consiglio. sborsare tutti lui, soldi del Nord regalati al Sud.

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Faceva i conti sulla calcolatrice a manovella, divideva LA STRATEGIA DI FEDELE SUCCU
quei quattrocento miliardi per vedere quanto ne spettava a
ogni sardo: duecentosessantaseimila a testa, grandi e picco-
li. Poi lo moltiplicava per il numero degli abitanti del co-
mune e stabiliva che in totale al paese spettavano duecen-
tosessantaseimila per tremilaquattrocentotrentatré, uguale
ottocentonovantadue milioni cinquecentottanta. Fin dal giorno della sua assunzione alla OPCV nel
La volta che ebbe la pensata di calcolare di quanto au- Sessantacinque, Fedele Succu ha fatto di tutto per riuscire
mentava la cifra spettante in totale al comune, aggiungen- a farsi trasferire, dalla Macchina Continua numero uno al
do il numero dei nuovi nati rispetto al suo calcolo prece- Reparto Sfibratura, dal chiuso all’aperto, dall’umido al
dente basato sul numero non aggiornato degli abitanti, fu secco. La Macchina Continua numero uno si chiama Bo-
la guardia comunale a fargli notare che il suo modo di naria, come sua moglie, e molte volte le due Bonarie si as-
calcolare non teneva conto del diminuire della quota pro somigliano. Ma dalle macchine non è peccato divorziare.
capite coll’aumentare del numero delle persone con cui È stato sempre aiuto generico alla cassa d’entrata, l’an-
spartire i quattrocento miliardi, che restavano sempre ticamera di Bonaria.
quelli. E che si era anche dimenticato di sottrarre il nu- Bonaria è fatta di due parti, umida e secca, così come
mero dei morti, senza contare quello degli emigrati che la gente e la sua altra Bonaria è fatta di polmoni che fun-
avevano cambiato residenza, e che aumentava di giorno zionano a vento e di intestino e vescica che funzionano a
in giorno. spremitura d’acqua. Fedele Succu è addetto alla parte umi-
da, dove l’impasto per la carta perde acqua per sgocciola-
mento e per risucchio, sulla Tavola Piana.
Da un paio d’anni ha i reumatismi, per colpa della
parte umida di Bonaria Meccanica. Ma l’acqua dei reu-
matismi non si spreme né per sgocciolamento né per ri-
succhio. Per questo ha impostato una sua strategia del
trasferimento, da Bonaria al Reparto Sfibratura, dove i
tronchi di legno assomigliano ancora a tronchi, non so-
no ancora diventati un intruglio schiumoso, e dove non
si sta al chiuso.
I giovani e gli operai continentali non vogliono anda-
re al Reparto Sfibratura, perché si sta sempre all’aperto,
anche quando il freddo si taglia a fette, o il caldo fa suda-
re come gli spruzzatori orientabili del Parcolegno.
Molti sono finiti agli sfibratori per punizione. Gli in-
gegneri triestini e molti operai credono che stare agli sfi-
bratori non faccia per niente bene alla salute. Ci sono fu-
mi di soda e polveri di caolino. Ma è gente che non sa

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nemmeno che cos’è il vento, se non glielo dicono in televi- antinfortunistiche, scritte su molti cartelli in tutti i reparti.
sione alle previsioni del tempo. Non è stata una scelta buona per ottenere il trasferimento
Fedele Succu le direzioni del vento, della pioggia, i per punizione.
moti delle ombre, in tutte le stagioni, le sa da quando ha Chiederlo, il trasferimento al Reparto Sfibratura, vo-
imparato da bambino a scegliere il luogo buono per ripa- leva dire non ottenerlo. E forse forse avrebbe fatto la figu-
rare pecore e uomini, a seconda della catena dell’anno, per ra del fesso davanti a tutti, a chiedere di lavorare nel posto
l’ovile d’inverno e per l’ovile d’estate, sfruttando una forra, dei puniti e dei lavativi.
una quercia, un muso di monte o una grotta degli antichi.
Ieri mattina, poco prima dello stacco del pranzo il ca-
Fino a ieri non c’era riuscito, perché il difficile è fare la po turno gli ha detto:
mancanza giusta e farsi trasferire per punizione al Reparto «Succu, in Direzione».
Sfibratura, magari agli scortecciatori del legname russo e «In Direzione?».
canadese. Se la mancanza è troppo piccola ti becchi la soli- «Sì, ti vogliono in Direzione, l’ingegner Costa».
ta punizione in denaro, se è troppo grande rischi il licen- «Vestito così ci vado o mi cambio?».
ziamento, e addio sicurezza di lavoro e di salario, con una «Non fare il tonto, già non ti deve fare gli auguri di
famiglia di cinque bocche. Natale».
La prima mancanza tattica di Fedele Succu, provenien- «E chi ci ha mai parlato a solo a solo col direttore?».
za Arzana, pendolare, età anni quarantasette, terza elemen- «Stavolta ti ha fatto l’onore. Sbrigati che non ha tem-
tare, operaio di terza categoria, risulta ben documentata nel po da perdere con te».
suo dossier all’Ufficio del Personale: «Mancanza: fumava
maneggiando soda caustica; sanzione: sospensione inden- Il direttore ha incominciato a parlare guardando carte
nità panino per giorni sei». Allo stesso modo risultano do- sul tavolo:
cumentate le altre tre mancanze: «Non teneva i calzoni al- «Succu Fedele, bene bene, non ti piace più lavorare al-
l’esterno degli stivaletti essendo addetto alla manipolazione la Macchina Continua?».
di soda caustica; sanzione: sospensione indennità panino «Col dovuto rispetto e col suo permesso, signor inge-
per giorni dieci». La terza: «Teneva il grembiule sotto la gnere, io questo non l’ho mai detto. C’è qualcuno che glie-
cintura di sicurezza costituendo pericoloso intralcio; sanzio- lo ha detto, a lei?».
ne: quindici giorni di sospensione indennità panino». La L’ingegnere ha pigiato un tasto per parlare e ha ordi-
quarta: «Non si agganciava alle strutture della carpenteria nato chinandosi: «La signorina Pauletic!» e ha continuato
durante lo spostamento lungo i ripiani; sanzione: venti a leggere carte sul tavolo, tornato tranquillo e assente.
giorni di sospensione indennità panino». Fedele Succu è rimasto in piedi col berretto in mano,
Ogni giorno di sospensione indennità panino vuol guardando per rispetto fuori dalla finestra. Anche se pareva
dire settanta lire in meno: venti giorni, millequattrocen- che si trattava di trasferimento dalla Macchina Continua,
to lire. A parte l’indennità panino, tutte le mancanze non voleva pensare che stava per divorziare da Bonaria per
erano state di un tipo che andavano a suo rischio, senza andare a servire uno sfibratore. Di mancanze fresche non
danneggiare la produzione, tutte violazioni delle norme ne aveva fatte.

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La signorina Pauletic è entrata senza bussare, si è mes- «E perché allora ti permetti di dare del tu alla signori-
sa dall’altra parte del tavolo a fianco dell’ingegnere, come na Pauletic? E ti prendi la libertà di trattarla come se fosse
se Fedele Succu non ci fosse nemmeno. pari a te? E di discutere con lei, come se volessi insegnarle
«Dunque, Succu, la signorina Pauletic dice che ti sei il suo mestiere di funzionario dell’Ufficio Personale?».
stufato di stare alla Macchina Continua, e vuoi andare «Signor ingegnere, qui mi devono spiegare. Io il rispet-
agli sfibratori. Non è vero, signorina Pauletic?». to non lo tolgo a nessuno. Se c’è da imparare, imparo».
La signorina Pauletic ha solo sorriso, ma era un riso «Insomma, lunedì scorso, quando io non c’ero, la si-
malevolo. Fedele Succu non sapeva nemmeno se augurarle gnorina Pauletic ti ha fatto chiamare nel suo ufficio, per-
il riso della melagrana aperta. L’ingegnere firmava carte. ché al tuo cartellino mancano molti timbri d’ingresso. Ti
Fedele Succu si è accorto che le sue scarpe stavano spor- ha fatto un favore, chiamandoti per chiarire, perché sul
cando il tappeto e ha mandato un accidenti al capoturno. cartellino c’erano solo timbri di fine turno. Poteva consi-
Ma che diavolo vuole l’ingegnere? Per una volta che derarti assente per tutte intere le giornate. Ma ti ha chia-
lo chiamano, in Direzione, se ne deve stare lì come nessu- mato e ti ha chiesto se eri entrato in orario giusto. Perché
no, a rigirare il berretto in mano. lo sa che voialtri avete la testa in oca e vi dimenticate sem-
«Dunque, Succu, tu hai mancato di rispetto alla signo- pre di timbrare, come se foste a giornata a zappare».
rina Pauletic. Ti sei comportato con lei da vero cafone». Alla signorina Pauletic non è sembrato abbastanza e
«Io? alla signorina Pauletic?». che bisognasse precisare meglio la mancanza di Fedele
«Non fare l’indiano e sbrighiamoci. Intanto sei trasfe- Succu:
rito al Reparto Sfibratura, sezione Stacker, subito alla ri- «E poi ha storpiato il mio nome, come lo fanno molti
presa dopo pranzo. E indennità panino sospesa per dieci qua dentro, di quelli come lui. Mi ha chiamato Pauledda,
giorni. E poi adesso mi spieghi perché hai mancato di ri- ha detto che una ragazzina come me deve avere altre cose
spetto alla signorina Pauletic. Dopo le chiedi scusa, altri- per la testa, e non cartellini da timbrare. Insomma, signor
menti si provvede diversamente». ingegnere…».
«Come vuole il signor ingegnere. Le scuse le chiedo a «Va bene, va bene, signorina Pauletic… Dunque, Suc-
tutti e due. Ma…». cu, come la spieghi?».
«Ci sono ma? Secondo te la mancanza di rispetto non «Ma, io non saprei… Anche lei, anche la signorina mi
c’è stata?». dava del tu…».
«C’è stata, se lo dice lei, e agli sfibratori ci devo anda- «E io non ti do del tu? Perché allora non dai del tu an-
re, ma a me…». che a me?».
«Come sarebbe, se lo dico io? Vuoi peggiorare la tua «Ma, signor ingegnere, è diverso. Lei è più anziano di
situazione o fai finta di non capire?». me… La ragazza, la signorina ha vent’anni meno di me,
«Come lei dispone, va bene. Ma io il rispetto non l’ho ha l’età di mia figlia maggiore… Se lei mi dà del tu, vuol
mai tolto a nessuno». dire che mi dà confidenza».
«Perché a me non mi dai del tu, di’ un po’, eh? perché?». «Basta così, Succu. Tu le regole di buona creanza le de-
«Del tu all’ingegnere? E perché? Non me lo permette- vi imparare. Qui non è come a casa tua. Puoi andare. E al-
rei mai, io». la ripresa ti presenti agli sfibratori».

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Succu se n’è uscito rinculando. Finalmente ce l’aveva IL REDDITO
fatta. Doveva essere contento, però non ci riusciva.
«Succu, la porta, maledizione!» ha gridato da dentro
l’ingegnere.
È tornato indietro per chiudere, ma già la porta la stava
chiudendo la signorina Pauletic, con un sorriso di trionfo.
Nella sezione del partito da parecchie sere c’è grande
A casa, alla moglie Bonaria ha spiegato com’è che è riu- afflusso di gente. È appena terminata la campagna dei
scito a farsi trasferire agli sfibratori. Le ha detto che è basta- contratti fra i bieticultori e l’Eridania: quest’anno 1975 i
to dire il fatto suo a una ragioniera dell’Ufficio Personale, contadini che hanno scelto il sindacato democratico della
perché gli aveva mancato di rispetto, a un uomo della sua CNB sono quasi raddoppiati, a scapito di quello padro-
età. E che l’ingegnere, uomo sperimentato, lo ha trasferito nale della ANB. Ma già la sezione del partito ognuna di
per premio. queste sere si riempie nuovamente di padri di famiglia
che devono essere aiutati a compilare il nuovo modulo
per la dichiarazione dei redditi delle persone fisiche. Sono
tutti un po’ preoccupati.
A me è stato affidato un altro compito, e nella confu-
sione cerco di concentrarmi per scrivere un pezzo sul pro-
blema della nettezza urbana per il bollettino della sezione.
Quello della nettezza urbana è un servizio mancante ma
indispensabile nel nostro comune. È una questione spino-
sa. Le disposizioni igieniche proibiscono di tenere bestia-
me nell’abitato, ma qui si è sempre fatto così. Ora il pre-
fetto ha proibito non solo di tenere greggi di pecore e
branchi di maiali dentro il paese, ma anche galline e i po-
chi residui buoi da lavoro. E sono probiti anche i letamai.
I carabinieri hanno già fatto sapere che faranno rispet-
tare le disposizioni. Il che significa che faranno pagare
tante multe e basta, perché non c’è rimedio. Le disposi-
zioni non sono mai su misura locale, ha imparato a dire
anche il sindaco, allargando le braccia.

Davanti a un tavolo, dove siedono tre compilatori dei


moduli, sta una fila di una ventina di persone. Nell’unico
locale il mio trabiccolo fa angolo col tavolo dei compilato-
ri delle dichiarazioni, e la fila dei contribuenti mi si sgrana

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di fianco. Ora tocca a un vecchio bracciante dichiarare i «Ah, io, caro signore, devo eseguire gli ordini e le di-
suoi redditi. sposizioni vigenti. Io di politica non mi interesso. Qui c’è
«Meno male che adesso ci siete voi che avete studiato» l’ordinanza prefettizia. La legga, la legga…».
dice come per scusarsi. Chissà in che mondo vive, il nostro sanitario.
«Qua nessuno è ignorante» ribatte sbrigativo il com-
pilatore, capo della commissione cultura della sezione. Uno degli attivisti della commissione cultura, che
Ma gli altri continuano a discorrere su questo tema. stanno compilando le dichiarazioni, si sta infastidendo:
«Quando abbiamo incominciato noi qui, dopo la «Ma che cosa vuoi dichiarare tu, i nove figli che hai?
guerra, tutto andava alla me ne fotto, perché non c’erano Tu non devi fare dichiarazione dei redditi. Sei esente».
persone istruite con noi. E tutti ci fregavano». Gli sta davanti Lichixeddu, berretto in mano come per
«L’ignoranza è cosa brutta». sfottere:
«Però molti che studiano, dei nostri figli, si dimentica- «Ascolta, giovanotto. Io questa dichiarazione la voglio
no da dove sono venuti, o non capiscono nulla lo stesso fare. È giusta. Non sono evasore fiscale, io. E voglio far ve-
delle cose nostre». dere quello che ho: i figli».
«Io quando vedo questi ragazzi che hanno studiato e «E che cosa scriviamo come professione? Proletario?
che si mettono con noi, quasi quasi non ci credo, mi pa- Padre di famiglia?».
re che giocano un gioco nuovo. Ma è che non me lo «Per me scrivici quello che vuoi. Ma i figli devono es-
aspettavo». serci tutti e nove».
«Non era da aspettarselo, quando i nostri erano presi «Lascialo perdere» s’intromette uno che attende. «Vuo-
a fischi e a sassate proprio dagli studentelli». le solo fare lo spiritoso».
«Ora di teste fini ce ne sono anche dalla nostra parte». «Certo non assomigli a tuo zio per le trovate, eh, Li-
«E adesso quegli altri hanno anche paura di fare i co- chixeddu?» fa un altro.
mizi, perché un liscio e busso se lo buscano sempre quan- «Se gli dai retta facciamo prima» consiglia uno dei
do escono dalla loro tana come conigli impauriti». compilatori.
«Ne fa di cose lo studio». Io non condivido l’insofferenza per la piccola trova-
«Anche di male, però. Perché quelli che sanno tenere la ta di Lichixeddu, che continua a sbracciarsi per convin-
penna in mano credono che le cose si cambiano a tavolino». cere gli altri; cerco di ricordarmi chi sia questo suo zio
«Come quei cervelloni che hanno inventato questo spiritoso, ma mi perdo nei grovigli delle relazioni di pa-
modo nuovo di far pagare le tasse». rentela.
«Però l’ignoranza è la cosa peggiore». Il compilatore spazientito più che divertito alza la voce:
«Alla prossima riunione del direttivo io propongo l’isti-
Ritorno ai miei tentativi di scrivere il pezzo sulla net- tuzione di un consultorio matrimoniale» proclama in mo-
tezza urbana. L’altro ieri sono stato a parlare col medico do da farsi sentire.
condotto, che è anche il nostro ufficiale sanitario, per do- Lichixeddu ride e non si smonta:
cumentarmi meglio, perché devo anche riferire in consi- «A me però il come si chiama in disoccupazione non
glio comunale, e prima ancora nella riunione del gruppo me lo mette nessuno, e nemmeno in cassa integrazione.
di maggioranza al comune. Dacci sotto con la penna, che dopo vogliamo vedere se la

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testa non te l’ha scipita lo studio, e se li resisti nove bic- L’ULTIMO CARRETTIERE
chieri, uno per ogni figlio. Allo spaccio ho già pagato».

Ormai ho appallottolato il foglio bianco e rinuncio a


scrivere.
Chiedo a un vicino chi sia lo zio di Lichixeddu, famo-
so per le trovate divertenti: Affonziu Mereu è stato l’ultimo carrettiere professio-
«Sei diventato così cittadino che non ti ricordi più di nista del nostro paese. Quando lui viaggiava ancora con
ziu Affonziu Mereu!». l’ultimo dei suoi cavalli, tutti non castrati e tutti di nome
Non ricordare uno come ziu Affonziu significherebbe, Baieddu (era arrivato a Baieddu Sestu), gli altri del me-
per tutti, non avere veramente memoria e forse poca carità stiere avevano rinunciato da un pezzo, oppure avevano
di patria. Era infatti una specie di uomo pubblico in pae- comprato un camion. Settimanalmente faceva la spola
se, un inizio di intellettuale organico. Un ibrido strano e con Cagliari, distante cinquanta chilometri, per rifornire
precoce, fra il bello spirito, celebre per le sue arguzie, l’in- i bottegai locali di zucchero, candele steariche, sapone,
tellettuale tradizionale di queste parti, e l’ostetrico dello conserva di pomodoro, qualche stoviglia e qualche pezza
spirito di scissione, tutto proteso verso un futuro da mil- di stoffa, e in città portava carichi di grano e di legumi
lennio, diventato socialista in una delle primissime onde secchi, prodotti in paese.
migratorie operaie, quella verso Napoli. La gente pagava spesso i conti dell’annata ai negozian-
Ma non lo si ricorda solo per le sue celie famose. Nei ti, dopo il raccolto, coi prodotti locali, e ziu Affonziu era
paesi si parla più dello strano che del normale, come dap- tramite fra i bottegai del paese, i grossisti di città e i mer-
pertutto, più dello scemo del paese che ne fa sempre una canti di granaglie. Un mestiere da furetto.
delle sue, che del medico o del prete che fanno male il lo- In gioventù era stato una specie di giramondo, uno di
ro mestiere. quelli che all’inizio del secolo «se l’erano presa in Napoli»,
Ziu Affonziu godeva di una celebrità di questo tipo, come si dice da noi, con doppio senso; cioè, nel suo caso,
da giullare impunibile; ma anche di una sua autorevolezza, era andato a lavorare nelle fonderie della ILVA di Bagnoli,
che senza alcun potere non poteva apparire molto di più l’anno 1904.
che simpatia popolare per la sua presenza di spirito, e fac- Questo era allora quasi il solo modo di emigrare da
cia tosta per i suoi bersagli polemici. operaio, dalle nostre parti. La guerra del ’15-18 fece spo-
Il guaio è forse che lui era il vero tipo da bozzetto ru- stare più a Nord i nostri emigrati in divisa e poi rispedì in
sticano, amante del bel gesto in mancanza di poter fare Sardegna quelli che non sono finiti a Redipuglia. Ma do-
meglio. Ma se ha tanti fratelli, e tanto brutti, perché non po d’allora, e fino a questo dopoguerra, solo qualcuno se
deve avere un esecutore testamentario? l’è presa altrove.
Come uno che prima della guerra è andato non si sa
come nella legione straniera ed è tornato un paio d’anni fa
dal Vietnam del Nord, con moglie e quattro figli vietna-
miti. Se le donne da quelle parti sono tutte come questa
nostra nuova compaesana, si capisce com’è che le hanno
suonate agli americani.

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Lavora più lei di cinque uomini a scarada. Ha impa- tabacchiera piena di tabacco da naso nel culo del cavallo,
rato sardo e italiano in un anno e qualche mese fa ha da- che partì al galoppo, e lui insieme attaccato alla stanga, la-
to una lezione a un mio cugino maestro elementare, che sciando i banditi a respirare la polvere. Ed ecco il birbante
cercava di farle dire male di Ho Chi Min perché lui è che gli faceva notare come il cavallo non potesse partire al
democristiano: gli ha spiegato che Bac Ho è come dire galoppo proprio nella salita di Vangari, ma lui a commise-
Ziu Ho e che per loro Bac Ho è come per noi Giuseppe rarlo spiegandogli che l’animale era più svelto di lui, per-
Garibaldi. ché aveva capito che doveva prendere la direzione opposta,
Ziu Affonziu non è tornato con moglie napoletana, in discesa, per evitare di prendersela ancora nel didietro.
perché rientrava dal fronte. Si è sposato in paese e ha ten- Dicono che molti carrettieri sono poeti e cantori. An-
tato di riprendere il mestiere di prima di prendersela in che la finezza di ziu Affonziu culminava nell’abilità di poe-
Napoli. Dopo un anno ha però deciso di smettere di fare tare, frutto delle nottate di viaggio solitario. Componeva
il contadino e ha incominciato a fare il carrettiere. Perché, anche in italiano, cosa molto rara, perché era stato dieci
spiegava, il mestiere del contadino è il peggiore e il più po- anni a Napoli. E quando beveva (ma sua moglie diceva
vero, e lui odiava i poveri, non li poteva soffrire. che era scipito sempre, perché stufa dei suoi scherzi) spes-
«E allora perché sei socialista?» gli chiedeva immanca- so parlava napoletano, ancora più ostico filtrato dai suoi
bilmente qualcuno che non conosceva la sua arte di im- pochi denti davanti. Raccontava di come fosse stato guap-
provvisare facezie. po, con certi manigoldi napoletani, e di quando in guerra
«Giusto perché voglio ripulire il mondo da questa faceva il portaferiti, e piangeva ricordando «quanti figli ’e
schifezza della povertà». mamma hann’acciso, mannaggia aa morte, mannaggia»,
Non lo si ricorda però solo come un tipo spassoso, confondendo nel pianto quei morti ammazzati e il suo
che sapeva scherzare su molte cose, anche serie, a inco- primo figlio morto di favismo a due anni.
minciare da se stesso. Per esempio, sulla disperazione della Anch’io ricordo un paio di strofe di una composizio-
moglie e dell’intera famiglia paterna, quando decise di fa- ne politica di ziu Affonziu. Gliel’ho sentita cantare per
re il carrettiere. ore a un matrimonio di un parente comune, quando ero
Le prime volte che era partito, all’alba, schioccando la sui sette anni. La cantava sull’aria di Lilì Marlen ancora in
frusta, lasciava moglie e genitori piangenti, e lui se ne an- voga allora: una specie di contrasto fra Truman, Stalin,
dava stornellando. Ma dopo un paio di settimane, dopo i Churchill e l’Italia. Il Truman che minaccia dice a un cer-
primi incassi, era la moglie che lo svegliava nel cuore della to punto così:
notte per farlo partire in tempo, perché aveva incomincia-
to a sentire il suono di qualche spicciolo. Compagno Stalin, se fermo non stai,
Un pezzo forte, che sfruttava molto con certi cittadini Con la mia potenza ti metterò nei guai.
altezzosi, era il racconto di come fosse riuscito a sfuggire ai Sai che l’atomica io ce l’ho.
banditi, subito dopo quest’ultima guerra, una volta che lo E se ci vuole la userò.
assalirono di notte, nel tratto di mezzo della salita di Van- Hai visto l’uccision
gari, vicino a Monastir. Era sceso dal carro, diceva, facen- Che ho fatto nel Giappon?
dosi fesso e fingendo di avere una gamba addormentata.
Ma mentre si appoggiava zoppicando alla stanga, ficcò la E l’Italia, piano e di testa, conclude:

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Fra tanti grandi io sono il piccolin d’Ungheria. Il figlio del tabaccaio, erede della spocchia e
E spero la pace fra Truman e Stalín. della balordaggine del padre, un bel giorno di quel triste
L’Italia senza più cannon, novembre vuotò il cassetto del banco di bottega e partì
Ma con miseria e distruzion, verso il Nord, secondo lui a combattere volontario sul
Vuol libera restar Danubio contro i russi, che usavano il grasso degli insorti
E in pace lavorar. ungheresi per ungere i cingoli dei loro carri armati. Tornò
dopo un paio di giorni, spiegando che non era riuscito a
Ma ziu Affonziu poteva sfogare la sua passione politica passare la cortina di ferro. Si seppe poi che alla frontiera
quasi solo facendo l’attaccabrighe coi ricchi locali. Non svizzera fu rimandato indietro col foglio di via. Studente
gliene perdonava mai una, sfruttando la sua arguzia. Il suo di scienze naturali, non aveva forse ancora preparato l’esa-
obiettivo polemico permanente era Don Larenzu, il più me di geografia politica.
ricco del paese, e suo rivale anche come intellettuale. Non E un giorno ziu Affonziu, entrato in bottega per por-
poeta ma appassionato di storia locale, Don Larenzu scri- tar via certe scatole vuote, con già pronte un paio di inso-
veva perfino romanzi storici sulle vicende eroiche dei sardi. lenze per il padre di tanto figlio, si trovò invece davanti
In un suo romanzo fiume sulle lotte contro gli invasori ro- proprio lui, il figlio, castigato dal padre a rifondere lavo-
mani durante la conquista della Sardegna (titolo: All’ombra rando il mal tolto. Un figlio di Don Larenzu e la nipote
dei nuraghi e dentro l’urne) il duce sardo Amsicora termina del prete, anch’essi studenti, lo assistevano nella disgrazia.
così una sua arringa davanti alle schiere sardo-barbaricine Ma ziu Affonziu si adattò subito al nuovo caso. Li salutò
prima della battaglia finale di Cornus: «E rammentate, militarmente, si precipitò ad abbracciare il reduce dalle
miei prodi, nell’ora della pugna, che voi siete gli antenati battaglie per la libertà e stette lì a sfotterli finché non li
dei gloriosi militi della Brigata Sassari». stese tutti e tre, dopo essere riuscito a provocarli nono-
Caduto il fascismo, tutte le volte che si metteva in stante che avessero incominciato col far finta di non ac-
viaggio, ancora buio, passando sotto le finestre di Don La- corgersi nemmeno di lui.
renzu, allora podestà e poi sindaco, ziu Affonziu gridava Prima di andarsene, già sulla soglia, con una serietà che
schioccando la frusta: i tre studenti non gli conoscevano, proclamò che «hanno
«Sveglia, popolo, che non sei più bambino. Il sol del- fatto bene i russi. Là c’erano i signorini come voi che stava-
l’avvenire sta sorgendo dalla parte della Russia». no rimettendo la cresta e volevano rimontare sul pollaio.
A metà degli anni Cinquanta ziu Affonziu ha smesso di Eh no! Meglio i carri, signori miei. Molto meglio i carri ar-
fare il carrettiere perché ormai i camion avevano soppianta- mati. Anche qui ci vorrebbe una bella passata di carri, ma
to definitivamente i carri ed ha tentato da vecchio di rifare di quelli rossi fuoco, come dico io. Ci vorrebbe sì una bella
il contadino. Ma non ce l’ha fatta. Non gli piaceva. Così ha passata di carri, e carrista io» concluse fissando i tre che
finito i suoi giorni facendo piccoli lavori per il nostro mer- non ebbero il coraggio nemmeno di increspare le labbra.
ciaio-giornalaio-tabaccaio, un forestiero un po’ tonto che è
diventato il bersaglio degli scherzi di ziu Affonziu senza che Ziu Affonziu è morto alla fine degli anni Cinquanta,
lui se ne sia mai accorto, perché credeva di essere meglio di di un tumore alla testa. Ma ha saputo trar partito anche da
uno del paese, dato che veniva dalla città. quella cosa terribile che gli mangiava il cervello, e ha conti-
Dei suoi ultimi anni di beffe al tabaccaio è rimasta nuato a scherzare fino alla fine. Seduto sui gradini di casa,
ancora famosa quella dell’autunno del ’56, durante i fatti davanti alla porta, pallido e rinsecchito, a chi gli chiedeva

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nuove della sua salute rispondeva che gli andava sempre CITTÀ E CAMPAGNA
meglio. Che per esempio aveva il cinema gratis e a colori
ogni volta che voleva: bastava girare una vitina nel cervello
e tac… vedeva come dal vero tutta la sua vita passata: gli
stabilimenti di Bagnoli, il Festival di Fuorigrotta, la guerra,
i viaggi col carretto, le corse di Chilivani e i balli di Santa
Maria d’agosto. Dev’essere stata mia nonna a farmi ricordare meno re-
Forse gli credeva anche il medico condotto, se non sa- centemente di ziu Affonziu Mereu. Lei era una sua ammi-
peva che questa era una conseguenza del suo male, dia- ratrice, come molti altri.
gnosticato solo all’ultimo stadio. Ma una conseguenza Anche mia nonna, del tutto analfabeta, aveva capito
molto meno spassosa di quanto lui volesse dare a intende- che gli studenti agli esami devono essere disinvolti, possibil-
re agli altri. Solo che lui si credeva in obbligo di darla a in- mente brillanti. E che anche una testa mantenuta in funzio-
tendere, sulle condizioni della sua testa, la risorsa migliore ne a base di pane abbrustolito e di minestra di frégula deve
della sua vita. cercare di funzionare allo stesso modo di una testa cittadina
che funziona a base di polli arrosto e di caffè vero. È que-
stione di saper fare la propria parte, una volta imparata. Co-
me la sapeva fare ai suoi tempi l’avvocato Jago Siotto, che
anche se non andava per strada canta canta e si era allevato
a forza di ceci e di fave arrosto, il trallalero lo sapeva ben
cantare in tribunale, e quando scriveva sul giornale.
Sulla soglia di casa, in partenza per la città per sostene-
re l’esame di storia, mentre mi metteva dentro il taschino
della giacca i soldi per un caffè, mia nonna anche quella
volta mi raccomandò di non essere bruncu in culu. Di es-
sere volpe, non pecora, e di lasciare la vergogna ai ladri,
che del resto non ce n’hanno.
Sono le pecore che se ne stanno bruncu in culu, mu-
so in culo, sicure solo quando nel gregge formano massa
compatta, col muso a ridosso del deretano delle compa-
gne. Lei vedeva bene come io mi sentissi piuttosto come
un agnello impigliato in un cespuglio di cisto, mentre
avrebbe voluto che avessi l’animo di un torello fuggito
dal recinto.
«E tira almeno venticinque, questa volta» mi gridò
quando ero già in strada. E subito dopo le sentii dire, ri-
volta a zia Annetta Callella affacciata sulla soglia di casa
sua di fronte alla nostra:

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«Se almeno assomigliasse un poco a uno come Affon- annuiva solerte quando parlava lei, ma alzava al soffitto gli
ziu Mereu buonanima, per cavarsela bene coi professori occhi dilatati sotto la fronte corrugata, con un ghigno
dove va a mettersi agli esami». stanco, ogni volta che parlavo io. E questo sforzo sciocco si
Mia nonna immaginava gli esami come una prova di ritorceva contro di me. Sbagliavo bersaglio come il somaro
astuzia e di destrezza, che i numeri dei voti si ottenessero che prende a calci la mola perché non può prendersela col
come al gioco del tresette. Oppure come quando un suo padrone, come diceva mia nonna. Che a quell’ora stava
antico zio aveva saputo tirare un numero buono per non certamente recitando un Rosario per me, raddoppiando i
andare soldato alla guerra di Crimea, a mangiare topi arro- Groria Patri ad ogni posta, con più sacra scaramanzia.
stiti sulla punta della baionetta, avanti Savoia!, mezzo topo
tres arrialis. Lui e ziu Affonziu Mereu erano i suoi modelli A me non sembrò affatto di aver riso, tutt’al più avrò
di acume e di destrezza. sorriso, quando a mio dispetto ricordai quel dove e quel
quando, e mi interruppi, nel bel mezzo di un tentativo di
Già appena la vidi comparire sulla soglia della stanza risposta a una domanda, che l’esaminatrice mi aveva posto
dei tormenti per fare l’appello dei candidati, la nuova con enfasi, intorno al riformismo sabaudo sette-ottocente-
professoressa mi parve persona conosciuta, chissà dove e sco in Sardegna. Però, sia lei che il suo assistente mi fecero
quando. Ma certamente altrove, in circostanza ben diver- notare che nessuno aveva trovato ancora nulla di comico
sa. A lezione mai, non frequentavo. in quel riformismo.
E così come spesso succede agli esaminandi, massa Mi affrettai a convenire che sì, avevano ragione. E quan-
anonima cementata dalla paura del giudizio, invece di rac- do mai? Soprattutto perché l’assistente mi invitava già, con
cogliere le idee e di ripassare la materia d’esame, incomin- aria divertita di sfida, a illustrare il lato comico.
ciò subito ad assillarmi l’urgenza di ricordare quel quando Certo che non c’è nulla di comico, pensavo, perdendo
e quel dove. Il bisogno coatto di ricordare diventò allora mio malgrado minuti preziosi per riuscire a «tirare» un buon
un diversivo insolito per esorcizzare il timore di quell’atte- voto. Non c’è da ridere nemmeno se si considera l’idea che
sa. Invece della solita conta delle mattonelle del corridoio, dei rapporti coi piemontesi si ha ancora nei nostri paesi.
con l’impegno caparbio e stralunato di mettere i piedi giu- Dove a ogni ragazzo che visiti Cagliari per la prima volta si
sto e solo all’interno di una mattonella ogni cinque. L’esor- spiega che quel tale Carlo Felice se ne sta ritto in Piazza
cismo dovrebbe propiziare il buon andamento dell’esame, Yenne e impugna impettito la sua verga, puntandola per
ma non riesce quasi mai per intero: richiede che il conto spregio verso la campagna, dopo aver dato le spalle al mare
delle mattonelle torni sia all’andata sia al ritorno; ma se an- da cui è venuto. Oppure se è vero che il più famoso rifor-
che questo conto quadra, bisogna poi farlo quadrare anche matore piemontese in Sardegna, il ministro Bogino, su
sottraendo il numero delle mattonelle comprese tra i vani Buginu, è scaduto fino a diventare per noi sardi l’unico
delle porte che danno sul corridoio. modo, senza sinonimi, per indicare il boia, su bugìnu – chi
Quando mi toccò entrare per l’esame, lo sforzo che mi ti sétzad in coddus, che ti si possa sedere sulle spalle sulla
impegnò maggiormente non fu quello di ricordare quanto forca da cui pendi. Naturalmente non è vero, perché si
dovevo rispondere alle varie domande, ma invece quello di tratta di una parola catalana che ha lo stesso significato.
guardare in viso il meno possibile la professoressa. Mi con- Anche se Don Larenzu, il nostro appassionato di storia lo-
centravo piuttosto sulla faccia annoiata dell’assistente, che cale, giura che è questa l’etimologia giusta. Ma non c’è da

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fidarsi delle etimologie di Don Larenzu. Ciò che conta è che parlasse dal balcone del palazzotto di Don Larenzu, co-
però che non era solo Don Larenzu a credere che il nostro me avevano fatto sempre tutti i comizianti, eccetto natural-
bugìnu venga dal nome di quel riformatore illuminato. mente i comunisti, che allora riuscivano a stento a incomin-
ciare a parlare, ma a basso livello, raso terra o al massimo su
Ma il mio ricordo era un altro, e ben preciso. E nem- una pietra liscia. Questa volta Don Larenzu rifiutò di met-
meno a questo ricordo mi sembrò allora che fosse il caso di terlo a disposizione, e ora se ne stava lassù, affacciato lui al
ridere e che comunque avessi riso, al riemergere nella me- suo balcone, seduto su una sedia ridendo sotto i baffi.
moria della figura di ziu Affonziu e di come lui aveva ap- «A te, quando vinciamo noi, ti mettiamo a raccogliere
prezzato e salvato il comizio che la professoressa aveva te- merda secca di bue nelle aie. E ti chiederemo anche conto
nuto una dozzina d’anni prima al mio paese. delle pietre di granito squadrato che hai fregato dal vec-
chio monte granatico», gli gridò dal basso ziu Affonziu, ri-
Quando questa mia esaminatrice venne a fare il comi- ferendosi all’usanza che consentiva ai più poveri di procu-
zio, io avevo circa dieci anni, durante una di quelle campa- rare così del combustibile, e a certe malefatte di quando
gne elettorali del dopoguerra, infuocate e pittoresche, per le Don Larenzu era podestà.
politiche del ’48 o per le regionali del ’49. Lei era venuta Per tenere il suo comizio l’avevano piazzata su un tavo-
per tenere un comizio socialista, giovanissima ed elegante lo, preso dalla bettola lì accanto alla piazza. Proprio all’al-
nel suo insolito vestito cittadino. Con una di quelle gonne tezza della situazione. Il padrone del cinema, che per i suoi
strette, che allora sembravano tanto corte. E contro le quali spettacoli aveva in affitto un magazzino di Don Larenzu,
tuonava ogni domenica il parroco nelle sue prediche, soste- rifiutò anche lui di prestare il suo impianto di amplifica-
nendo che oltre tutta la loro indecenza erano anche scomo- zione, come invece aveva sempre fatto.
de e assurde; tanto che le ragazze che osavano indossarle, Il giovane militante socialista, che ebbe il coraggio di
secondo lui, pativano il freddo e non potevano muovere presentarla al pubblico curiosissimo, si lasciò scappare una
passi sufficienti nemmeno per salire i gradini di casa, e non formidabile gaffe finale, asserendo che la compagna avreb-
potevano inginocchiarsi in chiesa se non tirandosele ancora be fatto sentire la voce del socialismo «anche senza min-
più su, vergogna e scandalo nella casa di Dio! Le maniche chiofono». Un coro di nitriti si alzò dal gruppo di giovanot-
corte, poi, in paese non s’erano mai viste, e tanto meno il ti che si consideravano avversari politici della comiziante, e
rossetto e le calze velate trasparenti. si erano radunati al centro dell’adunata, giusto pronti a fa-
Veramente una volta c’era stata una signorina che vesti- re cagnara.
va in un modo così scandaloso. Una maestrina delle ele- La signorina incominciò presentandosi, con nome e
mentari, che però durò solo tre mesi e poi se ne andò per- cognome. Risultò chiamarsi Almeriga, nome che tutti deci-
ché trasferita, a portare la sua disonestà altrove, lontano dal frammo come America. Poi passò ai saluti. Ma nel salutare
gregge del canonico che reggeva la nostra santa parrocchia. si rivolse ai compagni… di un altro paese. Un avversario
Ziu Affonziu quel giorno era lì sulla piazza subito do- gridò, coprendo un inizio di rumoreggiare del pubblico:
po pranzo, e per ingannare l’attesa del comizio faceva ogni «È qui che dobbiamo scoprire l’America, non a San-
tanto visita alla bettola vicina. luri».
La nuova della signorina comiziante si sparse subito in «Abbiamo diritto anche noi di scoprirla», aggiunse un
tutto il paese, il concorso fu straordinario. Ci si aspettava altro.

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«Io preferisco coprirla», concluse un terzo. subito il discorso, che però nessuno forse capiva. Socialismo,
Il gruppo avversario nitriva sempre più forte. La signori- democrazia, nozze tra l’uno e l’altra, il senso della storia.
na non capiva nulla di quel dialetto, ma appariva molto in- Il parroco continuava a battere il granito del sagrato,
coraggiata dalla partecipazione delle masse contadine. E partì seguito sempre più a stento dal capo degli uomini cattoli-
con slancio, credendo sempre di rivolgersi a quelli di Sanluri, ci. Certamente non capiva nemmeno Don Larenzu, sem-
facendo così scoppiare ogni volta, come fuochi d’artificio, i pre lassù a sogghignare, vecchio gufo che un tempo era
botti e i ribotti dei frizzi salaci, in gara estemporanea di argu- stato falco, appollaiato in cima al suo palazzotto di aspetto
zie alternate, gara al rialzo in cui da queste parti ci si esercita cittadino, con le iniziali del suo nome in ceramica blu al
fin da bambini, possibilmente in prosa, che vuol dire in rima. centro del frontone ad arco. Forse, invece, stava ricordan-
Noi ragazzini, riuniti in bande rionali, punteggiavamo do le allocuzioni che faceva da podestà, quando costringe-
con alti strilli ogni pausa dell’oratrice. va i suoi servi di campagna a radunare tutto il paese, per
Sul sagrato il parroco passeggiava nervoso, tallonato ascoltarlo ripetere impettito gli slogan che Mussolini aveva
dal presidente dell’Azione Cattolica, senza degnare d’uno già gridato al balcone di Piazza Venezia. O forse, in occa-
sguardo la comiziante. Aveva appena finito la sua predica sioni come questa, di festa per gli avversari dei suoi pari,
domenicale pomeridiana; si era lasciato un po’ andare, e rimpiangeva i tempi quando la sua casa era come un con-
aveva terminato presentando ai fedeli i due corni del di- fessionale di venerdì santo, mentre adesso al massimo era
lemma di fronte al quale la coscienza di ognuno aveva da come di mercoledì delle ceneri.
scegliere: «O Roma o Mosca». Finalmente l’oratrice fu issata sul nuovo tavolo, e tutti
Alcune donne, fermatesi in cappannello nell’angolo tacquero, dopo un mormorio di approvazione. E in quel
più remoto della piazza, guardavano accigliate l’eccitazione momento un battimani lento e solitario scese dal balcone
dei loro uomini. Come ogni pomeriggio festivo, le ragazze di Don Larenzu.
passavano e ripassavano nello spazio riservato al passeggio, «Hai finito di scaldarti le grinfie, o Donna Elenetta
ma stavolta invano. Nessun giovanotto badava a loro, e lo- non vuole più prepararti la borsa dell’acqua calda?», gli
ro facevano commenti acidi. gridò ziu Affonziu.
Un gruppo di ragazzini di un altro rione aveva inven- «Facci il sunto di quello che ha detto» gli rispose Don
tato un modo nuovo per canzonarle: passavano di corsa Larenzu.
davanti ai grappoli di ragazze, che camminavano lente e «Non riesce a mandarla giù che loro una così non
altere tenendosi a braccetto, e urlavano la frase canzonato- l’hanno mai avuta» disse ziu Affonziu rivolto al pubblico.
ria Custa giài ca ’ndi porta de pìbiri in buciàcca, osàtrus scet- «Lasciacene un po’ anche a noi del tuo socialismo»
ti musca! Espressione che nel linguaggio locale significa pregò qualcuno degli avversari per canzonarlo.
che questa sì, la comiziante, aveva in abbondanza ciò che «Andate a cercarvela, una così, se la trovate» comiziava
oggi si direbbe sex-appeal, mentre loro si davano solo arie. ziu Affonziu.
«Cane abbaia e maiale mangia» mormoravano gli scet-
La ragazza vacillò a un tratto sul tavolino che la innalza- tici.
va sull’uditorio. Troppi si precipitarono a sorreggerla e nes- «Già si sapeva che tu non ti getti sul vinello, Affonziu»
suno la trattenne. Si decise di sistemarla su un tavolo più gli disse un simpatizzante, mentre lui si avvicinava al tavo-
grande e più fermo. La bella Almeriga voleva riprendere lo e invitava la ragazza a continuare.

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«Lasciatele riprendere il volo alla bella tortorella». VOLTAIRE E IL GENDARME
Ci fu un applauso spontaneo, e lei ripartì con foga,
rossa in viso, con ampi gesti di quelle braccia nude, accen-
tuando l’onda del seno.

Un ragazzotto del mio rione ci radunò per dirci qual-


cosa. Aveva scoperto ziu Affonziu, che se ne stava lì davan- Le virtù di ziu Affonziu erano note e pubbliche e lui
ti tutto estasiato, perduto in sue fantasie, e con una vistosa stesso sapeva di essere un uomo pubblico, con una sua
prominenza sul davanti dei pantaloni, molto sensibile al- funzione. Ci sono anche le virtù occulte, tra il popolo, che
l’oratoria della compagna cittadina. E alcuni più piccoli ne vanno riconosciute. I casi della vita portano qualche volta
approfittarono subito per inventare il gioco della scoperta a riconoscimenti postumi anche qui.
dell’America, che consisteva nel passare nel breve spazio Sapere come con ziu Tatanu Melis siamo diventati
fra il tavolo dell’oratrice e la prima fila degli uditori, dove amici non è interessante. Eravamo vicini di casa, ma la ve-
stava lui, e scoppiare rumorosamente a ridere, accennando ra ragione è forse che io per lui ero un intellettuale, un suo
col braccio alla protuberanza della patta di ziu Affonziu, simile ma professionista, mentre lui si riteneva solo un di-
troppo occupato per accorgersi di sé e del loro gioco. lettante. Questo suo modo di considerarsi nei miei con-
Finito il discorso, lui, raggiante, aiutò la signorina a fronti aveva inconvenienti, per quanto mi riguardava. So-
scendere dal tavolo e si congratulò a lungo nel suo misto di prattutto perché pretendeva che io dovessi sapere tutto,
italiano e di napoletano: bellissima parlata, proprio quella specialmente quello che non sapeva lui. Anche mio nonno
giusta. Poi si avviò con lei, aiutandola a fendere la folla. era così, con me, ma più tollerante con le mie ignoranze.
«Falla salire sul tavolo la sorella del canonico» disse al Io di regola badavo a non dare troppa corda a ziu Ta-
segretario dei democristiani locali, fratello del presidente tanu, e spesso ho cercato di evitarlo. Lui però conosceva e
degli uomini cattolici, quando gli passò di fronte e quello studiava le mie abitudini, e quando voleva parlarmi mi
sogghignava allo stesso modo di Don Larenzu. «Falla sali- aspettava seduto sul gradino di casa nostra, nella sua posa
re, così vediamo se oggi che è domenica i baffi se li è ta- sempre più meditativa man mano che invecchiava.
gliati. Cittadine tutt’e due sono, no?». A bruciapelo mi faceva domande come: qual è il nome
«Bravo, Affonziu» gridò uno lì vicino, «già non ti bevi italiano della radice del ficodindia? Una volta mi fermò
un brodo a forchetta. Lasciateli passare!». per strada, subito dopo che avevo tenuto il mio primo co-
E passava glorioso, col suo trofeo cittadino, frastornato mizio in paese, e mi domandò se fosse vero che i russi ave-
e ignaro, simbolo del socialismo di città. Lui aveva capito vano inventato come gettare un ponte fra la Sardegna e il
subito che la ragazzina entusiasta, se non ci si fosse messo Continente, ma che gli americani non volevano perché a
anche lui, sarebbe stata solo un pretesto insolito per i frizzi loro non conveniva. Era il tempo dei primi sputnik.
mordaci e scurrili dei paesani. Ma problemini così erano cose da passatempo per lui.
Senza ziu Affonziu, a quell’esame, a quel comizio che Forse perché era un outsider sul piano economico, con la
forse era la sua prima uscita, tentata in campagna per cor- sua pensione già dai quarant’anni, il suo grande problema
rere meno rischi, la signorina non avrebbe tirato un buon filosofico era quello dei bisogni, di come nascono e di co-
voto, giusto come me. me mutano. A forza di guardare vivere gli altri si era fatta

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una sua filosofia, e certamente era per questo che il parro- È la cosa migliore che ricorderò di lui: il rifiuto di fare
co lo considerava un agguerrito miscredente, non solo il tabaccaio e la scelta di fare a tempo perso il pescivendolo.
perché era un anticlericale arrabbiato, come un carbonaro Da noi l’alimentazione umana si è sempre basata sul
d’altri tempi. pane di grano duro, e in tempi di carestia sul pane d’orzo.
I tempi grami vengono ricordati come quelli del pane d’or-
Tatanu Melis non era nato e cresciuto in paese, ma in zo o del pane nero. Una volta che era caduto uno Stuka
un altro, un po’ lontano. Ci era venuto da carabiniere, e tedesco nelle nostre campagne, prima del Quarantatré, fu-
dopo il congedo c’è rimasto. Si può dire però che ai miei rono trovate delle provviste di Pumpernickel, che molti si
tempi quasi nessuno si ricordasse più di quella sua profes- portarono a casa credendo che fosse cioccolata. Ma nessu-
sione. Del carabiniere non aveva più nemmeno il passo, no ne mangiò quando si scoprì che era una specie di pane
ma solo la statura, alta per le nostre parti. nero, il pane della miseria, che allora da noi non era anco-
Che avesse deciso di vivere solo della pensione e di ra così nera come quel pane di segale della Westfalia, che
starsene a guardare il mondo e la vita altrui non è proprio oggi invece i nostri emigrati incominciano ad apprezzare
esatto, perché per un lungo periodo ziu Tatanu è stato il dopo anni di diffidenza.
pescivendolo del paese. Ogni martedì e ogni venerdì ven- L’alimentazione a base di pane veniva integrata dall’uso
deva un paio di cassette di gerri alla gente normale e alcu- di legumi freschi e secchi, secondo lo schema millenario di
ni chili di muggini ai benestanti. Per le feste qualche cas- alimentazione povera dei contadini mediterranei, dediti al-
setta di muggini in più, a volte anche un paio di cassette la cerealicoltura asciutta. Grano, leguminose, poca carne e
di anguille, come la vigilia della festa dell’Assunta, che pri- pochi grassi animali. Si è così sviluppata una sapienza ali-
ma era giorno di magro, ma da noi già festivo. mentare che funziona, traendo le sue materie prime dalla
Durante il fascismo aveva fatto alcuni mesi di confino cerealicoltura, secondo un meccanismo perfetto, che pre-
in Calabria. Si era rifiutato di fare l’istruzione premilitare vede anche i margini di tolleranza. Pane e legumi corri-
ai ragazzotti del paese. Il segretario del fascio glielo aveva spondono sotto l’aspetto alimentare all’uso prevalente della
chiesto perché era stato carabiniere. Non che si consideras- terra per coltivare grano e alcune leguminose per l’alimen-
se antifascista. Solo che aveva già deciso da tempo che gli tazione umana e degli animali da lavoro. Le macchie verdi
interessava di più stare a guardare vivere il prossimo. estive, che rompono la monotonia gialla del paesaggio,
«Più fai, meno ci pensi» diceva. «Tutti corrono e briga- suggeriscono quali sono stati, fino a pochi anni fa, i modi
no. E quando arriva l’ora non sanno cosa hanno fatto e di integrare questa dieta a base di farinacei: qualche vigne-
dove sono andati. Sapere che si muore aiuta a vivere». to (un po’ di calorie rapidamente utilizzabili bevendo ogni
Ma, per quanto riguarda il suo rifiuto di giocare a fare giorno un po’ di vinello); qualche orto ai margini dell’abi-
la guerra coi fucili finti di legno, c’è da pensare che il suo tato (un po’ di vitamine dalle ortaglie); qualche piccolo
filosofare avesse già sviluppato in lui un certo senso del ri- oliveto (un po’ di grassi vegetali). Infine quelli come ziu
dicolo, nonostante che fosse stato ventidue anni nell’arma. Tatanu, che ogni tanto contribuivano a far mangiare un
Avrebbe potuto fare il tabaccaio, perché gli ex carabi- poco più di quelle proteine, la cui mancanza spiega forse
nieri allora erano preferiti dall’amministrazione dei mono- la taglia e la gracilità della nostra gente, dove lui era l’ecce-
poli di stato. Ma non voleva vendere cose inutili in un po- zione, selezionata dallo stato per farne uno strumento del-
sto dove manca il necessario, mi spiegò una volta. la sua forza.

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Non ho mai notato che qualcuno lo considerasse stra- Gli piaceva formulare giudizi sulla gente, specialmente
vagante. Ricordo però la volta che a casa mia, da ragazzi- a caldo, dopo una morte o una disgrazia. Mi venne in
no, i grandi a tavola parlarono di lui in termini di condan- mente di prestargli l’Antologia di Spoon River e ziu Tatanu
na perché si era comportato male con un frate nostro ne rimase sconvolto. Fu così che un bel giorno mi diede da
compaesano, venuto in vacanza dal Gabon dov’era missio- leggere un quaderno di suoi brutti sonetti in sardo sui mor-
nario. A quanto ho capito, pare che tra il serio e il faceto ti del nostro cimitero. Il sonetto è una forma metrica della
gli avesse detto che i preti vanno bene soprattutto là dove poesia popolare tradizionale, in Sardegna, dai tempi in cui
la gente ha più bisogni e paure. Il giorno che nessuno avrà lo divulgarono certi poeti arcadi settecenteschi. Ultima-
più tanta paura, non ci sarà più bisogno di preti e di frati. mente, da queste nostre parti il sonetto si è specializzato co-
Anche ziu Tatanu era noto come uno di quelli buoni a me forma delle lettere anonime di argomento politico.
mettere canzoni. Ce n’erano parecchi altri, e qualcuno c’è Altri libri che lo affascinarono furono le favole di Fedro
ancora. Delle sue canzoni la più famosa è quella che com- e le avventure di Bertoldo, cose per le quali aveva già l’orec-
pose per ziu Micheli Stasiu, che una volta, ubriaco perdu- chio preparato. Non gli piacquero altri libri, come certe
to in una baracca, il giorno della festa di San Pasquale storielle di Brecht. Almeno così mi diceva restituendomeli.
Baylon patrono dei pastori, aveva detto che con la moglie,
adesso che stava invecchiando, ce la faceva solo se lei al Però nelle meditazioni di ziu Tatanu ha sempre conti-
momento buono gli diceva concitata «presto Micheli che nuato a prevalere il problema del sorgere e del mutare dei
sta arrivando mio babbo». Come i tempi quando l’amore bisogni. Soprattutto il loro mutare gli è sempre apparso
lo rubava alla vigilanza dei suoceri. un segno dell’umana debolezza, perché aveva deciso da
Nel Quarantasei, quando si fece un grande carnevale tempo che i bisogni vanno ingannati, il più possibile igno-
per celebrare la pace e il ritorno dei soldati, si era masche- rati, come la morte e le disgrazie che non sono ancora ve-
rato anche lui (perché non era un misantropo) e sui tram- nute, ma che uno deve sempre aspettarsi.
poli appariva come un gigante bello grasso che mangiava Degli ultimi anni del mio vicinato con ziu Tatanu è la
tutto ciò che gli capitava. Mangiare però non è la parola sua scoperta dell’ecologia e il suo innesto sul tronco por-
giusta, perché apriva una specie di porticina sul petto e ci tante della vecchia problematica dei bisogni.
buttava dentro sassi, terra, erba, merda di bue e foglie di Lui pensava comunque che il mondo andasse di male
fico d’India. Così rappresentava il suo ideale di liberazio- in peggio, un po’ alla maniera dei vecchi, o forse, meglio,
ne dal bisogno più imperioso. secondo un modulo del senso comune di quelle fasce socia-
li che non sono mai state raggiunte da ideologie progressiste
Un po’ per caso divenni suo fornitore di libri. In una come l’illuminismo, il positivismo, il socialismo. Nei suoi
decina d’anni gliene avrò prestato una ventina. Una sera discorsi tornava ossessiva la nozione vaga di un «prima».
stava raccontando storielle alle donne del rione sedute al «Ma quando era questo prima?» gli chiesi una volta.
fresco sulla strada e mi sembrò di riconoscere la fonte di Ci pensò su un poco:
qualcuna nel Lazarillo de Tormes. Ma non l’aveva letto, e «Prima che io nascessi…» e rifletté ancora.
glielo prestai. Quelle avventure divennero a poco a poco «Nel medioevo» aggiunse. «Ma anche quando ero mol-
parte integrante della vita vissuta di ziu Tatanu, che certa- to piccolo io».
mente non sapeva più di raccontare frottole tanto ricono- «Nel medioevo?».
scibili anche a me. «Sì, nell’antichità».

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E guardandolo tacere assorto mi parve di capire come E quando tornavo in visita mia madre mi informava
quel prima fosse per lui un’oscura età iniziale, l’aldiquà spesso che ziu Tatanu chiedeva di me, per parlarmi e farmi
del caos primogenio, un tempo indeterminato, ma appe- leggere qualcosa. Ma io facevo quasi sempre finta di nien-
na prima della memoria dei viventi, appena prima della te, temendo che il vecchio non intendesse smettere l’abitu-
sua memoria, o il tempo quando non c’era tempo. dine di usarmi come un perito giurato che stimasse la qua-
Mi posi il compito di aiutarlo a fendere questo velame lità delle sue produzioni scritte, per me sempre bassa,
fitto fra passato e presente, in modo che si formasse un nonostante il progresso in quantità.
qualche suo senso della storia. Ma non trovai letture adat- Ora Tatanu Melis da qualche mese sta in compagnia
te a questo scopo. dei personaggi dei suoi sonetti cimiteriali, nel campo san-
Avevo già quasi dimenticato questa mia preoccupa- to rimesso a nuovo. Tempo prima avevamo fatto la scom-
zione pedagogica nei suoi confronti, quando un giorno di messa che la nostra nuova amministrazione di sinistra lo
punto in bianco, avvicinando la faccia furba alla portiera avrebbe rimesso a nuovo, perché lui diceva che non si sa-
dell’auto che avevo fermato per salutarlo, mi disse: rebbe fatto nemmeno questo, tanto gli era estranea l’idea
«Se i contadini di qua sapessero la storia, si arrabbie- del mutamento progressivo.
rebbero. Ma la questione più grossa è sapere contro chi
bisogna arrabbiarsi». Qualche giorno fa sono ritornato in paese. Mentre ero
Non potei chiedergli nulla perché si accorse di mia mo- in casa è venuta la vedova di ziu Tatanu a cercare di me.
glie, che mi sedeva vicino, e le domandò se aspettasse un Aveva notato la mia macchina davanti al portone.
bambino. Lo domandava sempre. Lui non aveva avuto figli. Dopo i convenevoli e le condoglianze, da sotto il
Una volta ebbi modo di ricordare a ziu Tatanu que- grembiulone nero dove teneva le mani come per conser-
sta sua opinione sui contadini. Dapprincipio fece un’al- varle calde, ha tolto fuori un librone decrepito col dorso in
zata di spalle, poi disse: pelle. Veniva a restituirmelo, dato che la buonanima si era
«Chi lavora la terra è sempre l’ultima ruota del carro. dimenticato di farlo. Apro il libro. Mai visto prima. È una
Forse è sempre stato così. Figuriamoci poi quando uno è vecchissima edizione del Dizionario filosofico di Voltaire, le
sempre l’ultimo in un posto come la Sardegna, che per gli pagine gialle e zeppe di annotazioni di pugno di ziu Tata-
altri di fuori sembra non essere nemmeno parte di questo nu, e di una mano precedente sconosciuta. Chiedo alla
mondo. E invece il mondo è una cosa tutta d’un pezzo, e donna se non si fosse mai accorta che la buonanima lo
sta insieme per questo. Solo che per capirlo bisogna guar- possedeva da tempo. Nemmeno lei l’aveva mai visto, fino
darlo dal punto giusto, come da un satellite…». al giorno che ha riordinato certe cose del marito morto.
«E poi magari arrabbiarsi» aggiunsi per provocarlo an- Mi sono sentito tradito dal vecchio perdigiorno. Qua-
cora. le strana concezione stregonesca della carta stampata ha
«Di questo non c’è bisogno, per arrabbiarsi, perché indotto ziu Tatanu a tenere nascosta a tutti, come i segreti
tanto arrabbiati siamo da quando si incomincia a capire di un’antica arte magica, proprio quell’opera fondamenta-
chi sono gli altri e chi siamo noi sulla terra». le dell’illuminismo?
Ma il lascito involontario di ziu Tatanu non aveva fi-
Quando ziu Tatanu era nel pieno dei suoi interessi nito ancora di sorprendermi. Recentemente ho curiosato
ecologici, aiutato in questo dalla televisione, io me ne an- tra le scartoffie di cui è imbottito il libro, ormai rimasto
dai dal paese. a me. Si tratta quasi solo di composizioni in versi sardi.

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Quasi solo, perché in mezzo a tutta quella cianfrusaglia av- IL CAMPIONE MONDIALE
voltolata nei complicatissimi metri della nostra tradizione
cantata e non cantata, su un foglio doppio protocollo ho
scoperto un pezzo in prosa, in prosa italiana.
L’ho decifrato con la pazienza di un filologo che scopre
il frammento d’un’opera perduta.
A fatica finita mi sono sentito davvero beffato da ziu Nel mare del Continente c’era una volta un pescecane
Tatanu. che era famoso come grande capitalista. Ma un giorno un
Il titolo del pezzo suona: Il campione mondiale dei ca- altro pescecane gli disse, per umiliarlo un po’, che per di-
pitalisti. Sottotitolo: Storia moderna alla moda antica, di ventare il campione mondiale dei capitalisti bisogna riusci-
Melis Gaetano. re a vendere la cosa più inutile a chi ne ha meno bisogno.
Sfrondata di certo sovrappiù, rimessa solo un poco in Allora questo pescecane ha pensato di andare a vende-
sesto e ripulita grammaticalmente (col permesso dei teorici re una maschera antigas a un muggine di stagno.
moderni della pedagogia linguistica), ne viene fuori una Siccome anche da quelle parti si sa che i muggini mi-
favoletta brecht-esopiana. Questa che segue, che va pieto- gliori sono negli stagni della Sardegna, questo pescecane è
samente divulgata, e resti a me il merito di lasciarne me- venuto nello stagno di Cabras e ha offerto a un muggine
moria ai sopravvissuti e ai posteri, e forse documento per la sua maschera antigas:
una storia più accorta. «Oggigiorno tutti i muggini stanno comprando ma-
schere antigas» diceva.
«Qui l’acqua è buona e pulita» gli ha risposto il mug-
gine di Cabras. E non se n’è fatto nulla.
Allora il pescecane è andato nello stagno di Marceddì,
ma compratori non ne ha trovato nemmeno lì. È disceso
giù fino allo stagno di Santa Gilla, ma nemmeno stavolta
ha avuto fortuna.
Si è guardato bene intorno e ha pensato.
Il giorno dopo ha mandato i suoi avvocati alla Regio-
ne per chiedere i contributi, e dopo meno di un mese ha
incominciato a fabbricare un grande stabilimento, proprio
in riva allo stagno, a Macchiareddu.
Dallo stabilimento sono incominciati a uscire rifiuti
schifosi e i muggini non sapevano come difendersi.
Ma il muggine che aveva rifiutato la maschera del pe-
scecane è andato a cercarlo:
«Ce l’hai ancora quella maschera antigas?».
«Ce n’ho giusto una fiammante di prima qualità. Co-
sta tanto».

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Ma il muggine non aveva i soldi. Il pescecane gli ha MARTIRIO OSCURO
detto:
«Tu vieni a lavorare nella mia fabbrica, io ti pago e co-
sì puoi comprare la maschera antigas».
Così ha fatto e come lui molti altri muggini.
Lungo le strade d’acqua dello stagno il pescecane ha
fatto mettere grandi fotografie di belle mugginesse con Dopo alcuni calci in pancia Luisicu continuava a dor-
maschere antigas. mire. Sognava di essere travolto da una motocicletta della
Un giorno è venuto in visita a parenti un muggine di polizia nelle terre dei Lampis. Ma ziu Fadaricu, il capo dei
Cabras e si è molto meravigliato della nuova moda. Ma i servi, insisteva colpendolo con tutte le forze, con le scarpe
mugginetti piccolini gli andavano dietro e lo canzonavano chiodate. Luisicu non riusciva a uscire dal suo incubo.
perché era senza maschera. Anche lui allora ne ha compra- Ziu Fadaricu prese un loru, una correggia di cuoio per
to una. Prima di andarsene ha chiesto ai parenti: legare i buoi al giogo, e incominciò a frustare Luisicu su
«A proposito, che cosa producete in questa vostra fab- tutto il corpo, con metodo:
brica?». «Alzati, demonio, e vieni a vedere la valentia che hai
Nessuno lo sapeva. E tutti hanno incominciato a chie- fatto, disgraziato».
derselo, specialmente quelli che ci lavoravano. I colpi di loru sulla faccia lo risvegliarono e riconobbe
E un giorno il sindaco dei muggini è andato in delega- il capo dei servi: perché ziu Fadaricu lo stava picchiando
zione dal pescecane e ha chiesto di sapere che cosa si pro- così, per svegliarlo? Era tempo di semina, i buoi mangia-
duce nel grande stabilimento. vano nelle stalle, non doveva portarli più lui al pascolo
«Maschere antigas» ha risposto il pescecane. «Per la vo- prima dell’alba.
stra salute». Luisicu si alzò a sedere sulla stuoia, proteggendo il viso
con le braccia, appallottolato come un riccio riscosso d’in-
verno.
«Vai alle stalle, figlio di puttana. Corri, demonio, che
ieri ne hai fatto molto di pane bianco».
Luisicu si buttò fuori dal deposito degli attrezzi. Era
buio pesto e pioveva. Ziu Fadaricu lo raggiungeva ogni
tanto con un calcio.
Aveva le ossa rotte, come non le aveva sentite mai, e
qualcosa nel fondo della memoria che non ricordava ab-
bastanza.
Nelle stalle dei buoi da lavoro avevano acceso una lam-
pada a carburo.
«Guarda, disgraziato. Guardalo quel bue gagliardo,
che cosa ne hai fatto, farabutto» gridava spingendolo ziu
Fadaricu.

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C’erano quasi tutti gli altri servi e il figlio maggiore del Solo una cosa era chiara. Che No ’ndi Fatz’Usu stava
padrone. L’ultima spinta di ziu Fadaricu lo fece quasi in- molto male perché il giorno prima aveva mangiato quasi
ciampare sopra No ’ndi Fatz’Usu, coricato fuori della lettie- uno starello di fave, di fave intiere da seme, quando lui e
ra, di traverso nella caminera, ma ancora legato alle corna. Paulinu erano scappati all’arrivo della polizia sulle terre oc-
Soffiava e si lamentava, con la bava alla bocca. cupate dei Lampis. E Luisicu ne aveva fatta di strada, in
«Visto, delinquente? Hai visto bene la giornata che ti sei salita e in discesa, correndo alla disperata su per le coste
fatto ieri?» latrava sempre ziu Fadaricu. «Se muore questo del Monte.
bue, nemmeno tre anni di lavoro ti bastano a ripagarlo». Sul ponte di Riu Arai un lampo fece scartare la cavalla,
Gli altri stavano tutti intorno a guardare. Poi ziu An- che quasi metteva le zampe sul parapetto del ponte. Luisi-
tonicu, il vicecapo, cercò di far bere al bue una tazza di cu sentì il dolore per le ferite che il giorno prima gli aveva-
vino caldo. Non ci riuscirono in quattro. no fatto le scarpe sui calcagni. Il rivo era in piena. Biso-
«Bisogna andare a Guasila a chiamare il veterinario» gnava fare in fretta. Altrimenti gli toccava ripagare il bue,
disse il figlio maggiore del padrone a ziu Fadaricu. E lui ri- se moriva.
cominciò subito coi calci: «Vai e prendi la cavalla vecchia, Ma di chi era la colpa?
demonio. A piedi dovresti andare, se non fosse la fretta per Che cosa era successo nemmeno lui lo sapeva bene.
questa povera bestia». Era tutta colpa della giustizia e della polizia, che rincorre-
Luisicu scappò sotto la pioggia del cortile a prendere la vano quelli che erano andati a occupare le terre dei Lam-
cavalla vecchia. Ogni passo erano fitte. Mise i piedi in una pis, per seminarci i ceci.
pozzanghera e si accorse di essere scalzo. Ma non andò al
deposito degli attrezzi, dove dormiva, a cercare le scarpe nel Il veterinario non voleva venire e imprecava come se lo
buio. Proseguì verso la scuderia, staccò la cavalla, le mise un volessero portare via tutti i diavoli. Luisicu aspettava fuori,
morso, una coperta di pelo d’asino sulla groppa e montò. sotto la pioggia.
Sedersi in groppa era come sedersi sul fuoco. Quando stava per salire sul calesse, il veterinario notò
Vicino al portone lo aspettava nascosto Paulinu, il bo- il suo stato e lo fece sedere vicino a lui sotto il soffietto.
varo che dormiva con lui nella stanza degli attrezzi. Uscì La cavalla l’attaccarono dietro il calesse.
dal buio con un sacco di orbace da pastore sul braccio: «Ma il malato sei tu o il bue?» chiese il veterinario.
«Mettitelo sulla testa. Altrimenti crepi tu prima del «Quanti anni hai?».
bue». «Diciassette e mezzo».
Luisicu lo prese e si coprì col sacco a capanna sulla Il veterinario gli diede un sorso di acquardente da una
testa. piccola borraccia.
«Rimani sullo stradone, non andare di traverso. È già Quando arrivarono, No ’ndi Fatz’Usu respirava fi-
piovuto molto». schiando. Il veterinario si fece dare un coltello e gli aprì un
Paulinu aprì il portone, poi tenne la cavalla per il mor- fianco per fargli uscire l’aria cattiva. Luisicu gridò breve-
so e disse piano a Luisicu: mente, poi ammutolì. Ziu Fadaricu gli mollò un calcio e
«Quello che è successo ieri, loro non lo sanno. Io la tutti lo guardarono. Aveva sempre addosso quel sacco di
spia non la faccio». orbace, i piedi scalzi e tremava come se ballasse. Ziu Anto-
Luisicu spinse la cavalla al trotto nel buio, sotto la nicu, il bastanti mannu, gli disse di tornare sulla sua stuoia,
pioggia. ma ziu Fadaricu ordinò, sempre arrabbiato:

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«Non gli fa male vedere la fine della sua opera». «Bravo, bravo», commentava il padrone. «Non c’è
Luisicu non staccava gli occhi dal bue morente. Il vete- male, incominci presto, tu, a buttarti dalla parte sbagliata.
rinario se ne andò dicendo che non c’era più nulla da fare, Non c’è male, non c’è male, incominci proprio bene».
e tutti restarono lì a vederlo morire come se fosse un cristia- Il figlio maggiore guardava Luisicu e rideva come un
no. Gli altri buoi muggivano e scalciavano impauriti. tonto.
«Così impari a metterti con quei pazzi, con gli scomu-
Dopo che il bue fu spirato, ziu Fadaricu portò Luisicu nicati, faccia di scemo!», concluse il padrone.
dal padrone, nella cucina grande. Il padrone era malato e
non era potuto uscire nelle stalle. Lo teneva informato il Era già da più di un mese che in paese stavano prepa-
figlio maggiore. Stava là davanti al fuoco del camino, in randosi per occupare le terre incolte dei Lampis, vicino al
mutandoni bianchi e mantello, attizzando e soffiando co- Riu Mannu. Terre buone, ma senza seme già da molto
me Lucifero. tempo prima che i Lampis se n’andassero a Roma, chissà
«To’», disse quando lo vide comparire, ancora coperto da quanti anni. Non se ne ricordava quasi più nessuno.
con quel sacco gocciolante, «nomini il molente, e subito La domenica prima i braccianti disoccupati avevano
presente!». Ma non rideva. fatto un raduno nella piazza del municipio e poi erano sfi-
«Sissi, su meri», rispose Luisicu, affascinato da quel lati con le bandiere, gridando:
grande fuoco di sarmenti. Ma il padrone non lo invitò ad «Pane e lavoro. Le terre a chi le lavora!».
avvicinarsi. Ma se quelle terre non le lavora nessuno, dicevano
«E adesso ci vai tu, quest’anno, alla fiera di Santa Lu- molti.
cia di Serri, a comprare un altro bue, eh? Oppure vuoi «Veramente», spiegava ziu Antonicu, «le terre le posso-
andare a quella di Isili, dove c’è più scelta? Ce li hai tu i no ottenere secondo la legge. La legge stabilisce che le terre
soldi?». incolte devono andare a quelli che non ce n’hanno e for-
«Nossi, su meri». mano una società, una cooperativa. Sono i capi dei comu-
«Certo che non li hai. Lo sai che ti devo scontare il nisti di Cagliari che li spingono a occuparle con la forza.
danno dalla paga dell’anno, disgraziato?». Se quelli non li incitano, i giornalieri di qua non si muo-
«Sissi, su meri». vono a fare queste cose».
«Adesso il bue morto bisogna venderlo per bassa ma- Sono partiti in più di duecento a occupare le terre dei
celleria. Tocca a te metterti d’accordo con un macellaio. Lampis. Volevano fare come quelli di Sa Zeppara, che
Sono affari tuoi. Se ne ricavi almeno quarantamila lire, avevano occupato le terre incolte, erano riusciti a compra-
può darsi che per pagare il danno ti basti la paga in natu- re anche un trattore e facevano scioperi alla rovescia.
ra e in denaro che ti spetta per quest’anno. Hai capito?».
«Sissi, su meri». Luisicu stava già sulla collina de Is Corongius, a semi-
«Stanotte sì che sei tutto sissi e nossi su meri, ma ieri al nare le fave con Paulinu, il bovaro di dodici anni. Era un
tuo dovere non ci hai pensato, eh?». terreno scosceso, una costera piccola che bastavano due
«Nossi, su meri». giorni a un giogo per riempirla di seme. Ziu Fadaricu, il
E Luisicu raccontò tutto per filo e per segno come era- capo dei servi, aveva incaricato lui e Paulinu: lui arava e
no andate le cose, pur di restare ancora in quel caldo. Paulinu gettava le fave a una a una nel solco, e ogni tanto

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una spruzzata di nitrato. Incarichi così importanti Luisicu Hanno staccato i buoi dall’aratro, li hanno legati al carrel-
ne aveva avuto quell’anno per la prima volta. Non era più lo e sono andati giù con la bisaccia delle cibarie. Quelli di
bovaro, l’otto settembre era stato ingaggiato come servo sotto li hanno ricevuti con grandi feste.
di campagna. Per questo durante la semina riceveva per- Ma la vera festa doveva incominciare.
fino un pezzo di formaggio, insieme col pane. Ma lui si Mentre stavano ancora mangiando, a un certo punto
portava anche un paio di fiammiferi per arrostire un po’ due che montavano di sentinella su due alture incomincia-
di fave insieme con Paulinu. Tanto le fave non le aveva no a sventolare i fazzoletti e a gridare. Stava arrivando la
contate nessuno a una a una. Poi, d’estate, quell’anno polizia. Alcuni dicevano di restare lì, fermi, a difendere i
Luisicu avrebbe mietuto, oppure avrebbe fatto il carrado- loro diritti su quella terra. Ma quando apparve un nuvolo-
re. Da quando era bastanteddu ziu Fadaricu non lo aveva ne di polvere e chissà quanti camion e motociclette, allora
nemmeno più preso a calci. molti si levarono e scapparono da tutte le parti. I poliziotti
Ma quella notte di calci gliene aveva dato una razione sulle motociclette correvano a zig zag sui campi duri non
da ricordarsene per quanto campava. ancora dissodati. Altri prendevano la gente e la buttavano
Luisicu e Paulinu stavano già sulla collina a seminare dentro i cassoni come se caricassero bestiame.
le fave, quando hanno visto arrivare tutta quella gente, Luisicu e Paulinu si trovarono la strada sbarrata. Lui-
con bandiere, cantando pieni di entusiasmo. Avevano due sicu ordinò al suo compagno di starsene lì fermo. A lui
gioghi di buoi e tre cavalli presi in affitto, per seminare i non avrebbero fatto nulla, era piccolo. Lui scappò verso il
ceci nelle terre dei Lampis. Monte. Voleva arrivare lassù e aspettare che tutto fosse fi-
Appena arrivati, divisa tutta la terra in quattro parti, nito. Poi riprendere a lavorare.
per segno di divisione hanno piantato le bandiere rosse e Un motociclista arrivò su una nube di polvere e gridò
tricolori. Sembravano a una festa, come quando si andava l’alt a Luisicu che scappò a correre disperatamente senza
al monte a portare la legna per il falò di San Sebastiano. voltarsi mai, finché non cadde come morto sul pendio.
Solo che c’erano anche le donne, che camminavano tutte Di sotto fu sparata una raffica in aria e Luisicu riprese
vicine, tenendosi a braccetto e cantando alla trallalero. la corsa.
Gli animali per arare erano pochi. Allora uno, per Quando si fermò, dall’altra parte del Monte, non sa-
scherzo, ha chiamato Luisicu e Paulinu che stavano lavo- peva dove fosse finito. Forse era uscito dal territorio del
rando sulla collina, e gli ha gridato di scendere con buoi e paese, verso Gesico? Ma la bisaccia l’aveva ancora con sé.
aratro a lavorare le terre del popolo. Ma loro non sono Tanto così non ricordava di essersi mai stancato, nem-
scesi, naturalmente. Se no, chissà che cosa sarebbe succes- meno due anni prima, quando era scoppiato l’incendio
so, col padrone e con ziu Fadaricu. Quel giorno dovevano del grano e lui aveva lavorato per più di dieci ore a spegne-
finire la semina su quel campo, che era a mezzadria col re, come se fosse stata tutta roba sua e non dei padroni.
padre di Paulinu. Quando riuscì a ritornare sulla collina dov’erano i buoi
Ogni tanto quelli di sotto li chiamavano. E li hanno e gli attrezzi, il sole stava già per tramontare. Sulle terre dei
chiamati soprattutto quando si sono fermati per mangiare Lampis non c’era più nessuno.
a mezzogiorno. Avevano portato del vino e stavano allegri. Paulinu lo stava aspettando piangendo sommessamen-
Allora Luisicu si è deciso, ha convinto Paulinu e sono scesi te. Lo vide arrivare e corse ad abbracciarlo. Disse subito
per mangiare il loro pranzo insieme con tutta quella gente. che nessuno lo aveva toccato. Ai poliziotti aveva detto un

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sacco di storie col suo italiano porcellino. Uno gli aveva Al sorgere del sole Luisicu si stava già avviando di nuo-
dato una sigaretta e lui ad alcuni il vino che gli occupanti vo verso la collina de Is Corongius, con Paulinu, per finire
avevano lasciato scappando. A un tratto si fece serio e triste di seminare le fave.
e mostrò a Luisicu il sacco delle fave da seme quasi vuoto. Tre giorni dopo tornò dal macellaio, che gli diede ven-
No ’ndi Fatz’Usu aveva rotto la corda, aveva raggiunto il timila lire e gli disse di portarsi via la carne vecchia, che già
sacco e se le era mangiate quasi tutte. Adesso aveva già la puzzava:
pancia gonfia. «Se fosse stato almeno sabato o domenica, o giorno di
Attaccarono i buoi al carrello e si affrettarono verso il festa», gli spiegò il macellaio, «si sarebbe potuto venderla
paese. Dovettero fare tutto il tragitto a piedi per non ap- quasi tutta, la carne. Ma così, dentro la settimana, anche
pesantire il giogo. La strada era come arata dai mezzi della se a prezzo di bassa macelleria, chi la compra la carne?».
polizia. I buoi faticavano a tirare avanti. Luisicu non disse nulla, intascò le ventimila e le portò
Il bue di destra, No ’ndi Fatz’Usu, si fermò alcune vol- subito al capo dei servi.
te e non voleva più proseguire. Sulla salita di Pedru Mur- Tornò a casa sua a prendere il somaro con le ceste, do-
riaxi il petto gli tremava come preso da attacco nervoso. po che ebbe tritato le fave in casa del padrone. Era già
Arrivati alla sorgente di Pitzianti, Luisicu bagnò il sac- buio pesto. Caricò la carne fetida e andò a seppellirla in
co vuoto delle fave e lo stese sulla groppa del bue gonfio. campagna, appena fuori dal paese. Riportò il somaro a ca-
Prima di entrare in paese tolsero via il sacco bagnato sa sua, lavò le ceste sporche alla fontana, conservò un cor-
dalla schiena di No ’ndi Fatz’Usu, perché la gente e poi i no del bue morto e si mise a letto.
servi a casa del padrone non capissero che il bue stava ma- «Non torni stanotte a casa del padrone, disgraziato?»,
le. Ci mancava solo questa. gli chiese il padre.
Quella sera non toccava a Luisicu dare da mangiare ai Luisicu non rispose perché stava aspettando che gli
buoi da lavoro. Era di turno a macinare le fave in magaz- venisse su il vomito. Quel giorno era la terza volta.
zino. E non disse nulla agli altri. Dopo quattro giorni che vomitava ogni volta che ten-
Appena poté, andò a dormire sulla sua stuoia nel de- tava di alzarsi, gli dava fastidio la luce e non riusciva più a
posito degli attrezzi e si addormentò subito. levare la testa dal cuscino, sua madre andò a chiamare il
Due ore dopo lo svegliò la tempesta di ziu Fadaricu. medico.
«Per me questa è meningite», disse il medico. «Andate a
Gli altri servi quella notte lo aiutarono a macellare il chiamare la macchina di Scarmonati e portatelo a Cagliari».
bue. Luisicu era morto di stanchezza, quando la mattina E scrisse il foglio per il ricovero urgente.
prima dell’alba andò a svegliare ziu Loi Carnazzeri per Mentre lo caricavano sulla macchina di Scarmonati per
contrattare il prezzo di vendita della carne del bue: portarlo all’ospedale, passò il padrone che tornava dalla cac-
«Io ti do tutto quello che ne ricavo, meno il mio gua- cia, con una bella fila di lepri che gli pendevano dalla cintu-
dagno», disse ziu Loi. «Porta qua in bottega la carne». ra e dalla sella del cavallo. Tolse una quaglia dal carniere e la
Luisicu andò a casa sua a prendere il somaro per tra- diede alla madre di Luisicu, quasi senza fermare il cavallo.
sportare la carne. Quando suo padre lo vide e seppe cos’era «Se non guarisce presto, questo scriteriato ci perde l’an-
successo, si mise a gridare che sembrava un «maiale punto». no» disse come se stesse salutando.
La madre gli preparò il somaro con due ceste sul basto. «Deus si ddu paghid» gli gridò dietro il padre di Luisicu.

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Lo stesso giorno che in paese tornarono di prigione gli TRENT’ANNI DOPO
arrestati per l’occupazione delle terre, con loro tornò an-
che Luisicu, dentro una bara di zinco.
A Cagliari certuni avevano fatto una colletta per paga-
re bara e trasporto.
Quel giorno in paese stazionavano, come per caso o
di passaggio, autoblindo e camionette della Celere, che se Eugenio per certe cose ha memoria tenace, e gusto per
ne andarono senza far troppo rumore quando fu buio. le belle frasi che riassumono i grandi avvenimenti. Gli av-
Da Cagliari, cogli arrestati accompagnati da alcuni di- venimenti belli e brutti degli anni duri del dopoguerra li
rigenti di città, arrivò anche la maniera nuova di raccon- ha tutti ordinati secondo una sua gerarchia di importanza.
tare la storia della morte di Luisicu. E per tutti ha il suo frasario, fatto di brandelli dei discorsi
Luisicu si era ammalato alla testa di quella malattia di allora, cuciti insieme dalla sua passione.
mortale dopo le manganellate della Celere sulle terre dei Quelle parole pronunciate trent’anni fa dal dirigente
Lampis, mentre presidiava con gli altri contadini le con- venuto di città, davanti alla bara di Luisicu avvolta nella
quiste legittime del popolo e si opponeva alla prepotenza bandiera rossa, ieri sera se le ricordava bene, a modo suo.
poliziesca. E le ha ripetute tutte, per dare forza alla sua proposta,
Per questo al funerale non c’era molta gente. Solo perché altri sembravano non capirne il significato.
quelli che stavano dalla parte di ciò che significava ormai Il problema era di dare nomi nuovi a strade nuove del
la morte di Luisicu. paese, nomi dei capi delle lotte popolari, nomi della resi-
Il prete fece funerale svelto. stenza, nomi del rinnovamento.
Appena il prete se ne andò dal cimitero con la confra- La proposta di Eugenio era di dare a una strada il no-
ternita, uno degli arrestati tirò fuori una grande bandiera me di Luisicu, che è morto giovane nella lotta per le terre.
rossa e l’avvolse intorno alla bara di Luisicu. O che almeno bisognava chiamarne una con la data della
Il padre di Luisicu piangeva come muggendo aggrap- prima occupazione delle terre dei Lampis: via Ventotto
pato alla bandiera rossa. Settembre. Non c’è forse in molte città una via Venti Set-
Un dirigente venuto da Cagliari parlò del sacrificio di tembre? E che cosa è mai questo Venti Settembre?
Luisicu. Parlò poco perché si mise a piovere. Disse della «Lascia perdere» ha detto uno studente.
vittima del braccio armato dei padroni assenteisti. E ter- «Già, perché nemmeno tu lo sai. Ma questa data del-
minò dicendo che sulla tomba di Luisicu bisognava pian- l’occupazione la devono sapere tutti, se la scriviamo su
tare i primi garofani rossi della Trexenta, perché il martirio una targa di una via».
oscuro di Luisicu sarebbe stato seme per la crescita della «Ma come diavolo la chiamiamo questa strada, secon-
coscienza dei contadini e dei braccianti del suo paese. do te, la chiamiamo Via del Martirio Oscuro?» s’è messo
a gridare Augusto col suo vocione da sergente.
Efisio, il segretario della sezione, per sdrammatizzare
ha cercato di spiegare che in fondo questa del Martirio
Oscuro non era una cattiva idea.
«Mi pare che suona molto bene» ha aggiunto Eugenio.

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«Già, e anche molto comunista, come quell’altra via Si è fatto un poco di silenzio e quasi di raccoglimento
di Roma» s’è rimesso a predicare Augusto, sogghignando solo quando Paulinu, il bovaro che aveva dato il sacco di
perché lui è socialista. orbace a Luisicu, ha detto che a lui la proposta di Euge-
Efisio ha cercato di riprendere le redini della discus- nio sembrava giusta e non esagerata. Forse che i democri-
sione, per non lasciare l’iniziativa alla foga di Eugenio: stiani non hanno proposto di dare a una via il nome di
«Qui il problema principale è di riuscire a trovare di Maria Goretti? Che differenza c’è tra Maria Goretti e Lui-
comune accordo quattro nomi che richiamino momenti e sicu Pistis?
idee progressisti. State tranquilli che i nostri avversari i lo- Ma Augusto ha ripreso per primo a fare casino. Così
ro nomi bigotti e reazionari li hanno già tutti pronti. E si- alla fine non è passata nemmeno la proposta di Via Ventot-
curamente non hanno bisticciato per la scelta». to Settembre. In estremis Efisio ha tentato con molto tatto
«Per forza, con tutti i santi che hanno» ha detto uno. di riguadagnare il terreno fatto perdere da Eugenio con un
È ritornata la concordia nell’antipatia per l’avversario. bel predicozzo sull’istinto di classe, fase iniziale della co-
Eugenio è tornato alla carica. scienza di classe, con riferimento a Luisicu.
«Io non ci sto. Punto e basta. E che siamo, al paese di Il colpo di grazia lo ha dato Carmelo, il professore di
Don Camillo?» gridava Augusto. lettere siciliano, che a un certo punto se n’è andato dicen-
do che era stufo di tutta quella agiografia rusticana.
La proposta di dare a una via del paese il nome di Lui-
sicu Pistis, Eugenio l’ha fatta di punto in bianco, senza Così, anche ieri sera è finita colla millesima replica del
concordarla prima cogli altri, quando è diventato chiaro racconto di quei giorni di settembre di quasi trenta anni fa.
che stentava troppo a passare la proposta di dare il nome di Era già notte alta quando ziu Barra, accompagnando
Via Ventotto Settembre a una delle vie nuove. Quello è il il segretario a casa, brillo, ha finito di raccontargli davanti
giorno più importante dell’occupazione delle terre, quando al portone come fischiavano le palle di fucile tra gli ulivi,
Luisicu scese dalla collina per mangiare cogli occupanti. la notte che alcuni proprietari avevano tentato, di nasco-
Come al solito Eugenio ha peggiorato la situazione sto, di tracciare un solco tutt’intorno a certe loro terre in-
con la sua foga. colte da millenni, per dimostrare che le coltivavano.
Il segretario aveva fatto una bella introduzione alla
proposta, che comprendeva anche una Piazza Antonio
Gramsci, subito accettata, e una Via Giuseppe Di Vittorio
riuscita in salita anche nella discussione. Efisio nella sua
relazione aveva citato Gramsci sulla necessità di contrap-
porre lo «spirito di scissione» al «complesso formidabile di
trincee e di fortificazioni della classe dominante», a «tutto
ciò che influisce e può influire sull’opinione pubblica di-
rettamente o indirettamente…: le biblioteche, le scuole, i
circoli e clubs di vario genere, fino all’architettura, alla di-
sposizione delle vie e ai nomi di queste…».

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COMPONIMENTO è restato sempre chiuso anche per i giochi di noi ragazzi-
ni. E la stuffa dell’ammulatorio non l’hanno accesa mai.
Certamente la popolazione sarda è aumentata un poco
grazie agli sforzi personali dei presidenti regionali ma ve-
ramente non è diventata più benestante, anzi s’è ne anda-
ta via per guadagnarsi il pane in altri posti lontani dall’al-
Nuraddei, 23 aprile 1969. tra parte del mare e fuori di stato.

Pistis Orlando, terza b,


Scuola Media Statale G.M. Angioj.

Tema

«Nel ventennio di concreta esperienza dell’autonomia


regionale la nostra Isola si è trasformata profondamente
sotto i più importanti punti di vista. Porta qualche esem-
pio di cui sei stato testimonio».

Svolgimento

Della regione sarda se ne dicono di cotte e di crude,


io ne voglio dire una nuda e cruda e senza tanti affreschi.
Molti anni fa quando io avevo solo sei o sette anni a Nu-
raddei è arrivato il presidente regionale assieme al vescovo
per dare la benedizione all’inaugurazione del matatoio co-
munale e anche del ammulatorio che era vecchio ma ci
avevano fatto il riscaldamento con una stuffa bella di ter-
racotta colore brocca nuova. Il presidente regionale era al-
to moretto e coi baffi neri e ha detto davanti a tutti che il
matatoio era una presa di misura per igiene e il riscalda-
mento nell’ammulatorio era un ristorante per le povere
malate e per il dottore. E siccome siamo in tempi di con-
testazione studentesca io mi rischio a scrivere una cosa
che di sicuro non mi fa vincere il premio della regione per
il tema scritto meglio. Io dico che sono passati quasi dieci
anni e nel matatoio non hanno ammazzato mai nessuno,

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PESCA DI FRODO Il fatto però era semplice. Paolo Aramu la notte pri-
ma aveva ucciso una guardia giurata dello stagno, Anti-
mo Piras, che se ne stava di là nella lolla dentro una bara,
fatto a pezzi dai dottori. Questa era la notizia, e non c’era
nulla da aggiungere. Era chiaro che Paolo Aramu era sta-
to colto a pescare di frodo. I giornali scrivevano e inven-
Poca gente è andata in visita a casa del morto, anche tavano, di provocazione, di legittima difesa, di abuso di
se era morto giovane e morto di disgrazia, ammazzato per potere, di cose che presto o tardi dovevano succedere di
sfortuna. nuovo. Sta a vedere che finisce che la colpa di tutto se la
La casa è quasi fuori del paese, delle più vicine allo prende il morto e il re di Spagna. Ma Paolo Aramu è no-
stagno, di quelle ancora segnate dall’acqua dell’alluvione to abusivo, e testa calda. Antimo Piras lo voleva fermare,
del dicembre del Sessanta, l’anno del subbuglio per la leg- sequestrargli il carico di muggini pescati di notte nello
ge regionale trentanove. stagno. Tanto più grave se si trattava di novellame preso
A casa del morto c’è andato più il ricco che il povero, vicino al canale, o nel canale, come ha detto Paolo Ara-
persino il sindaco nella sua qualità, e altre autorità, per co- mu ai carabinieri.
se della giustizia e per cose loro, di gente che mangia dello
stagno. L’unica cosa strana era che Paolo Aramu si era presen-
In mezzo alla lolla c’era la bara con dentro il morto. tato lui di persona alla casa di peschiera, con il morto in
Dentro la bara e tutto coperto, perché gli avevano fatto spalla, e al capo guardia, al pesargiu e a tutti quelli che sta-
l’autopsia, si vedeva solo il volto, nero come quelli che vano in peschiera aveva detto una cosa che nessuno dei
muoiono asfissiati. Poche donne giravano piangendo per servi di peschiera e dei pescatori a contratto e delle guardie
casa, altre si davano da fare. Un bambino dormiva dentro giurate, radunate lì nel cortile davanti a commentare, ave-
una carrozzella vecchia, fuori nell’orto sotto il fico. va voglia di ripetere. Ma tutti ce l’avevano fissa dentro il
Certuni, fatta la visita e date le «pazienze» alla vedova e cervello quella cosa che aveva detto Paolo Aramu scarican-
ai parenti, si fermavano nel cortile davanti, guardie giurate do il morto sui gradini della casa di peschiera.
colleghi del morto, servi di peschiera e pescatori a contrat-
to. Gli altri uscivano dalla lolla e se n’andavano, senza fer- Verso mezzogiorno è arrivata la vecchia zia Daffina
marsi con quelli che facevano gruppo nel cortile davanti e con un pentolino sotto il grembiale:
parlavano tra di loro: «Prendi, figlia, che Dio ci paga tutto» ha detto alla fi-
«Ancora non l’hanno portato a Oristano Paolo Aramu». glia maggiore del morto, mettendole il pentolino in mano,
«Quello si busca galera a vita». in un angolo della lolla. E non s’è fermata nemmeno a di-
«Fucilarlo bisognerebbe» gridò quasi il capo delle guar- re le orazioni al morto, perché in quel momento c’erano
die dello stagno, che a ogni ripresa del processo contro gli in visita quelli venuti da Oristano. Se n’è uscita più china
abusivi è sempre il supertestimone, come scrivono i gior- di quando è entrata, senza dare le spalle al morto e a quelli
nali. Ogni volta ha testimoniato anche contro Paolo Ara- venuti da Oristano.
mu, che prima stava nella cooperativa buona e poi si è «Bisogna dare garanzie a questa gente, che cose così
messo a capo di quella degli scioperanti e degli abusivi. non capitino più» ha detto uno di quelli di Oristano,

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rivolgendosi al sindaco che li accompagnava. Il sindaco Il vecchio s’è fatto più indietro:
ha fatto di sì con tutto il corpo. «Io ero là l’altra notte» ha detto senza guardare in fac-
«Bisognerà provvedere a dovere» ha detto un altro de- cia il giornalista.
gli oristanesi. Al giornalista è mancato il fiato e ha messo in tasca
I dipendenti di peschiera e i vagantivi dello stagno penna e libretto:
sono entrati in molti dietro quelli venuti da Oristano, e «Anche voi eravate là a pescare di frodo?».
mormoravano minacciosi dietro il sindaco. Il capo delle Il vecchio lo ha guardato, e s’è fatto ancora più indie-
guardie giurate ha fatto due passi avanti e ha detto a voce tro verso la porta della cucina, a testa bassa e mani dietro
più alta di tutti, rivolto a quelli di Oristano: la schiena.
«Io lo sapevo che un giorno o l’altro quel Paolo Ara- «A pescare di frodo? A pescare stavo, fuori stagione,
mu doveva arrivare al sangue. Gli cuoceva la galera che ha perché sono bogheri, e la stagione del bogheri è finita, que-
fatto per pesce rubato». st’anno. A pescare stavo, e ho visto tutto, con questi occhi
Questo l’ha detto chiaro, davanti al morto, e la vedova da vecchio, anche se non c’era luna».
ha ricominciato a piangere forte. Lo ha detto chiaro anche Il vecchio bogheri è entrato in cucina, nella cucina del
perché aveva riconosciuto tra i presenti un giornalista, e morto, e il giornalista dietro:
per dire la sua davanti a quelli venuti da Oristano. Ma tut- «Sono parente stretto qui. Sono lo zio del morto, buo-
ti sono stati zitti, meno la vedova. nanima» ha detto offrendo una sedia al giornalista.
Solo un vecchio ha mormorato, proprio dietro il gior- E seduti l’uno di fronte all’altro nella cucina del mor-
nalista: to, il vecchio gli ha raccontato il fatto, come lui l’aveva vi-
«Ma guarda che cosa si deve sentire da certe bocche», sto. Aveva visto e sapeva tutto.
e il giornalista si è voltato a guardarlo. Solo una cosa non sapeva il vecchio, perché il nipote
«Voi non siete d’accordo con quello che dice il capo quella notte fosse andato in perlustrazione da solo lungo
delle guardie?» ha domandato al vecchio. lo stagno, e non almeno in coppia, come usano le guardie,
Il vecchio l’ha guardato un poco e non ha risposto specialmente nelle notti senza luna. Ma su tutto quello
nulla. che ha raccontato c’è da credergli, perché uno zio non par-
la a sfavore del nipote morto ammazzato, nella cucina di
«Uno a un certo punto è pieno e ci vuole poco a farlo casa sua, seduto al tavolo dove con moglie e figli ha fatto
scoppiare, come è scoppiato Paolo Aramu» ha mormora- la sua ultima cena.
to più tardi il vecchio, ancora alle spalle del giornalista, Chi è Paolo Aramu nel paese lo sanno tutti, come lo
fuori nel cortile davanti, mentre il giornalista stava facen- sanno a Riola e a Santa Giusta e a Marceddì, e la giustizia
do domande a quelli di Oristano e annotava le risposte in di Oristano e tutti quelli che mangiano dallo stagno. Per-
un libretto. ché Paolo Aramu, quello che ha ucciso la guardia, è stato
Il giornalista si è sbrigato con le sue domande e con la per molto tempo pescatore a contratto, sciaigoteri; i padro-
sua scrittura, è uscito fuori dal cerchio di quelli che stava- ni non gli hanno rinnovato più il contratto, da quando si è
no coi venuti da Oristano: messo a far funzionare una cooperativa nuova, per arrivare
«Voi sembrate saperne molto su questa disgrazia» ha al riscatto dello stagno secondo la legge trentanove. Per
detto al vecchio, con aria d’intesa, a voce bassa. questo è uno che ride poco. Si sa come queste cose sono

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andate a finire qui. Per non cedere, i padroni preferiscono dopo aver pescato chissà dove: per Antimo Piras poteva
chiudere uno o anche due occhi sugli abusivi, tanto per anche essere stato in mare vivo a pescare quel cesto di
non far succedere quello che è successo anni fa, e conti- muggini che portava sul portapacchi della bicicletta.
nuare a tenersi lo stagno. Ma chi può decidere chi è che Antimo Piras si è piantato in mezzo al sentiero e ha
pesca di frodo? Nemmeno i giudici in dieci giudizi sono gridato senza togliere gli occhi dal cesto di pesci:
riusciti a stabilirlo. Le guardie ci sono, ma anche loro chiu- «Scarica e lascia tutto per terra».
dono un occhio, uno solo, tanto perché non si possa esa- Paolo Aramu si è pulito il sudore col dorso della ma-
gerare, dicono loro. Solo che questo nipote del vecchio era no, senza smettere di spingere la bicicletta:
uno che ci credeva troppo al suo mestiere. Lo faceva solo «Se invece di gridare saluti come si deve, dopo forse
da quattro settimane, era una recluta, sapeva solo il regola- si può anche ragionare, non ti pare anche a te, Antimo
mento, nessuno glielo aveva ancora interpretato bene. Piras?».
E Paolo Aramu è uno che fa presto a fare occhi di «Scarica ti dico, Paolo Aramu, altrimenti c’è anche de-
fuoco. È ancora troppo giovane per aver già preso l’abitu- nunzia».
dine di inghiottire ogni torto. Quattro anni fa, i padroni «Lascia passare, non fare il fanatico, Antimo Piras.
a Paolo Aramu non gli hanno rinnovato il contratto, pro- Non sarai tu a proibirmi di andare per questo sentiero fi-
prio la settimana che si doveva sposare, come regalo di no a casa mia, stanotte».
nozze, e per fargli capire che per il primo figlio non era il La guardia ha fatto un gesto, verso la pistola, ma si è
caso che cercasse uno di loro per padrino. contenuto:
Ma il morto era uno anche più disgraziato, che capiva «Ricordati che in galera ci sei già stato. Scarica, e poi
poco di come sono gli uomini, specialmente i pescatori, vai dove ti pare, lontano dallo stagno».
perché era stato contadino, ma capiva troppo di come de- Paolo Aramu ha levato il capo alla luna, che un poco
ve essere una guardia dello stagno. Qualcuno gli aveva si stava mostrando prima di tramontare, e gli occhi gli so-
riempito la testa col bisogno e col dovere di stare attenti, no diventati di brace. Si è fermato, appoggiato al manu-
di essere duri con chi si fa prendere in flagrante. E il capo brio. Ma ha detto solo, conciliante:
delle guardie, per farsi vedere di fronte ai padroni, fa co- «Lo sai anche tu, Antimo Piras, che i pesci li ho pe-
me se fossimo come dieci anni fa, ai tempi del subbuglio. scati dove Dio li ha messi per chi fa la fatica di prenderli».
Ogni volta che parlava il capo delle guardie, questo «Non preghiamo lo stesso santo, noi due. Io so il mio
poveraccio morto faceva tre volte di sì con la testa, prima dovere, tu non sai il tuo. Con me, lo devi rispettare. Scari-
che quello terminasse di parlare, e poi diceva che era giu- ca, ti dico».
sto. Diventare guardia lo credeva la sua fortuna. Disgrazia Paolo Aramu ha ripreso calmo a spingere la bicicletta,
ha voluto anche che le altre guardie lo hanno messo su spostandosi verso il ciglio del sentiero. Antimo Piras ha
contro Paolo Aramu, e Paolo Aramu le cose non le man- perso i sentimenti:
da a dire e nemmeno a fare. «O scarichi qui e subito, o scarichi in caserma, coi fer-
ri» ha gridato.
Antimo Piras, che se ne stava là, dentro la bara col viso In quel momento bisognava vedere, per capire chi è
nero, l’altra notte verso le tre era ben sveglio e fresco, Paolo Aramu e chi era Antimo Piras. Paolo Aramu è forte
quando faceva la posta a Paolo Aramu, che tornava a casa, come un bue e alto come un cipresso.

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«Rimaniti con Dio, Antimo Piras, e buon lavoro per ARRICHETTEDDU
il resto del tuo servizio. Lasciami passare» e gli è passato
vicino a testa alta, spingendo nel fango la bicicletta pesan-
te del carico di muggini.
Antimo Piras ha allargato le gambe attraverso il sentie-
ro e ha fatto per togliere la pistola dal fodero.
«Stai attento con l’arma, Antimo Piras» gli ha detto Candu calencuna borta sa genti indi chistionad, custu-
Paolo Aramu passandogli a fianco, voltandogli le spalle nel mad a nai ca Arrichetteddu fìad distinau, ca hìad arratzau
suo cammino. a sa familia de sa mamma: tresi tzius mudus e una tzia
Questo è stato lo sbaglio, dargli le spalle. Antimo Pi- macocca, su mesu futus e su mesu faddius.
ras ha sparato un colpo che voleva essere in aria. E invece Arrichetteddu puru, de cosa futa chi parìad, cumprìus
ha ferito di striscio la spalla di Paolo Aramu. is dex’annus si faid un’annettu de spidali. Malacadupu,
Ma la guardia non ha potuto fare altro, perché già Pao- hìant nau sa genti, sa propiu cosa de is fradis de sa mam-
lo Aramu lo teneva stretto al collo con la destra, e con la si- ma. De spidali indi torrad biancu che su nenniri, is ogus
nistra gli fermava la mano armata. Dopo un poco Antimo sentza luxi, a lingua impastada, cun is sentidus de unu
Piras è crollato a terra come un sacco, tra gli stivaloni di pipìu de cinc’annus. Scimpru non si podid nai, cumenti e
Paolo Aramu, con gli occhi puntati verso un luogo vago. una criatura crèscia sa metadi de s’edadi sua. Ammanniau
Dalla spalla ferita di Paolo Aramu il sangue gocciola- a crastu e pagu o nudda a conca.
va sul caduto. «A istadu ’onu mi ’ndi se’ torrau, fillu miu» hìad nau
Ha lasciato lì bicicletta e pesci sparsi sul sentiero. Pao-
sa mamma a sa essida de su spidali. «Scimmillottau mi
lo Aramu si è caricato il morto sulla spalla ferita e ha pre-
dd’hanti ’n Casteddu custu fillu».
so la strada verso la peschiera, a passo buono.
E su babbu: «Mancai ti dda pòngia sa fracci ’n manu’
È arrivato alle prime luci. Il guardiano di turno gli ha
dato l’alt. Ma lui ha proseguito oltre il portone, fino alla custu istadi, ge’ ses a postu, scedadeddu» hìad nau sa di’ chi
casa dell’abitante, fra i latrati dei cani infuriati. E quando si ddu hìad biu beniu a su sartu, a in ca fìad pascendi, po
a quello strepito il pesargiu e il capo guardia sono usciti ddi portai pani e ingaùngiu po fintzas a sa di’ de quindixi.
dalla casa di peschiera, Paolo Aramu ha posato piano il E sa di’ de quindixi su babbu de Arrichetteddu fùrriad
morto sui gradini, ai piedi del capo guardia. Lo ha guar- a bidda e àndad a domu de su meri suu a pregontai, a bor-
dato in faccia e allora ha detto quella cosa che nessuno tas no dd’hessid pigau in accordiu po fai calencuna cosa.
dei dipendenti di peschiera vuole ripetere: «Dd’heus a provai» hìad nau su meri. «Podid èssi’ chi
«Chi può prendere in peschiera non fa buona pesca àndid beni po fai su boinargiu custu ’eranu. Su tempus
nello stagno». had a èssi maìstu».
Arrichetteddu, cun su tempus, in cantu a traballu fìad
Questo ha raccontato il vecchio. E quando poco dopo su mellus de tottus, sendu a essiri cun is atrus. A no ddu
è entrato in cucina il capo guardia cercando fuoco, il vec- firmai, sighìad sempiri sentza mancu s’accinnu a s’abarrai.
chio non l’ha nemmeno guardato, ha tolto di bocca il si- Palas gei ’ndi portàda, mancai no hessid tentu conca meda.
garo e se l’è rovesciato a fuoco dentro, resistendo alla vo- E toccànt’ a issu sempiri is fainas prus bàscias e traballosas.
glia di sputare, per rispetto al giornalista. In domu de su meri, s’arti de pinnigai donnia merda, de

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pratza e de is istaddas; in su sartu, s’arti de su molenti, a No est ch’in sa bidda hessid fattu burdellu meda, sem-
tragai donnia pesu; a s’ora de pappai, s’arti de su brentuxu, piri in domu de su meri cumenti fìad. Ma una cosa dda
donnia arrefudu po issu, e prexau puru ca indi ddi toccàda. scirìant totus: sa timoria manna chi tenìad Arrichetteddu
Tottus a ddu cumandai e issu a tottus a ponni in menti. po is motociclettas e po is divisas militaris. Bai e circaddu
Su meri naràd’ ca ddu tenìad po caridadi, casi ca no e poita. Cosa chi si fìad postu in conca.
portàd’ sali in conca. Ma Arrichetteddu fadìad su traballu Una borta sceti hìad fattu abarrai genti meda timen-
de tres ominis, candu fìad controllau, o si nou indi fadìad di, sa di’ fìad artziau fintzas a sa punta de su campanili a
de prus puru. indi spiccai unu niu de tzrapadderis. Insandus tenìad giai
dixiott’annus e si spassiàd’ ancora cumenti e is pippius
Su spassiu suu fìad sa musica. Sempiri chiriellendi o notzentis.
murrungendi cumenti a unu gattu pappendi prumoni, Arribau a pitzus, bai e circa e cumenti, ddi pigad sa
donnia cosa chi hessid fattu. Prus de tottu ddi praxìad a tremuina, s’imprassad a sa gruxi e no si cinnid prus. De
cantai muttettus, ma scirìad puru cantzonis a sa moda: indi calai a basciu, mancu sa idea. Sa genti a itzerrius e
Luna rossa, poi Verde Luna (sa canzoni chi cantàd’ Rita certunus accapiendi cun funis scalas a pari. Tziu Barracel-
Egua in Sangue e arena s’annu chi hìant fattu su cinemato- lu, guardia comunali e interramortus, artziad a su popoli-
grafu in pratza de sa cresia sa di’ de Santa Maria de Aùstu), nu de cresia po apporri una funi a Arrichetteddu. Aicci
cosas de cresia cumenti e su Santumergu e tottu is arratzas dd’hessid fattu luegus. Apenas chi Arrichetteddu appùbad
de Itemissaest, de sa prus curtza de sa missa de mortus a sa cuss’omini in divisa, mancu ddu càstiad e s’indi strobèd-
prus longa de sa missa de pasca manna, cun tres alleluias; e dad che unu fusu, scarèscid sa timoria, ind’arrùmbulad a
acciungìad sempiri su Deogratias. A richiesta, Arrichetted- bàsciu cumenti e una calixerta e fuid facci a su sartu cu-
du movìad a ogus serràus: candu cantàd’ no arrescìad nim- menti e unu lèpiri.
mancu cun su fueddu. Hìad a timi, poberiteddu! Tziu Barraccellu andàd
Ma sa cosa chi ddi prazìad de prus, birendi is arterus sempiri in divisa cun d’un’imponentzia de coronellu a
arriendi intendendiddu, fìad a cantai sa torrada de is gog- pitzus de sa moto Guzzi de su comunu. E po brullai, si-
gius de sa cenabura santa: «Sa mamma, sa mamma, dolo- gund’issu, a Arrichetteddu ddu fadìad sempiri a timi.
rida; su fillu, su fillu, crucefissau», ma issu dda strupiàd’ Cuaddu friau sa sedda si timid.
aicci: «Sa mamma, sa mamma, conca frida; su fillu, su fil- Duas dis apustis is carabineris de su cuartieri de Mandas
lu, scurtzu e pisciau». De cancunu contzillau, strambeccu dd’agàtant in su sartu de Gesigu, dormiu a s’umbra de una
e fragellau, ma issu prexau che unu puxi. matta. Is carabineris indi ddu sciumbuliant a furconadas de
Donnia dominigu e di’ nodida s’hìad pigau s’incarrigu pei e Arrichetteddu circad de si fuiri, disisperau, poi s’inge-
de tirai is marcis de su suadori de s’organu de cresia a sa nugad a manus giuntas in su pettus e si ponid a pregai:
missa cantada. Una borta su sagrestanu dd’hìad tzaccau «Sinniora giustitzia mia bella, no ddu fatzu prusu. Giu-
una bella bussinada, poita ca fìad certendi cun piciocched- ru ca isi tzrapadderi’ de su campanibi ddusu lassu ’n paxi».
dus prus piticus, gherrigendi po biri a chi toccàd a tirai is A bortas, candu fiant traballendu in su sartu, calencu-
marcis de s’organu. E Arrichetteddu, po tìrria, hìad lassau nu po giogu fadìad:
s’organu sentza de suidu giustu a tretu de mesu de su Glo- «Ssst, citei pagu pagu: intendiu? Motocicretta’ de cara-
ria de sa missa de s’Arrimediu. bineris».

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E Arrichetteddu fuìad a sa disisperada a si culai in me- Arrichetteddu a custu fillu piticu de su meri ddu timìad
su de su trigu o a palas de unu muru a bullu. che su dimoniu, poita ca fìad sempiri a trevessu a moto-
Ma in su traballu no tenìad bisongiu de nisciunu con- cicletta.
trollu. Scetti in s’ora de pappai e buffai toccàd a donai at- E su merixeddu studenti a pagu a pagu arrennescid a
tentzioni chi no s’hessid alluppau cumenti e unu pipiu si fai donai cunfiantza de Arrichetteddu poberittu, e in fi-
suendi. Candu tenìad sidi fìad capassu de si buffai tottu nis a ddu cunbinci ca sa piciocca romana fìad inamorada
s’acqua de su barrili po cincu cristianus. de issu, de Arrichetteddu. Fattu fattu su merixeddu circàd
Tontidadis si podid nai ca no ’ndi naràd’ e ca no ’ndi a Arrichetteddu in sa pratza de is bois e fadìad cumenti
fadìad. Una vera tontidadi Arrichetteddu dd’ìad narada sa chi ddi hessid portau novas de parti de sa romana:
di’ chi si fìad mortu su babbu: «Oi puru sorresta mia ti faid isci’ ca ti pentzad e ’oid
«Mottu babbu e mobent’ angiau: no heus ni pedriu ni isci’ chi tui puru dda pentzas» ddi naràd’ seriu cussu fra-
guadangiau». gellau, maschingannas.
Difattis, sa notti e tottu sa molenta insoru hìad angiau A mengianu chitzi, apenas chi s’indi pesàd’ po is bois,
e fìad mortu su babbu. Arrichetteddu andàd’ a iscusi in su giardinu de sa meri, in
Sintzillu che pipiu, tottus a s’ind’approffittai, poita ca sa pratza de aranti, e furàd’ unus cantu froris, arrosas e
ponìad in menti che unu cani e traballàd’ che unu burrincu. gravellus, e poi muru muru artziàd’ a susu fintzas a sa ven-
«Tottu ddu fatzu?» domandàda. E fadìad sempiri tottu tana de sa romana, a ponnir is froris aranti de is birdis.
su chi ddi narànta, po una stoia in sa domu de is aìnas e Una di’ a maigama Arrichetteddu fìad in s’ortu man-
unu mussiu de pani, sentza de una vera paga, cun sa scusa nu a palas de s’acorru de is brebeis, cumandau de su sotzu
ca su meri ddu tenìad po caridadi. a fai sonu cun d’una lamiera po isciuidai is pillonis a largu
de s’ortalitzia. Alloddu su merixeddu studenti, arrisu frassu
Un’annu, in s’istadi, giai passaus is bint’annus, Arri- e manus in busciacca:
chetteddu tottu in d’unu si faid cumenti a un’arteru, cu- «Oioi, Arrichetteddu, tui scoffau che predi! Arrenne-
menti chi fessid camibau, e s’ogu puru incumentzad a ddi sciu ci sesi. Sorresta mia m’a’ nau a di fai sci’ ca ti ’oi’ bi’».
luxi. Una piciocca, neta de su meri, fìad benida de Roma a Arrichetteddu si faid seriu.
passai is vacantzas in bidda. E Arrichetteddu, de su primu «Ti ’oi’ chistionai, t’appu nau, tontatzu! Femminarxu
momentu chi dda biri, abarrad a bucca aberta, incantau, e mau sesi. E’ macca de tui».
de sa di’ a circai donnia modu po dda biri, sa piciocca Arrichetteddu no arrespundid nudda, imbriagu perdiu
continentali de sex’annus, is ogus birdis e is pilus de oru. de cuntentesa.
Una borta arrennescid a si ddu accostai, a sa romana, e «Peus po tui si no mi creis, machillottu. Gras a meri’
si ponid a fai una specie de dantza tottu a giru de issa, can- issa t’aspettad innoi in s’ortu mannu, accant’ ’e sa matt’e
tendi unu chirielleisòn, e parìad in puntu de si bolai. Acaba- sa figu manna. Po ti chistionai, apustis chi ha’ allichidiu sa
da sa dantza, artziad a pitzus de unu murixeddu e spiccad lolla e is istaddas».
unu lillu aresti de un’arratza chi ddui crescìad a cresura. Arrichetteddu citiu, ma sentza perdi unu fueddu de su
Ma po disgratzia sua, de cust’amori de Arrichetteddu merixeddu.
s’ind’est acatau su fillu minori de su meri, studenti in Ca- Su mericeddu infattu faid allestru su doveri suu, a
steddu e insaras issu puru in bidda in tempus de vacantza. iscusi andad a domu sua, si pulid, si pettonad, si ponid sa

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bistimenta bona de fustainu e sempiri a iscusi ci torrad a L’ESORCISMO
domu de su meri, si ponid aintru de sa domu de sa palla
’e faa e aspettad chi tottus s’arretirint in logu issoru.
Fìad unu grandu lugori de luna prena candu Arrichet-
teddu ind’est bessiu in sa pratza de is bois, cun in manus
tres gravellus biancus. Intrad in s’ortu mannu e impunnad
a sa figu manna, a bellu, cumenti chi hessid tentu timoria. Meglio di tutti la storia del furto a Chettu Marrocu la
In su puntu de oberri bucca po tzerriai sa romana, de conosce ziu Loi Petza. Nell’azienda di Chettu Marrocu è
a palas de sa matta lompid unu stragatzu mannu de mo- entrato a lavorare a undici anni, e ci ha fatto più di cin-
tocicletta ponendi in motu, a isperrai sa paxi de su lugori. quant’anni, trenta come capo dei servi di campagna, col
«Alt, polizia! Fermo dove sei!» tzerriad una boxi. grado di sotzu. Quando è successo il furto ziu Loi era sot-
Arrichetteddu s’allullurad e fuid disisperau. In s’intenis zu, subito dopo questa guerra, comandava a cinque servi
chi sa boxi de su merixeddu studenti fìad sighendi a itzer- fissi tutto l’anno e a molti giornalieri. Comandare è la pa-
rius, issu sartad su muru de s’ortu e poi a tottu fua facci a rola giusta, perché sapeva ordinare e fare rispettare gli ob-
su sartu. blighi di tutti sotto di lui.
Su merixeddu ddu sighid a motocicletta, ddu ponid in Di questi servi di campagna, due erano giovanottini
fattu cun s’arroda in carronis, sempiri aboxinendi. sui diciotto, quell’anno del furto. Il padrone e ziu Loi era-
Poi su merixeddu s’est fadiau e dd’had lassau andai. no contenti di Seppi e di Ceccu, buoni lavoratori, pensie-
Po sa notti e po sa di’ infattu Arrichetteddu no si bid ri grossi non ne davano mai. Ma loro, sotto sotto, aveva-
e mancu sa notti e sa di’ apustis. Nisciunus indi scirìad no un progetto per smettere di fare i servi.
mancu spera. Bene davvero l’avevano pensata, si lamenta ancora
Sa terza est istetia notti curtza in domu de su meri. adesso ziu Loi, quando racconta la storia. Perché l’impresa
In puntu de mesu notti, unu scoppiu segad su sonnu a è incominciata proprio col coglionare lui. In trenta anni
tottus, meris e serbidoris. solo quei due pivelli gli hanno sporcato il luogo.
Fogu asullu e fragu de gomma abbruxada essìad de sa Seppi e Ceccu avevano organizzato tutto per la notte
domu de sa motocicletta de su merixeddu studenti, a della festa grande, quando la gente è radunata in piazza e
portalittu sfundau. Hìad postu fogu a sa domu de is di- quasi tutti hanno la testa perduta nel vino. A ziu Loi toc-
monius. cava restare a guardare tutto. Il padrone con la moglie e la
S’est cumprendiu ca Arrichetteddu est abarrau cassau serva se n’erano andati in piazza ad ascoltare is cantadoris.
aintru. In foras hant agattau unu bratzu suu cun sa maniga Seppi e Ceccu dovevano dare il pasto al bestiame e abbe-
de fustainu. De cussa arroba dd’had connotu sa mamma. verarlo, non erano di libera uscita.

Col suo toscanello a fuoco dentro, ziu Loi ufficiale di


picchetto cercava di ascoltare in lontananza is cantadoris,
seduto sulla pietra liscia del cantone.
Canticchiando sul tono de is cantadoris ecco si avvici-
na Seppi:

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«I buoi sono a posto per stanotte. Rimane solo da abbe- parte nell’orto di casa, sotto un albero d’alloro, e Ceccu
verarli… Bravi quest’anno is cantadoris, cosa ne dite voi?». in un buco dell’incannucciata di cucina. Ritornano quatti
«Anche se non ho più le tue orecchie, me ne sono ac- nel cortile del padrone, e se ne vanno nel pagliaio a finge-
corto anch’io. Sono i migliori di questi tempi». re di dormire.
«Se io potessi, come potete voi, me ne andrei ad ascol- Verso mezzanotte, ziu Loi ritorna a casa dei padroni.
tarli da vicino, in piazza, invece di stare qui a fare la guar- Si era buttato sulla stuoia, quando sente fuori la padrona
dia alla luna, mentre tutti fanno festa». gridare: aveva visto la scala a pioli sotto la finestra della
«Ciascuno ha il suo dovere». stanza da letto.
«A me non pare giusto, che proprio voi non facciate Tutto il paese era ancora in piedi, i carabinieri sono
festa, dopo che vi siete rotto la schiena per tutto l’anno. arrivati subito. Nessuno si arrischiava a entrare in casa, te-
Ma un bicchiere ve lo voglio invitare io, stasera, qui alla mendo che i ladri fossero ancora dentro, forse di quei pa-
bottega di Arritacca». stori barbaricini che d’estate venivano a pascere nelle stop-
Sono andati a bere, e parla e parla, quel Seppi che sem- pie. I carabinieri si guardavano attorno, nel buio, fiutando
brava un adulto con tutti i sacramenti a posto, di bicchieri e scrutando.
ne vanno giù molti, invitando a turno. E ziu Loi si lascia Ziu Loi è andato nel pagliaio a svegliare Seppi e Cec-
convincere a mancare alla consegna, ad andare in piazza ad cu. E subito loro si mostrano coraggiosi: uno con un tri-
ascoltare is cantadoris. In tempo di guerra c’era la fucilazio- dente e l’altro con un picco entrano nelle stanze dei pa-
ne, per una mancanza così. Ma quello sbarbatello era più droni, gridando e minacciando i ladri di infilzarli, loro
furbo della tentazione. E sapeva dove voleva arrivare. avanti e i carabinieri dietro. E hanno scoperto il furto. Al-
lora Ceccu, furioso, è sceso giù a cercare i ladri nel cortile,
L’avevano pensata bene. Si erano messi d’accordo col col tridente, e proprio nel pagliaio. È stato allora che a ziu
figlio di Coatrotta, che doveva fare il palo e smerciare a Loi è venuto un dubbio, ma non ha detto nulla, fino al
Cagliari la refurtiva, siccome lui era pratico di queste cose, giorno del processo.
essendo venuto di città, da sfollato, e poi rimasto in paese.
La famiglia di Coatrotta non tagliava la fame a fette molto I carabinieri fanno un po’ d’indagini, poi tutto tace.
grosse, come gli altri sfollati; come quel vecchio impiegato Il padrone sembrava rassegnato. Tutti convinti che fosse-
di città sfollato in casa del segretario comunale, che tutte ro stati i barbaricini.
le mattine si alzava presto per vedere andare al pascolo i Intanto arriva l’otto settembre, quando scadono e si
buoi di Chettu Marrocu, e si leccava le labbra, perché per fanno i contratti dei servi. Seppi e Ceccu non cercano pa-
lui i buoi erano solo bistecche che camminano. La fami- drone, ma non rimangono nemmeno nell’azienda di Chet-
glia di Coatrotta invece viveva di mercato nero, un paio di tu Marrocu.
scarpe tre quintali di grano, e suole di cartone. Passa un po’ di tempo, Seppi se ne va in Continente e
Coatrotta fa un fischio. Potevano incominciare l’im- Ceccu a Cagliari. A fare acquisti straordinari. Una sorella
presa. Seppi e Ceccu scassinano e frugano, trovano dolci e di Seppi, sartina, si è presa la clientela migliore, col suo
ne mangiano, liquori e ne bevono; ma trovano anche tut- ferro da stiro elettrico regalato da Seppi. Le altre sartine
ti i soldi, e l’oreria e l’argenteria. Poi, passando giro giro hanno continuato per anni ancora a ravvivare il fuoco dei
attorno al paese, vanno a casa loro. Seppi nasconde la sua ferri girando e rigirando, come il prete con l’incensiere,

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davanti alla porta di bottega. Seppi aveva dato molti dei come sanno loro, a litri di acqua gasata giù con l’imbuto, e
soldi in consegna a una sua zia, che così si è fatta la casa scarabei stercorari nell’ombelico sotto un bicchiere. A que-
nuova. A un’altra zia un’altra parte dei soldi, e anche lei sto punto confessano, dicono che i soldi e le cose preziose
ben presto si piastrella di lusso tutte le stanze di casa, le avevano consegnate ai genitori.
compresa la cucina. E tutta la giustizia viene in paese, per confrontarli coi
E la famiglia di Ceccu, lo stesso, a un certo punto tut- genitori, e anche ziu Loi di mezzo, e parecchi altri. Tutti
to quel gregge di fratelli, da come andavano fin allora col avevano paura della rete tesa dalla giustizia, ma c’era chi
fondo dei pantaloni rattoppato, ecco che di punto in bian- stava dalla parte dei due, e chi dalla parte del padrone e
co incominciano a girare con pantaloni di saia buona, che della giustizia. I genitori non hanno rivelato nulla sul fatto
sembravano figli di proprietari. dei nascondigli. Le cose andavano per le lunghe.
Chettu Marrocu, anche se non andava in giro vantan- E Chettu Marrocu non vedeva l’ora di riavere i beni
dosi, di roba ne aveva in casa quell’anno: i soldi di più di rubati, un giorno è andato a prendere la spiritata di Sa-
trecento starelli di fave, di più di cinquecento starelli di gra- massi e l’ha portata in paese, per trovare i nascondigli della
no, le entrate delle pecore, degli affitti dei terreni e delle roba rubata. Ha sistemato la spiritata in casa di una sua fi-
mezzadrie, e gli interessi dei prestiti pagati alla raccolta. glia, che abitava proprio vicino alle case dei due arrestati.
Ma non c’è che fare il pidocchio resuscitato, per lasciar E adesso incomincia il gioco vero. Di notte un lungo
capire a tutti com’è che un poveraccio si rimette di colpo fischio frusciante passava nell’aria verso le case dei carcera-
dalla fame. La giustizia stava ancora all’erta, e teneva d’oc- ti. In casa di Ceccu lo spirito della spiritata di Samassi ap-
chio anche i due giovanotti. Carabinieri in borghese gli pariva come un grandissimo calabrone, un ronzio profon-
stavano dietro, controllando ogni passo e ogni soldo speso. do tormentava tutta la famiglia, una specie di busibusi
Le cose così andavano maturando. E il padre di Seppi, d’inferno, che faceva un colpo all’uno e un colpo all’altro.
malato da molto di male di testa e di nervi, ma una specie Finito il volo del calabrone, incominciava un grande ga-
di profeta che sentiva le cose a venire come un gatto la loppo di cavalli sul tetto di cucina. Il padre di Ceccu pren-
pioggia, una notte si sveglia tremando come una canna al deva il fucile, e pim pam sul tetto. Ma era peggio di prima.
maestrale, la bava a fiumi dalla bocca, e dice alla moglie In casa di Seppi lo spirito era ancora più potente. La
che la giustizia stava per piombare nella loro casa. Un’altra madre di Seppi, una notte, stava in compagnia di una vici-
volta, seduto in cortile, di colpo alza la voce e grida «Sep- na di buon cuore, a dire il Rosario, fino a tardi, recitando
pi, guardati le spalle!». E il figlio era in Continente. per ogni grano un Pater Ave e Gloria, per tirarla per le
Ma tutto è incominciato col tradimento di quel delin- lunghe e passare con Dio gran parte della notte. Fuori si
quente di Coatrotta, che non era contento della parte avu- sentiva lo spirito fischiare, che cercava di entrare, e il padre
ta, e li ha denunciati alla giustizia. di Seppi recitava i brebus contro le cose cattive.
Giusto a un anno dal furto, Seppi e Ceccu tornano
in paese per la festa grande, e la giustizia li lega e li porta in Ma appena le donne terminano il Rosario, il fischio
galera. penetra nella casa. La madre di Seppi fa per gridare di spa-
vento, e subito sente un nodo alla gola, lo spirito le entra
Negavano tutto, dicevano che Coatrotta era matto e dentro gorgogliando. La donna incomincia a fremere, a
farabutto. Ma i carabinieri hanno incominciato a trattarli dimenarsi come presa dal mal caduco. La vicina, un po’

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sorda e lenta, prende la poveretta e la distende sul letto. senza denti. Il bambino si teneva alle gonne della vicina,
Ma il tremore non le passava, e la vicina ha pensato di av- piangendo e gridando. Ma quella non aveva ancora capito
visare il medico. Chiama altre donne del vicinato, che nulla. E il bambino a stridere come una civetta, e a scap-
vengono con candele benedette a far compagnia alla mala- pare disperato dalla cucina, tirandola per la gonna. Alla fi-
ta, e lei va per il medico. ne ha incominciato a capire anche lei, ha pensato che
Una delle vicine, vedendo la disperazione della madre quella era faccenda per il prete. E va a chiamare il prete.
di Seppi, le ha messo sul petto una medaglia della Madon-
na. Non l’avesse mai fatto. La donna si raddrizza girando La madre di Seppi faceva come se sentisse arrivare il
come un fuso e rimbalza contro il soffitto, ululando come prete, più quello si avvicinava e più diventava furiosa, e in-
un lupo alla luna. Una delle vicine corre a casa sua, ritorna vece che in sardo, parlava in italiano con la voce dei giudi-
con una boccetta di olio di San Salvatore da Horta, versa e ci e dei carabinieri che perseguivano il figlio. Buttava fumo
unge la fronte della poveretta. dal naso.
Quando arriva il medico, la trova un po’ calma. Il padre di Seppi, otto anni che non camminava, si al-
«Questa donna non ha nulla» dice, «fatele un po’ di za e si avvicina al letto della moglie, si inginocchia e inco-
caffè e lasciatela dormire in pace. Non state qui a toglierle mincia a cantare il Dies Irae, e in quel momento compare
l’aria. Tornate a casa». il prete e si sente anche il suono dell’organo. La madre bal-
Il figlio maggiore è uscito nell’orto, a pescare dalla ci- za a sedere sul letto, con una faccia non sua, apre la bocca
sterna acqua per il caffè, con un rosario intorno al collo, e sta per dire, accennando col braccio, che sotto l’albero
recitando le Dodici Parole Sante di San Martino. Come fa d’alloro nell’orto c’è l’oro di Chettu Marrocu, ma il prete
per ripescare il secchio pieno, un fruscio fischiante si leva alza la mano destra e ordina silenzio. La donna si adagia e
dal fondo della cisterna. Lascia cadere secchio e tutto e non dice più parola. Il prete le passa un dito sulle labbra,
scappa gridando «Maria Santissima mia». le fa il segno della croce sulla bocca. Poi se ne va e si porta
La vicina che aveva chiamato il medico è andata in cu- dietro i due fratellini minori di Seppi. Arrivati in chiesa,
cina ad accendere il fornello a carbone per bollire l’acqua, così nel cuore della notte, ha acceso le candele, ne ha dato
insieme col figlio minore della malata, per compagnia. quattro accese ai bambini, una per ogni mano, e ha detto
Tutti avevano paura. Il padre di Seppi teneva gli occhi fissi la messa per le anime.
oltre le cose e la bava gli correva fino a terra. Il giorno dopo il fratello grande di Seppi e il padre di
Appena la donna e il bambino entrano in cucina, ac- Ceccu sono andati dai frati di Sanluri e hanno regalato
cendono la luce e uno scoppio lungo come di scorreggia molto oro al convento.
esce dall’interruttore, con puzza insopportabile. In mezzo Per un paio di notti le cose si sono un po’ calmate. Tre
a una luce azzurrognola, proprio al centro del pavimento notti dopo la spiritata riesce di nuovo a mandare gli spiriti
della cucina, stava una campana, ritta con la bocca all’in- nelle case di Seppi e di Ceccu. In casa di Ceccu appariva
sù, dondolandosi in equilibrio sulla culatta, col battacchio una grandissima strige con occhi di fuoco grandi come
che mandava rintocchi da morto. mezze angurie e ali come stuoie. In casa di Seppi sentivano
E il bambino, solo lui, vedeva sotto il tavolo per fare il un fracasso, un macinare, un trebbiare per tutta la notte, e
pane una vecchiettina tutta raggrinzita e vestita di nero, il mattino dopo trovarono l’orto tutto arato e forato, come
con occhi rossi di carboni ardenti, e lo chiamava ridendo da una mandria di tori selvaggi in lotta.

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Ma il prete s’era accorto che nel paese ci doveva essere A FUOCO DENTRO
qualcuno che comandava gli spiriti. E capiva anche perché.
Per questo aveva ordinato silenzio e sigillato la bocca alla
madre di Seppi. Incarica una donna pia di stare attenta a
scoprire da dove partiva di notte il fischio degli spiriti. E la
donna l’ha scoperto. Allora il prete si mette i paramenti,
prende un secchio d’acqua santa e un paniere d’incenso e Ieri sera, a tre anni di distanza dalla sua morte, sono
scende in quel vicinato. Incomincia a benedire, a pregare, andato a una commemorazione di Emilio Lussu.
a incensare intorno alla casa della figlia di Chettu Marro- Dei molti oratori, ciascuno lo ha dipinto a suo modo,
cu, e alla fine riesce a far scappare la spiritata di Samassi. ognuno lo ha tirato dalla sua parte. Io avevo ricordi miei,
L’odore d’incenso non andava alla spiritata. più vivi di letture di lui e su di lui.
Da quel giorno nelle case dei carcerati non hanno più Forse ricordi simili a quelli di molti altri delle parti
né visto né sentito nulla. E sul posto della refurtiva nessu- nostre.
no ha aperto bocca. Fino a una domenica di trent’anni fa io ho creduto
Al processo Seppi e Ceccu si sono presi ciascuno cin- che il nome Lussu fosse solo il soprannome di ziu Scanniu,
que anni. E da allora al paese non li ha più rivisti nessuno. e che significasse qualcosa di poco bello, se lo si usava co-
Ma certo poveri erano e poveri son rimasti. A lavorare so- me nomignolo di questo vecchietto un po’ strano. Ziu
no andati fuori, sotto altri padroni. Tutti, padrone, carabi- Scanniu però non aveva l’aria di aversela a male. Quella
nieri e giudici, ladri, diavoli e anime dannate, il prete e la domenica ho capito anche perché.
spiritata si sono dati tanto da fare. Ma le cose sono rimaste Per quel mattino di festa, pascolati i buoi, mio padre
come prima. I ricchi ricchi e i poveri poveri. aveva dato tre ordini, all’uscire di casa. Almeno ai primi
Siccome questa è una storia vera, non finisce bene. due non potevo fare a meno di essere ubbidiente.
Ma non finisce nemmeno male. Finisce e basta, conclude Per prima cosa andare in barbieria per farmi fare una
ziu Loi. bella umberta, non una mascagna, come avrei preferito io
per apparire più grande dei miei quasi nove anni.
Poi andare alla messa cantata a fare il chierichetto. E in-
fine rientrare subito a casa, dopo la messa cantata, senza
fermarmi per il comizio a fare gazzarra con gli avversari,
con quelli che noi chiamavamo scomunigaus, mentre loro ci
chiamavano democretinus.
Questo ordine di mio padre era il risultato della mia
rissa di un paio di domeniche prima col figlio di Luigi-
neddu Comunista, quando avevo partecipato alla sas-
saiola per salutare la partenza del comunista Torrente che
aveva tenuto un comizio molto disturbato. Ero tornato a
casa col naso sanguinante, credendo di essere una specie
di eroe.

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Dal barbiere però mi conveniva andare, così avrei po- Proprio mentre ziu Albinu incominciava a sforbiciare
tuto ereditare un basco blu smesso da mio nonno, che ven- per dare forma alla mia umberta, vidi nello specchio en-
deva stoffe in giro col carretto e si poteva permettere copri- trare ziu Scanniu e lo udii salutare con un gagliardo Fortza
capi sempre buoni. In chiesa dovevo andarci, perché anche paris. Era allegro, e annunciò che per il sardismo avrebbe
mio padre doveva andare alla messa cantata, e avrebbe po- parlato Emilio Lussu, il suo capitano.
tuto notare la mia assenza sui banchi dei fanciulli cattolici. Incominciarono tutti a parlare di Lussu e del sardismo.
Veramente ero già così stufo di stare in chiesa, per tut- Alcuni dicevano che il sardismo era per il Fronte Popolare,
te le quarantore che si facevano quella primavera. Dal ve- altri dicevano di no. Ma il più informato era ziu Scanniu,
nerdì prima avevo passato lì al chiuso troppo tempo, con che a suo tempo era stato ordinanza del tenente Lussu,
la mia classe, colle fiamme verdi, con mia madre. A prega- portava il pizzetto come lui e cercava di imitarlo a suo mo-
re e cantare per salvare l’Italia e Roma dall’Anticristo. do, scandendo slogan che dicevano di una Caporetto che
L’Anticristo era un maligno mascherato da Garibaldi, che non tornerà più, della Brigata Sassari, di altre cose strane
diventava però Stalin se si guardava la figura a rovescio. come Bainsizza, e frasi belle e incomprensibili come «in-
Certe volte invidiavo i figli di quelli che stavano con sorgere per risorgere».
l’Anticristo, perché essere democristiano comportava que- «Roma doma! Italiani in piedi! Chi è fesso resti a casa»
sta grande seccatura, dover stare in chiesa tanto tempo disse a voce alta ziu Gustinu Strupiau, per difendere il fa-
per preparare il diciotto aprile, quando si doveva decidere scismo. Ma nessuno ci fece caso.
la vittoria tra il bene e il male.
«Che cosa farai tu in paradiso, se stare qui davanti al A me ziu Scanniu era simpatico, specialmente da quan-
Signore a pregare ti annoia?» mi aveva chiesto una volta do l’estate prima mi aveva difeso contro certi miei com-
sgridandomi la suora, perché mi ero appisolato. E io cercai pagni bovari, che mi avevano giocato lo scherzo brutto
di consolarmi pensando che forse era questione di allena- di farmi sparire una bella cinghia ornata con venti stellette
mento anche il piacere del paradiso. militari, un giorno che si stava pascolando i buoi da lavoro
nei campi di stoppie dopo il raccolto sui terreni de su par-
Ma andare dal barbiere era meno noioso. Qualche vol- du. Lui era un porcaro e stava coi suoi maiali da quelle
ta era anche divertente. Gli uomini in attesa parlavano di parti.
sport, di politica, raccontavano storie divertenti. Se qual- Mi era simpatico, anche se una volta per colpa sua mi
cuno ti scocciava perché piccolino gli si poteva rispondere ero buscato un ceffone da mio nonno, perché avevo riso
con qualche parolaccia da grande, di quelle proibite in ca- molto a una sua battuta, una mattina che stavamo andan-
sa nostra. do a mietere.
Le due panche lungo le pareti della barbieria erano già Quella mattina ziu Scanniu stava mietendo un suo
tutte occupate e gli uomini stavano discutendo di politica, campicello, vicino a uno nostro che avevamo in affitto da
giusto perché era l’ultima domenica prima del diciotto Don Larenzu.
aprile. Dicevano di un certo Cerioni, che di pomeriggio «E spigolatrice non ce n’hai?» gli chiese passando mio
doveva tenere un comizio democristiano, e di un comizio nonno, per salutarlo.
sardista dopo la messa cantata. Ma non si sapeva ancora «Come no?» rispose lui. «È già per via la mia spigola-
chi avrebbe parlato per il sardismo. trice».

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«E chi è questa tua spigolatrice poco mattiniera?» con- entrare a benedire nemmeno le case dei sardisti, non solo
tinuò mio padre. quelle dei socialcomunisti. La nuora di ziu Scanniu mi die-
«Ma non lo andate a dire» confidò lui avvicinandosi de un manrovescio, quando io scaraventai contro il muro
come per dire un segreto: «è Donna Elenetta, e chi ha da di casa sua tre uova messe a forza nel cestino apposito, che
essere?». io come chierichetto portavo accompagnando il parroco a
Donna Elenetta era la moglie di Don Larenzu, lei che benedire le case. Si era avvicinata di nascosto dal prete e
di spigolatrici ne aveva ogni anno una ventina sui suoi aveva detto che se non le benedicevamo la casa, voleva al-
campi e le davano un quinto del grano spigolato. Ma sicu- meno fare l’offerta per la chiesa. E fare il suo dovere, da
ramente anche mio nonno e mio padre, nonostante lo parte sua, come tutti gli altri.
schiaffo, provarono piacere a quella irriverenza verso Don-
na Elenetta, che ogni anno riceveva in casa l’affitto delle Pensavo di aver fatto bene a non cercare scuse per non
terre che noi lavoravamo. Coi brontolii e i mali auguri, andare dal barbiere, quella domenica. Stavo imparando
dopo che lei augurava a atrus annus. Per lei l’annata era molte cose ascoltando gli uomini nella barbieria. Che Lus-
sempre sicura. su era un capitano sardista, col pizzetto come ziu Scanniu
Ma la mia simpatia per ziu Scanniu era anche in con- e medaglie d’oro, che aveva combattuto contro gli austria-
traddizione col nostro essere democraticus, cioè democri- ci e contro i fascisti nella Spagna. E pensavo alla bugia da
stiani e rispettosi della religione. Lui invece no. Non era dire in casa a mio padre, perché avevo deciso di stare a
miscredente, ma non aveva la solita dimistichezza della sentire il comizio sardista di Lussu.
gente del nostro paese con le cose di chiesa: quelli dei pae- Gli uomini continuavano a parlare di lui e di politica.
si vicini dicono che da noi siamo tutti bigotti perché pro- «Ma questo Lussu che cosa vuole adesso?» chiese a un
prio in alto, al centro del paese, c’è un chiesone che sem- certo punto ziu Sarbadorangiu, proprietario grosso. «I co-
bra una grande chioccia che tiene d’occhio i suoi pulcini. munisti vogliono dividere tutto, ma Lussu che cosa vuole?».
Un anno il gelo si era portato via tutto, grano, fave, Un giovanotto rispose che anche Lussu voleva divide-
vigne e ulivi, mandorli e ortaglie. Il mattino di Pasqua, re. E aggiunse, serio, che a lui dividere conveniva: gli spet-
quando si fa la processione dell’Incontro, e si porta in gi- tava di più di quello che aveva, al giovanotto. Una cosa
ro la Madonna alla ricerca del Figlio risorto, ziu Scanniu disse ziu Scanniu a questo punto: che Lussu era un uomo
se ne stava là a guardare, mani in tasca e berretto in testa. di fegato che combatteva per la Sardegna. Ormai ero di-
Nel momento culminante, quando la Madre scorge il Fi- ventato tifoso di Lussu.
glio e quelli che la portano si piegano per farle fare un in- Ma poi scoppiò un bisticcio tra ziu Scanniu e Gustinu
chino e si sparano i mortaretti, lui si rivolge serio ai vicini: Strupiau, che aveva perso tutt’e due le gambe nella guerra
«Sua madre lo cerca qui. Ma voi lo sapete dove se n’è di Spagna, volontario coi fascisti, e per questo si chiamava
andato questo povero Cristo? Andate a vedere nei campi, Strupiau. Capii che ziu Gustinu ce l’aveva con Lussu e
che cosa ha combinato stanotte. Non è qui che lo deve con ziu Scanniu, perché Lussu aveva combattuto in Spa-
cercare sua Madre. È ancora in giro per le vigne di Riu gna contro di lui, insieme coi comunisti, che gli avevano
Arai, a portarsi via gli ultimi ceppi». rotto le gambe e non facevano altro che uccidere preti e
E poi, quell’anno delle prime elezioni politiche, pro- incendiare chiese. Erano arrabbiati tutti e due, lo storpio
prio in campagna elettorale, il parroco non era voluto come un gallo e ziu Scanniu con un’aria di disprezzo.

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«Per lui la perdita delle gambe è stata la sua fortuna» grandi che dovevano votare. C’era anche il racconto di Pi-
disse ziu Scanniu rivolgendosi a tutti. «Strambo com’è, nocchio che è indeciso per chi votare, se seguire i consigli
senza la pensione di mutilato che gli ha dato Mussolini, buoni del grillo parlante, la sua coscienza, oppure i cattivi
non se la sarebbe cavata bene come adesso, con un bel consigli di LuPCIgnolo, che lo vuole traviare col miraggio
tanto sicuro tutti i mesi. Fascista per la pensione è, fasci- del rosso paese degli Allocchi.
sta per i soldi di Mussolini».
Ziu Gustinu gli si scagliò contro brandendo una stam- Ma fuori, sulla piazza, io non mi tenni alle consegne e
pella e riuscì a colpirlo con rapidità inaspettata, anche se me ne andai per conto mio, per vedere Lussu da vicino.
alcuni si alzarono per trattenerlo. Gironzolai alla ricerca di un buon posto di osservazio-
La mia simpatia era già passata alla vittima dei comu- ne. Lussu stava parlando, ma si sentiva male a stare lontani.
nisti di Spagna, ma ritornò tutta intera a ziu Scanniu, ri- A mezzogiorno il sagrestano suonò a lungo le campa-
masto immobile come a ricevere un castigo meritato. Poi ne. Alcuni giovanotti sardisti volevano andare a tirar giù il
cercò di scusarsi col mutilato che continuava a inveire. campanaro, ma Lussu li tenne buoni. Aspettò che ziu Aro-
Intanto ero già stato servito e ziu Albinu barbiere mi niu Brigaderi si stancasse, chiacchierando coi vicini, e ziu
spinse fuori con una pedata, perché volevo restare a goder- Scanniu era tra i più appresso al comiziante.
mi ancora lo spettacolo. Quando il comizio riprese molti gridarono Fortza paris!
Andai alla messa cantata a fare il chierichetto e sbagliai E Lussu a un certo punto chiamò per nome e cogno-
quando mi toccò suonare la campanella dell’elevazione. me proprio ziu Scanniu, chiamandolo a testimonio della
Con la testa stavo ancora nella barbieria. E in Spagna, alla verità di una cosa che aveva appena finito di dire, qualcosa
battaglia di Guadalajara dove ziu Gustinu aveva perso le sui combattenti della guerra del ’15-18, sui combattenti
gambe. Lo immaginavo come Enrico Toti, e vedevo Lussu sardi della Brigata Sassari.
come Garibaldi. Era difficile decidere chi aveva ragione e Anch’io dal mio posto sentii ziu Scanniu gridare si-
da che parte stare. gnorsì, e lo vidi scattare sull’attenti. Se qualcuno rideva, io
Mentre ci stavamo svestendo dei paramenti, finita la non me ne accorsi, tutto mi sembrava molto bello e serio,
messa, in sagrestia entrò trafelato il delegato dei giovani come nelle storie di guerra.
cattolici, per annunciare al parroco che Lussu stava per Poi ziu Scanniu si dev’essere rimesso sul riposo, a fu-
tenere un comizio, per il Fronte, forse dal balcone di mare come al solito il suo mezzo toscano a fogu aintru.
Don Larenzu. Perché a un tratto Lussu lo interpellò di nuovo. Gli do-
Il parroco incominciò subito a dare ordini. Fece chia- mandò se avesse ancora come un tempo il vizio di fumare
mare in sagrestia Donna Elenetta, per dirle che Don La- il sigaro a fuoco dentro, come i ladri di pecore e i guastato-
renzu non doveva prestare il suo balcone per il comizio ri della Brigata Sassari in azione notturna. È stato a questo
di Lussu. punto che Lussu ha detto qualcosa che anche a me per la
Intanto aveva proibito ai chierichetti di andarcene, prima volta ha fatto sentire dalla parte sinistra il fuoco del-
perché aveva ordini anche per noi. Diede disposizioni a la passione politica. Alzando la voce, con una violenza che
un seminarista, allora in paese in vacanza elettorale: di- anche a me sembrava adeguata a quello che voleva dire,
sturbare il comizio e distribuire propaganda buona. Lussu diceva, fingendo di rivolgersi solo a ziu Scanniu, che
Il seminarista ci inquadrò e ci consegnò copie del gior- è tempo di tirarlo fuori quel fuoco che tutti noi sardi ci
nalino dei fanciulli cattolici, stavolta fatto anche per i portiamo dentro, nascosto, a bruciarci dentro, come tutti i

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poveracci che devono abituarsi a tenersi l’inferno in corpo, ZICCHIRÌA
senza che di fuori lo possano notare quelli che lo tengono
acceso: a foras su fogu, goppai, chi abbruxid tottu sa burrum-
balla de su mundu.
Ci fu un boato d’approvazione, con nitriti e Fortza
paris!
Improvvisamente mi arrivò un cazzotto del tutto ina- Tutte le sere, dopo che se ne andava mio nonno con
spettato, a fund’ ’e origa. Mi voltai giusto mentre mio pa- l’ultimo carico di covoni, e con lui le spigolatrici, zia
dre mi afferrava per un orecchio, sempre quello destro Giuannetta e la figlia Aléne, io potevo andarmene per
maledizione! Allora mi resi conto che stavo gridando a conto mio, in cima alla collina di Mont’ ’e Craddaxius, in
squarciagola Fortza paris! Come facevano tanti altri, per esplorazione tra i cespugli fitti di craccuri.
approvare quello che diceva Lussu. Seguii mio padre per Era un accordo tacito con mio padre. Del resto non
qualche passo, poi mi liberai di scatto e scappai, mi infi- era giusto che io spigolassi da solo, quando non c’erano le
lai nel fitto dell’uditorio e andai a collocarmi proprio a altre due spigolatrici. Le spighe erano per tutti e tre, e io
fianco di ziu Scanniu, che stava in prima fila, a pochi non dovevo approfittarne.
passi da Lussu, e piangeva come un agnello svezzato. In cima alla collina diventavo cacciatore. Cercavo di
stanare animali, sempre con la speranza di incontrare una
quaglia, una pernice, o magari una lepre. Per questo mi
portavo dietro Fonnesu, il cane di ziu Prameriu, e cercavo
di insegnargli l’arte della caccia. Ma valeva anche meno di
me. Saltellava brevemente dietro farfalle e cavallette, men-
tre io speravo sempre di poter fare una bella figura con
mio padre e con ziu Prameriu, se una volta fossi sceso da
lassù con selvaggina da arrostire per la cena. Mio padre mi
canzonava, ma ziu Prameriu mi dava consigli di caccia.
Ziu Prameriu era il nostro mietitore, ingaggiato a sca-
rada per la metà della quantità di grano seminato e mietu-
to, e dormiva con noi in campagna, all’aperto.
Era un lavoratore terribile e mio padre me lo portava
sempre ad esempio.
Anche se molti mietitori ormai lavoravano a giornata,
per un salario in denaro, ziu Prameriu preferiva la scarada,
forse perché poteva portarsi dietro due spigolatrici, zia
Giuannetta, sua moglie, e la figlia Aléne, che poi aiutava-
no nei lavori sull’aia.
Ma in tutta quell’estate riuscii solo a portar giù dalla
collina incolta un proiettile inesploso di mortaio. Quando

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lo vide, mio padre impallidì, me lo prese adagio, lo posò al sapevo dov’erano tutti i posti che lui aveva conosciuto in
suolo e mi mollò un ceffone. Con passo pesante andò a guerra, poi come guardia regia e infine come volontario
seppellirlo ai margini del campo, dove non passava mai obbligato in Africa Orientale.
l’aratro, giù nel profondo. Quando feci per avvicinarmi mi Ogni volta che si andava in paese, al termine della set-
lanciò un sasso. Finita l’operazione, tornò sfregandosi le timana, io mi procuravo pezzi del Quotidiano sardo, coi
mani. Io dissi per ridere: resoconti del processo al generale Graziani, e glieli legge-
«Nix kaputt!». vo. Così lui dopo si metteva a raccontare le sue avventure
«Non fare lo scemo di guerra» brontolò lui ancora spa- di soldato, finché non si addormentava sotto il suo om-
ventato. brellone verde, frugandosi il naso.
Della ricerca di selvaggina però mi stancavo presto. Fi- Una volta che ero stanco di trasportare covoni al muc-
niva sempre che mi mettevo a sedere sul punto più alto a chio, e mi ero seduto su un sasso mentre loro continuava-
guardare come avanzavano, giù dalle colline intorno, le no quel lavoro, mio padre mi sgridò duro per la mia pigri-
ombre della sera, che sembravano nubi sulla terra. Stabilivo zia. Ziu Prameriu mi chiese:
punti di riferimento, come l’ovile dei Simbula in Santa Bo- «Ti piace di più la massaritzia oppure lo studio?».
napasca, o il pianoro di Fraus, e scommettevo con Fonnesu «Questo lo sa anche Pipottu», risposi io imbronciato.
su quale ombra sarebbe arrivata prima a scurirli. Ci sedeva- Pipottu era l’asino di mio nonno. E quella mia sentenza
mo vicino, io e il cane, che a poco a poco smetteva di af- rimase celebre per tutta quell’estate. Era chiaro che preferi-
fannare con la lingua fuori, e diventavamo seri seri tutti e vo lo studio.
due, come le ombre della sera.
Una mia aspirazione di allora era di poter scendere
Come spigolatore non valevo niente, specialmente a una volta nella gola di Intra Montis. Non me lo permet-
confronto con la furia di zia Giuannetta, che ogni giorno tevano perché era un luogo impervio. Quell’anno però
riempiva il sacco e la sacchetta fino a scoppiare, i gambi riuscii a farla franca. Alcune sere prima avevo scoperto un
tagliati col falcetto rasente alle spighe. Nemmeno messo in gregge di pecore che pascolavano giù per i fianchi di In-
confronto ad Aléne valevo molto, anche se lei si preoccu- tra Montis, ed ero sceso a curiosare. Colle pecore c’era
pava molto di difendersi dal sole, per non abbronzarsi. solo un pastorello di Villamar, rosso e pieno di lentiggini.
L’abbronzatura allora non si usava, e una ragazza abbron- Da lui seppi che al suo paese le spighe si chiamano cabìt-
zata non avrebbe fatto bella figura a ballare per la festa del- za, non spiga, come diciamo noi. Tutti e due ci meravi-
l’Assunta. Aléne tutti gli anni il primo maggio faceva la gliammo di questa diversità e di come era grande e diver-
medicina contro l’abbronzatura: la mattina prima dell’alba so il mondo. Ma non ci prendemmo in giro, come si
andava a lavarsi con la rugiada dei campi, per rimanere faceva coi ragazzini di Guamaggiore, dove si parla in mo-
bianca come il grano dei sepolcri del giovedì santo. do diverso anche se siamo distanti meno di due chilome-
Non mi importava molto di non essere bravo in un tri. E per meravigliarlo di più io dissi, con importanza,
lavoro di donne. Questo lo sapevano tutti. E ziu Prame- che alla fine dell’estate sarei andato a studiare in Conti-
riu, per consolarmi, perché mio padre mi incitava gridan- nente, in Piemonte.
do ogni volta che si raddrizzava per assestare i mannelli, «E come fai ad arrivarci?».
ziu Prameriu diceva che però ero una buona testa. Infatti «Con la littorina, e poi con la nave».

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«Che cos’è la littorina?». «Poi, dopo, se uno non vuole andare nelle Isole Filip-
«È un treno che porta solo gente. Per questo non fa pine, può andare anche nel Messico, che è più vicino».
fumo. Parte da Senorbì e arriva fino a Cagliari, vicino alle «Cos’è il Messico?».
navi del porto. Ma io poi vado fino a Olbia, per imbar- «Non lo sai? È il paese di Pancho Villa e di Pecos Bill».
carmi. Tu lo hai già visto il mare?». «Boh!».
«No. E tu?». «Quello di paese, che c’è già da tre anni a studiare in
«Nemmeno io. Ma non ho paura lo stesso». Piemonte, mi ha insegnato una canzone del Messico. Fa
«Perché vai a studiare?». così:
«Perché mi piace di più».
«E perché non vai a Cagliari a studiare?». Guadalajara es un llano
«In Piemonte vado in un istituto di preti che non vo- México es una laguna.
gliano soldi per studiare». He de comer la tuna
«Perché non vogliono soldi?». Aunque me espine la mano».
«Perché noi abbiamo promesso a padre Rosa di fare i
missionari nelle Isole Filippine. Di paese ce ne vengono «Bella. Assomiglia a un muttettu».
anche altri». Lui stava sminuzzando un fiore ispido di zicchirìa.
«E tu vuoi fare il prete?». «E tu la sai la canzone della zicchirìa?», chiese tutto al-
«No. Sei matto? Adesso sono anche fidanzato con una legro.
di paese. Ma forse nelle Isole Filippine ci vado lo stesso. «No. Cantamela».
Là ci sono i selvaggi con le frecce, e i bambini neri della
Santa Infanzia». «Zicchirìa zicchirìa,
«A me diventare prete non mi piace. Portano la gonna Candu femu in bidda mia
come le donne». Ci fiad pìbiri e ganella,
Quando era venuto padre Rosa, in paese, per reclutare Moi ca seu in bidda allena
aspiranti, molti ragazzini che stavamo per finire le elemen- Pappu donnia schivorìa».1
tari ci eravamo radunati in casa di uno che a studiare dai
preti c’era già da tre anni. Fu allora che venne fuori la fac- Il pastorello si mise a mangiare pane e formaggio e me
cenda che chi andava lì a studiare quasi gratis doveva pro- ne fece parte.
mettere di diventare prete e poi andare missionario. Mis- «Lo sai come si fa a tenere lontane le zanzare, quando
sionario, mi andava bene, ma prete, no. Quel giorno mi si dorme in campagna?», gli chiesi.
rintanai dietro la cupola del forno del pane, dove le galline «Io no».
si nascondevano per fare l’uovo, e ci pensai su parecchie «È facile. L’ho inventato io. Però funziona solo durante
ore. Bisognava stabilire se avevo la vocazione. Non riuscii a la mietitura, perché allora si mangia bene, ciascuno col suo
stabilirlo, ma decisi intanto che era meglio andarci. Padre piatto di pastasciutta. Dopo mangiata la pasta, il piatto non
Rosa, tra l’altro, aveva detto che si giocava al pallone; e
magari con un pallone vero, di cuoio, le scarpe coi tac- 1. «Fiore d’aneto, fiore d’aneto, / quando ero al mio paese / c’era pepe
chetti e le magliette coi numeri. e cannella. / Ora che sono in paese altrui / mangio ogni schifezza».

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si pulisce bene dal sugo, anche se è la parte più buona. Salii in cima per esaminare il nido e da lassù scorsi lonta-
Quando ci si mette a dormire, si piazza il piatto vicino alla no, in direzione del paese, una colonna di fumo nero.
testa, e allora le zanzare vanno sul piatto, rimangono ap- Scesi giù a rotta di collo, flagellandomi le gambe nude,
piccicate al sugo e lasciano dormire i cristiani. Ma questa verso mio padre e ziu Prameriu che stavano ancora mie-
non è arte da pastori». tendo.
«E tu lo sai come si fa a tenere la coda sporca delle pe- «Hai stanato una lepre?», mi chiese ziu Prameriu.
core lontano dal secchio del latte, quando si mungono?». «O un topo?», mi canzonò mio padre.
«No. Dimmelo». «Là c’è il fuoco. Il grano brucia vicino al paese».
«Te lo faccio vedere io per bene». Ma loro non volevano credermi. Poi ci sembrò di
Acchiappò una pecora, chiamandola per nome, le si udire lontano le campane a martello. E infine incominciò
mise a cavalcioni, con il dorso verso la parte anteriore del- a scorgersi la colonna di fumo, anche da laggiù.
l’animale; la spinse un poco con un paio di pacche sul de- Mi ordinarono di restare lì a custodire le nostre cose e
retano, si fece la croce, sputò sul palmo delle mani e le loro scesero alla disperata verso il paese.
sfregò un poco; si chinò con le mani verso le poppe, prese La notte venne giù dalle colline. Lontano, a sette chi-
la coda con la sinistra, l’appoggiò al fianco della pecora e la lometri, si scorgeva il chiarore dell’incendio. Anche il ca-
tenne ferma col gomito destro, infine fece l’atto di munge- ne se n’era andato con loro. Nella zona non si vedeva nes-
re dentro un secchio che non c’era. suno. Ero proprio solo, ma non avevo paura per questo.
«E tu sei buono a mietere dei veri mannelli grandi?». Ero spaventato per quel fuoco che aveva messo le ali ai
«No». piedi già stanchi di mio padre e di ziu Prameriu.
«Io sì. Ci vuole molta arte. E se uno ci ha l’arte, non Chissà dove stava bruciando. Forse nei campi di gra-
conta avere le mani piccole. Bisogna saperli allacciare bene». no di Santu Milanu. Lì noi avevamo già mietuto, per pri-
«Tu ne hai visti di agnelli quando nascono?». mi. Ma gli altri no. Mi sembrava di sentire l’odore dell’in-
«No. Tu ne hai viste di lepri, da queste parti?». cendio, incendio di grano.
«Molte. E anche conigli selvatici e pernici». Il rumore dei grilli stava attorno assordante. Ma senti-
«Ne hai presi, senza fucile?». vo anche il brontolio dei vermi sotto terra.
«Io sì». Molto tardi nella notte ritornò ziu Prameriu solo con
«E come hai fatto?». Fonnesu, morto di stanchezza.
«Al mio paese si fa così. Ci si avvicina piano piano, si «Che cosa è bruciato?».
mette un po’ di sale sulla coda della lepre o della pernice, «Le aie vicino al ponte di Guamaggiore».
e si acchiappa». «Anche il nostro grano?».
Ridemmo. «Tutto no».
«Da noi così si prendono i tordi». «E mio padre?».
«È rimasto a finire di spegnere».
Anche quella sera io salii sulla cima di Mont’ ’e Crad- Si buttò a terra.
daxius, a snidare selvaggina con Fonnesu. Su un alberello «E tu non potevi almeno preparare i giacigli di stoppie
di pero selvatico trovai un nido vecchio di cornacchie. per la notte?».

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«Me ne sono dimenticato». Così eravamo di più nelle sue mani. Lui era come il nostro
Preparammo due giacigli e ziu Prameriu si sdraiò sul destino, che ci comandava in tutto, e noi zitti. Altro che
suo. Subito incominciò a tremare violentemente, come se volontà di Dio».
morisse dal freddo. Non avevo mai sentito ziu Prameriu parlare così. Ma
«Speriamo che non sia la malaria. Ci manca solo quel- era come se non parlasse a me. Forse aveva veramente la
la». febbre della malaria.
«È bruciato molto?». «Io vado a studiare. Così non starò sotto un padrone».
«Il nostro no. Ma il grano dei Demontis, dei Bertellini «Fai bene, te lo dico sempre. Vai e non tornare».
e di molti altri se n’è andato quasi tutto». «In vacanza ci torno. Quelli che ci sono già, tornano
«Lo dicevo io che era fuoco di grano». d’estate».
«Già, fuoco maledetto». «…Tutta la settimana in campagna, senza vederci l’un
Non riuscivamo a dormire. Ziu Prameriu si prendeva l’altro se non controllati dal padrone o dal sotzu. E la do-
a schiaffi per le zanzare e io mi resi conto che eravamo ri- menica ti prende in consegna il prete per insegnarti la ras-
masti a digiuno. segnazione, la fiducia in Dio, specialmente ai giovani che
«Ci avete pensato che non abbiamo cenato, stanotte?». non sono ancora rassegnati. Così è quando si entra sotto
«No. Perché non mangi tu?». padrone per tutto l’anno. Tu hai scelto bene… Uno qua e
«Non ne ho voglia. Mi dispiace solo che non possia- uno là, e per incontrarci solo la chiesa. Dal padrone al
mo farci le trappole per le zanzare, coi piatti». prete e poi, quando c’è guerra, sotto le armi. Gli altri fan-
«Hai avuto paura quando sei rimasto solo nella notte?». no sempre di te quello che vogliono, delle nostre braccia e
«No, paura no. E voi avreste avuto paura?». della nostra testa».
«Io alla tua età avevo paura di portare i buoi al pasco- «Anche il prete?».
lo, prima dell’alba, specialmente quando pioveva e c’erano «Specialmente il prete, che sa come convincere: è il
tuoni e lampi». suo mestiere. Ma anche ai preti insegnano così, la rasse-
«Dove eravate servo?». gnazione».
«Nell’azienda di Pisugù, la più grande che c’era allora». «Anche a me insegneranno a fare rassegnare la gente?».
«Vi trattava male questo Pisugù?». «In fondo è giusto, insegnare la rassegnazione. Ma io
«Come gli altri padroni». non mi sono lasciato mettere sempre i piedi sul collo».
«Ci siete stato molti anni?». «Come facevate?».
«Tra una guerra e l’altra, dopo il congedo e tolti gli an- «Il padrone ci fregava con la religione. E io, una volta
ni d’Africa. Pisugù aveva la specialità di essere molto reli- l’ho fregato io, a lui, con la religione… Ma queste cose
gioso, ma lo faceva per i suoi interessi. Però queste cose io non devo dirtele».
non devo dirtele. Tuo padre non vuole». Aspettai che riprendesse. Continuò:
«Mio padre non fa mica le parti dei padroni come «Eravamo di settimana santa. Allora si faceva anche di-
Pisugù». giuno, oltre che magro, e il padrone ne approfittava per
«Non è per questo. È per il modo di certi padroni di darci da mangiare peggio del solito. Pentoloni di fave du-
servirsi della religione. Pisugù diceva che tutto è volontà re, a volte senza nemmeno sale. Una sera mi toccava il ser-
di Dio, ma lo diceva solo quando gli faceva comodo. vizio nelle stalle, ma ero troppo stanco. Ci ho pensato un

118 119
po’, poi sono andato dal padrone e gli ho detto che dove- Alla fine della giornata avevo il mio sacco pieno, per la
vo andare a confessarmi e comunicarmi, per l’obbligo pa- prima volta.
squale. “Ci vai domani mattina”, mi dice lui. “Ma doma- Mio padre tornò il giorno seguente. Con una faccia
ni mattina non c’è prete per confessarmi”, dico io, “oggi come quando aveva la malaria. Per fortuna avevamo anco-
c’è anche il prete di Ortacesus”. Lui cercava scuse, ma lì ra grano da mietere.
per lì non ne ha trovate. “C’è il tale che mi sostituisce”, Ogni giorno riuscii ad avere anch’io il sacco pieno. Ave-
dico. “E va bene”, termina lui arrabbiato. La stanchezza vo fatto i miei calcoli. Adesso eravamo più poveri. Io vole-
mi è passata subito. Sono andato a casa, ho mangiato due vo spigolare tanto grano da comprarmi scarpe nuove e far-
uova anche se allora in quaresima erano proibite, e ho mi un cappotto per l’inverno del Piemonte.
dormito con mia moglie, dopo due settimane, hai capito?
Il mattino dopo ho poltrito in letto fino alle sette e verso Quell’anno i buoi pascolarono più a lungo del solito
le otto tutto fresco e allegro sono andato a casa del padro- nelle aie, dopo il raccolto. C’era tanto grano semibruciato
ne. Sia lodato Gesù Cristo, dico come se venissi di chiesa. da mangiare per loro. Ma bisognava stare attenti che non
E lui mi manda in cucina a prendere il caffè offerto dalla mangiassero anche cenere, perché si sarebbero ammalati.
padrona in persona, come era l’usanza, tutti gli anni Il cappotto per l’inverno del Nord riuscii a comprar-
quando si faceva l’obbligo pasquale». melo solo di roba americana, ma le scarpe me le feci nuo-
«E la comunione non l’avete fatta?». ve, basse. Le mie prime scarpe non chiodate.
«Un’altra volta. Come facevo, se ho dormito fino alle Il giorno che partii, anche le scarpe erano nella valigia
sette?». di cartone. Quando arrivai a Cagliari non riuscivo a cam-
Prima di addormentarsi, ziu Prameriu, forse senza ac- minare sulle strade asfaltate, con le mie solite scarpe chio-
corgersene, mi disse anche che mio padre era rimasto in date. Ma avevo quelle buone per le strade del Piemonte.
paese perché si era sentito male per la furia di spegnere Mio padre e mia madre mi avevano raccomandato
l’incendio, con rami di mandorlo e di fico. molto di badare sempre alla mia valigia. Nel Quarantaset-
te, quando mio padre era andato a Roma per un conve-
Il mattino dopo ho voluto mietere anch’io, con la falce gno degli uomini cattolici, al ritorno sul molo di Civita-
di mio padre. Ziu Prameriu non voleva, ma poi mi diede vecchia gli avevano rubato la valigia, coi ricordi di Roma e
le istruzioni. Mi allacciai il grembiule di panno azzurro di i ritratti del papa e di Luigi Gedda.
mio padre, me lo arrotolai per non inciamparci, e mi infi- Ma io legai una cordicella per un capo al manico del-
lai le mezze maniche. la valigia e per l’altro capo alla cinghia dei pantaloni non
Ma quasi subito mi tagliai profondamente il mignolo più ornata di stellette militari.
della sinistra. Ziu Prameriu si mise a imprecare e mi ordinò
di pisciare sulla ferita. Non mi lasciò più mietere, e me ne
andai sotto l’ombrello verde a soffiare sul mignolo sangui-
nante. Intanto riflettevo. Quando arrivarono zia Giuannet-
ta e Aléne, mi misi con loro a spigolare con impegno. Le
due donne parlarono tutto il giorno dell’incendio nelle aie.
Cercavano di non farmi capire ciò che io avevo già capito.

120 121
CONTROTEMPO specialmente se durano poco, in modo che sia solo un gio-
co che non stanchi.

A casa c’era una novità che m’incuriosiva. Mentre ero


via, mi avevano scritto che mio fratello Ottavio ha tirato
su le strutture della sua casa perché sta per sposarsi. Sapevo
Non sono stato via per anni di seguito, come un paio già del progetto: un parallelepipedo che avrebbe occupato
di altre volte. Ma ho avuto ancora voglia di tornare a casa. tutto lo spazio del nostro vecchio cortile rustico, dalla stal-
E come le altre volte sono state buone le sensazioni del ri- la vuota dei buoi da lavoro, al letamaio, al forno a cupola,
torno, con un poco di pudore e di nuova meraviglia per fino al pozzo e al pagliaio.
questo mio ritrovare tutto amichevole e armonioso, le cose Ottavio è l’unico, di noi dodici fratelli e sorelle, rima-
e le persone. Al Brennero mi ha sorpreso un’eleganza, mai sto a lavorare la terra. Terra degli altri. Ed è anche il solo,
notata prima, dei nostri finanzieri, carabinieri, poliziotti, per ora, che metterà su casa in paese con una del paese.
che so di non avere imparato da nessuno ad amare. E a Gli altri siamo tutti sparpagliati in dintorni più nordici, da
Civitavecchia, in attesa del traghetto per il Golfo degli Roma a Stoccarda. Così, fra poco, mio padre e mia ma-
Aranci inesistenti, ho impiegato la lunga attesa ammiran- dre, quando rifaranno l’elenco dei loro generi e delle nuo-
do i modi e i visi dei sardi in transito verso il Natale di ca- re, dei coniugi dei propri figli, come fanno spesso con un
sa, gli adulti maschi con la faccia lorda di barba non fatta, poco di tristezza, potranno annoverare anche una nuora
le donne e i giovani segnati in modo vario dalla mutazione delle nostre parti, insieme con una del Varesotto, una bre-
del trentennio, ma tutti riconoscibili e non trasfigurati. sciana, una calabrese e una della Romania; insieme con un
Comunissima aria di casa, che ubriaca come vino do- genero emiliano, uno cagliaritano, uno mezzo napoletano
po una lunga astinenza. e, come diciamo noi fratelli scherzando, insieme con «uno
Però tutto si riproporziona a poco a poco, reimparan- di tutte le parti», perché la nostra sorella maggiore è suora
do a respirare l’aria di casa. Fino al momento di ripartire, e perciò sposa del Cristo di tutti i posti.
quando tutto diventa di nuovo buono, e si riscopre, come Nell’ultimo tratto di viaggio, verso il paese, ho cercato
all’arrivo, l’agio del metter mano nelle proprie tasche. di immaginare l’effetto del non trovare più, in casa, cose e
Il figlio di zia Ciccitta, da vent’anni in Olanda, l’ulti- ambienti di prima della nostra diaspora familiare, cancel-
ma volta che è venuto a Natale, arrivato il mattino della ri- lati dalla casa di Ottavio. Una questione di affetti privati
partenza si è seduto un momento davanti al camino, e si è ed esclusivi. Ma mi sentivo ancora in polemica verso certi
messo a piangere in silenzio, mentre sua madre piangeva rimpianti di lusso, ambigui, pessimismi culturali neoarca-
con lui e suo padre fingeva di canzonarli entrambi. Non dici e forme morbose di rammarico: contro la coscienza
voleva più ripartire, non perché non volesse tornare in distorta del mutamento, sopravvenuto nel trentennio pas-
Olanda, dove si sta meglio, ma perché non è possibile re- sato, che ricerca salvezza nella riconquista di un’autenti-
stare a casa, col meglio dell’Olanda. cità di comportamenti e di sentimenti, che sarebbe pro-
Tornare a casa è una festa, non è la ferialità quotidiana pria di un mondo contadino, scomparso anche da noi in
di prima di andarsene. Le rimpatriate sono sempre dolci, Sardegna.

122 123
Com’è che diceva a suo tempo Fontenelle? «… l’agré- assistenti e dottorandi di quell’istituto scientifico, sporchi e
ment des bergéries consiste à n’offrir aux yeux que la tran- puzzolenti di stalla e di un ottimo formaggio danese, feti-
quillité, dont on dissimule la bassesse: on en laisse voir la do come gorgonzola, malvestiti e irsuti di barbe e di capel-
simplicité, mais on en cache la misère». Se n’era accorto li. Il medesimo fetore di stalla e di formaggio ristagnava in
perfino uno come lui, e ai suoi tempi, figurarsi chi da tutti i locali dell’istituto. Le donne vestivano larghi e infor-
quel mondo è uscito perché ci si stava male. mi calzoni di tela azzurra e vecchie camicie contadine sen-
Ma in fondo temevo che tutte quelle dolci sensazioni za colletto, arrivavano e se ne andavano sotto ombrelloni
del tornare a casa avrebbero potuto ingigantire e distorce- verdi come quelli dei contadini delle mie parti, chi con
re questo mio sentire, verso dimensioni pubbliche e di scarponi, chi con vecchi zoccoloni di legno, ma tutte le
coscienza d’un’epoca, di crisi naturalmente. Mi preoccu- calzature maschili e femminili erano ornate e profumate,
pava, insomma, il timore che la mia personale nostalgia apposta e ad arte diceva Rudolf, con resti di strame. Intel-
dei tempi e delle cose passate, ora non più testimoniati lettuali travestiti da contadini che lassù non ci sono più a
nemmeno da ciò che la casa di Ottavio cancellava, diven- quel modo da ben più di mezzo secolo.
tasse rimpianto per tutto un mondo e una condizione che Ho domandato a uno di loro se tutti fossero di origine
non è più, che la mia infanzia divenisse la trasfigurazione contadina. Nessuno lo era, ma tutti si erano trasferiti in
dell’infanzia agreste del mondo. Sono temi e sentimenti villaggi intorno a Copenhagen, in ambienti agricoli ripor-
nuovamente di moda, e aspetti di nuovi conformismi. tati alle condizioni del secolo scorso, prima metà. Un loro
Questo rimuginare aveva però anche una ragione re- rimpianto era non poter fare la spola tra fattoria e univer-
cente. Qualche tempo prima, a Copenhagen, avevo in- sità a cavallo, o magari col carro a buoi e in slitta.
contrato certi folkloristi bifolchi di quelle parti, e mi ero Mi hanno dimostrato molta simpatia, quando hanno
trovato costretto a dire cose che ora mi sembravano molto saputo che sono sardo. Io li ho ricambiati ricordando un
dure, contro il dilagare di vagheggiamenti di arcadie per- etnologo danese che è stato il miglior studioso dell’antico
dute. E poi, in quell’autunno scandinavo, in una nordica strumento sardo a fiato, le launeddas. Però sembravano di-
città che non ricordo, avevo capito dai titoli dei giornali spiaciuti del mio modo di vestire normalizzato.
che in Italia era stato ucciso Pier Paolo Pasolini, e avevo C’è del marcio in Danimarca, ripeteva Rudolf fra il
sentito un senso di colpa, nonostante il mio alibi di ferro. puzzo di letame. Lui riusciva a divertirsi, mentre il mio
sentimento più benevolo era la meraviglia. Loro, i danesi,
A Copenhagen ero capitato un po’ per caso, col mio mi hanno sollecitato spesso a dire la mia, su questo mon-
amico Rudolf, studioso di cultura popolare europea, tede- do che perde ogni dimensione umana. Ero tentato di par-
sco, ma un tedesco notevole, perché il suo tema preferito tire da un’osservazione fatta in quei giorni in città: l’ab-
di studio non è l’amore germanico per i boschi e le belle bondare di porno-shops rusticani, dove si vende ai più
che vi si addormentano, ma la sua idea che i tedeschi da raffinati documentazione sul sesso villereccio di una volta.
qualche tempo a questa parte lavorano per rimorso, e che Ma sono riuscito solo malamente a richiamare la loro at-
hanno tirato su quel bel po’ di Germania per dimostrare tenzione sul fatto che i prezzi che si pagano al progresso e
che non sono solo cattivi. Emigranti per lavoro essi pure. al mutamento sono anche e soprattutto prezzi che si paga-
Rudolf ha tenuto una serie di conferenze agli studiosi no a forme distorte di progresso, non al progresso in
danesi di cultura popolare. Un uditorio singolare: professori, quanto tale; che perciò non hanno molto senso i rimpianti

124 125
per forme di vita definitivamente sostituite. Loro mi Con pudore istintivo stavo mimando il ritorno da un
ascoltavano calmi e amichevoli, democraticamente dispo- lungo girovagare, alla ricerca delle memorie dell’infanzia
nibili, mentre io inciampavo e m’indispettivo per la diffi- come memoria del mondo. In privato celebravo con par-
coltà di dover dire cose a loro tanto estranee in una lin- tecipazione il rito stantio dell’estetica decadente, quasi
gua estranea. tutto dentro l’orizzonte mitico dell’infanzia stagione della
Insistevano, una volta, che parlassi della Sardegna. Ho poesia e delle esperienze basilari. Non poteva anche esse-
detto loro dell’atteggiamento di lamento e di ironia dei re, questo, uno di quei momenti di grazia della maturità
contadini e dei pastori sardi verso la loro esperienza di vi- in cui si riducono a chiarezza le rivelazioni prime delle co-
ta, e invece delle nostalgie di drappelli di piccola borghesia se? Ma ecco qua, distrutti, trasformati, abbozzati, ma fusi
intellettuale, urbana e campagnola, per il mondo rurale insieme, i segni del contrasto mio privato fra città e cam-
scomparso. Reagivano con placidi cenni di assenso, anche pagna, tra infanzia e maturità, tra spontaneità primigenia
quando mi lasciai scappare che per il mondo delle campa- e fredda ragione culta.
gne non si fa nulla scimmiottandone usi e costumi. Uno scroscio di pioggia mi ha spinto dentro casa, la
Avrei voluto dire le stesse cose con quel loro stile. vecchia casa scuriosa dai muri panciuti che vorrei raddriz-
Uno con una barba bionda, che sembrava un Marx vi- zare a ogni rivederli, ma che stavolta ho amato così storti e
chingo, commentava con soavità francescana che gli ita- lordi di umidità, senza bisogni di pareggiare, adattare, cor-
liani, da Machiavelli in poi, vedono il mondo deformato reggere, trasformare. E poi però, quando mia madre inso-
dalla politica; e ricordava l’opinione di Marx che le tappe litamente loquace ed eccitata, mi ha spiegato per bene co-
del progresso sono scritte negli annali dell’umanità a tratti me sarà, quando finita, la casa di Ottavio, allora ho capito
di sangue e di fuoco. Già, ma una volta fatti certi sforzi e con sollievo che i miei sentimenti erano miei esclusivi. Le
pagati certi prezzi, per favore non chiedete a nessuno di ho chiesto se a lei non dispiacesse un po’ che tante cose di
tornare indietro, di rinunciare agli antibiotici per gli im- prima adesso non erano più. Lei mi ha guardato come chi
piastri e al frigorifero per il pozzo. dice cose fuori luogo, forse con quella medesima meravi-
Ci ho dato sotto, anche se mi sembrava che loro mi glia con cui io guardavo i villani rifatti di Copenhagen.
guardassero come un piccolo rimorchiatore asmatico che Ho cercato di spiegarle che la cancellazione delle testi-
cerca di tirare in porto il bastimento del capitalismo. monianze di quella parte della nostra vita passata mi face-
va malinconia.
Rivincita degli affetti, vendetta della nostalgia, c’è stata «Come sei tonto» mi ha canzonato. «Dio ce ne scampi
davvero, a cominciare da quando ho visto scardinato e dal ritornare a quei tempi».
messo da parte il vecchio portone, che vent’anni prima Ha riflettuto un poco e poi ha concluso:
mio nonno e io avevamo dipinto di azzurro, come era di «Si vede che ti ricordi male, a forza di stare lontano da
moda allora; e troneggiare lo scheletro di un edificio cubi- qui».
co là dove prima era il cortile coi suoi annessi rustici e an-
tichi, i luoghi delle scoperte della mia infanzia, gli archeti- Deus s’indi campid a torrai cussus tempus. Lo so anch’io
pi del mio mondo. Senza farmi accorgere da nessuno in che vede giusto mia madre. Non perché lei partecipi di
casa, ho girato più volte silenzioso attorno alla struttura in ciò che chiamano saggezza contadina. Perché invece i suoi
blocchetti di calcestruzzo. pensieri e i suoi sentimenti si prolungano in sintonia dai

126 127
pensieri e dalle preoccupazoni di tutti i suoi figli, che vi- arretrate del fronte, agli occhi dei manovrati incomincia-
vono le sollecitudini del presente e non hanno occasione no a risaltare i lineamenti delle strategie, dei lenti movi-
di rimpiangere un passato di maggiore miseria. Miseria menti di massa, non più solo le tattiche e gli espedienti
per lo meno materiale. per la sopravvivenza individuale nella precarietà quotidia-
Ma chi non ha memoria storica non ha nemmeno il na. E mentre bizzarri capitani, sconfitti o a capo di nien-
senso della fine, o degli inizi, o della crisi come transeun- te, fanno i loro canti del cigno, la truppa si sta già muo-
te, e si appaesa sempre fuori dal presente storico? E fa sua vendo per nuove strategie, con nuovi capitani, anche se
sempre la morale del servo hegeliano, il cui destino è di continuano a fare notizia le bravate degli sbandati e i bei
vivere e di fuggire inutilmente dalla morte e da tutto ciò gesti degli irregolari.
che la ricorda?
Non so abbastanza quanto valga la pena di tentare, col
Certamente hanno ragione pure gli scettici, che nota- mezzo antico del raccontare, un contributo a far crescere la
no come tutti i tempi sono di crisi. Ma, qui dietro, ci so- consapevolezza di ciò che siamo diventati. Siamo però cer-
no trent’anni di storia che non sembra tumultuosa, che tamente in tanti, dentro quest’Occidente industriale, con-
invece sono stati per tutta la nostra gente l’ingresso rapido tadini di fatto o di estrazione, ma nuovi, senza molte buo-
e definitivo nella storia moderna, la fase finale di una ne occasioni per considerare il senso di questa nostra storia
grande trasformazione. Trent’anni che si aprono anche particolare, l’importanza di un processo di cui siamo va-
qui con le lotte per la terra, il pane e il lavoro, la riforma rietà specifiche di figli e di eredi. Ma eredi che dobbiamo
agraria, e per la democrazia e il progresso civile; e ora si accogliere il lascito col beneficio dell’inventario. Anche se
chiudono, veramente sul calare di una parabola, con un abbiamo mille ritegni solo a ricordare, perché lo facciamo
ritorno parziale e non voluto, come non era voluta la par- col filtro di almeno un paio di conformismi, e la memoria
tenza in massa e dolorosa verso altri luoghi e altre dimen- si offusca per il riemergere di sedimenti spessi di pudore
sioni di vita. Un presente che non lascia molto tempo per per il nostro essere venuti di campagna. E per chi ricorda
fare conti di perdite e di ricavi, ma forse alla mente meno narrando, la memoria si offusca anche per il riemergere di
oscuro del passato. sedimenti di popolarismo e di memorialistica rusticana,
simplicia simplicissima. Soprattutto per colpe non nostre, la
Ha ragione anche mia madre, quando dice che non nostra terra d’origine è terra di molti rimorsi.
ricordo bene, perché ricordo a modo mio, diverso forse
molto dal suo: navigando sugli stessi mari siamo approda- Forse è lecito versare un tributo ai molti vezzi del boz-
ti in porti diversi, con modi diversi di tenere un giornale zettismo di tono popolare, e alla moda della carità culturale
di bordo. Eppure sia lei che io ci sentiamo al termine di per il popolare rustico, ma riuscendo a pagare solo quel
una vicenda che ne genera un’altra, quando i casi degli in- tanto di pedaggio che autorizzi a tentare uno sberleffo a
dividui appaiono fatti anche di interi gruppi di uomini. certe voghe, male invecchiate e rimesse a nuovo. I conti
Alle schermaglie ultime di una strategia secolare di conqui- vanno fatti comunque per trarne profitto, anche con du-
sta di questo nostro mondo che dicono contadino, con rezze sgradevoli a molte orecchie, quando non è bene dare
poche battaglie in campo aperto, ma di lunghe manovre di esca nuova ai ruralismi salvifici, ma è necessario far emerge-
infiltrazione e di accerchiamento, anche su queste porzioni re il mondo contadino recente e remoto dall’idillio agreste

128 129
nuovamente ricorrente; e bisogna deludere la simpatia tre-
pida di molti per i buoni villici delle proprie contrade, resi-
stendo alle nostalgie cosmiche della decadenza, alle speran-
ze ingenue di ritorni e arresti impossibili, che da queste
parti non si ha modo di sognare, senza rimpianti, ma con
qualche rancore.

Difficile è alludere al futuro che si teme, ma è possibi-


le usare il timore come forza positiva, per vincere la tenta-
zione dell’anticipo, della fuga in avanti, sciocca come la
fuga all’indietro, perché vuol dimenticare il peso del pas-
sato e della continuità. È possibile, se è vero che questa
paura di oggi è anche un bisogno stravolto di trasforma-
zione e di novità.
Conti dell’inventario che dobbiamo fare, questi venti
quadri contano gli spiccioli, ma vogliono alludere alle
grandi cifre del trentennio ultimo scorso.

130
INDICE

5 Nota introduttiva
11 Ricerca sul campo
18 L’ultima transumanza
22 Domino
25 Chi ha visto il mondo
30 I conti della rinascita
33 La strategia di Fedele Succu
39 Il reddito
43 L’ultimo carrettiere
49 Città e campagna
57 Voltaire e il gendarme
65 Il campione mondiale
67 Martirio oscuro
77 Trent’anni dopo
80 Componimento
82 Pesca di frodo
89 Arrichetteddu
95 L’esorcismo
103 A fuoco dentro
111 Zicchirìa
122 Controtempo
SCRITTORI DI SARDEGNA
Volumi pubblicati

1. D.H. Lawrence, MARE E SARDEGNA


2. E. Costa, GIOVANNI TOLU
3. G. Spano, PROVERBI SARDI
4. S. Satta, CANTI
5. G. Dessì, LEI ERA L’ACQUA
6. Valery, VIAGGIO IN SARDEGNA
7. S. Atzeni, PASSAVAMO SULLA TERRA LEGGERI
8. O. Bacaredda, CASA CORNIOLA
9. G. Fiori, VITA DI ANTONIO GRAMSCI
10. A. Bernardini, LE BACCHETTE DI LULA
11. Montanaru, CANTOS
12. C. Gallini, INTERVISTA A MARIA
13. S. Cambosu, UNA STAGIONE A OROLAI
14. B. Bandinu - G. Barbiellini Amidei, IL RE È UN FETICCIO
15. A. Carta, ANZELINU
16. B. Zizi, ERTHOLE
17. P. Casu, LA VORAGINE
18. A. Cossu, I FIGLI DI PIETRO PAOLO
19. G. Pinna, IL PASTORE SARDO E LA GIUSTIZIA
20. C. Nivola, MEMORIE DI ORANI
21. P. Rombi, IL RACCOLTO
22. P. Casu, GHERMITA AL CORE
23. E. Lussu, IL CINGHIALE DEL DIAVOLO
24. G. Deledda, CHIAROSCURO
25. G. Dessì, I PASSERI
26. A. Puddu, ZIO MUNDEDDU
27. B. Zizi, IL PONTE DI MARRERI
28. C. Bellieni, ELEONORA D’ARBOREA
29. S. Mannuzzu, IL TERZO SUONO
30. R. Puddu, PUEBLO
31. B. Tognolini, CIÒ CHE NON LAVA L’ACQUA