Donato Bilancia

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INDICE

Introduzione……………………………………………………………………….. p. 2

CAPITOLO I – LA “LETTERATURA” DEL MOSTRO

§. 1.1 Dalla teratologia alla costruzione del mostro mediatico…………. » 7

§. 1.2 Biografia di un pluriomicida: il caso Donato Bilancia……………. » 23

CAPITOLO II – SOCIOLOGIA DEL MOSTRO: IL CASO DONATO BILANCIA

§. 2.1 Il “mostro” come prodotto sociale………………………………….. » 40

§. 2.2 Bilancia e la “paura”………………………………………………….. » 61

CAPITOLO III – GLI INQUIRENTI E IL CASO DEL SERIAL KILLER LIGURE

§. 3.1 Gli inquirenti e la tensione……………………………………………. » 89

§. 3.2 La cattura del “mostro”………………………………………………. » 104

Conclusioni………………………………………………………………………… » 118

Bibliografia………………………………………………………………………… » 123

1
INTRODUZIONE

Nel corso della sua evoluzione l’uomo, in funzione del vivere civile e

dell’essere un «animale sociale», ha modificato molte delle sue inclinazioni

naturali, limitando parte dei propri impulsi ancestrali; l’incivilimento, infatti, lungi

dall’essere un processo indolore, ha avuto un prezzo non trascurabile, ovvero

quello di obbligare l’umanità a contenere le proprie pulsioni sessuali e aggressive.

La vita civile, in sostanza - o meglio l’ordine imposto sul disordine (così come

sosteneva Freud) – ha rappresentato un compromesso che ha concesso all’umanità

di scambiare parte della sua felicità per una sorta di, seppure illusoria, sicurezza.

Appare lecito parlare di «illusorietà» se, ragionando sulla società

contemporanea, si riflette sul numero di criminali pericolosi che affollano le

carceri, si aggirano per le strade, nei titoli di giornale e sotto la luce dei riflettori;

l’essere diventati cittadini del mondo, infatti, ovvero l’aver accettato norme e

regole individuali e collettive che hanno determinato l’esistere della società, non

ha salvato l’uomo da se stesso e neppure dalla paura dell’altro. Anzi, nella sua

veloce corsa verso il progresso, nella sua spasmodica ricerca di un «eden»

moderno, ad uso e consumo di una popolazione sempre più vasta, l’uomo ha perso

il suo essere socius e spesso si è trovato a vivere in solitudine, isolato in mezzo

alla massa dei suoi simili.

«Il mondo contemporaneo», scrive Bauman nel suo La solitudine del

cittadino globale, «è un contenitore pieno fino all’orlo di una paura e una

2
disperazione erratiche, alla ricerca disperata di sfoghi. La vita è satura di cupe

afflizioni e sinistre premonizioni, ancor più temute per la loro non – specificità, i

loro contorni indistinti e le loro radici nascoste» (Ivi, p. 22); fondamentale per la

diffusione di un tale stato d’animo è stata la nascita e lo sviluppo dei media che,

imponendosi al mondo, hanno assunto il ruolo di portavoce ufficiale dei disagi,

delle fobie e delle ossessioni di una civiltà che sembra giunta al punto di non

ritorno.

Ogni giorno, infatti, le pagine dei quotidiani e le cronache trasmesse dalle

emittenti televisive informano il cittadino su quanto accade nel mondo e non c’è

notizia che non indugi sugli aspetti più inquietanti di un fatto e che non cerchi di

instillare sentimenti forti e spesso allarmanti; la maggior parte delle volte, per

seguire la regola di un sensazionalismo a tutti i costi, la realtà viene stravolta e

dilatata e il messaggio trasmesso sembra volere incessantemente ricordare

all’uomo sociale, chiuso nel giardino delle sue precarie sicurezze, che poco o

nulla è riuscito a fare per reprimere e imbavagliare i suoi impulsi ancestrali.

Si potrebbe pensare che il cives moderno sia in grado di sfuggire alla

logica dei media, al loro dilagante «pessimismo», al loro modo di comunicare la

vita, ma non è così; i media, infatti, rappresentano, oggi più che mai – in un

mondo sempre più globalizzato - l’organo di informazione per eccellenza, una

sorta di «voce della coscienza» a cui il cittadino si affida non solo per essere

informato su quanto accade, ma per adottare un certo punto di vista sulle cose, per

comprendere i propri simili e per sapersi muovere tra di loro. Parlare degli

uomini, però, significa affrontare tematiche, per quanto pratiche e tecniche, che

3
sempre hanno a che fare con l’ «universo» delle emozioni, un universo nel quale

sembrano spesso prevalere sensazioni di paura, di timore e di inquietudine.

La vicenda di Donato Bilancia, una tra le tante che si potevano analizzare,

pare emblematica in questo senso; la ricostruzione della storia del serial killer

ligure attraverso le cronache dei quotidiani e dei servizi televisivi, di fatto,

fornisce una chiaro esempio del rapporto esistente tra media e, in questo caso, la

paura. Dal primo omicidio sino all’ultimo, infatti, le pagine dei giornali e

numerosi servizi televisivi si impossessarono del caso Bilancia e contribuirono a

diffondere un certo panico tra i cittadini, trasfondendo, con i propri titoli riportati

a lettere cubitali, nuove angosce e facendone riemergere delle antiche.

Il crimine, in questa occasione, divenne per i media una sorta di spettacolo

eccellente, eccitante, un oggetto da osservare, un soggetto interessante per gli

sceneggiatori dei mezzi di comunicazione tanto che, come sottolinea Bauman, nel

suo Dentro la globalizzazione, «se si giudicasse lo stato di una società dalle forme

spettacolari con cui viene rappresentata – come per lo più facciamo, che lo si

voglia o no ammettere con noi stessi e gli altri – dovremmo fare ancora altre

ammissioni: che il numero di criminali rispetto alla “gente comune” sembrerebbe

eccedere di gran lunga il numero delle persone già detenute» e aggiunge «la vita

umana nel suo complesso sembrerebbe navigare nella stretta gola tra la minaccia

di subire una violenza e la necessità di attaccare a nostra volta chi potenzialmente

porti l’attacco» (Ivi, p. 130).

La presente trattazione, dunque, ponendosi l’obiettivo di analizzare il

rapporto stabilitosi tra i media e la paura nella costruzione del caso Bilancia, è

stata strutturata in tre capitoli. Nel primo, si parte dalla ricostruzione storico –

4
letteraria della figura del “mostro”, con incursioni nel mondo del cinema e della

lettura di intrattenimento, per arrivare ad analizzarla alla luce dei media

contemporanei; a differenza del mostro “classico”, emarginato e chiuso in un

altrove, quello mediatico si pone come elemento destabilizzante del quotidiano e

appare minare le certezze di ognuno. Dall’essere mostruoso e repellente, dunque,

oggi i media ci rimandano l’immagine di un individuo apparentemente tranquillo,

simile in tutto e per tutto a chiunque di noi – e per questo più mostruoso - come

nella vicenda, appunto, di Donato Bilancia. La seconda parte del primo capitolo,

quindi, entra nello specifico del tema e, utilizzando come fonte primaria gli

articoli di quotidiani e riviste, tenta di ricostruire la biografia del pluriomicida

ligure, e conferma l’ipotesi dell’omicida come un uomo definito da molti

“assolutamente qualunque”, anzi, “una brava persona”.

Il secondo capitolo, invece, viene dedicato ad approfondire gli aspetti

sociologici connessi alla vicenda del serial killer ligure; si tenterà, infatti, di

fornire delle risposte sul perché un individuo apparentemente normale possa

arrivare a macchiarsi di crimini tanto efferati, su quale ruolo abbia giocato la

famiglia e, più in generale, la società nel suo insieme. Determinante sarà l’analisi

e la definizione di alcune forme di “devianza”, che fornirà gli elementi essenziali

per l’inquadramento della tematica in un contesto più ampio; centrali si

dimostreranno soprattutto gli indirizzi sociologici culturali, che interpretano la

criminalità alla luce delle condizioni insite nella struttura sociale, come pure le più

recenti teorie dell’interazionismo o dell’etichettamento e quelle multifattoriali.

Ognuno di questi approcci metodologici, come vedremo, porta con sé punti di

forza e punti di debolezza, ma tutte, comunque, hanno contribuito alla

5
comprensione dello stretto rapporto esistente tra società e criminalità. Come nel

primo capitolo, anche questo secondo, si conclude con un paragrafo interamente

dedicato al caso Bilancia e, alla luce del quadro di riferimento esposto nella prima

parte, al rapporto esistente tra il pluriomicida ligure e la paura secondo un’ottica

mediatica. Come vedremo, da subito Bilancia e paura divennero per giornali e

televisioni un binomio quasi indissolubile, un binomio al quale spesso si

accompagnarono immagini di “disgregazione e disordine sociale” e sentimenti di

“inquietudine” e di “tensione”.

Il terzo capitolo, infine, è interamente dedicato alle figure degli inquirenti

coinvolti nelle indagini del serial killer ligure, al modo in cui queste vissero

l’intera vicenda, nel tentativo di capire se la “paura” fosse un sentimento diffuso

anche al loro interno. Dall’analisi dei giornali, principale fonte del capitolo, - in

quanto è stato impossibile reperire altro materiale bibliografico a riguardo –

emerge senza dubbio una forte “tensione” tra investigatori e forze dell’ordine, una

tensione che non tese neppure a diminuire dopo l’arresto di Bilancia, avvenuta il 6

maggio 1998, dopo l’uccisione di ben 17 vittime.

6
CAPITOLO I

LA "LETTERATURA" DEL MOSTRO

§. 1.1 Dalla teratologia alla costruzione del mostro mediatico

In un’epoca come quella attuale, caratterizzata da una curiosità diffusa per

tutto ciò che appare estremo e deviante, anche i “mostri” 1 sono diventati

argomento di moda, spesso, però, dibattuto e affrontato in maniera superficiale e

approssimativa. In passato, diversamente, lo studio del mostro era affidato ad

esperti di teratologia (dal greco logos, discorso, e téras, cosa mostruosa)2, dediti,

soprattutto, ad indagare sul perché delle anomalie morfologiche umane e vegetali3.

L’interesse verso il mostruoso, tuttavia, non si limitò a suscitare dibattiti

solo in ambito scientifico e, infatti, numerosi pensatori e filosofi - partendo

dall’esistenza di creature mostruose - specularono su una possibile connessione tra

la creatura e un imperscrutabile volere divino e sulle motivazioni che potevano

aver indotto il Creatore a dar vita a esseri tanto orrendi4.

1
L’etimologia del termine “mostro” è oscura, sembra tuttavia derivare da moneo, ammonisco, o
da monstro, esibisco. Il termine latino Monstru(m), di origine indeuropea, stava a significare
“segno divino degli dei, fenomeno contro natura, prodigio”.
2
Cfr. F. CORDAI, voce «Teratologia», in Enciclopedia Italiana, vol. XXXIII, Utet, Torino, 1992, pp. 545 - 548.
3
Per un approfondimento, si veda: G. CUBONI, La teratologia vegetale e i problemi di biologia
moderna, in «Riv. di scienze biologiche», 1900.
4
Montaigne, ad esempio, interrogandosi sul significato che avevano le alterazioni della natura
costituite dai mostri, aveva concluso che Dio comprendeva nella propria opera anche le creature
per noi più orrende (Citazione riportata da F. GIOVANNINI, I mostri, Castelvecchi, Roma, 1999, p.
6).

7
A differenza dei pagani, che consideravano le nascite anomale come

incarnazioni di déi ugualmente mostruosi, e dunque li veneravano e poi

mummificavano (nell’antico Egitto) o li uccidevano ritualmente alla stregua dei

greci e dei romani, i cristiani, il cui divino s’identificava con la perfezione, e

l’infanticidio era proibito dalla Legge di Dio, si trovarono confusi e storditi di

fronte a quelle malformazioni congenite che assomigliavano in maniera

sconcertante ai demoni dei gentili. I più, tuttavia, cercarono di inserire queste

nascite nel sistema di spiegazione totale costruito dai Padri della Chiesa secondo i

quali alcune cose dovevano essere lasciate alla fede; si sostenne, allora, che

l’esistenza dei mostri poteva essere interpretata secondo tre modi diversi: come

segno della collera di Dio, provocata dal peccato; come modo per ricordare che

ogni nascita era miracolosa quanto la Creazione originaria e come auspici e

presagi per il bene dell’umanità5. Queste tre ragioni, però, spiegavano l’esistenza

dei mostri non «eziologicamente», con riferimento a ciò che li aveva generati, ma

«teleologicamente», ovvero rispetto alle loro finalità; la mentalità dell’Europa

cristiana, tuttavia, rimase a lungo legata a queste spiegazioni teologiche e da

quelle derivanti dalla filosofia antica - Aristotele aveva sostenuto che i nati

deformi erano lusus naturae, ossia scherzi di natura, e pertanto mostrabili a scopo

di lucro6 - e ancora alla fine del Cinquecento la teratologia si trovò ad oscillare tra

teorie teleologiche e teorie eziologiche.

In conseguenza di ciò, incorporate, a volte, in erudite opere latine e, a

volte, in popolari compendi nelle diverse lingue volgari, si diffusero delle vere e

proprie enciclopedie sui mostri - illustrate da immagini che derivavano da una

5
L. FIEDLER, Freaks. Miti e immagini dell’io segreto, Garzanti, Milano, 1982, pp. 237 - 238.
6
ARISTOTELE, De generatione animalium, Oxonii e Typographes Clarendoniano, 1965.

8
tradizione più antica, dove si confondevano mistificazioni evidenti, figure

allegoriche ed essere umani anormali7; tali opere, mescolando mostri

dell’immaginario mitologico con mostri appartenenti alla sfera del reale,

impedirono a lungo alla teratologia di evolversi in un senso piuttosto che in un

altro. Si dovette attendere i primi dell’Ottocento perché alle mostruosità del corpo

si affiancassero quelle dello spirito - grazie anche alle produzioni teatrali e

letterali che cominciarono ad affrontare tematiche del genere8; il mostro, allora,

diventando simbolo di un malessere interiore che si rifletteva sulla materia, iniziò

ad essere interpretato anche nelle sue valenze sociali e, come conseguenza,

nell’immaginario collettivo si andarono affermando due diversi tipi di mostro:

quello che ispirava simpatia o destava compassione, come Frankenstein 9 e i freak

in generale10, e quello che incuteva timore e contestualmente affascinava, come

Dracula e i vampiri11.
7
Di tale aspetto si è interessato Ambroise Paré che nel suo Mostri e prodigi (Editrice Salerno,
Roma, 1996) indaga sulla differenza tra i mostri creati dalla fantasia, con i tanti intrecci tra umano
e bestiale (uomini - vitello, uomini - cane, ecc.) e contemporaneamente cerca le cause naturali dei
parti mostruosi, individuando, tra l’altro, i cattivi comportamenti delle madri.
8
Pensiamo a La Bottega dell’antiquario di Charles Dickens (Rizzoli, Milano, 1959) dove Quilip,
«simile a un goblin», rappresenta il dwarf (nano) come satiro perverso e persecutore di donne, e la
piccola Nell, «simile a una fata» il midget (nano) come piccolo elfo.
9
Si tratta del Frankenstein partorito dalla fantasia letteraria di Mary Shelley nel 1818 che diede
inizio ad un mito che doveva caricarsi di ulteriori significati simbolici, dal rapporto tra l’uomo e la
scienza, alla solitudine della diversità. Il mito si dilatò immediatamente dalla letteratura al teatro e
infine al cinema, dove era destinato a trovare la sua consacrazione maggiore. La versione
cinematografica più famosa è quella che vede come protagonista Boris Karloff diretto da J. Searle
Dawley nel 1910.
10
Col termine freak si intende «un nano acondroplastico (...) e un gigante acromegalico (...) o due
fratelli siamesi congiunti da una membrana carnosa sullo sterno e una persona deforme per
disfunzioni ghiandolari (...) o deficienze cromosomiche (...). Anche un focomelico vittima del
Talidomide è un freak, ma non lo è un «mutilé» a causa di un incidente stradale. Un freak è nato
così, spesso è incurabile e muore prematuramente...» ( L. DEL BALDO, Vita da freaks, in «Duel», n.
21, 1995); tuttavia il cinema ha aggiunto a questi freaks per nascita anche altri mostri senza alcuna
origine soprannaturale: si pensi al gobbo di Notre Dame, protagonista del romanzo di Victor Hugo,
ripreso sugli schermi con The Unchback of Notre Dame diretto da Wallace Worsley e interpretato
da Lon Chaney (T. MORA, Storia del cinema dell’orrore, vol. 1, Fanucci, Roma, 1977, p. 104), ma
soprattutto dal film Freaks (tratto dal racconto Spurs di Clarence «Tod» Robbins) diretto da Tod
Browning nel 1932 che per la prima volta portò sugli schermi attori autenticamente affetti da
sindromi deformanti.
11
Nato letterariamente nel 1897, grazie al romanzo di Bram Stoker, il personaggio di Dracula si
ispirava ad un principe transilvano del Quattrocento, Vlad Tepes, l’Impalatore.

9
Se verso la fine dell’Ottocento la nascita della psicoanalisi relegò il

“mostro” in uno spazio simbolico, sottraendolo al reale e facendolo diventare

oggetto di studio di una disciplina volta all’analisi dei processi mentali inconsci,

col passare del tempo, la diffusione massiccia dei media e l’imporsi di una società

multimediale, anche il ricorso agli archetipi junghiani o freudiani divenne

limitativo per una corretta e completa comprensione del fenomeno in quanto,

come sostiene Giovannini «...non si può negare che il mostro evochi terrori

inconsci oppure proiezioni infinite dell’eterna paura dell’altro» - un’evocazione

che ha vissuto un passaggio ininterrotto tra i media solcando i secoli, passando

dalla tradizione popolare alla letteratura 12, dal teatro al cinema, infine dal fumetto

alla televisione al computer - per cui «per capire questa lunga storia del mostruoso

come non era sufficiente la semplice catalogazione scientifica delle mostruosità....

così non bastano le categorie psicologiche»13.

È necessaria, in altre parole, un’indagine sociale del mostro, ovvero una

teratologia sociale14, che approfondisca e indaghi sulle motivazioni culturali per le

quali l’orrido, e ciò che produce terrore, siano da sempre temi che affascinano le

masse; uno studio di tal fatta, naturalmente, non potrebbe esulare dall’analisi di
Cinematograficamente sarà il Dracula di Tod Browning (1931), prodotto dalla Universal, a
lasciare un segno indelebile nella storia del cinema fantastico (Per un approfondimento, si veda: S.
ROSENTHAL, Tod Browning, Tantivy Press, London, 1975, pp. 33 - 35). Secondo recenti studi
sociologici Frankenstein (il mostro che non vorremmo mai essere, perché orrido sofferente, senza
amore) sarebbe l’incarnazione del proletariato, mentre Dracula (il mostro che vorremmo tutti
essere, perché immortale, potente e seduttivo), rappresenta il simbolo dell’aristocrazia. Si veda, a
tale proposito, F. MORETTI, Dialettica della paura, in «Calibano», n. 2, 1978.
12
Citiamo, ad esempio, le Metamorfosi di Ovidio (a cura di E. Oddone, Bompiani, Milano, 1988)
dove l’autore, affrontando l’idea della metamorfosi come mutamento mirabile per intervento
divino o magico, racconta in ducento quarantasei favole dal Caos primordiale all’innamoramento
di Narciso, dal combattimento tra Perseo, figlio della pioggia d’oro, e Medusa la pietrificatrice,
fino alla trasformazione di Giulio Cesare in stella.
13
F. GIOVANNINI, op. cit., p. 7.
14
Fine ultimo della teratologia sociale dovrebbe essere proprio quello di considerare il fantastico e
il mostruoso come «una sfida ad affrontare il nuovo: il diverso, il multiforme, il grazioso come il
mostruoso», così si esprime R. RUNCINI, Il sigillo del poeta, Solfanelli, Chieti, 1991, p. 110. Tra gli
autori recenti che si sono occupati di teratologia sociale: GREGORY A. WALLER, The Living and the
Undead, University of Illinois Press, Urbana, Chicago, 1986.

10
quella letteratura e di quel cinema di genere che dall’Ottocento in poi si sono fatti

portavoce dell’interesse quasi morboso che il grande pubblico ha mostrato verso

tutto ciò che è deforme, mostruoso e deviante, anche se questo tipo di produzioni

sono state spesso catalogate come appartenenti alla cultura bassa15.

Prima di passare all’analisi di quella letteratura e di quel cinema di genere

che hanno fatto del mostro un vero e proprio protagonista epocale - senza aver la

pretesa di risultare esaustivi, data la vastità della materia - sembra interessante una

breve digressione sul concetto di «crisi» in quanto tale concetto può fornire una

particolare chiave interpretativa della dimensione sociale del mostro. Il successo

ottenuto sugli schermi da Dracula nel 1931, ad esempio, dimostra che le paure

sociali e politiche prodotte dalla Grande Crisi del ‘29 indussero il pubblico a

cercare brividi fantastici nel regno dell’immaginario; non a caso nei due decenni

successivi alla Grande Depressione nacquero e si costruirono le immagini del

mostro tuttora insediate nel nostro immaginario 16. La crisi economica del ‘29,

destabilizzando le certezze del mondo industrializzato e occidentale17, si

15
Tale giudizio negativo, tuttavia, non è stato condiviso all’unanimità e vi sono stati studiosi, come
Alberto Abruzzese, che hanno tentato di andare oltre il prodotto finito, cercando di spiegare il
«non - detto» dell’immaginario mostruoso, di evidenziare i significati latenti di storie, solo
apparentemente, di puro intrattenimento. Per un approfondimento A. ABRUZZESE, La grande
scimmia, Napoleone, Roma, 1980.
16
«La crisi di Wall Street del ‘29 infrange troppo bruscamente l’illusione hooveriana della
“prosperità all’angolo della strada” in cui si era cullata “l’età del jazz”, la beata società borghese
degli anni Venti. Ora i disoccupati si vedono ovunque, la realtà operaia diventa per la prima volta
rilevante agli occhi dell’uomo americano. Negli anni che precedono l’avvento di Roosevelt e la
nascita della politica del “New Deal”, gli smarrimenti, gli incubi e le preoccupazioni degli
americani trovano una singolare corrispondenza nel parallelo sviluppo di due filoni, il “gangster
film” e “l’horror film”; e non sarà arrischiato scorgervi due facce, la cronachistica e la fantastica,
del medesimo mondo spirituale». Così E. G. LAURA, Quando Los Angeles si chiamava Hollywood.
Cinema americano tra le due guerre, Bulzoni, Roma, 1996, p. 294.
17
Ricordiamo che tra il 1918 e il 1944 si assistette al crollo degli imperi centrali e alla sparizione
dei vecchi equilibri di potere. In America iniziò un periodo di forte instabilità economica,
caratterizzato dalla crescente disoccupazione, dalla recessione, dall’aumento degli scioperi, dalle
occupazioni delle fabbriche, mentre l’Europa era per lo più sotto l’egida di regimi autoritari. Per
un commento critico sulla Grande crisi si veda M. BAUMONT, La faillite de la paix (1918 - 1939),
Press Universitaires de France, Paris, 1951, pp. 399 - 400, il quale afferma che «Una dislocazione
così completa della società si spiega attraverso un cumulo di cause non tutte di ordine economico.
La crisi si scompone in un intreccio di crisi sovrapposte [...] il nazionalismo economico fa strage,

11
impossessò dei mostri inventati dalla grande letteratura gotica del Settecento e

dell’Ottocento e li rinnovò completamente; le caratteristiche fondamentali di

personaggi come Dracula, Frankenstein, la Mummia 18 e l’Uomo lupo19 -

considerati i quattro mostri classici dell’immaginario novecentesco - nascendo in

un preciso momento storico, per quanto la loro origine fosse molto più antica -

riuscirono ad incarnare le ossessioni della nascente società industrializzata che si

riversavano nella cultura popolare. In quel periodo di profondo cambiamento, fu

l’industria cinematografica americana, dunque, a diventare il cuore per la

creazione di mostri e orrori fantastici - grazie all’iniezione di talenti emigrati

dall’Europa e alla casa produttrice Universal - e ognuno dei quattro mostri classici

(mostri seriali, perché ritornano in «seguiti» o in filoni di pellicole connesse tra

loro) incarnò specifiche ossessioni della società industrializzata che si riversavano

nella cultura popolare. Mentre Dracula, ad esempio, rappresentò l’ossessione per i

due grande tabù delle culture occidentali, ovvero il sesso e la morte, Frankestein

esteriorizzò la paura delle conseguenze di uno sviluppo medico - scientifico

mentre le fluttuazioni delle monete e dei cambi esercitano una influenza perturbatrice sul
commercio internazionale, aggiungendo contemporaneamente altre cause ed altri effetti al
disordine universale».
18
La letteratura era stata fortemente turbata dalle grandi spedizioni archeologiche ottocentesche e
aveva offerto qualche racconto importante. Ricordiamo il racconto satirico di Edgar Allan Poe,
Some Words with a Mummy, o il drammatico Le roman de la momie di Théophile Gautier (1858) e
il macabro Le pied de la momie del 1863. L’esordio delle mummie sulle schermo, invece, si deve a
Georges Méliès con Cleopatre del 1899; la versione più famosa, tuttavia, resta ancora una volta
quella interpretata nel 1932 da Boris Karloff, The Mummy, la cui regia fu affidata a Karl Freund.
19
Di uomini lupo ci parlano le Metamorfosi di Ovidio e il Satyricon di Petronio, poi la
superstizione popolare diffuse questa leggenda, inventando fantasiosi delitti operati dai lupi
mannari, ma la scienza già nel IV secolo dopo Cristo era capace di vedere nella licantropia solo un
comportamento malato, mettendola in relazione con quella che veniva definita «la melancolia».
Poi, col Medioevo tutto cambia, si comincia a relegare la licantropia e la demonologia e si
diffonde la credenza che gli stregone possano trasformarsi in lupi; secondo la teratologia moderna,
il licantropo è l’unico mostro che lo è solo periodicamente (per un approfondimento sul fenomeno
M. COTTONE, In compagnia dei lupi: il fenomeno della licantropia, Atti del convegno Psichiatria,
magia, medicina popolare, Ferentino, 14 - 16 novembre 1991). Cinematograficamente le prime
versioni sono The Werewolf del 1913 e The White Wolf del 1914, entrambi basati su leggende
indiane, poi quella del 1932 voluta dalla Universal, The Werewolf of London, interpretata da Henry
Hull.

12
illimitato; la Mummia, l’angoscia dei pericoli che vengono dal passato e l’Uomo

lupo il riemergere della bestialità negli individui “civilizzati” .

Le crisi del ‘29, di fatto, innescarono un meccanismo perverso di continue

ricadute sia di ordine economico che politico e sociale - fatto che indusse a

sostenere la teoria di una «crisi permanente» del capitalismo nella sua fase

matura; il clima che si venne a creare, però, non fu prodromo di un rinnovamento

ma della maggiore diffusione d’incertezze e di disorientamento che produssero

nuovi mostri. Non a caso, del resto, il Novecento, è stato recentemente definito da

Carlo Panzani, “il secolo della paura”20, definizione in parte anticipata dal

settimanale «La città futura» che aveva intitolato Il secolo dei mostri un estratto

del saggio di Franco Moretti21.

Con la Seconda Guerra Mondiale, il lancio dell’atomica su Hiroshima e

Nagasaki inaugurò gli anni di una nuova paura, quella dell’invasione e del nemico

“mostro”, e la diffusione di un panico generalizzato venne canalizzato e

strumentalizzato dalla casa di produzione americana Hammer che, negli anni

Cinquanta e per tutto il ventennio successivo, si fece produttrice di numerose

pellicole horror22; gli anni Cinquanta, però, furono anche gli anni della passione di

massa tra i teenager per il mostruoso, e la conseguente diffusione di fumetti degli

EC Comics americani, una passione che doveva proseguire a lungo, basti pensare

al recente successo della popolarissima serie «Dylan Dog» della Bonelli Editore e

alle numerose collane per l’infanzia a base di «Piccoli brividi».

Così come avvenne per l’editoria, anche il cinema e la televisione

continuarono a farsi portavoce di questa mania per il mostruoso, pensiamo al

20
C. PINZANI,Il secolo della paura, Editori Riuniti, Roma, 1998.
21
Il saggio è riportato in «La città futura», 19 aprile 1978.
22
F. GIOVANNINI, op. cit., p. 11.

13
successo che ancora oggi ottengono i remake di tutti i mostri risorti o nati nei

decenni passati, o alle serie come «X - Files», dove compaiono dagli alieni alle

donne bestia, fino a creature ispirate senza dubbio alla letteratura e al cinema del

passato. Il mostruoso che oggi i media propongono, però, non si accontenta di

essere “altro” da noi, una variabile alla normalità – come avveniva per i “mostri”

classici - si tratta, infatti, di un mostruoso che tenta di minare le nostre certezze

più profonde, portandoci a dubitare su cosa sia normale e anormale, maschile e

femminile, noi e l’altro; a tale proposito Umberto Eco ha affermato che «il mostro

rappresenta la violazione delle leggi naturali, il pericolo che incombe, l’irrazionale

che non possiamo più dominare»23.

Il mostro, dunque, in quanto anormale e anomalo trasgredisce le regole

della natura e va perseguitato in quanto antagonista della società civile, in grado di

minarla e di distruggerla; a detta di Omar Calabrese il mostro assomma in sé tutti i

valori considerati negativi dalla società “normalizzate” (deforme, cattivo, brutto,

disforico) contro i valori positivi (conforme, buono, bello, euforico) 24, e se é vero

che oggi il mostro tende a perdere una forma precisa e a diventare proteico e

capace di inocularsi nei corpi “normali” 25, in ultima analisi la sua mostruosità è
23
U. ECO, Il nostro mostro quotidiano , in «Apocalittici e integrati», Bompiani, Milano, 1987, p.
384.
24
O. CALABRESE, Il mostro instabile, in «Eroi del nostro tempo», a cura di F. Adornato, Bari ,
Laterza, 1986.
25
Sono soprattutto le pellicole di fantascienza, a partire dalla fine degli anni Settanta - a dare
espressione a questo tipo di fobia. Prima di Alien (diretto da Ridley Scott nel 1979), i mostri erano
totalmente altro dallo spettatore, addirittura simili a insetti giganti; con Alien, invece, gli alieni
hanno il volto di uomini perché entrano nei corpi e si impadroniscono dei corpi umani. Il mostro
diventa parte dell’uomo, anche quando la sua provenienza è spaziale. Con Alien la conquista dello
spazio torna ad essere un inferno, dove grosse bestiacce spaziali si inoculano nei corpi degli
astronauti; situazione simile è quella proposta da John Carpenter in The Thing dove una «cosa»,
che non ha sostanza, in continua trasformazione è capace di produrre mutazioni orribili in chi la
ospita, sia esso un cane o un uomo. Entrambe le pellicole hanno figliato numerosi discendenti,
dimostrando che il vero mostro alieno proposto dal cinema di fine millennio ha proprio la
caratteristica di inocularsi nei corpi umani per possederli: «come un serial killer», scrive
Giovannini, «anche il mostro alieno assume il nostro volto, o quello del vicino di casa» ( F.
GIOVANNINI, op. cit., pp. 223 - 225). Per un’introduzione agli alieni nella narrativa di science
fiction, si veda la voce «Alieni e mutanti» in F. Giovannini - M. Minincangeli, Storia del romanzo

14
sempre connotata da quei valori negativi. Ma la colpa superiore a tutte le altre

risiede nel fatto che il mostro é improduttivo, non partecipa ai valori e alla

necessità di mercato, i freaks, non a caso, sono visibili solo quando fanno la

questua nelle strade del pianeta: mutilati, storpi, “anormali”, devono chiedere

l’elemosina, perché non sono abili alle esigenze della qualità totale. Mentre il

mercato capitalistico ha bisogno di individui - massa che rientrino perfettamente

nella “norma”, il mostro, da parte sua, ostacola la produzione e la scienza,

diventata oggi parte integrante e inscindibile del mercato. Ultimamente, però,

sono avvenuti dei profondi cambiamenti e il manifestarsi di creature definite

“mostro”, pensiamo recentemente ai dinosauri di Jurassic Park di Steven

Spielberg, evidenziano il desiderio crescente dell’uomo di manipolare, per uno

sfruttamento commerciale, gli elementi naturali ed esprimono una precisa volontà

della società civile di farsi produttrice di creature nuove e immaginarie, orrende e

dotate di superpoteri. A tale proposito Marcello Walter Bruno ha affermato che a

differenza del mostro classico, che era chiuso nel circolo vizioso

dell’emarginazione - rivolta, quello contemporaneo è «una sorta di handicappato

nell’epoca del look, il cui recupero passa attraverso una definizione del guardabile

e la dolente sorte del mostro ne chiede come contropartita l’accettazione

integrale»26.

Nonostante qualche tentativo di approccio moralista, che ha cercato di

vedere il mostro in maniera positiva, si veda il recupero disneyano di personaggi

dalla Bestia al gobbo Quasimodo, nel complesso il mostro non ha perso a tutt’oggi

di fantascienza, Castelvecchi, Roma, 1998; per un approfondimento sui film di alieni che invadono
la Terra, invece, F. CASAGRANDE - NAPOLIN, Attacco alieno! Guida al cinema d’invasione
spaziale. 1950 - 1970, Tunnel, Bologna, 1998.
26
M. W. BRUNO, Necrologio per la civiltà delle immagini , in «Videoculture di fine secolo»,
Napoli, Liguori, 1989.

15
il suo impatto trasgressivo e contro ogni perbenismo “politically correct” i mostri

dell’immaginario collettivo rivelano di non essere necessariamente buoni e la

lezione del film Freaks di Tod Browning, dove i mostri formano una comunità

solidale capace di reazioni violente, resterà nella storia della cinematografia di

genere un caso assolutamente isolato27.

Ma poiché il Novecento non è riuscito a dimenticare e a rimuovere del

tutto i mostri del suo passato, allora ha tentato di emarginarli in un ghetto

culturale; la rimozione riguarda il mostruoso degli individui “straordinari” (il

diverso, il deforme, lo storpio, lo spaventoso) e il mostruoso di tutti gli individui

“ordinari” (la bruttezza, la vecchiaia, la devianza, la follia). L’ossessione per la

bellezza e per l’eterna giovinezza è un tentativo estremo per normalizzare ogni

benché minima imperfezione; tentativo fallimentare se si considera l’immaginario

che i media oggi ci propongono, un immaginario che pullula di mostri, di scherzi

di natura e di creature soprannaturali, bizzarre e affascinanti, che non si lasciano

affatto omologare.

Se, in passato, il mostro tendeva ad essere “altro” dai noi, col passare del

tempo si è fatta sempre più presente l’idea che il mostro sia “tra” noi e “in” noi;

idea, del resto, già anticipata dai racconti letterari incentrati sul doppio, nelle sue

varianti dello specchio e del gemello sconosciuto, come Dottor Jeckill e Mister

Hyde o Il ritratto di Dorian Gray, e poi proseguita da autori contemporanei come

Stephen King che, come sottolinea Ornella Volta nei suoi indimenticabili libri sui

mostri, ha più volte sostenuto «che il mostro si può annidare ovunque, in un

27
Negli ultimi decenni, tuttavia, è stato fatto qualche tentativo di trasformare i mostri in eroi
positivi sensibili e sofferenti, si veda il romanzo Cabal di Clive Barker, dove l’autore sembra
parteggiare per la comunità di esseri mostruosi che vivono nel buio.

16
oggetto domestico, in un’automobile, nel vecchietto che abita a pochi passi da

noi»28.

Questo tipo di passaggio si è potuto verificare nel momento in cui - a

partire dagli anni Venti - il protagonista del film divenne il mostro stesso; si

trattava per lo più di pellicole dove il mostro non era l’antagonista dell’eroe, ma il

protagonista principale. In questa trasformazione il mostro ha acquistato umanità e

ha pagato per ciò un prezzo altissimo, avendo cominciato a soffrire, a spaventarsi

e a provocare sciagure. A quel punto non era più necessario che il mostro

presentasse una deformità fisica29, anzi, essendo un uomo tra tanti, divenne quasi

necessario che il suo volto si confondesse nella massa, che non fosse distinguibile

per alcun tratto caratteristico.

Mostro, dunque, cominciò ad essere l’omicida che compiva atti efferati e

atroci che violavano la norma nel senso morale e giuridico del termine, ma anche

il serial killer, l’assassino seriale della cronaca, spogliato ormai delle “meraviglie”

mostruose dell’immaginario fantastico del passato, in quanto mostro “di casa”,

uguale a chiunque. Oltre ai media, però, l’ingresso dei mostri nel quotidiano è

stato confermato dal dilagare di alcuni videogiochi e di alcuni giochi da tavolo che

permettono di “essere il mostro”, si pensi, ad esempio, allo slogan che pubblicizza

Magic, gioco di carte disponibile anche in CD - ROM, «La creatura con i poteri

28
Citazione riportata da F. GIOVANNINI, op. cit., p. 17.
29
In passato il mostro letterario o cinematografico indossava una maschera (il Fantasma
dell’Opera ne aveva una di cuoio o di porcellana, Dracula si fingeva un tranquillo gentiluomo
transilvano) per non subire lo sguardo del normale, tuttavia, prima o poi, doveva soccombere al
disvelamento (il gesto dello smascheramento nel caso del Fantasma dell’Opera o nella rivelazione
del vampiro quando Dracula viene scoperto perché, ad esempio non si riflette negli specchi). La
figura del mostro, inoltre, pone il problema del guardabile, nel senso che si è attratti dalla sua
visione nonostante si sia consapevoli che questa desterà in noi orrore e raccapriccio. Scrive a
proposito Herbert Marcuse «A me sembra che la testa di Medusa sia il simbolo eterno più
adeguato dell’arte: il terrore come bellezza; il terrore colto nella forma gratificante dell’effetto
magnifico» (H. MARCUSE, Critica della società repressiva, Feltrinelli, Milano, 1968, p. 146). Il
mostro, in altre parole, suscita orrore ma, contemporaneamente affascina.

17
più terrificanti sei tu!», oppure allo slogan di Dungeon Keeper, «In una

concezione assolutamente originale, sarai tu a comandare un’armata di mostri

totalmente assoggettati ai tuoi voleri. Distruggi tutti gli eroi. Essere cattivi non è

mai stato così bello».

Il successo di queste iniziative commerciali sta ad indicare l’assimilazione

dell’idea di mostro nella quotidianità; ormai il mostro è in ognuno. E se i media

invitano a liberare il proprio mostro, le mode e le controculture propongono delle

forme di parziale mostruosità per dare identità agli individui: l’alterazione

“mostruosa” del proprio corpo diventa una scelta da indossare e da esibire (si

pensi alla moda del piercing e del tatuaggio). Il fatto che i mostri siano

prepotentemente entrati nel nostro reale ha ridotto il divario tra immaginario, il

fantastico e la realtà: non è insolito, infatti, leggere articoli o ascoltare servizi che

riguardano esperimenti genetici, animali clonati, embrioni congelati e arti di

cadaveri trapiantati su uomini vivi. A tale proposito Giovannini sostiene che «Se

la fantascienza letteraria e cinematografica ha immaginato in passato l’invasione

di mostri extraterrestri con un approccio che potremmo definire xenofobo, oggi si

può dire che l’invasione è già avvenuta: gli alieni sono tra noi e cercano di

camuffarsi, di confondersi, di sembrare più normali dei normali stessi»30.

Ma perché il mostruoso attira tanto e come si spiega il sempre maggiore

successo di pubblicazioni e di film incentrati sulla figura di uomini

apparentemente qualunque, ma in realtà veri e propri maestri del male, quale

appunto i serial killer? Secondo Christian Vogel «il male e in particolare la sua

forma distruttiva [...] assassinio, uccisione, tortura, genocidio contrassegnano la

storia culturale dell’uomo [...]. Il puro compiacersi della tortura e dell’uccisione,


30
F. GIOVANNINI, op. cit., p. 18.

18
l’assassinio come divertimento: non vi è dubbio che tutto questo è tipico e

specifico dell’uomo, perché non si è mai osservato nulla di più simile in alcun

animale, anche se poi siamo proprio noi a parlare di “bestialità” e “disumanità”»31.

Sebbene oggi il mostro mediatico assuma solitamente le fattezze di un

tranquillo ragazzo di provincia, o di un uomo della middle class, il suo

smascheramento può rivelare un essere malvagio, mettere a nudo la deformità

nascosta, e, comunque, costringerci a prendere atto della sua diversità. Già nel

1965 Domenico Paolella sostenne che il cinema fantastico è «la psicanalisi dei

poveri»32, cogliendo in tale parole il cambiamento radicale del nostro immaginario

provocato dal cinema, e il suo collegarsi con le ansie individuali e collettive, ma

Vittorio Spinazzola si spinse oltre affermando che «Il cinema possiede una forte

capacità di rappresentazione delle forze istintuali oscure. Ma non è un discorso

meramente psicologistico, dal momento che queste forze interiori vengono

collegate tra loro in una dimensione collettiva, assumendo un significato storico e

ideologico. È d’obbligo la citazione di Lang, Muranu, degli espressionisti

tedeschi: i loro mostri preconizzavano l’avvento del nazismo, dicendo alla gente

che la bestia era in loro, dentro di loro, e stava per nascere. Le forze rappresentate

erano di segno negativo, e come tali venivano proposte agli spettatori»33.

Se è soprattutto grazie al cinema (e ai media in generale), dunque, che il

mostro ha potuto essere guardato senza timori e se lo spettatore ha potuto


31
C. VOGEL, Anatomia del male. Natura e cultura dell’aggressività, Mondadori, Milano, 1991, pp.
7 - 9. In tale direzione Heinz Kohut afferma che «L’ipotesi che la tendenza ad uccidere sia
profondamente radicata nell’assetto psicologico dell’uomo e tragga origine dal suo passato
animale - in altre parole la supposizione della propensione innata dell’uomo all’aggressività (e la
concettualizzazione correlata dell’aggressività come una pulsione) ci protegge dal fascino
dell’illusione confortante che la tendenza umana alla combattività potrebbe essere facilmente
abolita se i nostri bisogni materiali fossero soddisfatti» ( H. KOHUT, Pensieri sul narcisismo e sulla
rabbia narcisistica, in «Rabbia e vendicatività», Einaudi, Torino, 1993, p. 35).
32
D. PAOLELLA, La psychanalyse du pauvre, in «Midi - Minuit Fantastique», n. 12, 1965.
33
Dichiarazioni apparse in M. SERRA, Non tutti i mostri vengono per nuocere, in «l’Unità», 11
novembre 1979.

19
scegliere d’identificarsi con lui e provare l’emozione di vedere con i suoi occhi, il

vero spostamento epocale, tuttavia, va cercato nella “scomparsa” del mostro

“vero”, in quanto, come la morte ci viene offerta quotidianamente da tutti i media

ma la sua immagine viene contemporaneamente occultata o marginalizzata nella

vita reale e concreta, anche il mostro è diventato un “rimosso”. I freaks, infatti,

sono ormai “visibili” solo al cinema, mentre nella realtà sembrano scomparsi;

come sostiene Giovannini «Morti virtuali e mostri virtuali si moltiplicano

attraverso i mass media, mentre viceversa si tende a nascondere e a far scomparire

la morte e i mostri dalla realtà»34.

Sebbene i media, dunque, si siano impadroniti della figura del mostro,

utilizzandola a piacere ora per stupire ora per provocare, e soprattutto il cinema si

sia fatto portavoce delle sua gesta, tuttavia anche nella realtà - e sembra che negli

ultimi decenni i casi si stiano moltiplicando – esiste una nuova e inquietante

figura di uomo la cui mente malata, o forse naturalmente portata al male, riesce a

ricordarci che i mostri non sono solo il parto di una mente fantasiosa, e che, con i

suoi omicidi efferati, desta le masse dal loro sonno mediatico dove tutto e

possibile e risolvibile. Si tratta dei serial killer, persone per lo più insospettabili,

che nascondono una miscela di voyeurismo e misoginia, capaci di grande sadismo

e perversione; nascosti nelle ombre della metropoli, sfuggenti e inconoscibili,

hanno offerto materiale a numerosi sceneggiatori di successo che hanno dato vita

a numerosi personaggi (ricordiamo il caso del mostro di Dussendorf, che nel film

M di Fritz Lang divenne il Peter Lorre dello schermo) 35 verso cui il pubblico ha
34
F. GIOVANNINI,
op. cit., p. 21.
35
Fu proprio Lang uno dei pionieri del cosiddetto cinema “alla lama di coltello” - che ebbe negli
anni Cinquanta le sue vere origini, grazie all’avvento del colore e alla minore censura
cinematografica - e che ha visto recentemente tra i suoi frequentatori più illustri registi come Brian
de Palma, John Carpenter o l’italiano Dario Argento. Prima di loro, comunque, vanno citati autori
come Castle, Lewis e Bava che, partendo dal sobrio Hitchcock, si fecero antesignani di un genere

20
mostrato (e continua a farlo) una crescente condiscendenza dovuta, forse, al loro

essere trasgressivi e sopra le regole. In poco tempo, infatti, si è assistito alla

crescente popolarità di certi assassini cinematografici, legata e moltiplicata dalla

scelta seriale dei produttori (si pensi a Michael Meyers, l’assassino di Halloween,

la notte delle streghe, il cui successo venne ripetuto dalla sere Venerdì 13 è

recentemente da Scream).

La distruttiva e sadica associazione di sesso e morte, che come vedremo

caratterizza la maggior parte degli omicidi seriali, è non solo alla base

dell’interesse mostrato dall’opinione pubblica verso serial killer reali ma anche

del successo dei film, dei serial televisivi e delle pubblicazioni dell’horror. A tale

proposito, infatti, Ponti e Fornati, autori de Il fascino del Male, affermano che si

tratta di «un binomio esplosivo, niente di meglio per suscitare in tante persone

curiosità, o per alimentare morbosi interessi, ovvero per scatenare fantasie

proibite»36 ma aggiungono anche che «i serial killer non sono poi così tanto

diversi da noi. Solo un poco, si sono guastati [...] ma non sono “bestiali”, non

sono “inumani”, non sono, dunque, dei folli [...]. ci affascinano, quindi. [...] siamo

attirati da questa violenza, dal binomio sesso e morte, perché fa parte di noi,

persone “normali”»37.

che col tempo verrà portato alle estreme conseguenze, per arrivare, poi, negli anni Settanta
all’horror inglese di Pete Walker, che inserì il moderno maniaco omicida dentro atmosfere gotiche
in film come La casa del peccato mortale (1975) e Chi vive in quella casa ? (1977). Gli anni
Ottanta, in seguito, - pur ripescando nei mostri del passato (dai licantropi ai fantasmi) - offriranno
molti assassini inediti, facilitati in questo dall’uso del lattice e delle nuove tecnologie elettroniche,
e inaugureranno un filone più realistico, fatto di delitti concreti commessi da uomini concreti;
Dario Argento, ad esempio, dopo alcune incursioni nel paranormale con Suspiria e Inferno,
passerà a film come Tenebre (1982) e Trauma (1993) dove l’omicida è un maniaco reale. Per un
approfondimento si veda F. GIOVANNINI, Serial killer. Guida ai grandi assassini nella storia del
cinema, Datanews, Roma, 1994.
36
G. PONTI - U. FORNARI, Il fascino del Male, Mondadori, Milano, 1995, p. 8.
37
Ibidem, p. 15. A tale proposito Fromm scrive che «il comportamento aggressivo dell’uomo
deriva da un istinto innato, programmato filogeneticamente, che cerca di scaricarsi ed aspetta
l’occasione propizia per esprimersi» . E. FROMM, Anatomia della distruttività umana, Mondadori,
Milano, 1975, p. 18.

21
Vediamo, dunque, di ricostruire la biografia di un uomo “quasi” normale,

di un “mostro contemporaneo”, le cui azioni criminali, con l’ausilio dei media che

se ne sono fatti portavoce, hanno materializzato le paure profonde di molti di noi.

§. 1.2 Biografia di un pluriomicida: il caso Donato Bilancia

Negli ultimi dieci anni il serial killer ha attirato l’attenzione non solo in

quanto fenomeno criminale, ma anche culturale. Non a caso - come abbiamo

avuto modo di approfondire nel paragrafo precedente - la sua presenza si è

ritrovata con sempre maggiore regolarità nella letteratura poliziesca e nei thriller

fino a diventare una figura quasi predominante nella cinematografia: tra i grandi

protagonisti del cosiddetto cinema “alla lama di coltello” - che deve, però, il suo

successo al celebre racconto di Robert Bloch Yours Truly, Jack the Ripper

(apparso su «Weird Tales» nel 1943) - il più imprendibile e leggendario degli

assassini è senza dubbio Jack lo Squartatore38, capostipite e antenato di tutte le

figure di pluriomicida senza motivazioni apparenti che hanno attraversato gli

schermi e che si è insediato profondamente nell’immaginario collettivo. Il primo

vero serial killer del cinema, però, è Norman Bates, a cui diede volto l’attore

Anthony Perkins, protagonista di Psicho (diretto da Alfred Hitchcock nel 1960);

al personaggio di Bates, con un’identità precisa, marcata, dal volto ben evidente,

negli anni Settanta (precisamente nel 1974) si sostituì il serial killer senza volto, il

38
La prima versione cinematografica è del 1924, dal titolo Tre amori fantastici, di Paul Leni con
Werner Krauss, in seguito ricordiamo la versione di Alfred Hitchcock del 1927, The Lodger (Il
pensionante) con Ivor Novello.

22
caso più eclatante è quello di Leatherface, in Non aprire quella porta (The Texas

Chainsaw Massacre) diretto da Tobe Hopper, seguito da un altro famoso

assassino di celluloide senza volto, ovvero Michael Myers creato da John

Carpenter per il suo film Halloween (1978). Anche in questo caso come per

Leatherface, l’assassino non aveva un volto e non parlava, e così pure sarà per

Jason, l’omicida di Venerdì 13, uscito nelle sale nel 1980 sotto la regia di Sean

Cunningham; Freddy Krueger, invece, fu il primo serial killer a diventare oggetto

di culto, con i suoi fan club, la moltiplicazione di gadget e oggetti da collezionare

legati alla figura dell’assassino (pupazzi montabili di Freddy, giochi da tavolo

dedicati alle sue imprese omicide, maschere in lattice con le sue fattezze 39; grazie

a Krueger si aprì la strada a un altro serial Killer cinematografico, forse il più

suggestivo di tutti, ovvero Hannibal Lecter, lo psichiatra cannibale del film

pluripremiato Il silenzio degli Innocenti. Lecter non ebbe più bisogno di trucchi

sul viso per apparire orribile, gli bastava fissare la cinepresa con gli occhi celesti e

sbarrati dell’attore Anthony Hopkins, e anche i macabri rituali del delitto non

venivano mostrati allo spettatore ma quasi sempre solo suggeriti: sembra, come

osserva Giovannini, che «a fine millennio non serva più rendere visibile la paura

nel cinema, i nostri terrori sono già tanto visibili nella cronaca di ogni giorno, nei

telegiornali e nella vita quotidiana»40 e Donato Bilancia, il serial killer reale che ha

terrorizzato a lungo la provincia ligure, ne è un chiaro esempio.

Il fatto che i serial killer siano entrati, in qualche modo, nella coscienza

della gente come eroi popolari è, a detta di Joel Norris, dovuto al fatto che questi
39
A tale proposito Rober Englund ha sostenuto che «Alla base del successo di Freddy credo vi sia
il fatto che si tratta di un essere sovversivo con una certa sensibilità punk. Freddy è diventato un
simbolo: in camera si affiggono suoi poster. Credo che sia a causa del suo look [...]. Tutti questi
elementi si alleano all’aspetto illusione /realtà del film...». Un sucess a double tranchant, in
«Venerdì 13», n. 6, dicembre 1988.
40
F. GIOVANNINI, op.ult.cit., p. 15.

23
pluriomicidi sono affascinanti in quanto «attraenti, carismatici e spesso

ammiratissimi dalle donne»41; a tale proposito R. Di Caro ricorda il centinaio di

lettere giunte da parte degli ammiratori di Pacciani (il famoso “mostro” di

Firenze), sia alla procura della Repubblica sia alla Corte di Assise, nelle quali si

può leggere tutta la simpatia e la solidarietà che una parte dell’opinione pubblica

nutrì nei confronti dell’accusato42. Se il caso Pacciani in Italia riuscì a provocare

tanta attenzione da parte dei media e ci fu chi, addirittura, come il cantautore

genovese Francesco Baccini scrisse una canzone, Jack, che «metteva in guardia

dalla caccia alle streghe, dalla voglia di trovare un mostro a tutti i costi»43, in

America le cose si spinsero ben oltre e intorno a Charles Manson, che sgozzò

l’attrice Sharon Tate e altre sei persone a Los Angeles, nacque un vero e proprio

culto. Così, mentre Jeffrey Dahmer stava uccidendo e mangiando le sue vittime

nel Milwakee e Nikolai Dzhumagaliev stava facendo lo stesso in Kazakhstan, il

dottor Hannibal Leceter, multiomicida e cannibale nella finzione, stava ottenendo

celebrità internazionale ne Il silenzio degli innocenti.

Questo, se da un lato ha reso comune la figura del serial killer, dall’altra ha

creato una sorta di banalizzazione dell’assassino in serie, distorcendone a volte il

significato esatto; il serial killer, dunque, è un assassino che commette omicidi

intenzionali, volontari, mosso spesso da una motivazione nascosta di natura

sessuale e che attua i propri crimini spinto da una forza incomprensibile dove

conscio e inconscio si confondono. Per queste sue caratteristiche la polizia si trova

spesso di fronte a delitti che non hanno un movente e non dispone di alcun indizio

41
J. NORRIS, Serial Killers, The Growing Menace, New York, 1989, in Y. C. OATES, Serial Killer,
Serial Killer, su «La Rivista dei Libri», Milano, giugno, 1994.
42
R. DI CARO, Caro mostro, ti voglio bene in «L’Espresso», 22 luglio 1994.
43
Intervista a Francesco Baccini, La mia ballata per un innocente, in «La Stampa», 3 novembre
1994, p. 13.

24
concreto44. Come scrive Stéphane Bourgoin, in definitiva, «al classico mass

murderer e allo spree killer non interessa l’identità delle vittime: massacrano

chiunque abbia la sventura di incontrarli- il serial killer, invece, sceglie le proprie

vittime»45, nel senso che, apparentemente (cioè all’esterno), non si comprende il

motivo della scelta, mentre in realtà una razionalità malata lega un omicidio con

l’altro; e ricostruendo la storia di Donato Bilancia attraverso gli articoli apparsi sui

quotidiani non si può che concordare con tale definizione perché - come vedremo

- se inizialmente fu piuttosto arduo trovare un legame alla serie di delitti che

colpirono la riviera ligure, in seguito gli inquirenti scoprirono che l’unico filo

conduttore che li teneva uniti si trovava proprio nella mente del loro artefice46.

Attraverso gli articoli delle più note testate nazionali, così come i servizi della

Rai, di Mediaset e delle tv locali (soprattutto Telecity, emittente televisiva ligure),

è possibile ricostruire sia la storia del caso Donato Bilancia, sia la biografia di

quest’uomo solo apparentemente qualunque. Iniziando, dunque, dall’analisi di

alcuni articoli apparsi contestualmente su diversi quotidiani e seguendo un ordine

cronologico, partiamo dall’ondata di omicidi che travolse Genova a partire

dall’ottobre ’97, morti a cui per lungo tempo non si riuscì a dare un colpevole. Gli

inquirenti, seguiti a ruota libera dai giornalisti e dai videoreporter, cercarono da

subito di costruire l’identikit del possibile assassino e sulle pagine dei giornali

cominciarono a comparire articoli dal tono vago ma subdolamente allarmante.

Sebbene non si sapesse ancora nulla di Bilancia, né se gli omicidi fossero legati

tra loro, la stampa si appropriò del caso e cominciò a riempire le pagine dei

44
S. BOURGOIN, La follia dei mostri, Mondadori, Milano, 1995, pp. 13 - 14.
45
Ibidem, p. 6.
46
Tra gli altri casi eclatanti di serial killer italiani ricordiamo il così detto «mostro di Firenze»,
Luigi Chiatti, l’assassino di Foligno e l’assassino di prostitute, in Piemonte, Giancarlo Giudice.

25
quotidiani con titoli e articoli dal tono inquietante. Da subito, infatti, si poté

leggere: «Genova é stata colpita ultimamente da un’ondata di omicidi soprattutto

nel mondo delle prostitute», «Panico sui treni dopo il nuovo omicidio del serial -

Killer», «Una mercedes 190 blu notte si aggira nella Liguria seminando terrore»,

«La calibro 38, una pistola abbastanza comune, colpisce con precisione».

Visto il reiterarsi dei delitti, molte furono le ipotesi avanzate tra cui se vi

fosse un’unica persona a commettere gli omicidi, se si trattasse dell’azione

congiunta di più individui o di una guerra tra bande per il controllo della

prostituzione, o se ci si trovasse di fronte a un regolamento di conti e se ci fosse

qualche collegamento con il mondo delle scommesse clandestine. Il fatto, però,

che solo una parte delle vittime fosse legata ad ambienti criminali, rese il lavoro

degli inquirenti particolarmente complesso, e concorse ad accrescere l’alone di

mistero attorno all’intera faccenda, fino a quando un nome tra tanti sembrò

imporsi sulla scena, ovvero quello di Donato Bilancia.

Chi era Donato Bilancia? Dai giornali e dai servizi TV emerge l’identikit

di una persona di 45 anni, celibe, nata a Potenza e trasferitosi a vivere Genova (i

genitori avevano acquistato una casa a Nizza Monferrato e in seguito un’altra a

Cogoleto). Dagli articoli emerge la figura di un uomo dall’infanzia difficile,

deriso dagli amici perché considerato “un buono a nulla” e cresciuto in un

ambiente familiare violento, il padre picchiava la madre e umiliava il figlio

mostrandolo nudo alle cuginette; anche in età adulta Bilancia aveva vissuto

esperienze traumatiche come il riconoscimento del cadavere del fratello che,

insieme al proprio figlioletto, si era gettato sotto un treno. Evitato il militare,

Bilancia aveva lavorato per poco tempo per un’assicurazione e poi aveva

26
incominciato a guadagnarsi da vivere con espedienti di ogni tipo dalle rapine in

banca a quelle di appartamenti e ville, attività illecite che gli garantivano, però, un

alto tenore di vita. Bilancia, infatti, amava il gioco d’azzardo e le scommesse

clandestine e, proprio il vizio del gioco e la frequentazione assidua di prostitute,

che portava a cena e a ballare, lo costringevano ad avere a disposizione ingenti

somme di denaro. Prima che il suo nome fosse abbinato agli omicidi del “treno”,

nella sua fedina penale si poteva leggere una denuncia per tentato stupro nei

confronti di una commessa e una denuncia per minaccia di morte con una calibro

38.

Vediamo, dunque, di ricostruire le azioni, di quello che in seguito si

rivelerà un vero e proprio serial killer; attraverso stralci di articoli apparsi, prima

della cattura di Bilancia, su alcuni quotidiani nazionali.

Via Monticelli. Un altro duplice omicidio poco


dopo mezzogiorno
Marito e moglie orefici assassinati dentro casa
Il crimine scoperto dal fratello di una delle
vittime avvertito da alcuni inquilini spaventati
dagli spari. Analogie con il delitto degli
sposini. A pochi giorni dal delitto della casa
del boia un altro duplice omicidio [...] la
professione delle vittime sembra indicare la
"pista della rapina" [...] I signori Solari
custodivano in casa i "ferri del mestiere" [...]
impossibile definire al momento la dinamica della
duplice esecuzione [...] ferocia del crimine del
tutto sproporzionata di fronte all’entità del
bottino47.

Questo articolo, che riguarda il secondo delitto commesso da Bilancia,

colpisce per la dimensione del carattere del titolo, che sembra invitare alla lettura,

e per alcune affermazioni come quella relativa alla «dinamica della duplice

47
In «Corriere Mercantile», del 28 ottobre 1997.

27
esecuzione» che, suggerendo l’idea di un omicidio ben programmato, suscitano

grande curiosità. Interessante anche la tecnica delle domande insolute, circa

l’apparente incongruenza tra la “ferocia del crimine” e “l’esiguo bottino”,

destinate a creare un’atmosfera di suspense. Pochi giorni dopo, infatti, si legge:

OMICIDIO ALLA CASA DEL BOIA. Blitz fallito o


depistaggio: due ipotesi per una clamorosa fuga
di notizie sulle indagini
Il giallo della cattura fantasma
«Li abbiamo presi». Ma nella notte scatta il
dietro front. Le voci sull’arresto durano un paio
d’ore poi la questura smentisce. Resta un dubbio:
e se la polizia avesse fermato alcuni sospetti
«nascondendoli» in un commissariato? È passata da
poco mezzanotte, quando in questura si diffonde
una voce. «Li abbiamo presi... Sono gli autori
del duplice omicidio di piazza Cavour ...». Da
via Diaz alle redazioni la notizia si diffonde in
un attimo. [...]. C’é agitazione e fermento.
[...]. Il mistero si infittisce, e anche i
cronisti vanno alla ricerca della notizia
"bomba", prima in via Burlando e poi in una
strada di Marassi, dove si é saputo che le
pattuglie della volante sono impegnate in alcuni
interventi48.

Questo secondo omicidio, più del precedente, indusse gli inquirenti a

ravvisare un possibile collegamento con l’uccisione del treno e attirò l’attenzione

dei media, che gli diedero particolare risalto. Tanto clamore, tuttavia, si spense

ben presto e si risolse in un nulla di fatto, visto che le indagini si risolsero in un

nulla di fatto, lasciando il mistero del tutto insoluto.

Mistero a Ventimiglia. Delitto in pieno centro


senza testimoni. Paura tra i commercianti:
"Anticiperemo la chiusura".
Esecuzione di un cambiavalute

48
M. DI SALVO, Omicidio alla casa del boia, in «Il Secolo XIX», del 2 novembre 1997.

28
Freddato con due colpi per meno di dieci milioni.
Nessun indizio.
VENTIMIGLIA- Ancora sangue in Liguria. Dopo i
delitti di Genova, un omicidio a Ventimiglia
altrettanto feroce. Questa volta è toccato a un
cambiavalute: ucciso con due colpi di grosso
calibro per un bottino che dovrebbe essere
inferiore ai dieci milioni. Luciano Marro, 48
anni è stato assassinato come in un brutto film
[...]. Due colpi. Ma forse, prima della
colluttazione, è comparso un coltello: lo
farebbero pensare alcune ferite sulle mani della
vittima [...]. Degli autori del colpo si sa poco,
per non dire niente. [...]. L’uomo è stato
trovato a terra, in un gran lago di sangue [...].
Colpo da sbandati? Da tossicomani? Da malavita
albanese? L’assassino è arrivato dalla Francia?
Domande senza risposta. Scavando un po’ più a
fondo, si scopre che un minimo di preparazione al
colpo c’é stata. [...]. Gli hanno sparato due
volte anche se è chiaro che dopo il primo colpo -
in pieno petto il cambiavalute era già spacciato:
lo testimonia un lungo schizzo di sangue, davanti
alla cassaforte. Perché sparargli allora anche
alla schiena? Quindi l’assassino ha ucciso
apparentemente senza motivo, non certo per la
paura di essere scoperto: tra il delitto e
l’allarme è passato anzi quasi un quarto d’ora.
[...].Tutto fa pensare a una rapina finita male,
a un pazzo dal grilletto facile che gira con la
"38" in tasca. Colpirà ancora? ...49.

Un altro delitto colpisce la Liguria e ancora una volta non si riesce a

comprendere le motivazioni del gesto. Viene sottolineata la violenza

dell’omicidio e la freddezza del colpevole. Dall’articolo emergono teorie e contro

teorie, sospetti, indizi e, soprattutto, tanti interrogativi che, restando lettera muta,

accrescono la sensazione di disagio e di paura. Comincia a farsi strada l’ipotesi

che vi sia una connessione tra i delitti del treno, degli orefici e quello di Roberta

Neri, una donna che aveva piazzato dei videopoker a Genova. Spunta il nome di

49
F. LANTERI, Freddato con due colpi per meno di dieci milioni. Nessun indizio, in «Il Secolo
XIX»,del 15 novembre 1997.

29
Parenti50, un boss del Ponente genovese legato al giro delle scommesse

clandestine e dei videogiochi, come possibile mandante dell’omicidio.

Un fatto, comunque, è certo. L’opinione pubblica era ormai all’erta e

spaventata e i servizi giornalistici, che si erano occupati dei tre delitti, erano

riusciti, nonostante i tanti interrogativi ancora insoluti, ad appassionare e

coinvolgere il pubblico; gli omicidi liguri, di fatto, offrirono molto materiale ai

media i quali, a loro volta, non si preoccuparono per aumentare i propri lettori e il

proprio audience di calcare la mano su una titolazione sensazionalistica e

inquietante.

IL DELITTO DELL’ ASCENSORE. Si profila il test


del Dna per uno dei colleghi di Giangiorgio Canu
indagati
Sulla divisa una macchia sospetta
Il metronotte prestava servizio nella zona degli
orefici uccisi. Una macchiolina di sangue e una
pistola calibro 38. La sorte giudiziaria
dell’indagato numero due per l’omicidio di
Giangiorgio Canu, il metronotte della
"Valbisagno" assassinato nella notte tra sabato e
domenica in un palazzo di Castelletto, è legata a
questi due elementi. La piccola traccia di sangue
trovata sulla sua divisa e l’arma, dello stesso
tipo di quella utilizzata nel feroce omicidio. Il
collega di Canu parla di semplici coincidenze, e
non c’è motivo di dubitarne: saranno comunque le
perizie degli esperti a chiarire ogni dubbio
[...]. «Siamo tranquillissimi» spiega Giuliano
Pennisi, l’avvocato che con Giovanni Scopesi
assiste la guardia giurata - «le analisi
chiariranno che il nostro cliente non c’entra
nulla». Si é parlato proprio ieri di una
possibile pista che collega la vicenda del
metronotte alla spietata esecuzione dei due
orafi. Ma al metronotte non é stato contestato
nulla che riguardi questa seconda vicenda. Il pm
Francesco Pinto ha solo annotato tra i suoi

50
«Un boss del Ponente dietro le esecuzioni a Genova e in Sardegna. La questura nega un legame
tra i fatti di sangue. Ma la Criminalpol segue proprio questa ipotesi di lavoro. E i carabinieri
individuano le "macchinette" di Parenti».

30
appunti la coincidenza che per ora è solo
tale...51.

In questo articolo il giornalista sembra puntare sulla parola “macchia

sospetta” per attirare l’attenzione del lettore e suscitare in lui un vivido senso di

attesa; il sottotitolo, poi, che insinua una connessione col delitto degli orefici,

aumenta la suspense e sembra teso a far crescere la curiosità del lettore. Tra tante

supposizioni, però, emerge una sola certezza, ovvero che l’arma utilizzata è una

comune calibro 38.

IL DELITTO DELL’AUTOSTRADA.
Ritrovato tra Arenzano e Cogoleto il cadavere di
una sconosciuta avvolto in plaid.
Uccisa a botte e gettata dall’auto
Unico indizio un tatuaggio e una pista che
conduce a Verona. Il corpo della vittima è
segnato da vistose ecchimosi ma, per il momento,
resta ancora qualche incertezza sulle cause della
morte. Con ogni probabilità il corpo è stato
abbandonato durante la notte.
GENOVA. L’hanno trovato in un canale di scolo, a
due passi dal guardrail dell’autostrada. Avvolto
da capo a piedi in un copriletto a fiori,
sdrucito e liso c’era il corpo senza vita di una
donna. Trentacinque - quaranta anni, maglione
nero e fuseaux multicolore, né scarpe, né calze.
Era bruna, giovane, e magra, con le unghie curate
e nessun segno che possa ricondurla al mondo
disperato e terribile della droga. Nessun
documento e una sola traccia, un tatuaggio sul
polso della mano sinistra: «Amo Pippo», e una
data quella del 10 maggio ‘84. E’ stata una
telefonata a mettere la polizia sull’avviso
[...]. E’ una piazzola quasi nascosta, che si
apre all’improvviso tra i due tunnel, luogo
appartato, teatro di mille incontri clandestini e
di buchi clandestini. [...]. C’è il cadavere di
una donna lì sotto col volto tumefatto e una
profonda ferita che le attraversa la fronte.
[...]. Sono tutti convinti che sia un omicidio.
[...] non c’è un foro di proiettile, non c’è il
taglio di lama. Unico di sospetto, quello di un
brutale pestaggio. Una feroce punizione, avvenuta
51
M. MENDUNI, Il delitto dell’ascensore, in «Il Secolo XIX», del 30 gennaio 1998.

31
lontano, chissà dove. Poi [...] il timore di un
nuovo omicidio che insanguina Genova. Il numero
sei degli ultimi tre mesi, una catena di sangue
che non ha ancora una sola risposta. Il duplice
delitto di piazza Cavour, il massacro dei due
anziani orafi di via Monticelli. E ancora il
metronotte Giangiorgio Canu , freddato con un
colpo alla testa in un ascensore del ricco
quartiere di Castelletto .Ora, e pare davvero
un’altra storia, il cadavere misterioso ritrovato
in una squallida piazzola di autostrada...52.

Dell’articolo appare soprattutto interessante la conclusione che mira a fare

il punto della situazione ricordando che dall’ottobre ‘97 al 3 febbraio del ‘98 sei

morti hanno colpito la Liguria, finita al centro di una spirale omicida che non

sembra destinata a placarsi.

Nuovo giallo ieri mattina sulla scogliera lungo


la vecchia ferrovia tra Cogoleto e Varazze
Giovane, sconosciuta, nuda, uccisa con un colpo
di pistola.
VARAZZE. Un orologio al polso e un paio di
orecchini ai lobi. E’ tutto quello che i
carabinieri hanno trovato indosso a una donna
dall’apparente età di venti venticinque anni, il
cui cadavere è stato scoperto ieri mattina alle
nove lungo il percorso del la vecchia ferrovia
che fino al ‘73 collegava Cogoleto a Varazze.
[...]. A ucciderla è stato un colpo d’arma da
fuoco alla testa, probabilmente di grosso
calibro: la pallottola l’ha centrata in mezzo
agli occhi, fuoriuscendo in maniera devastante
dalla nuca. L’ultimo mistero che insanguina la
Liguria presenta incredibili analogie con
l’omicidio di Silvana Bazzoni [...].
Anche in questo caso, con ogni probabilità, il
corpo è stato scaricato da un’automobile, nelle
prime ore di ieri mattina [...]. Il corpo,
completamente nudo, giaceva in una posizione
fetale, con la testa più vicina all’acqua,
reclinata su un lato, i capelli restano chiari
raccolti in alto. In mezzo al viso il foro di un
proiettile e sulla nuca, un’altra grossa ferita e
una chiazza di sangue rappreso. Poi ancora sangue

52
In «Il Secolo XIX», del 10 marzo 1998.

32
a terra, praticamente tutto concentrato alla base
del cranio [...].
Il giallo, insomma, è terribilmente intricato.
[...] Forse, qualche risposta potrà fornirla
l’autopsia in programma oggi a Savona...53.

Lo scenario di questo delitto è ancora una volta un’autostrada, il tratto tra

Arenzano e Cogoleto. Alcuni particolari, come la coperta posata sul corpo della

vittima, sembrano far presupporre un collegamento con la morte di Silvana

Bazzoni.

Uccisa con un colpo alla testa torna il Killer


delle Prostitute
COGOLETO - Costretta ad inginocchiarsi, a
pregare: la ragazza da marciapiede forse
implorava i suoi carnefici, quegli impietosi
sconosciuti che l’altra notte le hanno esploso un
colpo di rivoltella alla testa. Lo stesso
copione, sul macabro palcoscenico della Riviera
di Ponente: per la terza volta in tre settimane.
L’ultima vittima non ha ancora un nome ma ha una
professione, come le altre: prostituta, roba
preziosa per il miliardario "mercato" ligure del
sesso. Prima di lei Stela e Ljudmila: anche loro
uccise con un calibro 38, sacrificate - giurano
gli investigatori a una sanguinaria guerra per il
controllo del territorio tra Genova e Savona,
guerra che vedrebbe protagoniste alcune
organizzazioni criminali composte da cittadini
albanesi. [...]. Chi è, chi sono i misteriosi
Killer delle prostitute savonesi? [...] Tre
ragazze di vita ammazzate nelle ultime tre
settimane tra Genova e Savona, cinque dall’inizio
dell’anno. Silvana Bazzoni [...] Anna Giunti,
[...] Stela e Ljudmila...54.

Siamo alla fine di febbraio ‘98: tre prostitute sono state uccise. I giornali

riportano con dovizia di particolari i delitti e sul fatto che esiste ormai la certezza

di un legame stretto tra tutti e tre i casi: stessa arma, stesso tipo di proiettile, stessa
53
M. CALANDRI, Riviera della morte, in «la Repubblica», del 30 marzo 1998.
54
F. PIN, Uccisa con un colpo alla testa. Torna il killer delle prostitute, in «Il Secolo XIX», del 5
aprile 1998.

33
modalità d’esecuzione. Oltre a ciò le tre vittime sono tutte ragazze di bell’aspetto.

L’idea che si tratti di un unico pluriomicida prende sempre più campo nelle menti

degli inquirenti e la stampa, come la televisione, comincia a diffondere tali

sospetti. Dopo tante morti femminili, però, ecco che una nuova uccisione, quella

di un uomo, sembra rimettere tutto in discussione.

Con due colpi di pistola sparati a tradimento


liquidato a Sanremo un uomo dal passato
burrascoso.
Morto con le mani in tasca La vittima è stata
rinvenuta da un pastore in un prato sul Monte
Bignone. Si presume che fosse in compagnia di una
persona di cui si fidava a Sanremo. Due colpi di
pistola alla testa esplosi a bruciapelo, a non
più di un metro di distanza. La vittima si
accascia sul selciato. Quindi il corpo viene
trascinato sul ciglio della strada e gettato su
un prato. Salvatore Cartisano è stato trovato con
le mani in tasca. Dunque conosceva il suo
assassino si fidava di lui. Forse erano anche
amici. Tanto da voltargli tranquillamente le
spalle, prima di essere raggiunto dai due
proiettili calibro 7,65 alla nuca, l’altro alla
tempia55.

Se le modalità dell’omicidio sembrano chiare, non si può dire altrettanto

del movente. Il fatto che Cartisano fosse un pregiudicato, e per di più con

precedenti di diversa natura, autorizza, infatti, più ipotesi: prostituzione (e droga

su tutte), vendetta, personale, una donna la causa. Nel merito la polizia non si

sbilancia, tanto meno il procuratore della Repubblica di Sanremo, Mariano

Gagliano, che coordina le indagini. Si tratta, comunque, di un altro uomo trovato

privo di vita, legato al mondo della criminalità (prostituzione, droga, ecc.); si

profila l’idea di un gruppo che mira al totale domino di questo commercio o crisi

55
M. PREVE, Con due colpi di pistola, In «Il Lavoro», suppl. di «la Repubblica», del 10 aprile
1998.

34
tra i componenti dello stesso. I giornali indugiano sui particolari più macabri

dell’omicidio e concorrono a creare un clima di tensione sottolineando che la

catena di delitti non sembra riuscire a trovare un movente che regga o, ancora

meglio, l’identikit preciso dell’assassino.

L’ultimo caffè con l’assassino


HA BEVUTO un caffè con il suo assassino, poi ha
discusso con lui nel salotto, lo ha visto
infuriarsi per un rifiuto e poi estrarre il
coltello. Allora ha tentato di fuggire ma é stata
raggiunta nel corridoio, il cuscino del divano
premuto sopra la faccia le ha impedito di farsi
sentire, otto coltellate l’hanno uccisa. E’ stata
ammazzata, sgozzata, da una persona che conosceva
benissimo, con la quale aveva strettissimi
rapporti, Anna Rossi vedova Lamberti, 72 anni, la
merciaia di Piazza Guicciardini trovata cadavere
nel suo appartamento di salita Franzoina 6, al
secondo piano. Chi le ha tolto la vita, con una
freddezza che lascia trasparire un odio profondo
per la vittima, ha ripulito il coltello sul
vestito della donna prima di rimetterlo in tasca.
L’ennesimo delitto in una Genova sempre più nera,
ma questa volta un omicidio che, se le intuizioni
degli inquirenti si riveleranno giuste, pare
poter contare su una cerchia di sospetti e
moventi ristrettissima. [...]. La settantaduenne
ha messo la "moka" sul fornello e quando il caffè
è stato pronto lo ha versato a lei e al suo
ospite. In quella tazzina che [...] troveranno
[...] delle impronte chiare, la cattura del
Killer potrebbe diventare una formalità...56.

Se fino a questo momento la catena di morti che si era abbattuta sulla

Liguria sembrava poter trovare una qualche risposta, la morte dell’anziana Rossi

sembra del tutto inspiegabile. L’arma è un coltello, non più una pistola, la vittima

un’anziana non più una prostituta né tantomeno qualcuno legato al mondo della

criminalità. Ogni pista degli inquirenti vene messa in discussione.


56
M. CALANADRI, L’ultimo caffè con l’assassino, in «la Repubblica», del 15 aprile 1998.

35
A Pietra Ligure è stato trovato il cadavere di un
albanese di 21 anni. La scia di sangue iniziata
nel febbraio del ‘97
Un assassino per sei lucciole
Anche Kristina uccisa con una P 38.
Un maniaco o il racket?
PIETRA LIGURE. Il brigadiere ha scavato con le
mani nella terra fresca, e delicatamente ha
estratto un proiettile. Di calibro 38,
naturalmente. E’ quello che lunedì notte, ha
ucciso Kristina Valla, 21 anni, prostituta
albanese trovata cadavere ieri nelle campagne di
Pietra Ligure. Costretta ad inginocchiarsi ai
piedi di un ulivo e "giustiziata" con un colpo
pistola alla nuca: come Stela, Ljudmila, Tessy.
Kristina è la quarta ragazza di strada ammazzata
in meno di un mese, lungo la Riviera Savonese:
con un’arma apparentemente uguale, e un rito
ossessivamente ripetitivo da costringere Rodolfo
Venezia, questore di Savona, ad ammettere che
«quella del serial killer è l’ipotesi
investigativa più probabile». Qualcuno già
disegna un identikit del presunto «giustiziere»:
un uomo tra i cinquanta e i sessant’anni, vestito
elegantemente, al volante di un’auto di grossa
cilindrata. [...] Un solo «giallo» è stato
risolto: quello di Anna Giunti, sgozzata nel suo
monolocale di Andora da un cliente [...] Dicono
che Kristina fosse stata legata sentimentalmente
ad un pregiudicato albanese [...]. L’ipotesi
potrebbe sposarsi con tre degli ultimi omicidi:
quello di Stela Truya […] LJudmila Zubkova […] e
di Kristina, appunto. Ma il teorema crolla
davanti al quarto delitto, quello del 29 marzo:
Tessy Adodo aveva 28 anni, era nigeriana e solo
saltuariamente divideva la strada giovani
albanesi...57.

Dopo quest’ultimo delitto, l’identikit del “presunto giustiziere” sembra

emergere con maggiore chiarezza, anche se la pista della criminalità organizzata

non viene ancora del tutto abbandonata. Sebbene non ci siano ancora prove

decisive, gli articoli e i servizi televisivi insinuano con sempre maggiore

insistenza nei propri lettori e nel proprio pubblico l’idea che a commettere la fitta

57
In «Il Corriere Mercantile», del 16 aprile 1998.

36
serie di omicidi sia un unico omicida, un serial killer, per l’appunto. Ed è

soprattutto nella scelta dei titoli, del tipo «Dopo l’ultimo omicidio, caccia aperta

al serial killer delle lucciole. Scatta il terrore» che i giornalisti, puntando sulla

sorpresa shock e sull’emozione violenta che l’accostamento di parole come

“caccia aperta”, “serial killer” e “lucciole” possono provocare nel lettore,

concorrono a creare quell’atmosfera da film horror che da sempre ha attirato

migliaia di lettori. Gli elementi del miglior thriller ci sono tutti: l’anonimo e

misterioso omicida, l’ambiente ambiguo e criminale della prostituzione, una serie

di vittime solo a tratti collegate tra loro. Se da un lato, pero, il giornalismo, da un

certo punto in poi, puntò molto su titoli sensazionalistici, volti ad incrementare un

clima di paura tra i cittadini, d’altro canto sembrò voler rassicurare sul fatto che se

esisteva un “mostro”, questo sceglieva le sue vittime tra coloro che vivevano ai

margini e che, dunque, gli onesti cittadini non avevano nulla da temere58.

L’idea che fosse stata un’unica mano a commettere gli omicidi si impose

alle menti degli inquirenti soprattutto per il fatto che le tecniche utilizzate erano

sempre le stesse e, soprattutto, per la presenza quasi costante di una calibro 38. Si

vociferava che si trattasse di un serial killer, di un unico assassino sia per le

prostitute che per la ragazza uccisa sul treno che percorreva la tratta Genova -

Ventimiglia e, addirittura, per gli sposini di via degli Orefici.

L’omicidio della donna uccisa sul treno è, in ordine cronologico, uno degli

ultimi, ma anche il primo a far pensare concretamente all’idea di un serial killer.

La vittima, Maria Angela Rubino di 32 anni, viveva a Ventimiglia ed era

dipendente di un’impresa di pulizie in Francia. Era salita alle nove meno un

58
Interessante a tale proposito il reportage dal titolo «Viaggio tra le prostitute che si sentono
sempre meno sicure. Quelle vite a rischio».

37
quarto sul treno ad Albenga, dove si era recata per rendere omaggio alla salma di

uno zio morto, due ore dopo ne era stato ritrovato il cadavere nella toilette del

treno. La donna era stata uccisa con un colpo di pistola alla testa.

Ventimiglia. Ancora il Killer del treno. Ancora


una giovane donna uccisa all’interno di una
toilette. Questa volta la vittima è Maria Angela
Rubino, una bella ragazza bionda di 32 anni, di
Ventimiglia. Non era sposata e lavorava in
un’impresa di pulizie in Francia .[…] L’hanno
trovata alla stazione di Ventimiglia poco prima
delle 23 di ieri sera, nel bagno del penultimo
vagone di prima classe del regionale Genova -
Ventimiglia, arrivato alle ore 22,30. L’hanno
trovata due facchini della cooperativa
portabagagli di Ventimiglia…59.

La morte di queste giovane donna chiuse il cerchio delle misteriose

uccisioni che per due anni avevano gettato la Liguria nel terrore; in quest’ultimo

crimine, infatti, l’assassino aveva lasciato delle tracce, e il nome di Donato

Bilancia, ben presto, finì in prima pagina. Il “mostro”, insomma, era stato

catturato.

59
In «Il Secolo XIX», del 20 aprile 1998.

38
CAPITOLO II

SOCIOLOGIA DEL MOSTRO: IL CASO

DONATO BILANCIA

§. 2.1 Il “mostro” come prodotto sociale

Iniziamo questo nostro percorso, diretto alla ricerca di un possibile

“perché” un individuo apparentemente normale possa trasformarsi in un “mostro”,

partendo da un concetto fondamentale, e fortemente discusso, come quello di

“devianza”. Tale termine, che viene solitamente indicato come sinonimo di

fuoriuscita da uno schema preordinato, è spesso usato per individuare

comportamenti individuali o di gruppo che non corrispondono alle aspettative

della società, a comportamenti che violano le norme codificate, che si pongono

come minaccia, aggressione, rifiuto delle abitudini e delle istituzioni e che,

pertanto, vengono giudicati negativamente e in molti casi sottoposti a sanzioni60.

Il concetto di “devianza” è centrale per comprendere alcuni meccanismi di

tipo sociale che possono essere individuati alla base di una trasformazione da

individuo “integrato” ad uno completamente “avulso” dal contesto sociale che lo

circonda. Può accadere, infatti, che, pur senza giungere a specifiche punizioni, la

devianza alimenti il pregiudizio del gruppo verso il singolo, aumentando sempre

60
S. HALLER, Gli aspetto criminologici della devianza criminologica, in A. QUADRIO, A. M.
CLERICI, M. SIMIONATO (a cura di), Psicologia e problemi giuridici, Giuffré, Milano, 2000, pp. 147
– 148.

39
più la frattura fra il “diverso” e il resto del gruppo stesso. Questo tipo di dinamica

perversa può portare all’emarginazione di un individuo il quale, come risposta al

rifiuto patito, spesso assume un comportamento consequenziale che lo induce a

calarsi abitualmente e stabilmente nel ruolo di “emarginato”, che per il resto della

collettività diventa sempre più definitivo ed immutabile.

La devianza, dunque, può essere definita come quel comportamento che si

discosta dalla norme di un gruppo e che, oltre al discredito per l’individuo che lo

compie, suscita reazioni personali o collettive che servono a isolare, curare,

correggere e punire l’autore della violazione. Ma quando si parla di devianza, a

quale tipo di comportamento “asociale” si fa riferimento? In effetti esistono

talmente tante e numerose definizioni che riguardano i vari tipi di devianza che

molti studiosi, come Dinitz e la sua équipe, hanno tentato di classificarle in un

unico sistema per avere un quadro più chiaro della situazione: esistono – secondo

questo gruppo di studiosi - cinque categorie di devianti che vengono definite in

base alla natura dell’ordinamento normativo col quale l’individuo è in contrasto.

Nella prima categoria rientra l’individuo che contrasta con le norme relative al

prevalente modello fisico, fisiologico o intellettivo (ad esempio il nano o il

gigante, il deforme, lo sfigurato, il debole mentale); nella seconda l’individuo che

infrange le norme religiose o ideologiche e che rifiuta l’ortodossia (l’apostata,

l’eretico, il traditore); nella terza l’individuo che infrange le norme giuridiche (ad

esempio l’omicida, il ladro, lo stupratore); nella quarta l’individuo il cui

comportamento non corrisponde alla definizione culturale di salute mentale (ad

esempio lo psicotico, il nevrotico) e, infine, nella quinta, l’individuo che rifiuta i

40
valori culturali dominanti (ad esempio il punk, lo skean - head, il tossicomane, il

barbone)61.

Diversamente da Denitz, lo schema di Merton, ideato per classificare gli

atti devianti, basandosi sulla distinzione tra accettazione o rifiuto delle mete e

delle norme proprie di una cultura, distingue cinque modi di adattamento alla

società a seconda dell’accettazione o meno delle mete sociali e a seconda

dell’accettazione o meno dei mezzi leciti necessari per raggiungere gli obbiettivi

socialmente definiti. Secondo la teoria di Merton mentre la normalità, che è

l’unica risposta non deviante, comporta l’accettazione sia delle mete di una

società che dei mezzi istituzionalizzati per raggiungerle, l’innovazione costituisce

un primo tipo di devianza. Essa, infatti, comporta l’accettazione sia delle mete di

una società che dei mezzi istituzionalizzati per raggiungerli. L’innovatore usa

tecniche o sistemi nuovi, spesso non legittimi, per ottenere la ricchezza (è spesso

una devianza ad opera dei colletti bianchi: il ricatto, la truffa, l’organizzazione

criminale).

Un secondo tipo di devianza è rappresentato dal ritualismo che implica il

rifiuto delle mete culturali e l’accettazione, talvolta esagerata ed ossessiva, dei

mezzi istituzionalizzati; l’immagine tipica è quella del burocrate che segue le

regole alla lettera e finisce per soffocare ogni iniziativa sotto un mare di cartaccia,

rischiando, così, di perdere di vista l’obbiettivo finale del suo compito, ovvero il

profitto. La rinuncia consiste nel rifiuto sia delle mete che dei mezzi. Troviamo in

tale categoria tutti i tipi di emarginati dal vagabondo al tossicodipendente,

dall’alcolizzato allo psicotico. L’ultimo tipo di devianza, infine, è la ribellione che

61
Per un approfondimento si veda S. DINITZ, R. R. DYNERS e A. C. CLARKE, Deviance, Oxford
University Press, New York, 1969.

41
comporta il rifiuto sia delle mete che dei mezzi che vengono però sostituiti con

nuovi mezzi e nuove mete: il ribelle è il rivoluzionario per eccellenza. La

devianza, dunque, non è, secondo Merton, il prodotto di un atteggiamento

completamente negativo, di rifiuto o di rinuncia di fronte alla società ma è, invece,

un tentativo di risposta alle richieste della società; il ladro, ad esempio, non rifiuta

il successo finanziario, anzi lo persegue con lo stesso entusiasmo del giovane che

si accinge a fare carriera in banca62.

La teoria di Merton risulta centrale ai fini della nostra trattazione in quanto

parte dal presupposto che le cause della devianza siano di origine sociologica;

come vedremo in seguito esistono numerose altre ipotesi circa le cause che

generano la “devianza”, ma a questo risulta più utile alla fine della nostra

trattazione sottolineare il fatto che esiste anche una netta distinzione tra atto

deviante e atto delinquenziale. Secondo Cloward e Ohlin, infatti, atto deviante è

quell’atto che comporta la violazione di regole sociali che disciplinano il

comportamento dei partecipanti in un sistema sociale, mentre l’atto delinquenziale

costituisce una categoria speciale di comportamento che viola norme basilari della

società e, quando ufficialmente noto, provoca da parte della Magistratura penale

un giudizio di violazione di tali norme e una conseguente punizione63.

Anche in questo caso, a seconda del tipo di norma che è stata infranta, si

possono individuare quattro principali categorie di individui: gli individui che

mettono in atto un comportamento deviante, quelli etichettati come devianti,

quelli che infrangono le norme giuridiche e, infine, quelli che infrangono le norme

giuridiche e sono etichettati come delinquenti.

62
R. MERTON, Teoria e struttura sociale, Il Mulino, Bologna, 1966.
63
A. K. CLOWARD e L. E OHLIN, Teoria delle bande delinquenti in America, Laterza, Bari, 1968.

42
Da questa categorizzazione appare evidente che non sarebbe corretto

ritenere che chi commette un determinato atto, in quel momento stesso e

automaticamente, diventa un deviante, in quanto esiste un passaggio

dall’individuo che compie un atto deviante o delinquenziale all’ «individuo

deviante o delinquente», passaggio che è costituito da un processo psicosociale di

azioni, reazioni e controreazioni, del quale devono essere analizzate la diffusione

e le caratteristiche. Infatti, se la reazione sociale da un lato definisce chi è

deviante, dall’altro determina, nei confronti della persona definita in tal modo, un

processo di rifiuto sociale che può arrivare a sfociare in misure informali quali il

disprezzo, l’odio, il rigetto, ed anche in misure maggiormente formalizzate, come

la condanna e l’incarcerazione64.

Da quanto detto, in sostanza, si evince che sia la devianza che la

delinquenza non sono una realtà a sé stante, ma una realtà costruita socialmente;

entrambe, infatti, rappresentano il risultato di un processo di selezione e di

stigmatizzazione, generalmente operato ai danni delle classi culturalmente

svantaggiate. Non sempre, tuttavia, è apparso chiaro il legame che unisce

“devianza” e contesto sociale, e, infatti, fu solo intorno alla metà del XIX secolo,

e allo sviluppo della criminalità con metodo naturalistico sociologico, che

iniziarono a diffondersi teorie le quali, partendo dalla centralità dell’individuo e

proponendosi l’obiettivo di spiegare perché un soggetto con determinate

caratteristiche o in determinate situazioni possa diventare un delinquente, giunsero

a considerare la delinquenza come una caratteristica dal sistema sociale. Ciò

indusse gli studiosi a tentare di individuare quali altre caratteristiche del sistema

stesso si collegavano alla devianza e il modo attraverso cui si verificava tale


64
S. HALLER, op. cit., in cit., p. 150.

43
relazione. Prima di passare all’analisi diretta del caso Bilancia, dunque, ci pare

interessante ed utile analizzare alcune di queste teorie le quali, diversificandosi

per il punto di partenza, offrono una base teorica fondamentale per tentare di

inquadrare il caso del serial killer ligure.

Tra la pletora di teorie a riguardo - tra cui ricordiamo quella che individua

nei tratti della personalità, somatici, costituzionali65 o neuropsicologici66 la

predisposizione alla delinquenza, oppure l’altra che considera la delinquenza

come espressione sintomatica di istanze inconsce che trovano origine in

particolari esperienze67 – paiono particolarmente interessanti ai fini della presente


65
Una delle più note teorie in questo senso, anche perché la prima, è la teoria dell’atavismo
elaborata da Cesare Lombroso (1835 - 1909), fondatore della cosiddetta “Scuola positiva di diritto
penale”; Lombroso ideò la figura del “delinquente – nato”, partendo dal concetto di degenerazione
formulato dallo psichiatra francese Auguste Morel (1809 – 1873), il quale considerava degenere
tutti quegli esseri umani che presentavano deviazioni dal tipo umano originario, prodotto dalla
creazione divina, e dal concetto di evoluzione e di ereditarietà espresso da Darwin. Secondo tale
teoria, di carattere bio - antropologico, i delinquenti sono caratterizzati da particolari anomalie
somatiche o costituzionali (malformazione dello scheletro, asimmetrie craniali e facciali,
dimensioni eccessive o ridotte del cervello, strabismo, grandi padiglioni auricolari, deviazioni del
setto nasale) e da particolari caratteristiche psicologiche (mancanza di senso morale, crudeltà,
pigrizia). Anche altri autori dopo Lombroso affermarono l’importanza dei fattori bio -
antropologici nella genesi del crimine, ma col passare del tempo l’impostazione teorica del
maestro tese a scomparire, soprattutto per il suo carattere conservatore in quanto si cercavano le
cause della delinquenza all’interno dell’uomo evitando qualsiasi analisi critica della società - per
lasciare il posto, comunque, a studi e ricerche sulle relazioni tra costituzione biologica e
comportamento criminale (ad esempio studi sui rapporti tra ereditarietà e delitto, costituzione e
delitto, anomalie cromosomiche e delitto, ecc.). Per un approfondimento si veda C. LOMBROSO,
L’uomo delinquente, Hoepli, Milano, 1876.
66
L’indirizzo psicogenetico, ad esempio, individua in fattori psicologici agenti nel corso dell’età
evolutiva (situazioni conflittuali, disturbi nello sviluppo della personalità dei primi anni di vita,
anomali rapporti con le figure parentali, ecc.) la causa prevalente od unica della condotta
criminale.
67
Senza voler entrare nel merito della questione, che appare alquanto complessa e richiederebbe
una trattazione a parte, basti qui ricordare che la teoria psicoanalitica della personalità è stata di
grande aiuto alla comprensione delle personalità devianti: premessa fondamentale è che l'uomo è
per natura egocentrico ed antisociale a causa dei suoi istinti libidici e aggressivi. La
socializzazione è un processo secondario, derivato dalla necessità meramente utilitaristica di
evitare l’angoscia per la riprovazione del Superio (istanza psichica depositaria delle norme e dei
valori sociali). Le carenze di sviluppo del Superio costituiscono - oltre ad eventuali carenze dell’Io
(istanza psichica che rappresenta la razionalità) - la causa prima della incapacità di controllo della
impulsività e quindi della criminalità. Tra i tanti autori che hanno attribuito alla formazione del
Superio un’importanza notevole nella genesi del delitto, citiamo Alexander e Staub, ma, prima di
loro lo stesso Freud arrivò ad ipotizzare un delinquente «per senso di colpa» per descrivere quegli
individui che ricercano inconsciamente, attraverso il delitto, una punizione come sollievo ad un
intenso sentimento di colpa che provano nel profondo e che deriva da un irrisolto conflitto edipico.
Queste acquisizioni sono state approfondite da Theodor Reik il quale analizzò l’impulso a
confessare tipico di alcuni delinquenti che avrebbero potuto salvarsi mantenendo il silenzio, e

44
trattazione quelle teorie che considerano la delinquenza come un insieme di

comportamenti appresi nell’ambito di un determinato gruppo culturale o

espressivi di una determinata sottocultura e le teorie secondo le quali la

delinquenza è una caratteristica inerente ad un particolare sistema sociale.

Diversamente dalle teorie psicologiche o psicoanalitiche, le teorie psicosociali,

ritengono che l’individuo sia, innanzitutto, mosso da istanze sociali più che

individuali e, secondariamente, influenzato e motivato dai tipi di rapporti

interpersonali che nel contesto sociale si realizzano: nella loro prospettiva,

dunque, la personalità non può essere studiata indipendentemente dalle situazioni

interpersonali, dalle interazioni con gli altri. La personalità, in altre parole, non

sarebbe altro che la configurazione, relativamente durevole, delle situazioni

interpersonali che si organizzano nella vita umana. Tra i tanti teorici che

affrontarono il problema della devianza e della criminalità in questo senso

particolare interesse rivestono le teorie di Mailloux il quale elaborò una teoria

basata sul concetto di «identità negativa», un concetto di natura psicologica ma

fondamentale anche per i suoi riflessi in ambito sociale.

Secondo Mailloux, infatti, la formazione della propria identità personale,

come immagine o insieme di immagini, consce o non, che l’individuo ha di sé, è

un processo, in gran parte inconscio per il soggetto, che dura tutta la vita, ma che
trovarono anche in Melanie Klein un’appassionata teorica. Se da una parte la psicoanalisi ha
dimostrato che anche le azioni colpose, non intenzionali, in verità sono ben motivate, dall’altra
parte ha rilevato che i motivi «reali» del delitto possono essere diversi dai motivi «apparenti» e che
non vi è necessariamente omogeneità tra il tipo del delitto ed i motivi che lo provocano. La
psicoanalisi quindi ha permesso di superare alcuni pregiudizi relativi al delinquente ed ha fornito
contributi illuminanti sulla motivazione di alcuni delitti: essa tuttavia non permette di capire le
cause della delinquenza in generale né di affrontare i principali problemi della criminalità. Per un
approfondimento si rimanda a: F. ALEXANDER – H. STAUB, Il delinquente, il suo giudice e il
pubblico, Giuffrè, Milano, 1948; T. REIK, L’impulso a confessare, Feltrinelli, Milano, 1967 (Ia ed.
1945 – 1959); M. KLEIN, Angoscia e senso di colpa, in Scritti 1921 – 1958, Boringhieri, Torino,
1978 (Ia ed. 1930); S. FREUD, I delinquenti per senso di colpa, in S. FREUD, Alcuni tipi di carattere
tratti dal lavoro psicoanalitico, in Opere di Sigmund Freud, Boringhieri, Torino, 1976 (Ia ed.
1906), vol. VIII, pp. 651 – 652.

45
trova una tappa fondamentale sul finire dell’adolescenza poiché successivamente

a questa l’individuo ha di sé un’immagine relativamente stabile e duratura. Per

Mailloux l’identità negativa si costruisce mediante la attese, i sospetti, la sfiducia

di fondo da parte delle figure parentali e di altre figure significative nei confronti

prima del bambino, poi dell’adolescente ed infine dell’adulto: l’individuo, così,

assume progressivamente un’immagine di sé che lo caratterizza come diverso

dagli altri, e lo identifica come cattivo e predestinato al male. Ciò induce

l’individuo a far corrispondere il suo comportamento a ciò che in realtà da lui si

attendono dapprima i suoi genitori, che troppo spesso manifestano il

convincimento di aver messo al mondo una «pecora nera», in seguito dai suoi

insegnanti e dai suoi educatori che lo classificano tra gli scolari cattivi, i soggetti

incorreggibili o i futuri «avanzi di galera». Infine dai giudici che lo inducono a

definirsi un delinquente irrecuperabile quando, addirittura, non lo dichiarano

delinquente abituale68.

Respinto dalla società e dai suoi famigliari il giovane delinquente è

caratterizzato dal profondo convincimento di essere diverso dagli altri, inferiore

ad essi, incapace di una normale socializzazione; a partire da un certo momento,

quindi, inizierà progressivamente ad accettare un’identità negativa che gli apporta

anche qualche gratificazione perché trova in essa dei vantaggi compensatori (non

ha più l’ansia della competizione, è guardato con un certo paradossale rispetto, ha

un suo status). Il giovane, che cerca disperatamente un’identità sicura, decide di

assumere una serie di condizioni dalle quali per lui risulta più facile derivare un

sentimento di identità: ad esempio, attraverso una totale identificazione con ciò

che meno si vorrebbe (ma si teme e ci si aspetta) che lui divenga (cioè un
68
E. H. ERIKSON, Gioventù e crisi di identità, Armando, Roma, 1974.

46
delinquente, un criminale) anziché lottare per un sentimento di realtà in ruoli

accettabili che però appaiono irraggiungibili. In tal modo, l’individuo che si sta

formando un’identità negativa è portato a scegliersi come gruppi di riferimento

dei giovani che accettano e valorizzano la delinquenza e si inserisce in bande

antisociali per trovare un’approvazione, una consistenza che gli è rifiutata dal

resto della società. È dunque attraverso un complesso sviluppo psico - sociale che

il giovane assume progressivamente le caratteristiche del delinquente69.

Molto di più a riguardo ci dicono gli indirizzi sociologici culturali; nucleo

centrale di queste teorie è la società, e non più l’individuo, in quanto esse

intendono condurre alla visione della criminalità come diretta ed esclusiva

conseguenza di condizioni insite nella struttura sociale. Tra i diversi indirizzi

citiamo, uno dei primi, la sociologia fenomenologica che, avendo una finalità

prevalentemente descrittiva, si sofferma all’osservazione empirica dei modi di

manifestazione dei fatti criminosi, delle correlazioni con le circostanze ambientali,

dei fattori micro - sociali di generico influenzamento della condotta individuale,

nel cui ambito tali fatti si verificano. In generale si considera che l’aumento della

criminalità si accompagni alla crisi della cultura contadina. Quanto alla tipologia

risulta che i delitti contro il patrimonio e, tra questi, il furto, sono quelli più

frequentemente commessi, seguiti in ordine decrescente dai delitti contro la

persona, contro lo stato e l’ordine pubblico, contro l’economia e la fede pubblica,

contro la famiglia, la moralità e il buon costume70.

69
N. MAILLOUX, La personalità del delinquente anormale e la ricerca contemporanea, in
«Archivio di psicologia neurologia e psichiatria», (1962), anno XXIII, 2; ID., Delinquenza e
ripetizione compulsiva, in «Archivio di psicologia neurologia e psichiatria», (1964), anno XXV, 1.
70
S. HALLER, op. cit., in cit., p. 160.

47
Altro indirizzo è quello delimitato dalla cosiddetta “teoria delle aree

criminali” che identifica la causa della condotta criminale nella esposizione a

particolari condizioni di influenzamento ambientale, legate al vivere in zone

squalificate e ad altra concentrazione delinquenziale. Si tratta di un approccio che

affronta il problema della criminalità secondo una prospettiva ecologica per cui, in

tale visuale, la variabile ambientale, e non quella individuale, è il fattore più

importante nella genesi della criminalità, almeno nelle modalità che si realizzano

in rete.

Vi è poi la “la teoria delle disorganizzazione sociale”, basata sulla

valorizzazione del rapporto di dipendenza tra «mancanza di stabilità» dei valori

culturali di una società ed irregolarità dei suoi membri. Secondo tale prospettiva i

mutamenti profondi della struttura economica, l’industrializzazione e

l’urbanizzazione, la conseguente perdita d’efficacia dei sistemi primari di

controllo (famiglia, autorità, religione, ecc.) sono causa di una disorganizzazione

che espone gli individui al rischio della condotta criminosa. Secondo questa

teoria, infatti, quanto più una società presenta fenomeni di disorganizzazione,

tanto maggiore sarà l’aliquota degli individui devianti o criminali71.

Secondo “la teoria dei conflitti culturali”, diversamente, risulta centrale la

perdita di efficacia degli abituali sistemi di controllo sociale che, confluendo nel

concetto di «cultura», causa l’insorgere del conflitto fra i sistemi culturali diversi e

contigui e determina instabilità e la conseguente condotta deviante. Quanti sono

immessi in un sistema culturale loro alieno senza integrarsi, si trovano a vivere in

71
Ricordiamo che tale teoria venne formulata per la prima volta dalla Scuola di Sociologia di
Chicago e che pose in crisi il modello sociologico classico fino all’epoca imperante. Cfr. A. DAL
LAGO, op. cit., pp. 91 – 103; per la Scuola di Chicago in particolare si veda U. HANNERZ,
Raccontare la città, Il Mulino, Bologna, 1993.

48
una società dove i valori sono profondamente diversi e, spesso, anche in forte

contrasto con i loro; conseguentemente a ciò tali soggetti vedono posti in crisi i

valori che un tempo consentivano loro l’efficiente controllo della condotta72.

Per “la teoria delle associazioni differenziali”, invece, il comportamento

delinquenziale è un tipo di condotta che viene appreso mediante l’associazione

interpersonale con altri individui già criminali. Esiste, cioè, una sorta di

apprendimento della condotta criminosa che va posto in relazione al tipo di

persone con le quali si viene a contatto e con il genere della loro cultura: tale

apprendimento avviene mediante un processo di comunicazione analogico, ma di

senso opposto, a quello tramite il quale si apprende il rispetto delle norme legali.

Discorso del tutto simile può essere fatto per le teorie della “identificazione

territoriale” (processo psicologico di identificazione con tipi criminali) o per

quelle delle “sottoculture criminose”, ossia quelle aggregazioni relativamente

stabili di individui che costituiscono un gruppo sociale dove esistono sistemi di

valori, di norme e di morale in contrasto con quelle della società e aventi

caratteristiche loro proprie ed autonome (si pensi, ad esempio, alle bande

criminali, alle bande astensionistiche, ai gruppi anarchici, ecc.).

Da parte sua, invece, “la teoria funzionalista dell’anomia” 73 sostiene che la

delinquenza è connaturata con un particolare tipo di società, in un determinato


72
S. HALLER,
op. cit., in cit., p. 161.
73
La teoria dell’anomia (o “assenza di norme”) risale a Emile Durkheim, sociologo francese dello
scorso secolo (1858 – 1917), che con La divisione del lavoro sociale (1893) e più strettamente con
Il suicidio (1897), ne delineò i tratti fondamentali. Secondo tale teoria se nelle società del passato
era ancora possibile rilevare la presenza di un nucleo forte di valori comuni, grazie ai quali i
legami sociali venivano preservati e irrobustiti, in quelle odierne, dove le relazioni sociali vengono
regolate essenzialmente dalla forma giuridica del contratto – di per sé esemplificativa della natura
impersonale e determinata nel tempo dello scambio sociale – le spinte anomiche sono molto forti.
In ragione di questo cambiamento sostanziale dell’organizzazione sociale verso modelli
individualistici, caratteristici delle società contemporanee, avremmo l’emersione degli stati
anomici, che hanno la loro origine nella frattura che si viene a creare fra l’individuo e la società e
nella scarsa capacità delle norme sociale di indirizzare adeguatamente le scelte individuali. Si
veda: S. CIAPPI – S. BECUCCI, Sociologia e criminalità, Franco Angeli, Milano, 1991, p. 41.

49
momento storico ed è tale da poter essere considerata in qualche modo funzionale

al miglioramento e allo sviluppo della società; uno dei fattori preponderanti nei

quali si ravvisa la devianza, secondo questa impostazione teorica, “l’anomia”,

ovvero una situazione della società in cui le norme vengono a decadere o ad

essere scarsamente considerate dagli individui. Durkheim, a riguardo, osservò

questo fenomeno sia in periodi di depressione economica che in situazioni di

rapida prosperità e ipotizzò che nelle descritte condizioni si realizzasse uno

squilibrio tra le aspirazioni degli individui e le loro possibilità di realizzarle sia

perché la povertà impedisce agli individui il soddisfacimento di quei bisogni

sociali che vengono considerati normali, sia perché l’improvviso benessere

provoca uno stato di eccessive aspirazioni che non tutti possono realizzare. Questo

squilibrio porterebbe ad uno stato di tensione e quindi ad una svalutazione delle

norme sociali che controllano il comportamento umano e quindi alla loro

infrazione74.

Secondo “la teoria funzionalista dell’anomia”, dunque, il comportamento

deviante è il risultato di uno squilibrio tra la struttura culturale (che comprende le

mete sociali prescritte e le norme che regolano l’accesso a tali mete) e la struttura

sociale (che comprende la distribuzione empirica delle opportunità per conseguire

le mete in modo compatibile con le norme)75.

74
Durkheim, cercando all’interno stesso dei fattori sociali i principi analitici (non derivandoli
quindi da formalizzazioni quantitative né da costanti biologiche o antropologiche) riuscì a
costruire una prima interpretazione sociologica dei fenomeni di devianza nella società industriale e
riuscì a superare le debolezze insite nelle prime teorie sociologiche, che cercavano di descrivere il
rapporto tra ordine e disorganizzazione sociale (come nel caso della statistica morale), e delle
teorie criminologiche, antropologiche o positiviste, le quali si erano rivelate incapaci di produrre
un modello complessivo di società. A. DAL LAGO, La produzione della devianza, Ombre Corte,
Verona, 2000, p. 65.
75
É. DURKHEIM, Il suicidio, UTET, Torino, 1969

50
Per Merton, invece, l’anomia non è relativa soltanto a periodi di

depressione o di improvviso benessere economico ma è una caratteristica stabile e

costante del sistema sociale di tipo americano la cui meta è il successo economico

considerato accessibile a tutti i membri della collettività ma che nella realtà

soltanto pochi possono raggiungere: e questi pochi appartengono in genere a

gruppi favoriti in partenza. Tale teoria, però, che di fatto è applicabile a tutti i tipi

di società che propongono un’ideologia egualitaria, associata ad una distribuzione

ineguale delle ricchezze, non permette di spiegare perché un singolo individuo

diviene delinquente ma consente, invece, di spiegare perché in una determinata

società o in determinati gruppi sociali siano presenti una certa quantità e un certo

tipo di delinquenza76.

Le teorie finora elencate non sono ovviamente immuni da critiche e

appaiono soprattutto inficiate da un eccessivo determinismo o meccanicismo e dal

fatto di accettare in modo acritico il concetto stesso di delinquenza 77. I nuovi

orientamenti nell’interpretazione della devianza, invece, partono dal presupposto

di mettere in discussione la definizione ed il concetto stesso di delinquenza,

introducendo una visione critica di tale e complesso fenomeno. I nuovi indirizzi

teorici pongono come premessa il fatto che le norme e la loro applicazione non

costituiscono una realtà oggettiva e neutrale ma sono invece strettamente collegate

con la distribuzione del potere nella società; partendo da questo presupposto, le

teorie relative al crimine non cercano più di comprendere perché gli individui

violino le norme, ma tentano di capire i meccanismi attraverso i quali la

delinquenza viene definita, prodotta e utilizzata dalla società e dal potere. Gli

76
S. HALLER,
op. cit., in cit., pp. 163.
77
Si veda su questo punto lo studio condotto da S. HESTER – P. EGLIN, Sociologica del crimine,
Piero Manni, Lecce, 1992, pp. 31 – 63.

51
studiosi che più di altri diedero un notevole impulso a questo nuovo approccio di

ricerca (denominato labelling theory) furono Lemert, Becker, Kitsuse, Garfinkel e

Erikson78

Partiamo dall’ “interazionismo o indirizzo dell’etichettamento”: per tale

indirizzo il criminale altro non è primariamente se non colui che viene definito

«etichettato» come tale dalla società o meglio ancora dagli organi ufficiali di

controllo (polizia, giudici, istituzioni penitenziarie). Secondo quest’ottica, dunque,

non si può più comprendere la criminalità se non studiandola in rapporto al

sistema penale che la definisce ed ad essa reagisce: a tale scopo quindi è

necessario considerare sia le norme sia l’azione degli organi ufficiali di

controllo79.

L’interazionismo, quindi, è interessato al delinquente e alle condizioni

sociali (anomia, povertà, sottocultura, ecc.) che producono la delinquenza, alla

reazione sociale e alla definizione della devianza: cioè ai processi e meccanismi

selettivi di criminalizzazione, visti nel loro ruolo di controllo sociale, ed agli

effetti della stigmatizzazione (reazione sociale e punizione) ai fini

dell’acquisizione della qualifica di criminale o di deviante. A questi fini non è

decisivo il comportamento deviante in sé bensì l’interazione tra l’individuo, che

mette in atto questo dato comportamento, e i membri della società che ne vengono

a conoscenza, in particolar modo gli organi di controllo sociale.

Secondo Becker la devianza consiste, dunque, nella mancata obbedienza

alle norme del gruppo. L’autore, partendo, dal presupposto che la devianza non è

un fatto riguardante il singolo individuo, ma l’intera società che crea le norme la

78
S. CIAPPI – S. BECUCCI, op. cit., pp. 66 – 75.
79
S. HALLER, op. cit., in cit., p. 164.

52
cui infrazione costituisce la devianza, arriva a definire deviante « un soggetto al

quale questa etichetta è stata applicata con successo; comportamento deviante è il

comportamento che la gente etichetta come tale». La devianza, dunque, è per

Becker «una transazione che si attua tra un gruppo sociale ed un individuo che è

visto dal gruppo come uno che infrange le norme»80.

Pertanto la devianza non è una qualità dell’atto che la persona commette,

ma piuttosto la conseguenza dell’applicazione, da parte degli altri, di norme e

sanzioni che qualificano il soggetto come delinquente. Nessun atto in teoria è

intrinsecamente deviante, ma è l’etichetta di deviante a renderlo tale. Interesse

principale dell’interazionismo, dunque, è quello di studiare il processo di

attribuzione negativa, ovvero l’azione di etichettamento, i processi di

stigmatizzazione e di esclusione.

A tale riguardo, sempre Becker, si è soffermato sullo studio della carriera

del deviante che, a suo dire, va intesa come una sequenza di movimenti da una

posizione all’altra, in un sistema di ruoli; tale autore non rivolge il proprio

interesse verso la persona che commette un solo atto deviante, bensì nei confronti

di quello che sostiene essere un modello di devianza per un lungo periodo di

tempo e che fa della devianza un modo di vita. La prima tappa di una carriera

deviante consiste, quindi, nel compiere un atto che viola una certa norma senza la

necessità che quest’atto sia motivato o intenzionale; la seconda tappa si ha quando

il soggetto, che ha compiuto un atto deviante, viene arrestato o allorché é

considerato pubblicamente deviante: a questo punto non è tanto il suo

comportamento ad assumere importanza, quanto piuttosto quello di coloro con i

80
H. S. BECKER, Outsiders, The Free Press, New York, 1967; anche ID, The other side, The Free
Press, New York, 1966.

53
quali in qualche modo entra in relazione. L’etichetta di deviante, o come lo

definisce Goffman «lo stigma sociale»81, determina un drastico cambiamento

nell’identità pubblica dell’individuo, portandolo a ricoprire un nuovo status e

costringendolo a un diverso ruolo sociale: l’individuo si è rivelato diverso da

come era considerato, non è più meritevole di far parte della società, viene

rigettato da essa, gli vengono vietati gli accessi alle occupazioni legittime e viene

quindi spinto di necessità a continuare nella strada appena iniziata perché altre

strade gli sono, di fatto, precluse. La terza tappa si verifica allorché il soggetto, in

assenza di altre possibilità, entra a far parte di un gruppo deviante organizzato

oppure vi partecipi già: questo momento interviene dopo una profonda crisi di

identità la quale coinvolge anche il concetto che il deviante ha di sé: da questo

momento il soggetto si riconosce e si definisce come deviante.

Da parte sua Lemert individua una devianza primaria e una secondaria: la

devianza primaria rappresenta quel comportamento contrastante che il soggetto,

pur essendone l’autore, non riconosce come proprio o meglio considera estraneo

al proprio Io, mentre la secondaria investe quei casi nei quali il soggetto

riorganizza le sue caratteristiche psicosociali attorno al ruolo di deviante

riconoscendosi come tale. Le deviazioni restano primarie e sintomatiche, o

situazionali, finché non sono razionalizzate come funzione di un ruolo

riconosciuto socialmente. Diversamente «quando una persona incomincia ad

impiegare il suo comportamento deviante o il ruolo ad esso collegato come modo

di difesa, di attacco, o di adattamento ai suoi problemi aperti o nascosti, creati

dalla conseguente reazione ad esso, la sua devianza diventa secondaria» 82. Il

81
E. GOFFMAN, Stigma. L'identità negata, Laterza, Bari, 1970.
82
E. M. LEMERT, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, Giuffré, Milano, 1981.

54
deviante secondario sarebbe, per Lemert, una persona la cui vita e la cui identità

sono organizzate intorno ai fatti della devianza e la reazione sociale è la

mediatrice del passaggio da devianza primaria a devianza secondaria e cioè al

comportamento criminale. Lemert ha così messo in evidenza che il

comportamento e gli atteggiamenti della società in generale e di coloro che fanno

rispettare la legge (poliziotti, giudici, ecc.) giocano un ruolo essenziale nella

genesi del comportamento deviante e soprattutto nella sua ulteriore evoluzione,

che si concreta in una carriera criminale, vale a dire in un comportamento

criminale che viene sistematizzato e cioè assunto come modello di vita.

Sempre secondo l’approccio interazionista, il comportamento che viola le

norme è estremamente diffuso in tutti i gruppi sociali ma soltanto una piccola

quota di questi comportamenti viene definita, etichettata e punita nell’ambito di

un processo di interazioni sociali. La devianza, inoltre, è vista non più come

socialmente disfunzionale, bensì come funzionale al sistema; essa, infatti, svolge

la duplice funzione di definire, in quanto termine negativo dell’alternativa

normalità - devianza, il contenuto del comportamento normale. Essa è creata

perché il soggetto che si conforma alle norme trovi in essa un termine di paragone

negativo e la conferma del proprio status di cittadino che è «nel giusto»; dall’altro

lato, stimola psicologicamente il gruppo «normale» a rinserrarsi intorno ai propri

valori col timore che i suoi rapporti interni possano venire modificati

dall’insorgere di nuovi valori. Sempre secondo questa impostazione il deviante

svolgerebbe un ruolo di «capro espiatorio» in quanto le classi dominanti lo

utilizzerebbero per deviare e polarizzare su di esso tutta la emotività e lo sdegno

sociale per il male commesso, col vantaggio di non fare percepire come devianti

55
altre condotte, parimenti dannose per la società, ma che sono proprie delle classi

dominanti e che, così coperte da una sorta di luminosità, si sottraggono allo

sdegno e al risentimento sociale per il male commesso83.

Numerosi autori come Le Blanc, Goldman, Chapman e Sterling hanno

messo in evidenza l’atteggiamento selettivo della comunità, della polizia e della

magistratura nell’etichettare i soggetti come delinquenti a seconda della loro

provenienza sociale. Anche Shoham rileva che lo stigma del crimine ha differenti

effetti sui criminali provenienti da diverse classi sociali. Sia la magistratura che la

polizia attribuiscono infatti molta importanza alla classe socio - economica e

all’origine etnica, e non solo al reato o alla personalità del delinquente: le norme e

le etichette, quindi, vengono applicate in maniera discriminante. A parità di

comportamento, i giovani appartenenti al sottoproletariato hanno maggiori

probabilità di essere etichettati come delinquenti84.

Concludendo si può affermare che la teoria dell’etichettamento ha reso

possibile un atteggiamento critico nei confronti del concetto tradizionale di

delinquenza e di giungere ad affermare che la criminalità non esiste in natura ma è

una delle tante «realtà sociali» costruite attraverso processi di definizione e di

interazione; anziché una qualità ontologica del comportamento, dunque, essa

sarebbe piuttosto una conseguenza dell’applicazione di norme e sanzioni ad un

oggetto da parte degli organi ufficiali di controllo, attraverso meccanismi di

selezione della popolazione criminale e tramite trasformazioni della identità

dell’individuo esposto a tali misure. A parità di comportamento punibile viene

83
S. HALLER, op. cit.,
in cit., p. 167.
84
Per M. LE BLANC,
La réaction sociale a la delinquence juvenile. Une analyse stigmatique, in
«Acta criminologica», (1971), 4, p. 113; per S. SHOHAM, Labelling deviant behaviour, Happer and
Row, New York, 1981.

56
considerato dalla società e trattato come delinquente solo colui che è stato

concretamente punito, non colui che non è stato raggiunto dalla azione punibile

degli organi di controllo sociale85.

Nonostante l’indiscusso interesse di queste teorie, che hanno fatto

registrare importanti passi avanti nell’analisi del rapporto criminalità e società,

molti interrogativi sono rimasti insoluti e soprattutto resta da spiegare l’emergere

della devianza primaria. È grazie alle teorie cosiddette “multifattoriali”, che

respingono le teorie sia unicausali o unifattoriali, sia individualistiche che

sociologiche, in quanto accentrando unilateralmente l’attenzione su particolari

condizioni hanno trascurato le continue correlazioni fra componenti ambientali e

individuali, finalmente ambiti diversi come quello antropologico, individualistico

o sociologico vengono messi a confronto senza più contese di priorità o di

gerarchie. Le teorie multifattoriali, infatti, hanno tentato di mettere un certo ordine

logico nella serie, apparentemente caotica di potenziali fattori causali che

appaiono statisticamente significativa col reato. Questo lavoro è stato fatto sia da

un punto di vista quantitativo (classificando i fattori secondo il loro grado di

correlazione) sia qualitativo (dividendo i fattori a seconda che siano primari o

secondari) e i vari autori sono riusciti a evidenziare statisticamente l’inconsistenza

causale di un certo numero di fattori, in precedenza considerati di alto valore

eziologico, mentre per altri non hanno saputo dimostrare il ruolo causale86.

Le teorie multifattoriali non tentano più di dare una spiegazione causale

del fenomeno della delinquenza ma ne offrono una descrizione, senza spiegare

perché i fattori rilevante portino a delinquere; i loro risultati, dunque, non vanno

85
S. HALLER, op. cit., in cit., p. 167.
86
E. GLUECK e S. GLUECK, Nuove frontiere della criminologia, Giuffrè, Milano, 1971; S. DINITZ, R.
R. DYNERS e A. C. CLARKE, Deviance, Oxford University Press, New York, 1969.

57
interpretati in chiave etiologica ma possono offrire utili elementi per la diagnosi e

la prevenzione. I Glueck, da parte loro, hanno scelto una serie di caratteristiche

che consentono individuare con maggior precisione i delinquenti dai non

delinquenti ed hanno così elaborato delle tavole di predizione. Le caratteristiche

evidenziate sono: l’inserimento in aree criminogene, l’esistenza di determinati

fattori individuali (come l’estroversione, l’aggressività, il tipo costituzionale

mesomorfico, ecc.) e la presenza nella famiglia di alcuni particolari caratteristiche

negative (come la scarsa coesione familiare, la scarsa sorveglianza materna,

l’inadeguato sistema educativo).

In conclusione, si può dire che le teorie che abbiamo finora presentato

possono essere distinte in due categorie: quelle che studiano la devianza primaria

e si interessano dell’origine di un comportamento contrario alla norma, cioè alla

causa della devianza primaria e dei motivi che hanno condotto l’individuo alla

violazione normativa e quelle che studiano la devianza secondaria, cioè le

modalità di assunzione del ruolo deviante e indagano intorno alle caratteristiche di

formazione della carriera di deviante (teorie interazioniste). Ciascuna delle teorie

che abbiamo brevemente presentato, però, ha in sé verità ed errori: le teorie

unifattoriali endogene, infatti, (come quella di Lombroso, quelle psichiatriche o

quelle psicoanalitiche) non sono in grado di cogliere il perché delle fluttuazioni

della criminalità in certi periodi storici, in quanto tali fluttuazioni sono spiegabili

solo tenendo conto dell’intervento di fattori criminogeni macrosociali di

influenzamento generale, capaci di agire su un largo numero di soggetti. Inoltre

queste teorie, sopravvalutando le componenti anomale e patologiche del singolo,

de - responsabilizzano la società che si presenta immune da colpe in un mondo

58
sociale postulato come ottimale e turbato così dalla malattia come dalla

delinquenza. Dall’altra parte, le teorie unifattoriali sociali non sono in grado di

spiegare il perché delle risposte individuali differenziate, a parità di condizioni

ambientali e, trascurando le motivazioni individuali, de - responsabilizzano

l’individuo, facendo del criminale la vittima delle incongruenze sociali. Le teorie

multifattoriali, invece, pervengono a conclusioni mediatrici, di elementare verità,

che rispondono al senso comune e alla generale esperienza umana, non essendo

oggi più concepibile suddividere individuo e società in categorie assolute, poiché

esse, sempre, si sovrappongono ed interagiscono.

È indubbio, infatti, che esista una costante correlazione tra fattori

individuali e fattori ambientali che può ben essere espressa dalla seguente

proposizione: tra predisposizione ed ambiente vi è un rapporto di proporzione

inversa, nel senso che l’ambiente sociale può favorire il comportamento criminale

dei soggetti potenzialmente predisposti: tanto più forte è la predisposizione tanto

meno necessari e influenti sono i fattori criminogeni ambientali e viceversa. Le

teorie mutifattoriali, inoltre, permettono di spiegare il perché dell’universalità del

fenomeno criminale, presente in ogni tempo e luogo, sotto qualsiasi regime

politico, facendo riferimento alla predisposizione individuale. È invece con

riferimento al variare dei fattori socio - ambientali che si spiegano le fluttuazioni

del tasso della criminalità nel tempo e nello spazio87.

Nel prossimo paragrafo, dunque – grazie ai dati acquisiti con la disamina

delle varie teorie socio – criminali - tenteremo di ricostruire l’identikit di Bilancia

attraverso un’ottica nuova, un’ottica che tenga conto di tutti quei fattori che

possono averlo influenzato nella scelta di una vita criminale, cercando di


87
S. HALLER, op. cit., in cit., pp. 169 – 170.

59
comprendere quanto abbia influito il contesto familiare o culturale nel quale

questo serial killer si è ritagliato il proprio spazio. Secondo Dal Lago «nella

società contemporanea il rapporto tra potere, repressione e creazione della

devianza è molto più complesso e nascosto, ma la capacità di manovrare e

utilizzare la “drammatizzazione del male” è infinitivamente più sviluppata» 88 ci

pare interessante inserire un terzo elemento di analisi, ovvero i media, nel senso

del controllo sociale da questi operato. Ai media, infatti, va riconosciuta una

grande responsabilità nella creazione del caso Bilancia e nella diffusione di un

preciso clima di paura che ha concorso a trasformare Bilancia da “deviato” a

“mostro” mediatico.

§. 2.2 Bilancia e la “paura”

La ricerca alle radici del «male» ha, da sempre, costituito uno fra i

problemi che hanno più angustiato l’uomo, un problema cui sono state date

mutevoli risposte nella mitologia, nella religione, nella filosofia. Attraverso i

secoli scrittori e filosofi furono attratti dal fenomeno criminoso come entità

naturale ancor prima che giuridica: Platone considerava il crimine come sintomo

di malattia dell’anima, Aristotele poneva l’accento sull’origine passionale -

irrazionale del crimine, San Tommaso, pur attribuendo alle passioni umane la

maggior parte dei crimini, non trascurò di considerare la miseria quale fattore

criminogeno, così in epoche a noi più vicine Calvino, Montesquieu, Rousseau

cominciarono a considerare alcune manifestazioni di criminalità come fenomeni a


88
A. DAL LAGO, op. cit., p. 101.

60
sfondo sociale ed economico. Oggi, le teorie criminologiche – raccogliendo

quanto la storia del pensiero ha tramandato – considerano crimine e società un

binomio ineluttabile e costringono a leggere nell’atto criminale, per quanto esso

possa apparire mostruoso e fuori dalla norma, un segnale di un malessere che

coinvolge individuo e contesto sociale. Donato Bilancia, allora, con i suoi

innumerevoli crimini non può più essere considerato solo un uomo portato al

“male”, ma un individuo che ha percorso un cammino diverso, anomalo,

“deviato” per l’appunto. Oltre a ciò, grazie allo stretto rapporto esistente tra

media, cultura e società, Bilancia si è trasformato in un “personaggio”, una sorta

di “icona” dell’immaginario collettivo: “Il serial killer delle prostitute”, come

titolavano i giornali, o ancora “L’assassino del treno”89.

Ma che tipo di immagine è quella che ci hanno rimandato i media?

Ovvero, siamo in grado di sapere chi sia Donato Bilancia e cosa sia realmente

accaduto? E nella nostra valutazione, quanto ha contato il clima di paura che i

media hanno concorso a creare intorno a questo personaggio e ai suoi crimini? I

media, d’altra parte, hanno il potere, senza sconfinare nella menzogna, di

distorcere la realtà ed è noto che «la cronaca nera si occupa eccessivamente del

crimine violento e individuale...»90, e il caso Donato Bilancia ne è un esempio

eclatante.

Alla luce di quanto detto, dunque, partendo dalla carta stampata - e più

precisamente dai quotidiani - cerchiamo di ripercorrere a grandi linee la vicenda


89
Sul rapporti tra media, cultura e società si veda: D. MCQUAIL, Sociologia dei media, Il Mulino,
Bologna, 1994, dove l’autore evidenzia come uno dei problemi fondamentali tra media e società
sia quello del rapporto dei mezzi di comunicazione con la sicurezza e l’autorità dello stato. È
comune l’opinione, sostiene MacQuail, che i media non debbano assolutamente mettere in crisi
l’ordine sociale, ma è anche vero, che i mezzi di comunicazione sono stati, almeno in un primo
tempo, associati al disordine sociale e ad un presunto incremento dell’immoralità e della
criminalità (p. 85).
90
Ibidem, p. 240.

61
dell’omicida genovese, tentando, questa volta, di evidenziare in che modo i

professionisti del settore abbiano fatto sì che Bilancia e paura diventassero per i

lettori un binomio inscindibile.

All’inizio del caso, quando ancora il volto e il nome del pluri - omicida

non erano altro che uno tra i tanti possibili, i giornali cominciarono a trattare

l’argomento perseguendo una linea comune, ovvero quella sensazionalistica;

nonostante fossero numerosi gli interrogativi che non potevano ancora trovare

risposta, tuttavia da subito la vicenda provocò un’ondata di reazioni tra la gente

comune: si trattava di paura91, una sensazione sulla quale i mass – media capirono

di poter indugiare. Era ovvio, infatti, che ci si trovava di fronte a uno di quei casi

che potevano far aumentare notevolmente la tiratura dei giornali. I mass media,

allora - che avrebbero naturalmente potuto adottare diversi approcci - optarono per

quello più clamoroso, e iniziarono a registrare, passo dopo passo, i misfatti del

killer genovese con un’incredibile dovizia di particolari e di dettagli. L’obiettivo

era quello di trasformare il lettore da statico spettatore a co - protagonista della

vicenda; seguendo questa linea editoriale la maggior parte degli articolisti

iniziarono a soffermarsi, quasi con macabro compiacimento, sulle scene del

delitto e sulle ignave vittime. Così dalla Repubblica dell’aprile 1998:

Sette identikit per un killer.


L'assassino dei metronotte al centro dell'inchiesta
GENOVA-- C'è la paura delle prostitute: non
prendono più i «treni dell'amore» quelli che
ogni sera partono da Genova diretti in Riviera
a Ponente o nel Basso Piemonte. C'è la paura

91
In psicologia la paura viene definita «è un’emozione che colpisce in misura variabile ogni essere
umano lasciando molto spesso delle tracce indelebili nella sua mente, tracce che possono
riemergere in forma più o meno drammatica sia a livello cosciente che nei sogni. La paura è
un’emozione che può generare dei grossi problemi di adattamento e che in casi estremi può dare la
morte alla persona che ne è vittima….». A. OLIVERIO FERRARIS, Psicologia della paura,
Boringhieri, Torino,1980, p. 13.

62
della gente alla vigilia del week - end
festivo, un lungo ponte che parte da oggi,
vigilia del 25 aprile. Si sa, lo conferma la
lunga scia di delitti, che il killer delle
donne ama uccidere proprio nei giorni di festa
o in quelli che li precedono. E così è allarme,
in Liguria. Magistrati e investigatori, ieri,
hanno vissuto un’altra giornata di vertici, di
incontri. Alla fine, la prima novità. La
pistola che, nel febbraio di un anno fa, uccise
Donika, prostituta albanese nella piana di
Albenga, sarebbe una 38 compatibile con quella
usata dal killer delle donne. L’avrebbero
confermato gli esami balistici. Nulla di più,
svelano gli investigatori. Sono molte le
schegge che potrebbero portare all’assassino.
Sette identikit, intanto, per cercare di
anticiparlo e bloccarlo. Ma uno viene, per ora,
considerato più importante degli altri. Ha il
volto di un uomo di mezz’età, 50 – 55 anni,
capelli lisci, portati da un lato, occhi
segnati. Lo ha descritto così Lorena, il viado
sudamericano ferito a Novi Ligure la notte del
24 marzo, quando a morire sono stati due
metronotte, giustiziati con un colpo di
pistola, calibro 38, perché accorsi alle sue
urla. Lorena, il viado, è il testimone più
prezioso, per il momento. L’uomo che Lorena ha
descritto sarebbe stato riconosciuto, sabato
notte, da una prostituta di Genova, in via
Gramsci. Straniera anche lei, nigeriana. Era
strano, quel cliente, a bordo di una Mercedes
scura, la donna si è spaventata, non è salita.
Sempre Lorena, il viado, dovrebbe aver visto la
foto di S. L. il commerciante di 43 anni,
fermato l’altra sera alla Spezia, riconosciuto
da un’altra prostituta, nigeriana che era stata
costretta da lui a un rapporto sotto la
minaccia di una pistola, calibro 38, e poi era
stata rapinata. L’arresto, chiesto dal pm
spezzino Silvio Franz, è stato convalidato dal
gip, Diana Brusacà, per rapina e violenza
carnale. Ci sono sospetti, l'uomo potrebbe non
avere un alibi per la catena degli otto
delitti. Per ora, comunque, nessuno lo collega
al killer.
Molti i particolari inquietanti nella vita di S.
L., molto alto - 1 m e 85, 1 metro e 90; robusto,
cintura nera di karatè, capelli scuri e
brizzolati. Lui, fermato a bordo di una Opel
bianca, ha un fratello che potrebbe avere a
disposizione una Mercedes scura. Si pensa subito
ad un collegamento possibile con il serial killer

63
ma gli investigatori, poco dopo precisano che il
rapinatore fa parte di un altro dossier. Non
c’entra con il killer delle donne. Intanto, la
caccia dell’assassino, fa finire in carcere a
Genova, Sergio Truglio, 34 anni, operaio. Due
lucciole albanesi lo hanno riconosciuto come
l’uomo che, durante le feste di Pasqua, le ha
aggredite e violentate, minacciandole con un
coltello. Sono soddisfatti gli investigatori,
perché le ragazze extracomunitarie, hanno
superato il timore di essere rispedite in patria,
e parlano. Si sono coalizzate contro chi le
uccide. Uccide loro le ragazze dalla vita normale
come Maria Angela Rubino, l’ultima vittima92.

É interessante notare che furono gli stessi giornalisti, in questo articolo, a

suggerire – diremmo quasi “suggestionare” - al lettore quale sentimento dovesse

predominare in tutta la vicenda. Si trattava della “paura” più volte citata e dei suoi

sinonimi, come il “panico”, il “timore”, “l’inquietudine”. Di contro,

l’ambientazione nel mondo delle prostitute sembrava fungere da ammortizzatore,

nel senso che pareva voler rinfrancare quante non appartenessero a quel mondo e

sostenere la teoria che si trattasse di un pazzo che uccideva in un altrove, quasi un

universo parallelo, una dimensione dove le persone “normali” non avessero nulla

da temere. E allora il killer diventava protagonista di un film, un thriller, che si

poteva comodamente gustare al sicuro nella propria casa.

A leggere attentamente l’articolo, però, ci si accorge che i due giornalisti

che lo firmano si spingono oltre e, alla fine, quando ormai pare indubbio che il

lettore comune debba sentirsi al sicuro, capovolgono le carte in tavola e chiudono

l’articolo insinuando un nuovo atroce dubbio: l’ultima vittima non è immischiata

in nessun racket, non è una prostituta ma una donna normale, una come tante.

Ecco, allora, che i due professionisti della penna si trasformano in due abili

92
M. PREVE – W. VALLI, L’assassino del metronotte al centro dell’inchiesta, in «La Repubblica»,
del 24 aprile 1998.

64
venditori, due venditori di “paura” aiutati, in questo, da una lunga tradizione che

ha le proprie radici in tutta quella serie di profondi cambiamenti che hanno

investito il tessuto urbano negli ultimi decenni 93, - vedi la massiccia

immigrazione, la crescente microcriminalità e il ritmo frenetico che le metropoli

impongono – per i quali il binomio insicurezza e città è diventato praticamente

indissolubile94. Parole come sfiducia e paura sono diventate delle realtà che

appartengono al quotidiano di tutti e che investono inesorabilmente la forma

urbana del vissuto sociale colpendo, con modalità a volte inedite,

l’immaginazione dell’uomo metropolitano. Come spiega ampiamente la Landuzzi

le città, pura restando «una unità di luogo» corrispondono sempre meno «ad

un’unità di tempo» per cui la città «si polverizza in una eterogeneità di regime e di

situazioni temporali. E la sua forma non è imposta da un certo tipo di

demarcazione o di confine o di visione, ma viene ad essere una specifica e propria

programmazione di un “uso del tempo”. Da questa multiformità di percorsi,

emerge la necessità di percorsi singoli, di strategie uniche ed irripetibili, vissute

tuttavia nella inquietudine di una deprivazione di comunità forti e di un sistema di

appartenenze stabili»95. Le città, in sostanza, sono sempre più identificabili con i

caratteri di “disordine” e di “disgregazione”, concetti che vengono alimentati sia

dai messaggi filmografici, che diffondo immagini di “inferno prossimo venturo” o

di “paura nella città”, immagini, come scrive la Landuzzi, «facili da proporre alle
93
In realtà le considerazioni critiche nei confronti del vivere urbano risalgono ai primi del XIX
secolo quando la crescente industrializzazione e l’immigrazione dalle campagne alle città,
portarono ad una vera e propria sfiducia e indifferenza, se non quando rifiuto, nei confronti delle
città. Dalle analisi di Booth, di Malthus e di Engels emersero i carattere di invivibilità che
contraddistinguevano le metropoli di allora, mentre M. White delineò una città dannosa alla salute,
alla libertà, alla morale degli uomini (per un approfondimento a riguardo, G. AMENDOLA, La città
postmoderna. Magie e paura della metropoli contemporanea, Laterza, Bari, 1997).
94
Douglas parla di rischio come forme di simbolizzazione presente in ogni società, non solo
nell’attuale e aggiunge che esso costituisce una presenza necessaria alla formazione stessa della
cultura sociale. M. DOUGLAS, Come percepiamo il rischio, Feltrinelli, Milano, 1991, p. 8.
95
C. LANDUZZI, L’inquietudine urbana, Franco Angeli, Milano, 1999, p. 9.

65
ansie dei nuovi ceti urbani in lotta per conservare reddito e status nella

complessità e nelle continue trasformazioni della città contemporanea»96.

Col caso del serial killer ligure, dunque, i giornalisti non fecero altro che

cavalcare un’inquietudine latente, già presente nel tessuto urbano nelle sue

innumerevoli forme e di cui Bilancia rappresentò, per un periodo, la punta

dell’iceberg. Bilancia, infatti, divenne una tra le tante «presenze inquietanti che

fratturano la quotidianità del vissuto sociale destabilizzando ogni ordine e

certezza, anche a livello di percezione degli abitanti, ma non per questo

l’insicurezza soggettiva diventa meno reale e destabilizzante»97.

Durante i delitti liguri, quindi, prima che gli inquirenti giungessero alla

verità, i media concorsero senza dubbio ad accrescere la percezione di un

progressivo aumento di insicurezza. Nei vari articoli apparsi sui quotidiani, infatti,

gli aspetti pericolosi della vita non vennero collegati, solo ed esclusivamente, alla

percezione della delinquenza, ma vennero ampliati in una prospettiva di “rischio

di vita” generale e di incertezza della condizione esistenziale 98 tanto da indurre

molte persone – soprattutto le donne, cosiddette normali - a modificare, laddove

possibile, il proprio stile di vita, evitando, per iniziare, col prendere il treno o a

ricorrere a bizzarre precauzioni. Bozzano, su Il Lavoro, scrive:

Così cambia il modo di viaggiare.


IRENE sarebbe a Venezia adesso, se non fosse per
la paura del mostro. L’eco dei recenti fatti di
cronaca ha mandato all’aria il progetto del suo
viaggio programmato da mesi. Irene a malincuore
ha pensato di starsene una settimana a casa, ma

96
Ibidem, p. 10.
97
Ibidem, pp. 10 – 11.
98
A. BOLLONI – R. BISI – R. SETTE, Criminalità e devianza: sfida per la sicurezza e la qualità della
vita, in Dipartimento di Sociologia – Università di Bologna (a cura di), Parabole sociale tra
certezze e incertezze, Franco Angeli, Milano, 1998.

66
alla fine ha rinunciato alle ferie ed è tornata
come ogni giorno dietro alla sua scrivania in un
ufficio della Provincia. A spaventarsi non è
stata lei ma la sua compagna di viaggio: «Sua
madre vede troppi telegiornali» dice seccata. Al
momento di fare le valigie è scoppiata in lacrime
e non ha smesso finché la figlia non le ha
promesso di disdire la vacanza. La sindrome del
mostro cambia le abitudini dei genovesi?
L’abbiamo chiesto per strada, alla stazione nei
negozi del centro. Per molti è un argomento
lontano dicono di aver letto sul giornale, di
aver sentito alla Tv ma «paura» no, basta un po’
più d’attenzione a chi siede accanto e ad ogni
costo sfuggire i viaggi solitari. Donatella
lavora a Celle, vive a Boccadasse ed è una
pendolare a tutti gli effetti. Fa la commessa in
un negozio di vestiti ed «il treno della paura»
le tocca prenderlo due volte al giorno, compresi
i sabati, e ogni tanto la domenica mattina, anche
volendo le sue abitudini non le può proprio
cambiare: non ha la patente né la macchina. La
paura? «Beh, rido di me stessa – confessa - ma
quando lo scompartimento resta un po' troppo
vuoto non sono affatto tranquilla». Qualcuno a
sentirsi chiedere del killer scoppia in una
risata: «Quei mostri dei miei colleghi li
incontro ogni mattina!». Altri addirittura si
impauriscono sentendosi fermare alla stazione.«E'
curioso», dice Elisa, aspirante commercialista
appena scesa da un Intercity proveniente da
Rapallo, dove lavora presso uno studio - «prima,
salendo sul treno, camminavo a lungo prima di
sedermi, cercavo il posto più riservato,
camminavo fino alla prima carrozza. Ora non lo
faccio più, a costo di stare in piedi me ne sto
al centro». Sara lavora nel porto antico e vive a
Sestri Levante. Molto spesso prima si fermava un
paio d’ore dopo il lavoro per chiaccherare con
gli amici di fronte ad un aperitivo. Adesso no,
si mette d’accordo con le sue colleghe e prendono
tutte insieme lo stesso treno, «nessuno dice
apertamente perché, ma è ovvio .... prima
succedeva di rado che fossimo tutte sullo stesso
treno». Paola, fa la sociologa, ed è un
giramondo. Lavora spesso all'estero, gira in
treno ed in aereo. In molti - racconta - le
invidiano il lavoro, sempre in giro, in una
settimana tre Stati, ma adesso, «se vedo qualche
persona che mi piace poco sussulto, poi dico che
no, non può essere, figuriamoci se queste cose
possono capitare proprio a me».Paola è bionda e
porta i capelli legati dietro la nuca, o meglio

67
li portava così: «se li sciolgo sembrano più
chiari, ho letto che il mostro preferisce le
brune». Sonia ha aperto un negozietto d’oggetti
d'antiquariato nel centro storico, spesso siede
lì da sola, legge o disegna nuovi oggetti per il
suo negozio e, confessa, «un po' di paura ogni
tanto le viene». Ci sono momenti che non passa
nessuno qui davanti e quasi quasi Sonia
chiuderebbe prima delle sette. Anche i soliti
spacciatori che bazzicano in zona le danno meno
fastidio del solito. La signora Luisa gironzola
tra gli stand della Festa dell'Unità. «Come
faccio ad andare a S. Margherita?» chiede.
«Prenda il treno», le risponde un venditore di
dolci. «No, il treno non lo prendo, fossi matta,
voglio sapere come si va in autobus». «Anch’io ho
paura!» - sbotta una signora, anche lei a spasso
tra gli stand della Festa dell'unità. «Dovevo
andare a trovare mia figlia che vive a Milano, le
ho telefonato: se vuole vedermi venga qui lei»99.

Dalle testimonianza raccolte è evidente che i comportamenti delle donne si

modificarono dopo il susseguirsi di vittime sui treni: ci fu chi, magari per paura

dei genitori, rinunciò addirittura a muoversi, chi si aggregò a conoscenti per

prendere il treno, chi, quasi per esorcizzare la paura, sfoderò un’insolita ironia. La

macchina o gli autobus divennero un’alternativa al viaggio in treno: si

modificarono le abitudini, si cambiò il proprio modo di vivere in funzione del

nuovo sentimento che si era accampato nella mente di molte. Tutte le donne,

giovani e meno giovani, professioniste o semplici studentesse, diverse dunque per

età classe sociale e quant’altro, vennero toccate dal soffio della paura, si insinuò in

loro il timore di poter incontrare il killer dei treni, l’uomo che prediligeva le

brune, di poter essere, in definitiva, la prossima vittima. Ma questo tipo di

“paura”, questa sensazione di disagio che le accompagnava lungo l’arco della loro

giornata, che le invogliava a cambiare i propri ritmi, fu un’esagerazione, una

99
P. BOZZANO, Così cambia il modo di viaggiare, in «Il Lavoro», suppl. di «la Repubblica», del 23
aprile 1998.

68
suggestione, un prodotto della mente o aveva un sapore squisitamente

“mediatico”? La risposta, in parte, la fornisce l’articolo pubblicato ne Il Secolo

XIX del 25 aprile:

Sui convogli dei pendolari la gente sdrammatizza, ma la tensione si


legge sui volti. La preoccupazione e la proteste del personale Fs. «In
pochi a controllare i treni della paura».
Genova. Paura? Non esattamente. Preoccupazione
diffusa, questo sì. Sarà che stiamo in pieno
pomeriggio, che il sole brilla alto, che la
stazione Brignole pullula di gente e poliziotti.
Ma la psicosi del serial killer non si coglie.
Intorno alle tre, in attesa del “regionale”
Genova - Savona, contiamo nell’atrio ben otto
agenti in divisa, a due a due, che controllano
calmi la situazione. C'è un via vai di gente
"spiato" da almeno venti telecamere, quelle
normalmente in servizio intendiamoci, che
rimandano le immagini alla centrale della Polfer.
Sul marciapiede del binario 2, da dove partirà il
Genova - Savona delle 15.35, sotto il lato
estremo della pensilina verso Principe, un
crocchio di ferrovieri. Tra loro ci sono Claudio,
35 anni, capotreno, e Giacomo, 51 anni, capotreno
anche lui, ma al lavoro, stavolta, come Cst, capo
servizio treno: insomma controllore. Entrambi
sono di Savona e sono i responsabili del
convoglio. Due ferrovieri per otto vagoni, un po’
pochi. «Pochi comunque, al di là di questo
momento particolare», recrimina Giacomo, E
spiega: «Sì, perché oltre a tenere gli occhi più
aperti del solito, dobbiamo comunque prestare il
nostro normale servizio di “controlleria” dei
biglietti, provvedere alla piccola manutenzione,
la porta che non funziona, il finestrino che
resta incastrato. E poi c'è sempre la signora
anziana d’assistere, la mamma con i figlioletti
da aiutare a salire e a scendere». Polizia sul
treno? Risponde Claudio: «Forse in borghese.
D'altra parte il tragitto è breve e l'ora non è
“a rischio”. No, non abbiamo notato, da
stamattina alle 11,30, da quando abbiamo preso
servizio particolari preoccupazioni. Abbiamo però
visto che le donne sole cercano un posto nei
vagoni pieni. Tutto qui. «Sui treni notturni» -
aggiunge Giacomo - «è diverso. Come sul locale
per Savona dell’una o sul Venezia - Roma Lì la
polizia c'è sempre. Almeno due o tre agenti in
divisa e altrettanti in divisa e altrettanti in

69
borghese». E l’identikit del serial killer? Ve
l’hanno mostrato»? «No, non ce l’hanno fatto
vedere. D’altra parte non siamo poliziotti».
Il “regionale” è sul binario. Saliamo insieme
agli altri passeggeri. Sono per la maggior parte
giovani, studenti, più donne che uomini. C'è pure
un giovanissimo violinista che frequenta il
conservatorio Paganini. E c’è un’allegra e
vociante scolaresca, una ventina di ragazzetti
sui 7 - 8 anni accompagnati da insegnanti e da
qualche genitore. Il clima è da scampagnata, il
fine settimana rende tutti più rilassati. La
prima vettura, con i sedili di plastica quasi
completamente imbrattati di scritte, è
assolutamente vuoto. Sulla seconda e terza non
più di una decina di persone. A centro treno,
invece, una folla. Sapremo più tardi, quando
scenderemo a Savona, che hanno viaggiato 370
passeggeri. Ed ecco il primo particolare
inquietante: la porta della toilette del quarto
vagone, pur pieno di gente, è spalancata. Un
caso? Forse no, forse qualcuno l’ha aperta e la
lasciata così per prudenza. Anche quella del
quinto vagone. Le altre no. Ma, quando il
capotreno ci passa davanti, gira la maniglia e le
controlla ad una ad una. Nel sesto vagone, tre
persone. Tra cui la signora Maria, pensionata, di
Pegli. Signora, non ha paura di viaggiare da sola
? «No. Certo che se fosse sera... Invece sono
preoccupata per mia figlia Patrizia. Fa
l'infermiera e prende il treno in ore più
pericolose. Quando sta per uscire le dico sempre:
stai attenta, mettiti nella prima carrozza dove
c’è il capotreno». Tre ragazze sui 16 anni stanno
per scendere ad Arenzano. Ridono e scherzano, si
bisbigliano qualcosa all'orecchio. Ma poi uno di
loro sbotta: «Sia chiaro: io domani sera ci vado
in discoteca a Genova. Ma solo se venite anche
voi. A tornare indietro da sola non ci penso
proprio». «Va bene, va bene Marina. Domani
veniamo con te, stai tranquilla». L’arrivo a
Savona è in perfetto orario. Ecco Giacomo e
Claudio, i ferrovieri: «Nessun problema, avete
visto?».
Il tempo di un caffè al bar della stazione e si
torna indietro. Con l'interregionale Ventimiglia
– Genova - Milano delle 17,05. Sul quale
incontriamo un conduttore donna. Che, due ore
dopo, sarà in servizio sul Brignole - Ventimiglia
delle ore 19. Proprio il “locale” su cui, sabato
18 aprile, è stata assassinata Maria Angela
Rubino. E, lo ammette, ha proprio paura100.
100
N. PIRITO, Sui convogli dei pendolari, in «Il Secolo XIX», del 25 aprile 1998.

70
É evidente che “l’universo treno” cambiò: la polizia pullulava nelle

stazioni e il personale viaggiante fu messo in allerta. Intensificare i controlli

sembrò un imperativo categorico. Non si parlava espressamente di paura, anzi al

killer, probabilmente, non si faceva neppure diretto riferimento ma era chiaro che

c’era qualcosa di strano nell’aria. I passeggeri avevano paura e avvertivano il

bisogno di essere protetti. I media, non c’è dubbio, lavorarono bene: il killer dei

treni non passò inosservato, non si trattò di un caso sporadico come tanti che

affollavano le pagine di cronaca ma fu qualcosa di più. Non si sapeva ancora chi

fosse, da dove provenisse, perché agisse, ma Bilancia, o per lo meno l’idea di

Bilancia, era già presente tra la gente, soprattutto tra le donne, e in questa

costruzione assolutamente empirica del “mostro” – per lo meno all’inizio – i

media la fecero da padrone. Indicarono cosa provare, “paura”, istruirono sul cosa

fare “aggregarsi”, stimolarono la fantasia con racconti di donne sole che non

volevano più viaggiare con in sottofondo un coro levato di mamme spaventate,

ma anche, sapientemente, sprecarono fiumi di parole in senso contrario, quasi a

lavarsi la coscienza. Viene da domandarsi se i media si interrogassero sulle

conseguenze del proprio agire.

Se, a ragione, lo storico Guglielmo Ferrero, sostenne che ogni civiltà è il

prodotto di una lunga lotta contro la paura, paura intesa come continua sfida,

come sforzo di superare paure reali o immaginarie, condizionamenti, limitazioni, -

che in realtà rappresentano l’attualizzazione di una ben più profonda paura

ancestrale di essere distrutto o annientato da forze avverse – allora, forse, si

potrebbe concludere, come fa la Oliverio Ferraris che la paura, essendo all’origine

71
una reazione istintiva, non è affatto priva di utilità, ma che «spaventi eccessivi o

frustrazioni ripetute possono creare uno stato emotivo controproducente e

pericoloso»101. Quando questo avviene, infatti, - e il caso di Bilancia ne fu un

esempio eclatante – la paura può creare uno stato emotivo controproducente e

pericoloso; stress ricorrenti e stati ansiosi protratti possono disgregare

psicologicamente non soltanto l’individuo, ma anche il gruppo e un’intera società

che, stretta nella morsa di una negatività protratta può sviluppare fobie e

idiosincrasie. Allora, forse, alla domanda se i media si interrogarono sulle

conseguenze del loro agire, si potrebbe rispondere che sì, in un certo qual senso

furono consapevoli che insistere troppo avrebbe potuto avere effetti devastanti sul

tessuto sociale e, proprio in funzione di questo la “paura del killer” venne sbattuta

in prima pagina ma anche sapientemente dosata. Si riuscì, in altre parole, a far sì

che i lettori si sentissero parte “della vicenda del mostro dei treni” ma non

arrivassero a percepire come eccessivamente minacciati i propri valori e la propria

organizzazione; in questo senso molti giornalisti tentarono di limitare gli effetti

dirompenti delle angosce collettive circoscrivendole a particolari settori della sua

struttura organizzativa. Ecco allora circoscrivere il mondo degli omicidi a quello

delle “lucciole”, a quello dei “vicoli”, a quello delle donne “solitarie” che

viaggiano in treno la notte.

Naturalmente non tutti gli operatori della carta stampata aderirono a questa

logica per certi aspetti perversa, a questo discorso mediatico che mentre cercava di

metterti in guardi dal “mostro” reale tentava di crearti dei “mostri” dentro,

facendo leva su paure ancestrali, su stereotipi che poi tanto stereotipi non sono.

101
A. OLIVERIO FERRARIS, op. cit., p. 131.

72
Tra le tante si levò quella che si può definire “una voce solitaria”, una sorta di

appello al buon senso. Riportiamone di seguito il testo.

Rispettate l'angoscia delle donne


Week - end di paura. Treno della morte. Killer
dei treni. Ecco le nuove parole - i nuovi
giocattoli - di questa folle e terribile
stagione. Le donne hanno paura sui treni. E'
vero? Non è facile rispondere. Perché bisogna
capire cos’è la paura per le donne. E per gli
uomini, naturalmente. Se ragionevolmente le donne
pensassero di essere ammazzate da un pazzo, non
salirebbero sui treni per andare in gita al mare
o a trovare la nonna. Però - è vero - le piccole
abitudini, in treno, sono cambiate: si evita di
restare sole, ci si siede in uno scompartimento
tutte insieme, è facile che una signora
sconosciuta ti chieda di accompagnarla alla
toilette. E allora? Allora, le donne hanno una
lunga –secolare - pratica con la paura. E' una
inevitabile compagna. Lo è di più nelle città, lo
è di più nella strada buia, nel vicolo senza
lampade, nell'ascensore che apre le sue porte
vuote su un androne deserto, lo è di più dietro
il portone e nel sottopassaggio. Ma non per
questo le donne passano la vita a strisciare
contro i muri. Il dominio della paura è molto
femminile. E' un conto che è sempre fatto.
Qualche volta quasi dimenticato. Ma sempre lì, in
agguato, c’è qualcosa che ti ricorda che sei una
donna. Il serial killer - se esiste, ma dobbiamo
credere che esista perché così pensano
investigatori, questori, prefetti e magistrati;
altrimenti i pazzi sarebbero loro ad aver creato
questo allarme, pattugliando e blindando, ora
davvero alla lettera, i treni - ha riportato in
prima linea questa equivalenza antica: sei una
donna, sei una preda. Sei fragile, hai il bisogno
di protezione. Equivalenza che piace agli uomini.
Equivalenza alla quale le donne si ribellano, con
successo, provocando come effetto ultimo,
residuale e peggiore - le inchieste sui
settimanali circa il potere femminile e
l'impotenza maschile, due fatti che stanno in
stretta relazione tra loro. Le donne sanno che
non possono non fare qualcosa - qualunque cosa -
per paura perché - altrimenti- non farebbero più
niente. Quindi prendono il treno come andrebbero
al supermarket se ci fosse il killer dei
supermarket ; si tutelano con alcune minimale

73
precauzioni (non si sa mai), e ci scherzano sopra
perché fischiare nel buio scalda comunque il
cuore. Ma se la vaga inquietudine - il senso di
essere un po' più al centro del mirino di quanto
non si sia abitualmente in città violente, in
periferie degradate, in notti illuminate solo dai
bagliori delle tv oltre le finestre e, troppo
spesso, anche a casa propria- è oggi oggetto di
cronaca sui treni, non bisogna enfatizzare. Né
andare oltre. Perché la nostra paura sul treno,
oggi dominata, esorcizzata, quella vera che viene
dal profondo di un passato femminile, e quella
sciocca che viene dalla superficie di notizie di
cronaca troppo allarmistiche, è qualcosa di
nostro. Non va deposta come omaggio, ai piedi di
nessun "mostro" - perché non è affatto sua, non
gli appartiene, appartiene invece alla nostra
storia - e male fanno i giornali a prestarsi a
questo gioco. C’è di più. Ci vuole rispetto per
la paura violenta e feroce e disperata di
Elisabetta Zoppetti e Maria Angela Rubino, che si
sono trovate davanti all’odio e hanno pensato ai
loro figli prima di morire. Quindi non giochiamo
più al gioco del "signora lei ha paura"? perché
ci insulta. E non abbiamo bisogno, specialmente
in questo momento di essere insultate. E' chiaro
che questo gioco piace giocarlo soprattutto agli
uomini. Infatti, alzi la mano chi non ha guardato
uno dei sette identikit del killer e non ha detto
a un amico: sembri proprio tu. E quell'amico si è
messo a ridere. Perché se la violenza ricaccia la
donna nel suo destino di "vittima, innalza invece
l’uomo al suo duplice ruolo, quello di forte
protettore e di lupo cattivo. Quello che ti
protegge, e quello che devi temere. Tutto questo
produce – oggi - il serial killer. Ma non è
veramente lui a produrlo. Perché - anche lui -
non è che il prodotto di molte violenze, prodotto
di città indifferenti e di facili umiliazioni,
probabile prodotto di violenze private. Sia
chiaro; il fatto che sia forse stato - in una sua
stagione - una vittima, non ne fa un carnefice
meno nero. Ne dimostra, invece, la debolezza.
L’estrema debolezza. Che non è delle donne. Che
sono forti. Ed è per questo che - da sempre-
vengono uccise102.

Al giornalista in questione va il merito di aver tenuto conto del fatto che

«l’angoscia, come la paura o il timore, soprattutto quando sono ripetuti, conduce

102
E. DELLA CASA, Rispettate l’angoscia delle donne, in «Il Secolo XIX», 26 aprile 1998.

74
all’inquietudine, al non –riposo, alla tensione interna e costante» e, come spiega

Delpierre, che «la vita dell’essere inquieto non può essere indifferente, apatica o

vegetativa, l’inquieto non può gustare veramente nella loro pienezza i piaceri più

semplici, perché in conseguenza di questo non riposo, la minaccia si installa al

centro della sua vita»103. È risaputo, infatti, senza ricorrere all’aiuto di alcuna

teoria psicologica, che l’inquieto conduce un’esistenza minacciata, vive in un

universo da cui la tranquillità e bandita e dove compaiono l’insolito, lo strano e,

ben presto, l’ostile; può accadere che anche gli oggetti più banali del mondo, le

esperienze quotidiane, la lettura del giornale, l’ascolto della radio e della

televisione diventino talvolta drammatici per la persona nella quale si è insinuata

la paura e l’inquietudine. Si finisce, aggiunge Delierre, «per subire gli altri e il

mondo…»104.

Il vociferare prevalente, però, restò quello dell’insinuazione. I media, con

il loro potere comunicativo, con la loro carica aggressiva, infatti, riescono a

squarciare qualsiasi muro eretto a difesa contro l’allarmismo dilagante nelle

pagine dei quotidiani e, nella vicenda Bilancia, a riportare le donne, le possibili

vittime, a non abbassare le guardia. Perché l’omicida - nel frattempo - non era più

un semplice assassino, ma era diventato un serial killer, uno, in altre parole, che

avrebbe continuato ad uccidere perché era la sua stessa perversione ad

imporglierlo. Non c’era quindi da stare tranquille e il caso aveva ormai assunto

una tale rilevanza che anche Internet se ne era impossessato: il serial killer era

diventato ormai un mostro mediatico finito in pasto alla globalizzazione.

103
G. DELPIERRE, Affrontare l’inquietudine, Cittadella Editrice, Perugia, 1971, pp. 11 –12.
104
Ibidem, p. 12.

75
Anche un sito Internet per studiare i delitti.
Killer in rete. E sui treni non viene meno il clima di diffidenza
reciproca tra i passeggeri.
Infine sono le partite a scacchi che si giocano
in questi giorni, in queste notti, sui treni che
percorrono la rete ligure. Tra i viaggiatori,
anche se di vista ormai ci si conosce da sempre,
ci si radiografa ora vicendevolmente con fasulla
noncuranza: alla ricerca di un tic, di
un’incertezza che rappresenti un passo falso
verso l’autosgretolarsi. Mille e mille occhi
hanno le donne sole, gli uomini, sono loro adesso
a trovarsi in imbarazzo. Basta raggiungere
l’atrio per fumarsi una beata sigaretta, andare
durante la corsa di vagone in vagone alla ricerca
di una persona cui si era dato appuntamento sullo
stesso convoglio, uscire sgarbatamente da una
toilette o peggio ancora tentare d’aprirne la
porta trovandola già chiusa, per diventare
puntaspilli delle peggiori illazioni. Ad
altissimo voltaggio sono sguardi e gesti degli
agenti in borghese, che consumano incessantemente
i corridoi delle carrozze alla ricerca di un uomo
che somigli al fantasma di Jean Gabin, che da
Genova manca dal '48, quando girò al Molo "Au
delà des grilles". I poliziotti in divisa e i
ferrovieri scremano intanto con pazienza
decrescente l'alluvione di sospetti recapitata a
voce dai passeggeri. Numerose e preoccupate sono
state, nei giorni scorsi, le segnalazioni giunte
agli uffici della polizia ferroviaria delle
stazioni di Principe e Brignole, formulate da
persone che sostenevano di aver riconosciuto
l’uomo della ricostruzione grafica: ogni pista è
stata verificata, fino a constatarne l’assoluta
inconsistenza: a formare pian piano il quadro di
un’au-tentica e comprensibile psicosi. Basta
ormai una lampadina che salta inondando di buio
lo scompartimento, una porta che sbatte a emulare
il sordo schiocco di una revolverata, per
incrinare una tranquillità ingannevole come la
superficie ghiacciata di un lago, immagine di
quiete pronta a spezzarsi da un momento all'altro
con effetti drammatici. All’imbrunire i convogli
si spopolano, le poche donne (dalle giovani
studentesse alle signore anziane) in viaggio si
raggomitolano nei posti nei pressi del
controllore come i gatti d’inverno il caminetto.
E si rivela pleonastica la precauzione di
sbarrare, nei convogli "a rischio" come il
famigerato diretto 2888 Genova - Ventimiglia, gli
ingressi delle carrozze di coda per indurre il
più possibile i viaggiatori a un salutare, anzi

76
salvifico affollamento. La frequentazione,
infatti, è sensibilmente calata.«Si, qualcuno ha
detto pure - spiegavano una di queste sere due
"Interrailers" dirette in Costa Azzurra -che
potrebbe trattarsi di un ferroviere, e che la
divisa gli servirebbe per meglio mimetizzarsi. Ma
questa ci sembra proprio un’ipotesi estrema». Per
lo scorso fine settimana, la Smith & Wesson del
carnefice ha riposato nella sua custodia, ma il
suo proprietario sta forse rifornendo una volta
ancora il caricatore, con quelle pallottole di
piombo "dolce" che rappresentano un’incongruenza
anche semantica, in vista di un primo maggio fin
d’ora allarmante Il lungo soliloquio con le carte
degli identikit, l'articolato dominio dei
riscontri informatici desunti dal traffico degli
sportelli bancari automatici e dai tabulati
radiotelefonici, il calcolo delle perizie
balistiche e ribonucleiche, non hanno finora
contribuito a creare nelle persone non già la
convinzione ma nemmeno la speranza che
l'assassino abbia deciso di fermarsi. E nel
labirinto di riflessioni e ipotesi formulati da
inquirenti, inviati, psichiatri, sociologi e
altri in qualche modo titolati a dire dell’anima
e delle sue devianze, spicca adesso un sito
Internet, quello di cui riferiamo a parte.
L’impressione è che, allo stato, gli inquirenti
non dispongano neppure delle certezze sufficienti
per attribuire un tratto unificante alla
misteriosa figura che terrorizza le donne liguri.
«Ne dovrà ancora combinare qualcuna - dicono un
po' tutti, nelle carrozze affollate da e per le
Riviere - perché lo scoprano». «O forse» -
sostengono altri- «si fermerà qui». Difficile,
però, che una mente così contorta non si risolva
a "rilanciare". «Ma potrebbe cambiare
completamente scenario» azzardano altri. Tra le
autorità di pubblica sicurezza, circola anche
un’ipotesi preoccupante: che l’assassino tornerà
a colpire, con le stesse modalità fatali a
Elisabetta Zoppetti e Maria Angela Rubino, non
appena la tensione si sarà allentata e le forze
dell’ordine avranno abbassato la guardia.
Prospettiva impensabile, almeno a breve termine.
Ma l’uomo dal volto scavato dell'attore francese,
i lineamenti sempre rannuvolati da una Gitane
sfiltrata, potrebbe non avere fretta105.

105
In «Corriere Mercantile», del 28 aprile 1998.

77
Nonostante tutto, una cosa era certa: ogni donna era una probabile vittima

e ogni uomo un possibile assassino. Potere dei media. Viaggiare in treno era

diventato praticamente estenuante: l’attenzione era sempre vigile, i gesti banali,

che prima suscitavano ilarità, ora preoccupavano e potevano provocare reazioni

aggressive e repentine. Se prima la paura era solo pensata, immaginata, bisbigliata

in seguito fu urlata. Un gesto o uno sguardo di troppo potevano diventare lo

spunto di una presunta tragedia106.

Sul mostro dei treni si erano ormai sprecate ipotesi e si erano teorizzati

improbabili scenari, ma per non rischiare che diventasse il personaggio di un

mondo astratto, inesistente – troppo lontano dalla vita di tutti - i giornali tornarono

alla carica.

PAURA
Ragazza barricata sull'interregionale
Ora sui treni regna il panico: è l'effetto scontato della psicosi del serial
killer.
Ieri mattina, poco dopo le nove, a Ronco Scrivia,
una carrozza dell’interregionale 2535 da Novara
per Brignole era completamente al buio. Succede
spesso sui treni, come sanno bene pendolari e
ferrovieri. Succede con grande frequenza anche
sugli espressi della notte per il Sud, alle cui
linee le Ferrovie riservano il materiale più
scadente e le condizioni di massima insicurezza.
In circostanze normali, i viaggiatori aspettano,
più o meno tranquilli che la luce ritorni prima
che i ladri, altra presenza garantita su certi
convogli, entrino in azione. Ma sono giornate di
speciale inquietudine e una defaillance delle
lampadine può essere vissuta come un dramma.
L’impianto elettrico dell’interregionale da
Novara era saltato in pieno giorno, ma i
viaggiatori se ne sono accorti soltanto quando il
treno il treno ha imboccato le prime gallerie.
«Non funzionavano nemmeno le luci di emergenza.
C’era un silenzio irreale e le donne erano
106
Si veda Donne: vittime non riconosciute, per un approfondimento relativo al silenzio delle
donne come vittime e alla cultura che sostiene tale impostazione. In C. SMART, Donne, crimine e
criminologia, Armando, Roma, 1981, pp. 200 – 202.

78
terrorizzate» - racconta Pellegrino Testa, 63
anni, ex marittimo. Alcune si sono spostate nel
corridoio, altre hanno cambiato carrozza. E Maria
G, 35 anni, pendolare e impiegata, racconta: «Ho
cercato di non restare da sola, ma ammetto che
fino a quando il treno non è arrivato a Brignole,
ho avuto paura». Anche perché il percorso da
Ronco a Brignole è praticamente tutto in
galleria. Altro esempio di psicosi
sull’interregionale 2198 da Genova a Ventimiglia
(ore 22,30 - 0,55). Una ragazza sulla trentina si
è barricata in uno scompartimento legando la
maniglia della porta con una robusta corda di cui
si era evidentemente premunita alla partenza.
Statura media, capelli biondi a caschetto,
vestita in maniera elegante, ha completato le sue
misure di autodifesa da un ipotetico aggressore
tirando completamente le tendine. Un viaggiatore,
Claudio Giraldi, 27 anni, di Ventimiglia, che era
salito a Sanremo, mentre il treno si avvicinava
alla stazione di confine si è messo a passeggiare
nel corridoio e vedendo lo scompartimento
bloccato e chiuso dalla tendina con l’aria
spaventata.
«Preoccupato degli ultimi fatti di cronaca – è
lui stesso a raccontare – ho pensato che fosse
successo qualcosa. Allora ho tentato di aprire la
porta scorrevole per accertarmi di chi stesse
viaggiando, ma l’ingresso dello scompartimento
era stato bloccato dall’interno. Ho bussato un
paio di volte. Dopo qualche istante una ragazza
si è affacciata dalla tendina con l’aria
spaventata. Io le ho chiesto scusa per averla
disturbata e mi sono allontanato, ma mentre stavo
parlando ho intravisto una corda che avvolgeva le
maniglie della porta». Legittima la paura di lei,
pericolosa la curiosità di lui che poteva essere
equivocata magari da qualche poliziotto (vero) in
servizio sul treno. Della notizia, che è stata
data in questi termini dall’agenzia Ansa, non è
al corrente la Polizia ferroviaria di
Ventimiglia. «E’ grave» - commenta il comandante
Sergio Moroni - «che nessuno ci abbia segnalato
il fatto». Quasi sicuramente questa ragazza si
sarà chiusa dentro lo scompartimento, in attesa
di arrivare a Ventimiglia, per paura di
incontrare qualche malintenzionato, ma chi ci
dice che non si sia chiusa dentro per scappare da
qualcuno? Probabilmente, il viaggiatore che ha
assistito al fatto lo avrà preso come un
comportamento normale, considerati gli ultimi
episodi di cronaca, ma anche i particolari futili

79
e scontati per le indagini possono rivelarsi
determinanti. Invito entrambi a farsi vivi107.

Ciò che avvenne sulla tratta Genova – Ventimiglia, durante la notte, - una

donna che chiude lo scompartimento, allarga le tendine e lega la maniglia della

porta con una robusta corda, la storia dell’uomo che tenta di aprire la porta, gli

sguardi atterriti di lui e lei barricata dentro - sembrano gli elementi di un film. La

reazione della ragazza è di paura, di quella paura che può «influire in modo

determinante sulla personalità […] per il potere inibitorio o scatenante che può

avere sull’azione…» o ancora, come spiega la Oliverio Ferraris, di quella paura

per cui «la persona spaventata tende a fissare la propria attenzione principalmente

sulle situazioni e sugli aspetti ansiogeni della realtà di cui ingigantisce la portata.

La persona spaventata può quindi avere serie difficoltà non soltanto a controllare

le proprie reazioni ma anche nel coordinare percettivamente e mentalmente tutti

gli aspetti rilevanti di una data situazione e nel considerare, in un modo che

produttivo e vantaggioso, le varie alternative possibili»108.

L’incubo, tuttavia, stava per finire e, infatti, di lì a poco al serial killer fu

dato un volto, quello di Donato Bilancia.

Clamorosa svolta grazie alle testimonianze: vive a Cogoleto, ha 47


anni, una Mercedes nera, un passato di reati e una vita nel gioco
d'azzardo
«E' il serial killer». Un uomo arrestato dai carabinieri
Il viado Lorena, scampato al delitto di Novi, l’avrebbe già riconosciuto
Genova. L’incubo è finito, il serial killer è
stato arrestato. I carabinieri ne sono sicuri:
Donato Bilancia, 47 anni, un passato di reati
contro il patrimonio iniziati a 16 anni e di
problemi psichici: un equilibrio in stabile e una
grande passione per il gioco d’azzardo (al casinò
di Sanremo sono state riscontrate oltre cento
presenze negli ultimi sei mesi), sarebbe il
107
In «Il Secolo XIX», del 22 aprile 1998.
108
A. OLIVERIO FERRARIS, op. cit., pp. 16 – 17.

80
serial killer che ha ucciso quattro prostitute in
riviera e due metronotte a Novi Ligure. Il viado
Lorena, scampato al delitto di Novi, l’avrebbe
già riconosciuto. E l’uomo avrebbe cominciato a
confessare almeno alcuni dei delitti contestati.
E' anche l'assassino dei treni? Non ci sono
conferme, ma anche per gli omicidi di Elisabetta
Zoppetti e di Maria Angela Rubino esistono
pesanti sospetti su di lui.
Per esempio: la sera dell’ultimo delitto, alle
20, è entrato al Casinò di Sanremo. Potrebbe
essere uscito in tempo per salire, sul Genova -
Ventimiglia, uccidere la Rubino, scendere a
Bordighera e tornare indietro in taxi. Bilancia
abita a Cogoleto, a seicento metri dal luogo in
cui il 29 marzo è stata uccisa la "lucciola"
nigeriana Evelin "Tessy" Edoghaie, l’omicidio per
cui è stato firmato l’ordine di cattura. A circa
ottocento da dove è stata uccisa Stela Truya, la
prima prostituta assassinata il 9 marzo scorso.
Bilancia, difeso da Enrico Franchini, è stato
fermato dai carabinieri ieri a mezzogiorno: alle
17 è uscito dal comando dell’Arma, con un
cappuccio che gli celava il volto, per essere
trasferito in carcere. Nella sua abitazione è
stata sequestrata una pistola. Stessa sorte per
la sua auto, una Mercedes scura. La sua vita è
segnata anche da una grande tragedia: il suicidio
del fratello Michele, lanciatosi sotto il treno a
Pegli nell’87, insieme al figlio Davide di 4
anni. Formalmente l'arresto di Bilancia è
avvenuto per l’omicidio della nigeriana uccisa il
29 marzo a Cogoleto. Per questo oggi comparirà
davanti ai giudici di Genova. Ma lo aspettano
quelli di altre quattro procure per la serie di
delitti109.

Il tono trionfalistico con cui alcuni quotidiani del maggio ’98 aprirono a

lettere cubitali la loro edizione fu il segnale della svolta riguardante il caso del

killer dei treni: da quel momento il pluri - omicida non sarebbe più stato un’ombra

nel buio o un incubo ricorrente, ma avrebbe avuto i tratti somatici di un uomo,

quasi, qualunque. La tensione che per mesi aveva tenuto all’erta inquirenti, forze

dell’ordine e, soprattutto, che aveva invaso i pensieri e le vite dei liguri finalmente

109
S.F., Clamorosa svolta grazie alle testimonianze, in «Il Secolo XIX», del 7 maggio 1998.

81
sembrava volta a scemare. Finita l’era della paura e dei perché senza risposta,

adesso bisognava dare inizio ad una nuova fase: quella dell’analisi,

dell’interrogazione, della comprensione. Ecco, allora, che cominciò a profilarsi

una nuova incredibile, e quasi inesauribile, vena: Bilancia da mostro seriale iniziò

a trasformarsi in vittima sociale, da omicida mediatico a caso umano. Si

sprecarono fiumi di parole per tentare di dare un motivo a tanta crudeltà, forse la

società, forse una famiglia sbagliata.

Cosa restò della paura tanto proclamata? Si adeguò o, meglio, si modificò,

nel senso che assunse un nuovo volto. In molti articoli, dopo la sua cattura, infatti,

si tese a soffermarsi sull’angosciosa eventualità che una persona, apparentemente

normale di giorno, potesse trasformarsi, di notte, in uno spietato carnefice. Si

entrò, allora, nel regno del male, quello mitologico, filosofico e psicologico,

ancestrale diremmo, un regno di cui immediatamente i media si impossessarono

per farne un nuovo incredibile scenario. Quasi tutti i giornali di quel periodo

attribuirono a Bilancia degli appellativi, quasi per rinchiuderlo in una categoria

che esulasse dalla società intera: su un punto, infatti, non vi erano dubbi. Bilancia

era diverso dagli altri, era qualcosa di “altro”, un “altro”, però, - e questa fu la

scoperta più inquietante - che apparteneva a tutti. Si stabilì, insomma, un altrove

nel quale fu posto Bilancia, «un limite sociologico consiste nell’individuazione

d’una linea oltre la quale una sfera ne riconosce un’altra, cioè la percepisce come

irriducibile a sé, sia che non riesca a ridurla, sia che non lo voglia. Nell’incontro

/riconoscimento ognuna delle due sfere limita l’altra e ne è limitata, in un

processo – si tratta di un’azione reciproca, non di un atto – che costituisce e

“regge” dinamicamente il confine tra loro»110. Quando l’altro confine perde


110
R. ESCOBAR, Metamorfosi della paura, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 145.

82
certezza, o addirittura si dissolve, il fronte cade e viene sostituito da una linea più

sfumata, che si immagina possa in ogni momento essere attraversata, dissacrata,

violata da un’infezione che viene da fuori; in questo nuovo contesto «La paura

privata del suo specchio unitario, non si rappresenta più a se stessa, non si dà più

misura: s’è fatta angoscia. La metafora dell’assedio ne descrive

l’indeterminatezza. Il nemico non è al di là, univoco: tra difensiva e offensiva non

si stabilizza alcuno “stato d’indifferenza” che tracci una linea certa fra il dentro e

il fuori. Piuttosto, il nemico è alle porte»111 e, nel caso Bilancia, queste erano state

abbattute.

Se i quotidiani giocarono un ruolo cruciale e centrale nella vicenda del

serial killer genovese, non vi è dubbio che anche la televisione contribuì

contestualmente a rendere Bilancia un fenomeno epocale. Numerosi,

naturalmente, furono i servizi che lo riguardarono, tra questi ricordiamo “Un

giorno in pretura” dove vennero trasmessi alcuni brani del suo interrogatorio; un

interrogatorio fatto di silenzi intervallati da interventi brevi, con voce roca, in

dialetto genovese, tutti caratterizzati da una freddezza e una sicurezza inquietante.

Anche la trasmissione “Terra” dedicò una puntata al caso e fece emergere,

da uno stralcio di confessione, come il progetto di morte architettato da Bilancia

fosse stato raccontato qualche giorno prima dallo stesso in un bar, come se si

trattasse di un gioco. In un servizio di Telecity, invece, la giornalista che se ne

occupò, raccontava come fosse cambiato l’atteggiamento della gente comune e

degli operatori del settore mediatico nei confronti di Bilancia prima e dopo

l’arresto: prima, infatti, era prevalsa la tendenza a non voler esporsi troppo, ma

111
Ibidem, p. 148.

83
subito dopo l’arresto la liberazione dall’incubo era sembrato più facile lasciarsi

andare alle considerazioni più svariate.

Trascriviamo, qui, di seguito alcuni stralci del servizio curato da un’inviata

di Telecity e da alcuni operatori Mediaset112.

Man mano che si avvicinava la sera sempre più


tarda il treno si spopolava fino a rimanere
deserto.
Una sensazione di angoscia penetrava nel profondo
dell’animo. Vi era solo il personale viaggiante,
il macchinista e qualche passeggero coraggioso.
Nelle ore antecedenti ho potuto intervistare
alcune persone e loro, riconoscendomi come
giornalista, volevano rassicurazioni e novità
sugli avvenimenti accaduti. Le uniche persone di
cui le donne si fidavano erano i poliziotti e noi
operatori dei mass - media. Il controllore,
invece suscitava sospetti, grazie anche alla
scoperta che l'assassino poteva essere facilmente
in possesso delle chiavi della toilette.
«Non mi fido di nessuno. Sono costretta prendere
il treno e il viaggio mi pesa come un macigno».
Questa la frase più ricorrente. Ho parlato anche
con alcune prostitute che viaggiavano sullo
stesso convoglio e mi sono stupita perché quasi
non le riconoscevo infatti erano vestite in
maniera casuale molto ordinaria senza trucco e
gadget estrosi. Le ho demandato il motivo e sono
state contente della mia osservazione, il loro
obbiettivo era quello di apparire donne comuni
per evitare di essere attirate dal killer.
Mentre discorrevamo il tono della loro voce era
basso, non volevano assolutamente essere
riconosciute.

Tra i servizi Mediaset visionati risultò particolarmente interesse quello

girato su un treno talmente vuoto da non poter effettuare nessuna intervista o

raccogliere alcuna testimonianza, in un altro, invece, realizzato in pieno giorno,

emergevano frasi del tipo:

112
Si trattava di Rosanna Piturro.

84
1a intervistata : «Cerco di non rimanere da
sola».
2a intervistata : «Ho paura a salire di notte, ma
non di giorno, perché già ci sono i soliti
malintenzionati, ci sono meno controlli, il
killer ha più facilità d'agire».
3a intervistata : «E' meglio non dare confidenza
agli estranei perché si può avvicinare il
probabile criminale».
4a intervistata : «Non mi sento più tranquilla.
Un maniaco si aggira sui treni, ci sono pochi
controlli. Possibile che gli agenti non
aumentano. A noi passeggeri nessuno ci pensa».
5a intervista: «Si sta facendo del terrorismo
psicologico Che sarà mai!».
Nel servizio le reazioni di panico si alternano
al tentativo di sdrammatizzare la tensione
ironizzando. Curiose le risposte di donne che si
ritenevano brutte: «Meno male Non solo il suo
tipo. Sono contenta di non essere tanto bella».

Un altro servizio mandò in onda la telefonata di un cittadino al numero

verde istituito appositamente dai carabinieri per segnalare ogni più piccolo

sospetto. Le telefonate chiaramente furono innumerevoli ma le pattuglie mandate

a controllare le segnalazioni ritenute più probabili, trovarono che per lo più erano

infondate. Dai vari servizi emerge che molti cittadini erano stati chiamati a

rilasciare un identikit del sospettato e che erano stati adottati dei provvedimenti

per tutelare le donne poliziotto, come il lavorare in coppia, e affiancarle dai

controllori. Sui passeggeri, invece, particolarmente suggestionanti furono le

riprese di donne che, andando alla toilette, si facevano accompagnare e lasciavano

“a guardia” un amico o un’amica. Tipiche le frasi del tipo: «Accompagnami per

piacere e aspetta che abbia finito, non ti allontanare».

Reti Rai e Mediaset si occuparono del caso e inserirono nei rispettivi

telegiornali i servizi a riguardo, molti programmi di approfondimento, come quelli

sopra citati, si interessarono a Bilancia e, comunemente a quanto accaduto nelle

85
varie testate giornalistiche, la maggior parte dei servizi puntarono, sì, a raccontare

la notizia, ma si soffermarono spesso sugli aspetti più sensazionalistici della

stessa.

Donato Bilancia, senza dubbio, fu, - e resta – un “mostro”, perché non

altrimenti si può definire un uomo che con freddezza e spietata lucidità uccide a

ripetizione vittime innocenti senza provare alcun rimorso e senza mostrare alcun

pentimento. Di fronte a tutto ciò, allora, i media avrebbero potuto trattare la storia

in modo diverso? Certo è che giornali e televisioni si gettarono sul caso come su

una vena aurifera e tentarono di sfruttarla a piene mani: Bilancia, infatti, fornì il

pretesto per sollevare tematiche - come la morte e il male - che da sempre

affascinano e contemporaneamente ripugnano: si tratta, infatti, di paure ancestrali

sopite in un chissà dove del nostro inconscio, tenute a freno da quella che

apparentemente sembra essere una vita normale fatta di persone e di luoghi

conosciuti. Quando, però, l’imprevisto, lo strano, il diverso, entra a far parte di

questa nostra tranquilla quotidianità e, anzi, vi penetra rompendo ogni barriera,

ogni muro eretto a sua difesa, ecco che improvvisamente, come un fiume in piena,

tutte le paure del passato e del futuro si affollano nella mente, riemergono con

prepotenza e si impossessano di ogni nostro gesto e di ogni nostro pensiero.

I media, allora, hanno giocato un ruolo fondamentale nella vicenda di

Bilancia: hanno concorso senza dubbio a tenere per mesi col fiato sospeso lettori e

ascoltatori, hanno indugiato su ciò che di più macabro la vicenda poteva

suggerire, hanno fatto leva su quell’immaginario collettivo popolato da mostri e

da orride figure i cui volti, spesso dai contorni sbiaditi, hanno trovato per una

volta i lineamenti di un uomo tra tanti, ovvero quelli di Donato Bilancia.

86
CAPITOLO III

GLI INQUIRENTI E IL CASO DEL SERIAL

KILLER LIGURE

§. 3.1 Gli inquirenti e la “tensione”

La serie di omicidi che si abbatté sulla riviera ligure a partire dall’ottobre

del 1997 gettò inizialmente gli inquirenti nel caos più totale; l’uccisione di

numerose prostitute, infatti, indusse gli investigatori a cercare l’assassino nel

mondo della malavita, poi, però, l’omicidio degli sposini in Via degli Orefici, di

alcune viaggiatrici sulla tratta Genova - Ventimiglia e della vedova Lamberti

cancellò la validità delle piste fino a quel momento seguite e impose una nuova

linea investigativa.

Da alcuni stralci di due servizi andati in onda su Telecity emergono alcuni

dati interessanti relativi allo “stato d’animo” degli inquirenti dopo la morte della

lucciola Kristina Walla e dell’infermiera Elisabetta Zoppetti:

Kristina Walla. Colpo di pistola alla nuca…


L’assassino fa inginocchiare la vittima poi la
uccide… Investigatori due piste possibili113.
Elisabetta Zoppetti. La Polfer controlla i
biglietti tra Spezia e Verona… Aumentano i
controlli sui treni… Le donne devono viaggiare

113
Servizio Telecity, Omicidio prostituta Pietra Ligure, del 14 aprile 1998.

87
sicure… Prima si trova l'assassino e meglio é per
tutti114.

Se a lungo si era ritenuto che la pista della guerra tra bande potesse essere

la più plausibile, dopo l’omicidio di Elisabetta Zoppetti gli inquirenti

cominciarono seriamente a dubitare della validità di questa ipotesi. L’idea di un

serial – killer, infatti, si faceva sempre più insistente mentre perdeva consistenza

quella di una presunta faida tra il racket della prostituzione.

Savona. Due piste equivalenti: serial killer o


guerra tra bande.
(…) Mancano elementi, seppur minimi, riscontri,
conferme per stabilire se le direzioni seguite
finora, vagamente, dagli investigatori possono
condurre sulla strada della verità. I carabinieri
ripetono che si lavora trecentosessanta gradi.
L'espressione trecentosessanta gradi indica
l'impegno e l'abnegazione profuso dai
carabinieri, che rendendosi conto della
situazione hanno agito di conseguenza. Il
sostituto procuratore della Repubblica Franco
Greco, titolare di tre delle quattro inchieste
sui delitti delle lucciole straniere avvenuti in
meno di quaranta giorni, invece non parla da
settimane «La gravità impone stretto riserbo tra
gli inquirenti». Stamane insieme all'altro
pubblico ministero savonese, Alberto Landolfi, il
magistrato inquirente si è incontrato con il neo
procuratore Vincenzo Scolastico, insediatosi da
pochi giorni. Il vertice, più semplicemente una
riunione ristretta, si è svolto per stabilire
come dovranno essere condotte le inchieste. Non
ha trovato conferme l'ipotesi, avanzata da tempo,
di costituire qualcosa che assomigli ad un pool
tra magistrati savonesi e genovesi per riunire
forze e stabilire un coordinamento logico
dell'attività investigativa che come al solito
viene svolta da diversi uffici di polizia
giudiziaria competenti territorialmente nelle due
province ma non sempre in collegamento tra loro.
«Stamane i carabinieri del Nucleo operativo del
comando provinciale di Savona hanno chiarito che

114
Ivi, Omicidio intercity Chiavari – Venezia, del 04/1998.

88
la pista del serial killer è battuta ma senza
alcun punto di riferimento»115.

Se l’eterogeneità delle vittime aveva inizialmente indotto a pensare

all’esistenza di mandatari e di moventi diversi, la periodicità dei crimini aveva

gettato dei dubbi su questa ipotesi in quanto faceva pensare ad una qualche

connessione tra le varie vittime116; solo dopo le morti sui treni, comunque, apparve

chiaro che i delitti avevano una matrice comune: stessa arma, stessa brutale

tecnica assassina. Si trattava, senza dubbio, di un caso complesso e di difficile

soluzione almeno in tempi brevi. Di questo fatto gli inquirenti furono consapevoli

da subito ma, d’altra parte, pur non avendo – almeno inizialmente – alcuna pista

valida da seguire e dovendo procedere a tentativi, si trovarono nella condizione di

dover rassicurare e di proteggere i cittadini informati costantemente dai mass –

media sulla catena di delitti che non sembrava destinata a spegnersi velocemente.

Con le uccisioni avvenute sui treni, inoltre, il caso del “serial – killer”

balzò prepotentemente all’attenzione anche dei media e dell’opinione pubblica, e

numerosi servizi televisivi di emittenti locali cominciarono ad interessarsene. Le

piste cominciarono a confondersi e un certo allarmismo iniziò a serpeggiare anche

tra gli inquirenti, soprattutto la “paura” di non riuscire a dare risposte certe in

tempi brevi, prima che il killer colpisse ancora. La strategia dell’omicida, infatti,

non era ancora delineata, troppi gli indizi e troppe le piste da seguire; dopo

l’uccisione della vedova Lamberti la tensione tra le forze dell’ordine divenne

quasi tangibile, lo rivela chiaramente un servizio andato in onda su Telecity:

L’assassino potrebbe aver portato via gioielli


e preziosi. E' stata sgozzata con otto
In «Il Corriere mercantile», del 17 aprile 1998.
115
116
R. SANGALLI, Dietrofront degli investigatori. «Non è una guerra tra bande», in «Il Secolo
XIX», del 23 aprile 1998.

89
coltellate. Lei ha aperto la porta. Conosceva
il suo carnefice. Dopo essersi introdotto in
casa l'ha uccisa e poi ha rubato. (…) Gli
inquirenti scandagliano tutti gli ambienti che
frequentava la pensionata117.

L’idea dello «scandagliare» tutti gli ambienti esprimeva in modo chiaro la

mancanza di riferimenti da parte degli inquirenti che si trovarono a nuotare in un

mare di incertezze, di interrogativi e di domande senza risposte. Si effettuarono

ore di frenetiche ricerche, perlustrazioni, indagini, pattugliamenti dal mattino alla

sera, si intensificarono i fermi e gli interrogatori delle persone già schedate. L’idea

che un unico uomo fosse l’artefice di tutto e che potesse colpire ancora, forse su

qualche treno, mise all’erta tutte le forze in campo. Da alcuni stralci di

un’intervista rilasciata dal Dottor Zaffino (comandante del compartimento Polfer

di Genova) emergeva che:

La Polfer vigila sulla sicurezza dell’utente sul


mezzo ferroviario. I poliziotti in Liguria sono
400 (…).Per tranquillizzare l'opinione pubblica
vi sono in questo periodo servizi aggiuntivi
volti alla repressione e non alla prevenzione.
Coordinamento intervento compartimento polizia
ferroviaria (…). Vi è un libro nero dove vi sono
treni a più alta incidenza di pericolo. Quasi
tutti percorsi e gli orari più pericolosi hanno
il maggior presidio di uomini. Se non vedete
uomini in divisa, restate lo stesso tranquilli in
questo periodo perché vi sono agenti in
borghese118.

Con il moltiplicarsi di uomini in borghese le forze dell’ordine cercarono di

far fronte all’ondata di panico che si era diffusa tra i viaggiatori dei treni e i

carabinieri di Genova istituirono un numero verde (167-26774)119 per raccogliere

117
Telecity, Omicidio Lamberti, dell’aprile 1998.
118
Ivi, Polizia ferroviaria, intervista al dottor Maurizio Zaffino, dell’aprile 1998.
119
Ivi, N° verde per serial killer, dell’aprile 1998

90
testimonianze e possibili indizi; molte le telefonate di uomini e donne, di alcune

prostitute allarmate e molti anche i falsi allarmi. Ricordiamo, ad esempio,

l’episodio del convoglio fermato dai carabinieri sulla tratta Milano – Ventimiglia,

dove una viaggiatrice aveva richiesto l’intervento delle forze dell’ordine: il tutto si

era concluso in un niente di fatto ma la solerzia delle forze dell’ordine e la loro

immediata risposta rappresentarono il segnale importante che nulla veniva lasciato

intentato.

Dal punto di vista investigativo le piste seguite continuavano ad essere

molteplici. D’altra parte «lo» o «gli» assassini non sembravano avere un movente

unico e anche la scelta delle vittime non davano l’impressione di seguire una

qualche logica. Troppe le vittime e troppo diverse tra loro. Sebbene l’idea di un

serial – killer si fosse ormai insinuata, nessuna ipotesi veniva scartata.

Contemporaneamente ai numerosi servizi mandati in onda dalle emittenti locali (e

non solo) anche i giornali continuarono ad informare sull’andamento delle

indagini.

Tra le tante notizie spiccò quella dell’idea di un super - pool di magistrati

savonesi e genovesi per unificare tutte le inchieste, tuttavia, diversamente da

quanto avvenne in seguito per il vertice tra le cinque procure di Genova, Savona,

La Spezia, Alessandria e Torino – unitesi per la prima volta per organizzare un

strategia d’azione - questa non diede esito positivo. Dal meeting delle cinque

procure, invece, affiorarono tutti i dubbi e le perplessità circa la presunta identità

dell’omicida e soprattutto il grande interrogativo se si trattasse di un unico killer;

dallo sforzo coniugato delle cinque procure, inoltre, emerse l’idea di istituire un

numero verde affinché quei cittadini, che avessero remore a rivolgersi ai numeri

91
dell’arma, potessero fornire informazioni utili relative al caso e collaborare con le

forze dell’ordine. L’iniziativa delle procure, di fatto, proponendosi come un

lavoro di équipe e come esempio di efficienza da parte degli inquirenti, ebbe il

duplice obiettivo di far sentire i cittadini più protetti ma anche di aiutare le forze

in campo a trovare il “carnefice”. Il numero, in effetti, si rivelò anche un

provvidenziale catalizzatore di tensione, visto che molte persone lo utilizzarono

per sfogare le proprie paure, ma non solo.

Delle numerose piste seguite, comunque, alcune si rilevarono un nulla di

fatto. L’idea, ad esempio, che il killer potesse essere un uomo contagiato e

assetato di vendetta, indusse gli investigatori a richiedere alle Asl di Genova,

Savona, Imperia, le liste dei sieropositivi e dei malati psichici, ma l’ipotesi si

dimostrò da subito poco perseguibile, anche perché dalle liste potevano emergere

solo dati incompleti. L’idea, invece, di un conflitto sanguinario tra clan rivali per

il controllo del business della prostituzione parve a lungo la pista più percorribile:

se si trattava di un uomo di tale ambiente, poteva ben trattarsi di un professionista,

determinato e capace di eseguire una condanna a morte senza lasciare traccia e

senza alcuna remora. Tuttavia, come sottolinearono gli stessi investigatori, «lungo

i marciapiedi di Genova e della Riviera non soffierebbero venti di guerra»120.

Dopo che i primi risultati delle perizie balistiche accertarono una certa

“compatibilità” tra il revolver che aveva freddato nella toilette dell’Intercity 630

La Spezia – Venezia, l’infermiera milanese Elisabetta Zoppetti, quello che aveva

ucciso Maria Angela Rubino, dipendente di una ditta di pulizie francese, sul

diretto di Ventimiglia 2888 proveniente da Genova e Adodo Tessy, una prostituta

nigeriana, non solo si diffuse il panico tra i viaggiatori dei treni ma ci fu un


120
S. F., Due piste, ma sui delitti è buoi pesto, in «Il Corriere Mercantile», del 17 aprile 1998.

92
cambiamento anche nell’atteggiamento delle forze dell’ordine. Apparve chiaro,

infatti, che ci si trovava di fronte a qualcosa di molto più complesso di quanto si

era fino a quel momento pensato; la conseguenza fu di mettere “sotto scorta” i

tratti ferroviari di quattro regioni italiane121; dopo la morte di Angela Rubino il

questore di Imperia, Nicola Cavaliere, lanciò un appello a tutti i viaggiatori

«qualcuno di loro può aver visto in faccia il serial killer e ha invitato i cittadini a

chiamare il numero telefonico: 0183/6891»122.

Mentre il pool degli investigatori - coordinato dal dirigente della

Criminalpol, Gaetano Chiusolo e dal maggiore Filippo Ricciarelli - verificavano

le centinaia di segnalazioni giunte in quei giorni da mezza Italia, oltre che dalla

Francia e dalla Svizzera, da Genova il procuratore generale Guido Zavanone

consigliava «prudenza alle viaggiatrici»,

«Evitate di prendere il treno se non è


strettamente necessario. Se non potete
altrimenti, sedetevi accanto a qualcuno»123.

Quando ormai sembrò chiaro che il killer delle prostitute e l’omicida che

aveva ucciso le donne sui treni erano la stessa persona le indagini assunsero un

ritmo più frenetico, il lavoro degli inquirenti si fece ancora più serrato così come i

controlli e le precauzioni da parte delle forze dell’ordine. Aumentarono i fermi

nella speranza di catturare il serial killer, ma molti si rivelarono dei veri e propri

“buchi nell’acqua”.
121
Parallelamente alle iniziative degli investigatori e delle forze dell’ordine, sorgono anche delle
iniziative private come quelle del movimento Diritti Civili che rese noto, attraverso le parole del
coordinatore del movimento Franco Corbelli, di avere istituito una taglia di 20 milioni sul «serial
killer». S. F., Una taglia sul serial killer, in «La Gazzetta del Lunedì», 20 aprile 98.
122
S. F., C’è chi ha visto il serial killer. Appello del questore: «Aiutateci», in «La Gazzetta del
Lunedì», del 20 aprile 98.
123
M. CALANDRI e C. FUSANI, Non salite in treno, in «la Repubblica», del 22/04/1998.

93
Una pistola, tanti sospetti.
La Spezia: rapinò una lucciola, arrestato
professionista.
È accusato di aver rapinato una prostituta
obbligandola poi, pistola in pugno, ad avere un
rapporto orale. Adesso Giuseppe Lo Torto, 43
anni, procacciatore d’affari spezzino, è in
carcere e sulla lista dei sospettati nella
vicenda del serial killer dei treni. […] Falso
allarme. Il pazzo criminale, disegnato dagli
identikit che i magistrati non hanno ancora
voluto rendere pubblici, è un uomo di mezza
età, capelli brizzolati. […] E l’altra notte,
nel centro storico di Varazze, località al
confine tra le province di Genova e Savona, i
carabinieri della compagnia di Savona e della
stazione locale hanno fatto irruzione
nell’appar-tamento di un cinquantenne
considerato “sospetto” […]. La sua posizione è
stata chiarita…124.

Sebbene il “mostro” non fosse stato ancora catturato e il cerchio si stesse

chiudendo, tuttavia gli inquirenti sapevano che ci sarebbe voluto ancora del tempo

prima che il volto del serial killer assumesse le fattezze di un uomo reale. A tale

proposito numerose furono le dichiarazioni come quella qui di seguito riportata:

Solo cinque passeggeri hanno visto Maria Angela


in treno.
«Troppe fantasie», sbotta il procuratore della
repubblica di Sanremo Mariano Gagliano. E il
sostituto Giovanni Maddaleni, titolare
dell’inchiesta sull’assassinio di Maria Angela:
«La storia delle precedenti denunce di tre donne
su un uomo armato e vestito da ferroviere che le
avrebbe aggredite? Inesistente. Ci hanno
segnalato soltanto un banale episodio di molestie
a una ragazza. La presenza di sperma nelle
toilette dei treni in cui sono state uccise Maria
Angela Rubino ed Elisabetta Zoppetti? Non mi
risulta proprio. Assurdo poi parlare di riscontri
da esami del DNA, che in ogni caso richiedono
almeno 15 giorni se non un mese di tempo prima di
avere un minimo responso. […] la magistratura
124
B. VIANI, Una pistola, tanti sospetti, in «Il Secolo XIX», del 23/04/1998.

94
sanremese non ha nessuna voglia di rincorrere
improvvisati Sherlock Holmes, o di alimentare
improbabili scoop. Identico concetto ribadisce il
questore di Imperia Nicola Cavaliere: «Lavoriamo
soprattutto sulle telefonate, procediamo a
faticose verifiche di minimi particolari. Il
resto sono frottole»125.

Le poche certezze fecero temere per il ponte del 25 aprile, momento

dell’anno in cui numerosa era l’affluenza sui treni. Su sollecitazione del ministero

dell’Interno venne elaborato un piano “anti – mostro” - con circa centocinquanta

agenti in borghese a bordo dei convogli - che coinvolgeva la polizia ferroviaria di

Torino, Milano, Firenze e Genova. Questo perché si temeva che il «serial killer»

potesse uscire dai confini liguri; qualcuno, naturalmente, storse il naso alle

dichiarazioni di Zavanone, ritenute “inquietanti” e allarmistiche, temendo anche

che la situazione potesse avere ripercussioni negative sul normale flusso che in

quel periodo dell’anno vedeva le Riviere come meta di molti turisti.

«Non vorremmo che alla vigilia della stagione


turistica l’immagine della Liguria venisse
offuscata, soprattutto all'estero da questi
drammatici episodi», commenta Giancarlo Mori,
presidente della regione. Anche Giuseppe Pericu,
sindaco di Genova getta acqua sul fuoco: «E'
comprensibile la tensione di questi giorni, è
giusto predicare un minimo d'attenzione: ma il
capoluogo ligure e l'intera regione sono
sostanzialmente tranquilli»126.

Si voleva in tutti i modi rassicurare sul fatto che qualcuno vigilava

costantemente sulla sicurezza dei cittadini. In questo senso i media, che fino a

questo momento grande parte avevano avuto nel diffondere un discreto panico tra

125
C. DONZELLA, Solo cinque passeggeri hanno visto Maria Angela in treno, in «Il Secolo XIX»,
del 23 aprile 1998.
126
I. VILLA, Sull’Intercity La Spezia – Venezia il fantasma di Elisabetta, in «Il secolo XIX», del 26
aprile 1998.

95
la popolazione, si operarono affinché i cittadini sapessero che qualcuno vegliava

su di loro. Telecity, ad esempio, mandò in onda un servizio che rimarcava la

febbrile e incessante attività degli investigatori:

L'attività febbrile degli investigatori prosegue


su più fronti.
Ogni più piccolo sospetto è sottoposto al vaglio
degli investigatori e nulla viene tralasciato.
La Spezia. L'uomo, sulla trentina, passa veloce
per il corridoio del vagone di prima classe
praticamente deserto. Verso la fine ha un attimo
di esitazione. In uno scompartimento c’è una
donna sola. Uno sguardo e prosegue. Trascorrono
pochi minuti e ripassa. Qualche attimo, poi un
altro passaggio. Questa volta con lui c'è il
capotreno. «Signora, forse è meglio che non
rimanga qui da sola». L'uomo, in giacca e camicia
sportiva, un brillantino al lobo dell'orecchio, è
un poliziotto in borghese uno dei cinque o sei
che pattugliano l'Intercity 630, La Spezia -
Venezia, lo stesso dove il giorno di Pasqua fu
uccisa Elisabetta Zoppetti127

Si lavorava su alcuni sospetti e si effettuava un lavoro “preliminare”

limitato a elementi oggettivi; fino a questo punto, infatti, non c’erano iscritti sul

registro degli indagati. Se, infatti, le prime perizie dicevano che la calibro 38 era

stata usata per Novi, per due prostitute (Ljudmila Zuskova e Mena Valbona) e per

la prostituta di Cogoleto (Evelyn Edoshe), mancava ancora la prova di “identità”

della pistola. Gli inquirenti, insomma, navigano solo su delle ipotesi e su nessuna

certezza; «Poco sappiamo e ancora meno abbiamo da dire», sosteneva il

procuratore capo di Genova Francesco Meloni128. La situazione veniva resa nota

da un vertice degli investigatori tenutosi a Genova cui parteciparono magistrati e

investigatori di Genova, Savona, Sanremo. Contemporaneamente la paura tra i

127
Da un servizio di Telecity, Omicidio Intercity Chiavari – Venezia.
128
B. VIANI, cit.

96
viaggiatori era ormai un dato certo, furono gli stessi agenti a percepirla e a

raccontarla.

«Dopo il secondo delitto i viaggiatori hanno


iniziato ad avere paura» - racconta il
poliziotto che fa parte del nucleo di Polizia
ferroviaria del compartimento di Genova. «Si
guardano intorno con sospetto, non si fidano
delle persone che hanno vicino, chiunque
potrebbe essere il mostro. Noi siamo presenti,
controlliamo, la gente non lo sa, non ci
riconosce, o forse qualcuno ci scambia pure per
il killer. Ma se fossimo in divisa svolgere il
nostro lavoro sarebbe più complicato»129.

Mentre le parole del poliziotto registravano l’aumento del “termometro

della paura”, non solo la Polizia scientifica faceva un nuovo sopralluogo (che durò

otto ore) sul vagone dove era stata uccisa Maria Angela Rubino ma anche i

controlli sui treni si intensificarono e alla Polfer di Genova arrivarono rinforzi da

altre città. Agenti in divisa e ferrovieri scremarono con pazienza l’alluvione di

sospetti recapitata a voce dai passeggeri; numerosissime, infatti, furono le

segnalazioni giunte agli uffici di polizia ferroviaria delle stazioni di Principe e

Brignole, formulate da persone che sostenevano di aver riconosciuto l’uomo che

corrispondeva all’identikit diffuso dalla polizia. In quei giorni, infatti, tra le tante

testimonianze sul delitto di Ventimiglia, molte del tutto infondate, la polizia mise

sotto esame soprattutto le dichiarazioni di un viado, Lorenza, alias Julio Castro

che, avendo rifiutato di avere un rapporto non protetto con il cliente – killer, si era

probabilmente salvato130. Secondo Lorenza il killer era una sorta di Jean Gabin,
129
S. F.,
Killer in rete, in «Corriere Mercantile», del 28 aprile 1998.
130
La testimonianza di Lorenza fu fondamentale agli investigatori non solo per definire l’identikit
di Bilancia ma anche per collegare la morte dei due metronotte, Gualino e Randò, nel parco della
villa Barbellotta, e quella dell’altro metronotte Canu, ucciso a Genova nell’ascensore di un palazzo
di corso Armellini il 25 gennaio. M. MENDUNI, Indagini fra i metronotte. Qualcosa lega i gialli di
Novi e Genova, in «Il Secolo XIX», del 30 aprile 1998.

97
che da Genova mancava dal ’48, quando girò al Molo “Au delà des grilles”: si

trattava di un uomo alto, robusto, di età compresa tra i 50 e i 55 anni. Fu proprio

grazie a questo identikit che gli investigatori poterono riaprire le inchieste sui

delitti del ’97, tra i quali quello di Donika Hoxholari, prostituta di 21 anni uccisa

ad Albenga131.

Dopo l’uccisione di Maria Angela Rubino, l’assassino, ripetendo lo stesso

rito del colpo di pistola alla nuca e della porta della toilette chiusa dall’esterno con

la quale aveva ucciso Elisabetta Zoppetti, diede finalmente una certezza: si

trattava di un unico individuo. Dopo aver brancolato nel buio per mesi, dopo aver

caldeggiato a lungo l’ipotesi della guerra tra bande, dopo ben diciannove omicidi

commessi in quello che venne definito il «triangolo della morte» (Genova –

Riviera di Ponente – Basso Piemonte), dopo aver dubitato che si trattasse di un

serial killer, finalmente la morte dell’ultima vittima fornì agli inquirenti le risposte

da tempo cercate.

Due impronte coincidono


Al setaccio il treno di Ventimiglia, il killer
s’è tradito
La novità della giornata sta nelle impronte
digitali: nei segni unici e inimitabili dei
polpastrelli che gli esperti della scientifica
(Cis) hanno trovato sulle scene dei vari delitti.
C’è un indiscrezione da bingo: i primi esami
fanno affiorare la possibilità che, almeno in due
casi, coincidano. […] Difficile saperne di più,
dalla consueta riunione mattutina del pool Bocche
cucite. Il maggiore Filippo Ricciarelli,
coordinatore del lavoro dell’Arma, non soffre di
pressione bassa e si presenta dal magistrato
all’apertura del palazzaccio. Poi sfila la

131
La diffusione dell’identikit sulla maggior parte dei quotidiani, però, concorse ad aumentare la
psicosi del “mostro”. Tra le tante telefonate arrivate a Secolo XIX ricordiamo, ad esempio, quella
di un pendolare di Varazze, impiegato a Genova, abituale viaggiatore sui treni, che diceva: «Sono
alto e brizzolato ogni giorno sento gli occhi puntati su di me». B. VIANI, cit.

98
polizia: il dirigente della criminalpol Gaetano
Chiusolo e tre quarti della squadra mobile132.
La situazione, ormai, era arrivata al culmine. Dopo aver dato un volto al

mostro, un imperativo incombeva sugli inquirenti: stanarlo e porre fine alla catena

di interminabili omicidi. A questo proposito fu richiesta la consulenza di un noto

criminologo, Francesco De Fazio, docente universitario modenese che aveva già

lavorato per la procura di Firenze nelle indagini sul caso Pacciani e i “compagni di

merende”. La scelta di De Fazio venne fatta dalla procura di Genova attraverso il

sostituto procuratore Enrico Zucca (che l’aveva decisa in accordo al procuratore

capo Meloni, e all’aggiunto Lalla, oltre ai colleghi delle procure di Savona e di

Sanremo), titolare dell’indagine sull’assassino della prostituta nigeriana uccisa a

Cogoleto il 29 marzo. Un colpo alla nuca, dopo essere stata ferita ad una gamba

per bloccarne il disperato tentativo di fuga. Uno dei proiettili era stato recuperato

ed era diventato uno degli elementi più utili nelle mani degli inquirenti per le

perizie balistiche. La scelta di De Fazio insomma non fu casuale, e si pensò pure

di affiancargli altri esperti per comporre un pool di criminologi: il suo obiettivo

era quella di costruire con precisione la figura, i possibili scenari in cui aveva

agito il serial killer e studiarne le mosse sinora fatte.

Intanto, mentre le indagini sembravano volgere al termine, la tensione

continuava a serpeggiava tra passeggeri e anche tra gli agenti in borghese che

consumavano incessantemente i corridoi delle carrozze alla ricerca di un uomo

capace di diffondere una vera e propria psicosi, quella del “mostro”. Dopo

l’uccisione di Maria Angela Rubino, però, e in vista del ponte del 1° maggio,

132
M. DI SALVO – M. MENDUNI, Due impronte coincidono. Al setaccio il treno di Ventimiglia, il
killer s’è tradito, in «Il Secolo XIX», del 30 aprile 1998.

99
definito «ponte della paura», anche le forze dell’ordine decisero di cambiare

tattica:

«Da dieci giorni tutti gli uomini disponibili,


compresi i rinforzi inviati dal ministero, sono
impegnati costantemente in servizio di
controllo», spiega il comandate del compartimento
Polfer di Genova, Maurizio Zaffino, alla vigilia
del ponte del Primo Maggio. Rispetto allo scorso
fine settimana, c’è una novità per i viaggiatori
che si muoveranno lungo le due riviere. Sui
treni, infatti, ci saranno meno agenti in
borghese e più uomini in divisa, «Lo facciamo per
essere più visibili, come ci ha suggerito il
ministero – ha spiegato Maurizio Zaffino -. Ed è
un piccolo aggiustamento che si è reso necessario
proprio per dare più sicurezza»133.

Ancora nel giugno 1998, Telecity, mandò in onda un’intervista al

procuratore Zavanone particolarmente significativa per quanto riguardava il clima

teso diffuso tra gli inquirenti:

18 giorni scanditi dalla paura.


Cresce la paura. Il procuratore Zavanone invita a
non prendere il treno134.

Nonostante l’intento del procuratore non fosse certo quello di creare

allarmismi, ma di invitare alla prudenza, la sua affermazione ebbe effetto

immediato (a parte le critiche che fioccarono da personaggi come Cimoli): si creò

il panico tra gli abituée dei treni. Molti, come riporteranno numerosi articoli di

giornale, decideranno per un po’ di evitare tale mezzo di trasporto, altri

ricorreranno ad escamotage come il viaggiare in gruppo. Il procuratore, in seguitò,

seppure con moderato ottimismo, tentò di tornare sui propri passi, rassicurando
133
Ivi.
134
Telecity, Giorni di paura, del 5 giugno 1998.

100
che le indagini proseguivano con alacrità e a ritmo serrato; sempre Telecity mandò

in onda un servizio riguardante il vertice tenutosi tra le cinque procure135.

Tutta questa preoccupazione, d’altra parte, non era infondata e trovò

conferma molto tempo dopo quando, il giorno della cattura di Bilancia, il

maggiore Ricciarelli della polizia dichiarerà:

«Bilancia era pronto a scappare. Aveva con sé una


valigia, un passaporto, banconote straniere, un
po' di biancheria nel necessaire. Nell'effettuare
i pedinamenti gli operatori della sicurezza si
sono dovuti tenere a debita distanza e, hanno
dovuto muoversi con circospezione, il timore che
fosse armato era una certezza quando si era
trovato scoperto aveva usato la pistola.
All'arresto non ha potuto opporre resistenza
perché i miei uomini non gli hanno dato modo di
scappare»
[…]
«Non ho mai avuto remore a sparare» dichiara
Bilancia136.

L’intervista rilasciata dal maggiore Ricciarelli sempre a Telecity, di fatto,

evidenziò quanto le forze dell’ordine avessero vissuto tutta la faccenda con una

certa trepidazione, una “paura”, d’altra parte, motivata dall’imprevedibilità del

presunto killer. Recentemente, da un’interessante intervista rilasciatami dal PM

Zucca, ho potuto avere la conferma che quanto diffuso da giornali ed emittenti

televisive corrispondeva al vero; durante tutta l’inchiesta l’attenzione da parte

degli inquirenti e delle forze dell’ordine era stata massima – tanto che addirittura

Roma aveva mandato una squadra speciale anticrimine violento, – e che la

“paura” fu un sentimento diffuso non solo tra i cittadini ma anche tra gli

inquirenti. Certo si trattava di una “paura” diversa, di una tensione più che altro,

135
Id., Numero verde per serial killer, del 5 luglio 1998.
136
Id., Intervista al Maggiore Ricciarelli, del 5 luglio 1998.

101
ma di una tensione forte che tenne a lungo tutti col fiato sospeso. La pressione

della opinione pubblica, infatti, si faceva sentire con il moltiplicarsi di paure e

panico generalizzato e ciò rendeva ancora più necessario ristabilire la serenità.

La squadra speciale mandata da Roma diede la dimensione del fenomeno;

era la prima volta, infatti, che in un episodio di criminalità locale interveniva la

capitale. Lo sforzo coniugato delle procure, delle forze dell’ordine, degli

investigatori, delle vittime scampate alla morte e dei cittadini riuscì a stanare il

“mostro” e a dargli il volto di Donato Bilancia, un uomo definito dai più “del tutto

normale”. Se per i cittadini la sua cattura fu la fine di un incubo, per gli inquirenti

iniziò una nuova fase: quella della ricostruzione e della ricerca del movente. La

tensione, adesso, doveva lasciare spazio ad un nuovo sentimento: la volontà di

capire cosa realmente fosse successo.

§. 3.2 La cattura del “mostro”

Esulando dal presente lavoro un approfondimento sugli aspetti psicologici

del caso Bilancia, ovvero la disamina del perché un uomo dall’apparenza tanto

normale abbia dovuto macchiarsi di crimini tanto efferati, pare invece opportuno

ripercorrere con maggior attenzione le tappe che condussero gli inquirenti alla sua

identificazione e al suo arresto. Questo perché l’analisi della dinamica dei fatti ci

102
offre l’opportunità di capire quale sia stato il ruolo effettivo degli investigatori e

in che tipo di “clima” sociale si trovarono a dover operare. È vero infatti che,

come i media influenzarono i lettori - aggiornandoli e tenendoli in guardia su

quanto stava accadendo, ma contribuendo pure a diffondere un certo panico - così

pure le forze istituzionali poste in campo nella ricerca del serial killer non furono

del tutto indenni dalla tensione, che non possiamo nel loro caso definire vera e

propria paura o psicosi, che accompagnò tutta la vicenda. Dopo mesi di

pedinamenti, di pattugliamenti, di domande senza risposte, di indizi senza

riscontri, finalmente il 6 maggio 1998 avvenne la tanto attesa svolta nelle

indagini. Grazie ad una serie di testimonianze, Donato Bilancia, inizialmente

accusato solo dell’assassinio della lucciola nigeriana Evelin “Tessy” Adodo, ma

fortemente indiziato di altri otto omicidi, fu formalmente arrestato. Uscito dal suo

domicilio nel quartiere di Marassi, attorno alle undici e un’ora più tardi, mentre si

trovava nel piazzale davanti all’ospedale San Martino (dove si era recato per un

controllo, perché sofferente di una forma asmatica), il maggiore Ricciarelli e il

tenente Crocifisso Giordano fecero scattare le manette ai suoi polsi 137. Dopo aver

atteso che Bilancia raggiungesse il piazzale davanti all’ospedale, gli appuntati

Franco e Roberto, entrambi capelloni, si resero subito conto che il presunto killer,

a differenza delle altre volte, non aveva il rigonfiamento sotto la tuta e che quindi

non era armato. A quel punto lanciarono il segnale concordato ai loro colleghi che

avvicinarono Bilancia e lo ammanettarono, trascinandolo dentro l’auto che,

scortata da altre macchine, si allontanò a sirena spiegata a tutta velocità verso gli

137
Dopo l’arresto il maggiore Ricciarelli rilascerà un’interessante intervista a Wanda Valli dove
ripercorrerà le tappe fondamentali dell’inchiesta. W. VALLI, Io, carabiniere anti – killer così ho
preso quell’uomo, in «la Repubblica», dell’8 maggio 1998.

103
uffici di Via Gobetti138; lì venne notificato a Bilancia l’ordine di custodia cautelare

firmato dal giudice delle indagini preliminari Anna Ivaldi su richiesta del pubblico

ministero Enrico Zucca.

In effetti Donato Bilancia non era l’unico indiziato ma rientrava nella rosa

di tre sospetti seguiti da alcune settimane dal nucleo operativo dei carabinieri. Su

Bilancia gli investigatori dell’Arma avevano raccolto alcuni elementi di prova di

una certa gravità, ma non determinanti. Il maggiore Filippo Ricciarelli,

comandante del nucleo operativo, e il tenente Crocifisso Giordano, comandante

della sezione omicidi, però, avevano deciso di seguire, con i loro uomini, i

movimenti delle tre persone sospettate fino a quando il gip decise di firmare

l’ordine di custodia cautelare per Bilancia139.

Il terrore per una minaccia che sembrava sempre più imprevedibile, oscura

e incombente, e che aveva indotto le forze in campo a serrare le fila, sembrava

essere conclusa e con essa, come scrisse Marco Menduni «la catena di sangue»140.

Ancora non vi erano dei riscontri definitivi ma le indagini parevano parlar

chiaro e identificare in Bilancia il killer che aveva seminato il panico per mesi; il

procuratore della Repubblica di Savona, Vincenzo Scolastico, sembrava avere

pochi dubbi a riguardo e, infatti, i tre magistrati savonesi che durante le indagini si

erano occupati del serial killer (oltre al procuratore e ai sostituti Greco e Landolfi)

si apprestarono ad interrogare Bilancia. L’atteggiamento di Scolastico, di fatto,

che risultò chiaramente dalle interviste rilasciate ai giornali, fu rivelatore, secondo

Sangalli de «Il Secolo XIX» di una certa tensione all’interno degli inquirenti:

138
M. DI SALVO, «Davide era bellissimo aveva gli occhi azzurri come i miei», in «Il Secolo XIX»,
dell’8 maggio 1998.
139
M. DI SALVO, L’ultima notte di libertà, in «Il Secolo XIX», del 7 maggio 1998.
140
M. MENDUNI, Primavera di sangue, in «Il Secolo XIX», del 7 maggio 1998.

104
dalla sua dichiarazione, infatti, apparve chiara una sorta di rivendicazione di

titolarità dell’inchiesta, o quanto meno l’affermazione che se esisteva un

collegamento tra i delitti, le indagini avrebbero dovute essere coordinate dalla

magistratura savonese, nel territorio di sua competenza141.

Sebbene i carabinieri attribuissero senza dubbio a Bilancia l’omicidio delle

quattro prostitute e dei due metronotte di Novi Ligure, alla domanda se fosse

sempre lui il killer dei treni la risposta restò a lungo un secco «no comment» 142; tra

i tanti interrogativi che si affastellano nella mente uno si imponeva con maggiore

insistenza, ovvero quali fossero realmente gli elementi che incastravano Bilancia.

C’è la Mercedes, la famigerata 190 nera vista


sulla scena di gran parte dei delitti, ora
custodita nel cortile dei carabinieri e un’arma
sequestrata in casa, una calibro 38. Le prime
perizie confermano la piena compatibilità tra
l’arma, la polvere da sparo e i proiettili che
hanno ucciso. Poi ci sono indiscrezioni, i “si
dice”. Sul corpo di alcune prostitute uccise
c'erano tracce di liquido seminale. I primi,
velocissimi riscontri sul Dna coincidono. Il
revolver assassino finisce in procura, nel
pomeriggio. Poi parte alla volta di Parma, al
centro investigazioni scientifiche dell'Arma dove
ci sono i reperti di tutti gli omicidi. E i
delitti sui treni? «Accertamenti in corso», dice
il colonnello Maurizio Gualdi143.
Ma i sospetti degli inquirenti andavano ben oltre e sembravano indicare in

Bilancia l’assassino anche di Anna Maria Rubino, la donna trovata morta nella

toilette di un treno regionale a Ventimiglia. E ci fu pure chi non escluse, da subito,

di voler rileggere alla luce delle caratteristiche di Bilancia gli omicidi degli orefici

141
R. SANGALLI, E adesso Savona rivendica l’inchiesta, in «Il Secolo XIX», del 7 maggio 1998.
142
M. MENDUNI – M. DI SALVO, Preso. È la fine dell’incubo, in «Il Secolo XIX», del 7 maggio
1998.
143
Ivi.

105
di Marassi, dei coniugi Parenti di Piazza Matteotti, del metronotte Giangiorgio

Canu144.

Iniziano, allora, i riscontri incrociati e,


soprattutto, il confronto con i testimoni,
specialmente il viado Julio Castro. Bilancia, da
parte sua, contattò da subito il suo legale,
Enrico Franchini, che più volte lo aveva difeso;
le prime tracce giudiziarie di Bilancia, infatti,
si trovano al Tribunale per i minori dove venne
giudicato e assolto, perché incapace di intende e
volere al momento del fatto, da un furto. Poi fu
colpito da fogli di via delle Questure di Livorno
e Salerno e risultava fermato e segnalato anche
dalla polizia francese, quindi un formo a Como
per detenzione abusiva di armi, quindi una
detenzione presso l’ospedale San Martino, nel
’76, per rapina impropria e una condanna a 18
mesi. E poi ancora altri guai con la giustizia
per furti, per denuncia per gioco d’azzardo e
poi, nel ’90, una denunzia per aver “scherzato”
con una pistola con una prostituta145.

Se durante le indagini l’attività degli inquirenti era stata febbrile non da

meno si rivelò il clima dopo il suo arresto. Il giorno immediatamente dopo la sua

cattura, infatti, fu messo a programma un summit tra gli investigatori di tutte le

procure liguri che stavano indagando sul serial killer.

A Genova confluiranno tutti gli elementi di


indagine fino ad ora raccolti, compreso l’esito
definitivo delle perizie balistiche sui frammenti
di proiettili recuperati sulle scene dei diversi
omicidi effettuate dal Cis di Parma e quello
relativo agli accertamenti operati nella toilette
del “2888”: impronte digitali, residui organici e
quant’altro è stato repertato a più riprese dagli
esperti della polizia scientifica146.

144
Ivi.
145
M. ZINOLA, Cominciò rubando panettoni, per la madre era un figlio perduto, in «Il Secolo
XIX», del 7 maggio 1998.
146
F. PIN, Il capotreno e il tassista possono inchiodare l’assassino, in «Il Secolo XIX», del 7
maggio 1998.

106
Una delle maggiori difficoltà incontrate dagli inquirenti fu il silenzio – per

lo meno iniziale - dei possibili testimoni: da una parte il silenzio delle lucciole,

impaurite e schiacciate dalla loro illegalità, tanto che ci vollero settimane per far

raccontare a due di loro che, negli stessi giorni dell’omicidio di Tessy, erano

balzate giù da un auto dopo essere state minacciate da un cliente (Bilancia?, pare

di sì) armato di una pistola alla Foce 147, dall’altra quella dei passeggeri che

viaggiarono con Maria Angela Rubino, nessuno dei quali come commentò il

procuratore Gagliano si «sentì il dovere civico e morale di farsi avanti» 148. Ma

come osservarono Marco Menduni e Marcello Zinola, in tutte le grandi partite, c’è

un momento preciso in cui la sorte inizia a far l’occhiolino a uno dei due

contendenti.

La data esatta è il 18 aprile. Quella sera i


carabinieri ritrovano in via Bobbio un'auto
rubata. E' un Opel Kadett station wagon bianca.
Qualcuno l'ha portata via da corso Gastaldi la
notte del 28 marzo. E' un'intuizione: quella
macchina bianca corrisponde a quella descritta
dalle lucciole nigeriane amiche della Edsohe.
Quella notte Tessy viene ammazzata a Cogoleto. La
Kadett è l'auto del delitto. Gli esperti
troveranno sui sedili capelli, tracce ematiche,
goccioline di liquido seminale. Persino il
terriccio di Cogoleto rimasto sotto le suole del
killer. Il diciotto aprile sono ancora tre i
sospettati […] Ma ormai il cerchio si stringe149.

Da quel momento, infatti, i carabinieri cominciarono a seguire Bilancia

ventiquattr’ore al giorno. Un pedinamento discreto ma tenace, incessante.

Cominciarono a raccogliere i mozziconi di sigaretta che l’indiziato gettava per


147
M. MENDUNI – M. ZINOLA, Lo ha riconosciuto tre volte, in «Il Secolo XIX», dell’8 maggio 1998.
148
F. PIN, op. cit.
149
Ivi.

107
terra, con un trucco (un militare, in un bar, si finse uno squinternato veggente)

riuscirono a porta via la tazzina di caffè dove aveva appena bevuto, fino a quando

arrivò la svolta150 e il Cis di Parma poté confermare che “coincideva tutto”: il Dna

dei reperti del pedinamento, di quelli trovati nella Kadett, del liquido seminale sul

corpo della sventurata nigeriana. Dopo che Bilancia venne bloccato, quindi,

scattarono le perquisizioni151.

In via del Fossato 4, a Marassi i carabinieri


trovano la pistola. È una Smith & Wesson con la
canna da due pollici. È una calibro 38. Risulterà
rubata. Vicino ci sono le munizioni. Proiettili
scamiciati, di piombo dolce, marca Lapua Patria.
Finlandesi, rarissimi, importati da una ditta di
Bolzano. Come la polvere da sparo che li
accompagna, assai diversa dal comune. La stessa
ritrovata sulla scena dal delitto di Cogoleto e
di quelli di Pietra Ligure. Poi c'è la Mercedes
scura. Non nera, ma di un blu profondissimo. Era
parcheggiata anche questa in via Bobbio. Con quel
graffio sulla fiancata che “Lorena” il
transessuale ricordava. La stessa auto che ha
urtato la Panda dei metronotte. Bilancia che
preparava la fuga. In casa, a Marassi, ci sono il
passaporto, i bagagli con un primo ricambio,
milleduecento franchi francesi. E la pistola lì
vicino. Carica152.

Mentre i vertici dell’Arma, Maurizio Gualdi e Antonio Marturano, si

apprestarono a dichiarare: «Abbiamo dato una risposta precisa a un grande

allarme sociale, con un’indagine perfetta e pulita», il maggiore Ricciarelli

150
C. AUGIAS, E la svolta dell’indagine arrivò da una tazzina, in «la Repubblica», dell’8 maggio
1998.
151
Il presunto serial killer aveva la possibilità di nascondersi bene. Oltre alla casa dei genitori a
Cogoleto e alla sua in via Montaldo e con un altro ingresso in via del Fossato, aveva a disposizione
una serie di piccoli appartamenti. Alloggi di proprietà di sue amiche che gli prestavano casa
quando ne aveva bisogno. Si trattava di quattro appartamentini: uno si trova nel quartiere di San
Martino, l’altro a Borgoratti e due pied – à – térre nei vicoli de centro storico. Gli investigatori
dell’Arma, dopo l’arresto, hanno perquisito anche queste abitazioni che erano state controllate
esternamente, quando seguivano i movimenti dell’indagato. B. VIANI, Sei alloggi in città, in «Il
Secolo XIX», dell’8 maggio 1998.
152
M. MENDUNI – M. ZINOLA, Lo ha riconosciuto tre volte, cit.

108
affermava: «Se mia moglie mi chiedesse: posso viaggiare sicura in treno

risponderei di sì». Più moderato nelle sue risposte il procuratore Meloni153 che alla

domanda se fosse Bilancia il killer dei treni, ancora rispondeva: «No, ma non

perché sia no, ma perché aspettiamo ancora i risultati ufficiali delle perizie»154.

Di lì a poco, tuttavia, il coinvolgimento di Donato Bilancia anche per le

donne uccise sui treni diventò evidente; un super – teste, infatti, per l’omicidio del

cambiavalute Enzo Gorni, riconobbe Donato Bilancia come autore dell’omicidio.

Il procuratore capo Meloni, allora, si apprestò a diffondere la notizia che:

Sono emersi gravi e concreti indizi di natura


balistica, chimico - fisica e biologia che fanno
ritenere attribuibili all’indagato gli omicidi
commessi a Pietra Ligure (due prostitute), Novi
(due metronotte) e Cogoleto (prostituta
nigeriana). Sono altresì emersi elementi
obiettivi che fanno ritenere probabile il
coinvolgimento dello stesso indagato anche negli
omicidi commessi a Varazze (la prima prostituta
uccisa il 9 marzo) e sui treni155.

La conferma arrivò dopo quasi cinque ore di vertice tra procure,

carabinieri e criminalpol al quale parteciparono anche il responsabile del Cis di

Parma, Garofalo. Ma il cerchio delle indagini si stava ormai chiudendo intorno a

Donato Bilancia anche per quattro dei cinque delitti che avevano insanguinato il

Ponente ligure tra il novembre e l’aprile passato. Uno dopo l’altro, i tasselli

cominciarono andare al loro posto, a comporre uno sconvolgente mosaico di follia

assassina che abbracciava nell’ordine gli omicidi dei cambiavalute di Ventimiglia

Luciano Marro (il 13 novembre 1997) ed Enzo Gorni (il 20 marzo scorso), della
153
Gli altri colleghi di Meloni erano Scolastico (Savona), Galliano (Sanremo), Brusco
(Alessandria), Pascucci (Verona).
154
Ivi.
155
C. DONZELLA – M. ZINOLA, E’ lui l’assassino della riviera, in «Il Secolo XIX», del 9 maggio
1998.

109
ventimigliese Maria Angela Rubino sul treno diretto 2888 la sera del 18 aprile, del

benzinaio Giuseppe Mileto sull’Autostrada dei fiori il 20 aprile.

Gli inquirenti, come non mai, si ritrovarono a dover lavorare sotto il fuoco

incrociato della pressione pubblica e aprirono la caccia per il caso Moleto, ai

possibili complici di Bilancia. Ora dopo ora gli indizi e i riscontri raccolti dai

carabinieri – la sera precedente il procuratore Galliano aveva interrogato un

testimone e avrebbe proseguito la mattina seguente con altre audizioni –

convergono su Bilancia e lo indichino sempre sui luoghi dei delitti tra Sanremo e

Ventimiglia. La testimonianza – chiave, però, arrivò dal cognato di Gorni, ucciso

alle 19,30 del 20 marzo, sempre con una calibro 38, che aveva incrociato

l’assassino davanti all’agenzia di Latte del cambiavalute, e ne aveva fornito una

descrizione assai somigliante all’identikit ricostruito dal viado “Lorena” per

l’omicidio dei due metronotte. All’ipotesi formulata dagli inquirenti, secondo la

quale il killer aveva preso il treno a Sanremo, dopo essere uscito dal casinò, e

aveva ucciso prima di Bordighera, si aggiunge presto un riscontro: i carabinieri,

infatti, riescono a risalire ad un testimone che sostiene di aver visto Bilancia salire

sul diretto 2888 proprio alla stazione della città dei fiori156.

Dalle indagini emerge che l’allucinante sequenza si sarebbe in qualche

modo ripetuta anche nell’omicidio del cinquantenne benzinaio Giuseppe Mileto di

Castellaro, freddato con tre colpi di pistola calibro 38 alle 22 e 20 del 20 aprile

nell’area di servizio “Conioli Sud”, a metà strada tra Imperia e Sanremo; gi

inquirenti hanno ipotizzato che Donato Bilancia, al volante della sua Mercedes e

156
La sua testimonianza, a questo punto, va ad aggiungersi a quelle dei due ferrovieri che hanno
descritto il presunto assassino quando è sceso dal treno in movimento alla stazione di Bordighera e
a quella del tassista Giuseppe Fontana. C. DONZELLA, C’è un testimone per l’omicidio, in «Il
Secolo XIX», del 9 maggio 1998.

110
diretto al casinò, si sarebbe accorto di essere senza benzina e, approfittando di uno

scambio di carreggiata per un cantiere, avrebbe invertito il senso di marcia, si

sarebbe fermato al distributore, avrebbe ucciso Mileto, rapinatolo forse di due

milioni, per proseguire poi sulla corsa Genova - Ventimiglia, uscendo al castello

di Imperia Ovest. Restava, però, ancora da risolvere l’omicidio di Luciano Marro,

ma sebbene gli indizi scarseggiassero gli inquirenti scoprirono che Bilancia aveva

cambiato soldi sia nella sua agenzia che in quella di Gorni, nei giorni precedenti i

delitti; inoltre, per il caso Marro, restavano ancora da confrontare i proiettili -

sempre calibro 38 - in ottimo stato, con quelli recuperati nei luoghi degli altri

delitti e con la pistola Smith & Wesson calibro 38 di Bilancia.

Le piste e gli indizi che conducevano a Bilancia e che lo identificavano

come unico responsabile dei delitti erano numerosi, tuttavia il procuratore

Mariano Gagliano dimostrò di non volersi ancora sbilanciare:

«ci sono altri 4 omicidi insoluti. Attribuibili a


Bilancia? Si? No? Forse? In parte? Ci sono
analogie ed elementi sospetti da verificare. Ma
Bilancia non diventerà un capro espiatorio»157.

A questo punto delle indagini, però, non solo le perizie accusavano Donato

Bilancia, in quanto cominciarono a spuntare i cosiddetti supertestimoni: una

lucciola nigeriana, un’amica e collega di Evelyn Tessy Edsoghaie, e il proprietario

dal quale Bilancia aveva acquistato la Mercedes blu notte158. Anche numerosi

omicidi lasciati insoluti e apparentemente scollegati tra loro iniziarono a diventare

le maglie di una catena tenuta insieme da un unico nome, quello di Donato

157
C. DONZELLA – M. ZINOLA, E’ lui l’assassino della riviera, cit.
158
M. ZINOLA, Voleva cambiare la Mercedes, in «Il Secolo XIX», del 9 maggio 1998.

111
Bilancia. Da Albenga a Siena a Pavia, passando per Cremona e Mantova, i

fascicoli che vennero riletti furono decine, perché troppe le analogie con le donne

assassinate dal serial killer ligure. Sebbene “cautela” fosse ancora la parola

d’ordine tra gli inquirenti, che dicevano di non voler trasformare Bilancia nella

«madre di tutti gli omicidi»159, tuttavia, tra tanti interrogativi, sembrava emergere

con sempre maggiore forza la consapevolezza che il “mostro” fosse stato

catturato.

Interrogato a palazzo di giustizia, Bilancia preferì avvalersi della facoltà di

non rispondere, ma condotto in carcere, durante il colloquio, chiese notizie circa

quanto riportavano i giornali e sui suoi genitori, se erano a conoscenza di quanto

era accaduto, se stavano bene «perché sono vecchi e malandati». Radio fante da

Marassi sostenne che Bilancia avrebbe detto ad una guardia «Tutti quegli omicidi

non li ho mai commessi io»160. Bilancia, detenuto nel centro clinico, venne posto

in stato di totale isolamento; tanto che la direzione del carcere negò a due

consiglieri regionali - Franco Zunino, di Rifondazione Comunista, e Nicola

Abbundo, di Forza Italia, di visitarlo.

Anche dopo l’arresto la “paura” restò un sentimento diffuso. Gli inquirenti,

infatti, temettero che eventuali complici di Bilancia potessero fare azioni ritorsive

sui testimoni e per tale motivo magistrati e carabinieri si dimostrarono piuttosto

restii a diffondere notizie relative ai particolari dell’ordine di custodia cautelare

per l’omicidio della prostituta nigeriana Evelyn Tessy Edsoghaie uccisa a

159
S. F., Il giallo della lettera in latino. Gli investigatori indagano su un omicidio a Siena, in «Il
Secolo XIX», del 9 maggio 1998.
160
Ivi.

112
Cogoleto: «Rischiate di mettere a repentaglio la vita dei testi o di tappare la

bocca, per paura, ad altri»161.

La certezza degli inquirenti è che Bilancia abbia


agito da solo nella striscia di omicidi sull'asse
Novi – prostitute - treni mentre esiste un
sospetto, una convinzione anzi che Bilancia - se
le indagini e le perizie con fermeranno le sue
responsabilità - possa avere agito con dei
complici in altre tre situazioni. Cioè nel
duplice omicidio di piazza Cavour dei coniugi
Parenti - Scotto. Un omicidio le cui modalità
depongono per l'operato di almeno due persone. E
negli omicidi degli orefici Luigi Pitto e Bruno
Solari dove le poche testimonianze raccolte
indicano la presenza di due persone162.

L’omicidio Parenti - Scotto era quello più inquietante per le modalità del

rito dell’uccisione. Le vittime erano state legate e imbavagliate, Maurizio Parenti,

dopo essere stato costretto a togliersi i pantaloni, fu ammanettato e dovette aprire

la cassaforte da dove sarebbe sparito mezzo miliardo di preziosi e denaro. Poi

l’uomo fu praticamente mummificato con dello scotch tipo carta da pacchi e

ucciso. Difficile pensare che l’assassino avesse agito da solo. La polizia aveva

recuperato i proiettili utilizzati (calibro 38), le impronte lasciate sul nastro adesivo

e il Dna preso su un bicchiere trovato in cucina, diverso da quello delle vittime.

Era di uno degli assassini? Lo avrebbero confermato gli esami in corso.

«Gli inquirenti» - spiega il pm Zucca di Genova -


«sono sicuri che Bilancia abbia usato sempre il
treno per raggiungere i casinò dove era solito
giocare». Ripercorrono la storia giudiziaria e i
periodi di detenzione dell’indagato e scoprono
altri particolari, conferme. Bilancia conosceva
Maurizio Parenti, ucciso in piazza Cavour, per

161
M. ZINOLA, Non uccideva da solo, in «Il Secolo XIX», del 10 maggio 1998.
162
Ivi.

113
via del gioco d'azzardo. Un filone che il Pm
Pinto aveva lasciato aperto come possibile
collegamento tra l'omicidio del metronotte Canu e
quello degli orefici. In carcere Bilancia aveva
conosciuto elementi di spessore della mala
genovese - lo confermano i Pm genovesi - come
Chiti, Dongo e altri163.

Dopo i tanti riscontri incrociati e le super – testimonianze, finalmente, alla

domanda se potesse non essere Bilancia il killer che aveva terrorizzato la Liguria,

dal volto di Vincenzo Scolastico, procuratore della Repubblica di Savona, poté

emergere un sorriso.

«E' lui - sostiene il magistrato - e la conferma


viene dal dna: la probabilità che non sia lui è
superiore al numero della popolazione
mondiale»164.

Anche se restavano ancora delle inquietanti analogie ma poche certezze,

per quanto riguardava, ad esempio, il delitto di Donika Hoxollari, uccisa nel

febbraio dello anno precedente in una serra di Albenga, il caso sembrava ormai

concluso. Il 15 maggio 1998 la maggior parte dei giornali che si erano occupati

del caso riportarono a lettere cubitali la notizia della confessione di Bilancia «Ho

ucciso 17 volte», avrebbe detto. Informato dal legale di Bilancia dell’intenzione di

confessare i propri crimini, il sostituto procuratore Enrico Zucca, consapevole

dell’effetto che la notizia avrebbe avuto tra i cronisti, decise addirittura di

depistarli e di far circolare la falsa notizia che l’interrogatorio dell’accusato si

sarebbe svolto presso palazzo di giustizia anziché in una caserma dei carabinieri.

163
Ivi.
164
R. SANGALLO, Gli indizi lo inchiodano, da «Il Secolo XIX», del 10 maggio 1998.

114
Emerse così che la lunga scia di sangue lasciata dal serial killer ligure

sarebbe iniziata nel febbraio del 1997 con l’omicidio della prostituta albanese

Donika Hoxohllari e sarebbe terminata con l’uccisione di Giuseppe Mileto, il

benzinaio ucciso durante una rapina sull’autostrada ad Arma di Taggia il 22 aprile

1998; tra i due, però, altri quindici omicidi.

Dopo aver riempito per ben un anno le pagine di cronaca nera, dopo aver

costretto investigatori e forze dell’ordine ad una ricerca incessante, finalmente

Donato Bilancia da mostro letterario, da caso mediatico e da prodotto sociale

aveva assunto le fattezze di un individuo tra tanti, un uomo “quasi” qualunque, un

uomo che, attraverso la rielaborazione dei media, da individuo “reale” si era

trasformato in un icona del male e, dunque, vettore di paure profonde e ancestrali;

neppure gli inquirenti erano riusciti totalmente a sfuggire a questa logica del

terrore, messa in atto da giornalisti e cronisti d’assalto, dimostrano così quanto

sinergico e “devastante” a livello sociale possa essere il binomio “paura” e

“media”.

115
CONCLUSIONI

Come scrive Bauman nel suo La società dell’incertezza, «La paura non è

certo una novità per la vita umana»; l’umanità, infatti, l’ha conosciuta fin dai suoi

esordi e nel corso della sua evoluzione «ogni epoca della storia si è differenziata

dalle altre per avere conosciuto forme particolari di paura; o piuttosto, ogni epoca

ha dato un nome di propria invenzione ad angosce conosciute da sempre» (Ivi, p.

99). Sopra ogni altra, però, impera quella che potremmo definire la madre di tutte

le angosce, ovvero la minaccia che quotidianamente genera tutte le altre e non

permette loro di allontanarsi troppo, quella della morte. Ma se è vero, come

sostenevano alcuni filosofi, che si esperisce solo la morte dell’altro mentre si

rifiuta l’idea della propria fine, diversamente l’uomo non può sfuggire a tutte le

altre paure che quotidianamente affollano la sua mente e la sua vita.

In un mondo come quello in cui viviamo, infatti, in una realtà tanto

complessa e in continua evoluzione, dove certezze e sicurezze sembrano fare parte

di un altrove lontano, dove ogni confine pare aver perso i propri contorni, la paura

è destinata a sussistere e a diventare ancora più profonda e spaventosa di prima

anche perché vissuta spesso in solitudine. A differenza di quanto avveniva in

passato, infatti, quando la società era un insieme di valori e regole ben precise,

oggi l’uomo contemporaneo sembra aver perduto la propria identità individuale

che appare poco definita, fluttuante e «destrutturata» e la sua condizione si mostra

ancora più grave e insopportabile, dal momento che i meccanismi di

116
«ristrutturazione», «perdono la loro forza normativa e semplicemente non ci sono

più» (Ivi, p. 108).

L’uomo, di fatto, ha dovuto pagare un debito piuttosto elevato al suo

vivere civile, in quanto la società contemporanea ha imposto delle restrizioni alla

sua libertà individuale, a quella libertà ancestrale che gli permetteva di dare libero

sfogo agli istinti più nascosti. È da tempo, infatti, che agli esseri umani non è

concesso perseguire tutto quello che desiderano dal profondo nel cuore, e neppure

di farlo nel modo desiderato: gli istinti sono stati tenuti a freno o del tutto

soppressi e ciò non solo ha generato una profonda condizione di infelicità, ma ha

dato inizio ad un intimo disagio psichico, alla diffusione delle nevrosi e a un forte

senso di ribellione.

Tuttavia, poiché i sintomi sono praticamente indistinguibili, non è chiaro

se il senso opprimente di paura derivi dalla scarsa sicurezza, dalla mancanza di

certezza o dalle minacce all’incolumità; si tratta, infatti, di un’ansia generica, da

cui deriva una paura che può essere facilmente attribuita alle cause sbagliate e può

determinare azioni palesemente irrilevanti rispetto alla causa vera. Proprio perché

non é facile individuare le vere ragioni dell’inquietudine e ancor meno tenerle

sotto controllo, quand’anche le si scopra, resta alquanto difficile resistere alla

tentazione di costruire e dare un nome a presunti colpevoli, purché credibili,

contro i quali sia possibile intraprendere un’azione difensiva (o, meglio ancora

offensiva) di grande effetto.

In questa ricerca del capro espiatorio i media hanno avuto (e continuano ad

avere) nella società attuale un ruolo fondamentale; giornali e net – work, infatti,

costantemente sintonizzati a captare ombre e inquietudini del vivere moderno,

117
sono diventati dei veri e propri head – hunter, ovvero cacciatori di teste da

mostrare come trofeo. Il titolo di un famoso film, «Sbatti il mostro in prima

pagina», sembra sintetizzare in uno slogan la filosofia fatta propria dai media i

quali, sostanzialmente, più che tentare di risolvere le insicurezze delle condizioni

di vita, arrecano spesso un danno profondo al quotidiano, moltiplicando con i loro

toni sensazionalistici la paura esistenziale che ci rende ansiosi e preoccupati,

trasformandola in qualcosa di ingovernabile, irreprimibile e paralizzante.

Non è raro, infatti, che una notizia o un caso vengano proposti e affrontati

in modo tale da far sorgere la netta sensazione che sia impossibile contrastare o

sconfiggere ciò che in quel momento minaccia la sicurezza della nostra

condizione sociale o mini la certezza delle nostre prospettive future. Nel caso

Bilancia, ad esempio, anche le figure degli inquirenti, dei «tutori della legge»,

fonte di garanzia di sicurezza e tema ampiamente trattato dai media per l’interesse

che suscitano da sempre nell’immaginario collettivo, si sono trasformate in un

incredibile spettacolo, nella storia, come scrive Bauman nel suo citato Dentro la

globalizzazione, di «nuovi e più avanzati armamenti della polizia, di prigioni

chiuse da serrature e lucchetti di tecnologia avanzata […] di eroici poliziotti e

detective che rischiano la propria vita perché il resto di noi possa dormire in pace»

(Ivi, p. 130) uno spettacolo che, però, continua l’autore, «dirotta l’attenzione del

pubblico sui pericoli dell’attività criminosa e dei criminali, impedendogli invece

di riflettere sulle ragioni per cui si continui a sentirci insicuri, persi e spaventati

come prima, nonostante la mole di attività di polizia…» (Ivi, p. 131).

Ma anche gli inquirenti, così come è avvenuto per i cittadini comuni, sono

stati attirati nella rete della “paura” e della “tensione” e hanno dato vita, nelle

118
pagine dei giornali e nei resoconti spesso concitati dei telecronisti, a storie «di

ordinaria follia» con il loro indagare incessante, senza sosta, contro tutto e contro

tutti, nella ricerca di quello che sembrava essere l’incarnazione stessa del male,

ovvero Donato Bilancia; un uomo sicuramente fuori dalla norma, ma pur sempre

un individuo nato e cresciuto all’interno di una precisa società con i suoi ritmi e le

sue regole spesso devianti. La stessa società che ha permesso ai mezzi di

comunicazione di diventare unici incontrastati interpreti di quanto accade nel

mondo.

Vero è, pure, che nel caso Bilancia, non sempre i toni sono stati concitati,

alcune voci, infatti, si sono levate dal coro di quanti volevano tenere alta la

tensione, non tanto per diritto di cronaca quanto per aumentare la tiratura dei

giornali o per catturare più audience possibile, e hanno opposto alla logica della

paura quella del buon senso, del vivere civile, seguendo un codice deontologico

apparentemente scomparso. Non che la massa dei lettori, naturalmente, sia priva

di qualunque senso critico e del tutto incapace o indifesa nei confronti dell’attacco

frontale dei media, tuttavia non si può negare che oggi più che mai i media

rappresentino un meccanismo in grado di costruire incertezze e di diffondere

insicurezze, come il loro contrario, e in un’ottica futuribile, dominata da mezzi di

comunicazione globali (vedi Internet), è pensabile ipotizzare ad un flusso di

informazioni sempre più libero da vincoli spaziali e temporali, sempre più libero,

in altre parole, di far leva sulle paure ancestrali dell’uomo e di sprigionarne di

nuove.

119
BIBLIOGRAFIA GENERALE

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«Il Secolo XIX», del 15 novembre 1997.

MENDUNI M., Il delitto dell’ascensore, in «Il Secolo XIX», del 30 gennaio 1998.

CALANDRI M., La riviera della morte, in «la Repubblica», del 30 marzo 1998.

PIN F., Uccisa con un colpo alla testa. Torna il killer delle prostitute, in «Il Secolo

XIX», del 5 aprile 1998.

PREVE M., Con due colpi di pistola, In «Il Lavoro», suppl. di «la Repubblica», del

10 aprile 1998.

CALANADRI M., L’ultimo caffè con l’assassino, in «la Repubblica», del 15 aprile

1998.

S. F., Due piste, ma sui delitti è buio pesto, in «Il Corriere Mercantile», del 17

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S. F., Una taglia sul serial killer, in «La Gazzetta del Lunedì», 20 aprile 1998.

S. F., C’è chi ha visto il serial killer. Appello del questore: «Aiutateci», in «La

Gazzetta del Lunedì», 20 aprile 1998.

CALANDRI M. e FUSANI C., Non salite in treno, in «la Repubblica», del 22 aprile

1998.

BOZZANO P., Così cambia il modo di viaggiare, in «Il Lavoro», suppl. di «la

Repubblica», del 23 aprile 1998.

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SANGALLI R., Dietrofront degli investigatori. «Non è una guerra tra bande», in «Il

Secolo XIX», del 23 aprile 1998.

VIANI B., Una pistola, tanti sospetti, in «Il Secolo XIX», del 23 aprile 1998.

DONZELLA C., Solo cinque passeggeri hanno visto Maria Angela in treno, in «Il

Secolo XIX», del 23 aprile 1998.

N. PIRITO, Sui convogli dei pendolari, in «Il Secolo XIX», del 25 aprile 1998.

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MENDUNI M., Indagini fra i metronotte. Qualcosa lega i gialli di Novi e Genova,

in «Il Secolo XIX», del 30 aprile 1998.

DI SALVO M. –MENDUNI M., Due impronte coincidono. Al setaccio il treno di

Ventimiglia, il killer s’è tradito, in «Il Secolo XIX», del 30 aprile 1998.

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SANGALLI R., E adesso Savona rivendica l’inchiesta, in «Il Secolo XIX», del 7

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MENDUNI M. – DI SALVO M., Preso. È la fine dell’incubo, in «Il Secolo XIX», del

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ZINOLA M., Cominciò rubando panettoni, per la madre era un figlio perduto, in

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9 maggio 1998.

130
DONZELLA C., C’è un testimone per l’omicidio, in «Il Secolo XIX», del 9 maggio

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ZINOLA M., Voleva cambiare la Mercedes, in «Il Secolo XIX», del 9 maggio 1998.

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SANGALLO R., Gli indizi lo inchiodano, da «Il Secolo XIX», del 10 maggio 1998.

131

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