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COMMENTO

Nel dì natale del mondo, nel dì anniversario dell’incarnazione e della redenzione milledue duegento con
sessantasei anni (Inf. XXI 113) dopo l’ultimo sospiro dell’uomo Dio che aveva reintegrato la natura umana,
si trovava essere un redento invano: il viaggio di Dante si svolge nel venerdì santo del 1300, giorno
primaverile, stagione in cui si credeva fosse avvenuta la creazione e ma è anche la stagione della
Crocifissione di cristo e quindi stagione di redenzione, a conferma di ciò, Pascoli cita qui le parole di
Malacoda del canto XXI dell’Inferno (113), una delle indicazioni temporali più importanti della Commedia,
che permette di dare una data e un orario esatto al viaggio di Dante. Il redento invano è Gesù che muore
sulla croce per un’umanità che tuttavia ancora al tempo di Dante non riconosce il suo sacrificio ed è persa,
senza una guida né terrena (vacante il terreno imperio per la morte di Federigo) né spirituale (vacante
anche nella presenza di Dio, il loco del vicario di Dio (Par XXVII 23). I due luminari erano spenti tutti e due),
ma è anche Dante stesso che intraprende questo viaggio per purificarsi attraverso il passaggio nell’inferno e
nel Purgatorio, e infatti più avanti si troverà il redento si volge vergognando all’irredento, appunto Virgilio
che essendo nato prima della venuta di Cristo è destinato al limbo e quindi non ha possibilità di redenzione.
Pascoli fa riferimento al vuoto lasciato nell’impero in seguito alla morte di Federico II di Svevia, che avrebbe
dovuto essere l’ultimo imperatore secondo una profezia. Qui Pascoli fa riferimento alla profezia dell’abate
Gioacchino da Fiore, ripresa da Salimbene nella Cronica (in interlinea: Salimbene Cron.) secondo cui
Federico II era l’anticristo dell’Apocalisse. Dunque entrambi i luminari, i due soli dell’interpretazione
dantesca, erano spenti.

Dopo una notte passata saggiando la luna, Dante aveva visto il duce che per ogni via mena deserti, sebbene
invano l’avesse veduto. In Sotto il velame, pascoli si sofferma molto sulla figura della luna, sottolineando
come la notte passata nella selva pien di sonno non faccia riferimento ad una notte vera e propria, ma il
periodo di smarrimento che comincia dopo la morte di Beatrice e dura per una notte di dieci anni, ma il
poeta poi traduce il suo linguaggio figurato in vero, e della notte metaforica fa una notte reale. E questa
notte ha la luna piena. […] Nè fu l’alba del giorno che condusse fuori l’errante. Egli era già fuori della
bassura o, diremo, della profondità della selva, quando si trovò al piè d’un colle, e guardando in alto, vide di
quello le parti alte illuminate dai primi raggi del sole. A uscire dalla profondità della selva gli giovò la luna.
Pascoli riporta poi il significato che la luna ha per Dante, spiegato nel De Monarchia, dove Dante riconosce
nella luna, che una luce di grazia, ancora di piu di quella del sole che invece sovrabbonda. Nella selva,
essendo piena, riflette per diametro il fratello, ricevendo la luce di grazia come in nessun altra fase, e,
infatti, è proprio di grazia che trae fuori Dante dalla selva e lo conduce al piè d’un colle, dove si vedevano i
primi raggi del mattino.

Intanto gli si presenta proprio avanti gli occhi uno che pareva se non muto uno che da lungo tempo non
parla. Saprà poi perché di tale silenzio: a chi aveva da secoli e secoli parlato prima che a lui?: dunque in
riferimento a Virgilio abbraccia l’interpretazione diffusa e condivisa ancora oggi dell’uomo costretto al
silenzio da secoli e che adesso trova la forza per parlare a qualcuno, ma in Sul limitare: La fiocaggine di
Virgilio rappresenta in genere l'oscurità in cui giacevano i belli studi, non coltivati nè pregiati; in ispecie
l'abbandono in cui lasciò Dante lo studio cominciato dopo la morte di Beatrice; abbandono causato
dall'essersi egli messo nella vita attiva, la quale è simboleggiata dal corto andare verso il bel colle.
Quindi attribuisce la fiocaggine di Virgilio non alla mancanza di parola, o all’aver trascorso secoli
nell’oscurità del limbo (quindi fioco perché scolorito o pallido) ma sembra propendere per un
interpretazione allegorica, attribuendola all’abbandono a cui Dante aveva relegato i suoi studi essendosi
impegnato nella vita attiva, negli affari pubblici, e Virgilio, stando ancora all’interpretazione di Pascoli (Sul
limitare, p.494) rappresenta qui lo studio che gli viene in soccorso per portarlo in altro viaggio ossia
facendogli contemplare le pene dei dannati e l’espiazione dei pentiti (ivi).

Alla vista di Virgilio, ante, il cristiano, pronuncia le prime parole della Commedia, quel Miserere che è un
altro riferimento all’Eneide, in particolare all’episodio in cui Enea chiede alla Sibilla di poter entrare
nell’Averno per vedere Anchise e chiede di avere, appunto, pietà di lui e del padre (gnatique patrisque,
alma, precor, miserere). Ne La Mirabile visione, Pascoli crea un legame tra il miserere di Dante nella selva e
la preghiera rivolta ad Amore nella 23esima lirica della Vita Nova, anticipata dalla richiesta fatta a quella che
Dante definisce donna della cortesia, chiamandola misericordia, Pascoli ipotizza che si tratti di lucia, cioè la
stessa che si compiange per lo smarrimento di Dante nella selva.

Pascoli spiega che il linguaggio di Virgilio è un insieme di antico e moderno e infatti cita le occorrenze dei
latinismi nei versi (sub Iulio e Iliòn combusto), nacque sotto cesare anche se troppo tardi perché cesare fu
ucciso quando Virgilio aveva solo 26 anni, e infatti dopo precisa di aver vissuto sotto Augusto, aggiunge qui
un riferimento al capitolo V del quarto trattato del Convivio, in cui Dante ripercorre la storia di Roma e dei
grandi cittadini che ne hanno accresciuto la gloria (e la ottima disposizione de la terra sia quando ella è
monarchia, cioè tutta ad uno principe, ordinato fu per lo divino provedimento quello popolo e quella
cittade che ciò dovea compiere, cioè la gloriosa Roma) infino a Cesare primo prencipe sommo.
Cantò Enea, il giusto e pone tra parentesi una citazione letterale del primo libro dell’Eneide (quo iustior
alter nec pietate fuit nec bello maior et amicis) nello specifico del passo in cui Ilioneo, il più autorevole tra i
profughi troiani al cospetto di Didone, chiede alla dea di soccorrere lui e i suoi compagni che erano stati
guidati da Enea, “di cui non ci fu altro più giusto per virtù, nè superiore in guerra ed in armi”.

Qui Pascoli aggiunge quello che secondo lui è il pensiero di Virgilio, scrive così viene a pensare. Lui pensa:
“l’impero non c’è più, il mio glorioso poema fu vano”.

Dante risponde “O Virgilio mi valga il lungo studio e il grande amore per te e per l’Eneide”, Pascoli non
approfondisce in questa sede, ma ne La Mirabile visione dice di interpretare Virgilio come studium che
conduce Dante al cospetto di Beatrice e, quindi, alla sapienza, (in particolare studio perche conduce a
Matelda, cioè all’arte; amore perché conduce a Beatrice, la sapienza) confermando ciò che aveva scritto
nelle note di Sul limitare. E ancora, nella mirabile visione ribadisce che Virgilio permette a Dante di uscire
dalla vita attiva della piaggia diserta, per iniziare invece una vita contemplativa. Virgilio si mostra a Dante
quando questi ha perduto la speranza dell’altezza.

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